entropia e vita by Oscar Bettelli

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1 Entropia e vita Entropia? Una parola suggestiva, che richiama qualche improbabile ricordo scolastico. È però una parola, un concetto, uno strumento interpretativo che coinvolge e può modificare la nostra immagine del mondo. Farla ignorare è forse un’astuzia del nostro tempo, rivolto solo alla crescita di produzione e consumi, cui è utile non conoscere parole che ci raccontano molto sulla natura del mondo, che ci avvertono che questo sistema economico e la sua cultura, surrettiziamente presentata come unica possibile, portano a un futuro insostenibile per il nostro pianeta e che, quindi, è necessario "un altro mondo". E non è una questione ideologica: la natura ha le sue leggi e il concetto di entropia è necessario per comprendere ed esprimerne una parte fondamentale. Lasciamo a fisici, chimici, biologi, ingegneri e quant’altri l’uso di relazioni formali quantitative (le "formule") per descrivere i fenomeni, per quanto utile ed espressivo sia quel linguaggio. Non dobbiamo parlare di alchimie di laboratorio, ma della nostra automobile, se l’abbiamo, del frigorifero e di ogni altra macchina, ma anche e soprattutto della vita di una cellula o dei nostri gerani o del nostro gatto; e, se non abbiamo gerani o gatti, della vita del nostro corpo, come di quella dei sistemi più ampi in cui viviamo: i campi, i boschi, la città, il pianeta quindi. Anche l’evoluzione dell’universo è un problema entropico, ma limitiamoci qui alla Terra e ai tempi della presenza umana. La parola, derivata dal greco ‘h t r o p h ‘ (trasformazione), è introdotta nel 1865 da Rudolph Clausius, in un testo in cui sintetizza i risultati della allora recente scienza termodinamica in due lapidarie proposizioni: a) nell’universo l’energia si conserva; b) nell’universo l’entropia tende al massimo. Non ingannino la brevità degli assunti: si tratta della brillante conclusione di un percorso iniziato il secolo precedente quando si sono costruite le prime macchine termiche, le macchine che utilizzano fonti di calore per ottenere movimento: dalle pompe per estrarre l’acqua dalle miniere, ai telai per le industrie tessili nel settecento, dalla locomotiva a vapore nei primi decenni ai motori a combustione interna, come quelli delle auto, negli ultimi decenni dell’ottocento. Intorno alla metà di quel secolo numerosi ricercatori contribuirono, partendo da diversi punti di vista, a quella che, insieme alla teoria dell’elettromagnetismo, rappresenta il grande risultato della fisica dell’Ottocento: la termodinamica, uno dei grandi capitoli delle scienze naturali. Non è cosa che riguardi le sole macchine, si è detto, ma anche gli esseri viventi e, per l’uomo, l’organizzazione economica e sociale. Che l’energia si conservi oggi è noto a tutti. Allora dov’è il problema energetico? Potremmo, in un prossimo futuro, trovare nuove tecnologie e recuperare l’energia già utilizzata per un secondo uso, e poi un terzo e un quarto...., restando sempre

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Entropia e vitaEntropia? Una parola suggestiva, che richiama qualche improbabile ricordo scolastico. È però una parola, un concetto, uno strumento interpretativo che coinvolge e può modificare la nostra immagine del mondo. Farla ignorare è forse un’astuzia del nostro tempo, rivolto solo alla crescita di produzione e consumi, cui è utile non conoscere parole che ci raccontano molto sulla natura del mondo, che ci avvertono che questo sistema economico e la sua cultura, surrettiziamente presentata

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Entropia e vita Entropia? Una parola suggestiva, che richiama qualche improbabile ricordo scolastico. È però una parola, un concetto, uno strumento interpretativo che coinvolge e può modificare la nostra immagine del mondo. Farla ignorare è forse un’astuzia del nostro tempo, rivolto solo alla crescita di produzione e consumi, cui è utile non conoscere parole che ci raccontano molto sulla natura del mondo, che ci avvertono che questo sistema economico e la sua cultura, surrettiziamente presentata come unica possibile, portano a un futuro insostenibile per il nostro pianeta e che, quindi, è necessario "un altro mondo". E non è una questione ideologica: la natura ha le sue leggi e il concetto di entropia è necessario per comprendere ed esprimerne una parte fondamentale. Lasciamo a fisici, chimici, biologi, ingegneri e quant’altri l’uso di relazioni formali quantitative (le "formule") per descrivere i fenomeni, per quanto utile ed espressivo sia quel linguaggio. Non dobbiamo parlare di alchimie di laboratorio, ma della nostra automobile, se l’abbiamo, del frigorifero e di ogni altra macchina, ma anche e soprattutto della vita di una cellula o dei nostri gerani o del nostro gatto; e, se non abbiamo gerani o gatti, della vita del nostro corpo, come di quella dei sistemi più ampi in cui viviamo: i campi, i boschi, la città, il pianeta quindi. Anche l’evoluzione dell’universo è un problema entropico, ma limitiamoci qui alla Terra e ai tempi della presenza umana. La parola, derivata dal greco ‘h t r o p h ‘ (trasformazione), è introdotta nel 1865 da Rudolph Clausius, in un testo in cui sintetizza i risultati della allora recente scienza termodinamica in due lapidarie proposizioni: a) nell’universo l’energia si conserva; b) nell’universo l’entropia tende al massimo. Non ingannino la brevità degli assunti: si tratta della brillante conclusione di un percorso iniziato il secolo precedente quando si sono costruite le prime macchine termiche, le macchine che utilizzano fonti di calore per ottenere movimento: dalle pompe per estrarre l’acqua dalle miniere, ai telai per le industrie tessili nel settecento, dalla locomotiva a vapore nei primi decenni ai motori a combustione interna, come quelli delle auto, negli ultimi decenni dell’ottocento. Intorno alla metà di quel secolo numerosi ricercatori contribuirono, partendo da diversi punti di vista, a quella che, insieme alla teoria dell’elettromagnetismo, rappresenta il grande risultato della fisica dell’Ottocento: la termodinamica, uno dei grandi capitoli delle scienze naturali. Non è cosa che riguardi le sole macchine, si è detto, ma anche gli esseri viventi e, per l’uomo, l’organizzazione economica e sociale. Che l’energia si conservi oggi è noto a tutti. Allora dov’è il problema energetico? Potremmo, in un prossimo futuro, trovare nuove tecnologie e recuperare l’energia già utilizzata per un secondo uso, e poi un terzo e un quarto...., restando sempre

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immutata la quantità totale. Una simile fortunata prospettiva, se fosse possibile, potrebbe presentarsi in modo analogo per la materia ipotizzandone il completo recupero e riciclo, eliminando così il problema dello smaltimento dei rifiuti. Ma, ci avverte Clausius, l’entropia aumenta. Cioè l’energia si degrada, aumenta il disordine nell’universo. Cioè.....cerchiamo di capire cosa significa. L’energia utile nelle macchine corrisponde a un movimento ordinato: il pistone si muove con un moto periodico lungo una direzione per ottenere il moto circolare delle ruote intorno a un asse; le molecole dell’aria nel vento fanno girare le pale del mulino se si muovono in un’unica direzione; se il loro moto fosse del tutto casuale non sarebbe possibile ottenere alcun movimento. Anche la vita ha bisogno di movimento e ordine. Non tanto perché il signor Rossi deve andare al lavoro e al supermercato, ma perché il sangue deve muoversi nelle vene, il seme deve raggiungere l’uovo, la foglia deve aprirsi al sole. L’ordine è necessario perché una combinazione casuale di elementi non fa né una cellula, né una farfalla, né la ghiandola pineale del signor Rossi. Del resto tutti sappiamo che il DNA è costituito da una sequenza, il cui significato dipende dalla disposizione di pochi costituenti elementari. Come sappiamo che la funzione clorofilliana, fondamento della vita sulla Terra, è una grande operazione di ordine, distribuita nelle foglie verdi del pianeta, in cui alcuni elementi vengono collocati in sequenze significative per costruire i primi "mattoni" della vita. Ma la natura tende spontaneamente al disordine e l’entropia è proprio una misura del disordine. Se rovesciamo su di un tavolo le tessere di un puzzle, anche precedentemente composto, è molto difficile, che il puzzle risulti casualmente formato, tanto difficile che lo riteniamo impossibile. Se abbiamo due bombole, una contenente gas e una vuota, e le mettiamo in comunicazione, ci aspettiamo, come in realtà avviene dopo breve tempo, che le molecole si distribuiscano spontaneamente in modo uniforme nelle due bombole e riteniamo improbabile, anzi impossibile, che a un certo istante casualmente tutte le molecole si possano trovare "ordinatamente" in una sola bombola. È una questione di probabilità: tra i modi in cui le molecole possono ripartirsi tra le bombole comunicanti, quest’ultimo caso è solo uno fra tutti gli altri, che sono in numero inimmaginabilmente grande (per quanto calcolabile). Il disordine è più probabile dell’ordine, perciò il passaggio da ordine a disordine costituisce la tendenza spontanea di ogni fenomeno. L’entropia è appunto la grandezza scelta per fornire una misura del disordine, anche se in modo non semplice ed immediato. Dire che l’entropia aumenta significa dire muoversi verso stati fisici più probabili e quindi più disordinati e, quindi infine, con una minore quantità di energia utilizzabile. Il passaggio inverso non è impossibile. Ad esempio, le molecole possono essere nuovamente tutte "spinte" in una sola bombola. Però bisogna spendere energia e aumentare l’entropia nell’universo, vicino o lontano. Con l’energia di una combustione realizziamo il movimento ordinato di un pistone, ma alla fine avremo, oltre allo spostamento dell’auto, il movimento casuale delle molecole presenti nelle

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parti riscaldate e nei gas in uscita dalla marmitta. Bruciando cibo gli animali ottengono l’energia per costruire il loro corpo ed esercitare le loro funzioni, ma la produzione di cibo è avvenuta a spese di una quantità di energia maggiore di quella utilizzata e, successivamente, con la morte la materia perde la sua organizzazione. Ma i possibili ordini non sono tutti uguali. C’è l’ordine dei movimenti delle macchine, capaci di imporsi anche ai movimenti dell’operaio Chaplin di "Tempi moderni", a monte della cultura che produce il rigido conato di razionalità delle villette a schiera. Un ordine ripetitivo, funzionale alla produzione per il consumo e non alla conservazione, che non può prevedere novità e cambiamenti, incapace di apprendere dall’interazione con il mondo circostante e quindi di evolvere. Un ordine che fa scrivere al poeta: ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa cortile bianco come cera (…) in un ordine ch’è spento dolore. Ma c’è anche l’ordine che costruisce i sistemi complessi della vita, come abbiamo visto. Questi sono sistemi che sanno riprodursi, il cui destino dipende da quanto sanno apprendere dalle relazioni con il mondo esterno per organizzarsi, modificarsi ed evolvere per mantenere il proprio equilibrio con quel mondo. Tutto ciò è faticoso, è una vittoria ottenuta con il consumo di energia per creare localmente l’ordine necessario (calo di entropia) mentre intorno inevitabilmente aumenta il disordine (aumento di entropia, degrado dell’energia). Mentre nella foglia nascono ordine e vita, in un altro luogo, dove si produce l’energia necessaria, dove al suolo la natura morta si decompone, aumenta il disordine in un bilancio complessivo sempre a suo favore. Una fatica e una vittoria che illuminano l’eccezionalità e la preziosità della vita sul pianeta e sui suoi delicati equilibri, che impone la necessità di assumere una posizione solidale in sua difesa, cioè in nostro favore. Una grande responsabilità questa, da assumere senza rinvii perché i danni non sono rimediabili. La logica del recupero, per quanto talvolta necessaria, non funziona perché il tempo ha una "freccia", si muove in una sola direzione, quella appunto dell’aumento di entropia, senza ritorno. Anche spendendo energia e denaro non si vince l’irreversibilità dei processi naturali, non è come riparare la ruota forata e ripartire. Se si tagliano gli alberi in Amazzonia per fare posto ai pascoli necessari agli hamburger di Mc Donald, non solo di sottrae ossigeno all’atmosfera, ma si rompe anche definitivamente l’equilibrio tra vegetazione e suolo raggiunto in milioni di anni. Il suolo si polverizza nell’aria e si perdono foreste, pascoli e hamburger. Bisogna tagliare ancora, ma fino a quando? Intanto anche le specie estinte non si possono riprodurre, neanche in laboratorio, e il suolo non si ricostituisce più. E là dove l’opera dell’uomo ha raggiunto un equilibrio con la natura, come nelle terrazze a ulivo dei nostri colli, una volta iniziata non può essere

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sospesa: l’abbandono non porterebbe stabili pendii coperti di vegetazione, quali originariamente erano, ma solo degrado e dissesto idrogeologico. Allora attenzione a quello che facciamo. Un mondo diverso è necessario, un mondo a bassa entropia. Non è facile politicamente, non è facile culturalmente. Dopo millenni di uso quasi esclusivo della sola energia umana e animale, negli ultimi due secoli le nuove conoscenze hanno consentito l’utilizzo di quantità di energia enormemente superiori, ampliando in proporzione la produzione agricola e industriale e, di conseguenza, la possibilità di vita dell’uomo. Ma il processo è avvenuto all’interno di una cultura in cui la conoscenza della natura è stata premessa, autorizzazione e strumento della sua conquista, della presa di possesso e utilizzo senza limiti, della impossibile sottomissione delle leggi naturali a presunte leggi umane, in realtà proprie del sistema economico e politico che si è imposto a livello planetario. Una cultura che subito ha saputo riconoscere l’importanza di una prima parte delle scoperte termodinamiche, le potenzialità delle trasformazioni energetiche, ma ha ignorato e ignora, perché così le conviene, l’avvertimento della seconda parte, l’entropia aumenta, pur essendo le due informazioni contestuali e correlate. Un’illusione, quella della crescita energetico-produttiva senza limiti, che ha colpito anche la cultura attenta ai valori del progresso e della giustizia sociale. L’inevitabile aumento di entropia non è la fine del mondo: sulla Terra possiamo vivere in tanti, con una vita dignitosa e potenzialmente felice per tutti. Lasciamo, e non sarà facile, un’economia, una politica, una cultura che guardano solo al PIL, tanto più soddisfatte quante più risorse si sono consumate, senza considerare quante e quali risorse sono disponibili per il futuro, come farebbe nel suo bilancio ogni famiglia di buon senso. Poniamoci l’obiettivo immediato di una riduzione dei consumi, anche attraverso l’uso razionale dell’energia e l’utilizzo del flusso energetico che arriva ogni giorno dal sole. La cultura del proprietario del pianeta appartiene a un passato colonizzatore che si ostina a non finire, sostenuto da potenti interessi economici di pochi, aggiornati nelle forme e spacciati per interessi generali. Se crediamo nella solidarietà con gli uomini di oggi e di domani, se vogliamo stare meglio noi stessi, dobbiamo cercare una cultura rispettosa e amichevole nei confronti della natura: conoscere per migliorare le relazioni, dall’utilizzo possibile delle risorse ai benefici in termini di benessere che la natura ci può dare quando riconosciamo di esserne parte. Alleggeriti, senza alcuna nostalgia, della presunzione di onnipotenza e totale possesso nei confronti del mondo naturale, lasciata l’illusione che il progresso tecnologico consentirà sempre di risolvere tutti i problemi, li sapremo meglio affrontare. In maniera intuitiva, la vita viene definita come la capacità di: * crescere * riprodursi * moltiplicarsi.

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Queste però sono funzioni peculiari ai sistemi viventi, dunque rappresentano ciò che si intende definire: in altre parole, per definire la vita su questa base, sarebbe necessario conoscere in anticipo cos'è la vita. Questa definizione è tautologica. Le definizioni del concetto di vita date dai vari autori sono numerose, e spesso non facilmente intelligibili di fuori dei contesti logici relativamente complessi all'interno dei quali esse sono state formulate. Una via per sfuggire alla tautologia di cui sopra è stata offerta negli anni '20 da Oparin ("una particolare forma di movimento della materia"). Come movimento, Oparin intendeva il movimento molecolare, che è oggetto della termodinamica più che della meccanica (essendo noto che secondo i principi della termodinamica nei sistemi isolati ogni trasformazione spontanea è diretta verso il punto di equilibrio, che corrisponde al punto di massima entropia). Questa non è la condizione dei viventi e pertanto se ne deduce che la vita è una proprietà dei sistemi aperti lontani dall'equilibrio, che funzionano come sistemi (si definisce sistema un insieme di parti interagenti) complessi auto-organizzanti (in essi si ha rottura di simmetria nello spazio e nel tempo e irreversibilità - creano strutture ma non si possono destrutturare, sono stabili soltanto quando non vengano modificate le condizioni che li mantengono nello stato stazionario: in caso di morte, l'organismo non è in grado di assumere ulteriormente energia dall'esterno e la sua organizzazione viene a dissolversi). Si hanno pertanto tre conseguenze. Il sistema vivente: * interagisce con il suo contorno * è inserito in un flusso energetico * dispone di strutture adatte a catturare una porzione dell'energia disponibile. Queste strutture, effetto di un processo di auto-organizzazione del sistema, mediante cicli ricorsivi che, regolati da attrattori, definiscono un cammino evolutivo non ripetibile. Definizioni del concetto di vita: La vita è una particolare forma di movimento della materia, caratterizzata dal fatto che il vivente è in grado di mantenersi lontano dal punto di equilibrio, pur essendo completamente soggetto alle leggi della termodinamica che impongono un continuo aumento dell'entropia interna dei sistemi. Questo risultato viene ottenuto mediante flussi di materia ed energia, regolati da strutture che hanno funzione di organizzazione, prima fra tutte il DNA e le membrane biologiche. I sistemi viventi sono dunque sistemi complessi auto-organizzanti. In quanto tali, vi si possono riconoscere le caratteristiche proprie dei sistemi auto-organizzanti (cicli ricorsivi, attrattori, biforcazioni, frattali ed eventualmente anche la transizione al caos). La seconda legge della termodinamica, una delle leggi basilari della fisica, sostiene che in normali condizioni tutti i sistemi abbandonati a se stessi tendono a divenire disordinati, dispersi e corrotti in relazione diretta al trascorrere del tempo. Ogni cosa vivente e non vivente si consuma, si deteriora, decade, si disintegra ed è

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distrutta. Questa è la sicura fine che tutti gli esseri dovranno affrontare in un modo o nell'altro e, secondo tale legge, questo processo inevitabile non ha ritorno. Tutti lo osservano. Ad esempio, se si abbandona un'automobile nel deserto, difficilmente la si potrà ritrovare in migliori condizioni dopo alcuni anni. Al contrario, si vedrà che i pneumatici si sono sgonfiati, i finestrini sono stati infranti, il telaio si è arrugginito e il motore è decaduto. Lo stesso processo inevitabile è valido ed anche più rapido per gli esseri viventi. La seconda legge della termodinamica rappresenta il mezzo con il quale questo processo naturale viene definito con equazioni fisiche e calcoli. Questa famosa legge è anche nota come "Legge dell'entropia". L'entropia fornisce una misura del grado di disordine in cui si trovano gli elementi che costituiscono il sistema. L'entropia di un sistema è incrementata dal movimento verso uno stato più disordinato, disperso e non pianificato. Più elevato è il disordine di un sistema, più elevata è la sua entropia. Tale legge sostiene che l'intero universo inevitabilmente procede verso uno stato più disordinato, disperso e non pianificato. La validità della seconda legge della termodinamica è stabilita in maniera sperimentale e teoretica. I più importanti scienziati contemporanei concordano sul fatto che questa legge avrà un ruolo centrale nel prossimo periodo della storia. Albert Einstein, il più grande scienziato del nostro tempo, disse che è la "legge più importante di tutta la scienza". In proposito, sir Arthur Eddington ha affermato che è la "suprema legge metafisica di tutto l'universo". La teoria evoluzionista è avanzata nella totale ignoranza di questa basilare e universale legge della fisica. Il meccanismo proposto dall'evoluzione contraddice radicalmente i suoi principi. Gli evoluzionisti sostengono che atomi disordinati, dispersi e inorganici e molecole si siano riuniti spontaneamente nello stesso periodo in un ordine preciso per formare molecole estremamente complesse quali le proteine, il DNA, l'RNA; in seguito, questi avrebbero gradualmente determinato milioni di differenti specie viventi con strutture addirittura più complesse. Inoltre, questo ipotetico processo che produce ad ogni passo strutture più pianificate, più ordinate, più complesse e più organizzate, ha presieduto autonomamente a tale formazione in condizioni naturali. La legge dell'entropia mostra chiaramente che questo processo cosiddetto naturale contraddice interamente le leggi della fisica. Gli scienziati evoluzionisti sono consapevoli di questo fatto. J. H. Rush scrive: Nel complesso corso della sua evoluzione, la vita rivela un notevole contrasto rispetto alla tendenza espressa nella seconda legge della termodinamica. Mentre quest'ultima parla di un irreversibile progresso verso una crescente entropia e disordine, la vita evolve continuamente verso più elevati livelli di ordine. Lo studioso evoluzionista Roger Lewin parla dell'empasse dell'evoluzione di fronte alla termodinamica in un articolo apparso su Science: Un problema che i biologi hanno dovuto affrontare è l'apparente contraddizione rispetto all'evoluzione rappresentata dalla seconda legge della termodinamica. I

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sistemi dovrebbero decadere nel corso del tempo, presentando un minore, non maggiore ordine. Un altro scienziato evoluzionista, George Stravropoulos, parla dell'impossibilità secondo la termodinamica della spontanea formazione della vita e confuta la spiegazione dell'esistenza, per leggi naturali, di complessi meccanismi viventi nella nota rivista evoluzionista American Scientist:

In condizioni ordinarie, nessuna molecola organica complessa potrebbe formarsi spontaneamente, ma piuttosto disintegrarsi, in accordo alla seconda legge. In realtà, maggiore è la complessità, maggiore è l'instabilità e maggiore la sicurezza, presto o tardi, della sua disintegrazione. La fotosintesi e tutti i processi vitali, e la vita stessa, nonostante il linguaggio confuso o confusionario, non possono ancora essere compresi in termini di termodinamica o di ogni altra scienza esatta.

La seconda legge della termodinamica costituisce, quindi, un insormontabile ostacolo per lo scenario dell'evoluzione sia in termini di scienza che di logica. Incapaci di offrire una consistente spiegazione scientifica che permetta di superare l'ostacolo, gli evoluzionisti possono solo vincere grazie all'immaginazione. Ad esempio, il famoso evoluzionista Jeremy Rifkin parla della sua speranza che l'evoluzione possa sopraffare questa legge della fisica grazie a un "potere magico":

La legge dell'entropia sostiene che l'evoluzione disperde l'energia disponibile complessiva per la vita su questo pianeta. Il nostro concetto di evoluzione è esattamente l'opposto. Crediamo che l'evoluzione crei sulla terra, con qualche meccanismo magico, un valore complessivo maggiore e un maggior ordine.

Queste parole rivelano con grande chiarezza che l'evoluzione è soltanto una fede dogmatica.

Minacciati da tutte queste verità, gli evoluzionisti hanno dovuto cercare rifugio nella distruzione della seconda legge della termodinamica, affermando che sia valida soltanto per i "sistemi chiusi", in quanto i "sistemi aperti" esulano dall'ambito di questa legge.

Un "sistema aperto" è un sistema termodinamico nel quale energia e materia circolano all'interno e all'esterno, a differenza del sistema chiuso in cui l'energia e la materia iniziali rimangono costanti. Gli evoluzionisti sostengono che il mondo è un sistema aperto, costantemente esposto al flusso di energia solare e che, quindi, la legge dell'entropia non si applica al cosmo nel suo insieme. Asseriscono inoltre che esseri viventi complessi e ordinati possono essere generati da strutture semplici, disordinate e inanimate.

Ci troviamo di fronte a un'ovvia distorsione. Il fatto che un sistema riceva un afflusso di energia non è sufficiente a renderlo ordinato. Sono necessari meccanismi specifici affinché l'energia diventi funzionale. Ad esempio,

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un'automobile ha bisogno di un motore, di un sistema di trasmissione e di meccanismi di controllo correlati per convertire l'energia della benzina in lavoro. Senza tale sistema di conversione, l'automobile non sarebbe in grado di utilizzare l'energia della benzina.

La stessa cosa capita nella vita. È vero che la vita deriva la sua energia dal sole. L'energia solare, tuttavia, può essere convertita in energia chimica soltanto da sistemi di conversione energetica incredibilmente complessi presenti nelle cose viventi (come la fotosintesi delle piante e i sistemi digestivi di umani e animali). Nessun essere vivente può vivere senza un tale sistema; privo di questo, il sole non è altro che una fonte di energia distruttiva che brucia, inaridisce o fonde.

Come si può vedere, un sistema termodinamico che non presenti tali meccanismi di conversione non è vantaggioso per l'evoluzione, che sia aperto o chiuso. Nessuno asserisce che questi meccanismi complessi e consapevoli possano essere esistiti in natura nelle primigenie condizioni della terra. In realtà, la vera questione a cui devono rispondere gli evoluzionisti è come possano essere pervenuti autonomamente all'esistenza complessi meccanismi di conversione dell'energia quali la fotosintesi, che non possono essere duplicati neppure servendosi delle moderne tecnologie.

L'influsso dell'energia solare sul mondo non ha effetti tali da imporre di per se stessa un ordine. Indipendentemente dal grado elevato di temperatura che possa essere raggiunto, gli amminoacidi resistono formando legami in sequenze ordinate. La sola energia non è sufficiente a spingere gli amminoacidi a formare le molto più complesse molecole proteiche o queste ultime a costituire le ben più composite e organizzate strutture di organelli cellulari. La fonte reale ed essenziale di questa organizzazione, ad ogni livello, è un progetto consapevole: in una parola, la creazione.

Ben sapendo che la seconda legge della termodinamica rende impossibile l'evoluzione, alcuni scienziati evoluzionisti, per avallare la loro teoria, hanno fatto alcuni tentativi speculativi per superare la distanza che separa le due concezioni. Come al solito, anche questi sforzi mostrano come la teoria dell'evoluzione si trovi di fronte a un ineludibile vicolo cieco.

Uno scienziato che si è distinto per i suoi tentativi di coniugare la termodinamica e l'evoluzione è il belga Ilya Prigogine. Partendo dalla teoria del caos, questi ha proposto alcune ipotesi secondo cui l'ordine si forma dal caos. Ha affermato che alcuni sistemi aperti possono descrivere un decremento nell'entropia dovuto ad un influsso di energia esterna e che il conseguente "riordinamento" è una prova che "la materia può organizzare se stessa". Da quel momento, il concetto di "auto-organizzazione della materia" è divenuto abbastanza popolare tra gli evoluzionisti e i materialisti. Si comportano come se avessero trovato un'origine materialistica

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per la complessità della vita e una soluzione materialistica al problema della sua origine.

A uno sguardo più acuto, tuttavia, questo argomento si rivela del tutto astratto e, in pratica, un mero wishful thinking. Nasconde, inoltre, un inganno molto semplice, ovvero, la deliberata confusione di due distinti concetti, "auto-organizzazione" e "auto-ordinamento".

Ciò può essere chiarito con un esempio. Si immagini una spiaggia con differenti tipi di pietre di varie dimensioni mischiate tra loro. Quando un'onda forte si abbatterà sulla spiaggia, potrà apparire un "ordinamento" tra le pietre. L'acqua potrà sollevare quelle di peso simile in pari quantità. Quando l'onda si sarà ritirata, le pietre potranno forse essere state ordinate secondo l'ordine di grandezza, dalle più piccole alle più grandi, in direzione del mare.

Questo è un processo di "auto-ordinamento": la spiaggia è un sistema aperto e un influsso di energia (l'onda) può esserne la causa. Ma si noti anche che lo stesso processo non può erigere un castello di sabbia. Se guardiamo un castello fatto di sabbia, siamo sicuri che qualcuno lo ha costruito. La differenza tra quest'ultimo e le pietre "ordinate" è che il primo rappresenta una complessità veramente unica, mentre il secondo include solo un ordine ripetitivo. È come una macchina da scrivere che continui a battere il carattere "aaaaaaaaaaaaa" per centinaia di volte in quanto un oggetto (un influsso di energia) è caduto sulla tastiera. Naturalmente, un tale ordine ripetitivo di "a" non include alcuna informazione e quindi nessuna complessità. È necessaria una mente cosciente per ottenere una sequenza di lettere che includa informazioni.

La stessa cosa avviene quando il vento penetra in una stanza piena di polvere. Prima di questo influsso, la polvere è sparsa intorno. Allorquando il vento entra, questa si raccoglie agli angoli della stanza. Ciò è un "auto-ordinamento". Ma la polvere non si "auto-organizza" mai autonomamente in modo da creare l'immagine di un uomo sul pavimento.

Questi esempi sono molto simili agli scenari di "auto-organizzazione" degli evoluzionisti. Questi affermano, infatti, che la materia ha una tendenza ad "auto-organizzarsi", quindi mostrano esempi di auto-ordinamento tentando di confondere i due concetti. Lo steso Prigogine ha parlato di molecole che si auto-ordinano durante l'influsso di energia. Gli scienziati americani Thaxton, Bradley e Olsen, in un libro dal titolo "The Mistery of Life's Origin", hanno spiegato questo fatto:

...in ogni situazione i movimenti casuali delle molecole in un fluido sono spontaneamente sostituiti da un comportamento altamente ordinato.

Prigogine, Eigen e altri hanno suggerito che tale sorta di auto-organizzazione sia intrinseca nella chimica organica e possa potenzialmente spiegare le

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macromolecole altamente complesse essenziali ai sistemi viventi. Ma simili analogie hanno scarsa rilevanza per la questione dell'origine della vita. Per di più, non distinguono tra ordine e complessità... La regolarità o l'ordine non possono servire a immagazzinare l'enorme quantità di informazioni richieste dai sistemi viventi. È richiesta una struttura irregolare, ma specifica piuttosto che una ordinata. Ciò rappresenta un grave errore nell'analogia offerta. Non vi è connessione apparente tra il tipo di ordinamento spontaneo che deriva dal flusso di energia attraverso tali sistemi e l'opera richiesta per costruire macromolecole ad intensa informazione aperiodica, quali il DNA e le proteine.

In realtà, Prigogine stesso dovette accettare che questi argomenti non avevano rilevanza per spiegare l'origine della vita. Ha detto:

Il problema dell'ordine biologico implica la transizione dall'attività molecolare all'ordine supermolecolare della cellula. Questo problema è ben lontano da una soluzione.

Perché, allora, gli evoluzionisti continuano ad accettare punti di vista anti-scientifici quali "l'auto-organizzazione della materia"? Perché insistono a rifiutare la manifesta intelligenza visibile nei sistemi viventi? La risposta è la loro fede dogmatica nel materialismo e la credenza che la materia abbia un misterioso potere di creare la vita. Un professore di chimica presso l'Università di New York ed esperto in DNA, Robert Shapiro, descrive la fede degli evoluzionisti e il dogma materialistico che ne costituisce il fondamento:

Un altro principio evolutivo è quindi necessario per permetterci di superare la distanza tra le miscele di semplici prodotti chimici naturali e il primo effettivo replicatore. Questo principio non è stato ancora dettagliatamente descritto o dimostrato, ma è stato anticipato ed ha ricevuto dei nomi, quali evoluzione chimica e auto-organizzazione della materia. L'esistenza del principio è tenuta per certa nella filosofia del materialismo dialettico, come dimostra la sua applicazione alle origini della vita da parte di Alexander Oparin.

Un televisore è un oggetto altamente organizzato ma non si può dire che sia vivo. L'organizzazione non è una caratteristica sufficiente per la vita. Una sola cellula vivente è un organismo incredibilmente complesso ed altamente organizzato. Esiste il problema dell'origine e il problema del mantenimento e sviluppo della vita. Che tutto sia dovuto al cieco caso è difficile crederlo ma i meccanismi darwiniani funzionano solo dopo che i processi di riproduzione sono presenti e consolidati. La cosa stupefacente è che la vita abbia la meglio nella lotta per la sopravvivenza contro la legge dell'entropia crescente nell'universo.

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La cellula è un’organizzazione che gode di una sua autonomia, anche quelle cellule che fanno parte di un organismo pluricellulare posseggono una propria autonomia. Le funzioni dei viventi vanno distinte in funzioni vegetative e funzioni della vita di relazione. Le prime comprendono le attività metaboliche che culminano nella biosintesi delle macromolecole costituenti gli organuli e la divisione o riproduzione cellulare. La reattività agli stimoli interni e ambientali e la motilità del corpo, sono le manifestazioni della vita di relazione. Il metabolismo consiste in tutte quelle trasformazioni chimiche di sostanze che avvengono negli organismi viventi o con liberazione di energia (catabolismo) o con accumulo nei processi di sintesi (anabolismo). Gli alimenti sono la fonte materiale ed energetica per la vita dei viventi, negli alimenti, infatti, l’energia è contenuta allo stato potenziale quale energia di legame chimico. La fonte primaria di energia è il sole, con la luce solare le piante producono nuova sostanza organica attraverso la fotosintesi e l’energia solare si converte in energia dei legami chimici. Le molecole così sintetizzate vengono usate sia dalle piante stesse, dagli animali e dagli altri organismi non fotosintetici per alimentarsi e ottenere energia mediante la respirazione cellulare. Abbiamo detto che gli organismi viventi necessitano di energia chimica che è contenuta nelle sostanze nutritive assorbite, l’energia può essere utilizzata o accumulata attraverso la trasformazione di queste sostanze nel corso di reazioni chimiche. Le reazioni trasformano i legami fra gli atomi costituenti le molecole dei reagenti e quelle dei prodotti finali. Le variazioni dei legami avvenute nelle reazioni chimiche corrispondono a variazioni di energia e seguono le leggi della termodinamica. Queste leggi permettono di stabilire le differenze di energia che esistono fra reagenti e prodotti e quali siano le reazioni possibili. La prima legge della termodinamica afferma che nell’universo non si crea materia né si distrugge, ma avvengono solo delle trasformazioni da una forma di energia all’altra. I viventi trasformano l’energia chimica dei legami in altre forme di energia utilizzabili. Una pianta assorbe l’energia solare la trasforma in amido con la fotosintesi, noi possiamo alimentarci con l’amido ed estrarne l’energia chimica grazie alla respirazione cellulare per convertirla in altre forme o in energia meccanica. Durante queste trasformazioni una porzione dell’energia si perde nell’ambiente come calore (energia termica) come è appunto detto dalla seconda legge della termodinamica: in ogni trasformazione di energia una parte di questa va dispersa in calore non utilizzabile per compiere lavoro. Il corpo umano genera calore che deriva dalle trasformazioni di energia che avvengono nelle cellule. In un essere vivente avvengono migliaia di reazioni chimiche in un istante e la quantità di calore prodotto è comunque molto bassa, questo perché gran parte dell’energia prodotta nelle reazioni viene immediatamente utilizzata in altri processi riducendo la percentuale così la quantità di calore non utilizzabile. L’efficienza dei viventi nell’utilizzo dell’energia e della materia è molto superiore a quella delle macchine costruite dall’uomo. La seconda legge può enunciarsi anche : tutti i processi chimici e fisici avvengono in modo da aumentare l’entropia. L’entropia è la misura

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del disordine o della disposizione casuale. Più grande è il disordine più grande è l’entropia. Si è detto che in ogni trasformazione di energia vi è quasi sempre una perdita sotto forma di dispersione di calore nell’ambiente la sua dispersione comporta un aumento dell’entropia, i viventi essendo altamente organizzati hanno un’entropia molto bassa, ma questo stato viene mantenuto mediante un aumento dell’entropia nell’ambiente. I viventi possono essere autotrofi o eterotrofi, a secondo di come usano l’energia per vivere. Gli autotrofi ricavano da soli dall’ambiente la materia inorganica e l’energia necessaria occorrente per la sintesi delle sostanze organiche. Gli autotrofi fotosintetici usano la luce come fonte di energia per trasformare l’acqua e l’anidride carbonica in zuccheri (fotosintesi). Gli autotrofi chemiosintetici (batteri nitrificanti, ferrobatteri e solfobatteri) utilizzano reazioni chimiche per estrarre energia da sostanze inorganiche presenti nell’ambiente. Gli Eterotrofi devono nutrirsi per vivere. Tutti gli animali più evoluti e la maggior parte dei microrganismi sono eterotrofi, questi organismi usano l’energia accumulata nelle cellule degli autotrofi per vivere. Per vivere, dunque è necessario un continuo apporto di energia per consentire le reazioni che avvengono nelle cellule. Durante questi passaggi l’energia si trasforma e i prodotti di una reazione possono contenere più o meno energia di quella contenuta nei reagenti. Tutte le reazioni chimiche che avvengono nei viventi sono finalizzate per mantenere in vita l’organismo e sono collegate fra loro per permettere alle cellule di assimilare e trasformare le molecole di cui abbisognano . Questa attività, chiamata metabolismo, comprende quattro funzioni specifiche: 1) estrazione dell’energia chimica dalla luce o da sostanze organiche (fotosintesi e respirazione); 2) trasformazione delle sostanze nutritive più complesse in composti semplici (zuccheri); 3) unione di sostanze semplici per assemblare molecole biologiche (proteine, acidi nucleici); 4) formazione e demolizione delle biomolecole necessarie. La maggior parte delle reazioni metaboliche sono reversibili, cioè i prodotti possono ritrasformarsi in reagenti fino a raggiungere un equilibrio detto dinamico nel quale la reazione diretta e l’inversa hanno la stessa velocità. Le reazioni chimiche che avvengono nel metabolismo possono accumulare energia, e sono dette endoergoniche, oppure liberano energia e sono dette esoergoniche. Le endoergoniche prendono l’energia dall’esterno e la trasformano in energia chimica che si accumula e viene conservata nei legami di una molecola complessa, a svolgere queste reazioni sono gli organismi autotrofi formando molecole ricche di energia. In una reazione endoergonica il prodotto contiene più energia dei reagenti quindi per avvenire richiedono un apporto di energia. Le reazioni esoergoniche

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liberano l’energia accumulata nei legami dei composti chimici, avvengono sia negli autotrofi che negli eterotrofi. Quando si rompono legami di molecole energetiche si formano prodotti più semplici che contengono meno energia, le reazioni esoergoniche procedono spontaneamente senza apporto di energia. Queste reazioni, però, non restituiscono tutta l’energia che le endoergoniche accumulano, poiché una parte dell’energia si disperde, come abbiamo visto, in calore. L’ATP è la principale fonte di energia per le reazioni metaboliche, è un nucleotide formato dall’unione di una molecola di ribosio (zucchero a 5 atomi di C) una di adenina e un gruppo trifosfato composto da tre fosfati legati fra loro da legami a alta energia. L’ATP è un importante trasportatore di energia, trasferisce direttamente o indirettamente energia a tutte le vie metaboliche. L’ATP svolge questa funzione perché è altamente instabile e perde facilmente l’ultimo dei gruppi fosforici (7,3Kcal/mole – 31 KJ/mole). Le cellule contengono quasi un miliardo di molecole di ATP, anche quando l’organismo è a riposo le sue cellule consumano ATP per i normali processi metabolici, scompare per idrolisi l’ATP e compare l’ADP e un gruppo fosforico, che può essere ceduto a una molecola accrescendone il contenuto energetico. Tale processo di addizione di un gruppo fosforico è detto fosforilazione. La produzione di ATP è favorita da catene di trasporto di elettroni dove sono coinvolti enzimi, cofattori e citocromi. Gli elettroni vengono incorporati in particolari molecole che li trasportano lungo una catena di trasporto e poi ceduti e utilizzati secondo il seguente schema: una molecola cede elettroni e quindi si ossida, mentre quella che è a lei successiva si riduce accettando gli elettroni. Questi passaggi sono reazioni di ossidoriduzioni. Le molecole coinvolte nei trasporti sono i citocromi molecole che hanno un gruppo eme contenente ferro che è in grado di accettare e cedere elettroni. Durante il passaggio da un citocromo all’altro l’energia contenuta negli elettroni viene in parte perduta e in parte utilizzata. La catena di trasporto può essere paragonata a una scala con gradini di altezza diversa, gli elettroni rotolano giù da questa scala. Quelli in cima alla scala hanno il massimo di energia e scendendo un gradino alla volta liberano a ogni salto una parte di energia che è tanto maggiore quanto maggiore è il dislivello tra un gradino e il successivo. L’energia liberata viene in parte recuperata e in parte conservata sotto forma di ATP per compiere lavoro o fare avvenire le reazioni metaboliche. La costruzione e la demolizione delle diverse sostanze all’interno di una cellula richiede un controllo delle reazioni che fanno avvenire questi processi, tali processi seguono precise sequenze, catalizzate da precisi enzimi, dette vie metaboliche. Le reazioni di queste vie procedono lungo percorsi obbligati ed hanno degli intermedi di reazioni comuni, cioè i prodotti di una reazione servono da reagenti per un'altra reazione e così di seguito. Secondo il tipo di sostanza considerata possiamo distinguere il metabolismo degli zuccheri, dei lipidi e delle proteine. Il metabolismo di una cellula consiste in migliaia di reazioni che avvengono contemporaneamente in diversi organuli specializzati in diversi compiti.

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Naturalmente tali reazioni sono coordinate fra loro si possono suddividere in due principali categorie: le vie metaboliche di demolizione e quelle di biosintesi delle molecole e dei componenti cellulari. Nelle vie di demolizione (glicolisi e respirazione) sono demoliti proteine, carboidrati e lipidi che portano a molecole a minore contenuto energetico. L’energia liberata è immagazzinata e il resto si perde sotto forma di calore. Il metabolismo della biosintesi comporta la costruzione di molecole complesse e quindi l’utilizzo di energia liberata durante i processi di demolizione. Le reazioni dei processi metabolici possono essere lineari o cicliche. Le reazioni metaboliche di trasformazione dell'energia sono dunque molto complesse e il tutto avviene senza trasgredire alla seconda legge della termodinamica. Ma oltre all'energia un essere vivente presenta anche un altro aspetto non facilmente quantificabile: la forma. Dove viene memorizzata la forma di un organismo biologico? Non a caso è stato ipotizzato un campo morfico che presiederebbe alla formazione degli organismi viventi. Le prestazioni degli organismi viventi che ci paiono tanto ovvie essendo noi abituati ad osservarle abitualmente sono ad una analisi più attenta veramente sbalorditive. L'efficienza e la precisione dei meccanismi biologici ha dell'incredibile. Il semplice movimento di una mano che afferra un oggetto in movimento è agli occhi dell'ingegneria cibernetica un processo incredibilmente sofisticato. La vita è un fenomeno altamente organizzato che esiste in sistemi termodinamicamente aperti e assorbe energia dall'ambiente circostante cedendo entropia. Essa rappresenta un fenomeno di auto-organizzazione, opposto al destino dei sistemi termodinamicamente chiusi i quali evolvono in maniera irreversibile verso uno stato di massima entropia, cioè verso uno stato completamente caotico. La vita è possibile attraverso il controllo del caos. C'era una volta, in un tempo molto lontano, il Caos. Poi vennero l'aritmetica di Pitagora e la geometria di Euclide, e vennero la fisica di Galilei e quella di Newton. Dopo vennero le geometrie non euclidee, la relatività e i quanti. Passato ancora del tempo, ritornò il Caos. Fin dall'inizio della sua apparizione sulla terra l'uomo ha dovuto costruire un linguaggio per raccontare la Natura, conoscerla e potersi misurare con essa. E per prima cosa, come adatto allo scopo, ha inventato il linguaggio dei miti. Quali erano le forme della natura e come si potevano descrivere? A ciò diedero una risposta l'artmetica di Pitagora e la geometria di Euclide. Facendo un salto in avanti, è con questi occhi, fondamentalmente, che Galileo affermava che si poteva leggere il gran libro della Natura. Attraverso il linguaggio della matematica si potevano formulare le leggi della Fisica.

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Successivamente la meccanica Newtoniana aveva avuto bisogno di manipolare l'infinitamente piccolo e da lì era nato il calcolo infinitesimale, con il suo concetto fondante di limite. Nel frattempo cominciava a svilupparsi la logica dell'incerto attraverso l'introduzione del concetto di probabilità. L'aleatorio tornava alla ribalta. Nello stesso tempo la geometria euclidea perdeva il suo primato poiché vennero elaborate delle geometrie non euclidee. Veniva più tardi intrapreso lo studio dei sistemi dinamici, cioè sistemi che evolvono rispetti ad alcuni parametri, sistemi che mostrano una particolare sensibilità rispetto alle condizioni iniziali. Un piccolo mutamento nelle condizioni iniziali, in certi sistemi, conduce all'imprevedibilità del futuro del sistema. Una causa molto piccola, che ci sfugge, determina un effetto considerevole, e allora diciamo che tale effetto è dovuto al caso. Il relativismo galileiano veniva completato dall'opera di Einstein, e la teoria dei quanti forniva una diversa visione dei modelli fisici elaborati fino ad allora intorno all'energia elettromagnetica, trasformando nuovamente ciò che era visto come una grandezza continua in una grandezza discontinua. Il Caso entrava prepotentemente nella meccanica quantistica e veniva introdotta l'entropia come misura della quantità di caso presente in un sistema. E a fondamento della termodinamica era posto il principio dell'entropia, per cui in ogni processo l'entropia rimane costante o aumenta, e se aumenta il processo è irreversibile. Il Caos cacciato dalla porta rientrava prepotentemente dalla finestra. La maggior parte dei processi naturali mostra un aspetto caotico. Con la meccanica quantistica l'osservatore torna al centro della scena e non può essere più separato dalle misurazioni sperimentali. L'interpretazione della meccanica quantistica in termini classici presenta alcuni paradossi. Per esempio essa implica che un fenomeno cambia aspetto a seconda del punto di vista dal quale viene osservato. Se predispongo un apparato di misura per osservare delle onde osserverò delle onde se, nello stesso fenomeno, predispongo l'apparato di misura per osservare particelle il risultato sarà una misura di particelle. Il fotone o l'elettrone sotto osservazione è contemporaneamente un'onda e una particella. Che cos’è la vita? Questa è una domanda a cui molti hanno cercato di dare una risposta in diversi modi e punti di vista, da quello religioso, filosofico e scientifico ma spesso non si è riusciti a definire cosa veramente sia la vita. A questo interrogativo tenta di dare una risposta il premio nobel per la fisica Erwin Schrodinger, dando una interpretazione della vita sia fisica che filosofica in un libro che suscitò molte discussioni in ambito accademico, ma che contribuì alla scoperta, circa dieci anni dopo, della struttura del DNA; tale libro si intitola "Che cos’è la vita? "Innanzitutto Schrodinger cercò di applicare i concetti della fisica quantistica allo studio delle molecole di interesse genetico. Come sappiamo le

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leggi della fisica sono leggi di tipo statistico estremamente ordinate e rigorose che, però, sono sempre state applicate ai fenomeni inorganici macroscopici. Infatti i fenomeni inorganici e macroscopici sono composti di un enorme numero di atomi animati dai moti di agitazione termica dovuti alla temperatura: tali moti sono completamente disordinati. Invece se prendiamo in esame un fenomeno microscopico contenente un numero di atomi relativamente piccolo non è possibile applicare le leggi statistiche della fisica in quanto la quantità degli atomi è troppo piccola e disordinata e di conseguenza le leggi statistiche inesatte. Ma se consideriamo un evento macroscopico contenente un enorme quantità di atomi, allora le leggi statistiche sono più attendibili. Per chiarire meglio questo concetto vorrei fare un esempio prendendo in esame il moto browiano e di diffusione: se consideriamo la nebbia che cade, osserveremo che essa cade con regolarità e omogeneità e ciò perché è composto da un elevato numero di molecole e di atomi. Ma se osserviamo una singola gocciolina che si sposta indipendentemente dalle altre vedremo che essa seguirà un moto irregolare e disordinato dovuto all’urto delle altre molecole. In conclusione posso dire che le leggi della fisica statistica per le loro proprietà e caratteristiche non sono applicabili a fenomeni microscopici con un numero relativamente piccolo di atomi e molecole come accade all’interno del nostro organismo. Infatti è dal punto di vista statistico che la struttura di un organismo differisce da un pezzo di materia inorganica analizzata dai fisici e chimici in laboratorio, in quanto è diversa per la sua disposizione molecolare e atomica. Schrodinger definisce la parte di una cellula vivente, la fibra cromosomica, come un cristallo aperiodico, mentre la fisica statistica fino ad allora si era occupata di cristalli periodici inorganici. Per questo motivo Schrodinger utilizza i principi della fisica quantistica per lo studio della cellula. La vita di un organismo ha un graduale sviluppo irreversibile che parte dalla nascita fino alla morte. Ma come avviene tutto questo? Il "progetto" dello sviluppo di un organismo è già scritto ancor prima che questo nasca. Ciò è determinato dalla struttura di un unica cellula, l’uovo fecondato e dal suo nucleo. Il nucleo appare durante le divisioni cellulari (mitosi e meiosi) costituito da particelle a forma di bastoncelli chiamati cromosomi e sono loro a contenere il codice cifrato, il "progetto" del futuro sviluppo dell’individuo. Da che cosa ha origine l’uovo fecondato con tutto il suo codice ereditario nel quale è scritto, ancor prima che nasca, l’intero disegno dell’evoluzione dell’individuo? Tutto ciò è determinato da un processo molto complesso ma soprattutto armonico e molto ordinato che io definirei praticamente perfetto. Purtroppo la maggior parte delle persone vive questo evento molto superficialmente giudicandolo come un normale processo naturale. Ma se analizziamo il fenomeno più in profondità e osserviamo con la massima attenzione questo procedimento nei suoi piccoli dettagli non lo giudicheremmo tale, ma secondo il mio punto di vista, come un fatto meraviglioso senza precedenti. Tutto è collegato stupendamente, ogni "pezzo" ha sua determinata funzione, che poi, è in relazione con altri fenomeni, formando una vera e propria "catena di montaggio"

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che ha come prodotto finale l’organismo vivente. Ora cercherò di descrivere il procedimento di questa macchina perfetta. L’evento essenziale nella riproduzione non è la fecondazione, come spesso si pensa, cioè l’unione del gamete maschile con quello femminile, ma è la meiosi. Un gruppo di cellule viene riservato alla riproduzione dei gameti( spermatozoi e ovuli)necessari per la riproduzione. Nella meiosi, appunto, la doppia serie di cromosomi della cellula madre si separa in due serie semplici e ciascuna va a una delle due cellule figlie chiamate gameti. Le cellule con una serie cromosomica sono dette aploidi, mentre quelle con una doppia serie sono dette diploidi. Nell’atto della fecondazione il gamete maschile e quello femminile si uniscono generando la nuova cellula madre( diploide)con due serie cromosomiche, una proveniente dal padre e una dalla madre. Né il caso, né il destino possono avere influenza su questo processo. Invece il caso svolge un ruolo importantissimo nel mescolare i caratteri ereditari. Infatti i cromosomi non vengono trasmessi indivisi, ma durante la meiosi entrano in contatto tra loro scambiandosi delle porzioni; questo procedimento viene scientificamente chiamato scambio o crossing-over e se non esistesse tale procedimento i caratteri passerebbero sempre indivisi. Il portatore del carattere ereditario è il gene. Anche se possiamo considerare questa una macchina perfetta, all’interno del patrimonio ereditario si verificano dei cambiamenti spiegabili con una qualche alterazione nella sostanza ereditaria. Essa è causata da un cambiamento in una regione del cromosoma (locus) e per questo motivo le due copie del codice non sono più identiche. La configurazione dell’individuo seguirà una o l’altra versione. La versione del codice è chiamato "allele" e quello che si manifesta è detto dominante mentre l’altro è detto recessivo. Quando nell’individuo i due alleli sono diversi il soggetto è eterozigote, invece quando sono uguali è detto omozigote. L’allele dominante si manifesta comunque, sia che l’individuo sia eterozigote che omozigote, al contrario l’allele recessivo si manifesta solo se l’individuo è omozigote. Darwin considerava questi cambiamenti all’interno del carattere ereditario come piccole continue variazioni accidentali su cui, poi lavorava la selezione naturale. Questa teoria è stata riconosciuta valida dalla maggior parte degli scienziati, anche se qualcuno ha ritenuto opportuno apportarle alcune modifiche. De Vries, ad esempio, affermò che queste variazioni non sono continue ma bensì discontinue e chiamò questi cambiamenti con il nome di mutazioni, in quanto hanno, appunto, la loro caratteristica nella discontinuità. Per semplificare questo concetto posso affermare che le mutazioni avvengono in modo accidentale, ma con una notevole discontinuità e rarità, dovuto al fatto che un gene possiede un’elevata stabilita e che poi si trasmettono ereditariamente come un qualunque altro carattere. Comunque queste mutazioni non sono da considerarsi nocive. Possiamo dire, infatti, che esse sono state determinanti per lo sviluppo della specie poiché hanno permesso alla specie un cambiamento nella loro configurazione e quindi di adattarsi al meglio alle condizioni dell’ambiente in cui vivevano. Ma alcune volte però queste mutazioni non si sono rivelate favorevoli per cui la

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selezione naturale ha provocato la loro scomparsa; come Darwin ha dimostrato a suo tempo. Ho accennato prima che le mutazioni sono eventi rari e discontinui rivelandosi una condizione importantissima per lo sviluppo della specie, poiché se fossero dei casi frequenti quelle nocive prevarrebbero su quelle favorevoli con la conseguente estinzione della specie. Questo fatto dipende da una cosa che secondo Schrodinger è di fondamentale importanza, cioè la stabilità e la permanenza di un gene. Tale proprietà, oltre a spiegarci la rarità delle mutazioni, ci permette di capire come i caratteri riescano a conservarsi per intere generazioni e a trasmettersi per via ereditaria da individuo a individuo anche per migliaia di anni. Schrodinger cerca di spiegare tale stabilità attraverso le leggi della fisica quantistica e non di quella statistica. Infatti dal punto di vista della fisica statistica è impossibile ricondurre al fatto che un gene, raccogliendo un numero piccolissimo di atomi, riesca a svolgere un’attività retta da leggi ordinate e definite come un corpo macroscopico contenente un’enorme quantità di atomi. Inoltre il gene possiede nello stesso momento un’elevata stabilità nonostante si trovi ad una temperatura di circa 37° C all’interno del corpo, i suoi atomi non siano alterati in alcun modo dalla tendenza disordinatrice del moto di agitazione termica. Il gene è identificato come una molecola che può passare da una configurazione all’altra ed è paragonata, da Schrodinger, ad un cristallo aperiodico. Mentre il cristallo periodico è un aggregato di molecole tutte uguali ripetute infinite volte e a cui vengono applicate le rigorose leggi della fisica statistica, il cristallo aperiodico è un aggregato esteso di molecole tutte diverse nel quale ogni atomo ed ogni gruppo di atomi ha una sua precisa funzione come, appunto, avviene in una molecola organica come il gene. e tradizionali leggi della fisica non sono aderenti a questo tipo di cristallo, per cui Schrodinger utilizza la teoria dei quanti ideata da Max Plank nel 1900. La teoria dei quanti è molto complicata per essere spiegata con termini puramente fisici, ma cercherò comunque di esporla nel modo più semplice possibile. Posso dire che la teoria dei quanti consiste nello scoprire, all’interno della natura, dei caratteri di discontinuità in un contesto nel quale qualunque cosa diversa dalla continuità sembra assurda. Il caso più importante è quello dell’energia: mentre un corpo macroscopico varia la sua energia con continuità, un corpo microscopico (come la molecola) possiede quantità d’energia discreta: livelli energetici; e il passaggio da un livello ad un altro, cioè la variazione d’energia, è discontinua e tale fenomeno è detto salto quantico. Una molecola non può cambiare la sua configurazione, passando da livello a livello, a meno che non gli si fornisca dall’esterno l’energia necessaria per il salto. Quindi questa differenza d’energia fondamentale per farle cambiare configurazione determina quantitativamente il grado di stabilità della molecola. La stabilità della molecola dipende anche dalla temperatura, ad esempio se una molecola allo zero assoluto si trova nel livello energetico più basso per farla passare a quello superiore bisognerà fornirgli energia con un conseguente aumento della temperatura. Ma non c’è una temperatura precisa per passare da un livello all’altro, quindi per effettuare il salto

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quantico che permette alla molecola di cambiare la sua configurazione; bisogna piuttosto tener presente alcuni fattori importanti come ad esempio l’intensità del moto di agitazione termica degli atomi e naturalmente l’energia necessaria per effettuare il salto che varia da molecola a molecola. La molecola che cambia la sua configurazione è definita isomerica, cioè una molecola composta da stessi atomi ma disposti diversamente e con energia differente poiché rappresentano livelli energetici diversi. La transizione tra un livello inferiore ad uno superiore, e viceversa, non avviene mai spontaneamente: ciò è dovuto al fatto che tra i livelli c’è una soglia di "confine" che impedisce alla molecola di effettuare in modo spontaneo il salto quantico e quindi di cambiare la sua configurazione iniziale. La quantità di energia indispensabile per la transizione non è la differenza di energia tra i livelli, ma tra il livello e la soglia. Tra il livello minore e quello maggiore ci sono livelli intermedi nei quali il passaggio avviene spontaneamente, ma questo non può essere definito un salto quantico poiché non influisce sulla configurazione. Il valore di soglia non è uguale per tutti i livelli ma cambierà da livello a livello e varierà anche l’energia per il salto e la loro temperatura. Ragion per cui il trapasso tra i vari stati non avviene con continuità ma con discontinuità, dando appunto alla molecola una notevole stabilità. Questo concetto è ricollegabile alla biologia, dove il passaggio di una molecola isomerica da una configurazione ad una altra attraverso un salto quantico rappresenta la mutazione di un allele nello stesso locus di un cromosoma, nel quale la mutazione è proprio il salto quantico in diverse configurazioni. Comunque è sorprendente come la natura sia riuscita a fare una attenta scelta dei valori di soglia per permettere che le mutazioni siano eventi rari nonostante che questi valori non siano molto elevati. Basta un modesto valore di soglia per garantire alla molecola una notevole stabilità. In base al secondo principio della termodinamica, comunemente chiamato il "principio di entropia", tutte le cose hanno una naturale tendenza a passare da uno stato di ordine ad uno stato di disordine completo, raggiungendo lo stato di equilibrio termodinamico, dove la materia si trasforma in un blocco inerte. Secondo questo principio, la materia passa da uno stato di ordine totale ad uno stato caotico aumentando la sua entropia, il quale prelude ad uno stato di massima quiete(entropia massima), che in alcuni casi può coincidere con la morte. La vita invece, difesa dalla teoria dei quanti, sembra dipendere da un comportamento ordinato e retto da leggi rigorose della materia, non basata sulla tendenza di questa a passare da uno stato di ordine ad uno di disordine, ma fondato soprattutto sulla conservazione dell’ordine già esistente. L’organismo vivente si avvicina a quel funzionamento meccanico in cui tutti i sistemi tendono alla temperatura dello zero assoluto, nella quale l’entropia risulta nulla. Ma gli esseri viventi fanno anche parte di un sistema che tende spontaneamente al disordine, perciò ci chiediamo come fa un organismo ad evitare questo rapido decadimento, controbilanciando il disordine con un principio d’ordine capace di neutralizzarne gli effetti, o almeno da contrastarlo in modo da consentirne la vita? L’organismo evita questo rapido

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decadimento attraverso il metabolismo, cioè mangiando e bevendo, ma ci chiediamo quale sia quell’elemento contenuto nel cibo capace di preservarci dalla morte. Ogni fenomeno naturale è caratterizzato da un aumento d’entropia, così anche l’essere vivente aumenta la sua entropia positiva avvicinandosi allo stato pericoloso d’entropia massima: morte. Il corpo si tiene lontano da questo stato estraendo continuamente entropia negativa dall’ambiente; quindi ciò di cui si nutre l’organismo è entropia negativa, che cerca di liberarsi dell’entropia positiva prodotta durante il corso della vita. Ad esempio l’organismo si libera dell’entropia positiva con la sudorazione, cioè cedendo del calore all’ambiente esterno e in questo modo riesce a mantenersi ad un livello di entropia molto basso. Non dobbiamo considerare l’entropia come un concetto puramente astratto, ma, al contrario, essa è una quantità fisica misurabile. Ho accennato prima che quando ci si avvicina alla temperatura dello zero assoluto il disordine scompare, ciò introduce il terzo principio della termodinamica basato sulla teoria dei quanti(teorema di Nerst). Alla temperatura dello zero assoluto l’entropia è nulla in quanto il moto di agitazione termica degli atomi è inesistente, ma se si cambia stato l’entropia cresce di una quantità calcolabile dividendo la quantità di calore che si fornisce per la temperatura assoluta alla quale il calore viene ceduto. Il concetto di entropia è collegato ai concetti di ordine e disordine mediante la seguente relazione: entropia = k log D

dove k è la costante di Boltzmann e D misura il disordine atomico del corpo. Questa legge fisica non fa altro che di dimostrarci la naturale tendenza delle cose a passare da uno stato di ordine ad uno di disordine. Ho detto però che l’organismo assorbe entropia negativa dall’ambiente mantenendo basso il suo livello d’entropia positiva, esprimibile anch’essa attraverso la seguente relazione:

- entropia = k log 1/D

dove l’entropia presa con segno negativo è una misura dell’ordine. Ciò non fa altro che rafforzare il giudizio di come un organismo, animale o vegetale che sia, sia una macchina perfetta, completamente autosufficiente, capace di adattarsi al meglio all’ambiente che lo circonda. Infatti il procedere degli eventi in un ciclo vitale di un essere vivente mostra una regolarità a livello atomico e molecolare senza precedenti imparagonabile alla materia inanimata. L’organismo, definito da Schrodinger come un cristallo aperidico, è composto da diverse molecole con un numero di atomi molto basso, ottimamente ordinate e ben distribuite, il cui comportamento è basato sul principio "dell’ordine dall’ordine" retto dalle leggi della fisica quantistica. Le leggi della fisica statistica non sono in grado di spigare questo fenomeno, poiché il regolare corso degli eventi retto dalle sue leggi ordinate non è la conseguenza di un’ordinata e precisa configurazione a livello atomico, a meno che non facciano riferimento ad un cristallo periodico. Il meccanismo statistico produce "ordine dal disordine" e non possiamo pretendere che sia in grado di spiegarci il comportamento di un essere vivente basato appunto sul concetto di "ordine dall’ordine". Fin qui si è parlato del funzionamento di un

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organismo come una macchina perfetta, nella quale ogni singolo atomo segue leggi rigorose e ordinate come uno strumento costruito dall’uomo senza né anima né coscienza. Gli eventi spazio - temporali che si verificano all’interno di un corpo corrispondono all’attività e al volere delle sua mente. Senza né la mente né la coscienza, un corpo sarebbe paragonabile a qualunque essere inanimato e le loro azioni, consce o inconsce, possono essere definite deterministiche, cioè risultato di condizioni precedenti e concomitanti che hanno inizio proprio da loro. Ma alla luce di queste osservazioni come si può definire la coscienza? Forse potremmo definirla come la consapevolezza di esistere, di essere autonomi, che controlla non il movimento degli atomi secondo le perfette leggi della natura, ma le azioni e le scelte di ogni uomo in modo che sia capace di utilizzarle al meglio per i propri bisogni e doveri. La coscienza è una e unica in ognuno, pensa e agisce indipendentemente da tutte le altre ed è proprio questa sua caratteristica che ci rende diversi l’un l’altro. Ognuno di noi è un singolo irripetibile che sicuramente senza la coscienza sarebbe solamente una macchina perfettamente identica alle altre, senza nessuna libertà di scelta. Secondo Schrodinger, alla luce delle sue riflessioni sulla vita, v’è una contrapposizione tra il puro determinismo delle leggi di natura e la libertà di scelta di ogni essere umano, la piena responsabilità degli atti di ognuno. Per ricomporre questa contraddizione, una soluzione potrebbe essere quella di considerare l’Io "libero" proprio in quanto capace di regolare le stesse leggi deterministiche di natura, ovvero come la persona capace che controlla il movimento degli atomi. Questa tesi corre il rischio di considerare l’essere umano una sorta di divinità onnipotente, cosa che per il cristianesimo è insieme una bestemmia e una sciocchezza. Eppure, per le Upanisad, 2500 anni fa, l’io personale è uguale all’io onnipresente che tutto comprende, e da questa identificazione dipende per il pensiero indiano antico la quintessenza della più profonda conoscenza degli avvenimenti del mondo. E’ del resto aspirazione comune dei molti mistici di molti secoli considerare il momento culminante della loro vita nell’assomigliare il più possibile a Dio, nel farsi Dio. Sebbene questa idea sia per lo più rimasta estranea al pensiero occidentale, alcuni mistici e filosofi – tra i quali spicca Schopenhauer – tendono a considerare, come in certa tradizione del pensiero orientale, i loro pensieri e i loro sentimenti una cosa sola. La coscienza, dal loro punto di vista, non viene mai sperimentata al plurale, ma solo al singolare. Come gli scrittori delle Upanisad, anch’essi sembrano combattere l’idea della pluralità. Per Schopenhauer, ad esempio, v’è una sola volontà della natura, che si manifesta in tutti individui, ma che nondimeno rimane unica e identica, che non è riconducibile ad altro né spiegabile tramite altri concetti. Se estendiamo quello che Schopenhauer dice della volontà alla coscienza, possiamo giungere alla conclusione che anch’essa è un singolare il cui plurale ci è ignoto, che ciò che sembra costituire una pluralità è semplicemente la serie dei diversi aspetti di una sola cosa, e che tali aspetti o riflessi sono prodotti da una sorta di illusione, dall’indiano e schopenaueriano velo di Maya. Ma come conciliare questa

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impostazione teorica e questa visione del mondo con l’indiscutibile impressione di ognuno che la somma totale della sua propria esperienza e memoria sia un’unità del tutto distinta da quella di un’altra persona? A cosa si riduce l’io alla luce della concezione schopenhaueriana, nonché delle riflessioni di Schrodinger sulla vita? Per Schrodinger esso è qualcosa di più che una collezione di dati singoli, di esperienze e di memorie: esso è il canovaccio su cui queste sono intessute, la trama che le raccoglie, e si sviluppa comunque oltre le nostre esperienze e i nostri ricordi, tanto che nemmeno nel caso dovessimo perdere ogni memoria della nostra vita personale questa potrebbe andare interamente perduta. Gli esseri viventi mostrano un comportamento dinamico e mutevole, pur conservando una certa stabilità per un certo tempo: ciò è evidente sia nel corso dello sviluppo (embriogenesi e maturazione anatomofunzionale) che nelle loro capacità di reintegrare la forma originale dopo un danno (guarigione). Il fatto che si guarisca dalle malattie è una felice esperienza della vita di tutti i giorni: noi guariamo da una ferita, da un’influenza, da un raffreddore. Grazie a sofisticati sistemi biologici, dopo la maggior parte delle affezioni che colpiscono l’organismo per ragioni chimiche, fisiche o biologiche, lo stato di salute è restaurato, anche con poco o nessun aiuto medico. Questo stupefacente potere di guarigione dell’organismo ha portato gli antichi autori medici a concepire l’esistenza di una misteriosa "forza vitale", che sarebbe ultimamente responsabile dei sottili e per lo più sconosciuti meccanismi biologici che regolano i processi interni e le reazioni allo stato di sollecitazione esterno. Il concetto di "forza vitale" è presente in diverse forme e diverse tonalità in molti autori, tra cui Ippocrate. Ovviamente, il concetto di forza vitale ha suscitato molte discussioni in ambito scientifico, soprattutto perché si tratta di un’entità non facilmente definibile in termini operativi. Tuttavia, non si devono confondere le posizioni dovute allo stato delle conoscenze del tempo con un ricorso arbitrario a concetti metafisici. Parlare di forza vitale come qualcosa di misterioso era, per quei tempi, nient’altro che prendere atto delle capacità di difesa e di guarigione dell’organismo, senza poterne dare una spiegazione in termini di fisiologia o di immunologia. Oggi la biologia (letteralmente, lo "studio della vita") ha accumulato una grande quantità di conoscenze riguardanti le componenti ed i meccanismi degli esseri viventi, dalle singole cellule agli organismi superiori, fino a sfiorare ormai la definizione scientifica delle funzioni cerebrali, per cui il concetto di forza vitale sembra obsoleto e, comunque, non necessario per la descrizione dei fenomeni biologici, inclusi i processi di guarigione. I fenomeni ed i meccanismi coinvolti nei processi che regolano l’essere vivente possono essere descritti essenzialmente secondo due metodi. Il primo, che potremo chiamare analitico, considera i fenomeni individualmente: ad esempio, si

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potrebbero indagare i cambiamenti molecolari che avvengono allorché un osso si rompe e, successivamente, allorché esso viene riparato con nuovo tessuto connettivo, poi cartilagineo, poi osseo; si potrebbe studiare e descrivere come un infarto guarisce, prima mediante un processo infiammatorio che rimuove il materiale necrotico, poi con formazione di una cicatrice fibrosa; si potrebbe osservare con minuzia di particolari come un leucocita ingerisce un batterio, quali enzimi produce per digerirlo, come elabora gli antigeni da presentare ad altri leucociti, e così via. In questi e molti altri processi di guarigione, un’ampia serie di trasformazioni molecolari, di cicli proliferativi cellulari, di modificazioni metaboliche e di variazioni ematochimiche vengono attivate in un modo specifico e (almeno inizialmente) finalizzato alla difesa ed all’integrità biologica. Il secondo metodo, che si potrebbe definire sintetico, è quello di tentare di costruire modelli che colgano i principi fondamentali, la "logica" di tutto il complesso dei fenomeni osservati, cosicché del linguaggio dell’essere vivente si possa comprendere non solo il vocabolario (molecole, forze fisico-chimiche), ma anche la "grammatica" (regole di interazione a breve raggio) e pure la "sintassi" (interazioni e comunicazioni di tutto il sistema). Per esempio, si potrebbe osservare come la guarigione dopo un trauma o da un’infezione non è dovuta solo a fattori locali (coagulazione, chemiotassi, crescita di epiteli, ecc.), ma anche alla partecipazione concordata di tutti questi fattori, in modo che l’entità del loro intervento sia sufficiente per le necessità riparative ma non le ecceda ed in modo che i vari eventi abbiano un’opportuna sequenza temporale; inoltre, si potrebbe osservare che il buon funzionamento del processo non è garantito solo dal coordinamento in sede locale, ma anche dalla "sorveglianza" di meccanismi gerarchicamente superiori di tipo generale, come l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, la produzione di citochine che informano tutto l’organismo di cosa sta succedendo nel tessuto colpito, cui si aggiungono cambiamenti nel metabolismo epatico, sintomi psichici e così via. Miliardi di cellule agiscono in concerto ed in modo finalizzato al fine di distruggere gli aggressori e di ristabilire lo stato di salute sia nella morfologia che nella funzione. Ma anche all’interno di una singola cellula, miliardi di molecole e di organuli coordinatamente agiscono a produrre e consumare energia, ricevere e trasmettere segnali, costruire e demolire strutture al fine che la cellula possa funzionare in modo efficiente assieme agli altri milioni di cellule di quel certo tessuto. Per raggiungere questo tipo di coordinamento (ordine, coerenza), il legame tra fattori locali e fattori generali è istituito secondo molte linee di comunicazione, rappresentate da ormoni solubili e diffusibili, fibre nervose, citoscheletro, interazioni membrana-membrana e probabilmente anche segnali elettromagnetici. L’influenza reciproca di fattori sistemici e locali è di così grande importanza che uno stress psicologico può essere seguito da aumentata suscettibilità alle infezioni e un’infezione dentale può causare una seria depressione psichica.

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Entrambe le vie di conoscenza dei fenomeni vitali, quella analitica e quella sintetica, sono importanti per descrivere l’essere vivente e, possibilmente, per influenzare in modo efficace i processi di guarigione, ma qui si darà più importanza alla seconda prospettiva, quella che si accentra sulla dinamica delle relazioni. Infatti, mentre l’approccio analitico è stato perseguito intensamente dalla ricerca biomedica avanzata e particolarmente dalla biologia molecolare negli ultimi decenni e rappresenta di gran lunga il principale corpo di insegnamento delle scuole mediche, la prospettiva sintetica e dinamica è stata molto trascurata e quindi, per le ragioni dette, merita di essere rivalutata. Un ulteriore punto che si riconnette fondamentalmente all’approccio sintetico è il problema "topologico". Questo termine designa lo studio della posizione che la materia vivente prende nello spazio. L’analisi può dire moltissimo sulla composizione di una cellula o di un tessuto, ma dice poco a riguardo dei meccanismi di sviluppo e di restituzione della forma in un certo tessuto. Infatti quest’ultima dipende solo in parte dalla composizione, essendo influenzata dalla storia del tessuto stesso, da come è andato evolvendosi in modo dinamico nel tempo, partendo da una singola cellula ed arrivando ad un assemblaggio di un gran numero di tipi differenti di cellule con numerosissime interazioni reciproche. Il problema topologico è particolarmente sentito a livello delle funzioni cerebrali, perché esso riveste importanza tanto maggiore quanto più è complesso un organo o un tessuto. È perciò interessante riprendere, in estrema sintesi, alcuni aspetti di tale complessità del cervello:

a) Gran numero di componenti. La morfologia del cervello rivela che i neuroni (10 miliardi) sono connessi da un milione di miliardi di connessioni sinaptiche. Tale numero è enormemente più grande di qualsiasi possibile informazione genetica, indicando che la struttura del cervello non è ultimamente determinata geneticamente (in altre parole, essa non è determinata ultimamente dai materiali di cui è fatta), ma piuttosto dall’interazione tra le potenzialità genetiche e le sollecitazioni ambientali. Le ramificazioni dendritiche che collegano vari neuroni si sovrappongono notevolmente (fino anche al 70%), così che non è possibile disegnare dei circuiti unici e precisamente definiti. b) Assenza di predeterminazione. Esaminando la formazione del cervello, si vede che un preciso modo di connessione tra un neurone e l’altro, pre-specificato dall’inizio, è da escludersi. I neuroni, quando emettono i prolungamenti assonici non sanno dove inviarli, con quale altro neurone connettersi. In ogni individuo, persino in gemelli identici, i neuroni si ramificano in diversi modi. Non è pensabile che le connessioni siano specificate unicamente a livello molecolare (molecole di adesione), perché non esistono marcatori di membrana così specifici da dirigere un’architettura così complessa. Ciò è sostenuto da G. M. Edelman, scopritore delle molecole di adesione neurali e fondatore della topobiologia [Edelman, 1989; Edelman, 1993].

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c) Variabilità delle mappe. Studiando il funzionamento di neuroni di aree cerebrali deputate a specifiche funzioni, si osserva che ogni individuo ha mappe diverse e che anche nello stesso individuo le mappe variano a seconda dell’esperienza, allargandosi, restringendosi ed anche spostandosi lateralmente. Nella stessa area, molti neuroni rimangono silenti anche quando la funzione è attiva, ed è impossibile predire quali neuroni saranno silenti e quali scaricheranno applicando un determinato stimolo. d) Fenomeni collettivi. Le cellule della corteccia cerebrale sono organizzate in gruppi funzionalmente accoppiati: quando arriva uno stimolo alla corteccia, ad esempio uno stimolo luminoso proveniente dalla retina, molti neuroni sono attivati e scaricano impulsi, ma non in modo casuale, bensì in modo coordinato, con oscillazioni alla frequenza di circa 40 Hz. D’altra parte, la regolarità non è una costante: l’elettroencefalogramma rivela che nelle oscillazioni cerebrali è presente, come componente normale, una notevole caoticità [Freeman, 1991].

In sintesi, nel cervello sono rappresentate in modo emblematico tutte le caratteristiche della complessità: enorme quantità di informazioni, reti, comportamenti collettivi, fondamentale importanza della forma, plasticità evolutiva, caos. La danza è il respiro dell'universo. Che cos'è la danza se non il ritmico pulsare delle stelle e degli atomi, dell'infinito che si espande e si contrae senza fine e senza tempo, creando con ciò stesso il tempo? Vibrano le particelle e si muovono le galassie, tutto fluttua e danza in un movimento che è energia e vita. Danzano gli elettroni nelle loro orbite, si muovono le onde, magnetiche ed elettromagnetiche, le onde sonore e quelle del mare, la luce. Se è vero che danza è ogni movimento armonico e ritmato, allora è vero che, come credono gli Indù, la divinità, da loro chiamata Shiva, crea e mantiene l'armonia cosmica grazie alla danza. Se cesserà la danza vi sarà l'entropia, e quindi la morte dell'universo. Quando l'uomo è in armonia con se stesso e con il mondo, egli danza. Il suo corpo esprime la sua tensione interiore, il ritmo della sua biologia, che vibra degli stessi ritmi di cui è fatta la materia dell'universo. Ma non solo la corporeità dell'uomo si esprime attraverso il movimento: la sua anima allora si tende verso ciò che lo contiene, ed egli sente di essere parte di un'armonia divina. La danza la vita e la matematica sono intimamente intrecciate. La matematica crea quell'ordine cosmico e quelle leggi a cui tutto l'universo ubbidisce, è veramente straordinario che si possa descrivere la realtà attraverso leggi matematiche. La matematica è una creazione della mente dell'uomo, la più astratta e la più precisa. Da dove attinge la mente per creare la matematica? Forse dalla realtà platonica che governa il mondo? Una realtà più sottile della realtà fisica a cui siamo abituati. Da sempre l'uomo ha pensato ad un ordine sottostante all'apparente caos che osserviamo in natura, i fenomeni naturali sono caotici eppure presentano una

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straordinaria armonia di base, una musica che ci porta a pensare alle vette armoniche più ardite per lo spirito umano. All'esistenza di un ordine creatore. La legge di crescita dell'entropia si perde nel sorriso di un bimbo che nasce. Nel sorriso di un bimbo che gioca si manifesta la danza della vita. Ma il vecchio e barbuto docente universitario scuote la testa e riafferma il primato dell'entropia come inevitabile processo verso la morte cosmica dell'universo. Da un punto di vista filosofico, possiamo dire che il nostro potere crescente sulla natura e sulle contingenze della vita sociale e individuale ci ha prima illusi di poter tenere tutto sotto controllo e poi delusi di fronte a un'incertezza e a una finitezza persistenti, che però, a differenza di ieri, non riusciamo più ad accettare. Mai come oggi abbiamo parlato tanto di libertà e di rischi, e mai come oggi, a tutti i livelli, abbiamo tanto desiderato la sicurezza. L'idea che prima o poi la nostra vita finirà e che l'entropia consumerà la stessa vita dell'universo ci è sempre più insopportabile. Per lo stesso motivo per cui, se unisco il latte e il caffè ottengo un caffellatte e non posso più dividere di nuovo i due ingredienti, il progresso non si può fermare, non si può tornare realmente indietro, si possono solo limitare i danni. Tutta colpa dell'entropia. Forse il mondo si distruggerà nel 2012, come previsto dai Maya, per opera di una catastrofe naturale. Chissà, non manca molto tempo e i deserti stanno già avanzando, il clima si sta già modificando. Sin dall'alba della scienza, gli studiosi hanno sempre cercato di ridurre i fenomeni complessi ad altri più semplici, delineando un quadro generale dell'universo sulla base di un numero ristretto di principi fondamentali. Nell'antichità Pitagora pensava che il mondo fosse l'armonia dei numeri. Democrito vedeva l'universo come un movimento di atomi nel vuoto. Ad Aristotele il mondo appariva come un organismo vivente. Dal XVII al XIX sec. dominarono le idee meccaniciste in virtù delle quali s'interpretavano tutti i fenomeni della natura inanimata. All'inizio del XIX sec. si fecero tentativi per costruire un quadro fisico unico del mondo, fondato sull'elettrodinamica, ma vi furono anche ricerche per stabilire un quadro fisico-probabilistico universale del mondo. Oggigiorno gli scienziati mirano a integrare le idee relativiste e quantiche con la possibilità di costruire una teoria unificata di tutte le fondamentali interazioni. I matematici, p.es., si servono degli insiemi come base universale delle loro teorie. I biologi cercano una coerenza di fondo nei principi della attuale biologia molecolare o della genetica o anche della teoria sintetica dell'evoluzione. Da tempo si è scoperto che fra microcosmo e macrocosmo vi sono affinità sorprendenti. La fisica delle particelle elementari è già all'unisono con la cosmologia. Si potrebbe, in un certo senso, rappresentare lo sviluppo della scienza come una successione di programmi riduzionisti sempre più perfetti sul cammino che conduce dalla verità relativa a quella assoluta. Si ha infatti l'impressione che

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l'assolutezza della verità coincida con la sua semplicità o essenzialità e che con tale essenzialità si sia in grado di comprendere tutta la complessità dell'esistenza, la quale, con le sue verità relative, ha mille sfaccettature. Si procede in avanti, aumentando la conoscenza, ma come se si tornasse indietro, verso l'epoca in cui la conoscenza era una sola cosa con la vita. Le costruzioni scientifiche antiriduzioniste (generalmente fenomenologiche) sono destinate ad essere riassorbite, in quanto il processo verso l'unificazione universale del sapere appare irreversibile. Il riduzionismo è legato non solo a ciò che la scienza riflette, ma anche al modo in cui essa lo fa. La conoscenza scientifica è sempre più un insieme di varie procedure cognitive e di diversi modi d'organizzazione del sapere acquisito, aventi un carattere integrativo. In virtù di questa esigenza integrativa, si può addirittura arrivare a dire che il fatto scientifico non è tanto il riflesso di un avvenimento individuale, unico, quanto piuttosto la rappresentazione di tutta una classe di fenomeni, unificati sulla base di un certo livello di astrazione. Noi troviamo nelle regolarità empiriche di diversi gruppi di fatti formanti un tutto unico una maggiore generalizzazione della realtà. E queste regolarità, a loro volta, possono essere assimilate a una comune interpretazione, avente un numero limitato di principi fondamentali. In sostanza, tutte le forme di organizzazione del sapere scientifico realizzano una descrizione generalizzata della realtà, a partire dalla quale si individua sempre più profondamente l'essenza dei fenomeni, facendo così per tappe una riduzione che va dalle forme poco generalizzate di organizzazione del sapere scientifico a forme sempre più generalizzate. Naturalmente questo processo riduzionistico o riunificativo non implica né la soppressione della diversità delle teorie e dei campi d'indagine, né la loro concentrazione in un unico schema teoretico. Il problema, se vogliamo, sta nell'alimentare la tensione delle singole discipline verso l'unità, ovvero nel ricercare un metodo per stimolare questa tensione. Il processo verso la riunificazione del sapere è reale ma non è automatico. Ad esso non fa ostacolo l'estrema frammentazione dei metodi di conoscenza e dei programmi di ricerca, quanto piuttosto la chiusura, il settarismo, la difesa corporativa di arcaici privilegi. Se nel campo della fisica, ad es., vi sono descrizioni deterministe e probabiliste, ciò rientra nella normalità, ma quando in nome dell'una o dell'altra corrente si rifiuta il dialogo, il confronto aperto, critico e autocritico, ecco che allora non solo la fisica ma tutta la scienza s'impoverisce, mentre il processo di riunificazione del sapere inevitabilmente rallenta la sua marcia. Oggi molti ricercatori si trincerano dietro una solida argomentazione, quella secondo cui tutto ciò che esiste nel mondo è il frutto di una evoluzione dal semplice al complesso. Il che implica, per molti di loro, un affronto sistematico del particolare, una specializzazione sempre più sofisticata delle conoscenze. Questo modo di orientarsi non è in sé sbagliato, ma rischia di diventarlo ogniqualvolta si

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perde il senso dell'insieme, la globalità del reale, che per forza di cose va colto nella sua essenzialità. Nel corso dello sviluppo della scienza il grado di unità del sapere scientifico, che pur si ristruttura di continuo, tende ad aumentare, anche se in apparenza sembra il contrario. Lo dimostra il fatto che le interrelazioni dei diversi campi scientifici si rafforzano. Lo sviluppo del 'sapere fondamentale' (quello di cui non si può fare a meno) apre possibilità sempre maggiori di sintesi delle conoscenze acquisite, a tutti i livelli. Vi sono tuttavia dei problemi cui la metodologia riduzionista deve far fronte con grandi capacità se vuole realizzare i suoi obiettivi. Anzitutto va risolta la questione del rapporto fra la parte e il tutto. Senza dubbio, il comportamento del tutto è determinato, essenzialmente, dalle proprietà e dal carattere dei suoi singoli elementi. Ma la riduzione delle proprietà del tutto alle proprietà delle sue parti è possibile solo nelle situazioni elementari dei cd. 'sistemi sommativi', che rappresentano una piccola frazione dell'intera diversità degli oggetti realmente esistenti. Di regola, il tutto è caratterizzato da parametri e leggi specifiche che non valgono per i suoi elementi particolari. Così ad es., le caratteristiche del gas in movimento dipendono da parametri termodinamici: temperatura, entropia, ecc., i quali risultano ininfluenti per l'analisi delle sue molecole particolari. Non è certo possibile ottenere quelle caratteristiche a partire da una descrizione meccanica dettagliata del movimento di tutte le molecole. La perfezione dell'insieme, rispetto a quella delle parti che lo compongono, la si nota anche laddove le relazioni che l'insieme instaura con l'ambiente sono determinate dal comportamento dell'insieme stesso e non da quello delle sue singole parti. Questa situazione è tipica di tutti i livelli di organizzazione della materia, specie di quelli più complessi. Ciò che è sostanziale per l'insieme di un organismo è il funzionamento integrale e coordinato di ogni singola parte: è questo che assicura la grande stabilità dei sistemi viventi in rapporto alle variabili condizioni esterne e che accresce fortemente le capacità di adattamento dell'organismo. La perfezione sta nel funzionamento equilibrato del tutto, all'interno di margini più o meno flessibili, ma comunque invalicabili, di tollerabilità. P.es., la struttura attuale dell'universo è determinata da una grandezza che esprime la differenza di massa fra il neutrone e il protone. Questa differenza è assai piccola, circa 10-3 della massa del protone. Ma se essa fosse stata tre volte più grande, non avrebbe avuto luogo la sintesi nucleare e nell'universo non esisterebbero elementi complessi. L'intero dunque non può essere concepito come funzionante unicamente secondo leggi che reggono gli elementi che lo compongono. Una casa di mattoni è evidentemente una realizzazione di possibilità inerenti ai mattoni e alla calce; ma per costruire una casa non basta conoscere le proprietà dei materiali: bisogna possedere un progetto della casa, stabilito secondo il suo modo di funzionare in quanto abitazione. Questo progetto, è vero, si realizzerà sulla base delle proprietà dei materiali da costruzione, ma la sua ideazione dipende dalle leggi di un altro

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livello di realtà. Del pari, il comportamento dell'uomo è sì legato alle sue qualità naturali e sociali in quanto individuo, ma l'essenza dell'uomo -come vuole Marx- si esprime sulla base del sistema di relazioni sociali in cui egli è inserito. Ogni organismo vivente è determinato non soltanto dalla sua organizzazione interna, ma anche dal suo rapporto con la popolazione circostante e con l'insieme del mondo vivente. Il tutto dunque non è riducibile alla somma delle sue parti e la parte non può essere interamente compresa che nelle sue relazioni col tutto. Su questo principio vi è un esempio significativo nel libro di W. Heinsenberg, La parte e il tutto, laddove l'autore afferma che mentre osservava, indifferente, il castello Elsinore, che lo scienziato N. Bohr gli indicava, ne capì l'importanza solo dopo che quegli gli precisò che si trattava del castello in cui Shakespeare aveva scritto l'Amleto. La fisica moderna fornisce una testimonianza esemplare di questa simbiosi della parte con il tutto. Come noto, l'unità fondamentale dei principali tipi d'interazione che descrivono il comportamento delle particelle elementari, non si è manifestata che negli stadi iniziali dell'evoluzione del cosmo. In altre parole, l'unità reale delle interazioni elettriche deboli e forti può manifestarsi in casi di energia che non esistono nell'attuale universo e che potevano realizzarsi solo nei primi secondi dell'evoluzione della metagalassia dopo il Big bang. D'altra parte, noi siamo sorpresi dall'apprendere che le proprietà macroscopiche del mondo osservabile (esistenza di galassie, di stelle, di sistemi planetari, di vita sulla terra) sono determinate da un piccolo numero di costanti che caratterizzano sia le diverse proprietà delle particelle elementari che i tipi-base delle fondamentali interazioni. P.es., se la massa dell'elettrone fosse stata di tre o quattro volte maggiore di quella attuale, la vita d'un atomo neutro d'idrogeno sarebbe solo di qualche giorno. Di conseguenza, le galassie e le stelle sarebbero principalmente composte di neutroni e l'attuale diversità fra atomi e molecole neppure esisterebbe. Le acquisizioni della scienza moderna mostrano con evidenza che tutto quanto esiste è frutto di una evoluzione. La teoria del Big bang, le ricerche sull'apparizione dei sistemi prebiologici e delle prime forme di vita, l'individuazione delle leggi di formazione e sviluppo della biosfera e delle specie animali, gli studi di antropo- e socio-genesi permettono di descrivere le principali tappe dell'evoluzione del mondo dall'apparizione delle particelle elementari all'origine dell'uomo e della civiltà. 10-35 secondi dopo l'inizio del Big bang apparve l'asimmetria barionica della Metagalassia, che si rileva oggi dalla quantità estremamente piccola di antimateria da essa contenuta. Dopo 10-5 secondi sono venuti emergendo i barioni e i mesoni a partire dai quarks. Nel secondo minuto di vita della Metagalassia hanno cominciato a formarsi i nuclei dell'elio e di altri elementi leggeri. Le galassie sono comparse un miliardo di anni più tardi e le stelle della prima generazione 5 miliardi di anni dopo. Gli atomi degli elementi pesanti nascono in seno alle stelle. Il sole, quale stella della seconda generazione, ha circa 5 miliardi di anni. La terra ne ha circa 4,6. Sulla terra, i microrganismi hanno 3 miliardi di anni, le forme

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macroscopiche di vita esistono da un miliardo di anni. I primi vegetali sono apparsi 450 milioni d'anni fa, i pesci hanno 400 milioni di anni, i mammiferi 50 e, infine, l'uomo esiste da 2 o 3 milioni di anni. Noi deduciamo l'evoluzione dal semplice al complesso anche da moltissimi altri processi che si svolgono nel cosmo. Soltanto nella nostra galassia esistono centinaia di miliardi di stelle simili al sole e in tutto l'universo si contano decine di miliardi di galassie simili alla nostra. Tutto è in perenne evoluzione, benché la stragrande maggioranza delle linee evolutive non approdino alla nascita della vita e dell'intelligenza. L'idea che la vita e la ragione siano molteplici nell'universo ha giocato nella storia un ruolo progressista. Essa infatti postula l'origine naturale della vita e della ragione, e favorisce lo sviluppo di un'interpretazione materialistica del mondo, antitetica a quella religiosa. Tuttavia, alla luce delle ricerche attuali, è forse più utile prestare attenzione alla concezione secondo cui la vita e la ragione sono uniche nell'universo, o comunque rarissime, in quanto nessuna forma di vita extra-terrestre è in grado per il momento di farci sostenere il contrario. D'altra parte l'universo è così grande che sembra incredibile che la vita si sia evoluta solo sulla terra. Un altro aspetto di cui bisogna assolutamente tener conto è la possibilità che il processo evolutivo dal semplice al complesso diventi reversibile. Se ad es. la densità della massa del nostro universo diventasse più grande di quella critica, esso comincerebbe a comprimersi, dopo un certo tempo, provocando una riduzione globale di tutte le forme complesse a forme più semplici. Tale fenomeno i cosmologi prevedono che prima o poi accadrà. L'instabilità del protone tende a convalidare questa supposizione. Il che non implica la sconfessione di determinate leggi fisiche o chimiche, quanto, più semplicemente, la constatazione della loro inapplicabilità alla nuova situazione che si verrà a creare. La scienza è in un certo senso simile alla natura vivente. Per principio, la vita non può esistere senza tradursi in una molteplicità di forme. Così è per la scienza. Il suo polimorfismo è condizionato non solo dalla diversità reale del mondo, ma anche dalle differenze che esistono negli statuti epistemologici del suo apparato concettuale, la cui efficacia muta col mutare delle situazioni cognitive. L'unità della scienza non sta nella ricomposizione, peraltro impossibile, delle sue tecniche di ricerca o dei suoi criteri cognitivi e interpretativi, quanto piuttosto nella interconnessione sempre più stretta fra diversi campi scientifici, il cui compito principale è quello di riflettere adeguatamente l'essenza della realtà. Tutto ciò che esiste è caratterizzato dall'unità e dalla diversità: né l'una né l'altra possono sussistere o essere comprese separatamente. Il riduzionismo può aiutarci in questa esigenza riunificativa, ma esso dovrà comunque riflettere la specificità dei fenomeni, se non vorrà rischiare di offrire un'immagine semplicistica delle interrelazioni fra unità e diversità. Pertanto, se vogliamo concretizzare il desiderio

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di una ricomposizione del sapere scientifico, dobbiamo farlo con la pazienza di chi sa rispettare le conquiste scientifiche di ogni singola disciplina. La produzione di informazione è una delle caratteristiche, forse la principale, che distinguono la materia vivente. Considerato termodinamicamente, ogni vivente è un sistema semichiuso che trasforma energia solare in informazione. Il bilancio termodinamico della nostra presenza sul pianeta è in buona parte costituito dall'informazione e dall'eventuale ordine che lasceremo: qualcosa di unico e nuovo che prima di noi non esisteva. E che esisterà solo grazie al modo in cui avremo utilizzato il flusso di energia solare - diretta o indiretta - di cui viviamo. Qualcuno l'ha chiamata neghentropia, cioè entropia negativa. Ordine e complessità che si crea. E nessuno sa se capisce perché ciò accada. Dal momento che la conoscenza non si riduce a delle semplici informazioni ha bisogno di strutture teoriche che danno un senso alle informazioni; ci si rende facilmente conto che se si possiedono troppe informazioni e poche strutture mentali, l'eccesso di informazioni si trasforma facilmente in una nube di confusione e poco chiara nella propria mente. D'altro canto é pur vero che troppe teorie oscurano altrettanto facilmente la conoscenza. Una teoria rigida si chiude su se stessa, crede di possedere la realtà o la verità, ha già previsto tutto in anticipo.

Sono bellissime quelle teorie che spiegano tutto ma che non hanno possibilità di verifica sperimentale, l'uomo è maestro nel costruire tali teorie. Ognuno si crea la propria filosofia, e il pensiero filosofico che spazia oltre il confine dell'immaginabile suscita un grande fascino nell'ascoltatore. Nella nostra vita ci accompagnano, a livello implicito, quasi di postulato, due sensazioni. La prima di esse ci fa percepire la vita come un cammino da percorrere. La seconda ci presenta la vita stessa come una continua evoluzione, talvolta vissuta attivamente ma anche subita passivamente. Siamo di nuovo in presenza di proposte implicite, che essendo comuni a tutti, ci persuadono dell'esistenza di una realtà oggettiva non definibile, nella quale viviamo pervasi da un senso di speranza, anch'esso indefinibile. Le sensazioni che proviamo, dovrebbero spingerci a considerare con attenzione la rete di correlazioni che si accompagnano ai significati impliciti che possiamo percepire, qualora si ascoltino i "messaggi" interiori. Perché mai i concetti di evoluzione, di speranza, di significato, di cammino, di ispirazione, di attrazione verso l'inconoscibile hanno tante cose in comune ? Ma forse, invece di concetti, sarebbe meglio parlare di modi di essere.

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Un'altra domanda ci si dovrebbe porre : se si riconosce la presenza macroscopicamente oggettiva di tali correlazioni, appare tanto peregrina l'intuizione di una reale possibilità di evoluzione interiore, che consenta una migliore coscienza delle sensazioni sfuggenti ? L'embrione umano si sviluppa all'interno del corpo materno, specializzandosi e differenziandosi nel nuovo organismo in costruzione. La nuova creatura si sviluppa nell'utero e trae alimenti dal corpo materno, beve, respira e si muove nel liquido che lo circonda, e forse sente il sussurro lontano del mare che chiama all'unità nella vita, come preparazione all'inserimento nell'organismo ambientale. Le forze d’attrazione e repulsione, con criteri di divisione e ricomposizione, agiscono come colori, scelti, dosati e usati, con perizia, dell'artista, per esprimersi nell'opera e comunicarne l'emozione. L'emozione, la curiosità, il gioco, il sogno e la fantasia, che svincolano il pensiero dai limiti di spazio, di tempo e dal pessimismo, portano a cogliere, oltre i sensi, nell'intimo nascosto del materiale, la sintonia del tutto con la vita e ad intuire che l'evoluzione è l'amore, la comunicazione e il dialogo vivo della materia iniziato agli albori e che ci pongono nel cammino verso il futuro, voluto, sorretto e orientato da una misteriosa delicatezza: mistero di premura globale, che agisce in noi e con coerenza c’invita a divenire evolutivi nell'unità. Tante creature, di specie diverse, hanno popolato il mare e la terra dentro un unico complessivo processo evolutivo ambientale che comprende, tuttora, anche noi, con il senso dell'esistere che domanda apertura, rispetto e attenzione per ogni vita nell'ambiente, in coerenza con l'evoluzione. Si potrebbe dire che l'origine della vita si svolge interamente in base a leggi interne. Le leggi rendono necessario una certa trasformazione ma in diverse situazioni ci possono essere strade diverse e "accidentalmente", per caso l'evoluzione ha intrapreso una strada piuttosto che un'altra. Ma quali sono tali leggi, sono comprensibili all'intelletto umano? Cosa possiamo dire sulla base della nostra esperienza diretta? Noi osserviamo una unità dell'esistenza, ogni organismo mostra caratteristiche uniche di autoconservazione. Eppure la vita è gettata nel mare delle trasformazioni fisiche governate dall'entropia crescente: la vita lotta per la propria esistenza. La teoria secondo cui la vita sarebbe sorta casualmente dalla materia inorganica non è, in fondo, che la versione moderna di una credenza vecchia quanto la osservazione superficiale della natura, la "generazione spontanea": quella, per intenderci, in base alla quale gli antichi credevano che le anguille nascessero dalla melma dei fiumi, le zanzare dai miasmi delle paludi, le mosche dalla carne putrefatta, e altre favolette simili. La loro inconsistenza fu sperimentalmente dimostrata da Francesco Redi nel 1668 per gli insetti, dall'abate Lazzaro

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Spallanzani nel 1748 per i protozoi e da Louis Pasteur nel 1861 per i batteri. Tutti e tre gli scienziati dovettero faticare molto per fare accettare le loro scoperte; ma, mentre Redi dovette lottare solo contro i pregiudizi di sedicenti "conservatori", Spallanzani e più ancora Pasteur si trovarono di fronte la opposizione dei "progressisti", che della generazione spontanea facevano il supporto "scientifico" di una filosofia materialistica: "La genesi spontanea non è più un 'ipotesi, ma una necessità filosofica. Soltanto essa è razionale, soltanto essa ci sbarazza per sempre delle puerili cosmogonie e fa rientrare nelle quinte quel deus ex machina esteriore e del tutto artificiale che secoli di ignoranza hanno a lungo adorato". È chiaro che, partendo da un simile preconcetto, non si poteva fare a meno di cercare il modo di riaffermare quello che la esperienza scientifica aveva negato. E il modo è stato trovato, e contrabbandato per "prova scientifica", ricorrendo a due accorgimenti: primo, la sostituzione del vecchio e screditato termine "generazione spontanea" con espressioni altisonanti, coniate pour épater le bourgeois, quali "abiogenesi", "fase prebiotica della evoluzione", "evoluzione chimica", e simili; secondo, la retrodatazione della presunta "abiogenesi" a lontanissime ere geologiche, in condizioni ambientali non verificate né verificabili, ma "ricostruibili in laboratorio", in cui - si afferma - sarebbe potuto avvenire quello che oggi è impossibile. Fra le numerose "teorie abiogenetiche" oggi disponibili la più accreditata rimane quella delineata una cinquantina di anni fa, dal biologo sovietico Aleksandr Ivanovic Oparin. Questa teoria (o, meglio, ipotesi) postula la esistenza - necessaria per l'"abiogenesi" - di un'atmosfera primitiva a carattere fortemente riducente, composta di idrogeno, vapore acqueo, metano, azoto e ammoniaca. In tale atmosfera le radiazioni ultraviolette solari e le scariche elettriche dei fulmini avrebbero provocato la sintesi di composti organici, tra cui amminoacidi, purine e pirimidine. Tali composti, disperdendosi negli oceani, avrebbero formato il cosiddetto "brodo prebiotico", nel quale, per reazioni chimiche successive, si sarebbero formate, sempre casualmente, le prime biomolecole - soprattutto proteine – e, infine, i primi organismi viventi. Quando, all'inizio degli anni Cinquanta, la ipotesi di Oparin fu ripresa dall'americano Harold Clayton Urey in base alle sue teorie sulla formazione del sistema solare, si andarono subito a cercare le tanto agognate "conferme sperimentali": e Stanley L. Miller ritenne di averle trovate allorché, facendo passare scariche elettriche attraverso miscele gassose di metano, ammoniaca, vapore acqueo e idrogeno, ottenne una miscela di composti organici da cui isolò, tra l'altro, alcuni amminoacidi. I risultati di Miller, successivamente confermati ed estesi, sia pure con qualche lieve modifica per quanto riguarda la composizione dell'"atmosfera primordiale", da esperimenti successivi, diedero un grande impulso alla "ipotesi abiogenetica": gli amminoacidi sono i componenti fondamentali delle proteine di cui sono costituiti i tessuti biologici; altri composti organici identificati da Miller nella sua

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miscela di prodotti si ritrovano, in gran parte, tra i prodotti del metabolismo di organismi viventi. Altri amminoacidi e supposti "precursori prebiotici" di altri costituenti fondamentali della cellula, quali gli acidi nucleici, sono sintetizzabili in condizioni che, secondo gli autori, ricordano da vicino quelle dell'ipotetico "brodo prebiotico". Tutto bene, allora? Nessun dubbio? Sembrerebbe, a prima vista, proprio così, dato che le discussioni tra gli "addetti ai lavori" hanno come oggetto non già l'"abiogenesi" in sé, che si dà per scontata, ma, caso mai, il meccanismo con cui si sarebbe verificata. Così, alcuni preferiscono, alle scariche elettriche, la irradiazione con luce ultravioletta di una "atmosfera" di metano, azoto e vapore acqueo, allo scopo di produrre altri composti organici, presentati anch'essi come possibili "elementi prebiotici"; ma non mettono in discussione il "fatto" dell'"abiogenesi". E, invece, proprio tale preteso "fatto" è da mettere in discussione: se, infatti, i lavori riportati nelle memorie scientifiche sopra citate hanno in sé e per sé, come metodi per la sintesi di alcuni composti chimici, una loro indubbia validità scientifica, non ne hanno invece nessuna come "prove sperimentali dell'abiogenesi". Una affermazione così netta può, a prima vista, stupire; tuttavia essa è deducibile già da una attenta lettura degli stessi scritti di alcuni abiogenisti, nei quali la "importanza prebiotica" dei risultati riportati è spesso discussa in poche righe, a conclusione di un normalissimo articolo di chimica organica; e, ancora, dalla "fuga nella fantascienza" di altri, che presentano, come "prova dell'abiogenesi", la fotosintesi di composti organici in miscele gassose riproducenti l'atmosfera di Giove. Tuttavia, dato che i risultati di simili esperimenti vengono quotidianamente sbandierati come "prove" non solo in scritti "divulgativi", ma anche in rispettabili testi universitari, sarà bene esaminarli un poco più approfonditamente. In tutti gli esperimenti sopra riportati si otteneva, al termine della scarica o della irradiazione, una grande varietà di composti, da cui i supposti "elementi prebiotici" andavano estratti e purificati con procedure spesso assai sofisticate. Anche le rese erano bassissime: nel celebre esperimento di Miller esse andavano dal 10,3 al 7,3% dei prodotti organici totali per gli amminoacidi e dal 16,5 al 7,1% per gli acidi e ossiacidi organici. Ma vi è di più: negli esperimenti di "sintesi prebiotica" sono stati ottenuti anche parecchi amminoacidi che non si ritrovano nelle proteine, talvolta con rese più alte che quelli proteici; "la presenza di glicina, alanina, valina, isoleucina e leucina nelle proteine, ma l'assenza di acido alfa-ammino-n-butirrico, norvalina, alloisoleucina e norleucina, non può essere spiegata sulla base delle rese ottenute da questo tipo di sintesi". Inoltre, la proporzione tra i vari amminoacidi nelle proteine è quasi inversa che tra i prodotti di sintesi; per risolvere questa difficoltà, Miller è costretto a supporre una ulteriore "condizione necessaria", cioè una precipitazione frazionata di amminoacidi per evaporazione in qualche laguna, con formazione di polipeptidi nella fase solida: e tutto questo a conclusione di una serie di esperimenti in cui la resa totale in amminoacidi "utili" e

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no, era in media l'1,90%. Analoghe critiche potrebbero essere mosse alle varie sintesi di "precursori prebiotici" degli acidi nucleici. Tutte queste teorie, come si è già visto, presuppongono la presenza, sulla terra, di una atmosfera riducente all'epoca della "evoluzione prebiotica" e "protobiotica". Orbene, le teorie più recenti sulla formazione della terra e della sua atmosfera escludono proprio questa ipotesi fondamentale, affermando che all'epoca della comparsa dei primi viventi la terra aveva un'atmosfera neutra o debolmente ossidante, non molto diversa dall'attuale, salvo, forse, per la mancanza di ossigeno. Un tentativo di ovviare a questo inconveniente, che rischia di mandare all'aria tutta la "teoria abiogenetica", è stato fatto in America da Allen J. Bard e dai suoi collaboratori. Costoro, dopo avere scoperto che, irradiando con luce ultravioletta una soluzione acquosa di ammoniaca satura di metano in presenza di biossido di titanio platinato - cioè ricoperto di platino finemente suddiviso -, si ottiene una miscela di amminoacidi, superano la obiezione relativa alla composizione dell'atmosfera primordiale osservando che il biossido di titanio catalizza la riduzione dell'azoto ad ammoniaca e dell'anidride carbonica a metano, formaldeide e metanolo, sia pure con basse rese. Peccato che, per la formazione di amminoacidi sia indispensabile l'uso del biossido di titanio platinato, un catalizzatore sintetico, inesistente in natura. Infatti, sia il biossido di titanio non platinato, sia l'ossido ferrico, sia il minerale ilmenite - ossido misto di titanio e ferro - non producono amminoacidi nelle condizioni di reazione. Siamo, come si può vedere, ancora al punto di partenza. Passando poi alla seconda fase della "evoluzione chimica" quella in cui le "molecole prebiotiche" avrebbero reagito tra di loro per formare polisaccaridi, polipeptidi - e poi proteine - e polinucleotidi - e poi acidi nucleici -, che unendosi insieme avrebbero formato i primi organismi, le difficoltà salgono alle stelle. Qui il "caso" invocato dagli abiogenisti si rivela molto, molto intelligente. La prima difficoltà è data dalla attività ottica delle sostanze di origine biologica, dovuta alla dissimmetria sterica delle molecole. Gran parte delle molecole organiche sono dissimmetriche, ossia prive di piani di simmetria, così che possono esistere in due forme distinte, dette enantiomeri, che differiscono tra di loro per essere l'una la immagine speculare dell'altra così come la mano destra differisce dalla sinistra, donde il nome di molecole chirali - dal greco chéir, mano. La possibilità di distinguere tra di loro i due enantiomeri è data, appunto, dalla loro attività ottica: se la soluzione di un enantiomero, attraversata da un raggio di luce polarizzata, ne ruota il piano di polarizzazione, per esempio, verso destra, una soluzione uguale dell'enantiomero opposto lo ruoterà, a parità di condizioni sperimentali, di un uguale angolo verso sinistra. La miscela di eguali quantità dei due enantiomeri si chiama racemo e, ovviamente, non ruota il piano della luce polarizzata. Orbene, tutte le molecole chirali che fanno parte degli organismi biologici sono enantiomeri puri, e tutti della stessa configurazione cioè "tipo mano destra" o "tipo mano sinistra" -, a seconda della classe di molecole a cui

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appartengono. Così, tutti gli amminoacidi che entrano a fare parte delle proteine sono otticamente attivi - meno la glicina, che è simmetrica - e tutti hanno la stessa configurazione sterica, quella "tipo mano sinistra". Invece, tutte le sintesi di amminoacidi compiute dagli abiogenisti dànno luogo a miscele racemiche, dato che, per obbedienza al presupposto di partenza, sono compiute su reagenti non chirali, senza impiegare catalizzatori otticamente attivi. Addirittura, l'assenza di enantiomeri puri tra i prodotti è stata addotta come prova che gli amminoacidi non erano dovuti a contaminazione da parte di microorganismi. Ora, è difficile capire perché da reazioni casuali tra amminoacidi statisticamente distribuiti tra le due forme si sarebbero formati polipeptidi enantiomericamente puri; lo stesso dicasi per i "precursori prebiotici" dei polisaccaridi e degli acidi nucleici. Ma non basta. Nelle proteine, non solo la configurazione sterica, ma anche la sequenza degli amminoacidi è tutt'altro che casuale, come pure la sequenza delle basi puriniche e pirimidiniche negli acidi nucleici: entrambe sono strettamente ordinate alle funzioni biologiche della macromolecola all'interno dell'organismo; tra le sequenze di basi negli acidi nucleici e le sequenze di amminoacidi nelle proteine esiste una correlazione valida per tutto il mondo biologico - il codice genetico, basato sulla corrispondenza fra terne di basi e amminoacidi -, così che la struttura dei primi determina quella delle seconde. Polipeptidi statistici sono stati ottenuti da Fox riscaldando a 170°C una miscela di amminoacidi posti su un pezzo di roccia vulcanica, e dalla équipe romena di Simionescu - insieme con polisaccaridi a struttura non ordinata, pseudo-lipidi e impurezze varie - mediante esperimenti simili a quelli di Miller, ma condotti sotto vuoto alle temperature "siberiane" di -40°C e -60°C, anziché a pressione e a temperatura ambiente. I prodotti ottenuti, posti in soluzioni acquose, si aggregano in microsfere, talvolta delimitate da una membrana polisaccaridica, chiamate dagli autori modelli di "protocellule", ma che con le cellule autentiche non hanno proprio niente a che vedere: sono prive di attività metaboliche e riproduttive, in altre parole non vivono. Tutte le precedenti obiezioni alla "teoria abiogenetica" sono riconducibili a un semplice principio, ovvio per ogni mente sgombra da preconcetti: l'ordine non può nascere spontaneamente dal caos. Un organismo vivente è molto di più che un aggregato di molecole e di macromolecole organiche: è una forma organizzatrice, che costruisce e ordina queste molecole secondo un progetto strutturale, - è un sistema cibernetico dotato di un grado di informazione superiore a quello delle singole parti che lo compongono. "Quando dico che la vita trascende la fisica e la chimica, intendo dire che la biologia non può spiegare la vita, quale vi presenta oggi, in termini di semplice azione di leggi fisiche e chimiche". Prendiamo come esempio il codice genetico, a cui ho già accennato, e che consiste nella corrispondenza fra terne di basi nella struttura del DNA, o acido desossiribonucleico, e amminoacidi delle proteine. È un codice universale e, dal punto di vista chimico, arbitrario, sulla cui origine "invece che di "problema", si dovrebbe parlare di enigma. Il codice non ha senso se non è tradotto. Il

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meccanismo traduttore della cellula moderna comporta almeno cinquanta costituenti macromolecolari, anch'essi codificati nel DNA. Il codice genetico può dunque essere tradotto solo dai prodotti stessi della traduzione. È questa l'espressione moderna dell'omne vivum ex ovo. Ma quando e come questo anello si è chiuso su se stesso? È molto difficile anche solo immaginarlo" dice Monod, che qui, nel suo campo specifico, è rigoroso, salvo poi pretendere, poco dopo, di spiegare tutto con il solito binomio caso-necessità. La pretesa degli abiogenisti, che i vari componenti della cellula, formatisi spontaneamente nel "brodo prebiotico", secondo Fox, o nelle tempeste delle regioni polari, secondo Simionescu, si siano casualmente aggregati "inventando" il codice genetico "non appartiene neanche alla fantascienza, ma al delirio intellettuale". Allo scopo di rompere il circolo vizioso dell'uovo-DNA e della gallina-proteine, è stata recentemente proposta una nuova teoria sulla origine della vita, la "teoria ribotipica", che fa originare la cellula dalle ribonucleoproteine attraverso un meccanismo a catena di "quasi-replicazione". Una analisi della teoria esula dagli scopi presenti, rientrando piuttosto nel campo della genetica molecolare e della microbiologia; essa, tuttavia, dà per scontata la "evoluzione chimica", ossia la formazione spontanea di acido ribonucleico - RNA, diverso dal DNA - e di proteine. Ma, come si è visto precedentemente, tale "evoluzione chimica" è tutt'altro che scontata. In ogni caso, il "messaggio" contenuto nella struttura degli acidi nucleici costituisce uno "schema" ben preciso che non può essere riducibile a una sequenza statistica di nucleotidi. "Dobbiamo rifiutarci di considerare lo schema attraverso il quale il DNA diffonde informazione come parte delle sue proprietà chimiche. Il suo schema funzionale deve essere riconosciuto come una condizione al contorno posta all'interno della molecola del DNA". "Infine, una parola sul modo in cui le condizioni al contorno che controllano i processi fisico-chimici in un organismo possano aver avuto origine a partire da materia inanimata. Il problema è se la categoria logica delle mutazioni casuali includa o no la formazione di nuovi principi non definibili in termini di fisica e di chimica. Sembra molto improbabile che possa includerla". L'evoluzionismo viene quasi sempre presentato come una scienza esatta, ampiamente supportata dai ritrovamenti e dalla ricerca, e accettata da tutti gli scienziati. In realtà, l'evoluzione biologica come spiegazione delle origini della vita non è né una teoria né un fatto, ma è una mera assunzione aprioristica. Il piacere è il motore della vita ed è legato ad un principio fisico che possiamo già rilevare a livello atomico e molecolare. L’anima della Natura risiede negli stati vibrazionali, traslazionali, che armonizzano o disarmonizzano lo scambio di energia tra i vari costituenti dei micro o macro-organismi, scambio informazionale

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che ubbidisce ai principi della “musica”: l’energia né si crea né si distrugge, ma si trasforma attraverso processi informazionali mediante i quali si riceve e si trasmette costantemente energia e, al di là del tipo o della forma (visiva, acustica, olfattiva, gustativa, tattile…), quel che conta è come le varie informazioni (energia) vengono combinate fra loro dando luogo a processi di armonia o disarmonia. Il nostro cervello è in grado di rilevare fin dalla nascita la fisicità dell’armonia o della disarmonia, a cui corrispondono per effetto una serie di risposte biofisiche e biochimiche ormai identificate come stati di benessere o di malessere. Tutti i sistemi scambiano costantemente energia producendo evoluzione e indirizzando i sistemi stessi verso un equilibrio dinamico, la cui utilità risiede non nella procreazione ma nell’evoluzione. Il concetto di procreazione deve essere ampliato: non si “procreano” solo bambini o cuccioli di animale, ma anche idee, pensieri, azioni nonché, a livello atomico e sub-atomico, nuovi atomi e nuove particelle. Quando lo scambio di informazioni tra sistemi fisici avviene senza violenza e per risonanza, si produce piacere, ovvero uno stato di trasformazione della materia in energia: come dire che l’acqua, ricevendo energia, si trasforma in vapore producendo nelle sue molecole uno stato vibrazionale di maggiore libertà che potremmo definire come uno “stato di benessere” per le molecole e per gli atomi. Il piacere, quindi, trova la sua spiegazione in fisica come stato armonico vibrazionale che si trasferisce costantemente ai sistemi fisici circostanti. Il sorriso di un bambino dà gioia, così come una carezza che esprime amore o un prato fiorito; uno sguardo triste, un gesto “violento”, una situazione disarmonica provocano sofferenza. Ognuno di noi può creare vibrazioni armoniche, o informazioni armoniche, al fine di favorire un processo evolutivo cosciente e consapevole che può sostituire al principio darwiniano dello stato di necessità, che favorisce il più forte e il più adatto, il principio evolutivo dell’energia, che favorisce l’energia più armonica la cui evoluzione trasforma la violenza in un processo che alimenta livelli di coscienza e creatività sempre maggiori. Tali forme di “coscienza” le troviamo in tutti i sistemi fisici: come in una cellula il DNA costituisce il vero e proprio cervello della cellula stessa, così in un atomo il dinamismo del nucleo, ovvero delle cariche di energia che guidano e mantengono lo stato di equilibrio dinamico, rappresenta l’evoluzione della “coscienza” dell’atomo. Non a caso i nostri organi di senso sono in grado di rilevare la differenza che esiste tra un frutto prodotto con concimi chimici industriali da un frutto prodotto con concimi naturali che hanno seguito tutti i loro processi evolutivi all’interno dei sistemi naturali stessi, nei quali si sono arricchiti di “esperienze vibrazionali” che hanno poi trasferito ai frutti. Le leggi di Natura sono perfette e non conoscono errori o casualità; ma l’evoluzione culturale ha condotto a codificare e decodificare tali leggi in principi e concetti astratti, costruendo modelli teorici che nulla o poco dicono dell’anima della Natura. Molti ragazzi a scuola non amano materie come la fisica, la chimica,

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la biologia… Questo perché sono un “prodotto scientifico” creato spesso con artifizi che ignorano l’anima della Natura, ovvero con interpretazioni che generano modelli astratti, logico-matematici, prodotti con strumenti simbolici dissociati dallo stato vibrazionale della materia e dell’energia che, nei processi naturali, trova la sua massima espressione. Gli esseri umani, più che dalla scuola e dall’università, imparano dall’osservazione e dalla risonanza con la Natura traendone informazioni utili alla propria crescita e al proprio arricchimento, informazioni che quando vengono codificate dall’emisfero sinistro del cervello in teorie e modelli astratti, tolgono, a ciò che era stato acquisto e scoperto, gli aspetti armonici esperienziali – ovvero emozionali – percepiti e vissuti dall’emisfero destro. L’evoluzione delle conoscenze scientifiche consente al vero scienziato di risuonare con l’anima della Natura e la Natura stessa, con gioia, offre la propria anima vibrazionale che si traduce in conoscenza, coscienza ed evoluzione. L’attuale paradosso dell’evoluzione umana vede la donna e l’uomo in un conflitto talvolta parossistico, le cui radici risiedono nel bisogno di soddisfare esigenze di piacere, giustizia, libertà, amore. Tale conflitto nasce, infatti, dalla grande confusione che si genera all’interno dei cervelli fin dalla nascita, prodotta dall’ignoranza informazionale che nega a priori il diritto di nascita di ciascuno di svilupparsi e crescere in armonia e senza violenza: il “bastone” è violenza, la “carota” è un malefico trucco che priva l’essere della spinta evolutiva verso la ricerca della verità e della libertà. Il metodo del bastone e la carota è ancora in uso nei cosiddetti processi educativi e formativi ed ha portato l’umanità verso il rifiuto della vita e verso la degenerazione dell’armonia che dà vita ad una nascita… e che dà vita alla vita. L’uomo ha sperimentato l’arroganza della propria ignoranza: una cultura ignorante vuole dominare la Natura, ma la Natura non può essere dominata né imprigionata in schemi e modelli preformati. L’intelligenza della Natura deve diventare la nostra intelligenza, con la quale è possibile scambiare energia creativamente, producendo piacere e gioia a tutti i livelli, e contribuendo all’evoluzione culturale, sociale, politica ed economica di tutte le società del mondo, in sintonia con l’evoluzione armonica del mondo fisico e biologico. Siamo talmente abituati alla vita che spesso ci dimentichiamo di una straordinaria avventura: quella di una semplice cellula fecondata, una cellula così piccola da essere invisibile a occhio nudo, che moltiplicandosi in miliardi di altre cellule riesce a diventare, in soli nove mesi, un Homo sapiens. E' la nostra storia. Tutti noi, infatti, partendo da una minuscola sferula di qualche millesimo di millimetro, ci siamo "autocostruiti", diventando individui capaci di vedere, pensare, risolvere problemi, lottare, amare, o anche inventare macchine e comporre musiche. Tale impresa, che ha del prodigioso, avviene nel buio del ventre materno. E' dentro questo piccolo universo subacqueo che le cellule cominciano a differenziarsi e a

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collocarsi ognuna al posto giusto, nel momento giusto. Una specie di scultura che si plasma da sola e che pian piano dà origine a un essere ogni volta unico. Questi nove mesi sono il riassunto dell'evoluzione della vita sulla Terra: partendo da una cellula che vive in assenza di ossigeno, l'embrione attraversa vari stadi di complessità, con "accenni" alle varie tappe evolutive, fino ad approdare al modello finale dell'essere umano, dotato di un cervello strabiliante. E' una storia nascosta, che si dipana nel mondo invisibile dell'utero, e che nessun uomo ha mai potuto osservare. Oggi la ricerca, in base alle scoperte che stanno avvenendo nei laboratori di tutto il mondo, ci permette di penetrare nell'universo segreto dell'embrione e di capire che cosa veramente vi succede. Ma è anche la storia dei nove mesi visti dalla parte della madre. Al "piano di sopra", infatti, la madre vive questo evento in parallelo: e oggi si riesce a comprendere il perché di tanti avvenimenti che si producono in gravidanza. Il corpo della madre, infatti, in quei nove mesi si trasforma per creare l'habitat giusto, mentre fiumi di ormoni si riversano nei suoi vasi sanguigni per stimolare adattamenti di ogni tipo: nasce la placenta, il seno si predispone all'allattamento, il cuore pompa quasi il 50% in più di sangue e anche il comportamento subisce l'influenza di questa tempesta di cambiamenti. Tutto converge poi nel grande evento finale: la nascita. Nel giro di qualche minuto questo nuovo essere passerà dalla vita subacquea a quella terrestre, dal buio pesto alla luce abbagliante, dal caldo costante della vita interna alla varietà delle temperature esterne; mentre la madre compie quel prodigioso exploit fisico che è il parto. L'origine della vita è probabilmente il risultato di un lungo e lento processo di evoluzione della materia. Gli atomi che costituiscono gli organismi viventi si sono formati nello spazio e sulla Terra si sono aggregati per formare molecole complesse. Queste hanno dato luogo a strutture organizzate che hanno portato gradualmente ai primi individui dotati di cellule. Le recenti scoperte di pianeti extrasolari rende attuale l'ipotesi della vita in altre parti dell'Universo. La teoria della generazione spontanea della vita, già espressa da Aristotele nel III sec. a. C., pur avendo goduto di largo seguito per quasi duemila anni è stata definitivamente confutata, nel 1863, da Louis Pasteur, che ha dimostrato come qualsiasi forma di vita, anche la più microscopica, non può che originarsi da altra vita. Ma è sempre stato così? Un approccio di tipo "abiogenetico" (vita originata dalla non vita) sembra essere indispensabile almeno per caratterizzare le prime fasi di sviluppo del fenomeno. Infatti, tutte le teorie attuali cercano di definire uno scenario inorganico, all'interno del quale collocare elementi chimici primordiali dalle cui interazioni il fenomeno può aver avuto origine. A questo approccio "abiogenetico" è necessario, tuttavia, aggiungere la coscienza dell'esistenza di una fenomenologia "evolutiva" che solo

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recentemente è stata acquisita. Tale coscienza consente, infatti, di immaginare una "vita in evoluzione" non statica e immutabile (teorie fissiste), una vita che nasce e si sviluppa, una vita che cambia nel corso di un tempo enorme. Il merito di aver offerto alla Scienza un'organica teoria evolutiva e di aver individuato per essa un meccanismo immanente (Selezione Naturale) mediante il quale tale evoluzione avrebbe potuto avvenire, va attribuito al genio di un naturalista inglese, Charles-Robert Darwin (1809-1892). Nella visione evoluzionista (visione che ha avuto, nel frattempo, notevoli sviluppi sia concettuali che sperimentali) la vita sulla Terra non si manifesta attraverso forme immutabili e statiche, ma in forme dinamiche e mutevoli. Nel corso di un tempo enorme (della cui vastità non si è avuta coscienza fino al XIX secolo) queste forme sono cambiate, diversificate, via via modulandosi sempre più all'ambiente chimico-fisico che le accoglie, anch'esso caratterizzato da un estremo dinamismo. Ma in che modo la vita può riaffermare la propria esistenza in un ambiente mutevole che può rendere limitante quello che ieri era premiante e viceversa? Attraverso la sua capacità di offrire, generazione dopo generazione, varianti di se stessa, varianti in grado di proporsi come ulteriori alternative di vita all'ambiente. La valenza adattativa, in termini di sopravvivenza, di queste varianti viene sottoposta al vaglio della Selezione Naturale, vero motore evolutivo, che seleziona, tra le innumerevoli variabili, solo le più idonee a cui viene consentito di sopravvivere e di svilupparsi fino a quando le variazioni indotte nell'ambiente dalle leggi chimico-fisiche e dalla stessa attività biologica non imporranno un nuovo mutamento (appare chiaro, in tale contesto, l'enorme importanza, in termini evolutivi, della riproduzione sessuale). In questo continuo inseguimento la vita cambia, potendo raggiungere livelli strutturali e funzionali di sempre maggiore complessità o comunque di equilibrio rispetto alla pressione selettiva. Ripercorrendo a ritroso questo processo, seguendone le tracce nella documentazione fossile, nella dinamica geologica della Terra, nelle strutture e nella funzionalità che caratterizzano le forme viventi attuali, ci accorgiamo che la vita si è mossa lungo linee filetiche che legano tra loro tutti gli organismi viventi e che convergono in un punto che rappresenta la prima manifestazione del fenomeno. La visione evoluzionistica, quindi, ci costringe a risalire nel tempo verso forme di vita sempre più semplici e questo ci conduce necessariamente alla scoperta, almeno sul piano concettuale, della prima "cellula vivente". Tuttavia, una tale conquista concettuale impone di considerare anche una serie di paradossi di non facile soluzione, che ricordano un po' quello famoso dell'uovo e della gallina. Se spingiamo lo sguardo fino al limite di ciò che noi chiamiamo vita, cioè le più semplici strutture biologiche in grado di esprimere il fenomeno, osserviamo che questa struttura vivente (ad esempio un batterio) presenta comunque una funzionalità metabolica e genetica molto complessa, che si basa sul possesso di molecole organiche essenziali ma che sono esse stesse il frutto di tale funzionalità. Zuccheri, grassi, proteine, acidi nucleici sono attualmente fabbricati

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solo da sistemi viventi: come sono potuti comparire prima dei sistemi viventi di cui rappresentano la struttura o il prodotto funzionale? Sappiamo che gli organismi animali (eterotrofi) non sono in grado di sopravvivere senza gli alimenti sintetizzati dalle piante (autotrofi); sembrerebbe quindi legittimo cercare l'origine della vita tra i vegetali primitivi (alghe autotrofe). Questi organismi, tuttavia, necessitano di un sistema di estrazione dell'energia solare e di un sistema di utilizzazione di questa energia estremamente complicato, per essere considerato nel corredo funzionale dei primi viventi. Inoltre, l'elemento essenziale a tale processo è la clorofilla, altro prodotto di esclusiva sintesi dei viventi. Tutte le attuali reazioni vitali sono regolate da enzimi, a loro volta informati dal DNA, a sua volta montato da enzimi: chi è stato il primo? Tenendo conto di tutti questi paradossi e della visione evoluzionistica, negli anni Trenta il biochimico russo Alexsandr Ivanovic Oparin e il biologo inglese John Burdon Sanderson Haldane formularono la prima delle cosiddette "teorie chimico-biologiche", secondo le quali la vita si è sviluppata sul nostro pianeta per evoluzione a partire da molecole non biologiche. Nella loro teoria i due studiosi cercarono di superare molti dei circoli viziosi prima esposti. Bisogna ricordare che l'evoluzione biologica, cioè la nascita e lo sviluppo della vita sulla terra, è stata preceduta dalla evoluzione cosmica, la trasformazione che ha dato vita al nostro sistema solare. Secondo calcoli geochimici il sistema solare e quindi i pianeti si sono formati circa 4,6 miliardi di anni fa. Probabilmente, all’inizio la Terra era una massa omogenea fredda; ma il calore sviluppato dalla sua contrazione e dal decadimento degli elementi radioattivi ne rese l’interno sempre più denso e caldo e intorno ai quattro miliardi di anni fa, era ormai diventata una sfera infuocata ricoperta solo da una sottile crosta solida. Con la liberazione dei gas che si erano formati nella massa fusa, cominciò a formarsi una primitiva atmosfera, la cui composizione probabilmente era simile a quella dei gas che ancora oggi fuoriescono dai vulcani: idrogeno, vapore acqueo, idrocarburi semplici come il metano, idrogeno solforato, anidride solforosa, monossido di carbonio e anidride carbonica. Questa primitiva atmosfera era quasi certamente priva di ossigeno libero; l’ossigeno era presente soltanto in composti chimici quali l’acqua e l’anidride carbonica, e nelle rocce silicee. Era quindi un’atmosfera riducente, un fatto che ha favorito la nascita della vita. Infatti, molte molecole biologiche, tra cui gli amminoacidi e i nucleotidi, non possono formarsi spontaneamente in presenza di ossigeno, dato che questo elemento reagisce con esse e le modifica chimicamente. Inizialmente il vapore acqueo non faceva in tempo a condensare che il calore intenso la faceva rievaporare immediatamente. Col tempo la crosta terrestre si

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raffreddò e la pioggia cominciò a estrarre sali minerali dalle rocce e ad accumularsi nelle depressioni della crosta formando così i primitivi oceani. E negli oceani si è formata la prima cellula, e dalla prima cellula i primi organismi viventi fino all'uomo con la sua coscienza. L'ultima cosa che l'uomo scopre è sé stesso. E' una verità strana, eppure universale, che la sete umana della conoscenza debba cominciare da quello che è ; più lontano e finire con quello che è più vicino. L'uomo primitivo ha studiato i cieli, ma soltanto l'uomo moderno comincia ad esplorare i misteri della propria anima. Moltissimi uomini sono un mistero per sé stessi; molti sono perfino inconsci della esistenza del mistero. Se noi dovessimo domandare ad un uomo comune che cosa sia lui, l'essere umano vivente che accada quando egli pensa, sente, agisce; e quale sia la causa della lotta fra il bene e il male, che egli pur sente entro il suo petto, non solo egli non saprebbe rispondere, ma le domande stesse gli apparirebbero strane e nuove. Eppure, che cosa è più strano del fatto che un essere umano possa attraversare la vita, sopportarne le vicissitudini, soffrirne le miserie, comuni a tutti gli uomini, goderne i caduchi piaceri, portarne il perpetuo fardello, senza mai chiedere perché? Se noi vedessimo un uomo viaggiare con grande incomodo e numerose difficoltà, e se chiestogli dove vada ci sentissimo rispondere che questa domanda non gli si è mai affacciata alla mente, lo riterremmo certamente pazzo. Eppure, questa è precisamente la condizione della maggioranza degli uomini nella vita comune. Essi compiono il viaggio dalla vita alla morte, si arrabattano nel faticoso cammino della vita, e non chiedono mai perché, o tutt'al più si pongono superficialmente il problema, senza curarsi poi in realtà di trovare una risposta. Ma viene per ogni anima, nel suo lungo peregrinare, il momento in cui la vita diventa impossibile se non ne conosce il perché; delusa del mondo circostante che non può mai darle una soddisfazione durevole, essa desiste per un momento dal frenetico inseguimento delle illusioni, e completamente esausta si ferma, silenziosa e sola. In quel punto è nata nell'anima la coscienza di un nuovo mondo; in quel punto, stornando il viso dal fascino del mondo circostante, essa scopre la sempiterna realtà del mondo interiore, del mondo dell'Io. Allora, e soltanto allora, le domande della vita trovano risposta; però, come dice Emerson, l'anima non risponde mai con parole, ma con la stessa cosa richiesta. Viviamo in un'epoca di estremismi e di contrasti impressionanti in cui le più straordinarie scoperte scientifiche nel Regno Materiale coincidono con quelle ancora più sorprendenti del futuro della Coscienza. Ma se le prime sembrano reali scoperte, le seconde non sono altro che riscoperte della Conoscenza degli Antichi. Infatti realizziamo poco alla volta che gran parte di questa conoscenza scartata dai razionalisti come semplice superstizione, non può essere ignorata o negletta in modo così sistematico e che i fenomeni supernormali (paranormali), prima attribuiti all'intervento sporadico della divinità, erano solo manifestazioni di forze naturali, in mano a coloro che le sapevano manipolare o facoltà percettive ancora

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sopite nella maggior parte degli uomini. Così, quello che una volta era chiamato con devozione "miracolo", è oggi considerato più freddamente come un caso di chiaroveggenza, chiarudienza, mesmerismo ipnotico, guarigione metafisica o magnetica, secondo le circostanze. L'uomo ha scoperto che queste facoltà sono in lui e possono essere, in parte, sia ereditate sia scientificamente sviluppate grazie agli insegnamenti di un maestro qualificato. In tal caso è possibile provare a se stesso con le sue proprie percezioni l'esistenza dei piani superfisici, stati superiori di coscienza, delle molteplici entità disincarnate e dei numerosi poteri e potenzialità di cui aveva, fino ad allora, ignorato l'esistenza. Attendendo di possedere queste facoltà, fa dipendere la sua conoscenza dalla testimonianza di coloro che le hanno acquisite, nello stesso modo in cui accetta come vere le testimonianze scientifiche degli scienziati sull'astronomia, o altri fenomeni scientifici che non ha il desiderio o la possibilità materiale di scoprire da solo. In una parola la scienza occulta è, nel minimo dettaglio, altrettanto scientifica di quella della materia ed il fatto che ci siano occultisti mediocri, indifferenti o fraudolenti non può rimettere in ogni modo in causa la Verità stessa. Oggi viviamo nel mezzo di una delle più profonde, e certamente più veloci, trasformazioni della storia dell'umanità. All'alba del prossimo secolo quasi tutti gli aspetti e le attività della vita umana saranno esercitati all'interno di interazioni globali, di mercati globali, di tecnologie globalmente efficienti e informazioni circolanti in un sistema globale. Vivere e agire nelle nuove condizioni comporterà pertanto un diverso modo di agire e di pensare. Anche a causa della velocità con la quale l'era prossima sta irrompendo su noi, nella nostra generazione e nella generazione dei nostri figli non si sono ancora evoluti la logica, i valori e le pratiche necessari. Nella maggior parte dei casi stiamo per ora cercando di fronteggiare le condizioni della emergente società del XXI secolo con le forme di comportamento del sistema industriale del XX secolo. Questo, tuttavia, equivale al tentativo di vivere nelle città industriale degli anni 90 con la forma mentis dei villaggi feudali del Medioevo. È insufficiente e, a causa della vulnerabilità delle nostre temporanee strutture sociali ed ecologiche, perfino pericoloso. Il pericolo riguarda tutti noi. Ecco perché la maieutica strutturale oggi, come resa concreta dai gruppi attivi, è essenziale. Non si può risolvere un problema fondamentale con il modo di pensare che ha originato il problema. Come ha detto Einstein. Non possiamo raggiungere la prossima tappa della nostra evoluzione collettiva senza dare origine a un nuovo modo di sentire e di agire. Far nascere è un processo difficile e spesso doloroso: è necessario aiutarlo con una pratica " maieutica ". Abbiamo bisogno di una percezione del mondo e di noi stessi integrata. Il compito epocale che ci aspetta e di fare evolvere modi di vivere e di agire che siano appropriati all'era delle informazioni diffuse globalmente, nella quale siamo tutti proiettati. Questi, a loro volta, dipendono da corrispondenti nuovi modi di pensare. E non solo modi di pensare, perché non siamo solamente creature

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razionali. Essi dipendono anche dai sentimenti e dalle intuizioni, dai modi di percepire noi e gli altri. Non possiamo ritornare a quelli del passato: un essere umano si definisce nelle relazioni con la natura e con la società contemporanea. La società, la natura stessa si evolvono, cambiano e si trasformano. Dobbiamo riscoprire la nostra umanità, la nostra identità e il nostro ruolo. Il metodo strutturale maieutico aiuta le persone, specialmente i giovani la cui generazione non può più evitare e ignorare il compito epocale di tener fede alle trasformazioni che sono in divenire, a identificare se stessi, a conquistare la giusta fiducia in sé e nel proprio ruolo. Ciò è vitale per tutti noi. Evolvere la conoscenza e l'intuito che può dare origine a modi di vivere e di agire efficienti e responsabili è l'immane compito dei nostri tempi: aiutare la nostra e la futura generazione a dare alla luce il nuovo pensare, sentire, percepire. Nella nostra epoca che si avvia alla comunicazione a livello mondiale, nuove idee e valori si diffondono rapidamente nei cinque continenti, malgrado le resistenze inerziali: essi corrispondono a un bisogno profondamente sentito nella società. I giovani insoddisfatti dei credi e delle forme tradizionali di esistenza, sono in cerca di modi di costruire la vita più significativi ed efficienti. Il mondo contemporaneo è maturo per un importante passo avanti nella sua coscienza collettiva. Il comunicare autentico, il processo strutturale maieutico, come la scienza e la cultura, sono fattori profondamente influenti nel raggiungere il prossimo stadio dell'evoluzione collettiva.

La vita è nata dall'acqua.

Circa 4 miliardi di anni fa si sono sviluppate le prime forme di vita nell'acqua. Tra lampi, eruzioni vulcaniche, cadute di meteoriti, irradiazioni UV e radioattive è stato possibile il miracolo della vita.

Le forme primitive di vita non erano ancora cellule, bensì formazioni sferiche che erano in grado di riprodursi e presentavano un metabolismo. Da esse nel corso di milioni di anni e con la protezione dell'acqua si sono sviluppate le prime cellule, dalle cellule i batteri e infine gli esseri viventi più complessi.

Nei primi 3,4 miliardi di anni (circa l'85% del tempo da cui esiste la vita) gli organismi viventi si sono formati, sviluppati e diffusi esclusivamente nell'acqua.

Circa 600 milioni di anni fa quando l'atmosfera conteneva già un po' di ossigeno e il filtro di ozono nella stratosfera ha iniziato a proteggere dai letali raggi UV gli organismi hanno conquistato la terraferma. Per prime vi si sono insediate piante primitive accompagnate da riciclatori come i batteri, i vermi, i ragni, gli scorpioni, le lumache. Poi sono seguiti i vertebrati. Uno dei compiti più importanti dell'organismo era garantire il bilancio dell'acqua. Ogni animale portava con sé il proprio oceano sulla terraferma

Si svilupparono delle strategie di sopravvivenza.

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Furono sviluppate numerose strategie per il mantenimento del volume idrico: • gli animali terrestri e le piante formarono una pelle permeabile all'acqua. • trasporto dell'acqua: assorbimento di acqua delle piante attraverso finissime

radici, attraverso una superficie fino al 2000% maggiore e ingrandita per garantire l'assorbimento di acqua dal terreno

• l'effetto capillare dell'acqua le consente di salire attraverso un tubetto sottile fino a 80 cm - un apporto di energia

• traspirazione: da piccolissimi fori presenti sulle foglie l'acqua evapora. Ciò produce un'aspirazione verso le foglie e le sostanze nutritive vengono assorbite dalle radici insieme all'acqua. L'energia viene fornita dal sole.

• l'acqua si occupa anche dell'eliminazione dei prodotti di scarto che sono in parte velenosi. Negli esseri viventi sviluppati la velenosa ammoniaca di scarto viene trasformata in innocua urina ed espulsa. In speciali organi (i reni) viene trattenuto più liquido possibile espellendo per quanto possibile solo i prodotti di scarto. Forti perdite di acqua infatti sono letali, negli esseri umani è sufficiente già il 15% per causare la morte.

• Gli animali terrestri sono anche costretti a regolare la propria temperatura corporea.

La gestione dell'acqua è di importanza fondamentale e vitale per tutti gli esseri viventi. L’acqua è sempre stata una risorsa preziosa ed indispensabile per la vita dell’uomo e di ogni essere vivente. Solo dove c’è acqua c’è vita nell’universo conosciuto. Nella cultura primitiva l’acqua fu considerata il principio femminile della fertilità. Talete di Mileto (624 - 546 a.C), il primo che iniziò la riflessione scientifico-filosofica sulla natura che è tutt’oggi alla radice della tradizione culturale Europea, designò l’acqua quale elemento primordiale, in quanto l’acqua spenge il fuoco, scioglie la terra e assorbe l’aria, ed inoltre in seguito alla considerazione che ogni altro elemento che combinandosi con l’acqua dà luogo ad ogni essere del sistema vivente, doveva esso stesso essere originato dall’acqua, da quest’ultima infatti nasce la vita, così nel mare come nel grembo della madre. Le manifestazioni che associano alla sacralità dell’acqua e quindi del mistero che la correla strettamente alla vita, sono molte in tutto il mondo ed in tutte le culture antiche e recenti. Purtroppo oggigiorno spesso si è persa memoria del loro antico significato rituale e propiziatorio che generava un rispetto per l’acqua e la sua decisiva importanza per la vita. La proprietà del ghiaccio di galleggiare sull’acqua liquida è decisamente importante per il mantenimento della vita sulla terra, perché‚ le superfici ghiacciate, galleggiando, tengono protetti gli strati sottostanti da successivi

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raffreddamenti, così che essi rimangano liquidi; pertanto diviene possibile il perpetuarsi della vita acquatica sotto lo strato di ghiaccio superficiale. Per capire la importanza dell'acqua bisogna infatti pensare che gli esseri viventi, noi compresi, sono fatti in gran parte di acqua. Gli esseri viventi primitivi sono formati da piccole cellule, chiuse entro una membrana, nella quale la percentuale di acqua è oltre il 98%; i primi animali sono stati probabilmente simili alle attuali "meduse", la cui composizione ‚ di circa il 95% di acqua. Le piante hanno anche esse una alta percentuale di acqua nelle loro composizione, (in media l'80%) e gli animali che hanno uno scheletro, (ed anche l'uomo) hanno una composizione media nella quale l'acqua e circa il 70 %. L'acqua‚ quindi una sostanza importantissima per la vita sulla terra, ma la scienza non è ancora riuscita a capire completamente le relazioni tra l'acqua e la vita. Possiamo quindi dire che l'acqua per molti aspetti è ancora un mistero per la scienza. Certamente sappiamo noi come gli antichi che dove non c'è acqua non c'è vita. Nel 1997 il satellite ISO ha puntato i suoi occhi verso la Nebulosa di Orione, distante 1500 anni-luce. L'analisi dei dati rilevati è stata terminata solo nel 2001 ed ha portato a conclusioni sorprendenti. La sorpresa è arrivata dalla rilevazione di alcune righe infrarosse in emissione (spettro elettromagnetico) del vapore d'acqua. La quantità rilevata corrisponde a circa una molecola di acqua ogni 2000 di idrogeno, ovvero una quantità 100 volte superiore a tutta quella esistente sulla Terra. Gli studi compiuti dalle osservazioni dei satelliti SWAS e ISO portano alla tesi che l'acqua esiste sicuramente nelle nubi diffuse che ospitano la nascita di nuove stelle come la regione di Orione. La scoperta dell'acqua avviene anche nelle protostelle (le stelle in formazione) sia di grandi dimensioni che di piccole dimensioni. All'interno di oggetti protostellari massicci è stata rilevata la presenza di righe di assorbimento del vapore d'acqua eccitato a 30° C. E' probabile che a surriscaldare l'ambiente gelido spaziale sia stata la collisione tra il materiale circostante la protostella e i getti emergenti dal suo asse polare. L'onda d'urto avrebbe innescato la produzione di una grande quantità d'acqua quantificata in 1 molecola ogni 10.000 molecole di idrogeno. Se la componente dell'acqua nelle nubi calde o nelle protostelle è in prevalenza sotto forma di vapore, la componente presente nelle nubi interstellari fredde (le stelle che potrebbero dare vita a nuove stelle) è totalmente sotto forma di ghiaccio. Le analisi dei dati rilevati da altre ricerche effettuate nel 2001 hanno rivelato che l'acqua sotto forma di ghiaccio è presente nella stessa quantità che nelle nubi protostellari. In termini pratici è stato calcolato che per una nube fredda di medie dimensioni c'è una massa d'acqua sufficiente a 3000 pianeti come la Terra.

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Nella formazione di un eventuale sistema planetario ci sarà sempre acqua a disposizione che in parte si distribuirà nella parte interna dei pianeti privilegiati e in parte si conserverà in forma primordiale all'interno di oggetto che non subiranno evoluzioni come comete, asteroidi e meteoriti. Gli studi dell'origine della vita sulla Terra ci dicono quasi con certezza che i primi organismi viventi si sono sviluppati nei mari e i primi organismi complessi si sono allontanati emergendo dalle acque ed occupando le terre costiere per divenire organismi terrestri. Come è potuto accadere tutto ciò? Per comprendere i processi e i sistemi della natura e per osservare gli organismi che attivano tali processi, si è visto come il vero motore che innesca i processi vitali sulla Terra sia il Sole. Questa stella emette diverse radiazioni luminose sia visibili al nostro occhio sia invisibili. Tra queste ultime ci sono le radiazioni o raggi ultravioletti, estremamente dannosi per la struttura di tutti i viventi. Attualmente questi raggi arrivano in misura assai ridotta sulla Terra perché vengono in gran parte assorbiti dall'ossigeno e dall'ozono presenti nell'atmosfera. La diminuzione di questo gas O3 nella nostra atmosfera, il cosiddetto buco d'ozono, causato dal fenomeno dell'inquinamento atmosferico provoca oggi molte preoccupazioni per i danni che può causare alla salute dell'uomo. All'inizio della storia della Terra l'atmosfera era priva di ossigeno, perché le piante, con la loro attività di fotosintesi clorofilliana, non avevano contribuito ad arricchirla di questo prezioso gas e ciò rendeva la Terra assolutamente inabitabile per tutti gli organismi. L'acqua, a differenza dell'atmosfera, assorbe i raggi ultravioletti rendendo possibile la vita subacquea. Queste considerazioni e la conferma sperimentale, avuta dal ritrovamento di reperti di organismi marini, hanno suggerito agli scienziati che la vita è proprio iniziata nei mari, a profondità tali da poter essere raggiunte dalla luce del Sole, che a sua volta, attivando la fotosintesi clorofilliana, rendeva possibile la vita ai primi organismi vegetali. La natura è una realtà stupenda. È esaltante conoscerne i segreti: la vita intima delle piante, degli uccelli, dei pesci negli abissi marini, le leggi degli astri nella volta celeste... Ma la prima meraviglia da conoscere ed ammirare è la vita umana! La vita umana non ha paragoni al mondo. Pensiamoci... L'essere umano è il prodigio più grande dell'universo. In lui, solo in lui si accendono misteriosamente coscienza, espressione, esperienza morale, nostalgie, tragedie e dedizioni di amore, tutte cose che fanno di lui - errori e dolori compresi - la parte più nobile della creazione. Il corpo stesso dell'uomo è degno dell'immensità del suo spirito: le cellule del nostro corpo - miliardi e miliardi di cellule - sempre al lavoro e sempre percorse da una dolce fluorescenza energetica sono mille volte più numerose delle stelle del

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nostro cielo; eppure questo nostro organismo incredibilmente sofisticato si realizza da una scintilla microscopica, in soli nove mesi! La vita lotta per l'esistenza contro l'entropia crescente. Questa lotta continua a tutti i livelli ed è sotto gli occhi di tutti. Anche il pianeta si trova a dover affrontare questa lotta per la sopravvivenza. Fra qualche miliardo di anni anche il sole smetterà di splendere. Ma anche nell'immediato le prospettive di sviluppo non sono rosee, l'uomo quale responsabile della punta dell'evoluzione e anche del degrado ambientale deve operare verso prospettive di sviluppo sostenibile. Prospettare linee di sviluppo che consentano alle generazioni future di continuare sulla strada dell'evoluzione sia biologica che culturale. Che dire del magnifico progetto insito nelle cose che vediamo tutt’attorno a noi sulla terra, come ad esempio in tutti gli organismi viventi, anche nella più piccola cellula vivente? Perfino le molecole e gli atomi, molto più piccoli, che si trovano all’interno della cellula sono progettati e organizzati in maniera meravigliosa. Che dire poi della mente umana, progettata così splendidamente? E ancora, che dire del sistema solare, e della nostra galassia, la Via Lattea, e dell’universo? L’Encyclopedia Americana fa notare “lo straordinario grado di complessità e di organizzazione delle creature viventi” e dice: “A un attento esame, fiori, insetti e mammiferi rivelano un’architettura dalla precisione quasi incredibile”. L’astronomo inglese sir Bernard Lovell, riferendosi alla composizione chimica degli organismi viventi, ha scritto: “La probabilità che . . . un evento casuale abbia portato alla formazione di una delle più piccole molecole proteiche è inconcepibilmente piccola. . . . è sostanzialmente nulla”. Sullo stesso tono l’astronomo Fred Hoyle ha detto: “L’intera struttura della biologia ortodossa continua . . . a sostenere che la vita sia sorta per caso. Ma quanto più numerose sono le scoperte dei biochimici circa la grandiosa complessità della vita, tanto più diventa evidente che le possibilità di originarla per caso sono così piccole da poter essere completamente scartate. La vita non può avere un’origine casuale”. — L’universo intelligente, trad. di G. Paoli e R. Morelli, Mondadori, Milano, 1984, pp. 11, 12. La biologia molecolare, una delle più recenti branche della scienza, è lo studio degli organismi viventi a livello di geni, molecole e atomi. Il biologo molecolare Michael Denton, commentando ciò che è stato scoperto, dice: “La cellula più semplice che si conosca è talmente complessa che è impossibile accettare che un oggetto del genere sia stato messo insieme per caso da qualche evento bizzarro, estremamente improbabile”. “Ma non è solo la complessità dei sistemi viventi a sfidare l’immaginazione, c’è anche l’incredibile ingegnosità così spesso manifesta

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nella loro struttura”. “È a livello molecolare che . . . il genio del disegno biologico e la perfezione degli obiettivi raggiunti sono più pronunciati”. Denton dice inoltre: “Ovunque guardiamo, a qualsiasi livello guardiamo, troviamo un’eleganza e un’ingegnosità di qualità assolutamente superiore, che tanto indebolisce l’idea del caso. Si può veramente credere che processi fortuiti abbiano costruito una realtà il cui elemento più piccolo — un gene o una proteina funzionale — è di una complessità che va oltre le nostre proprie capacità creative, una realtà che è l’antitesi stessa del caso, che supera in ogni senso qualsiasi cosa prodotta dall’intelligenza dell’uomo?” E aggiunge: “Tra una cellula vivente e il sistema non biologico più altamente organizzato, come un cristallo o un fiocco di neve, esiste l’abisso più vasto e assoluto che si possa concepire”. Chet Raymo, professore di fisica, dichiara: “Sono affascinato . . . Ogni molecola sembra miracolosamente ideata per il suo compito”. Queste considerazioni ci portano a presupporre un creatore o forse leggi naturali che ancora non conosciamo, leggi che governano la vita e la materia. Leggi naturali che consentano l'auto-organizzazione della materia, oppure che introducano lo spirito vitale quale artefice dell'evoluzione dei viventi. Da sempre la ricchezza della vita psichica umana ha portato all'idea dell'esistenza dell'anima, di una realtà trascendente la materia inerte. La scienza moderna ha demolito questa idea, ma forse è giunto il momento di reintrodurla nel bagaglio delle conoscenze investigabili dalla scienza stessa. Molti fenomeni ed esperienze psichiche inspiegabili per la scienza trovano una giusta collocazione nel regno dello spirito e dell'anima trascendente. È questo il campo della parapsicologia in cui vengono investigati con metodo scientifico gli aspetti più sorprendenti del mondo dell'occulto. Ma anche la scienza ufficiale si imbatte in misteri e paradossi, in particolare la meccanica quantistica risulta di difficile interpretazione in termini di concetti classici, occorre un ampliamento di vedute ed un atteggiamento critico senza pregiudizi. Le equazioni della meccanica quantistica presuppongono una interazione istantanea tra le particelle dell'universo indipendentemente dalla distanza che le separa, la non località, e questo significa che bisogna introdurre e formalizzare un modo di ragionare in termini olistici, globali. E questo è esattamente quello che siamo costretti a fare quando studiamo gli organismi viventi. Gli organismi viventi non sono una accozzaglia di atomi assemblati a caso ma mostrano una incredibile complessità organizzata ed unità. L’uomo comune sfiora solamente le complessità della vita. Questo non vuol dire che egli eviti le complessità, vuol dire che le subisce senza conoscerle. Di fronte al mistero della Vita e della Morte a chi dobbiamo rivolgerci? Non possiamo fidarci delle religioni organizzate poiché esse proibiscono la ricerca in questo settore.

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Prima di tutto dobbiamo decondizionarci, cioè arrivare a zero poiché adesso siamo sotto zero. Poi quando siamo arrivati a zero dobbiamo osservare la Realtà e trarre le nostre conclusioni. Nessuno nasce libero. L’uomo nasce schiavo di ignoranza, miseria, malattie, parassiti. Anche quello che chiamiamo educazione è solo una rete avvolgente di condizionamenti, convenzioni, superstizioni, obblighi, divieti. Il ricercatore deve distruggere tutti questi condizionamenti e, sulle loro rovine, costruire la sua vera personalità con la propria visione della Realtà. Conoscenza vuol dire liberazione. Solo la conoscenza ci rende liberi. Prima di fare qualsiasi teoria sulla Vita, bisogna osservare la Vita in tutti i suoi aspetti: sani e malati, vecchi e giovani, belli e brutti, fortunati e disgraziati, deboli e potenti… Stabiliamo una scala di credibilità o validità dei dati raccolti. Fidiamoci delle nostre esperienze ripetute. Fidiamoci meno di una esperienza avvenuta una sola volta nella vita. Fidiamoci ancor meno del racconto di una esperienza di un familiare. Diffidiamo dell’esperienza di un estraneo. Diffidiamo dell’esperienza di un estraneo raccontata a un altro estraneo e poi riferita a noi. Possiamo fidarci degli estranei quando: molti testimoni, che non si conoscono fra loro, concordano nel riferire un fatto; quando il resoconto non è l’apologia di religiosi o politici; né proviene da fonti religiose o politiche. Molto spesso prendiamo un fatto raccontato come vero solo perché si confà al nostro modo di vedere e giudicare le cose e invece consideriamo falso un fatto che ci costringe a rivedere le nostre convinzioni. È normale, tutti lo fanno, è un modo di procedere che ci consente di risparmiare tempo ed energie, ma così facendo forse perdiamo l'occasione di conoscere la verità. La Verità non ha bisogno di pulpiti altisonanti che ci rassicurano con la loro autorità, molto spesso intuiamo la verità osservando la realtà con gli occhi semplici e disincantati di un bambino. Un semplice fatto che accade proprio a noi ci può essere di grande insegnamento, una esperienza che ci convince che non tutto può essere spiegato dalla ragione ma che esiste un piano diverso di realtà, che gli schemi interpretativi sono limitati e che esiste un ampio margine per l'ignoto. Che l'uomo esulta quando trova un sasso più levigato in riva a un mare inesplorato. Consideriamo gli stati mentali. Va notato che per poter parlare di "stati mentali", bisogna specificare, come avviene generalmente, che questi stati sono determinati dalla coscienza. L'esistenza di stati mentali non si può evincere soltanto dall'apparente presenza di intenzionalità, dato che molti oggetti presentano comportamenti che potrebbero suggerire l'esistenza di una volontà. Per esempio alcuni congegni costruiti dai cibernetici per simulare il comportamento di animali. Come possiamo stabilire che

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negli altri animali (o negli umani) esistono stati mentali? Non e' possibile inferire la capacita' di soffrire dalla presenza di una serie di comportamenti che sono funzionali all'evitare stimoli nocivi o al benessere di un organismo. Un termometro ovviamente reagisce alle condizioni ambientali e risponde ad essi in una maniera funzionalmente appropriata per tornare al proprio stato iniziale "preferito". Naturalmente, sarebbe stupido attribuire al termometro la capacita' di "sentire" o "provare" una forma di "dolore" termico. Anche mettendo tra virgolette queste parole un'affermazione del genere appare ridicola. Criteri meramente comportamentali, o di reazioni funzionali di difesa, non sono ne' sufficienti ne' necessari per stabilire l'esistenza di uno stato mentale o la capacita' di provare dolore. Possiamo quindi partire dal presupposto, generalmente accettato nelle scienze (incluse quelle biologiche), che la materia e' l'unico elemento costitutivo primordiale dell'universo. Un approccio scientifico materialista non nega l'esistenza di qualità emergenti o funzionali come la mente, la coscienza e i sentimenti (o della volontà), ma le considera dipendenti dall'esistenza di una materia organizzata. Il software non può funzionare in assenza di hardware. Se non c'è un cervello integro e vivente, non si può parlare di mente. Anche le versioni attuali del dualismo e le teorie sulla mente considerano gli stati mentali dipendenti dalla presenza di una materia sufficientemente organizzata. In breve, si può dire che funzioni cognitive come la coscienza e la mente vengono viste come proprietà emergenti di una materia sufficientemente organizzata. Cosi' come la respirazione e' una funzione di un complesso sistema di organi chiamato sistema respiratorio, allo stesso modo la coscienza e' una funzione delle immensamente complesse capacita' del sistema nervoso centrale preposte a processare le informazioni. E' possibile, teoricamente, che i computer del futuro, data un'integrazione sufficientemente complessa di hardware e software, potranno sviluppare queste qualità emergenti. Mentre questi computer attualmente non esistono, noi sappiamo con certezza che alcuni organismi viventi di questo pianeta le possiedono. Teoricamente sarebbe possibile che i computer del futuro, data una sufficiente complessità e ordine dell'organizzazione dell'hardware e intelligenza del software, mostrassero i requisiti per l'emergere di simili qualità. Mentre computer del genere ancora non esistono, pero', sappiamo con certezza che alcuni organismi viventi in questo pianeta presenta una complessità di strutture specializzate e altamente organizzate sufficiente all'emergere di stati mentali. Le piante potrebbero sviluppare stati mentali paragonabili al dolore, SE, e solo SE, possedessero la requisita complessità di tessuti vegetali organizzati da preporre allo sviluppo di stati mentali ed alla percezione del dolore. Non esiste evidenza morfologica che tessuti di una simile complessità esistano nelle piante. Le piante non hanno le strutture specializzate necessarie allo sviluppo di stati mentali. Ciò non significa che esse non siano in grado di reazioni complesse, quanto che, qualora le definissimo "dolore", le sovrastimeremmo. Viceversa, i mammiferi, gli uccelli o i rettili possiedono strutture nervose che li rendono capaci di provare dolore, oltre

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all'evidente necessità evolutiva dello sviluppo di una coscienza. Possiedono organi sensori altamente specializzati e complessi e strutture specifiche per analizzare le informazioni e organizzare centralmente un comportamento appropriato in relazione a rappresentazioni mentali, integrazioni e riorganizzazioni delle informazioni. Dimostrare che questi animali sono in grado di soffrire è semplicissimo, mentre dimostrare che le piante possano provare dolore non sarebbe giustificabile, nemmeno con i più grandi sforzi d'immaginazione. Ognuno di noi sperimenta i propri stati mentali e attribuirli a chicchessia è un'ipotesi sperimentalmente non verificabile. Il nostro io è connesso al nostro corpo in un modo unico e particolare. Estrapolare ciò che proviamo dal nostro punto di vista, fosse anche ad un'altra persona a noi molto vicino, a qualcos'altro distinto da noi significa utilizzare le nostre osservazioni fenomenologiche delle reazioni altrui come indizio della presenza di uno stato mentale che non può essere altro che nostro. Il solipsismo può essere sostenuto con grande coerenza. Per questo non possiamo sapere, in realtà, se le piante provano dolore quando le potiamo, così come non abbiamo accesso agli stati mentali di un'altra persona. 3,5 miliardi circa di anni fa si verificarono le condizioni favorevoli allo sviluppo della vita sulla Terra. Gli oceani del pianeta, in cui proliferavano e si andavano sviluppando primitive forme di vita, subirono ulteriori trasformazioni, che in seguito avrebbero favorito l'evoluzione di forme più complesse. Da quei primi, semplici organismi monocellulari discendono i microrganismi, gli insetti, le piante e tutte le specie animali attuali. Anche le trasformazioni dell'atmosfera hanno influenzato lo sviluppo della vita così come noi la conosciamo. Secondo gli antropologi la comparsa del primo rappresentante moderno della nostra specie, l'Homo sapiens, risale a 100.000 anni fa, in Africa sudorientale. Con la sua intelligenza e abilità, l'uomo riuscì ad adattarsi ai diversi ambienti molto più facilmente e rapidamente delle altre specie e, nel corso di successive migrazioni, si diffuse rapidamente in tutta l'Africa e nell'Asia nordorientale. L'Europa, l'Australia e l'America del Nord furono raggiunte 70.000 anni più tardi. Approssimativamente 10.000 anni fa l'umanità popolava già la maggior parte delle terre emerse, tranne alcune isole sperdute e l'Antartide; oggi, invece, all'uomo resta ben poco da esplorare e tutte le terre, tranne forse quelle più inaccessibili e desolate, sono ormai state colonizzate. La popolazione mondiale nel 1995 era di 5,7 miliardi (1995) circa. Una volta stabiliti nelle rispettive sedi ed essendo geograficamente isolati gli uni dagli altri, i vari gruppi umani svilupparono caratteristiche fisiche diverse, che la scienza considera il risultato dell'adattamento a condizioni ambientali quali temperatura, altitudine, malattie e disponibilità delle risorse alimentari. Gli appartenenti a una determinata razza generalmente hanno in comune il gruppo sanguigno, le proteine del sangue, la costituzione fisica, la dentatura, l'aspetto e

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l'attaccatura dei capelli, i tratti del viso e il colore della pelle, dei capelli e degli occhi. Oggi, tuttavia, il moderno stile di vita, il progresso tecnologico e l'aumentata mobilità di cui tutti godiamo rendono tutti questi tratti distintivi, emersi nel corso di decine di migliaia di anni di relativo isolamento, non più determinanti per la sopravvivenza della nostra specie. Anche oggi sussistono importanti differenze tra i gruppi umani che popolano le diverse aree geografiche; questi, tuttavia, non si distinguono più in base alle condizioni ambientali in cui vivono, ma secondo la lingua, la cultura, la religione e il modello economico adottato. Anche dal punto di vista della posizione geografica l'umanità può essere suddivisa in gruppi a diversi livelli. Per convenzione, in geografia si ricorre comunemente a raggruppamenti piuttosto vasti, quali gli Stati e le regioni. È assai facile definire gli Stati poiché ci si basa sui loro confini politici. Alcuni Stati, inoltre, hanno una forte identità geografica, essendo abitati da persone con un'origine razziale e linguistica comune e appartenenti allo stesso sistema economico e culturale. Altri Stati comprendono invece gruppi con radici estremamente diverse, che agiscono in contesti sociali ed economici isolati. Le suddivisioni regionali, al contrario, risultano spesso difficili da riportare esattamente sulle carte geografiche, perché possono basarsi di volta in volta sulla posizione fisica, sul clima o la morfologia del territorio, sulla storia culturale o il tipo di attività economiche. Esistono infatti diversi criteri in base ai quali definire una regione: la natura del suo paesaggio (desertico, montagnoso, o altro), la religione e la lingua degli abitanti, o la coltura prevalente nel suo territorio. Inoltre, molte regioni oltrepassano i confini nazionali, mentre altre sono comprese all'interno di un solo Stato. Definire con precisione le regioni, per quanto difficile, è tuttavia indispensabile per i geografi, perché sono proprio i fattori sociali, culturali ed economici che ne determinano l'identità geografica. La Terra è ricca di risorse, alcune, come l'acqua e i vegetali, indispensabili alla vita umana, altre, come ferro e carbone, particolarmente utili. Data la loro scarsità, o la difficoltà con cui sono reperibili, alcune risorse naturali, quali l'oro e l'uranio, hanno un valore di scambio di gran lunga maggiore di altre più largamente disponibili. Il valore relativo di un prodotto è determinato infatti da quella che in economia si definisce legge della domanda e dell'offerta, che dipende principalmente da due fattori: la quantità del prodotto e la richiesta. I prodotti sono generalmente acquistati in luoghi in cui sono presenti in grandi quantità, e quindi a basso costo, e trasportati in altri in cui sono invece scarsi e costosi per essere scambiati con altri beni o con servizi. Oggi il mondo è una vasta rete in cui gli esseri umani producono, trasportano, scambiano e consumano risorse, prodotti e persino idee. Alcune regioni producono grano, altre petrolio, altre ancora macchinari industriali e le une dipendono dalle altre. Ogni regione cerca di aumentare al massimo il valore dei propri prodotti e di acquistare le risorse di cui è priva al prezzo più basso possibile. Alcune regioni partecipano attivamente a questo sistema mondiale, mantenendo stretti rapporti economici con ogni altra

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regione, altre invece ne restano escluse e riescono a intrattenere relazioni economiche soltanto con poche regioni circostanti. Dalla sua creazione, il mondo si è via via sviluppato in un sistema sempre più complesso, di cui fanno parte tutte le forme di vita del pianeta, che consumano e producono risorse in modi diversi; l'umanità, in particolare, ha assunto un ruolo determinante grazie allo sviluppo di un'avanzata tecnologia e, unica fra tutte le specie del pianeta, è divenuta consapevole dell'ambiente in cui vive. Aumentando la comprensione del mondo da parte dell'uomo, migliora anche la sua capacità di seguire i modelli e le tendenze e di prevedere gli sviluppi futuri. In questo modo, diversamente dalle altre specie, è possibile basare le scelte dell'umanità non solo sui suoi bisogni immediati, ma anche sui possibili risvolti futuri delle sue azioni. È importante, al fine di prendere sempre le migliori decisioni, imparare quanto più è possibile sul mondo e sugli uomini che lo popolano. Dalla fine degli anni’80 - gli atti del primo storico convegno internazionale, a cura di Charles G. Langton, Artificial Life, Reading (Mass.), Addison-Wesley, sono del 1989 - l’apporto della vita artificiale è stato importante dal punto di vista teorico. Ha messo in discussione l’idea dominante che la vita risieda nella sostanza di ciò che consideriamo “vivo”, nella costituzione fisica degli organismi, estendendo il concetto di “vita”. Prima della vita artificiale, dato che non si conoscevano altre forme di vita che quelle presenti sul nostro Pianeta e dato che tutte queste sono di tipo organico (cioè basate su composti del carbonio), si riteneva che la vita potesse essere fondata solo sulla presenza del carbonio, cioè sulla costituzione fisica degli esseri definiti “viventi” (detto in termini bruti: sull’hardware). Era la materia di cui erano fatti gli organismi che definiva la vita. Gli studi sulla vita artificiale e le applicazioni che ne sono derivate hanno invece generato nei computer creature che soddisfano i principi fondamentali della vita (nascere, crescere, riprodursi, morire...) ma che non sono di tipo organico, che sono fondate su algoritmi (in termini altrettanto bruti: sul software). La vita non è dunque basata sulla composizione fisica, sulla materia degli organismi viventi (l’hardware) bensì, a livello più generale, sulle istruzioni che li governano (il software), sul programma biologico/genetico che ne regola la costituzione fisica e, conseguentemente, ne fonda l’esistenza e il comportamento. La vita non risiede nei materiali ma sono i meccanismi e i processi a determinare il discrimine tra la vita e gli altri fenomeni naturali. Ma anche varie altre discipline, come la robotica, le nanotecnologie, l’intelligenza artificiale, sono andate in questa direzione, e, oltre a eliminare vecchi pregiudizi sulla natura della vita, hanno enfatizzato negli artefatti la capacità di adeguarsi al

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contesto, di rispondere a determinate occorrenze: hanno teso a riprodurre, in definitiva, la dimensione della vita, dell’essere. Si pensi alle capacità di autoregolazione e di autoprogrammazione di oggetti e dispositivi di uso comune come computer, elettrodomestici, automobili, a giocattoli complessi capaci di simulare alcuni semplici comportamenti degli esseri viventi. Vi è dunque, in definitiva, una convergenza verso la riproduzione della vita: nelle macchine, negli artefatti, nei processi, noi cerchiamo di riprodurre la vita. Tale convergenza può essere diretta oppure derivata. È diretta quando si interviene attivamente sui meccanismi e sulle modalità del vivente oppure quando, recependone la primità e l’efficacia, se ne tenta la simulazione o l’emulazione. È derivata quando é la complessità stessa dei processi e degli artefatti tecnologici a condurre nel campo del vivente, a conseguire proprietà analoghe a quelle del vivente. È importante notare, ripercorrendo la mitologia e la storia, come questa ricerca della vita, della creazione della vita, non sia un’esclusiva della nostra contemporaneità bensì sia fra i desiderata più remoti e persistenti dell’umanità. Il mito del golem ha radici profonde nella storia del pensiero e dei manufatti dell'umanità. Il nome GOLEM appare una sola volta nella Bibbia al verso 16 del salmo 138: " I Tuoi occhi videro il mio golem..." dove il termine sta a indicare l'embrione umano, l'esistenza imperfetta prima della creazione . Dal XII secolo i testi cabbalistici alludono alla possibilità di scimmiottare l'opera divina simulando la creazione di Adamo dal fango con un fantoccio d'argilla che, attraverso riti magici, poteva animarsi ad una vita fittizia e robotica. Solo un secolo dopo i cabbalisti tedeschi parlano di due mistici che hanno creato un uomo sulla cui fronte era scritta la parola verità emet che lo animava . Cancellando la prima lettera restava met, cioè morto, e l'automa crollava a terra inanimato. Nel Rinascimento si trova cenno del golem in testi alchemici, in questo caso si parla di un piccolo uomo creato in una storta o in un vaso. Il riferimento più noto è quello dell'Humunculus di Paracelso, di cui farà menzione Goethe in una versione del suo Faust. Sul finire del XVII secolo in Germania si diffonde la GOLEMLEGENDE che ha per protagonisti quasi sempre rabbini e cabbalisti capaci di creare degli automi per essere aiutati nei lavori domestici. Tale impresa venne pure attribuita a Sant'Alberto Magno. Nel 1808 Jacob Grimm elabora in forma romanzesca la leggenda ormai popolare del golem costruito dal cabbalista e mago rabbi Loew (1515-1609) nella Praga di Rodolfo II d'Asburgo, imperatore appassionato d'esoterismo e d'astrologia. In questa versione il fantoccio d'argilla cresce a dismisura fino a minacciare chi lo aveva creato. Il golem diviene quindi il punto di partenza per una variante del mito antichissimo dell'apprendista stregone che già Luciano di Samosata riprese da fonti

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egizie nel Philopseudes. Sotto questo aspetto il golem diviene simbolo della tecnica moderna e viene sfruttato da Achim von Arnim e da Hoffmann. La filiazione più nota del golem in questo filone del romanzo gotico è senza dubbio il Frankenstein di Mary Shelley pubblicato nel 1818. Una versione più moderna del golem lo vede addirittura costruito come una specie di androide. Per l'esattezza si sta parlando della novella di U.D. Horn (Der Rabby von Prag, 1842) e del libretto di F.Hebbel per il dramma musicale di Rubinstein Ein Steinwurf (1858). In questo caso il golem viene rappresentato come un uomo-macchina di legno con un meccanismo ad orologeria all'interno della testa. Il rabbino lo ricarica tutte le domeniche e l'automa si mette a vivere. Il venerdì preme su una molla e lo ferma. Chiaramente un giorno la molla si guasterà e il golem, secondo la sua tradizionale vocazione, si rivolterà al suo creatore. Solo nel 1915 esce Der Golem, il romanzo dello scrittore e occultista praghese Gustav Meyrink .Recentemente ripubblicato, ebbe una fortuna tale da rendere internazionale l'antico mito. La lettura che Meyrink fa del golem rivela una sicura conoscenza, oltre che della mistica e dell'esoterismo, del lavoro di Freud e Jung. Le allusioni costanti al sogno, alla follia, all'allucinazione rinviano molto chiaramente alle teorie psicoanalitiche. La figura stessa del Golem è nel romanzo di Meyrink una proiezione dell'inconscio collettivo degli abitanti del ghetto. Pensieri, sentimenti, stati alterati della coscienza che prendono forma e si animano in un'ambigua e sinistra creatura. Nell'era moderna il mito del golem si incarna nel robot, nell'androide, costruzioni dell'uomo che cercano di carpire il segreto della vita. In molti film di fantascienza i robot si ribellano al loro creatore e cercano di soppiantare l'uomo nel proseguo dell'evoluzione della vita sul pianeta Terra. Un futuro inquietante in cui le macchine diventano coscienti di sé e competono con l'uomo per i dominio del pianeta, e, ovviamente, sono dotate di potenzialità immensamente superiori a quelle della debole natura umana. Le macchine non mangiano, non dormono e sono dotate di una logica ferrea. Il loro corpo è costituito di ferro e silicio e i loro muscoli sono di acciaio, non hanno bisogno dell'ossigeno, di acqua, delle piante, degli animali; il loro potere sembra smisurato, possono viaggiare nello spazio siderale. Ma un robot può avere una coscienza? Se anche, un giorno, un robot prendesse coscienza di sé, noi, solo osservandolo, non potremmo mai sapere se è cosciente oppure no. Potrebbe dirci: "Cogito ergo sum" ma questo non sarebbe sufficiente, noi non potremmo mai sperimentare i suoi stati mentali così come non possiamo entrare nella testa di nessuno, e non essendo, il robot, biologicamente simile a noi non potremmo nemmeno ipotizzare che esso possegga stati mentali simili ai nostri. E siccome nella costruzione di un robot non utilizziamo alcun principio che possa portare alla coscienza, così sembra inverosimile che tale proprietà possa emergere spontaneamente nel robot.

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La coscienza è un mistero non investigabile dalla scienza galileiana. Si possono fare solo delle ipotesi più o meno verosimili. Esistono dei confini che imbrigliano le leggi della natura inanimata. Se tutti gli uomini fossero sterminati, questo non influenzerebbe le leggi della natura inanimata. Ma la produzione di macchine cesserebbe, e finché non siano rinati degli uomini, non potrebbero essere più formate macchine.[...] Alcuni animali possono produrre strumenti, ma solo gli uomini possono costruire macchine; le macchine sono artefatti umani, fatti di materia inanimata. L’«Oxford Dictionary» descrive una macchina come «un apparato per applicare potenza meccanica, costituito da un certo numero di parti interrelate, ciascuna con una funzione definita». Potrebbe essere, per esempio, una macchina per cucire o stampare. Assumiamo che la potenza che fa funzionare la macchina sia incorporata in essa e trascuriamo il fatto che debba essere rinnovata di tanto in tanto. Possiamo dire, allora, che la manifattura di una macchina consiste nel tagliare parti opportunamente formate e adattarle insieme cosicché la loro azione meccanica congiunta serva ad un possibile scopo umano. La struttura delle macchine e il funzionamento della loro struttura sono così modellati dall’uomo, anche se il loro materiale e le forze che le fanno funzionare obbediscono alle leggi della natura inanimata. Costruendo una macchina e fornendole potenza, imbrigliamo le leggi della natura all’opera nella sua materia e nella sua potenza motrice e facciamo sì che esse servano al nostro corpo. Questo imbrigliamento non è indistruttibile; la struttura della macchina e con essa il suo funzionamento possono distruggersi. Ma questo non influenzerà le forze della natura inanimata su cui si basava il funzionamento delle macchine; semplicemente le libera dalle restrizioni che la macchina ha imposto loro prima di distruggersi. Così la macchina nel suo insieme opera sotto il controllo di due principi distinti. Quello superiore è il principio del progetto della macchina e questo imbriglia quello inferiore, che consiste nei processi fisico-chimici su cui la macchina si basa. Noi formiamo comunemente tale struttura a due livelli nel condurre un esperimento; ma vi è una differenza fra costruire una macchina e mettere su un esperimento. Lo sperimentatore impone restrizioni alla natura al fine di osservare il suo comportamento sotto queste restrizioni, mentre la costruzione di una macchina restringe la natura al fine di imbrigliarne le operazioni. Ma possiamo prendere a prestito un termine dalla fisica e descrivere ambedue queste utili restrizioni della natura come l’imposizione di condizioni al contorno alle leggi della fisica e della chimica. Ho esemplificato due tipi di confini. Nella macchina il nostro interesse principale risiedeva negli effetti delle condizioni al contorno, mentre in un dispositivo sperimentale siamo interessati ai processi naturali controllati dai confini. Vi sono molti esempi comuni di ambedue i tipi di confini. Quando un tegame contiene una

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zuppa che stiamo cucinando, siamo interessati alla zuppa; e, parimenti, quando osserviamo una reazione in una provetta, studiamo la reazione, non la provetta. L’inverso è vero per una partita di scacchi. La strategia del giocatore impone condizioni alle diverse mosse, che seguono le leggi degli scacchi, ma il nostro interesse risiede nelle condizioni – cioè nella strategia, non nelle diverse mosse come esemplificazioni delle leggi. E similmente, quando uno scultore modella una pietra o un pittore compone un dipinto, il nostro interesse risiede nelle condizioni imposte al materiale e non nel materiale in se stesso. Possiamo distinguere questi due tipi di confini dicendo che il primo rappresenta un confine del tipo provetta mentre il secondo è del tipo macchina. Spostando la nostra attenzione, possiamo talvolta cambiare un confine da un tipo all’altro. Tutte le comunicazioni formano un confine del tipo macchina, e questi confini formano un’intera gerarchia di livelli consecutivi di azione. Un vocabolario pone condizioni al contorno all’espressione della voce; una grammatica imbriglia le parole a formare frasi; e le frasi sono modellate in un testo che veicola una comunicazione. In tutti questi stadi siamo interessati alle condizioni imposte da un potere comprensivo di restrizione, piuttosto che ai principi imbrigliati da esse. I meccanismi viventi sono classificati come macchine. Dalle macchine passiamo agli esseri viventi, ricordando che gli animali si muovono meccanicamente e che hanno organi interni che svolgono funzioni come fanno le parti di una macchina – funzioni che sostengono la vita dell’organismo proprio come le macchine servono agli interessi dei loro utenti. Per secoli nel passato le funzioni della vita sono state paragonate alle funzioni della macchina, e la fisiologia ha tentato di interpretare l’organismo come una rete complessa di meccanismi. Gli organi sono definiti di conseguenza dalle loro funzioni di preservazione della vita. Qualsiasi parte coerente dell’organismo è in effetti sconcertante per la fisiologia, ed anche insignificante per la patologia, finché non si scopre il modo in cui essa benefica l’organismo. E posso aggiungere che qualsiasi descrizione di tale sistema in termini della sua topografia fisico chimica è priva di senso se non fosse che la descrizione può richiamare nascostamente l’interpretazione fisiologica del sistema – proprio come la topografia di una macchina è priva di senso finché non ipotizziamo come funziona il dispositivo, e per quale scopo. In questa luce l’organismo sembra essere, come una macchina, un sistema che funziona secondo due principi differenti: la sua struttura serve come condizione al contorno che imbriglia i processi fisico-chimici mediante cui i suoi organi svolgono le loro funzioni. Così, può essere chiamato un sistema sotto controllo duale. La morfogenesi, il processo attraverso il quale si sviluppa la struttura degli esseri viventi, può essere quindi paragonato alla formazione di una macchina che agirà come confine per le leggi della natura inanimata. Infatti, proprio come queste leggi servono alla macchina, così esse servono anche all’organismo sviluppato. Una condizione al contorno è sempre estranea al processo che essa delimita.

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Negli esperimenti di Galileo sulle palle che rotolano lungo un piano inclinato, l’angolo d’inclinazione del piano non era derivato dalle leggi della meccanica, ma fu scelto da Galileo. E come questa scelta dell’inclinazione era estranea alle leggi della meccanica, così la forma e la confezione delle provette sono estranee alle leggi della chimica. Lo stesso vale per confini del tipo macchina; la loro struttura non può essere definita in termini delle leggi che essi imbrigliano. Né può un vocabolario determinare il contenuto di un testo, e così via. Perciò, se la struttura degli esseri viventi è un insieme di condizioni al contorno, questa struttura è estranea alle leggi della fisica e della chimica, che l’organismo sta imbrigliando. Così la morfologia degli esseri viventi trascende le leggi della fisica e della chimica. L’informazione del DNA genera meccanismi. Ma l’analogia fra componenti di una macchina e funzioni vitali è indebolita dal fatto che gli organi non sono formati artificialmente come le parti di una macchina. È quindi un vantaggio trovare che il processo morfogenetico è spiegato in linea di principio attraverso la trasmissione di informazione immagazzinata nel DNA, interpretata in tal senso da Watson e Crick. Si dice che un molecola di DNA rappresenta il codice – cioè una sequenza lineare di elementi, la cui combinazione è l’informazione veicolata dal codice. Nel caso del DNA, ciascuno degli elementi della serie consiste di una di quattro basi organiche alternative (più precisamente: quattro alternative che consistono in due posizioni di due differenti basi organiche composte). Tale codice veicolerà l’ammontare massimo di informazione se le quattro basi organiche avranno eguale probabilità di formare qualsiasi elemento particolare della serie. Qualsiasi differenza nel legame delle quattro basi alternative, o nello stesso punto della serie o tra due punti della serie, causerà il fatto che l’informazione veicolata dalla serie cadrà al disotto del massimo ideale. Il contenuto di informazione del DNA è di fatto noto per essere alquanto ridotto da tale ridondanza, ma io accetto qui l’assunzione di Watson e Crick secondo cui questa ridondanza non impedisce al DNA di funzionare efficacemente come un codice. Di conseguenza trascurerò per brevità la ridondanza nel codice del DNA e parlerò di esso come se funzionasse in modo ottimale, con la stessa probabilità che abbiano luogo tutti i suoi legami basici alternativi. Chiariamo cosa avverrebbe nel caso opposto. Supponiamo che la struttura effettiva di una molecola di DNA fosse dovuta al fatto che il legami delle sue basi fossero molto più forti di quanto i legami sarebbero per qualsiasi altra distribuzione delle basi, quindi tale molecola di DNA non avrebbe alcun contenuto di informazione. Il suo carattere di codice sarebbe cancellato da una ridondanza schiacciante. Possiamo notare che questo è effettivamente il caso per una molecola chimica ordinaria. Poiché la sua struttura regolare è dovuta ad un massimo di stabilità, che corrisponde ad un minimo di energia potenziale, il suo carattere regolare manca della capacità di funzionare come codice. La configurazione degli atomi che

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formano un cristallo è un altro caso di ordine complesso senza contenuto informativo apprezzabile. Vi è un tipo di stabilità che spesso si oppone alla forza stabilizzatrice di un’energia potenziale. Quando un liquido evapora, ciò può essere inteso come un aumento di entropia che accompagna la dispersione delle sue particelle. Si prende in considerazione la tendenza dispersiva aggiungendo i suoi poteri a quelli dell’energia potenziale, ma la correzione è trascurabile per casi di forti cadute di energia potenziale o per basse temperature, o per ambedue. Possiamo trascurarla, per semplificare le cose, e dire che le strutture chimiche stabilite dai poteri stabilizzatori del legame chimico non hanno contenuto informativo apprezzabile. Alla luce della teoria corrente dell’evoluzione, si deve assumere che la struttura di codice del DNA sia sorta per una serie di variazioni causali stabilite per selezione naturale. Ma questo aspetto evoluzionistico è qui irrilevante; qualunque possa essere l’origine di una configurazione di DNA, essa può funzionare come codice solo se il suo ordine non è dovuto alle forze dell’energia potenziale. Deve essere fisicamente indeterminata come lo è la sequenza di parole su di una pagina stampata. Come la disposizione di una pagina stampata è estranea alla chimica della pagina stampata, così la sequenza di basi in una molecola di DNA è estranea alla forza chimica all’opera nella molecola di DNA. È questa indeterminazione fisica della sequenza che produce l’improbabilità del presentarsi di qualsiasi frequenza particolare e perciò la mette in grado di avere un significato – un significato che ha un contenuto di informazione matematicamente determinato come eguale all’improbabilità numerica della combinazione. Il DNA funziona come un programma. Ma resta un punto fondamentale da considerare. Una pagina stampata può essere un semplice miscuglio di parole e quindi non ha alcun contenuto di informazione. Così il calcolo di improbabilità dà il possibile, piuttosto che l’effettivo contenuto di informazione di una pagina. E questo si applica anche al contenuto di informazione attribuito ad una molecola di DNA; la sequenza delle basi è ritenuta significativa solo perché assumiamo con Watson e Crick che questa disposizione genera le strutture della discendenza dotandola del proprio contenuto d’informazione. Questo ci porta alla fine al punto cui miravo quando ho intrapreso ad analizzare il contenuto di informazione del DNA: si può paragonare il controllo della morfogenesi da parte del DNA alla progettazione e formazione di una macchina da parte dell’ingegnere? Abbiamo visto che la fisiologia interpreta l’organismo come una rete complessa di meccanismi, e che un organismo è – come una macchina – un sistema sotto controllo duale. La sua struttura è quella di una condizione al contorno che imbriglia le sostanze fisiche e chimiche dentro l’organismo al servizio di funzioni fisiologiche. Così, generando un organismo, il DNA inizia e controlla la crescita di un meccanismo che funzionerà come una condizione al contorno all’interno di un sistema sotto controllo duale. E possiamo aggiungere che lo stesso DNA è un sistema del genere, poiché ogni sistema che veicola

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informazione è sotto controllo duale, dato che ogni sistema del genere restringe ed ordina, in funzione del veicolare, la sua informazione, vaste risorse di particolari che sarebbero altrimenti lasciati al caso, ed agisce quindi come una condizione al contorno. Nel caso del DNA questa condizione al contorno è un programma dell’organismo in crescita. Possiamo concludere che in ciascuna cellula dell’embrione è presente il duplicato di una molecola di DNA che ha una disposizione lineare delle sue basi – una disposizione che, essendo indipendente dalle forze chimiche all’interno delle molecole di DNA, convoglia un ricco ammontare di informazione significativa. E vediamo che quando quest’informazione modella l’embrione in crescita, essa produce in esso condizioni al contorno che, essendo esse stesse indipendenti dalle forze fisico-chimiche in cui sono radicate, controllano il meccanismo della vita nell’organismo sviluppato. Delucidare questa trasmissione è un compito principale dei biologi oggi. Sorgono qui alcuni problemi accessori. Abbiamo visto condizioni al contorno che introducono principi non suscettibili di formulazione in termini di fisica o chimica in artefatti inanimati e in esseri viventi; le abbiamo viste necessarie al contenuto di informazione in una pagina stampata o nel DNA, ed introdurre principi meccanici in macchine così come nei meccanismi della vita. Vorrei aggiungere ora che condizioni al contorno di sistemi inanimati stabilite dalla storia dell’universo si trovano nei domini della geologia, geografia ed astronomia, ma che queste non formano sistemi di controllo duale. Esse assomigliano sotto questo aspetto al tipo provetta dei confini di cui ho parlato sopra. Quindi l’esistenza del controllo duale nelle macchine e nei meccanismi viventi rappresenta una discontinuità fra macchine ed esseri viventi da un lato e natura inanimata dall’altro lato, cosicché sia le macchine sia gli esseri viventi sono irriducibili alle leggi della fisica e della chimica. L’irriducibilità non deve essere identificata con il semplice fatto che l’unione delle parti può produrre aspetti che non sono osservati nelle parti separate. Il sole è una sfera e le sue parti non sono sfere, né la legge di gravitazione parla di sfere; ma la mutua interazione gravitazionale fa sì che le parti del sole formino una sfera. Tali casi di olismo sono comuni in fisica e in chimica. Si dice spesso che essi rappresentino una transizione agli esseri viventi, ma non è così, poiché essi sono riducibili alle leggi della materia inanimata, mentre gli esseri viventi non lo sono. Ma esiste una continuità piuttosto differente fra la vita e la natura inanimata. Infatti le origini della vita non differiscono nettamente dai loro antecedenti puramente fisico-chimici. Si può riconciliare questa continuità con l’irriducibilità degli esseri viventi richiamando il caso analogo di artefatti inanimati. Si consideri l’irriducibilità delle macchine; nessun animale può produrre una macchina, ma alcuni animali possono fare strumenti primitivi, ed il loro uso di questi strumenti può essere difficilmente distinguibile dal semplice uso degli arti dell’animale. O si

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consideri un insieme di suoni che convogliano informazione; l’insieme di suoni può essere tanto disturbato dal rumore che la sua presenza non è più chiaramente identificabile. Possiamo dire quindi che il controllo esercitato dalle condizioni al contorno di un sistema può essere ridotto gradualmente fino a svanire. Il fatto che l’effetto di un principio superiore su di un sistema sotto controllo duale possa avere qualsiasi valore fino a zero ci può permettere anche di concepire l’emergenza continua di principi irriducibili con l’origine della vita. Possiamo ora riconoscere principi addizionali irriducibili. L’irriducibilità delle macchine e delle comunicazioni stampate ci insegna anche che il controllo di un sistema da parte di condizioni al contrario irriducibili non interferisce con le leggi della fisica e della chimica. Un sistema sotto controllo duale si basa in effetti per le operazioni del suo principio superiore all’attività di principi di livello inferiore, come le leggi della fisica e della chimica. I principi superiori irriducibili sono addizionali alle leggi della fisica e della chimica. I principi dell’ingegneria meccanica e della comunicazione delle informazioni, ed i principi biologici equivalenti, sono tutti addizionali alle leggi della fisica e della chimica. Ma attribuisce la nascita di tali principi addizionali di controllo ad un processo selettivo di evoluzione solleva serie difficoltà. La produzione di condizioni al contorno nel feto in formazione attraverso la trasmissione ad esso dell’informazione contenuta nel DNA presenta un problema. Lo sviluppo di un programma nel meccanismo complesso che esso descrive sembra richiedere un sistema di cause non specificabili in termini di fisica e chimica, essendo tali cause addizionali sia alle condizioni al contorno del DNA sia alla struttura morfologica determinata dal DNA. Il principio mancante per costruire una struttura corporea sulla linea di un’istruzione data dal DNA può essere esemplificato dai poteri rigenerativi di vasta portata del riccio di mare in embrione, scoperti da Driesch, e dalla scoperta di Paul Weiss che cellule embrionali completamente disperse si svilupperanno, ammucchiate insieme, in un frammento dell’organo da cui essere erano state isolate. Vediamo qui all’opera un potere integrativo, caratterizzato da Spemann e da Paul Weiss come un «campo», che guida la crescita dei frammenti embrionali fino alla formazione degli aspetti morfologici cui essi appartengono embrionalmente. A queste guide morfogenetiche è data espressione formale nei «paesaggi epigenetici» di Waddington. Essi mostrano graficamente che lo sviluppo dell’embrione è controllato dal gradiente di forme potenziali, proprio come il moto di un grave è controllato dal gradiente di energia potenziale. Ricordate come Driesch ed i suoi sostenitori lottarono per far riconoscere che la vita trascende la fisica e la chimica, argomentando che i poteri di rigenerazione nell’embrione di riccio di mare non erano esplicabili con una struttura del tipo macchina, e come la controversia è stata continuata, lungo linee simili, da parte di coloro che insistevano che l’integrazione regolativa («equipotenziale» o

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«organismica») era irriducibile a qualsiasi meccanismo del tipo macchina ed era perciò irriducibile anche alle leggi della natura inanimata. Ora se macchine e processi meccanici in esseri viventi sono in sé irriducibili alla fisica e alla chimica, la situazione è mutata. Se le spiegazioni meccanicistiche ed organismiche sono ambedue egualmente irriducibili alla fisica ed alla chimica, il riconoscimento di processi organismici non porta più l’onere di essere la sola evidenza a favore dell’irriducibilità degli esseri viventi. Una volta che possono essere riconosciute capacità di campo di guidare la rigenerazione e la morfogenesi senza scomodare questa questione principale, penso che l’evidenza in loro favore si troverà convincente. Vi è evidenza di principi irriducibili, addizionali a quelli dei meccanismi morfologici, nella sensibilità che noi stessi sperimentiamo ed osserviamo indirettamente negli animali superiori. La maggior parte dei biologi hanno messo da parte questi fatti come considerazioni improduttive. Ma di nuovo, una volta che si è riconosciuto, su altre basi, che la vita trascende la fisica e la chimica, non vi è ragione per sospendere il riconoscimento del fatto ovvio che la coscienza è un principio che fondamentalmente trascende non solo la fisica e la chimica ma anche i principi meccanicistici degli esseri viventi. Le gerarchie biologiche consistono in una serie di condizioni al contorno. La teoria delle condizioni al contorno riconosce i livelli superiori della vita come formanti una gerarchia, ogni livello della quale si basa per le sue operazioni sui principi dei livelli inferiori, anche se è esso stesso irriducibile a questi principi inferiori. Illustrerò la struttura di questa gerarchia mostrando il modo in cui cinque livelli formano una composizione letteraria espressa a parole. Il livello più basso è la produzione di una voce; il secondo, l’espressione di parole; il terzo, l’unione delle parole a formare frasi; quarto, la funzione delle frasi in uno stile; il quinto, ed il più alto, la composizione del testo. I principi di ciascun livello operano sotto il controllo dei livelli superiori successivi. La voce che producete è modellata in parole da un vocabolario; un dato vocabolario è modellato in frasi in accordo con una grammatica; e le frasi sono adattate ad uno stile, che a sua volta è fatto per esprimere le idee della composizione. Così ciascun livello è soggetto a controllo duale: 1. controllo in accordo con le leggi che si applicano ai suoi elementi in se stessi, e 2. controllo in accordo con le leggi dei poteri che controllano l’entità comprensiva formata da questi elementi. Tale controllo multiplo è reso possibile dal fatto che i principi che governano i particolari isolati di un livello inferiore lasciano indeterminate condizioni che devono essere controllate da un principio superiore. La produzione di voce lascia largamente aperta la combinazione di suoni in parole, che è controllata da un vocabolario. Quindi, un vocabolario lascia largamente aperta la combinazione di parole a formare frasi, che è controllata dalla grammatica, e così via. Di conseguenza, le operazioni di un livello superiore non possono essere spiegate

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dalle leggi che governano i suoi particolari al livello immediatamente inferiore. Non si può derivare un vocabolario dalla fonetica; non si può derivare la grammatica da un vocabolario; un uso corretto della grammatica non spiega il buono stile; e un buono stile non fornisce il contenuto di un pezzo di prosa. Gli esseri viventi comprendono un’intera sequenza di livelli che formano una gerarchia del genere. I processi al livello più basso sono causati dalle forze della natura inanimata, ed i livelli superiori controllano completamente le condizioni al contorno lasciate aperte dalle leggi della natura inanimata. Le funzioni inferiori della vita sono quelle chiamate vegetative; queste funzioni vegetative, che sostengono la vita al suo livello più basso, lasciano aperte – sia nelle piante che negli animali – le funzioni superiori della crescita e negli animali lasciano aperte anche le operazioni della azioni muscolari; quindi, a loro volta, i principi che governano le azioni muscolari negli animali lasciano aperta l’integrazione di tali azioni in modelli innati di comportamento; e, di nuovo, tali modelli sono aperti a loro volta ad essere modellati dall’intelligenza, mentre l’attività della stessa intelligenza può essere messa nell’uomo in condizione di servire ai principi ancora più elevati della scelta responsabile. Ciascun livello si basa per le sue operazioni su tutti i livelli soggiacenti. Ciascuno riduce la portata di quello immediatamente inferiore imponendo ad esso un confine che lo imbriglia al servizio del livello immediatamente superiore, e questo controllo è trasmesso per stadi giù giù fino al livello inanimato di base. I principi addizionali al dominio della natura inanimata sono il prodotto di un’evoluzione, i cui stadi più primitivi mostrano solo funzioni vegetative. Questa progressione evolutiva è descritta di solito come una complessità crescente ed una crescente capacità di mantenere lo stato del corpo indipendente dall’ambiente. Ma se noi accettiamo l’opinione che gli esseri viventi formano una gerarchia in cui ogni livello superiore rappresenta un principio distintivo che imbriglia il livello sottostante (essendo esso stesso irriducibile ai suoi principi inferiori), quindi la sequenza evolutiva acquista un significato nuovo e più profondo. Possiamo riconoscere allora una progressione strettamente definita, che parte dal livello inanimato verso sempre più alti principi addizionali della vita. Questo non significa dire che i livelli della vita sono del tutto assenti in stadi precedenti dell’evoluzione. Essi possono essere in tracce assai prima di diventare prominenti. L’evoluzione può esser vista allora come una progressiva intensificazione dei principi superiori della vita. Questo è ciò di cui siamo testimoni nello sviluppo dell’embrione e del bambino che cresce, processi affini all’evoluzione. Ma questa gerarchia di principi solleva ancora una volta una difficoltà seria. Sembra impossibile immaginare la sequenza dei principi superiori, che trascendono ulteriormente ad ogni stadio le leggi della natura inanimata, sono presenti in forma incipiente nel DNA e sono pronti ad essere trasmessi alla discendenza. Il concetto di programma non riesce a spiegare la trasmissione di

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facoltà, come la coscienza, che nessun dispositivo meccanico può possedere. È come se la facoltà della visione dovesse essere resa intelligibile ad una persona nata cieca da un capitolo sulla fisiologia dei sensi. Appare allora che il DNA evoca l’ontogenesi dei livelli superiori, piuttosto che determinare questi livelli. E ne seguirebbe che l’emergenza del tipo di gerarchia che io ho qui definito può essere solo evocata, ma non determinata da eventi atomici o molecolari. Comprendere una gerarchia necessita concezioni «da-a». Ho detto prima che la trascendenza dell’atomismo da parte del meccanicismo si riflette nel fatto che la presenza di un meccanismo non è rivelata dalla sua topografia chimico-fisica. Possiamo dire la stessa cosa di tutti i livelli superiori: la loro descrizione in termini di qualsiasi livello inferiore non ci parla della loro presenza. In genere possiamo discendere ai componenti di un livello inferiore analizzando un livello superiore, ma il processo inverso implica un’integrazione dei principi del livello inferiore, e quest’integrazione può andare oltre le nostre possibilità. In pratica questa difficoltà può essere evitata da un’importante qualificazione. Per prendere un esempio comune, supponiamo che abbiamo ripetuto una parola particolare, facendo grande attenzione al suono che stiamo facendo, finché questi suoni hanno perso il loro significato per noi; possiamo recuperare questo significato prontamente evocando il contesto in cui la parola è comunemente usata. Atti successivi di analisi e di integrazione sono di fatto in genere usati per approfondire la nostra comprensione di entità complesse che comprendono due o più livelli. Tuttavia la differenza strettamente logica tra due livelli successivi resta. Si può guardare ad un testo scritto in un linguaggio che non si comprende e vedere le lettere che lo formano senza essere coscienti del loro significato, ma non si può leggere un testo senza vedere le lettere che ne veicolano il significato. Questo ci mostra due maniere differenti e mutuamente esclusive di essere coscienti del testo. Quando guardiamo alle parole senza comprenderle, focalizziamo su di esse la nostra attenzione, mentre, quando leggiamo le parole, la nostra attenzione è diretta al loro significato, come parte di un linguaggio. Siamo coscienti quindi della parole solo in modo sussidiario, in quanto prestiamo attenzione al loro significato. Così nel primo caso guardiamo alle parole, mentre nel secondo, guardiamo a partire da esse al loro significato; il lettore di un testo ha una conoscenza da-a del significato delle parole, mentre ha solo una consapevolezza a partire da delle parole che sta leggendo; se egli potesse spostare interamente la sua attenzione verso le parole, queste perderebbero per lui il loro significato linguistico. Così una condizione al contorno che imbriglia i principi di un livello inferiore al servizio di un nuovo, superiore livello, stabilisce una reazione semantica fra i due livelli. Quello superiore comprende le operazioni dell’inferiore e così forma il

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significato dell’inferiore. E come noi saliamo lungo una gerarchia di confini, raggiungiamo sempre più elevati livelli di significato. La nostra comprensione dell’intero edificio gerarchico si approfondisce via via che ci muoviamo di passo in passo sempre più in alto. La successione dei confini influenza la nostra visione scientifica. Il riconoscimento di un’intera sequenza di principi irriducibili trasforma i passi logici per la comprensione dell’universo degli esseri viventi. L’idea che ci viene da Galileo e Gassendi, che ogni tipo di cose debba esser compreso in ultima istanza in termini di materia in moto, è confutata. Lo spettacolo della materia fisica che forma la base fondamentale tangibile dell’universo appare quasi vuoto di significato. La topografia universale delle particelle atomiche (con le loro velocità e forze) che, secondo Laplace, ci offre una conoscenza universale di tutte le cose sembra contenere a mala pena qualche conoscenza interessante. Le affermazioni, successive alla scoperta del DNA, secondo cui tutto lo studio della vita potrebbe ridursi alla fine alla biologia molecolare, hanno mostrato ancora una volta che l’idea laplaciana di conoscenza universale è ancora l’ideale teorico delle scienze naturali; l’opposizione corrente a queste dichiarazioni ha spesso confermato questo ideale, difendendo lo studio dell’organismo nel suo insieme solo come un approccio temporaneo. Ma l’analisi della gerarchia degli esseri viventi mostra che ridurre questa gerarchia a particolari ultimi significa cancellare la nostra stessa visione di essa. Tale analisi prova che questo ideale è sia falso sia distruttivo. Ciascun livello separato di esistenza è ovviamente interessante in se stesso e può essere studiato in se stesso. La fenomenologia ha insegnato ciò mostrando come salvare i livelli più alti, meno tangibili di esperienza non tentando di interpretarli in termini delle cose più tangibili in cui è radicata la loro esistenza. Questo metodo era inteso a prevenire la riduzione dell’esistenza mentale dell’uomo a strutture meccaniche. I risultati del metodo sono stati abbondanti ed ancora lo sono, ma la fenomenologia ha lasciato intatto l’ideale della scienza esatta e così non è riuscita ad assicurare l’esclusione delle sue tesi. Così gli studi fenomenologici sono riamasti sospesi sopra un abisso di riduzionismo. Inoltre, la relazione dei principi superiori con le operazioni dei livelli in cui essi sono radicati fu persa del tutto di vista. Ho menzionato come debba essere studiata una gerarchia controllata da una serie di principi di confine. Quando esaminiamo qualsiasi livello superiore, dobbiamo rimanere consapevoli in modo sussidiario dei suoi fondamenti nei livelli inferiori e, volgendo la nostra attenzione a questi, dobbiamo continuare a vederli come influenti sui livelli al disopra di essi. Questa alternanza di dettaglio e di integrazione certo lascia aperti molti rischi. Il dettaglio può portare ad eccessi di pedanteria, mentre integrazioni troppo ampie possono offrirci un vago impressionismo. Ma il principio delle relazioni stratificate offre almeno un quadro razionale per una ricerca sugli esseri viventi ed i prodotti del pensiero umano.

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Ho detto che la discesa analitica dai livelli superiori ai loro sussidiari di solito è fattibile in qualche misura, mentre l’integrazione di elementi di un livello inferiore tanto da predire il loro possibile significato in un contesto superiore può andare oltre l’ambito delle nostre capacità di integrazione. Posso ora aggiungere che le stesse cose possono apparire dotate di un significato congiunto se viste da un certo punto di vista, ma prive invece di questa connessione se viste da un altro punto di vista. Da un aeroplano possiamo vedere le tracce di siti preistorici che, lungo i secoli, sono passate inosservate da parte delle persone che ci passavano sopra; in effetti, una volta atterrato, lo stesso pilota può non vedere più queste tracce. La relazione della mente con il corpo ha una struttura simile. Il problema mente-corpo nasce dalla disparità fra l’esperienza di una persona che osserva un oggetto esterno, per esempio un gatto, ed un neurofisiologo che osserva il meccanismo corporeo mediante il quale la persona vede il gatto. La differenza nasce dal fatto che una persona posta all’interno del suo corpo ha una conoscenza a partire da delle risposte corporee evocate dalla luce nei suoi organi di senso, e questa conoscenza a partire da integra il significato congiunto di queste risposte a formare la visione del gatto; mentre il neurofisiologo che guarda a queste risposte dall’esterno ha solo una conoscenza a di esse che, come tale, non è integrata nella visione del gatto. Questa è la stessa dualità che esiste fra l’aviatore e il pedone nell’interpretare le stesse tracce; ed è anche la stessa che esiste fra una persona che, quando legge una frase scritta, vede il suo significato ed un’altra persona che, essendo ignorante del linguaggio, vede solo lo scritto. La mente è il significato di certi meccanismi corporei; essa è persa di vista quando guardiamo ad essi in modo focale. La consapevolezza della mente e del corpo ci pone quindi di fronte due cose differenti. Grazie all’esistenza di due tipi di consapevolezza – la focale e la sussidiaria – possiamo distinguere nettamente fra la mente come un’esperienza da-a ed i sussidiari di quest’esperienza quando sono visti in modo focale, come un meccanismo corporeo. Possiamo allora vedere che, sebbene radicata nel corpo, la mente è libera nelle sue azioni – esattamente come il nostro senso comune sa che essa è libera. La mente imbriglia meccanismi neuro-fisiologici; sebbene essa dipenda da essi, non è determinata da essi. Inoltre, la stessa mente include una sequenza ascendente di principi. Le sue funzioni appetitive ed intellettuali sono trascese da principi di responsabilità. Così lo sviluppo dell’uomo fino ai suoi livelli più elevati appare avere luogo lungo una sequenza di principi crescenti. E vediamo questa gerarchia evolutiva costruita come una successione di confini, ciascuno rivolto verso realizzazioni superiori imbrigliando gli strati al disotto di esso, cui essi stessi non sono riducibili. Questi confini controllano una serie crescente di relazioni che possiamo comprendere solo essendo coscienti delle loro parti costitutive in modo sussidiario, riferendole al livello superiore al cui servizio esse sono.

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Il riconoscimento di certe impossibilità di base ha posto i fondamenti di alcuni principi fondamentali della fisica e della chimica; in modo simile, il riconoscimento dell’impossibilità di comprendere gli esseri viventi in termini di fisica e di chimica, lungi dal porre limiti alla nostra comprensione della vita, la guiderà nella direzione giusta. Ed anche se la dimostrazione di questa impossibilità dovesse risultare di non grande vantaggio per lo sviluppo della ricerca, essa aiuterebbe a disegnare un’immagine della vita e dell’uomo più vera di quella che presentano le attuali concezioni di base della biologia. Se diamo per scontato che ogni cosa che ha avuto un'origine è destinata ad avere anche una fine, dobbiamo dedurre che la morte è parte costitutiva della vita dell'universo. In che modo però si può trarre la conclusione che, siccome anche l'universo ha avuto un'origine, anch'esso è destinato a finire? E' possibile cioè credere che la morte sia una legge dell'universo che non minaccia la sopravvivenza dell'universo stesso? Oppure dovremmo essere portati ad affermare il contrario, e cioè che l'attuale configurazione dell'universo è strettamente correlata alla conformazione della terra, per cui il destino dell'universo e della terra è analogo? E' cioè possibile ipotizzare l'idea che, essendo la terra un prodotto "finale" dell'universo, la sua evoluzione è interdipendente, strettamente interconnessa, con quella dell'universo? E che pertanto la morte dell'attuale conformazione del nostro pianeta coinciderà con la morte dell'attuale configurazione dell'universo? In una parola: la morte inevitabile che attende l'intero universo comporterà la fine di ogni cosa o soltanto la sua trasformazione? Se si ponessero l'essere e il nulla sullo stesso piano, non si avrebbe alcun vero inizio, a meno che non si volesse considerare il nulla come parte dell'essere: ma allora i due principi non sarebbero equivalenti. Che il nulla sia parte dell'essere è una legge dell'universo; non c'è "essere puro" che non conosca la legge della trasformazione della materia. Cionondimeno bisogna affermare che l'essere ha una priorità ontologica sul nulla, nel senso che non c'è "nulla" in grado di distruggere l'essere. L'essere ha un primato che impedisce alla morte di essere la fine della vita. Se essere e nulla coincidessero o si equivalessero, non si spiegherebbe l'origine dell'universo, poiché non vi sarebbe una ragione sufficiente (necessaria, non la "migliore possibile", come diceva Leibniz) che ne spieghi la nascita. Se invece il nulla è parte dell'essere, lo è solo nel senso che la morte è finalizzata alla conservazione o comunque alla trasformazione dell'essere. Ma se la morte ha questo scopo, essa non può avere la caratteristica della permanenza eterna (invarianza). La morte va considerata come un processo transitorio, un fenomeno temporale, interno a una dimensione, i cui confini, per il

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momento, ci sfuggono (ancora infatti non conosciamo il momento esatto in cui l'attuale configurazione dell'universo è nata, né possiamo prevederne la fine). Praticamente l'attuale esistenza in vita del pianeta terra rende irrilevante la morte dei singoli individui che fino ad oggi l'hanno abitato. Finché sussiste la condizione formale, estrinseca, che permette all'uomo di riprodursi o comunque di evolvere, la morte del singolo non ha un valore assoluto, nemmeno per chi l'ha vissuta, poiché fino a quando la terra sarà in vita, il significato della morte del singolo non potrà essere disgiunto dal significato del nostro pianeta o comunque dell'intero genere umano. La morte dei singoli non intacca l'evoluzione del genere umano. Una morte potrebbe essere considerata assoluta, da tutti i punti di vista, se si distruggessero definitivamente le condizioni formali della sopravvivenza, cioè della riproduzione. L'uomo è in grado di fare questo nell'ambito della terra? Le leggi dell'universo glielo permetterebbero? E' forse possibile dimostrare la propria indipendenza da tali leggi, autodistruggendosi? Non è forse questa una contraddizione in termini? In ogni caso, finché le condizioni della sopravvivenza restano inalterate, la morte di ogni singolo essere umano non può essere considerata che come una prefigurazione della futura morte e del pianeta terra e dell'universo attuale. La differenza sostanziale sta nel fatto che la morte del singolo essere umano non può mai avere quel carattere di assolutezza che può avere la morte del nostro pianeta e dell'attuale universo. Finché moriranno solo i singoli noi saremo costretti a pensare che il significato della loro vita (e quindi della loro morte) rientra nel più generale significato dell'universo e del suo prodotto finale: la terra. Nel senso che la morte del singolo essere umano rientra nel destino complessivo, globale della terra e, di conseguenza, in quello dell'attuale universo. L'universo pare abbia un progetto sulla terra, quello di portarla a distruzione (il che implica una trasformazione e non un annullamento). La realizzazione di questo progetto comporta però una retroazione sulla stessa attuale configurazione dell'universo, nel senso che anche l'universo subirà una corrispondente trasformazione. La morte del nostro pianeta rientra dunque in un progetto che è sostanzialmente di vita. La morte, in senso stretto, non è che un passaggio, una transizione da una forma di vita a un'altra, in cui nulla del passato viene perduto. L'identità infatti sta nella memoria, oltre che nel desiderio. Questo significa che all'origine dell'universo c'è l'essere, cioè la vita, non la morte. La morte è un processo della vita, che aiuta la vita a perfezionarsi. La morte è una sorta di trasformazione della materia che rende la materia più complessa, più perfetta. Oggi riusciamo ad avere coscienza di una grande complessità delle cose. Ciò sta a significare che l'esperienza della morte dei singoli individui non c'impedisce di comprendere sempre meglio la complessità o comunque la vera essenza delle cose.

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Praticamente il genere umano non muore mai come genere. Progredisce all'infinito, in forme e modi che per il momento non possiamo sapere. Il genere umano potrebbe progredire così tanto, potrebbe maturare una coscienza così grande da avvertire come troppo stretti, troppo angusti, i confini dell'attuale universo. E' probabile, sotto questo aspetto, che lo scopo dell'universo sia quello di far prendere coscienza all'uomo della propria infinità. C'è dunque nell'universo un finalismo che solo dal punto di vista dell'uomo possiamo comprendere. Microcosmo e macrocosmo si equivalgono. Non dobbiamo quindi dimenticarci che quanto più ci avviciniamo alla comprensione di tale finalismo, tanto più avvertiamo l'universo come troppo piccolo per la nostra coscienza. Esiste quindi una responsabilità cui non possiamo sottrarci: l'umanità ha il compito di evolvere verso l'autocoscienza. Qui forse sta il senso della irreversibilità del tempo. Ma se dobbiamo imparare qualcosa dall'evoluzione avvenuta sulla Terra dobbiamo convenire che non v'è stata specie che non si sia estinta. La grande lezione dei dinosauri ci insegna che la vita è precaria nell'universo. Che l'uomo possa essere una eccezione è difficile crederlo. Prima i rettili, poi i mammiferi, poi l'uomo, e dopo le macchine o forse gli insetti. Alle soglie del XXI secolo gli scienziati si pongono come oggetto di studio un fenomeno che prima avevano cercato di evitare con cura: il fenomeno della coscienza. Voglio qui riportare l'ipotesi di Montecucco sul tema della coscienza. Ipotesi coscienza: la coscienza del sé come 'cuore' degli esseri viventi

di Nitamo Federico Montecucco Non solo Dian Fossey con i suoi gorilla di montagna o i coniugi Lilly con i delfini o Donald Griffin con le sue ricerche sulla coscienza animale, ma anche tutti gli esseri umani che sono entrati in profondo amore ed empatia con gli animali sono stati affascinati della loro sensibilità e della loro intelligenza. Non solo San Francesco ma i mistici di ogni tempo hanno espresso con convinzione anche maggiore questa esperienza di comunione con i nostri fratelli più primitivi: per loro anche gli animali hanno coscienza! Ora anche il mondo scientifico sta riscoprendo l'affascinante e ineffabile dimensione della coscienza animale. Fino a pochi anni fa la linea scientifica ufficiale, sviluppatasi dall'impostazione cartesiana, sentenziava che gli animali sono delle macchine biologiche, mosse da puri istinti e quindi senza nessuna libertà di decisione ne tantomeno coscienza di se. Ora questa linea di tendenza cozza contro i dati e le osservazioni dei biologi, degli etologi e dei neuropsicologi più avanzati, come Lorenz, Bateson, Lilly, Bonner e altri di cui potrete leggere negli articoli di questo dossier. A questa nuova tendenza, che considera gli animali come esseri dotati di una loro mente, sensibilità

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e intelligenza, si sono anche affiancati fisici, cibernetici, psicanalisti e filosofi che sono giunti a queste considerazioni partendo da altre esperienze. Vorrei contribuire a questa profonda rivalutazione dell'aspetto psichico intrinseco in ogni essere vivente con una proposta teorica particolarmente provocatoria che potenzialmente potrebbe permettere un alto grado di unificazione tra le differenti aree culturali coinvolte su questi temi. La mia ipotesi di lavoro è che la coscienza sia il vero 'nucleo originario' di ogni forma di vita, inclusa quella atomica. La 'coscienza', definita come 'la capacità di percepire il significato di una informazione', è presente in ogni essere vivente, anzi ne rappresenta il 'cuore', l'essenza. Benché questo sia per me e molti altri amici e collaboratori un fatto ormai ben compreso e documentato, ritengo, dati i condizionamenti culturali, scientifici e religiosi che ancora ostacolano la visione del singolo scienziato, che sia necessario presentare questa nuova visione dei fenomeni come se fosse ancora tutta da dimostrare, proponendola come 'ipotesi coscienza'. Sotto il termine coscienza, dizionario alla mano, si celano in realtà innumerevoli concetti: la definizione che ho proposto permette di ribaltare completamente tutte le definizioni fino ad ora utilizzate e permettere di interpretare su base informatico-cibernetica i fenomeni mentali presenti nelle unità biologiche e il loro sviluppo cronologico. Nella capacità di autodeterminazione o 'volontà' che i batteri hanno dimostrato di avere sui processi di mutazione del loro codice genetico, è racchiusa la logica stessa del vivente. Prendiamo una cellula, essa è un 'mondo vivente', una sfera composta da miliardi di atomi in continuo e incessante scambio di informazioni; la cellula vive proprio grazie a questa continua comunicazione interna in cui ogni elemento dell'insieme 'informa' e viene informato dall'insieme stesso. Su questa 'rete unitaria di informazioni', sono veicolati i dati sullo stato fisico, sui bisogni biochimici, e sulle necessità dell'intero sistema. Gli esseri viventi sono dal punto di vista della termodinamica di Prigogine dei 'sistemi lontani dall'equilibrio' ossia dei sistemi instabili che, per esistere, devono continuamente scambiare materia e informazioni con l'esterno e che necessitano di un continuo lavoro per mantenere il proprio equilibrio vitale; questo equilibrio instabile è mantenuto grazie ad una ininterrotta comunicazione, elaborazione e gestione delle informazioni. È necessario chiederci: qual è la base dell'unitarietà di questa gestione di informazioni? Non potrebbe esserci vita senza questa continua comunicazione in rete ed è implicito che la cellula, nel suo insieme, deve essere in grado di percepire il significato di queste informazioni. L'unità cellula, matrice di tutte le più complesse forma di vita, esiste in quanto è cosciente del significato di tutti gli elementi di cui è composta e quindi, in ultima analisi, è cosciente della sua globalità. Considero questa coscienza unitaria delle

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informazioni presenti nella propria struttura come la matrice del fenomeno dell'individualità biologica, dell'identità o self cellulare. La coscienza delle informazioni dell'intera rete costituisce la base delle coscienza di sé. Cyber (dal greco Kubernetes: colui che governa, che dirige) è il termine che ho scelto per designare questa coscienza unitaria globale che 'governa' le attività di ogni organismo vivente. Ritorniamo alla biologia, questo concetto di coscienza, in realtà, è usato costantemente anche se non viene mai definito. Quando parliamo di un cane facciamo riferimento a quella unità in quanto sistema vivente e non al fatto che sia un agglomerato di alcuni miliardi di atomi. I1 concetto di identità, di sé, fino ad ora è stato usato in modo scontato proprio come, prima di Newton, era scontato considerare l'esistenza della forza di gravità benché non esistesse il concetto scientifico. Quando cerchiamo di uccidere una zanzara non abbiamo dubbi che lei sa di esistere e che, per vivere, deve sfuggirci. Ogni

essere vivente sa di esistere e la sua stessa vita è strettamente legata alla sua coscienza di sé stesso, dell'ambiente e delle strategie per sopravvivere. Ogni essere vivente è quindi una unità di coscienza, un cyber. Tutto ciò è assolutamente logico e autoevidente, che cambia è solo la nuova prospettiva introdotta con questa ipotesi di coscienza. Oltre all'analogia della rete di informazioni è possibile e interessante studiare ogni essere vivente come un 'campo di coscienza' ossia un'area di spazio in cui le informazioni sono percepite ed elaborate in modo unitario e finalizzato. I1 processo di evoluzione sarebbe quindi studiato come lo svilupparsi nello spazio, nel tempo e nella complessità delle unità di coscienza. Dai pochi micron del campo di coscienza di un batterio, ai millimetri dei più semplici multicellulari ai metri e ai chilometri del vertebrati, l'ampiezza del campo di informazione gestito dall'unità di coscienza diventa sempre più espanso, efficiente e complesso, fino all'essere umano in grado di espandere il suo campo di coscienza dai livelli subatomici fino agli spazi extragalattici. Ad ogni salto o espansione evolutiva alla base delle conoscenze acquisite si aggiunge un ulteriore livello di organizzazione e di capacità di gestire informazioni. Ad ogni salto evolutivo aumenta il grado di libertà del sistema vivente che, ora, trova il suo massimo nella libertà dell'uomo. Ma è solo una differenza, una lunga scala di innumerevoli gradini, e questo non consente certo di sentenziare che l'uomo è l'unico essere cosciente o dotato di libero arbitrio: ancora breve è la differenza che ci separa dagli altri animali'. La struttura di ogni essere vivente parte da un identico schema per poi evolversi nello spazio, nel tempo e nella complessità. Analizzando in dettagli le attività biologiche e informatiche della cellula risulta evidente che non solo la cellula nella sua totalità è in grado di percepire il significato delle informazioni presenti al suo interno e che le giungono dall'esterno

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ma è anche in grado di decodificarle e integrare questo nuovo significato con quelli delle informazioni presenti nel suo codice genetico fino ad elaborare una risposta da utilizzare operativamente per la sua stessa sopravvivenza. Ogni cellula, in altri termini ha coscienza delle informazioni che percepisce, le memorizza, le integra con quelle che ha già ricevuto ed elabora strategie di intelligenza e finalità. In altri termini la cellula è già in grado, seppure su una scala di differente complessità, di fare le stesse operazioni mentali che sono state reputate proprie dell'uomo. Appare evidente che utilizzando questa definizione cibernetica di coscienza ogni aspetto della vita diventa un fenomeno di coscienza in quanto in ogni fenomeno

biologico sono necessariamente implicati processi di percezione di informazioni e della loro elaborazione, memorizzazione e utilizzo finalizzato. Oltre le concezioni dicotomiche Con questa concezione non è più necessario quindi ricorrere alla dicotomia classica che vede coloro che sentono l'incredibile bellezza e intelligenza del creato e postulano l'esistenza di un Dio, di un'entità esterna che ha creato il tutto, contrapposti a quelli che, infastiditi dalle proposte fideiste, dogmatiche non verificabili delle religioni, sostengono invece una visione meccanistica per cui la materia è tutto e ogni fenomeno trova spiegazione nelle sue stesse leggi fisiche naturali e che quindi non è necessario concepire alcuna coscienza o entità soprannaturale. La mia ipotesi è una sintesi delle due: nelle stessi leggi della fisica e della materia sono impliciti i segni della coscienza, ed è questa che continuamente crea, mantiene ed evolve la vita. Non una coscienza antropomorfizzata ed esterna che esiste in una dimensione diversa dalla mostra mia, al contrario, una coscienza 'interna', 'implicata' (come usa dire Bohm) in ogni singolo atomo di ogni vivente. L'ipotesi di una coscienza implicata nei fenomeni biologici equivale a dire che la natura stessa della vita è coscienza di sé e dell'ambiente esterno. E tutta quanta l'esistenza diventa viva, pulsante, intelligente; dal sasso, alle balene, alle foreste tutto è compreso in una visione unitaria: si apre uno scenario vasto e misterioso dove, finalmente, anche lo scienziato è chiamato a comprendere l'aspetto più inafferrabile e magico della vita dentro e fuori di lui: la coscienza stessa.( Nitamo Federico Montecucco) Questa ipotesi di Montecucco è estremamente affascinante. Ma la nostra esperienza cosciente è un po’ diversa. In particolare noi siamo consci solo di una piccola parte della nostra vita psichica, esiste l'inconscio che partecipa attivamente al nostro essere. Se ci ammaliamo poi guariamo indipendentemente dalla nostra consapevolezza. Il cuore pulsa, lo stomaco digerisce e il cervello pensa. La coscienza, per come la conosciamo, non è sufficiente a spiegare la vita.

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Cos'è la coscienza? L’essere coscienti? Cosa costituisce il cuore pulsante di ogni essere vivente? Cos'è realmente il Sé o self o identità, e dov’è la sua sede nel corpo? Cos'è la soggettività che si esprime in ogni uomo e in ogni animale? Esiste un centro di coscienza dentro di me e dentro di voi? Cosa significa realmente cogito ergo sum: ho coscienza quindi esisto? Qual è la natura dell'osservatore che, in me, percepisce l'esistenza come informazioni e significati? Chi sono "io"? Che cos'è ciò che chiamo "io"? Dov'è? Qual è la "sostanza" del pensiero? Come possiamo quantificarla? La scienza costituisce il grande potere della nostra epoca, nel bene e nel male, nell'avanzamento tecnologico e nella distruzione ambientale; essa ha sostituito in qualche modo la religione assumendosi l'incarico di esprimere la verità, e la verità scientifica è di fatto l’unica universalmente riconosciuta su questo pianeta diviso da mille ideologie, poteri, culture e teologie. Il metodo sperimentale ha di certo contribuito a creare le basi per una visione e una cultura trasversale tra i popoli e le visioni del mondo, ma si è fermato per colpa dei suoi limiti interni e della sua mancanza di globalità di fronte alla comprensione degli aspetti più sottili e profondi del vivente, uomo, animale o natura che sia. Il problema della coscienza, da sempre evitato dalla scienza, sta diventando un tema centrale nel proseguo della ricerca scientifica, da più parti diventa sempre più importante comprendere la natura della coscienza. Nell'interpretazione della meccanica quantistica l'osservatore diventa parte integrante del sistema di misurazione da cui non si può più prescindere. Le filosofie orientali da sempre hanno posto la coscienza come centro della propria ricerca, la coscienza è ovunque ed è parte integrante della realtà. Ma nella nostra esperienza noi abbiamo a che fare solo con la nostra privata e personale coscienza, e ci appare molto difficile attribuire ad un sasso la pur che minima coscienza. La coscienza scompare quando cerchiamo di descriverla a parole o quando cerchiamo di definirla tramite comportamenti. Il nostro centro, il nostro punto di vista, fagocita tutti gli stimoli percettivi e li riporta ad un unico principio interpretativo: non possiamo prescindere dai nostri processi cognitivi. I nostri stati mentali si realizzano nel nostro cervello e sono processi che avvengono in una modalità unica e contingente in ogni atto di percezione o pensiero. Sembra inevitabile un dualismo semantico tra mondo esteriore e mondo interiore, una complementarietà da cui non possiamo sfuggire. Una scienza senza coscienza è un enorme pericolo, è un potere senza cuore, una forza senza sensibilità. La scienza, che di fatto significa conoscenza, ha indagato la realtà esteriore ma non ha mai indagato la natura del conoscitore stesso, la dimensione essenziale e interiore della coscienza che anima lo scienziato come ogni altro essere vivente. La scienza dimentica che tutte le sue scoperte sulla realtà materiale del mondo sono dovute alla coscienza e alla mente intelligente degli

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scienziati e dei ricercatori che hanno intuito, compreso e conosciuto l'esistenza. Ma quali sono state le cause di questa divisione mentale tra materia e coscienza? Le ragioni e i limiti di questo atteggiamento riduzionista si possono rintracciare nella storia della scienza. La scienza per progredire è stata costretta a separare lo spirito, su cui nulla era possibile dire, dalla materia che invece diventava l'oggetto primario della ricerca scientifica. Cartesio separa il corpo dall'anima È l'inizio del XVII secolo, con la figura di Galileo la religione cattolica prende atto della sua debolezza teorica e metodologica. Il metodo sperimentale iniziato da Galileo e le scoperte da esso derivate crearono una forte reazione da parte della Chiesa. Il sapere scientifico andava a demolire antichi dogmi teologici e filosofici, mettendo in pericolo la validità globale della struttura di fede, non più sostenuta da un'esperienza spirituale collettiva. Uno dei punti fondamentali della nascita della dicotomia tra materia e spirito spetta a Cartesio. Cartesio, essendo sia scienziato che religioso, nel suo libro Il Mondo, pubblicato postumo, evidenziò la sua propensione ad una visione abbastanza aperta del mondo in grado di includere negli aspetti materiali anche quelli spirituali. Venuto a conoscenza delle repressioni subite da Galileo, Cartesio decise di bloccare il suo libro prima che venisse pubblicato e, al posto di questa visione unitaria, da consumato diplomatico conscio della grave situazione, propose una netta separazione di campi e ambiti di competenza. La Chiesa aveva come pertinenza la Res Cogitans (sostanza cosciente) ossia l’anima e lo spirito, che è immateriale, mentre la scienza doveva occuparsi esclusivamente della Res Extensa (sostanza materiale): la materia vile e grezza. Questa proposta di separazione di domini funzionò perfettamente. Sulla questione dell’unità di mente e corpo Cartesio rispose che il corpo umano è solo una macchina, guidata dall'anima attraverso un piccolo punto: la ghiandola pineale. La separazione era possibile; la Chiesa non perdeva il suo potere e la scienza iniziava la sua clamorosa e inarrestabile espansione. Nella seconda metà del 1600 nascono le correnti filosofiche del materialismo e del meccanicismo, che riconoscono solo l'esistenza della sostanza fisica e che negano l'esistenza dell'anima e di ogni sostanza spirituale. Sottomettendosi ai voleri della Chiesa e seguendo la direzione indicata da Cartesio, la scienza si appropria così della realtà materiale studiandola con attitudine razionale e riduttiva, rimuovendo la coscienza da ogni suo studio e interpretazione. Questo orientamento filosofico era ovviamente causato anche dalla generale mancanza di autentiche esperienze spirituali tra gli scienziati e da una concezione di un Dio avulso dalla realtà, che crea dall’alto. Il diciottesimo secolo vede lo svilupparsi dell'Illuminismo e, nella prima metà del diciannovesimo secolo, in Francia, dalla radice illuminista, nasce il Positivismo, quasi un parallelo filosofico dello sviluppo tecnologico industriale ottocentesco, che si sviluppa rapidamente in tutta Europa. Il Positivismo, secondo Comte, vuole

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designare il raggiungimento di un livello "scientifico" del sapere umano, in contrapposizione agli stadi precedenti: quello "teologico" e "metafisico". E non a torto! Dopo secoli di oscurantismo medioevale, di superstizioni irrazionali, di religioni che imponevano dogmaticamente l'andamento e la posizione delle stelle, era infatti utile e necessaria una buona dose di illuministica razionalità e logica scientifica per aprire un nuovo capitolo della conoscenza. Ma così facendo si butta il bambino con l'acqua sporca. La negazione dell'anima sancisce la decadenza della logica imposta dalla religione ufficiale ma impoverisce la comprensione della scienza stessa. Scienza senza coscienza che studia la materia vivente senza comprendere la vita, e che studia l’essere umano senza percepirne la psiche e le emozioni. Gli scienziati nella loro ricerca di certezze e prove tendono a rigettare il meraviglioso. Jacques Cousteau Questo background filosofico si sviluppa in realtà per uno stato di povertà spirituale di fondo che, fatta eccezione per un ristretto numero di mistici, da millenni caratterizza la nostra cultura occidentale, tanto da far assumere che la grande maggioranza della società, nonostante si dichiari religiosa o credente, è di fatto priva di un'esperienza spirituale diretta della propria coscienza, per cui la "coscienza" non viene insegnata, stimolata e riconosciuta. Solo una trascurabile parte della nostra società si pone reali domande sulla propria natura interiore; nessuno, statisticamente parlando, cerca una reale esperienza del Sé, nessuno percepisce la sacralità dell’esistenza, vivente e intelligente, che lo circonda e di cui egli stesso è parte inscindibile. Questo si riflette anche sugli scienziati e sulla loro interpretazione dei fenomeni che diventa riduttiva e materialista. L'esperienza dell'essere, della "chiara luce" della coscienza, è ritenuta non necessaria, anzi spesso antitetica, alla forma mentis dello scienziato tradizionale. E, a maggior ragione, nessun ricercatore scientifico ufficiale, si è mai chiesto: "Chi sono io? Qual è la natura della mia stessa coscienza? Come posso conoscere e indagare questa dimensione soggettiva con un metodo scientifico sperimentale, in modo da ottenere informazioni e conoscenze universali?" Fino a pochi anni fa nessuna di queste domande era stata seriamente formulata e quindi nessuna risposta ne era scaturita, nessuna ricerca, nessuna esperienza, nessun metodo scientifico era stato sviluppato a questo proposito, nessun modello. Sulla consapevolezza di questa profonda dicotomia tra scienza e spiritualità, la tendenza filosofica e scientifica più avanzata degli ultimi decenni è stata quella di riformulare i termini della ricerca e, in alcuni limitati casi, del metodo sperimentale secondo una concezione scientifica olistica, in modo tale che il campo di conoscenza scientifica potesse abbracciare e comprendere ogni fenomeno dell’esistenza in modo unitario, ricucendo la frattura tra scienze fisiche e scienze umane e psicologiche, e, più in generale, tra scienza e natura, frattura che sta alla

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base della gravissima crisi ecosistemica globale. Riunire queste due dimensioni (che di fatto non sono mai state separate se non nella nostra mente) dovrebbe diventare nell'immediato futuro l'impegno primario dell’intelligenza internazionale. La vita e la coscienza possono essere interpretati come processi informatici. Osservando e descrivendo il mondo in termini di informazioni diventiamo consapevoli, come già accadde a Gregory Bateson, che praticamente tutto può essere spiegato con questo codice, e in particolare i fenomeni più affascinanti: la comunicazione tra delfini, le incredibili architetture dei cristalli, dei termitai o dei cervelli, le capacità di apprendimento, di riconoscimento, di memoria e di comunicazione dei globuli bianchi, le complesse strutture unicellulari, la vita delle api, fino all'intera organica rete di relazioni che è l'intelligenza inesplicabile del nostro pianeta: la Terra Gaia. Utilizzando i codici dell’informazione, Manfred Eigen ha dato una nuova, affascinante luce al fenomeno dell’origine della vita sulla Terra e all’intero processo dell’evoluzione. Secondo Eigen l’informazione rappresenta l’essenza stessa della vita e, pur essendo sempre coerente alle leggi di natura, costituisce un codice d'interpretazione che apre una dimensione evolutiva totalmente nuova. Siamo alle soglie di una possibile rivoluzione scientifica globale: la coscienza e i fenomeni dell'intelligenza naturale, fino ad ora non considerati dalla scienza, iniziano ora ad essere misurati in termini di informazione e, quindi, analizzati e compresi come processi reali. E’ necessario rifondare la scienza, cercando di percepire in ogni essere e fenomeno l'unità tra materia e coscienza, tra energia e informazione, ossia tra la forma oggettiva del corpo e il contenuto soggettivo di informazioni della psiche. Come propone Francis Crick, una scienza olistica può esistere solo accettando che la dimensione della coscienza, e i fenomeni ad essa connessi, siano un legittimo e essenziale campo di ricerca e conoscenza scientifica. La cibernetica rappresenta lo strumento tecnico e cognitivo per comprendere i processi di coscienza, e l'unità in essi "implicata", quantificandoli, analizzandoli e studiandoli come informazioni. Ma la scienza galileiana non ha gli strumenti per indagare sulla coscienza, occorre a questo proposito una apertura a nuovi paradigmi. Una esperienza unica ed irripetibile può essere fondante per la nostra coscienza. Non a caso alla fine si torna sempre ad un atto di fede. La riproducibilità dell'esperimento è un aspetto di cui non si può fare a meno affinché un fatto possa essere ritenuto scientifico. L'esperienza estatica di un mistico sfugge ad un qualsiasi approccio scientifico. Siamo di fronte ad un mare e non possiamo svuotarlo con il semplice secchio della nostra mente.

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Immaginiamo di essere alle prese con un’equazione matematica estremamente complessa, un’equazione differenziale a n variabili. Immaginiamo di avere esplorato tutte le soluzioni analitiche convenzionali senza cavarne un ragno dal buco. Immaginiamo anche di avere trasferito la nostra sfida matematica nella potente memoria di un computer, il quale ci abbia risposto, con nostro sommo sconforto, che non esistono soluzioni definite. Non traspare una configurazione “normale” di valori che dia soddisfazione alla nostra equazione. Cosa facciamo, gettiamo la spugna? No, è ancora presto per arrendersi. Proviamo, innanzitutto, ad osservare il sistema fisico da cui abbiamo estratto la nostra difficilissima equazione: potrebbe trattarsi, per esempio, della descrizione delle condizioni meteorologiche di una certa regione del globo. Abbandoniamo per un momento l’equazione e limitiamoci ad osservare il sistema fisico di riferimento: non notiamo nulla di strano. I valori (pressione, umidità, temperatura, e così via) mutano ed evolvono in continuazione, ma nessuna legge fisica sembra essere intaccata. Non succede nulla di miracoloso nella dinamica atmosferica: ogni tanto si scatena un temporale, talvolta piove, talvolta è sereno. Perché allora la nostra equazione è così misteriosa? Ma soprattutto, perché siamo portati a pensare che un’equazione priva di soluzioni definite una volta per tutte sia “misteriosa” o problematica? Non sarà che abbiamo applicato la metafora sbagliata al contesto sbagliato? Torniamo alla nostra equazione e tentiamo un’altra strada. Anziché cercare la pietra angolare su cui dovrebbe reggersi l’equazione in via definitiva, cambiamo approccio epistemologico. Rinunciamo per qualche istante all’ambizione di trovare la “legge”, elegante e universale, che regola il sistema e limitiamoci ad osservare il comportamento dell’equazione. Ogni volta che questa ci darà un set di soluzioni, le fisseremo su un diagramma di funzione. L’utilizzo di un buon computer ci permetterà di visualizzarne rapidamente il tracciato. Nella nostra mente, adesso, stiamo privilegiando non la “forma” ma la “storia” del sistema rappresentato matematicamente. Come davanti ad un film, facciamo “girare” la nostra equazione e stiamo a vedere cosa succede. In una prima fase i risultati dell’equazione ci daranno una serie di punti disseminati a caso nel diagramma: il comportamento ci apparirà dunque caotico e privo di significato apparente. Mano a mano che i punti si infittiscono l’apparenza di tale disordine senza senso si acuirà e ci sembrerà di essere dinanzi ad un groviglio assurdo di punti sconnessi l’uno dall’altro. Poi, d’incanto, come quando osserviamo il disegno a matita di una giovane donna e ci accorgiamo all’improvviso che dietro quella fisionomia si nasconde il profilo di una vecchia, superata una certa soglia emergerà una forma, una configurazione, una struttura globale che non avevamo notato prima. Grazie a questo gestalt switch abbiamo scoperto che quell’equazione e il sistema da essa descritto non hanno un set di soluzioni prefissate e ciò nonostante presentano una loro regolarità, una loro peculiare fedeltà ad una forma dinamica.

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In termini tecnici, diciamo che hanno un loro “attrattore”, cioè un bacino che attrae le traiettorie del sistema allorché siano rappresentate in un diagramma di funzione. Ogni sistema fisico complesso possiede un attrattore “strano”, cioè un attrattore che non si limita a far collassare il sistema sempre nello stesso punto (come una pallina in un imbuto) né lo condanna ad una perenne oscillazione fra due punti definiti (come un pendolo ideale), ma che abbraccia tutte le infinite traiettorie possibili del sistema in una forma, spesso sinuosa e involuta come un’opera d’arte barocca. La stranezza (e la magia) di un attrattore strano consiste nella sua capacità unica di tenere insieme due concetti filosofici antitetici: l’imprevedibilità e l’ordine. Sistemi come quelli meteorologici godono infatti della perturbante proprietà di essere estremamente sensibili alle condizioni iniziali, una piccola variazione in una qualsiasi delle variabili di partenza può spostare il sistema su una traiettoria completamente diversa. Ciò significa che modificando, anche impercettibilmente, le condizioni iniziali nessuno (nemmeno il supercomputer più potente che possiamo costruire in linea teorica) è in grado di prevedere dove esattamente il sistema andrà a finire di lì a poco tempo. Benché immersi nella più assoluta imprevedibilità, esiste per tali sistemi una forma, un’obbedienza, una struttura, data da un attrattore specifico. Noi non sappiamo esattamente dove si troverà il sistema fra una settimana (e quindi che tempo farà), ma possiamo scommettere con certezza che si troverà sempre all’interno del suo attrattore, della sua struttura evolutiva. Fuori da quel bacino di attrazione le sue traiettorie non si spingeranno mai. Detto in altri termini, il sistema gode di una sua precipua “regolarità”, di un suo ordine sottostante, pur restando intrinsecamente imprevedibile. Ma per scoprire questa “stranezza” abbiamo dovuto rinunciare ad una concezione deterministica di legge universale, cioè ad una relazione stabile fra variabili che ci permetta (date certe condizioni iniziali) di prevedere l’andamento del sistema da qui all’infinito, e abbiamo dovuto appellarci ad un ordine emergente dal comportamento dinamico del sistema. Siamo passati, in altri termini, da una matematica quantitativa ad una matematica qualitativa (se non fosse un ossimoro, si potrebbe dire una “matematica soft”), una matematica di forme, di strutture e di topologie, l’unica in grado di maneggiare sistemi esposti ad un alto grado di imprevedibilità, giacché qualsiasi perturbazione può essere cruciale e spostare la traiettoria in un’altra regione dell’attrattore. Il fisico Stephen Wolfram, in un voluminoso compendio sulla modellizzazione dei sistemi complessi, si è spinto fino a parlare di un “nuovo tipo di scienza” (Wolfram, 2002). È come se esistesse un ordine nascosto che non possiamo afferrare tutto insieme: dobbiamo inseguirlo, di volta in volta, attraverso i suoi pattern emergenti (Ward, 2001). Tutti i sistemi biologici, per la loro natura reticolare, hanno sempre goduto di questa “stranezza”, di questa alchimia fra ordine e imprevedibilità, fra forme e

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processi, in cui consiste forse il segreto della “complessità biologica”. Una volta tanto, la fisica ha imparato la lezione dalla biologia. In effetti, la svolta epistemologica si è consumata quando anche le scienze fisiche hanno appreso l’arte di raccontare storie. Una dimensione comune sembra infatti avvicinare da alcuni anni discipline scientifiche molto diverse fra loro, tradizionalmente separate dalla demarcazione fra scienze hard e scienze soft: la dimensione intrinsecamente evolutiva e storica dei sistemi fatti oggetto di studio, siano essi sistemi fisici, sistemi biologici, sistemi culturali. Oggi la cosmologia è una scienza evolutiva, ma lo sono sempre più anche la fisica delle particelle e la chimica. La geologia, grazie alla teoria della tettonica a placche, è diventata da alcuni decenni un’importante disciplina evoluzionistica e si affianca alla biologia e all’ecologia nella ricostruzione della storia naturale della vita sul pianeta. Insomma, la natura, animata e inanimata, ha conquistato finalmente lo statuto di storicità che le spetta. Ma questa svolta ne porta con sé un’altra, ancor più importante. Proprio come nella matematica qualitativa a caccia di strutture che concilino ordine e imprevedibilità, nelle più diverse discipline impegnate nello studio della storia naturale sta emergendo una comune sensibilità per pattern esplicativi di tipo evolutivo, cioè per l’emergenza di strutture, di configurazioni ordinate, di schemi di regolarità “simili a leggi” (lawlike) a partire dai quali l’evoluzione traccia poi i suoi percorsi contingenti e unici, esattamente come gli attrattori. Il gioco di rimandi fra strutture emergenti ed eventi contingenti sembra essere dunque un terreno comune a tutte queste ricerche. La transizione non è da poco. Alcuni schemi evolutivi, come quello della deriva dei continenti di Alfred Wegener, furono a lungo misconosciuti e rifiutati nonostante l’accumulo di evidenze empiriche. Eppure, i fisici rintracciano oggi questi schemi profondi addirittura nell’evoluzione subatomica, alla ricerca delle connessioni fondamentali che hanno dato origine alla trama di forze e di materia da cui è scaturito l’universo. I cosmologi scovano strutture ricorrenti nelle tappe della formazione dell’universo e nel ciclo di vita delle stelle. I geologi li ritrovano nei movimenti della crosta terrestre che alterano le correnti oceaniche e modificano il clima, gli ecologi teorici negli schemi di coevoluzione fra le specie e le loro nicchie ambientali, i biologi li scoprono costantemente nelle dinamiche di speciazione e di estinzione, gli studiosi di sistemi caotici vedono emergere strutture ordinate da interazioni apparentemente casuali. Come suggeriscono i più recenti risultati nello studio e nella simulazione dei sistemi complessi, alcune strutture profonde del cambiamento sembrano emergere da campi di ricerca estremamente diversificati. Molti scienziati, come il paleontologo Niles Eldredge, sono favorevoli a questa generalizzazione della teoria evoluzionistica all’ambito dell’evoluzione culturale e tecnologica, purché si

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intendano tali strutture ricorrenti come vincoli che aprono possibilità sempre nuove, e non come leggi prescrittive e universali. Altri autori ipotizzano, invece, l’esistenza di vere e proprie “leggi universali della complessità” che attraversano trasversalmente i tradizionali ambiti disciplinari svelando l’ordine nascosto che accomuna tutti i sistemi complessi, una sorta di “algoritmo universale” dell’evoluzione in tutte le sue salse (Kauffman, 2000; per una disamina critica Greco, 1999). È bene ricordare che nelle teorie dell’evoluzione contemporanee questa consapevolezza dell’importanza di individuare i pattern emergenti, intesi come “sequenze di eventi ricorrenti”, nasce dal rifiuto di concezioni deterministe e riduzioniste dei processi di sviluppo. È proprio l’allargamento della visione evoluzionistica ad una molteplicità di fattori, di ritmi e di livelli sovrapposti ad indurre alcuni biologi evolutivi, dai primi anni settanta, a rinunciare ad una concezione omnipervasiva di “legge evolutiva”, come possono essere la selezione naturale e la selezione sessuale operanti direttamente sul corredo genetico. Nel suo ultimo lavoro, “Le trame dell’evoluzione”, Niles Eldredge ha esplorato, per esempio, le connessioni tra le modalità di funzionamento e di evoluzione dei sistemi biologici e quelle dei sistemi fisici. La natura di questi legami è a suo avviso così forte e radicata nel tempo da modificare profondamente la nostra immagine dell’evoluzione della vita sul pianeta. L’ipotesi di Eldredge si regge sulla constatazione che la distinzione fra la dimensione economica, materiale, fisica ed ecologica dei processi evolutivi (la storia della “materia in movimento” e del trasferimento di energia) e la dimensione genetico-molecolare della trasmissione di informazione biologica di generazione in generazione sbiadisce sempre più: emerge piuttosto un tessuto ad altissima interconnessione fra tutte le dimensioni, fisiche, ecologiche e biologiche, dell’evoluzione della vita e del pianeta. Senza perturbazioni e risonanze a largo raggio fra le varie “gerarchie di livelli” dell’evoluzione non è possibile alcuna trasformazione. La gerarchia “economica” dell’evoluzione viene estesa a tutti i processi geologici e fisici del pianeta, ma anche ai processi cosmologici che ne hanno influenzato talvolta il corso a causa dell’impatto sulla Terra di asteroidi o di frammenti di cometa. L’ipotesi ardita è che sia possibile delineare una “meta-teoria” che mostri come l’evoluzione biologica su media e piccola scala sia mossa dalle stesse forze, dagli stessi pattern, cioè dagli stessi schemi storici ripetuti, che hanno plasmato la geologia e l’ecologia del nostro pianeta su larga scala. La stabilità e le omeostasi, gli equilibri punteggiati e le discontinuità, la successione di specie in una nicchia ambientale, l’habitat tracking delle specie, l’alternanza fra periodi di estinzione di massa e periodi di esplosione della biodiversità, le radiazioni adattive... sarebbero tutti “modelli” di processi evolutivi ricorrenti, riscontrati in ambiti diversi, a volte addirittura nelle scienze sociali. Ben lungi dall’essere determinata soltanto dai “geni egoisti” e dall’elaborazione dell’informazione in essi contenuta, l’evoluzione

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naturale sarebbe dunque guidata da pattern ricorrenti, frutto dell’interazione fra molteplici livelli di cambiamento, dal microlivello genetico fino al macrolivello geologico. Ripercorrendo alcuni episodi cruciali della storia della biologia evoluzionistica moderna letti attraverso il susseguirsi dei loro pattern comuni, Eldredge sta esplorando in questi anni i meccanismi dell’evoluzione su grande scala del pianeta confrontandoli con i meccanismi dell’evoluzione su scala ecologica e biologica, completando così la costruzione della sua teoria naturalistica e pluralistica dell’evoluzione cominciata nel 1972 con la teoria degli equilibri punteggiati, proposta insieme a Steve J. Gould. I processi evolutivi avvengono sempre all’interno di un contesto ecologico e fisico, sono processi intrinsecamente co-evolutivi e costruttivi. La vita emerge da una complessa architettura di gerarchie incrociate di livelli: la gerarchia genealogica della riproduzione; la gerarchia economica di sopravvivenza e di reperimento delle risorse; la gerarchia delle strutture fisiche della crosta terrestre. Ciò significa che l’evoluzione degli organismi che si riproducono, l’evoluzione degli ecosistemi e l’evoluzione del pianeta sono inestricabilmente intrecciate e interdipendenti: le fluttuazioni dell’una si ripercuotono proporzionalmente sull’altra, come l’acqua che oscilla in un secchio quando lo trasportiamo a mano (secondo il modello dello “sloshing bucket”). Esse costituiscono una rete funzionale integrata i cui pattern profondi attendono ancora di essere scoperti. In realtà, la biologia evolutiva “post-darwiniana” e le teorie dei sistemi complessi non lineari ricorrono incessantemente all’idea di pattern, in una molteplicità di accezioni diverse che possiamo qui brevemente richiamare. I pattern proposti da Niles Eldredge sono in un certo senso di tipo macroscopico: noi osserviamo una sequenza di accadimenti storici che caratterizzano un sistema biologico (direttamente, nel caso di ecosistemi attuali; indirettamente, attraverso i fossili, nel caso di specie e di ambienti estinti) e, come abbiamo fatto con le soluzioni della nostra “strana” equazione di partenza, mettiamo i puntini al loro posto. In molti casi dovremo semplicemente raccontare storie locali, singolari e sconnesse, come dettagli minori innescati dai meccanismi di base dell’evoluzione naturale. In altri casi, però, dal caleidoscopio della complessa fenomenologia naturale emergeranno alcuni “schemi”, alcuni comportamenti ripetuti, alcuni modelli di sviluppo ricorrenti, per esempio lunghi periodi di stabilità solcati da brevi periodi di transizione verso nuove specie, oppure periodi di estinzione di massa seguiti da periodi di radiazione adattativa di forme, o altri ancora nel caso di grandi ecosistemi. Avremo così individuato gli “attrattori” dell’evoluzione, i pattern ricorrenti. Essi non escludono in alcun modo che ciascuna storia evolutiva sia unica e irripetibile: non si tratta di “leggi” inflessibili, valide una volta per tutte. All’interno di ciascun pattern le soluzioni alternative sono potenzialmente infinite e la sensibilità alle singole perturbazioni è altissima. Come amava ripetere Gould, ripetendo due volte

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il film della vita, o anche singoli spezzoni di questo film ininterrotto e meraviglioso, non otterremmo mai lo stesso finale due volte. La sceneggiatura cambierà ogni volta, pur rispettando la trama dei pattern profondi della storia. Le dinamiche e le connessioni fra le specie in un ecosistema obbediscono ad una serie di modelli comuni (le successioni di specie, le competizioni, le colonizzazioni e così via), ma è impossibile per definizione costruire lo stesso ecosistema due volte di fila. Ogni sistema complesso, pur vincolato ai suoi canali di sviluppo, è portatore di infinite storie possibili. Qui entriamo allora in una seconda accezione del termine “pattern”, che rimanda a sua volta ad una terza. Gli organismi devono infatti fare i conti anche con un tipo differente di struttura, che non riguarda questa volta le sequenze ripetute di eventi storici in una dimensione macroevolutiva, bensì quell’insieme di vincoli interni, di costrizioni fisiche, di regole di costruzione, di limiti “architettonici” (e di conseguenti spazi di risulta) che ogni essere vivente eredita dalla propria storia. Nel suo voluminoso testamento scientifico, pubblicato pochi giorni prima di morire nel maggio dello scorso anno, dal titolo non casuale “The Structure of Evolutionary Theory”, Steve J. Gould sottolinea con grande forza e freschezza argomentativa questo aspetto cruciale (Gould, 2002). A suo avviso, due sono gli assi fondamentali su cui dovranno lavorare gli scienziati dell’evoluzione nei prossimi anni: 1) la molteplicità dei livelli sovrapposti e interdipendenti, microevolutivi e macroevolutivi, che costituiscono il processo evolutivo e generano i pattern ricorrenti che abbiamo introdotto poco sopra; 2) l’importanza dei vincoli strutturali interni degli organismi nella definizione dei loro percorsi di sviluppo filogenetici. Questo secondo aspetto merita particolare riguardo. Gli esseri viventi (ma possiamo estendere il principio a tutti i sistemi complessi e non lineari) non sono plasmabili a piacimento dall’esterno, non sono come palle da biliardo inerti gettate nel campo da gioco della selezione naturale, non si limitano a recepire istruzioni dall’ambiente né a trasmettere ossessivamente il massimo di informazione genetica alla discendenza, come automi deterministici veicolatori di geni. Gli organismi, immersi nella geometria variabile di un’evoluzione e di una selezione naturale “a molti livelli”, fanno molto di più: si adattano a contesti locali mutevoli, spesso contribuendo a trasformarli in un rapporto strettamente coevolutivo, e lo fanno non soltanto producendo comportamenti e organi ad hoc per ciascuna funzione sollecitata dall’esterno ma anche (e soprattutto, secondo Gould) “rimaneggiando” i vincoli interni e le strutture che hanno già a disposizione e che si portano dietro da tempi passati, quando probabilmente avevano tutt’altra funzione o nessuna funzione del tutto. Il grado di “evolvibilità” (termine che Gould propone nella sua ultima opera al posto di “adattabilità”) di una specie si misura dunque nella capacità di mantenere sufficientemente plastici e flessibili i propri vincoli interni e la propria struttura

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organica. I margini di ridondanza diventano allora decisivi per generare quell’eterogeneo “pool exattativo” da cui deriverebbe gran parte del cambiamento nell’evoluzione: strutture sviluppate per una certa funzione possono essere cooptate per un’altra; strutture utilizzate per un certo scopo rivelano potenziali nascosti e vengono riconvertite ad una molteplicità d’uso; conseguenze “architettoniche” ridondanti sfuggite alla selezione naturale vengono ingaggiate per usi inediti; effetti collaterali introdotti a causa di derive genetiche o di altri meccanismi casuali si rivelano utili in contesti diversi; organi o parti inutilizzate (atavismi o vestigia abbandonate di altre epoche) possono essere riabilitati e riattivati per nuove funzioni. Ne deriva una tassonomia estesa dei fenomeni di “evolvibilità” degli organismi, nella quale ai normali processi di adattamento tramite selezione naturale di un carattere per la sua utilità attuale si aggiungono tutti questi processi “exattativi” frutto di riorganizzazioni, di riadattamenti e di cooptazioni funzionali (talvolta assai creative) a partire da un materiale ridondante, di scarto o di risulta che la selezione naturale non “vede” e non elimina (ex-aptations). L’evolvibilità è dunque direttamente proporzionale a due fattori: la plasticità nel riutilizzo di strutture adibite ad altre funzioni in passato; la presenza di caratteri ridondanti, neutrali rispetto alla selezione naturale, sviluppatisi senza nessuna funzione specifica originaria (non-aptations). Non tutto serve necessariamente a qualcosa in natura, anzi, la presenza di strutture che non servono a nulla è proprio una delle condizioni fondamentali perché l’evoluzione sia efficace e creativa. Il termine ex-aptation significa appunto essere “atti” a qualcosa in virtù della propria forma pregressa (ex). Ecco che torna dunque al centro della riflessione sulla complessità biologica il concetto di forma, di struttura, di vincoli interni che canalizzano (senza imbrigliarlo mai) lo sviluppo. Ritroviamo, ad un livello diverso, la stessa idea di un ordine interno che influenza l’evoluzione senza precluderne la libertà e l’imprevedibilità. In questo caso, è proprio il fatto che queste strutture abbiano un ampio margine di flessibilità a permettere l’evoluzione. I pattern organici “fanno gioco”, come gli ingranaggi di una macchina consumati o allentati, e in questi interstizi di possibilità si creano le condizioni per le più ingegnose e promettenti “invenzioni” della natura. Vi è una sostanziale differenza, tuttavia, fra i due tipi di pattern. Il primo, quello che emerge osservando gli episodi cruciali della storia della vita, è descrivibile soltanto a posteriori: è una configurazione di eventi che si può ricostruire solo alla fine del processo e che ci offre semmai qualche possibilità di comprensione per il futuro. Il secondo, il pattern organico a cui attingono gli organismi per aumentare il loro grado di evolvibilità, è una precondizione per il cambiamento. Il concetto di exaptation riassume in sé entrambe le accezioni: se inteso come ipotesi scientifica è un altro pattern dell’evoluzione che si aggiunge agli altri (potremo così studiare un catalogo di eventi exattativi simili e verificarne la frequenza in percentuale rispetto al normale adattamento); se inteso come processo evolutivo in sé diventa

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l’emblema della centralità dei pattern organici come fonte del cambiamento. In questo senso, notiamo che esiste anche una terza dimensione “strutturale” dell’evoluzione in sistemi complessi, nella quale i pattern scaturiscono in modo discontinuo dalle dinamiche di interconnessione reticolare che animano il sistema al suo interno. Le strutture ricorrenti a cui si fa riferimento in questa terza accezione vengono solitamente chiamate “proprietà emergenti” e rappresentano a tutt’oggi una sfida aperta per la biologia della complessità. Le simulazioni di reti autopoietiche e i modelli di “vita artificiale” sono da questo punto di vista un buon banco di prova. Si tratta, in questo caso, di pattern che in un certo senso “trascendono” se stessi, poiché la trama di relazioni di primo livello che attraversano un sistema, superata una determinata soglia di diversità e di interconnessione interna, si autorganizza producendo una configurazione di secondo livello, una nuova trama irriducibile alla prima. Il giornalista scientifico Steven Johnson, in un libro avvincente che sta spopolando negli Stati Uniti, ha di recente proposto un’interessante estensione del concetto di proprietà emergente dal dominio classico della biologia (le colonie di insetti “sociali”) all’evoluzione delle città, dei software e delle simulazioni di “artificial emergence” (S. Johnson, 2001). Il biologo teorico Stuart Kauffman ha proposto (Kauffman, 1995; 2000) di considerare tre grandi domini per la comprensione della complessità biologica: il dominio delle proprietà di autorganizzazione dei sistemi non in equilibrio (decisamente dominante nella sua trattazione); il dominio della selezione naturale del più adatto (vicario); e il dominio della contingenza evolutiva. Come si può facilmente notare, la frontiera più avanzata della ricerca sui sistemi complessi autorganizzati è ancora una volta collocata nel punto di intersezione fra i pattern interni dei sistemi (elemento strutturale) e le loro dinamiche evolutive irreversibili (elemento storico), tra forme emergenti e processi contingenti. Il problema sta nell’individuare il confine (se ne esiste uno) che separa tali domini. Dalle simulazioni si evince chiaramente questa natura paradossale dei sistemi complessi: essi appaiono in un certo senso come “forme processuali” o, viceversa, come reti di processi “carichi di forme”. La costruzione di semplici modelli di reti casuali (siano esse reti genetiche, reti neurali, reti di reazioni chimiche o reti ecologiche) ha permesso a Kauffman di mostrare come tre soli parametri, cioè il numero di nodi della rete, il grado di interconnessione media fra i nodi e le regole di connessione step by step, definissero una gamma molto ampia di reti possibili. All’interno di questa gamma, modulando i tre parametri nelle simulazioni a computer, gli scienziati possono creare reti altamente stabili (che in brevissimo tempo si fermano in una configurazione ordinata), reti totalmente caotiche (che oscillano a caso fra infinite configurazioni diverse, senza ripetere mai la stessa configurazione) e reti, particolarmente interessanti, nelle quali emergono spontaneamente alcune “isole” di ordine ricorrente.

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L’idea centrale è che, in qualsiasi tipo di rete, quando un gruppo di elementi (molecole, geni, organismi, e così via) raggiunge una soglia critica di diversità e di interconnessione si formi spontaneamente una “rete autocatalitica” o autopoietica, cioè una matassa di elementi connessi circolarmente attraverso cicli di retroazione positivi e negativi, una rete nella quale tutti gli elementi concorrono alla formazione di altri elementi della rete producendo configurazioni ordinate in evoluzione: la rete prende “vita”, metabolizza elementi esterni, si regola e si sostiene da sola, si moltiplica per autoduplicazione e prima o poi produrrà una nuova “proprietà emergente”. Dato un livello di complessità minimo nel “brodo primordiale”, la vita sarebbe allora emersa spontaneamente senza alcun bisogno né dell’azione della selezione naturale (che subentra soltanto dopo) né di un preesistente meccanismo genetico di trasmissione dell’informazione biologica. Il sorgere della vita sarebbe una conseguenza prevedibile delle leggi di emergenza spontanea dell’ordine (order for free) all’interno di reti complesse di interagenti chimici. Queste stesse leggi governerebbero l’evoluzione di tutti i sistemi complessi, cioè di tutti i sistemi in grado di auto-produrre ordine. La vita, dunque, non sarebbe un miracolo rarissimo di combinazioni chimiche, bensì l’esito “necessario” delle dinamiche di autorganizzazione valide per tutti i sistemi complessi. Date alcune condizioni minimali di diversità e di interconnessione fra gli elementi primari, al superamento di una soglia di complessità minima la vita “si autoproduce” senza bisogno né di un substrato preesistente di trasmissione genetica né di un principio preesistente di selezione naturale. La rete metabolica non si costruisce per aggregazione graduale di nuovi componenti: si cristallizza rapidamente come una totalità integrata, come un “gruppo autocatalitico”. Date queste condizioni e data la potenza dell’autorganizzazione spontanea, l’emergenza della vita non è affatto improbabile, è una certezza, è una transizione di fase inevitabile. Le straordinarie proprietà evolutive delle reti “viventi” sono ricondotte alla capacità di calibrare flessibilità e stabilità: esse non devono essere né troppo ordinate (cioè con un solo attrattore che le porti rapidamente all’equilibrio e quindi alla morte) né troppo caotiche (cioè con infiniti attrattori instabili attraverso i quali il sistema vaga senza sosta, sensibile alle più piccole perturbazioni). Le reti più efficienti tendono ad avvicinarsi a una condizione definita “ai margini del caos”: hanno cioè parametri che le avvicinano moltissimo alla soglia del caos senza tuttavia superarla mai. La vita emerge e si evolve ai margini del caos, in quella zona fluida di transizione dall’ordine al caos in cui il sistema si mantiene sufficientemente stabile pur all’interno di forti dinamiche perturbative che lo trasformano imprevedibilmente. La selezione naturale avrebbe dunque il compito limitato di favorire i sistemi ai margini del Caos: sarebbe cioè una forza secondaria di “mantenimento” della capacità evolutiva media, e non più una forza primaria di modellamento.

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L’evoluzione tenderebbe a mantenere i sistemi viventi nella condizione di fluidità necessaria affinché siano sufficientemente creativi: né troppo sub-critici (cioè tendenti alla stabilità), né troppo sovra-critici (cioè tendenti all’esplosione di forme). Una legge generale della complessità biologica sarebbe dunque quella che prevede che tutti i sistemi complessi adattativi evolvano spontaneamente verso la condizione ai margini del caos. In tal senso esisterebbe una condizione “al limite” molto favorevole alla vita, definita da Per Bak, Chao Tang e Kurt Wiesenfeld “criticità auto-organizzata” (Bak, 1996), valida per tutti i sistemi complessi (un esempio di pattern del primo tipo): come una pila di sabbia alimentata da granelli che cadono sul tavolo, le perturbazioni esterne e le dinamiche di autorganizzazione interne producono nei sistemi complessi una varietà di cambiamenti che possono andare dalla valanga catastrofica (la pila crolla e si riforma di nuovo), alla piccola valanga (piccoli smottamenti sui pendii della pila), al nulla di fatto. La varietà delle forme di vita nella biosfera si autoalimenta, in effetti, obbedendo ad una legge di distribuzione di questo tipo. Il dato interessante è che la legge di distribuzione di tali cambiamenti (poche valanghe catastrofiche e molte valanghe piccole) è esattamente la stessa per sistemi anche diversissimi fra loro, come se fosse una cadenza naturale, un respiro della vita, appunto un pattern ricorrente. Essa è identica, per esempio, alla distribuzione degli eventi di estinzione realmente avvenuti nella storia naturale. Con una postilla da non tralasciare: non è mai possibile prevedere che tipo di valanga si produca a partire da un determinato granello… Come sottolineano a proposito delle dinamiche neurali Brian Goodwin e Ricard Solé nel loro ultimo libro Signs of Life (Solé, Goodwin, 2000), una pregevole e aggiornata sintesi delle teorie dei sistemi autorganizzati, se noi studiamo i sistemi secondo il punto di vista della loro autonomia, scopriamo sistematicamente principi di autorganizzazione e proprietà emergenti, cioè stati globali del sistema che derivano dall’interdipendenza intrinseca di tutte le componenti del sistema stesso e che possono essere utilmente descritti attraverso la matematica dei sistemi non lineari. Il riconoscimento di pattern emergenti (“pattern recognition”, secondo la definizione di Steven Johnson) diventa dunque lo strumento principale per studiare la dinamica dei sistemi complessi in biologia e in altre discipline. Un caso particolarmente felice di applicazione di questo metodo di riconoscimento di “dynamic patterns” riguarda in questi ultimi anni l’evoluzione neurale, a partire dall’ipotesi (fatta propria da biologi come Francisco Varela e da neurologi come Scott Kelso della Florida Atlantic University) che il cervello sia un sistema autorganizzato con capacità di sintonizzazioni reticolari estremamente sofisticate (Kelso, 1999). Rispetto alle prime due, questa terza accezione di pattern si colloca in una fascia intermedia. Se la prima (pattern macroevolutivi) traspare dal processo storico a posteriori e sul lungo periodo mentre la seconda (pattern organici) è la sorgente del

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cambiamento in sistemi ridondanti ed exattativi, la terza è in qualche misura il mezzo di transizione, lo strumento attraverso il quale, di proprietà emergente in proprietà emergente, i sistemi “ai margini del caos” producono novità evolutive. Come ha scritto il filosofo americano Mark Taylor, forse con un pizzico di ottimismo in eccesso, stiamo vivendo il “momento della complessità”, l’epoca nella quale sta emergendo una “network culture” planetaria presente non soltanto nel pensiero scientifico e nelle trasformazioni tecnologiche ma anche sottilmente infiltrato nell’arte, nell’architettura, nella filosofia e nell’educazione (Taylor, 2001). Alla luce delle tre tipologie di strutture emergenti che gli scienziati hanno individuato, l’evoluzione della complessità biologica appare in tutta la sua multiforme eterogeneità di fattori e di strategie. Secondo tale prospettiva, la storia degli esseri viventi non è mai del tutto casuale né frutto di mere coincidenze: vi sono regolarità e strutture ricorrenti nei meccanismi di trasformazione degli organismi e delle specie, compreso il normale adattamento per selezione naturale. Non si rinuncia a nulla di ciò che prevedeva l’originaria teoria darwiniana, ma il campo delle possibilità si è esteso. La fenomenologia dell’evoluzione biologica è oggi più intricata e richiede nuovi strumenti interpretativi: primo fra tutti il principio secondo cui l’evoluzione predilige alcuni pattern ricorrenti, ma i suoi sentieri sono ogni volta imprevedibili e unici. Aumentando ulteriormente il grado di complessità, dobbiamo aggiungere che anche le teorie evoluzionistiche sono mosse da pattern profondi che selezionano i dati pertinenti e influenzano le comunità scientifiche, talvolta ibridandosi o mescolandosi di epoca in epoca: questa volta “pattern epistemologici”. In un certo senso, la stessa ossessione per i pattern è un pattern! Non dimentichiamo che già nel 1972, all’epoca della prima formulazione della teoria degli equilibri punteggiati, Eldredge e Gould si muovevano su questo doppio crinale: un versante “ontologico” riguardante la reale natura (discontinua, punteggiata e ramificante) delle serie fossili rappresentative della vita delle specie sul lungo periodo; un versante epistemologico riguardante la critica al pattern influente del gradualismo filetico. Il nucleo di quel primo lavoro seminale ruotava proprio attorno all’incongruenza fra un pattern epistemologico forte e dominante, una metafora influente, un paradigma, un’ideologia scientifica come il gradualismo, da una parte, e un pattern emergente (che poi gli autori chiameranno “puntuazionista”) che si era manifestato ai loro occhi nella documentazione fossile, dall’altra. Secondo Eldredge, che ha ripreso questo tema proprio nell’opera citata del 1999, il lavoro dei paleontologi e degli evoluzionisti assomiglia sempre più a uno stereotipo “da detective”: essi cercano alcuni pattern ricorrenti all’interno di una molteplicità di sentieri evolutivi interconnessi le cui traiettorie appaiono fortemente imprevedibili, facendosi guidare a loro volta da pattern epistemologici che filtrano i dati come occhiali deformanti. Tuttavia, il mestiere del paleontologo non è più

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quello di forzare i sempre più recalcitranti dati empirici in una mappa concettuale precostituita, sia essa il gradualismo progressionista o il riduzionismo genetico. Non ha più il compito di colonizzare la fragile disciplina paleontologica con i paradigmi forti della biologia molecolare. Di fronte all’esplosione incontrollata di evidenze empiriche incoerenti, non tenta una nuova sintesi, ma va a caccia di connessioni, di metafore nuove, di strutture che permettano, grazie ad una pluralità di pattern esplicativi, una comprensione più realistica delle trasformazioni evolutive che hanno condotto fino a noi. La scoperta scaturisce da questa modulazione fra una molteplicità di pattern epistemologici (mutevoli) e una molteplicità di pattern ontologici (altrettanto mutevoli). Il lavoro dello scienziato, alla luce di questa svolta epistemologica che sposta l’attenzione dalle leggi deterministiche ai pattern, ha assunto un carattere indiziario, esplorativo, nomade. La vita, scriveva già nel 1942 il fisico Erwin Shrodinger, è un tentativo disperato di sottrarsi alla seconda legge della termodinamica, che prevede l’aumento irreversibile dell’entropia globale. Se tutto prima o poi va a finire nel disordine, la vita rappresenta un’oasi provvisoria di stabilità, un timido tentativo di resistenza. La conoscenza, tutto sommato, è anch’essa un tentativo disperato di sottrarsi al disordine e all’oblio. Gli strumenti magici per intraprendere entrambe le avventure, vita e conoscenza, sono le strutture autorganizzate che sottraggono disordine al cosmo per trasformarlo in architetture viventi. I pattern, distillati dalla vita, organizzano sia le nostre domande rivolte alla natura sia le sue contraddittorie risposte. Quando i due piani occasionalmente si intersecano, in un dominio terzo che non è oggettivamente reale ma neppure meramente fittizio, un nuovo mondo possibile si apre al ricercatore. La pista, lo spiraglio che molti scienziati interessati alla complessità del vivente stanno inseguendo, pur con diverse tonalità e accenti, è connesso alla duplice natura, strutturale e contingente, del processo evolutivo: al gioco fra strutture della contingenza e contingenza delle strutture. In ciascuna delle quattro accezioni di “pattern” qui presentate, il singolo evento storico ha un potere causale potenzialmente determinante, può diventare una biforcazione catastrofica o essere fagocitato dalle forze omeostatiche del sistema. Fra gli studiosi lo scontro su quale sia la reale portata di tali biforcazioni è sempre stato molto acceso: chi sostiene l’esistenza di un algoritmo universale della complessità e di un codice nascosto dell’evoluzione (come Leo Buss del Santa Fe Institute) non esita a limitarne l’influenza, pensando che esista una sorta di “tendenza intrinseca verso la complessità”, una specie di seconda legge della termodinamica alla rovescia (G. Johnson 1995); chi invece, come Gould, privilegia il carattere contingente dell’evoluzione, dando ad essa ampi margini di manovra a partire da vincoli comuni, si spinge ad affermare che tutte le strutture consolidate del vivente potrebbero essere radicalmente diverse se le condizioni storiche fossero state leggermente modificate in un punto qualsiasi della storia naturale.

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Indipendentemente da dove collochiamo il confine fra contingenza e necessità per spiegare la complessità, il fatto paradossale è che il potere causale del singolo evento, pur non obbligandoci a rinunciare ad alcuna delle regolarità sottese al funzionamento normale del sistema, introduce in esso un elemento di irriducibile e radicale imprevedibilità. Anche immaginando un ferreo algoritmo universale dell’evoluzione, non possiamo prescindere da questa possibilità radicale, eversiva. Tuttavia, ha scritto recentemente Niles Eldredge, non dobbiamo disperare: “Vi è un ordine reale in tutto questo apparente Caos. La vita ha avuto una lunga e complessa, ma alla fine comprensibile, storia. Ci sono pattern ripetuti infinite volte quando le specie vanno e vengono, quando gli ecosistemi nascono e muoiono. Questi principi di organizzazione della storia della vita sono i processi dell’evoluzione. Noi li applichiamo ai fossili per restituire loro un ordine” (Eldredge, in Solé, Goodwin, 2000, p. 243). Se rifiutiamo le scorciatoie riduzioniste e accettiamo una visione pluralistica dell’evoluzione ci troviamo così di fronte allo spinoso ma seducente problema della congiunzione fra ordine e contingenza, e dei pattern che da questa unione discendono. È come un nodo invincibile, da affrontare a mani nude dopo aver abbandonato la spada riduzionista. Esso appare irresolubile perché si annida proprio dentro la circolarità infinita fra sistemi che osservano e sistemi osservati, cioè fra forme in evoluzione che cercano di compenetrarsi e si rimandano l’un l’altra vicendevolmente. Forse la complessità non è ancora lo zeitgeist del nuovo secolo, come annuncia Taylor, ma la sfida epistemologica è aperta e consiste nel saper contemperare la radicalità dell’evento irreversibile con il succedersi di configurazioni comunque coerenti. È un eterno gioco di volubilità e di fedeltà, una danza della permanenza e del suo contrario. Le macromolecole, le cellule e gli organismi viventi sono entità fisiche costituite da altre entità fisiche interagenti fra di loro secondo le leggi della fisica e della chimica. La biologia appartiene, di conseguenza, al dominio delle scienze fisiche e le sue regolarità e i suoi principi dovrebbero essere in ultima analisi ricondotti, se non ridotti, alle leggi generali della fisica. Nessuno oggi dubita più della validità di questa affermazione e l’utilizzazione consapevole di questi concetti ha enormemente facilitato l’ascesa e l’affermazione della moderna biologia molecolare. Ciononostante è chiaro a chiunque si accosti a queste discipline che vi sono un certo numero di differenze rilevanti fra le scienze fisiche - fisica, chimica e chimica-fisica - da una parte e le scienze biologiche dall’altra. Alcune di queste sembrano di natura contingente e dovute essenzialmente al fatto che la biologia è una scienza relativamente giovane e certamente molto più giovane della fisica. Tali differenze stanno divenendo ogni giorno meno rilevanti e si ha l’impressione che col tempo finiranno per scomparire. Ma possiamo concludere che tutte le differenze esistenti fra i due gruppi di discipline sono di questo tipo oppure ne esistono altre di natura più consistente e

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duratura? In altre parole, è ragionevole supporre che tra queste discipline esistano anche differenze intrinseche inerenti ai loro rispettivi campi di studio? Mi limiterò qui ad alcune considerazioni di carattere generale partendo da un punto di vista strettamente fisicalista. Per risolvere un determinato problema di fisica, che si tratti di meccanica, di elettromagnetismo o di fisica atomica, è necessario prendere in considerazione innanzitutto le leggi fisiche che regolano quella classe di problemi e secondariamente le condizioni iniziali specifiche di quel dato problema. Le leggi fisiche sono valide in ogni circostanza, mentre le condizioni iniziali individuano la situazione specifica fra tutti i possibili eventi fisici. Per esempio ogni solido obbedirà alle leggi della meccanica e alla forza di gravitazione, ma per risolvere un qualsiasi problema di balistica è necessario conoscere dove era localizzato quel proiettile ad un certo istante e con che velocità si stava muovendo. È chiaro che la parola "iniziale" non si riferisce qui semplicemente ad un evento iniziale ma a un qualsiasi tempo arbitrario t. Le condizioni iniziali possono anche essere considerate come appartenenti alla classe più ampia delle condizioni al contorno, che identificano in maniera non ambigua l’esempio in oggetto. Se le entità biologiche non differiscono intrinsecamente da ogni altro oggetto fisico, devono poter essere trattate sullo stesso piano e secondo gli stessi criteri. L’unica differenza sta nel fatto che l’enfasi della fisica è prevalentemente posta sulle leggi, mentre in biologia le condizioni iniziali appaiono svolgere un ruolo predominante. In realtà può essere necessaria una grande quantità di tempo e di energia per specificare tutte le condizioni iniziali di una determinata situazione biologica e senza questa specificazione nessun problema può essere risolto, nemmeno in linea di principio. In alcuni casi le condizioni iniziali includono la presenza di uno specifico genoma e di tutte le strutture biologiche di una cellula, ad esempio una cellula-uovo matura. Non c’è dubbio che condizioni iniziali del genere sono tutt’affatto peculiari, difficili da esplicitare in dettaglio e almeno altrettanto complesse degli eventi ai quali daranno origine. Parte di questa complessità è dovuta a sua volta al fatto che la maggior parte delle molecole biologiche di qualche interesse sono macromolecole. Naturalmente ciò non significa che le entità biologiche siano regolate da leggi diverse da quelle fisiche. Significa piuttosto che pur nell’ambito della validità di queste leggi le entità biologiche sono primariamente dipendenti dalle condizioni iniziali e dal tempo. In biologia spesso ciò che è vero al tempo t2 può non essere vero al tempo t3 e/o non essere stato vero al tempo t1, dal momento che ogni organismo è soggetto a continui cambiamenti mentre si sviluppa, matura e invecchia come individuo e allo stesso tempo evolve come membro di una specie biologica. Questo concetto è spesso espresso dicendo che la biologia è una scienza storica. Dal punto di vista della ricerca, questa è probabilmente la differenza più

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importante fra gli oggetti della fisica e quelli della biologia: gli eventi biologici sono dominati da un insieme particolarmente complesso di condizioni iniziali che giocano un ruolo critico. Può essere interessante notare in questo rispetto che Ernest Mayr ha recentemente affermato che la biologia lavora più per "concetti" che per "leggi" come invece fanno le scienze fisiche. Possiamo infatti considerare i concetti biologici come descrizioni astratte di insiemi particolari di condizioni iniziali. Tutto ciò che abbiamo detto fino a questo punto si applica altrettanto bene ai sistemi fisici inanimati particolarmente complessi e internamente eterogenei come una cascata, un uragano o le condizioni meteorologiche di una determinata località. La dipendenza critica dalle condizioni iniziali esibita da tali sistemi complessi è già stata sottolineata e discussa e da questo punto di vista non esiste un motivo stringente per escludere che i sistemi fisici complessi e i sistemi viventi debbano essere studiati con metodi molto simili. Ma in aggiunta a questo i sistemi viventi mostrano una forma particolare di dipendenza dal fattore tempo, vale a dire la continuità obbligata di alcuni sottoinsiemi delle loro condizioni iniziali. La vita è dominata dalla continuità, sia al livello della biomassa totale che al livello delle singole specie. La vita stessa consiste di questa continuità. Interrompere il filo di questa continuità, cioè sopprimere alcune di queste condizioni iniziali così speciali, vorrebbe dire sopprimere la vita stessa. Il corpo di un organismo pluricellulare per esempio deriva da un embrione che deriva a sua volta da un paio di gameti che derivano a loro volta da altri due corpi che derivano da altri embrioni e così via. Ovviamente la continuità di alcune condizioni iniziali all’interno di una data specie è garantita dalla presenza da un insieme molto particolare di condizioni iniziali rappresentato dal suo genoma e dai programmi genetici che questo codifica. Si può parlare in effetti di una continuità per discendenza e in questa luce la genetica può essere vista come lo studio dell’ereditarietà di condizioni iniziali particolari e biologicamente rilevanti. Una conseguenza non secondaria di questa continuità per discendenza è la presenza in ogni specie di una varietà di meccanismi e parametri accidentali fissati nella biologia degli individui attraverso le generazioni. Almeno in linea di principio, ogni fenomeno che sia compatibile con le leggi universali delle scienze fisiche può essere osservato una volta o l’altra in qualche organismo vivente e in realtà abbiamo sotto gli occhi un’impressionante varietà di soluzioni fisico-chimiche e biologiche per raggiungere risultati comparabili. Ma la scelta effettiva di soluzioni e di parametri specifici è spesso tutta una questione di accidenti evolutivi. Per esempio noi abbiamo alcune strutture anatomiche adulte che derivano da un certo numero di strutture branchiali perché discendiamo da vertebrati acquatici e abbiamo sette vertebre cervicali perché questa è stata la soluzione numerica scelta e fissata fin dall’inizio della radiazione dei mammiferi. Questi eventi accidentali sono stati chiamati incidenti congelati. Probabilmente il più famoso di questi è l’universalità del codice genetico. Al meglio delle nostre

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conoscenze attuali, non c’è nessun motivo per cui nel DNA della stragrande maggioranza degli organismi viventi la tripletta AGG debba codificare l’aminoacido arginina e la tripletta CCA debba codificare la prolina. Ma questo è ciò che osserviamo. L’intepretazione corrente di questo fenomeno è che questa particolare scelta è stata fatta, probabilmente a seguito di eventi casuali, più di tre miliari di anni fa ed è rimasta fissata da allora in poi. Altri esempi di incidenti congelati sono la struttura della membrana cellulare e l’apparato cellulare per la sintesi proteica in tutti gli organismi o la struttura fine delle ciglia negli organismi superiori. Nello studio degli organismi viventi ci si trova di fronte ad una mescolanza di elementi necessari, e quindi validi essenzialmente in ogni mondo possibile, e di elementi intrinsecamente contingenti cioè validi per questo particolare pianeta e per la storia evolutiva del tipo di vita al quale siamo abituati. È chiaro che la presenza di un certo numero di incidenti congelati in ogni specie vivente rende lo studio delle entità viventi più semplice per la comprensione immediata di fenomeni biologici specifici, ma più difficile da inscrivere nel capitolo generale delle scienze fisiche. L’esistenza di incidenti congelati nella vita terrestre rappresenta un chiaro esempio di irreversibilità e si situa al cuore di questo fenomeno. È noto che le leggi della natura sono simmetriche per l’inversione del tempo mentre la vita di tutti i giorni ci offre una varietà enorme di esempi di processi irreversibili. In sostanza le leggi sono simmetriche riguardo al tempo ma gli eventi no. Questo fatto nasce dalla forma di alcune condizioni iniziali che derivano a loro volta da eventi che hanno infranto una simmetria originaria in quanto risultati di scelte fra possibili alternative. Come inevitabile conseguenza, quei fenomeni nei quali le condizioni iniziali hanno un’importanza maggiore, come quelli studiati dalla biologia, mostrano un altissimo grado di irreversibilità. Secondo questa logica, gli esperimenti in vitro, condotti cioè con cellule in coltura o molecole in provetta, presentano la particolarità che in essi le conseguenze di alcuni di questi accidenti storici sono assenti o neutralizzate. In verità in questo secolo abbiamo appreso che anche l’universo fisico ha avuto un’origine e ha una storia. Noi stiamo vivendo in un periodo particolare della storia dell’universo e ci sono stati periodi nei quali la vita non c’era e non era neppure concepibile. È possibile che anche la cosmologia sia una scienza storica ma la scala dei tempi è completamente diversa. La fisica studia entità che possono esistere ad ogni temperatura. La chimica classica necessita di atomi stabili e questi possono esistere solamente al di sotto di una certa temperatura. La biologia richiede cellule viventi e per quanto ne sappiamo queste possono esistere soltanto a temperature appartenenti ad un intervallo piuttosto ristretto e molto spostato verso i valori bassi. Le neuroscienze e la psicologia richiedono a loro volta un ambito di temperature ancora più ristretto poiché hanno bisogno di cellule nervose connesse fra di loro in circuiti nervosi e

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ciò può avvenire solo in presenza di un minimo di stabilità. La fisica ci insegna che studiare e comprendere il comportamento di oggetti ad alta temperatura è più semplice che studiare oggetti a bassa temperatura. È chiaro ad esempio che studiare l’interno di una stella è molto più semplice che studiare l’interno di un pianeta come la nostra Terra. Ciò è dovuto al fatto che alle alte temperature l’universo è altamente simmetrico da ogni punto di vista, mentre l’abbassamento progressivo della temperatura, come è avvenuto nel passato nell’universo fisico, introduce sempre più scelte accidentali che infrangono altrettante simmetrie. Consideriamo ad esempio le forze fondamentali della natura. Nel mondo d’oggi queste sono quattro: la forza gravitazionale, quella elettromagnetica, la nucleare debole e la nucleare forte. Sono diverse, hanno proprietà molto diverse e controllano fenomeni naturali diversi. Oggi si sa che al di sopra di una data temperatura la forza elettromagnetica e quella nucleare debole si fondono in un’unica forza detta elettrodebole. Si crede che al di sopra di una temperatura ancora più elevata la forza elettrodebole si fonda con quella nucleare forte per dare una forza unificata e che ad una temperatura ancora più alta anche la gravitazione si possa fondere con questa forza unificata per dare una singola superforza della natura. L’energie richieste per produrre queste temperature sono enormi e attualmente al di là delle nostre possibilità, ma si ritiene che ci sia stato un momento nella storia dell’universo in cui la sua temperatura era così alta da aversi solo una singola forza fondamentale invece di quattro. Dopo un po’, in realtà una frazione di secondo, la temperatura non è stata più sufficiente a mantenere questa situazione e la forza gravitazionale si è separata dal complesso delle altre tre. Un istante dopo la forza nucleare forte si è separata dalla elettrodebole e successivamente il raffreddamento dell’universo ha comportato la separazione della forza nucleare debole da quella elettromagnetica fino a comporre il quadro che osserviamo oggi. Si può fare uso del concetto di simmetria e dire che alcune simmetrie sono andate progressivamente infrante e che questi processi di rottura di simmetria hanno portato il mondo ad essere quello che è a partire dalla prima separazione delle quattro forze fondamentali. Successivamente un numero sempre maggiore di simmetrie sono andate infrante, conducendo alla formazione prima di nuclei stabili, poi di atomi, di molecole e infine di stati di aggregazione che hanno un grado di simmetria via via sempre più basso. Anche nel nostro mondo alle alte temperature le molecole quasi si ignorano a vicenda ed è relativamente facile studiare il loro comportamento, mentre a temperature più basse le interazioni molecolari vengono alla ribalta e tendono a confondere il quadro generale. Almeno sul nostro freddo pianeta, tutto ciò ha condotto alla formazione di molecole, macromolecole, aggregati molecolari, micelle e così via. Si è assistito ad uno spostamento progressivo verso l’aggregazione delle entità primitive per dar luogo a domini di coerenza sempre più ampi che mostrano un grado crescente di stabilità e di complessità strutturale. Ad un dato momento è comparsa la vita. Parlando in termini astratti possiamo dire che in quel momento si è rotta un’altra

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simmetria, quella fra oggetti viventi e non viventi. Prima di un certo istante quella asimmetria era priva di senso, dopo di questo sono comparse nel mondo le due classi separate di entità. Con la comparsa degli organismi viventi, la materia aggregata ha cominciato ad esibire un altro tipo di coerenza, la coerenza nel tempo, cioè la persistenza e la continuità per discendenza. Gli oggetti viventi sono domini di coerenza relativamente estesi sia nello spazio che nel tempo. Da questo punto di vista è stato proposto che abbiamo a che fare con una scala di complessità crescente estendentesi dalla cellule (ordine di grandezza dei mm) agli organi (mm), organismi (cm), popolazioni (m) e comunità culturali che possono estendersi pure nel tempo. Tutto ciò sarebbe probabilmente spazzato via da un improvviso significativo aumento della temperatura locale e certamente da un aumento della temperatura globale dell’universo. Ci troviamo qui al cospetto del problema delle cosiddette proprietà emergenti, quelle proprietà degli oggetti ordinari che non sono comparse e non hanno avuto senso finché la materia non è riuscita a organizzarsi in sistemi di sufficiente complessità. Esempi di proprietà emergenti sono la proprietà di essere solidi o di essere colorati o di essere vivi o anche intelligenti. È interessante notare che anche il possesso di un’individualità può essere considerata una proprietà emergente. Le particelle elementari infatti non presentano questa proprietà mentre le strutture di complessità strutturale crescente acquistano progressivamente questa proprietà in un processo che culmina con gli animali superiori e l’uomo. I fisici, e più in generale gli scienziati che adottano un atteggiamento riduzionista, vedono con sospetto il concetto di proprietà emergenti e le sue implicazioni. L’argomento delle proprietà emergenti può in effetti essere fuorviante, se non molto pericoloso, se usato per invocare, più o meno esplicitamente, l’intervento dall’alto di entità metafisiche quali la Vita, la Mente o la Coscienza. Nondimeno la contemplazione dell’esistenza di proprietà emergenti e il riduzionismo sono due facce della stessa medaglia, due modi divergenti di guardare alla realtà che di necessità si implicano a vicenda. Se guardiamo all’evolversi del mondo presente a partire dalle sue origini, osserviamo un progressivo emergere di nuove proprietà. Se invece guardiamo indietro nel tempo o tentiamo di ridurre i livelli di aggregazione più alti a quelli inferiori, abbiamo il riduzionismo. La questione fondamentale in questo contesto è quanto potente e promettente può rivelarsi un approccio riduzionistico nella biologia di oggi e di domani. La mia risposta è che questo approccio è di importanza fondamentale per lo studio dettagliato di ogni tipo di processo biologico ma la sua utilità è tanto maggiore quanto più si ha coscienza dell’importanza degli accidenti storici che rendono le entità biologiche così irreversibili e sostanzialmente uniche. In altre parole, le entità biologiche possono essere o non essere ridotte a livelli inferiori di organizzazione, ma ogni volta che ci si accinge a questa impresa è opportuno ricordare che moltissime delle loro proprietà non si sono consolidate tutte in una volta ma sono il risultato di un processo storico lungo e laborioso.

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La fisica e la chimica trattano essenzialmente la conservazione e le trasformazioni di tre entità: la materia, l’energia e l’informazione, che può anche essere vista come correlata all’entropia. La biologia pone un’enfasi particolare sull’informazione e sugli strumenti concettuali ad essa correlati. Infatti la biologia, e più precisamente la biologia molecolare, è stata la prima disciplina sperimentale che ha fatto un uso deliberato di questo apparato concettuale. Questa può risultare da una contingenza storica dovuta al fatto che la biologia molecolare si è sviluppata proprio nel periodo immediatamente successivo alla nascita della teoria dell’informazione, ma sembra più probabile che la biologia non possa assolutamente fare a meno di utilizzare questi concetti. La ragione è probabilmente da ricercarsi nel fatto che il programma genetico che assicura la temporanea stabilità dei singoli organismi e la continuità delle varie specie attraverso le generazioni è intrinsecamente un messaggio ordinato o una collezione di messaggi ordinati materializzati in particolari macromolecole, anch’esse relativamente stabili nel tempo. Un messaggio è costituito da una sequenza di simboli. In termini astratti, i simboli sono entità alternative estratte da un inventario chiuso che può anche essere considerato un alfabeto. Questi simboli sono posti in una sequenza nella quale l’ordine conta, poiché AB è generalmente diverso da BA. L’esistenza di simboli implica a sua volta l’esistenza di un codice inteso come una corrispondenza, possibilmente non ambigua, tra membri dei due inventari. Questa corrispondenza è fissa ma generalmente arbitraria. I simboli possono a loro volta esistere a vari livelli della codificazione. Per le lingue naturali si parla di articolazione del linguaggio, che si presenta almeno duplice: al livello dei suoni (fonemi) e a quello delle parole (morfemi). Consideriamo un tratto di DNA che rappresenti un frammento genico. Sappiamo che questo consiste di una sequenza di nucleotidi presi da un repertorio molto ristretto di quattro lettere: A, G, C e T. Il messaggio è notoriamente letto in triplette. Ognuna di queste triplette codifica uno specifico ammino acido: CCA ad esempio codifica un residuo di prolina. Il nucleotide C che si trova al centro di questa tripletta può cambiare per un errore biologico, spontaneo o indotto, che rappresenta in definitiva il risultato di fluttuazioni statistiche, ma può solo cambiare in direzione di tre possibili alternative. Può divenire cioè una G, una A o una T. Non può divenire nient’altro e soprattutto non può divenire niente come 2/3 di una C e 1/3 di una G or 2.546 C. La scelta è fra alternative discrete. Questo fatto previene una larga porzione di errori derivanti da fluttuazioni casuali. Dal punto di vista della biochimica non è impossibile che un dato nucleotide partecipi della natura di una C e di una T allo stesso tempo. Il punto è che al momento della sintesi della corrispondente proteina il nucleotide stesso verrà interpretato o come una C o come una T ma non come un misto delle due. Non è quindi la natura

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intrinseca dei nucleotidi che previene alcuni effetti delle fluttuazioni casuali del messaggio genetico ma la loro condizione di entità codificanti. Tutto ciò è cruciale per la persistenza di una cellula o di un organismo. In fisica e in chimica si ha generalmente a che fare con miliardi e miliardi di molecole e se anche ciascuna di loro è soggetta a fluttuazioni stocastiche le loro proprietà statistiche sono relativamente stabili e predicibili. In biologia al contrario si è spesso in presenza di un numero molto ridotto di molecole di una data specie presenti in ogni singola cellula ma queste si comportano in una maniera predicibile e quasi determinata. Questo è particolarmente notevole se si considera che alcune proteine e alcuni RNA messaggeri possono essere presenti in poche centinaia di copie e che il DNA stesso è presente in una o due copie per cellula. La vita sembra risolvere molti dei problemi posti dal secondo principio della termodinamica attraverso un uso oculato dell’energia libera. Questo risultato è possibile per il concorso di varie condizioni, fra le quali la temperatura relativamente bassa, la presenza di molecole di notevoli dimensioni come le macromolecole e l’uso di una varietà di processi di codificazione a diversi livelli. La codificazione è a sua volta una forma di scelta da un inventario discreto di alternative possibili. Così un gene può essere attivo o quiescente e ogni stato cellulare è determinato dall’insieme degli stati di accensione o di quiescenza dei suoi singoli geni. Ogni cellula può trovarsi in un dato stato caratterizzato da quali dei suoi geni sono accesi e quali quiescenti in una schema concettuale che è stato chiamato combinatorio. Questo è altrettanto vero al livello dei tessuti o delle regioni corporee. L’epidermide primitiva può trasformarsi in epidermide matura o in neuroepitelio. Un segmento del corpo di un insetto che si sta sviluppando può trasformarsi in uno dei circa 15 segmenti corporei previsti, ma molto raramente in una combinazione di due di questi. Un altro esempio è dato dall’accensione dei neuroni. È noto che questi possono inviare un segnale nervoso o non inviarlo secondo uno schema tutto-o-nulla. Infine le neuroscienze e le scienze cognitive ci dicono che anche al livello delle attività mentali superiori esistono degli schemi predeterminati - percettivi, rappresentazionali e comportamentali - e che noi apprendiamo, facciamo valutazioni e ci comportiamo sulla base di questi schemi. In ognuna di queste circostanze la vita implica una scelta all’interno di un insieme discreto di alternative possibili, la maggior parte delle quali determiante dal progetto generativo codificato nel patrimonio genetico presente in ogni cellula. I processi biologici sono chiaramente influenzati dagli eventi esterni. Possiamo chiamare esperienza in senso lato l’insieme di queste interazioni. Il concetto di esperienza così definito si può applicare a tutte le entità biologiche, dalle più elementari come i geni o le cellule su su fino all’apprendimento e al comportamento. Sulla base di ciò che abbiamo detto fin qui l’esperienza può essere vista come una selezione, operata sotto l’influenza di eventi esterni, di stati interni

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specifici a partire da un inventario chiuso di stati interni alternativi. In conseguenza di una qualsiasi di queste scelte il repertorio di stati interni che un gene, una cellula, un organo o un sistema possono assumere è momentaneamente ristretto, magari a un solo elemento. Se questo nuovo repertorio resterà ristretto, evolverà verso una nuova configurazione implicante scelte alternative diverse o ritornerà alla condizione originaria dipenderà dagli eventi successivi che possono andare nella direzione degli eventi esterni precedenti, e quindi confermare le scelte fatte, oppure no. È ovvio che gli inventari biologici stessi possono cambiare con il procedere dell’evoluzione - quest’ultima non è infatti altro che l’evoluzione di tali inventari nel tempo - ma la scala temporale che vi è implicata è radicalmente diversa. La vita dunque sembrerebbe essere una proprietà emergente scaturita dall'evoluzione di sistemi complessi lontani dall'equilibrio. Ma la vita che noi sperimentiamo non si esaurisce nelle spiegazioni che si possono avere utilizzando gli occhiali della scienza. La nostra vita, la vita di ciascuno, è estremamente ricca e varia e piena di meraviglie che non trovano una spiegazione esauriente nel riduzionismo della scienza. Le eterne domande da dove veniamo e soprattutto dove andiamo rimangono senza risposta e ognuno trova la risposta che meglio gli si confà. La filosofia orientale vede la coscienza ovunque e pone l'origine del creato nella concezione di una coscienza che tutto pervade. Ma noi siamo limitati, abbiamo percezione solo della nostra realtà e non possiamo nemmeno immaginare la totalità dell'universo di ciò che è stato pensato dall'uomo dall'origine dei tempi. Ogni volta ricostruiamo nella nostra testa il pensiero originario sulla base di frammenti che arrivano alla nostra coscienza. I libri riportano solo una piccola parte dell'effettiva esperienza dell'autore e possono essere facilmente fraintesi.