Emilio Salgari Indice Introduzione - altrestorie

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Emilio SalgariIlLeonediDamasco

IndiceIntroduzione

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TramaBiografia

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LA NIPOTE DI ALÌ BASCIÁ– Ecco la bandiera azzurra dai tre

leoni rampanti!... Ecco la galera delPascià di Damasco!... Armate lanostra!... Padrona, l’ora della vendetta égiunta!...

Queste parole erano state pronunciateda un guerriero turco, alto, tarchiato eassai abbronzato, che pareva spiasse dagiorni quella nave, dall’alto d’unaterrazza dell’imponente castellod’Hussiff, un maniero di costruzioneveneziana e così saldo che erano statenecessarie duecento galere turche percostringere gli ultimi veneziani ancorasopravviventi in Cipro alla resa.

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Con due fronti, una verso il mare,l’altra verso l’interno, lanciavaaltissime le sue torri e le sue spazioseterrazze, munite di più di cinquantacolubrine e d’una ventina di bombarde.La voce del robusto guerriero, fortecome il muggito d’un toro, per unmomento dominò il rombo della risaccafrangentesi eternamente sulle scogliere,echeggiando sì in alto come in basso.

Un istante dopo una bellissimagiovane di forse ventidue anni, dallafigura alta, slanciata, gli occhi nerissimi,che risaltavano vivamente sotto lelunghe sopracciglia meravigliosamentedelineate, la bocca piccola, dalle labbrarosse come ciliege mature, i capelli

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lunghissimi, sciolti, d’una tinta cheaveva i riflessi delle ali dei corvi,apparve, uscendo quasi di corsa da unadelle torri e balzando sul terrazzo.

Aveva in tutto l’insieme del suo volto,per quanto bello, d’una purezza quasigreca, qualche cosa di duro e dienergico che tradiva subito la donnaturca, sempre crudele in fondo, come leavevano ormai abituate i sanguinarisultani del XV e del XVI secolo.

Come le grandi dame turche diquell’epoca, portava dei bellissimicalzoni di seta bianca, ricamati in oro,piuttosto larghi ed imbottitiinternamente, in modo che le gambe nonpotessero trasparire; un giubbettino di

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seta verde, con larghi bordi d’argento ebottoni formati da grosse perle d’unvalore inestimabile, ed ai fianchi un’altafascia di broccato rosso, annodata suldavanti, con lunghe code che lescendevano fino a toccare le piccolescarpe a punta rialzata di pelle rossa conornamenti d’oro.

Diversamente dalle altre donne,smaniose di gioielli, che i sultani,sempre vittoriosi allora, dopo d’averrazziato province o regni, gettavano adestra ed a sinistra colla generosità deigrandi ladri, quella giovane non portavanessun ornamento d’oro né agli orecchi,né ai polsi, né al collo; invece nellafascia di broccato teneva una piccola

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scimitarra, coll’impugnatura e la guainatempestata di zaffiri e di smeraldi.

– Che cos’ha il mio capitano dagridare così forte? – chiese al turco, chesull’orlo del terrazzo pareva spiasseintensamente qualche cosa, tenendo lemani raccolte intorno agli occhi perdifenderli dal sole. – Sai che é l’ora delcaffè?

– Un caffè migliore viene dal mare,signora – rispose il capitano d’armi. IlPascià di Damasco é finalmente cadutonella rete tesagli da tuo zio, il GranPascià.

Il viso della giovane donna eradiventato improvvisamente selvaggio,ed i suoi occhi si erano accesi di cupi

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lampi.– Lo credi tu, Metiub?Oh, che son diventato cieco forse? Il

Profeta non l’ha ancora voluto. Guardalalà, la gagliotta del Pascià, che s’avanzaplacidamente, facendo sventolare sulsuo albero maestro la bandiera azzurracoi tre leoni rampanti dei Damasco.

Guarda, Haradja!... Guarda!...La bella turca, con uno scatto da

pantera, si slanciò sul largo parapettodel terrazzo sul quale si allungavano seicolubrine che portavano lo stemma diVenezia, il glorioso Leone di SanMarco, prese certamente dopo le stragidi Nicosia e di Famagosta, ed a suavolta si riparò gli occhi, brillando il

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sole intensamente, quantunque fossemattino.

Un abisso spaventevole si aprivasotto di lei, poiché il castello non siaffondava in mare, da quel lato, a menodi cento metri, ma rimase impassibile,ascoltando per un momento i fragoridella risacca che salivano dal basso.Appena a mille passi, una piccola galeradi forse trecento tonnellate, ben affilataper la corsa, con due alberi chereggevano delle immense vele latine edue ordini di remi, s’avanzavalentamente, sul mare tranquillo,puntando verso il nordovest come sevolesse dirigersi verso l’Arcipelagogreco per affondare poi le ancore a

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Costantinopoli la possente.– Otto colubrine – aveva contato il

capitano d’armi. – Venti guerrieri e ventigaleotti ai remi. Un bel boccone per noi.Che cosa dici tu, signora? La squadradel Pascià guarda sempre le vie checonducono all’Arcipelago?

Haradja era rimasta muta.Pallidissima, ritta dinanzi al granbaratro in fondo a cui la risaccas’avventava sempre impetuosa, tuonandoe detonando, si passava nervosamenteuna mano fra i lunghi capelli, come secercasse di strapparseli.

La sua bellissima fronte apparivaaggrottata, come se una terribiletempesta devastasse in quel momento il

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cervello di quella strana giovane.– Mi hai capito, signora? chiese il

capitano d’armi, facendo un gestod’impazienza. – Dopo quattro annilasceremo fuggire il Pascià di Damasco,il padre del valoroso guerriero cheavrebbe dovuto diventare tuo sposo?

Haradja tornò a tormentare i suoicapelli e disse: – Ah!... I ricordi delpassato!...

– A chi pensi, signora, in questomomento? – chiese il capitano d’armi,con una punta d’ironia. – Al Leone diDamasco, o al bel capitano, diventatosua moglie, e che pur essendo donna, midiede una magnifica stoccata? È veroche quella donna era famosa in

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Famagosta, sotto il nome di CapitanTempesta.

La giovane donna ebbe un gransussulto, poi una vampa vermiglia le salìal viso, mentre i suoi occhi diventavanoferoci come quelli d’un giannizzero.

Si volse verso il capitano d’armi e glichiese con voce stridula: – Metiub,saresti stanco di vedere le terrazze delcastello d’Hussiff!

Il forte turco la guardò serenamente,incrociando lentamente le braccia, poirispose con voce tranquilla: Se la nipotedi Alì Pascià vuol vedere un uomo fareun gran salto nello spazio e sfracellarsisulle scogliere, dopo aver descritta unamagnifica curva, non ha che da dirlo. Io

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sono pronto a saltare.Era salito sul parapetto e guardava

sdegnosamente le scogliere cheavrebbero dovuto sfracellarlo ad unordine della sua signora, e contro lequali il mare cominciava a ululare pelritorno della marea.

– Lo vuoi, padrona? – chiese. Checosa vale oggidì una vita umana, quandoa Candia mille e mille cristiani e turchicadono massacrati dalle mine, dallecolubrine, o squarciati dalle spade odalle scimitarre? A Candia si muoreallegramente da più di un anno. Se miavessi mandato laggiù, probabilmentesarei caduto ha i cinquantamila turchiche quei pochi ma gagliardi veneziani,

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hanno messo a terra per mandarli atrovare le un’del Profeta.

– Tu sei pazzo – disse Haradja,afferrandolo impetuosamente per unbraccio e costringendolo a scendere. – Èpronta la mia galera?

– Da otto giorni.– Le mie armi e le mie armature?– Sono a poppa.– Andiamo, Metiub. Se non posso

avere, per ora, il Leone e sua moglie,avrò almeno suo padre. Il piccino ormaideve essere stato rapito a Venezia eforse si trova a Candia nelle mani di miozio.

– Se lo troverai vivo.– Non ha che tre anni.

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– Ma il Pascià, tuo zio, qualche volta,per divertirsi, fa scuoiare qualchefanciullo cristiano.

– Taci!... Accompagnami!...Metiub l’aiutò a discendere dal

parapetto, poi tutti e due cominciarono ascendere una interminabile scala,scavata nella viva piena, e così stretta,che pochi uomini avrebbero potutodifenderla anche contro un piccoloesercito.

Sulle terrazze superiori e sulle cimedelle torri molti guerrieri ed anche moltedonne erano comparse, ma nessunoaveva osato mandare un grido persegnalare nuovamente la gagliotta delPascià di Damasco.

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Avevano troppa paura di Haradja, lanipote del terribile Pascià.

Dopo d’aver contato bencentosessanta gradini, il capitano d’armie la giovane donna giunsero sulle rived’una minuscola cala, in mezzo allaquale ondeggiava, ritmicamente, unasplendida galera di circa quattrocentotonnellate, tutta dipinta in rosso, e coimargini delle murate montati inlucidissimo ottone.

Portava due vele latine, le sole che siusavano allora nel Mediterraneoorientale, anche quelle dipinte in rosso,con fasce trasversali in azzurro, treordini di remi e sedici colubrinepiazzate in coperta, in modo da battere

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tutti i punti dell’orizzonte.Trenta galeotti, incatenati ai banchi, e

quaranta magnifici guerrieri turchicoperti di ferro e d’acciaio, formavanol’equipaggio.

Una scialuppa attendeva già Haradjaper condurla a bordo.

– Manca nessuno? – chiese il capitanod’armi ai battellieri.

– Nessuno – risposero ad una voce.– Via!...In un lampo attraversarono lo

specchio d’acqua, e la nipote del Pasciàed il suo capitano d’armi si issaronosulla galera, servendosi d’una semplicescala di corda.

I trenta guerrieri, armati di pesanti

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archibugi a miccia, di scimitarre e diyatagan, si erano schierati attraverso alponte per rendere omaggio alla lorocastellana.

Questa, come era sua abitudine, non lidegnò nemmeno d’uno sguardo, e scesenel quadro, mentre il capitano d’armi,dopo d’aver data un’occhiata alle veleed alle manovre fisse e correnti,lanciava una serie di comandi brevi,taglienti.

Le due ancore furono alzate dopopochi colpi d’argano poiché il fondo erascarso, le vele orientate al vento, poi itrenta remi dei galeotti si misero abattere poderosamente le acque fra leurla e le minacce dei sorveglianti delle

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corsie, e la bella galera lasciò la cala,girò l’estremità d’una scogliera sullaquale era stata piazzata una batteria, eduscì trionfante in mare, avanzando abarzelloni, essendo il vento quasi nullo.

La gagliotta del Pascià di Damascoaveva già superato il castello d’Hussiffe continuava placidamente la sua corsa,servendosi pure dei remi.

Un sorriso diabolico spuntò sullelabbra del capitano d’armi.

– Dove volete andare, povera gente?– disse poi. – E sarà duro essere presida turchi, ma questo sarebbe il meno…Haradja ne farà qualcuna delle sue, enon risparmierà nemmeno il vecchioPascià.

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Stava così monologando a prora dellagalera, a cavalcioni d’una colubrina dibuon calibro fusa a Costantinopoli,quando fu raggiunto dalla nipote delPascià.

Era coperta quasi interamented’acciaio, con elmetto fornito d’unmazzo di splendide penne di struzzo,corazza finemente cesellata, e braccialie gambiere.

All’elegante scimitarra avevasurrogato una specie di spadone ricurvo,ottima arma per montareall’abbordaggio.

– Si può sparare, Metiub? – chiese,dopo d’aver fissato la gagliotta delPascià.

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– Quando vuoi, signora – rispose ilcapitano d’armi. – Non siamo che a tretiri di grosso archibugio.

– Intima la resa.– Il Pascià rimarrà assai stupito di

vedersi cannoneggiare da deicompatrioti.

– Lo vedi, innanzitutto, il padre delLeone di Damasco, sul ponte della suanave?

– Non vedo nessun uomo vecchio fraquei naviganti, e mi é nato il sospettoche possa essere ammalato.

Un sorriso crudele ed ironico sfioròle belle labbra carnose di Haradja. Ilcapitano d’armi, che non l’avevaperduta di vista, scosse la testa, poi

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borbottò: – Hum!... Non vorrei trovarminei panni di quel povero Pascià. Se abordo di quella’gagliotta ci fossero ilLeone e Capitan Tempesta, anche lanipote del Pascià si guarderebbe dalmontare all’arrembaggio, ed io meno dilei.

– E così, Metiub? – chiese Haradja,con voce secca. – Si perde del tempo,mi pare, sulla mia galera.

– Che guadagneremo subito, signora.Aspetta un momento.

Balzò verso il boccaporto centrale,largo, ampio, che permetteva la vistadelle estremità delle corsie, e si mise agridare con voce che non ammettevareplica: – Che i sorveglianti prendano i

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nerbi e non risparmino le spalle deigaleotti. Abbiamo fretta, avete capito?

Poi, mentre delle urla di dolorerimbombavano nel ventre della galera,tornò verso prora dove sei uominiavevano caricata la grossa colubrinafusa a Costantinopoli.

– Un colpo in bianco prima – disse. – Se non si arresta, saranno gli alberi cheandranno giù. Otto colubrine controsedici!... Abbiamo troppo buon giuoco.

Il lungo pezzo, che misurava almenotre metri, scoppiò con un rimbombosonoro che si distese sul mare,ripercuotendosi, ad intervalli, fra lepiccole onde che il vento del sudtendeva ad accumulare.

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Il capitano d’armi della gagliottarispose facendo alzare ed abbassare trevolte la bandiera del Pascià di Damascoin segno di saluto, poi invece diarrestarsi fece allungare la vogata aigaleotti del remo. Haradja avevainarcate le sue bellissime sopraccigliaed i suoi occhi si erano accesi.

– Come!... esclamò. – Non siobbedisce all’ordine d’una nipote delGran Pascià?

– Signora, – disse Metiub la tuabandiera non é stata ancora spiegata, epoi quella gagliotta non é montata dapoveri trafficanti, bensì da uno dei piùpotenti Pascià dell’Asia Minore.

– Spiega i colori d’Alì!...

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– Scapperà più presto.– Ed allora la prenderemo

d’abbordaggio – disse Haradja, convoce irata.

– Sì, dopo d’averla ben cannoneggiata– aggiunse Metiub. – Già, per quantocorra, andrà a dare di cozzo nellecinquanta galere che tuo zio ha messo atua disposizione per sbrigare i tuoipiccoli affari. Olà, di poppa!... Su icolori del Gran Pascià!...

Pochi istanti dopo una bandiera diseta rossa, adorna nel centro di duecolubrine incrociate, saliva sull’altodella maestra, appoggiata da un secondocolpo in bianco.

Come Metiub aveva predetto, gli

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uomini della gagliotta, invece difermarsi raddoppiarono la vogata epuntarono risolutamente le quattrocolubrine che armavano la poppa, controla galera, come per far comprendere chese assaliti si sarebbero difesi.

– Che cosa dici, padrona? – chieseMetiub, con una leggera punta d’ironia.Pare che sul Pascià di Damasco nonfaccia nessun effetto la bandiera delPascià.

– La comanda, quella gagliotta, ilpadre del fiero Leone di Damasco – disse Haradja, a denti stretti. – Fuoco!...Spazza tutto, e quando gli alberi sarannocaduti lancia i nostri uominiall’arrembaggio. Sono quattro anni che

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aspetto la mia vendetta. Giù, fuoco incoperta, giacche il Pascià non si mostra.

– Olà, bordata di prora!... – gridò ilcapitano d’armi. – Basta polvere.

Venti uomini si precipitarono sulcastelletto di prora dove si allungavanosei colubrine di vario calibro, ecominciarono una musica infernalelanciando le palle sopra la gagliotta.

I fuggiaschi per qualche po’ tornaronoa far scendere e salire la bandiera delPascià, poi vedendo che i proiettiliprendevano d’infilata il ponte,cominciarono a rispondere, e assaivigorosamente, colle quattro colubrineche armavano il largo cassero.

– Ah!... I lupicini dell’Asia!... –

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esclamò Metiub, udendo le palleronfare ed anche spaccare. – Mostrano identi a noi che siamo i giganti delNord!... Musica, artiglieri!...

Poi, tornando verso il boccaportomaestro, gridò nuovamente: – Su,sorveglianti, accarezzate le spalle aigaleotti coi vostri nerbi!... Abbiamofretta per l’arrembaggio!...

La galera aumentò subito la velocitàfra le urla dei disgraziati vogatori iquali, essendo incatenati ai banchi edestinati anche a morirvi, o per colpi difuoco o per sommersione, non potevanoin modo alcuno ripararsi da quellagrandine di nerbate che avventavano isorveglianti, lanciati in corsa per le

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quattro corsie.Anche la gagliotta, quantunque avesse

minor numero di remi, faceva sforzigiganteschi per conservare la distanza,la quale, disgraziatamente, a poco apoco spariva, e rispondeva sempregagliardamente agli avversari colle suecolubrine poppiere.

Haradja, seduta in mezzo alla nave,fra i due alberi, su un semplice mastellorovesciato, guardava tranquillamente isuoi uomini affaccendati a caricare escaricare le colubrine.

Nessun muscolo del suo visotrasaliva; la sua bocca appariva quasiridente, eppure le palle fischiavanoattorno alla nave massacrando, di

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quando in quando, i remi dei galeotti ole murate, o attraversando le vele.

Il capitano d’armi per due volte leaveva gridato di ritirarsi nel quadro, mala fiera nipote del terribile Pascià non siera nemmeno degnata di rispondere.

Eppure un rumegliotto ed un albaneseerano caduti a breve distanza da lei,spaccati in due dalle palle dellagagliotta, e giacevano ancora sulla tolda,vomitando sangue dallo stomacosfondato.

Metiub, che aveva fretta di finirla, eche non voleva esporre troppo lapadrona per non attirarsi più tardi levendette del Pascià, incoraggiava gliartiglieri e gli archibugieri, giacche

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ormai anche le armi da fuoco di piccolaportata erano entrate in gara.

Di quando in quando faceva fare allagalera un improvviso cambiamento dirotta per poter far uso anche dellecolubrine che si trovavano stese fra idue alberi. Il combattimento duravaaspro da una buona mezz’ora, con moltofumo e molto baccano, poiché i colpiche davano i remi alle due navirendevano difficilissima la mira. Se ilvento avesse soffiato, la cosa sarebbestata ben diversa, e degli alberi nonsarebbero tardati a cadere, poiché inquell’epoca i mussulmani avevano degliartiglieri da tener testa a quelli dellaRepubblica Veneta.

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Già la galera, che guadagnavasempre, si preparava per l’attaccofinale, quando l’orizzonte fu chiuso dacinquanta navi da guerra, disposte su unalunghissima linea, in modo da impedireil passaggio alla gagliotta.

– Il Pascià é preso!... aveva gridatoMetiub, facendo cenno agli artiglieri disospendere il fuoco.

Infatti la povera gagliotta non avevaormai alcuna speranza di fuga, dopo cheil suo equipaggio aveva rilevato chequelle cinquanta galere portavano tuttela rossa bandiera del Pascià. Tentò tre oquattro bordate affatto inutili, cessò ilfuoco, ritirò i suoi remi e lasciò caderele vele. La bandiera del Pascià di

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Damasco fu raggiunta da un’altra biancache indicava la resa.

– Sei contenta, padrona? chieseMetiub, dopo d’aver data la voce airematori perché non rallentassero labattuta.

– Ma non vedo il Pascià – ripeteHaradja, un po’ inquieta.

– Come ti ho detto, sarà ammalato.– C’é però il suo capitano d’armi.– È lui che ha diretto il fuoco.– Fa’ fissare i pettini di ferro ai due

alberi e prepara il giuoco dei boscelli.Metiub la guardò fissa.– Mi hai capito? – chiese Haradja,

impazientita.– I pettini di ferro per un Pascià?

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Guardati, padrona.– Mio zio é troppo possente a

Costantinopoli, e poi tu non sai che cosaintendo fare.

Si era alzata ed aveva snudata lasciabola, mentre i suoi archibugieri siaffollavano sul castelletto, pronti a fareuna grossa scarica.

La galera in meno di cinque minutiraggiunse la gagliotta, ritirò i suoi remiaffinché non corressero il pericolo difracassarsi, e giunse all’abbordaggio,senza che nessun colpo di colubrinafosse stato sparato.

– Arrendetevi!... – aveva gridatoMetiub, con voce tuonante, mentre le duenavi si univano per legarsi prontamente.

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Un guerriero alto, magro, assai bruno,tutto nervi e muscoli, che indossava uncompleto costume di guerra, si fecelargo fra gli uomini della gagliotta echiese: – A chi arrendersi?

– Alla nipote del Gran Pascià!...Il damaschino era diventato

pallidissimo, ma poi, facendo unosforzo, disse: – Sai chi abbiamo abordo?

– Il Pascià di Damasco.– E ci assali? Con quale diritto?– Col diritto dei più forti – disse

Haradja, avanzandosi verso la murata. – Passa sulla mia galera, tu, per ora: alPascià penseremo dopo. Avverti i tuoiuomini che al menomo tentativo di

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resistenza noi li affogheremo tutti,insieme ai galeotti del remo. Ed ora,passa sulla mia nave!...

Inizio

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FEROCIA TURCAIl capitano d’armi del Pascià, a quella

brutale intimazione, ebbe uno scatto dirivolta e alzò minacciosamente la suapesante scimitarra, mentre colla sinistraimpugnava una di quelle lunghe pistoleincrostate di madreperla che usavano iturchi dell’Asia Minore e con buonsuccesso.

– Tu non mi hai ancora vinto – dissecon voce irata. Nessuno dei tuoi uominié ancora salito sulla gagliotta adabbassare la bandiera del mio signore.

Haradja alzò un braccio ed indicò lecinquanta galere del Gran Pascià inpanna a meno di un miglio.

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– Passa attraverso quelle, se credi – gli disse. – Noi staremo a guardarti.

– E perché ci fermate, mentre il miosignore é atteso a Costantinopoli dalSultano?

– Io ed il Gran Pascià lo sappiamo. Tiarrendi?

– Ti ho detto che nessuno dei tuoiuomini é ancora salito sulla mia nave.

– Metiub, salta!... grido Haradja.Il capitano d’armi del castello

d’Hussiff varcò la murata della gagliottaa piedi giunti, tenendo alzato il suospadone.

Il capitano d’armi del Pascià diDamasco, valoroso come tutti i turchidell’Asia Minore, gli attraversa il passo

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investendolo furiosamente a gran colpidi scimitarra.

Avrebbe potuto freddarlo d’un colpocon una pistolettata, ma da lealeguerriero aveva gettato l’arma da fuocoper impugnare, colla sinistra, un solidoyatagan largo tre dita.

Metiub, incalzato vigorosamente, fucostretto ad addossarsi alla murata,avendo ben compreso d’aver dinanzi unavversario da non scherzare.

I due equipaggi erano rimastiimmobili, cogli archibugi in mano,fumanti nelle micce, pronti a scagliarsirabbiosamente l’uno addosso all’altro.

Haradja, con un piede su unacolubrina, assisteva tranquillamente al

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duello, contando sull’abilità del suocapitano d’armi.

I due uomini, entrambi coperti di ferroe di maglie d’acciaio di fabbricamilanese, le sole che armavano cristianie miscredenti dell’Europa e dell’Africa,si erano attaccati rabbiosamente,scambiandosi terribili colpi, chestrappavano delle grida d’ammirazioneai due equipaggi.

Le loro corazze di quando in quandoscrosciavano senza però cedere.

I due valorosi mandavano urlaselvagge nello scambiarsi quelleterribili botte, urla che facevanosorridere Haradja di compiacenza. Perquattro o cinque minuti i due capitani

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tentarono di spaccarsi gli elmetti, nonriuscendo a schiodare le corazze, poiquello del Pascià di Damasco, avendofatto un passo falso, cadde sul ponte conun gran fragore di ferramenta,lasciandosi sfuggire la scimitarra el’yatagan.

Metiub gli era balzato subito addosso,puntando lo spadone alla gola, allaestremità superiore della corazza.

– Devo ucciderlo? – chiese adHaradja.

La nipote del Pascià stette unmomento silenziosa, poi rispose: – No:abbiamo da parlarci con quel vinto.

– Alzati!... – disse Metiub al capitanod’armi del Pascià.

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Il damaschino d’un balzo fu in piedi,raccolse la scimitarra, la ruppe sull’orlodella murata, poi disse, guardando fissaHaradja: – Vinto non sono stato che peruno dei tanti incidenti che succedonoagli uomini che s’attaccano. Iod’altronde conosco la fama sinistra chegode la nipote del grande ammiraglio.Eccomi!...

Con un salto aveva varcato le duemurate ed era caduto a due passi daHaradja.

– Che cosa vuoi ora da me? – chiese,incrociando le braccia, e guardandolasdegnosamente. La mia vita? Prendila!...

– Voglio solamente sapere dove sitrova il tuo padrone – rispose Haradja,

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la quale, con un rapido sguardo, si eragià accertata che i pettini di ferro eranostati fissati ai due alberi, in modo daguardarsi l’un l’altro.

– È nella sua cabina ammalato.– Che cos’ha?– Soffre ai piedi.– Si mangiano troppi polli a Damasco

– disse la terribile donna, con ironia.– È vero che sono i migliori.– Tu non l’hai veduto mangiarli. La

sua malattia potrebbe dipendere dallatroppa sabbia che il vento spinge sullacittà e che le notti rendono assai umide.Tu sai che il mare non é lontano.

– Ciò non m’interessa. È ben altro ciòche io voglio sapere da te e dovrai

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parlare.– Interrogami.– Prima te, poi il tuo padrone.– Aspetto.– Dove andavate?– A Costantinopoli, chiamati da una

lettera del Sultano.– Ah!... fece Haradja. – Scritta

proprio dal Vizir del Sultano?– Almeno lo credo rispose il capitano

d’armi del Pascià di Damasco,aggrottando la fronte. – Si sarebbecommesso un infame tradimento perperdere il mio signore?

– Va’ a domandarlo a Costantinopoli.– Lascia che ci vada.– Ora no: forse dopo, quando avrai

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parlato.– Che cosa vuoi tu dunque sapere?– Dove si trovano Muley-el-Kadel,

figlio del Pascià, e sua moglie, quellafamosa Capitan Tempesta.

– Ed a me lo chiedi?– Tu sei il confidente del tuo padrone

e saprai bene dove si trova il Leone diDamasco che da tre anni invano facciocercare in Italia. So che quella gentefelice ha abitato un po’ di tempo aNapoli, dove la cristiana ha moltipossedimenti, essendo una duchessa; soche hanno soggiornato a Venezia nelpalazzo Loredan, ma quando io stavoper vendicarmi dell’uno e dell’altra,sono scomparsi. Solo il figlio si trova

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nella Regina delle Lagune, o meglio, visi trovava, poiché a quest’ora viaggiaverso l’oriente.

– L’hai fatto rapire!... – esclamò ilcapitano d’armi, impallidendo.

– In mancanza del Leone e di suamoglie, ho preso loro il figlio.

– Che età ha?– Tre anni, si dice.– E che cosa vorrebbe fare la nipote

del Gran Pascià di quel piccino?– Ciò non ti riguarda – rispose

brutalmente Haradja.– Ebbene, io non so dove si trova il

figlio del mio signore. Sposata lacristiana, egli ha rotto ogni rapporto consuo padre, troppo buon mussulmano per

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permettere un simile matrimonio.– A chi vorresti darla da bere? A me?

T’inganni, amico. Dove si nascondonoquei giaurri maledetti? Voglio saperlo,dovessi strapparti la vita.

– Prendila pure: te l’ho già detto – disse il capitano d’armi del Pascià.

– Non ho nessuna fretta – risposeHaradja, quasi sorridendo. – Tu saidove il figlio del Pascià si trova, inItalia o in Oriente?

– Io non so nulla, te l’ho già detto.– Ah, cane!... urlò Haradja, balzando

in piedi. – Cerchi la morte, tu?– Mio padre é morto combattendo

contro i curdi; suo figlio morràassassinato dai suoi correligionari. La

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morte d’altronde non ha mai fatto pauraal vero guerriero.

– Parlerai?– Se vuoi sapere che i curdi delle

steppe da tempo annoiano i damaschini,te lo posso confermare.

– Che m’importa di quelle tribùselvagge che hanno dato dei fastidi aisultani?

– Allora ti posso raccontare che aBassera le galline ingrassanomagnificamente dentro le opulenterisaie.

– Ah!... Tu osi scherzare colla nipotedi Alì Pascià!... gridò Haradja, con vocesibilante. – Metiub, dov‘é Hamed?

– Dietro di te – rispose il capitano

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d’armi della terribile donna.Un negro di statura gigantesca, che

doveva avere la forza di due robustiuomini uniti, coperto d’un semplicesottanino di seta rossa, adorno di alcunipezzi di corallo, era bruscamentecomparso dietro la nipote del Pascià.

– È pronto il giuoco dei boscelli? – chiese Haradja.

– Sì – rispose il negro.– Impadronisciti di quest’uomo e

spoglialo.Non aveva ancora terminato di

parlare che Hamed si era precipitato,collo slancio d’un leone, addosso alcapitano d’armi del Pascià di Damasco,atterrandolo.

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La lotta fu disperata, ma brevissima.La forza poderosa del gigantesco negroebbe ben presto ragione, e tutte le vestidel disgraziato capitano furonostracciate dopo d’aver levata l’armaturadi ferro che Metiub non era riuscito asfondare.

Subito una fune scese fra i due alberi,fornita d’un boscello, e quattro marinai,aiutati dal negro, legarono il capitanoalle braccia, alle gambe, e poi sotto alleascelle, issandolo quindi ad un’altezzadi quattro metri.

Di fronte, parte per parte, vi erano ipettini di ferro, lunghi tre piedi, collepunte arcuate, affilatissime, lunghecinque o sei pollici.

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Il capitano d’armi del Pascià nonaveva mandato nemmeno un grido, e siera lasciato dondolare all’estremitàdella corda.

– Vuoi parlare? – chiese Haradja, convoce rabbiosa.

– Ti ho detto che io non so nulla.– Ah!... La vedremo!...– Tu vuoi la mia vita, lo so, l’ho

indovinato: divertiti.– Se parli io non ti toccherò.– Non so nulla.– Fatelo ballare!... Vedremo se

quando sentirà i morsi dei pettini, sideciderà a parlare.

– Perderai inutilmente il tuo tempo – rispose il valoroso capitano.

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– Lancia, Hamed!... – urlò la nipote diAlì Pascià.

Gli uomini della gagliotta, chefremevano di rabbia, vedendo il lorocapitano avventato contro i terribilipettini, puntarono gli archibugi, ma leotto colubrine di tribordo della galeraed i trenta fucilieri li persuasero afrenarsi, per non esporsi ad una stragegenerale, specialmente colle cinquantanavi da guerra sempre in panna, chepareva non attendessero che un segnaleper avanzarsi.

Il gigantesco negro afferrò una corda,mentre i due marinai ne prendevanoun’altra, ed il disgraziato capitanod’armi del Pascià si vide lanciato fra i

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due alberi, in direzione dei pettini.– Parlerai? – gridò un’ultima volta

Haradja.– Non so nulla – rispose il valoroso.– Ed allora che il Profeta ti accolga

nella sua infinita misericordia. Dannatacagna!... Tu assassini un uomo nelle cuivene scorre il tuo medesimo sangue,perché sono turco anch’io!...

– E quanto di quello curdo t’affluisceal cuore? – chiese Haradja sempreironica.

La risposta fu un grido orribile chefece impallidire tutti i marinai dellagagliotta. Hamed, con una strappata piùviolenta, aveva portato il capitano suuno dei pettini, ed una punta gli aveva

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squarciato il dorso, in vicinanza dellacolonna vertebrale.

Il disgraziato rimase un momento sulferro che doveva avergli attraversato unpolmone, poi, sotto lo strappo violentodei due marinai, attraversò di volata lanave, lasciando cadere larghe macchiedi sangue rossissimo.

Si udì un altro grido più terribile, piùspaventoso.

Il capitano era caduto sull’altropettine con grande violenza, e duearpioni gli avevano squarciatoorrendamente il ventre, uscendoglidietro il dorso per un buon palmo.

Un ruggito di furore si era alzato fragli uomini della gagliotta, però nessuno

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aveva cercato di rinnovare il tentativo dirivolta.

Si sapevano perduti, più che vinti. Senon ci fossero state le cinquanta galere,quei valorosi, poiché tutti i turchidell’Asia Minore hanno coraggio davendere, non avrebbero certamenteindugiato a tentare una lotta disperata. Ilcapitano d’armi era rimasto infisso, tuttorattrappito, perdendo, dai due squarci,sangue ed intestini.

Rantolava rabbiosamente ebestemmiava il Profeta ed anche Allah.

La nipote del Pascià lo guardavasempre impassibile. Si sarebbe dettoche aveva gettato, sui pettini, unsemplice pollo di Bassora anziché un

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forte guerriero damaschino.Sui due ponti delle navi regnava un

profondo silenzio, rotto solo dai rantoli,sempre più fievoli, del capitano; tuttitrattenevano il respiro.

La voce di Haradja lo ruppebruscamente.

– Metiub – disse, sedendosi su di unacolubrina. – Quell’uomo mi annoia coisuoi soffi da pescecane ramponato.Finiscilo con un colpo di fucile.

– Non farmi commettere una talevigliaccheria padrona – rispose ilcapitano d’armi del castello d’Hussiff. – Lascialo morire in pace.

Allora tu sei più crudele di me. Lasua agonia potrebbe durare qualche ora

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senza speranza, ormai, di tornare vivo aDamasco. Le urì del Profeta aspettanosempre sorridendo i forti guerrieridell’Islam: affrettagli la sua volatalassù.

– Forse hai ragione, – rispose ilcapitano – ma questo servigio glielopuoi far rendere da Hamed. Io mi batto,ma non assassino.

– Hai udito, Hamed? – disse Haradja,rivolgendosi al negro.

– Sì, padrona.– Finiscilo.Il carnefice della galera prese dalle

mani d’un marinaio un archibugio, soffiòsulla miccia, si avanzò di alcuni passi,puntò attentamente, poi fece fuoco.

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Il capitano del Pascià aveva ricevutola palla nella testa ed era morto sulcolpo, senza mandare un sospiro.

– La sua anima é fra le braccia delleurì – disse Haradja. – Quale compensohanno questi guerrieri, mentre noi donne…

– Vi andrà lassù? – chiese Metiub,con voce beffarda. Non é mortocombattendo contro i giaurri.

– Il Profeta ha il cuore largo.Il capitano d’armi fece una smorfia e

scosse ripetutamente la testa.Sulle due navi regnò un altro lungo

silenzio, un silenzio tranquillo da partedell’equipaggio della galera dellaterribile nipote del Pascià, pieno invece

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di fremiti da parte dei damaschini delPascià, i quali non avevano ancoraabbandonate le armi, poi Haradja,volgendosi verso Metiub, gli disse: – Tisei addormentato sull’anima delcapitano d’armi del Pascià? È vero cheera un tuo confratello.

– Che cosa vuoi dire, signora? – chiese il forte turco, mostrandosi assaiseccato dei feroci capricci della suapadrona.

– Fa’ deporre le armi a quella gente – disse Haradja, indicando l’equipaggiodella gagliotta. Le micce fumanti che sifabbricano a Damasco sono troppocattive per tollerarle a lungo. Lecinquanta galere sono là, e non aspettano

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che una bandiera azzurra attraversata dauna riga gialla innalzata sulla maestradella nostra nave per rimettersi al vento,ed allora saranno mille colubrine cheraderanno come un pontone la gagliotta.

Quelle parole erano state pronunciatea voce alta, onde i damaschini tutti lepotessero udire.

Metiub si avanzò verso la murata edisse, con voce imperiosa, agli uominidel Pascià: – Giù le armi!... La nipotedel grande ammiraglio lo vuole.

I damaschini ebbero una lungaesitazione, poi spensero le micce egettarono sulla tolda i pesanti archibugi,i quali caddero con un gran fragore diferraccio.

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Le scimitarre e gli yatagan invecevolarono in mare.

– È fatto – disse Metiub ad Haradja.– Ora va’ a scovarmi il Pascià.– Che cosa vuoi fare di lui?– Lo so io e basta.Il capitano d’armi del castello

d’Hussiff chiamò il gigantesco negro equattro archibugieri e passò sullagagliotta, scomparendo sotto il quadrodell’alto cassero.

Due minuti dopo ritornava, portandofra le robuste braccia un vecchio dallalunga barba bianca, avvolto in unamagnifica coperta di seta damascata.

Era il Pascià di Damasco, il padre delLeone. Il capitano fece accostare due

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colubrine e depose il vecchio a pochipassi da Haradja.

Quantunque dovesse aver varcata giàla sessantina, era un uomo d’aspettoimponente, dai lineamenti nobilissimi ead un tempo energici.

I suoi occhi, ancora pieni di fuoco,che tradivano l’antico guerriero, sierano fissati ferocemente in quelli diHaradja.

– Chi sei tu, – chiese, con vocefremente che osi cannoneggiare la naveche conduce a Costantinopoli il Pasciàdi Damasco? Non hai veduto la miabandiera sventolare sulla cima dellamaestra?

– E tu non hai veduto quella che

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sventola sulla mia galera? – chieseHaradja.

– Guardala.Il Pascià alzò gli occhi verso la cima

della maestra e fece un gesto di stuporeed insieme d’ira.

– La bandiera di Alì Pascià!... – esclamò. – Che cosa vuole da me ilgrande ammiraglio? Potrebbe occuparemeglio il suo tempo dinanzi a Candia.

– Sono io che voglio qualche cosa date, Pascià.

– Ma chi sei tu?– La nipote del Pascià.– La signora del castello d’Hussiff?– Sì, sono io.Il Pascià strinse le pugna.

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– Lo sapevo che un giorno ti avreitrovata sul mio cammino, perfida donna–gridò. Sono sfuggito a tre tuoi attentatiper farmi lasciare Damasco e catturarmiin mare come hai fatto ora. Che cosavuoi tu da me? Bada che sonoimparentato con Maometto II.

– È morto, e non lascerà le un’delparadiso per venire in tuo soccorso – disse la giovane donna, con vocesarcastica.

– Sono un principe!...Quanti principi hanno fatti sparire i

sultani!... Ammazzano i loro fratelliprima di salire al trono, e anche i lorofigli, quando hanno qualche sospetto ose lo creano.

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– E che cosa vuole concludere lacastellana d’Hussiff? – chiese il Pascià,con voce ironica.

– Che la nipote del Pascià ti tratteràcome un qualunque prigioniero diguerra.

– Me!...– Te, signore di Damasco.– Io ho ancora da sapere però per

quale motivo tu hai cannoneggiata e poiarrembata la mia gagliotta.

– Ho fatto anche di più: voltati eguarda che cosa pende dall’albero ditrinchetto, da quel pettine di ferro.

Il Pascià si era voltatoimpetuosamente ed aveva mandato ungrido d’orrore.

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Il suo capitano d’armi era sempreappeso ai denti e sanguinava ancora.

– Infame!... urlò, lanciando fiammedagli occhi.

– Ti spaventi per così poco, Pascià?– Infame!...– Se avesse parlato, quell’uomo

sarebbe ancora vivo – disse Haradja,sempre fredda e beffarda.

– Tu hai assassinato un prode!...– Quando me ne sono accorta era

troppo tardi. Come ti dissi, però, lacolpa é stata sua. Se mi avesse dettodove si trovano rifugiati tuo figlioMuley-el-Kadel e sua moglie, laduchessa cristiana, che a Famagostacombatteva sotto il nome di Capitan

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Tempesta, fumerebbe ancora il suoscibouk.

– Ah!... È per questo che tu l’haiucciso!... – urlò il Pascià.

Haradja; alzò le spalle con fareannoiato, poi disse: – Ora sarai tu cheparlerai.

– Io!...– Bada!... Siamo in alto mare, ed io

posso far affondare la tua gagliotta contutte le persone che la montano, e tiassicuro che nessuno uscirebbe vivo perrecarsi a Costantinopoli a raccontarlo adIbrahim, il nostro buon Sultano.

– Sicché tu vorresti dire che se io nonparlassi, pur essendo di maggior nobiltàdella tua, poiché tuo zio non era altro

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che un pirata algerino, mi assassineresticome il mio capitano d’armi?

Haradja esitò a lungo a rispondere,poi disse:

– Non so: si vedrà!...– Che cos’é che vorresti sapere da

me?– Dove si trova tuo figlio.– Perché t’interessa?Un livido lampo balenò negli occhi

della castellana d’Hussiff.– Non sai dunque che ci eravamo

amati? Io sospiravo quel fiero Leone diDamasco, che sotto le mura diFamagosta, faceva stupire i centomilaturchi del Vizir Mustafà colle sueprodezze.

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– Ne avevo infatti udito vagamenteparlare rispose il Pascià, quasitrascuratamente. – E poi?

– Una principessa cristiana me lorapì!... gridò Haradja.

– Ho saputo anche questo.– Dove si sono rifugiati? Sono tre

anni che li faccio cercare per l’Italia, daNapoli a Venezia, e da gente scelta …

– Buona per colpi di pugnale – disseil Pascià, ironicamente.

– E non hanno trovate che le lorotracce nelle due città prosegul lacastellana d’Hussiff, senza rilevare lastoccata del damaschino.

– Dove saranno allora?– È a te che lo domando. Tu sei il

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padre del Leone di Damasco, ed ilsuocero di quella odiata CapitanTempesta.

Il Pascià si alzò di scatto sulle duecolubrine, respingendo la coperta diseta, poi fissandola intensamente, disse:– Sappi che da quando mio figlio harinnegato la religione del Profeta esposata la cristiana, io più nulla hosaputo del Leone di Damasco.

– Menti!... urlò Haradja, balzando inpiedi, pallidissima. – Tu menti!... Haid’altronde ragione. È tuo figlio ed haidiritto di difenderlo, ma l’altra é unagiaurra, che ha combattuto contro i figlidell’lslam e che molti ne ha uccisi, puressendo donna, e puoi abbandonarmela.

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Dove si trova quella donna? Io lo vogliosapere!...

Se non ho mai avuto notizie di Muley,nemmeno posso averne ricevute del

la cristiana. Dove sono? Chi lo sa? Laduchessa aveva vasti tenimenti nelnapoletano e perfino a Negroponte ed aCandia. Viaggeranno attraverso l’Italia,o forse, non sentendosi sicuri, attraversol’Europa.

– Lasciando il loro figlio a Venezia?– I nostri compatrioti, oggidì che la

guerra infuria ancora, non hanno passolibero nella Regina delle Lagune. Nonhanno dimenticato, quei valorosimercanti, la perdita di tutte le lorocolonie, della Morea, di Negroponte e

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di Cipro, come non hanno scordato icinquecento loro soldati, caduti vivinelle mani di Maometto II, che li fecesegare tutti per metà.

– Il Sultano era nel suo diritto, e poiera tuo parente – rispose Haradja,ironica.

– Io, turco forse più di quelli chevivono a Costantinopoli, non avreicommessa una così grossa infamia.

– Dovevano fare a meno d’impegnarsiin una guerra, non sapendosi abbastanzaforti.

– E ci hanno uccisi sotto le mura dellecittà di Cipro e di Candia, di Morea, edi Negroponte, meglio che duecentomilaguerrieri, e ci hanno distrutto, insieme

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coi Cavalieri di Malta, più di trecentogalere. E non erano pronti per unaguerra!... Da dieci anni si assediaCandia per terra e per mare. Che cosa hafatto il tuo grande zio colle suecinquecento galere? E che cosa ha fattoJussuf Pascià?

– Hanno preso la Canea.– Ma non l’isola intera. Le ossa dei

nostri guerrieri si trovano dovunque,dietro a qualunque pietra di quell’isola.

– Tutto ciò non m’interessa – disseHaradja seccata. Alla guerra si va perammazzarsi e non già per chiacchierare.Lascia questo discorso, Pascià, e se nonvuoi dirmi dove si trova tuo figlio,dimmi dove si nasconde la cristiana.

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– Ti ho detto che non lo so – risposeil Pascià, con voce dura.

– Non lo vuoi proprio dire?– Non so nulla.– Anche il tuo capitano d’armi diceva

così, e si ostinava a confermarlo, e vedidove é andato a finire, su dei pettini.

– Sicché tu vorresti dire? – chiese ilPascià, aggrottando la fronte ediventando pallido.

Haradja si volse verso il gigantesconegro e gli disse:

– Fa’ portare in coperta duecavalletti, due tavole ed i tuoi rasoi.

– Sì,padrona.– Che cosa hai detto? – urlò il Pascià.– Chi sei tu, ora, signore di Damasco?

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Un vinto e nient’altro …Inizio

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IL PASCIÁ DI DAMASCOFurono i sultani che resero

spaventosamente sanguinaria lapopolazione turca, instillando un odioferoce, senza tregua e senza pietà, versoil cristiano, a cui nessun suppliziodoveva bastare per procurargli la morte.

Non il primo, che fondò la dinastiadegli Osman, il famoso Bajazet, cheassoggettò quasi tutto l’Islam e che noncedette ad altri che dinanziall’invincibile Tamerlano, checonduceva le orde tartare e che non ebbenessuna pietà pel vinto Sultano, poichélo fece rinchiudere in una gabbia diferro e morirvi dentro di crepacuore;

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non il secondo, il primo Maometto, ilpiù famoso, il più dolce dei sovrani, cheperdonava ai ribelli, e che concesse lavita al suo stesso fratello ribellatoglisicoll’aiuto del principe di Valacchia, eche morì ad Adrianopoli nel 1421,rimpianto dal suo popolo e lodatoperfino dai suoi nemici. Fu Maometto II,il più grande dei sultani turchi, cheinstillò nei suoi sudditi l’odio contro icristiani, e che inventò spaventosisupplizi anche pei suoi vizir.

Sotto questo fortunato conquistatore,che pel primo piantò la Mezzaluna sullacupola di Santa Sofia di Costantinopoli,distruggendo per sempre il regno diBisanzio, la crudeltà turca si sviluppò in

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modo spaventoso.Crudele ed inflessibile, non pago di

aver fatto del mar Nero un lago turco, diaver conquistata la Crimea, laTrebisonda, e di aver portate le suearmi, sempre vittoriose, fino in vistadelle Alpi, aveva mostrato ai suoigiannizzeri come si trattano i prigionieridi guerra, facendo segare, vivi,cinquecento veneziani.

Fece passare a fil di spada ottocentoepiroti caduti nelle sue mani; fecestrozzare vizir e principi spodestati, einaugurò nel Serraglio il sacco di cuoio,entro cui mettevasi la donna che più nonpiaceva al suo signore, insieme ad ungatto, sacco che poi veniva gettato di

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notte nel Bosforo con una palla di ferroappesa in fondo.

Sembrò che una vera folliasanguinaria s’impadronisse di tutto ilpopolo turco, follia che gli altri sultanisi guardarono di lasciar spegnere, perspargere intorno a loro il terrore, e fartremare i nemici lontani.

E si mostrò subito spaventosamentecrudele il terzo Maometto, famoso per lasua barbarie ed anche per le sue vittorie.

Aveva diciannove fratelli quando salìal trono. Temendo che qualcuno potessepiù tardi ostacolargli il Sultanato, li fecestrozzare tutti dai muti del Serraglio.

Avido di gloria, osa misurarsicoll’Austria, che allora era la maggior

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potenza dell’Europa, ed in una furiosa eterribile battaglia sconfigge il ducaMassimiliano uccidendoglicinquantamila uomini!...

I prigionieri non ebbero quartiere emorirono tutti fra i più orribili supplizi,poiché ormai il turco considerava ilcristiano come un essere indegno diesistere al mondo.

Imbaldanzito, porta le sue anni sulDanubio e nell’Asia, e manda galere adevastare le coste italiane, facendodovunque orribili stragi.

Come se il delitto commesso conl’uccisione dei suoi diciannove fratellinon bastasse, ne commette un altro, chefa inorridire non solo il mondo islamico,

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bensì anche quello cristiano. Mahmud, ilsuo primogenito, principe d’indoleardita e generosa, aveva chiesto piùvolte a suo padre di condurlo alla guerrainvece di lasciarlo chiuso nel Serragliofra le cinquecento belle dell’harem.

Quella insistenza ispira al sanguinarioSultano il dubbio che egli ambissequalche grosso comando per servirsenepoi contro di lui, e lo fece strozzare.

La crudeltà ottomana aumentava avista d’occhio. Non bastavano più ilacci di seta dei muti, non bastavano piùle stragi notturne dell’harem, nonbastavano più a quel crudele Sultano leforche, le esecuzioni in massa, le segheper tagliare a metà i prigionieri, i tagli

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dei nasi e degli orecchi; inventò laspellatura operata con rasoiaffilatissimi, supplizio divenuto poiquasi popolare, e che, come si vede, nonera ignoto nemmeno ad Haradja.

Non erano d’altronde i soli sultani arinfocolare la ferocia ottomana: anche lesultane vi concorrevano facendostrozzare le loro rivali, o gettarle vivenel Bosforo entro il fatale sacco. Si puòdire anzi che rivaleggiarono coi loropadroni e signori, macchiandolargamente il Serraglio di sangue.Perfino le cristiane, rapite sulle costed’Italia e poi diventate potentinell’harem, non si mostrarono piùumane.

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È rimasta famosa la Baffa, nobileveneziana, rapita da corsari turchi,venduta schiava a Costantinopoli, perdiventare poi una delle più potenti edelle più crudeli sultane che la storiadegli Osmanli ricordi. Insanguinò ilSerraglio in tutti gli angoli, e puressendo cristiana innanzi tutto, eveneziana poi, incrudelì contro i giaurridella sua medesima razza, come seMaometto avesse sconvolto il suocervello e l’avesse fatta più mussulmanadi tutte le mussulmane dell’impero.

Non vi era quindi da stupirsi seHaradja, nipote d’un corsaro algerino,diventato più tardi famoso, chemassacrava quanti prigionieri gli

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cadevano vivi nelle mani, fosserocapitani od umili soldati, non siimpressionasse troppo ad applicarequalcuno degli atroci supplizi cheMaometto III aveva inventati durante lebrevi soste guerresche.

Il Pascià non aveva staccati glisguardi dalla castellana d’Hussiff, comeper chiederle se avesse voluto scherzareo semplicemente spaventarlo.

La comparsa di Hamed fornito d’unacassetta, seguito da quattro marinai cheportavano due cavalletti e due grossetavole, lo convinse presto del suo

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errore.– Dunque tu oseresti?... chiese con

voce rauca, strozzata dalla collera.– Io oserò tutto se tu non parlerai –

rispose Haradja. – Non ti chiedo, cometi dissi, di dirmi dove si trova tuo figlio;a me basta sapere dove si nasconde suamoglie, il Capitan Tempesta.

Il Pascià proruppe in una risata.– Credi tu, forse che i giaurri, nei

loro paesi, vivano separati dalle lorodonne? Sai bene che non ne possonosposare che una, e dicendoti dove sitrova la duchessa napoletana, moglie dimio figlio, t’indicherei anche il palazzoabitato da Muley-el-Kadel. Io d’altrondenon so nulla, e tu, nipote d’un pirata,

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puoi uccidermi come hai ucciso il miofedele capitano d’armi.

– Bada, Pascià!... gridò Haradja, convoce stridula.

– Quando tu mi avrai presa la vitatutto sarà finito, e nulla avrai saputo.

– Siete dunque ben ostinati voiottomani dell’Asia Minore.

– Più valorosi e più leali di quellidelle isole e del continente.

– Vuoi tornare a Damasco?– Che cosa devo fare? Ormai ho

capito che nulla ho da comunicare alSultano Ibrahim.

– Parlare!... – urlò Haradja, chesembrava una tigre.

– Ti posso dire che i banditi siriaci

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che salivano ad ondate dal deserto, sisono calmati, e che le sabbie nongiungono più fino al mare.

– Va’ a raccontare ciò alle tuefavorite.

– Lo sanno già e si annoierebbero seripetessi loro queste storie.

– Dunque non parlerai di CapitanTempesta, della moglie di tuo figlio?Non mi dirai dove potrei raggiungerla…

– E farla uccidere – disse il Pascià,con voce sarcastica. Alla nipote delgrande ammiraglio non mancherebberocerto dei miserabili arruolati inTripolitania, in Algeria, o più lungiancora, nel Marocco, pronti a

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maneggiare il pugnale anche contro unadonna.

– T’inganni!... Sono anch’io fortenelle armi. E non meno, spero, dellaprincipessa italiana.

– Infatti mi hanno detto, che il tuocapitano d’armi, che si dice una dellemigliori lame dell’Impero, abbia fatto dite una valente alliva.

– Chi te lo disse?– L’ho udito narrare un giorno a

Damasco.– Ah!... Si parla di me in quella città.

– esclamò Haradja, arrossendod’orgoglio.

– Cipro è troppo vicino alla costaperché qualche volta non si parli del

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castello d’Hussiff e della sua castellana.– È così? – disse Haradja, alzandosi

impetuosamente, intanto che il carneficedella galera faceva preparare la tavoladel supplizio e visitava i suoi strumenti.

– Che cosa vuoi – chiese il Pascià.– È mezz’ora che ti ripeto che voglio

sapere dove si trova la principessa.– Ed è mezzo’ora che ti rispondo che

non so nulla. – rispose il Pascià.– Ah, non sai nulla?...– No.– Per Allah! la vedremo…Aveva fatto un cenno.Hamed si era gettato come una tigre

sul Pascià, gli aveva tolto la magnificacoperta damascata che lo copriva, e

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siccome il disgraziato non avevaindosso che dei calzoni di seta bianca eduna camicia, pure di seta, di coloregiallo, strappo tutto.

Afferratolo quindi, lo gettòabbastanza brutalmente sulle due tavolesorrette da cavalletti e lo legò col dorsoin alto, stringendogli fortemente lebraccia e le gambe.

– Puoi vantarti di avere un carneficeche non ha riguardi né per pascià né pervizir, Che preghi Allah di non cadermiun giorno sotto le mani – disse il padredel Leone di Damasco.

– Me ne manderai un altro tu. – rispose Haradja. – A Cipro non si puòtrovare di meglio. È vero che i

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damaschini godono fama di esseregentili.

– Ah!... Unisci anche l’ironia!...– Io?... Mai, Pascià!Hamed aveva preso due grandi rasoi,

ben affilati, e stava passando l’unosull’altro, cercando di produrre maggiorrumore.

– Devo cominciare, padrona? – chiese.

Delle urla feroci coprirono la suavoce. I marinai della gagliotta,quantunque ormai disarmati,protestavano contro quella crudeltà chesi voleva applicare al loro signore.

Haradja si volse verso i vinti,guardandoli sdegnosamente. Poi disse a

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Metiub:– Fa’ caricare quattro colubrine a

mitraglia, e se quelle gru di Damasco simuovono, fa’ spazzare il ponte.

– Come vuoi rispose il capitanod’armi, il quale si mostrava sempre piùseccato.

Hamed aveva terminato di affilare isuoi rasoi.

Afferrò colla mano destra la spallasinistra del Pascià sollevando un po’ lacarne, poi, col rasoio più affilatocominciò a tagliare la pelle.

Una grossa macchia di sangue sidiffuse tosto, allargandosi rapidamente.

Il Pascià non aveva mandato un grido.Haradja aveva strette le pugna, mentre la

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fronte del capitano d’armi si offuscava.– Parlerai? – chiese la castellana

d’Hussiff, con voce alterata.– Non so nulla – ripeté il Pascià a

denti stretti.Hamed, che teneva già sollevato un

pezzo di pelle, interrogò cogli sguardi lacrudele donna.

– Continua pure – rispose questa.Il carnefice prese il secondo rasoio e

riprese la sua non facile operazione,guardandosi di non intaccare i muscoli.

Per alcuni istanti ancora il disgraziatoPascià, che si sentiva spellare vivo,resistette al dolore atroce, poi un gridogli uscì dalle labbra:

– Basta cane!... Che il Profeta

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maledica te e la tua padrona insieme.– Non ti ha alzato che un pezzo di

pelle appena largo come due mani – rispose Haradja. – Resistono poco ivecchi polli di Damasco. Vuoi che ilmio bravo Hamed continui, o tideciderai a parlare?

Il Pascià era rimasto silenzioso,stringendo i denti. Il sangue scorreva sulsuo dorso e si raccoglieva lentamentesotto il primo cavalletto, gocciolandocon sordo rumore.

Hamed ad un cenno della padrona,aveva lasciato ricadere la pelle.

– Vedi bene, Pascià, che io non sonodonna da spaventarmi – disse Haradja. – Come ho mandato a finire sui pettini il

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tuo capitano d’armi, farò scorticare te.Una bestemmia sfuggì dalle labbra del

torturato.– Ah!... Tu vuoi sapere dove si

trovano mio figlio e sua moglie!... gridò.– Va’ a prenderteli a Candia se l’oserai.Cinquantamila turchi sono caduti intornoai fossati della città che i venezianidifendono, e più d’altrettanti vi finirannodentro, te lo dico io. Se hanno preso laCanea dopo poche settimane, nonprenderanno così facilmente Candia.Sono dieci anni che le nostre minelavorano e che tuo zio bombarda giornoe notte senza che la bandieradell’impero abbia potuto sventolare suquelle rovine. Vuoi andarli a cercare?

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Va’, sei libera, ma guardati dalle mine.Mi hanno detto che si consuma moltapolvere laggiù, e che intere compagniesaltano di quando in quando.

– A Candia!... – esclamò Haradja. – Che cosa sono andati a fare in quellacittà? Io so che la principessa italiana siera lasciata rinchiudere in Famagosta,perché sperava di trovarvi ungentiluomo francese suo fidanzato, ma aCandia!...

– Ti ho detto che la principessa avevadei possedimenti nell’isola.

– E… m’inganneresti, Pascià ocercheresti di farlo per sottrarti ai rasoidel mio bravo Hamed?

– No, perché so che tu, con tutta la tua

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spavalderia e col tuo capitano d’armi ecol famoso ammiraglio, non entrerestimai in Candia.

– Lo giureresti sul Corano?– Sì – rispose il Pascià.– Mi basta la tua parola perché ti

credo buon mussulmano.Ad un suo cenno Hamed accomodò

per bene la pelle che aveva levata conpochi colpi di rasoio, e la coprì con unpezzo di tela leggermente inumidita inacqua salata. Le corde furono subitosciolte ed il Pascià poté alzarsi emettersi a sedere.

– Sei contenta, ora? – chiese adHaradja, che lo guardava sempreimpassibile.

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– Sì – rispose la castellana d’Hussiff.– E andrai a scovare mio figlio e mia

nuora?– Certo.– Entro Candia?– O dinanzi ai suoi bastioni.– Colle galere del tuo famoso zio?– Di ciò non occuparti.– Vorrei saperlo. Assisterò io a quella

scena?– Tu assisterai all’assedio di Candia

nei sotterranei del mio castellod’Hussiff. Ve ne sono di quelli assaifreschi che i vecchi galli invidierebbero.

– Cagna!... – urlò il Pascià.– Urla, ingiuria finché vuoi, la mia

pelle é dura, é pelle cotta sotto il sole

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algerino come quella di mio zio.– E tu credi che qualcuno non

vendicherà l’offesa recata algovernatore di Damasco?

– Chi? Il Sultano? Ibrahim ha benaltro da fare in questo momento. Ètroppo rattristato per aver ucciso la suacrudelissima Sultana.

– Chi, Roxelana? La grande Sultanache faceva tremare tutto il suoSerraglio?

– Nobile veneziana anche quella, eche superava, forse pei suoi lunghicapelli biondi ed i suoi occhi neri, lacrudeltà della Baffa e di tutte le favoritemussulmane.

– Morta, hai detto!...

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– Era tempo che quella cristiana,diventata Sultana, se ne andasse, non sose al paradiso dei suoi o dei nostri.Guardava tutto il giorno il Bosforo, equando calava la sera, si divertiva a farstrozzare le sue rivali turche. Perfino lefiglie del Sultano imbecille, che si faportare attraverso i suoi giardini ed isuoi appartamenti in lettiga, ha fattosgozzare dinanzi ai suoi occhi.Kourremsultana, l’eterna annoiata,aveva bisogno di svaghi.

– Ed é morta!... esclamò, per laseconda volta, il Pascià, il quale parevache dimenticasse i suoi dolori.

– Era diventata troppo terribile labionda veneziana che ogni sera, per

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distrarsi, insanguinava il gran «salonedelle perle».

– Chi ti ha detto che la Sultana émorta?

– È stata uccisa, ti ho detto. Avevaavuto il coraggio, dopo aver tentato diavvelenare il figlio primogenito delSultano con della frutta candite,d’insultare la sorella del suo signore.

– Audaci queste veneziane.– Ma tu non sai ancora come ha finita,

a ventitré anni, quella meravigliosabellezza che incantava tuttaCostantinopoli.

– Narra!... Narra!...– E la tua… pelle?– Non occupartene. Le istorie tragiche

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interessano noi mussulmani.– Ed il Sultano la mandò a chiamare e

le disse, furioso per l’insulto fatto a suasorella: «Tu hai dimenticato, cristiananell’anima, la distanza che passa fra te emia sorella». «Quale distanza? » hachiesto orgogliosamente la crudelegiaurra.

«Quella d’una schiava comperata sulbazar della mia capitale, di fronte ad unafiglia di sangue imperiale. » Laveneziana, sfidando il proprio sposo, inpresenza dei suoi dignitari, osòaggiungere un’altra atroce ingiuria. Fu lasua sentenza di morte. La sua bellezzanon la salvò dalla mazza d’oro del suosposo che si affondò nei suoi biondi

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capelli.– E cadde uccisa?– Il Sultano le aveva spaccato il

cervello.– E poi?– Pascià, – disse Haradja – e la tua

scorticatura?– Quando noi mussulmani udiamo

delle grosse novità, anche moribondi,torniamo alla vita.

– Ma ora basta: non ho più nulla daraccontare. Dobbiamo occuparci dellatua guarigione, ora che hai parlato.

– Sì, dietro le salde mura di Candia,ho parlato. Va’ a cercare i miei figli fra iveneziani che le difendono.

– Non occuparti di questo. Hamed,

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prendi il Pascià, portalo nella suacabina ed incaricati della suaguarigione. La tua presenza a Candia éinutile: dei carnefici laggiù ne troverò adiecine, se dovessi averne bisogno.

Poi volgendosi verso Metiub,continuò:

– Fa’ porre ai ferri tutti i damaschinie fa’ passare sulla gagliotta una trentinadei miei uomini affinché la conducano aHussiff.

– Non verrò con te io, signora? – chiese il capitano d’armi.

– Mi sarai più che mai necessario aCandia. Fa’ eseguire i miei ordini, fa’alzare la bandiera azzurra perché legalere si rimettano al vento, e

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raggiungimi presto.Il sole stava per tramontare in un

oceano di fuoco. Il Mediterraneo parevache fiammeggiasse tutto, lasciandosisferzare dalla brezza, che di quando inquando si abbatteva sulle sue acquecorruscandole.

Haradja fece il giro della galera,forse per non vedere oltre il Pascià, chegià Hamed aveva portato sulla gagliotta,si soffermò qualche minuto sull’altocastello di prora contemplando il soletramontante, e respirando a pienipolmoni la brezza carica di salsedine,poi tornò verso i due alberi. Guardò,senza impallidire, il povero capitanod’armi del Pascià che alcuni marinai

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stavano togliendo dai pettini per gettarloai pescicani, molto numerosi allora nelMediterraneo orientale, in seguito aicontinui combattimenti navali cheavvenivano fra i veneziani ed iCavalieri di Malta da una parte, ed imussulmani dall’altra, e che fornivano aquegl’ingordi pesci prede abbondanti,poi si coricò sulle due colubrine sullequali era ancora stesa la magnificacoperta di damasco del Pascià.

Subito due uomini le portarono ilcaffè su un vassoio d’oro, scolpito arimbalzo, ed un narghilk coll’acquaprofumata di rose e la pipa ben caricadel biondo tabacco di Morea, essendoallora permesso anche alle donne di

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fumare. Pochi lustri prima però, unafavorita di Murad, il quale avevaproibito l’uso del tabacco in tutti i suoistati, sotto pena di morte, per poco nonera stata strozzata dai muti del Serraglio,perché sorpresa a fumare lo scibouk. Laterribile donna sorseggiò lentamente ilcaffè, mentre il capitano d’armipiombava in acqua, con un sinistrotonfo, si fece accendere la pipa e si misea fumare tranquillamente, come se fossecoricata su una soffice ottomana del suomeraviglioso castello. Intanto Metiubaveva fatto eseguire rapidamente i suoiordini. Quando la gagliotta montata datrenta marinai d’Hussiff, si mise allavela verso Cipro, la galera, dopo aver

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innalzata sulla maestra la bandieraazzurra per segnalare alle navi del GranPascià di seguirla, volse la prora versoponente.

– A Candia disse Haradja al suocapitano d’armi, che si era seduto su unacolubrina vicina.

– E speri tu di vendicarti del Leone diDamasco e della duchessa italiana? –chiese Metiub scuotendo un po’ la testa.– Farà caldo entrare in quella cittàcontro la quale i nostri, da anni ed anni,si fanno ammazzare allegramente amigliaia e migliaia.

– Perché entrare fra quelle rovine?Non ne avremo bisogno.

– Speri di attirarli fuori?

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– Certo.– Con quale mezzo?– Hai dimenticato, tu, che ho fatto

rapire il figlio del Leone di Damasco?Quando noi giungeremo a Candia lotroveremo fra le mani del Pascià.

– Comincio a capire.– Vedrai che tutto andrà bene.– Hum!... Hum!... – fece Metiub,

battendo una mano sul pomo del suospadone.

– Fa’ preparare la cena.– E già pronta.– Che si prepari sul ponte. Voglio

godermi questo magnifico tramonto.– Che pare piova sangue – disse

Metiub.

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– Sarà quello che scorre a Candia.Lasciò cadere il bocchino del

narghilek, si stirò le braccia e balzò,leggera come un uccello, giù dalle duecolubrine, avviandosi verso il cassero,dove i due cuochi stavano preparando lacena. E la galera intanto, sospinta da unaleggera brezza di scirocco, s’avanzavaverso Candia, seguita a distanza dallecinquanta navi da guerra della squadradel Gran Pascià.

Inizio

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I RUGGITI DEL LEONE DI SANMARCO

Venezia, che tanti domìni aveva nelLevante, signoreggiando a Negroponte,nella Morea, a Cipro, la splendida isoladonatale da Caterina Cornaro che neaveva portato la corona, come di Candiae in altre isole minori, dopo d’aver fattotremare, specialmente colle sue flotte, lapotenza mussulmana, tenendosi semprein prima linea in difesa della cristianità,cominciava ad esaurirsi dopo tantesanguinose lotte.

I ruggiti del Leone di San Marco nongiungevano ormai che fiochi, e nonfacevano più paura ai conquistatori

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mussulmani che avevano sognato, nellaloro mente barbara, la conquistadell’intera Europa e la distruzionecompleta degli stati cristiani.

Il 1600 fu particolarmente terribilepei prodi veneziani che difendevano,con accanimento feroce, non solo ipossedimenti, bensì anche la Croce,quantunque non aiutati che dai Cavalieridi Malta, sempre in armi sulle lorogalere contro l’odiato mussulmano edaffatto dimenticata dagli altri stati, chetutto avevano da temere dai sultani.

Maometto II, uno di quei giganti dellastoria, che troppo sono conosciutiperche occorra ricordare le loro opere,piantando la Mezzaluna a

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Costantinopoli, fu il primo che preparòla rovina della grandezza veneziana nelLevante. Distrutto l’impero diTrebisonda, tenuto dai Comneni,insignoritisi della Criimea, dellaBosnia, rivolge i suoi sguardi rapaciverso le colonie veneziane es’impadronisce della Morea e diNegroponte, passando a fil di spada leguarnigioni veneziane che ledifendevano.

Reso audace dalle sue conquiste ecredendo Venezia non da tanto damisurarsi con lui, col pretesto chel’acquisto di Costantinopoli gli avevatrasferito la sovranità di tutti ipossedimenti bizantini, reclama

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audacemente il dominio delle Puglie edella Calabria, e le sue flotte, per laprima volta, fanno sventolare, allebrezze dell’Ionio, la bandiera dellaMezzaluna, e nel 1480 espugna Otrantomettendola a sacco fra indicibili orrori.

Un altro Maometto, il quarto,raccoglie l’eredità del terzo che suonaguerra a Venezia ed a tutta la cristianità,e quantunque l’impero non fosse piùpossente come prima, lancia le sue flottenel Mediterraneo e perfino dentrol’Adriatico a tentare la conquista dellaDalmazia, ove i veneziani avevanofiorenti colonie.

Il Leone di San Marco, quantunque asua volta, stremato dalle lunghe guerre,

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lancia il suo poderoso ruggito, e legalere veneziane, comandatedall’ammiraglio Mocenigo, nel 1656non solo ricacciano i nemicidall’Adriatico, ma, fiere della lorofortuna, forzano audacemente iDardanelli, occupano Tenedo,Samotracia e Lemuro, e si mostrano invista di Costantinopoli minacciando ilblocco.

Le armi di Maometto si rivolsero,intanto che le sue flotte si ricostruivano,alle conquiste terrestri.

Assale i principi di Transilvania e sirende padrone di quel regno; aGrosvaradina batte i tedesco-ungheri,poi porta le sue armi vittoriose perfino

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nel cuore della Russia, mentre i suoieterni nemici, i veneziani, a Milo glidistruggono la maggior parte della flotta.Riprende allora la guerra terrestre, allatesta dei suoi invincibili giannizzeri, eintima la guerra all’Austria, ma ungenerale italiano, il conte Montecuccoli,comandante delle forze tedesche, rompepresso il villaggio di San Gottardo, inUngheria, i terribili conquistatori,salvando l’Europa da una invasioneturca.

Maometto, firmata la pace di Vasvar,che gli dava un aumento di territori inUngheria, ripensa ai veneziani.

Le sue flotte sono state rinnovate, ilsuo esercito é vittorioso, e getta

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centomila uomini sull’isola di Cipro etrecento galere agli ordini di Ali Pascià.

I veneziani resistono tenacemente aNicosia, ma soprattutto a Famagosta, suicui bastioni, sempre diroccati dallecolubrine e dalle mine e semprerinnovati, per undici mesi combattonocon un valore che fa stupire tutto ilmondo cristiano, ma che non lo fa peròmuovere. Malgrado i tentativi diSebastiano Veniero, il grande e vecchioammiraglio veneziano, di portare truppe,polveri, armi e viveri alla disgraziatacittà ridotta ormai ad un cimitero,Famagosta si arrende a Mustafà collapromessa di avere salve le vite, onore ele ricchezze.

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Il turco, esacerbato di aver vedutocadere intorno ai bastioni della infelicecittà più di trentamila dei suoi guerrieri,manca vigliaccamente alla parola,sicuro dell’impunità, e se risparmiaparte della popolazione, fa passare afilo di spada gli ultimi veneziani, pois’impadronisce dei loro comandanti.

Fa strozzare Marcantonio Quirini,impiccare all’antenna d’una galera ilsettantenne Lorenzo Tiepolo, tagliare apezzi Astorre Baglione e l’albaneseManoli Spiloto,ma riserba al supremocomandante della piazza, l’eroicoMarcantonio Bragadino, un trattamentoveramente degno della ferocia turca. Glifa tagliare il naso e gli orecchi, lo fa

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assistere al supplizio dei suoi disgraziaticompagni, poi, per undici giorni, cosìconciato, lo fa trascinare per le vie dellacittà per far divertire i giannizzeri,quindi, legatolo ad una perticabilanciata, lo fa rinvigorire facendoglifare dei tuffi in mare, e finalmente, aldodicesimo, quel cane di mussulmano,fa scorticare interamente l’eroicodifensore di Famagosta, chiedendogli,fra le risate delle truppe, come mai ilsuo Cristo non gli venga in aiuto in queldifficile momento. L’eroe, nello spasimoatroce dell’orribile supplizio,bisbigliava sereno il Miserere!...

Incoraggiati dal successo, i turchimettono gli occhi sull’isola di Candia,

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ultima colonia veneziana che mostravaancora, nel Levante, il Leone di SanMarco.

Era sultano allora Ibrahim, uno deipiù prodighi che abbiano occupato iltrono dei califfi, e così insaziabileincettatore di belle schiave per popolareil Serraglio che, narrano con orrore icronisti ottomani, il prezzo di quelle salìalla enorme cifra di duemila piastre atesta. Aveva sposato sette sultane,ciascuna delle quali possedeva i redditidi una provincia, galere, barche eportantine fregiate di gemme di granvalore. La conquista di Candia fucausata da una donna, poiché quelSultano, che si faceva portare in lettiga

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attraverso i giardini e gli appartamentidel Serraglio, non avrebbe mai sognatoforse di misurarsi coi veneziani, chetanto avevano dato da fare a MaomettoII. Aveva ricevuto in regalo unabellissima schiava, acquistata da unfunzionario del suo palazzo, ma giàquasi madre per opera, pare, d’unprincipe georgiano. Nato il fanciullo, laschiava fu incaricata di allattare ilprincipino Mohammed, nato da unafavorita del Sultano, nella medesimaepoca. Non si sa per quale stranezza, ilSultano aveva preso ad amare più ilfiglio della schiava che il proprio,sollevando grandi ire nel Serraglio.Quella ingiusta predilezione, il favore

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che godeva la bellissima nutrice, quasiinnalzata al grado di favorita, e le altecariche assegnate al funzionario chel’aveva regalata, non dovevano tardare aprovocare grossi disordini. Un giorno,mentre Ibrahim passeggiava nei giardinidel Serraglio in compagnia della nutricee del figlio di costei a cui prodigavadelle affettuose carezze, s’incontra collasua favorita, la quale teneva in braccioil principino Mohammed.

Furibonda la favorita si slancia controil Sultano, e gli mette fra le braccia ilfiglio, gridandogli:

– Ecco il solo che ha diritto al vostroamore ed alle vostre carezze.

Ibrahim, in fondo, non era meno

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crudele di tutti gli altri sultani cheavevano regnato prima di lui. Invece diabbracciare il proprio figlio, lo afferrapei piedi, corre ad una cisterna vicina eve lo lascia cadere dentro, e nonsarebbe certamente più uscito vivo di làsenza il pronto accorrere degli eunuchi edelle guardie, che lo trassero in salvo.

Dopo quella scena, la nutrice,comprendendo ormai che la sua vita é inpericolo, malgrado la protezione delSultano, domanda di intraprendere unpellegrinaggio alla Mecca insieme alfunzionario, il quale non si sentiva delpari sicuro di salutare il soledell’indomani. Ibrahim, molto amalincuore poiché si era affezionato

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stranamente al figlio della schiava,accordò loro il permesso, dopopromessa di tornare presto, e diedealcune galere per scortarli.

Nelle acque dell’arcipelago iCavalieri di Malta, i fidi alleati deiveneziani, e sempre in lotta collaMezzaluna, assaltano la flotta,ammazzano il funzionario e la maggiorparte degli equipaggi, e fannoprigioniera la bellissima schiava ed ilsuo bambino. Credendo dapprima diaver catturato il figlio del Sultano,l’erede dell’impero turco, lo trattanocon grandi riguardi, e lo conducono aCandia insieme alla madre, affidandoliai veneziani. Conosciuto l’errore, i

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cavalieri lo reclamano, e lo fannoeducare nella fede cristianadestinandolo allo stato ecclesiastico, equel personaggio passa attraverso lastoria col nome di Padre Ottomano,creduto da tutti, in buona fede, un figliod’Ibrahim. La vittoria dei prodiCavalieri di Malta, e soprattutto laprigionia della schiava, eccitano primalo sdegno, poi il furore del Sultano, ilquale decide di punire i veneziani cheavevano accolto nei loro porti ivincitori. Una formidabile squadra,composta di oltre quattrocento vele emontata da centomila uomini, il 30aprile del 1645, salpa daCostantinopoli, e dopo una difficile

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traversata, getta le ancore dinanzi allaCanea, che era una delle maggiori cittàdell’isola. I veneziani, colti di sorpresa,corrono coraggiosamente alle difese, ecomincia così quella feroce guerra chedoveva durare un quarto di secolo,seminando i campi del paese di Minossedi migliaia e migliaia di veneziani, dicretesi e di turchi soprattutto. Il presidiodi Canea, poco numeroso, dopo pochesettimane cede al grande impeto delleforze ottomane, e tosto la sua cattedralee le sue due chiese sono tramutate inmoschee. Alla fine di luglio, Veneziamanda i primi soccorsi, ma giungonotroppo tardi. La piazza era già caduta, eda Costantinopoli si celebrava, con

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grandi feste, quella prima conquista. Perun anno Jussuf Pascià, conduttore delleforze mussulmane, armeggia nell’internodell’isola con varia fortuna, poi,disperando di espugnare Candia, già benfortificata dai veneziani, torna aCostantinopoli per ottenere nuove galeree nuove truppe. Il Sultano, indignato,vuole costringerlo a ripartire,tacciandolo di pusillanime, e siccomel’ammiraglio si rifiutava ostinatamente,immemore dei preziosi servizi avuti, lofa strozzare. Nel frattempo una squadraveneziana occupa Patrasso, facendoprigionieri cinquemila turchi econdannandoli alle galere del remo, pervendicare i cinquecento compatrioti,

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fatti segare vivi da Maometto II.Ibrahim, sempre più furente, ordina il

massacro generale di tutti i cristianistabiliti nel suo impero, sentenza che, seavesse avuto corso, nella solaCostantinopoli sarebbe costata la vita aduecentomila persone fra greci edameni. L’energia dei suoi ministri, iquali temevano la guerra contro tutta lacristianità, evita quell’orribile macello,ma la guerra intanto si riaccende, piùferoce che mai, a Candia.

Alì Pascià, il famoso ammiraglio,sostituito al disgraziato Jussuf, nel 1646fa prendere d’assalto Retimo ed altrepiazzeforti cretesi, e poi si arrestadinanzi a Candia, capitale dell’isola,

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che trentamila veneziani e diecimilacretesi difendono strenuamente, decisi afarsi seppellire sotto le rovine dellacittà, piuttosto che arrendersi, memoridelle orribili stragi di Famagosta.

Venezia, stremata, soprattuttofinanziariamente, pur di accorrere inaiuto della sua ultima colonia ed armarenuove galere, sacrifica la sua famosacatena d’oro zecchino, che venivaconservata nel tesoro di San Marco, eche formava l’orgoglio del popolo el’invidia degli altri stati. Era tanto lungae tanto pesante che occorrevanoquaranta robusti facchini per portarla.Serviva, quella catena, alla RepubblicaVeneta a due scopi: come tesoro di

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guerra e da previdente risparmio peicasi improvvisi di pubblico bisogno, edin pari tempo per fare pompa diricchezza nelle grandi solennità. Inquelle occasioni la preziosa catenaveniva appesa a festoni lungo ilporticato del Palazzo Ducale del qualeadornava due interi lati, uno verso lariva degli Schiavoni e l’altro verso lapiazzetta. Candia la fuse e la divorò tuttacon grande rammarico del popoloveneziano.

E la guerra continuò sempre piùaccanita, intorno alla disgraziata città. Iturchi, terminate le opere preparatorie,aprono, nei primi del 1648, le primetrincee, mentre le loro navi si misurano,

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con varia fortuna, su tutte le costedell’isola, per trattenere le flotteveneziane condotte dal settantaduenneSebastiano Veniero, e respingere icontinui attacchi dei Cavalieri di Malta.Una spedizione di giannizzeri costringeil comandante turco a sospenderel’assedio, il quale però viene ripresocon maggior accanimento alcuni mesidopo, e rinvigorito colla costruzione didue nuovi forti. Nel frattempo,l’indolente ed effeminato SultanoIbrahim cade assassinato, vittima d’unadelle solite congiure di palazzo, e glisuccede Maometto IV ancora fanciullo.

Si credette per un momento che laguerra dovesse cessare, ma la madre del

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nuovo Sultano, apprendendo che in unabattaglia navale ottocento mussulmanierano stati uccisi dai veneziani, i qualiperò ne avevano perduti ben tremila deiloro, invia ad Alì nuove navi e nuovetruppe. Le sorti della guerra ridiventanofavorevoli ai turchi sul mare, non così interra, dove perdono inutilmente migliaiae migliaia di guerrieri per conquistarepochi villaggi nell’interno dell’isola.Candia, quantunque stretta in un cerchiodi ferro, che non permetteva ormai piùalle galere veneziane di riprovvederlad’armi, di munizioni e di viveri,resisteva sempre con indomito coraggio.La popolazione era morta quasi tutta difame, e dei trentamila difensori non ne

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rimanevano che poche migliaia, affrantidal lungo battagliare, indeboliti dallemalattie e dal cibo insufficiente. Nel1666 i turchi, che avevano già perduto,intorno ai bastioni della valorosa città,circa centomila uomini, decidono di fareun ultimo tentativo. Un Gran Vizir vienemandato da Costantinopoli affinchéprenda personalmente il comando delleforze assedianti. Nel maggio, poichél’inverno era stato pessimo, imussulmani danno l’attacco ai fortiinterni della piazza a furia di mine. In tremesi ventimila quintali di polverevenivano consumati dagli assedianti. Lemine erano così poderose, che saltavanodelle intere compagnie di assediati. Nel

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1669 Candia, ridotta ormai ad un vastocimitero, con soli quattromila guerrieriincapaci di difendere i bastioni sventratidalle mine, agonizzava, ma la cristianitàpreparava al turco feroce una terribilelezione che doveva ricevere in altreacque.

Due giorni dopo, la galera di Haradja,sempre scortata dalla grossa squadra,giungeva verso il tramonto dinanzi aCandia, il cui porto era ingombro dinavi mussulmane. Era allora il primoanno che la città sosteneva l’assedio, eribatteva con vigore terribile gli assaltidegli ottomani, spegnendone a migliaiadentro i fossati dei bastioni. Nelmomento in cui la galera di Haradja

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giungeva in porto colla scorta, tuttaCandia era coperta da una immensanuvola di fumo che la rendevainvisibile.

Sfolgoravano le colubrine turche equelle dei veneziani,’ con un rimbombospaventevole, e tuonavano le mine peraprire, dopo dodici mesi, da parte degliassedianti, le prime trincee che avevanogià inzuppato col sangue di ventimilauomini.

Metiub, praticissimo del porto,condusse la galera attraverso le

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numerose navi da guerra cheappoggiavano, con frequenti cannonate,gli sforzi dei giannizzeri, ed abbordò lagrossa galera di Alì Bascià, dicendoalla sua signora non senza una puntad’ironia: – Sei in casa tua!...

Il Gran Pascià, già avvertitodell’arrivo della castellana d’Hussiff,aveva dato ordine ai suoi cuochi diritardare di qualche ora la cena, e si eramosso sollecitamente incontro allaterribile nipote, che già saliva,accompagnata dal fedele capitanod’armi, la scala di corda, più lesta di ungabbiere. Il famoso ammiraglio, chedoveva perdere la sua testa nellagrandiosa battaglia di Lepanto, aveva

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allora cinquant’anni. Di origine algerina,aveva la pelle assai bruna, la barbamolto rada, la statura piuttosto piccolaquantunque ben robusta. Aveva dato aiveneziani terribili battaglie nelle acquedi Cipro, dell’Arcipelago, dell’Ionio edintorno a Candia, ricevendo sconfitte maanche dandone. I pescicani delMediterraneo orientale non avevanoavuto da lagnarsi, poiché di ventimilauomini fra turchi, veneziani e Cavalieridi Malta erano affondati colle lorogalere.

Vedendo Haradja comparire sopra lamurata, le offrì galantemente la mano,dicendole: – Il figlio del Leone é in miamano.

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– Non l’hai scorticato? – chiese lacastellana d’Hussiff, ridendo.

– Chi ha potuto supporre questo?– Il mio capitano d’armi.– Al tuo posto l’avrei già gettato ai

pescicani.– È troppo prezioso, Pascià rispose

Haradja, dopo essersi assicurata cheMetiub si era unito all’equipaggio e chenon poteva udirla. – Dov’é il ragazzo?

– In una mia cabina. Ed il Pascià diDamasco?

– Nei sotterranei d’Hussiff.– Sei terribile, nipote.– Degna d’un Alì Pascià.Un sorriso di soddisfazione comparve

sulle labbra del grande ammiraglio

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ottomano.– Si parla infatti molto di te.– Il fanciullo?– Vuoi vederlo?– Subito – disse Haradja, quasi con

prepotenza. Quando te l’hannoconsegnato gli uomini che ho mandato aVenezia a rapirlo?

– Due giorni fa.– Come hanno fatto a rapirlo?– Sono entrati in Venezia fingendosi

epiroti.– E nessuno li ha disturbati?– Nessuno, poiché hanno potuto

portarlo via dal palazzo che tu aveviloro indicato.

– Senza uccidere nessuno?

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– Oh!... La nutrice del bambino, omeglio la sua sorvegliante, poiché nonha più bisogno di latte il piccino.

– Fammelo vedere.– Che furia!...– Non ho sangue freddo io come

l’hanno gli ammiragli.– Puoi avere ragione – rispose il

Pascià. – Vieni, Haradja.Attraversarono la parte poppiera

della grossa galera, passando accanto aMetiub il quale già cenava con unabureke, una specie di pane sfogliatointinto nel grasso, e pieno di quelformaggio acido e puzzolente pel quale iturchi vanno ghiotti, e scesero nelquadro, ampio, ricchissimo e già

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illuminato.– È qui – disse il Pascià, aprendo la

porta d’una cabina.– Deve dormire: non svegliarlo.Entrarono in una minuscola stanzetta

illuminata da una lampada ad olio concampana di vetro opaco per attenuare laluce, e su di un lettuccio, coperto di unaleggera trapunta di seta gialla, Haradjapoté scorgere il figlio dei suoi odiatinemici.

Con una mossa rapida si eraavvicinata, anzi, così impetuosa, che perun momento il Pascià temette qualchescatto troppo violento da parte della suacrudele nipote.

– Guardati – le disse. – Veglio io su

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questo piccolo prigioniero.Haradja alzò la trapunta e apparve un

fanciullo di circa tre anni, roseo epaffuto, con dei lunghi riccioli bruni,anzi opachi, coperto d’una camicia diseta bianca adorna di pizzi di Murano.

– Bello e bene sviluppato, é vero? – disse il Pascià. È figlio di un eroemussulmano e di una terribile donnacristiana. Peccato che il Leone nonabbia sposato te.

– Taci, zio – disse Haradja, la qualefissava il fanciullo con due occhi pregnid’odio.

– Non potrai dire che non sia bello. Ilsangue mussulmano fuso col cristiano dàsovente dei buoni frutti. Noi e loro,

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d’altronde, siamo razze guerriere. Haifinito di guardarlo, nipote?

Haradja si era alzata di colpolasciando ricadere bruscamente lacoperta, come se avesse cercato, conquell’atto, di svegliare il fanciullo,incrociò le braccia, e fissando il Pasciàgli disse: Si direbbe che tu non odiiquesto piccolo prigioniero, come tu lohai chiamato.

– Niente affatto – rispose il grandeammiraglio. – Forse che nelle sue venenon scorre sangue ottomano?

– Misto al cristiano!...– Sia pure, ma anche quello datogli da

sua madre valeva meglio di tutto quelloche scorre fra le cinquecento donne del

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Serraglio, solamente intente adassassinarsi fra di loro, a meditarecongiure di palazzo ed uccidere sultani.

– Capitan Tempesta, o meglio laguerriera cristiana, ti avrebbe per casocolpito? – chiese Haradja, ironicamente.

– L’ho ammirata quando, pur essendodonna, si batteva gagliardamente evinceva il suo futuro marito, che godevala fama di essere la prima scimitarradell’esercito mussulmano assedianteFamagosta – rispose il grandeammiraglio.

– Andiamo a cenare. Discorreremomeglio.

Inizio

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IL GRANDE AMMIRAGLIOOTTOMANO

Sull’alto e larghissimo cassero dellagalera ammiraglia, sotto una tenda diseta rossa che reggeva numeroselampadine veneziane di vetro a svariaticolori, era stata preparata la tavola perla cena di Alì Pascià. Quantunque usasseinvitare sempre i suoi ufficiali, quellasera non vi erano che due coperti,perché Haradja potesse mangiare eparlare liberamente. Il Pascià eraamante della buona tavola, e quantunquei viveri non largheggiassero nemmenofra gli assedianti, che si mantenevanosempre sui centomila uomini,

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continuando a giungere daCostantinopoli rinforzi, il cuoco dibordo aveva saputo ancora faremiracoli, per festeggiare forse l’arrivodella nipote del suo potentissimopadrone.

Vi erano infatti delle scodelle dipilaf, il classico riso turco, o megliopersiano, delle teste di montone arrostitecon contorno di fagiolini conditicoll’aglio; piatti bianchi pieni di yaourt,ossia di latte quagliato, e terrine colmedi missir, ossia di pannocchie digranturco ben bollite che si mangianocol sale; vassoi di simit, che sono sottiliciambelle dolci e di datteri, di fichisecchi, di castagne bianche arrostite, e

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di uva secca di Cipro e della Morea.Non mancavano nemmeno dei

barattoli di vetro pieni di confettiorribilmente gialli e violetti, e coppepiene di loncum tinto in verde, in rossoed azzurro, splendida crema attasolamente ad incollare terribilmente lebudella, ma che pure i mussulmaniapprezzano, specialmente seaccompagnata colle bureke, quelleatroci sfogliate a base di grasso e pienedentro d’un formaggio nauseabondo. Ivini non figuravano, quantunque nessunoignorasse che il Pascià, pur essendomussulmano convinto, beveva Cipro piùdei sultani; vi erano invece delle altecaraffe di cristallo di Venezia, piene di

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acque dolci profumate all’arancio od aicedri del Libano.

Quattro giannizzeri fidatissimi,vegliavano all’estremità delle due scale,appoggiati al loro archibugi le cui miccefumavano. Il grande ammiragliocondusse Haradja sul cassero illuminatopiuttosto sfarzosamente, mentre versoCandia le colubrine turche e venezianetuonavano con furore, rompendol’oscurità con lunghi lampi. Si misero atavola e mangiarono in silenzio. Lacastellana appena assaggiò, ma il Pasciàfece grande onore al suo cuoco,tracannandovi dietro, per intanto, delleintere caraffe di acque dolci.Quand’ebbe finito, invece d’un

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narghilek accese uno scibouk disemplice terracotta; poi, mentre leartiglierie tuonavano più terribilmenteche mai, lanciando in aria dellenuvolastre rossicce, si rovesciò sullasedia, e guardando fissa la nipote lechiese:

– Ed ora? Che cosa ne farai delPascià di Damasco che finalmente écaduto, mercé mia, nelle tue mani, e delfanciullo?

– Volevo chiederlo a te.– A me!... esclamò il grande

ammiraglio, con stupore. Se tu michiedessi come si fa ad avviluppare unasquadra, anche grossissima, superiorealle mie forze, e come si fa ad

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arrembarla, te lo direi subito. Difanciulli e di vecchi pascià, e soprattuttodei tuoi progetti, non me ne intendo enon ne so nulla.

– Come faresti tu, zio, a entrare inCandia per trovarti, fronte a fronte, alLeone di Damasco ed a sua moglie?

– Entrare in quella città che sembradifesa da bastioni di ferro e da uominipure di ferro? Chi oserebbe tentare unasimile impresa, mia cara nipote?

– Perché vi é quella dannata CapitanTempesta, la duchessa cristiana.

Il Pascià aspirò tre o quattro volte ilfumo del suo scibouk, poi disse:

– Ti ricordi come il Leone diDamasco conquistò l’amore della

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cristiana italiana?– Sì, sfidandola sotto le mura di

Famagosta. Non sapeva però che era unadonna.

– Non importa. Tu ora che sai chequella terribile donna si trova rinchiusain Candia, manda un araldo a gridare,sotto le mura, che una donna turca sivorrebbe misurare con una cristiana. Ioso che tu sei forte nelle armi.

– Assai, zio. Accetterà la sfida? E poivorrei che non uscisse sola.

– Col Leone di Damasco, anche?– Sì.– E chi gli getteresti fra le gambe?– Il mio capitano d’armi.– È realmente forte? Io ho udito

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vantare l’abilità di quell’uomo, cheadopera così la scimitarra come le armicristiane.

– Fortissimo – rispose Haradja.– Mi hanno però detto che un giorno,

anni sono, si é preso una stoccata, in tuapresenza, nel tuo castello, da quellaterribile Capitan Tempesta. .

– È vero.– Se il maestro si prende delle

stoccate, quante se ne prenderà l’allievaallora? – disse il Pascià.

– Nessuna, io credo, perche l’allievaha superato il maestro, e lo toccasovente e senza troppa fatica.

– Hum!... Vanterie forse?– No, Alì.

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Allora diremo che se la cristianità hauna donna così formidabilmentespadaccina, da non temere nessunguerriero nemico, anche i mussulmanihanno la loro nella nipote del Pascià.

Si guardò intorno, poi trasse da uncesto nascosto sotto la tavola unabottiglia di Cipro, la decapitò con uncolpo del magnifico yatagan, cheportava alla cintura, dono di MaomettoII e si empì un grosso bicchiere dicendo:

– Se il Profeta l’avesse assaggiatonon avrebbe proibito ai suoi credentil’uso del vino. Questo vale meglio ditutte le acque zuccherate, ed infonde ungran brio, specialmente se preso primad’una battaglia. Ne vuoi?

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– Sono donna – rispose Haradja.– Hai ragione, ma se ne bevessi un

solo bicchiere prima d’impegnarti collacristiana, sarei certo che la uccideresti.

– Sono donna e credente – ripeté lacastellana d’Hussiff.

– Come vuoi – rispose il Pascià. – Bevo io alla gloria della nostrabandiera.

Vuotò il bicchiere, riaccese loscibouk, poi riprese:

– Tu dunque vuoi provocare lacristiana?

– Provocarla!... esclamò Haradja. – Ucciderla voglio!...

Il Pascià si era messo a ridere, forsemesso in buon umore da quel vino di

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Cipro che aveva deciso Maometto II aconquistarne i vigneti sopprimendo i trequarti dei vignaioli.

– Tu, nipote, vuoi uccidere un segreto,é vero?

– Quale? – chiese la castellana,arrossendo.

– Si dice che tu ti fossi innamorata diCapitan Tempesta, credendoloveramente un giovane e valorosoguerriero.

– E se così fosse? – chiese Haradja.Si era presentato da me vestito dacapitano albanese.

– Doveva essere bella la duchessacristiana.

Haradja non rispose.

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– La vuoi proprio uccidere? – chieseil Pascià.

– Sì.– E se invece quella donna

indiavolata uccidesse te? Mirincrescerebbe che l’unica nipote delgrande ammiraglio mussulmano, cadessesotto i colpi d’una cristiana.

– Mi sento tanto forte da abbatterla – disse Haradja, con suprema energia. – Io odio troppo quella donna.

– Dopo quattro anni!...– Dovevo ben attendere che una

fortunata occasione la ricacciasse suqueste isole. Avrei dovuto io andarla acercare in Italia?

– Eh, no – disse il Pascià. Mi stupisco

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però, come quella donna, dopo di esseresfuggita miracolosamente all’assedio diFamagosta, sia tornata nelle nostreacque e si sia lasciata nuovamenterinchiudere in una città stretta dai nostriguerrieri. È la morte che viene acercare, insieme al Leone di Damasco?

– Il Pascià mi ha detto che avevanoqui dei possedimenti, dei quali forsevolevano sbarazzarsi prima che laguerra scoppiasse. Può darsi che nonabbiano avuto il tempo di ritornare aVenezia, e che siano stati costretti arifugiarsi in Candia.

– È probabile – disse il Pasciàempiendosi ancora il bicchiere etracannando rapidamente perché nessuno

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lo vedesse. – È il Profeta che te l’harimandata fra i piedi?

– Lo credo anch’io – rispose Haradja– ed ora approfitto della buonaoccasione.

– Un po’ tardiva.– Credi tu, zio, che non abbia mandato

sicari a Venezia ed a Napoli perspegnere la cristiana che ha preso il mioposto, e far piangere il Leone diDamasco?

– E che cosa hanno fatto queipoltroni?

– Alcuni sono stati ammazzati, altrihanno avuto paura, e sono scappati nonso se in Tripolitania od in Algeria.

– Mandavi della brava gente, tu –

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disse il Pascià, ironicamente.– Capitan Tempesta ed il Leone di

Damasco toglievano le forze a queimanigoldi che pure avevo ben pagati.

– Lo credo: nel castello d’Hussiffl’oro non deve mancare.

– Mercé tua, zio.L’ammiraglio alzò le spalle, poi, fra

una fumata e l’altra, disse: – Se ne vuoidell’altro parla; io non ho che una eredesola: tu.

– Non me ne occorre – risposeHaradja.

– E così, domani, tu vorresti lanciarela sfida?

– Sì, zio.– Bada che non sia una pazzia.

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– No, mi sento tanto forte da ucciderela cristiana fino dal primo attacco.

Per la seconda volta l’ammiraglioscosse la testa, tuttavia disse: Giacchélo vuoi, farò domani sospendere ilbombardamento, e manderò un araldosotto le mura di Candia a portare lasfida contro la più valorosa donnacristiana ed il più valoroso guerriero,veneziano o turco rinnegato. CosìCapitan Tempesta ed il Leone capirannoqualche cosa.

– E si guarderanno di uscire daCandia – disse Haradja. – Il vino diCipro, qualche volta, é cattivoconsigliere.

– Per Allah!... Lo credo anch’io!...

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disse il Pascià, ridendo.– E Jussuf Pascià che dirige

l’assedio, acconsentirà a far tacere lecolubrine?1

– Il Pascià farà quello che vorrò iorispose l’ammiraglio, aggrottando lepalpebre. Chi credi tu che dirigal’assedio? Io o lui? Che dirocchino più ibastioni di Candia i mie pezzi da mare ole sue colubrine? Eh!...

Bevette frettolosamente il terzobicchiere, spense lo scibouk poi disse: – Nipote, la tua cabina é pronta e puoiandare a dormire.

– E tu?– Un ammiraglio non ha sempre le sue

ore disponibili. Ha la flotta da guardare,

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che vale meglio dei centomila fantacciniche il Sultano ha mandati qui.

– Va’, nipote.Le offd galantemente il braccio e la

condusse fino dinanzi alla scala delquadro mentre le artiglierie turche eveneziane non cessavano dal rombare,illuminando sinistramente la notte, conlunghissimi getti di fuoco.

– Va’ – disse. – Segui questo eunucoche é addetto al tuo servizio.

Haradja scese in fretta la scala e tentòdi fermarsi dinanzi alla cabina occupatadal figlio del Leone di Damasco, madovette proseguire. Due negrigiganteschi, armati di scimitarre snudate,vegliavano ritti dinanzi alla porta,

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coll’ordine di non lasciar entrarenessuno. La castellana masticò qualchecosa fra i suoi dentini bianchi, escomparve nella cabina assegnatale eche doveva essere sicuramente lamigliore che si trovava sulla grossagalera. Alì, il grande ammiraglio, erarimasto sulla tolda, guardando illampeggiare delle artiglierie escrollando la testa, come se fosse dicattivo umore.

– Uccidere Capitan Tempesta – disse,dopo quattro o cinque bestemmie. – Mianipote deve essere stanca degli agi delcastello d’Hussiff. Lo vuole?... E…Sia!... Dopo tutto, che una donnamussulmana vada a sfidare le donne

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cristiane, mi va. Che trionfo per noi sequella indiavolata nipote riuscisse!... Mihanno detto che é fortissima nelle armi eche …

Proprio in quel momento si imbatte inMetiub, il quale passeggiava sul largoponte, fumando delle sigarette.

– Tu sei il capitano d’armi delcastello d’Hussiff? – gli disse.

– Sì, Pascià – rispose Metiub.L’ammiraglio lo guardò attentamente

alla luce d’uno di quei grandi fanali cheusavano portare le galere, e che soventeerano dei veri e propri capolavori, e poiborbottò: Bell’uomo, saldo in gambe,ancora elastico, braccia robuste, pettoda piccolo bufalo. Potrà misurarsi col

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Leone di Damasco? Hum!... Hum!...Haradja diventa pazza.

Girò intorno al capitano d’armi, ilquale si era irrigidito dinanzi al grandeammiraglio, poi gli chiese: – Sei tu chehai addestrata nelle armi mia nipote, évero?

– Si, Pascià.– Si dice che sia forte.– Fortissima.– Tanto da misurarsi con Capitan

Tempesta, la cristiana che tu benconosci, perché si dice che ti abbiatoccato?

Metiub diventò pallido come un mortoa quel ricordo, molto umiliante per lui,poi disse: Io lo spero, perché le ho

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insegnato la botta segreta che mi avevatirata la cristiana, e che nessun turcoavrebbe potuto certamente parare. Queicristiani, nella scherma, sono più forti dinoi. Hanno dei giuochi che non sipossono subito comprendere.

La fronte del Pascià si era oscurata.– Ciò che tu mi hai detto é grave –

disse poi. – Non vorrei che a mia nipotetoccasse qualche terribile disgrazia.

– Tua nipote, Pascià, ha sanguefreddo, buona vista e buoni muscoli – rispose il capitano d’armi.

– E tu saresti capace di misurarti, se tisi offrisse l’occasione, col Leone diDamasco? Bada che durante l’assedio diFamagosta era la più terribile scimitarra

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dell’esercito mussulmano che assediavaquella rocca.

– Lo so, Pascià, ma mi sento anch’iodi sfidarlo colle armi dei cristianiinvece che colle nostre.

– Se tu riuscirai a salvare mia nipoteconta su cinquecento zecchini.

– Una fortuna.– Mia nipote non ha prezzo.– Ed a quando la sfida?– Chi lo sa? Accetteranno o

rifiuteranno? Ma abbiamo il fanciulloper costringerli ad uscire da Candia, epoi ci saremo anche tutti noi a salvare lasituazione al momento opportuno, se lecose andassero male.

– Non ti fidi delle nostre armi,

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Pascià?– Non lo so – rispose l’ammiraglio. –

Avrete di fronte due lame ormai troppofamose, e che darebbero da pensareanche a tutti i miei ufficiali presiinsieme. Va’ a dormire: si vedrà.

Passò a prora, fece calare unascialuppa montata da sei marinai, escomparve fra le galere cheingombravano il porto.

Dove andava? Certamente dal Pasciàcomandante le truppe di terra per farsospendere, all’indomani, ilbombardamento, affinché l’araldopotesse avvicinarsi alla città assediata eportare la sfida.

Tutta la notte le colubrine turche e

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veneziane si controbatteronoaccanitamente, scagliandosi palle dipietra e palle di ferro, ma quandosorsero i primi albori, tutto quelfracasso cessò. Un soldato turco,montato su uno splendido cavallo arabo,aveva lasciato il campo mussulmano,impugnando una lancia sormontata dauna bandiera bianca. Siccome avvenivadi sovente di chiedere delle tregue perseppellire cadaveri, numerosissimisempre, il bombardamento era subitocessato da ambo le parti. Attraversò acorsa sfrenata l’immenso campo degliassedianti, che si stendeva per più didue miglia lungo la spiaggia, e, giuntonella zona battuta dal fuoco delle

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artiglierie, fece sventolare per tre voltela bandiera, attendendo la risposta degliassediati, prima di avanzarsi.

Un’altra bandiera bianca non tardò asventolare all’estremità d’uno deibastioni più avanzati di Candia. Era ilsegnale che poteva avanzarsiliberamente senza esporsi ad alcunpericolo. Il turco riprese la corsa, egiunto sotto le prime trincee gremite giàdi veneziani e di cretesi, ansiosicertamente di sapere che cosadesiderava il Pascià ottomano, si mise agridare, con voce stentorea: Se vi é fravoi una donna veneziana che sappiamaneggiare le armi come un guerriero,ditele che vi é una donna mussulmana,

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d’alto lignaggio, che desidererebbeprovarsi con lei. Se vi é fra voi un uomoche non abbia paura della scimitarra,ditegli che vi é un capitano turco chevorrebbe sfidarlo. Attendo la risposta.

Sulle trincee, sui bastioni e sulle torrisi videro gli assediati agitarsivivamente, ma invano l’araldo aspettò.

Eppure accadeva sovente, anche perrompere la monotonia dell’assedio, checapitani turchi e capitani cristiani sisfidassero a vicenda e cadesserovalorosamente sotto gli occhi dei dueeserciti. È vero che la proposta divedere due donne a combattersi, dovevaessere sembrata alquanto strana agliassediati, pur sapendo di aver con loro

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la duchessa d’Eboli, il famoso CapitanTempesta, che tanto aveva fatto parlaredi sé durante il terribile assedio diFamagosta.

Per tre volte il turco rinnovò la sfida,poi, sempre protetto dalla bandierabianca, ritornò verso il campo. Cinqueminuti dopo le artiglierie riprendevanola loro musica infernale, accompagnate,di quando in quando, da forti scariched’archibugi. Il Pascià era rimasto sullasua galera insieme alla nipote, giàcoperta d’una leggera armaturad’acciaio che le lasciava interamenteliberi i movimenti, tanto era stata benlavorata, e col capitano d’armi. Udendole colubrine a tuonare, capì subito, senza

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attendere l’araldo, che la sfida non erastata accettata.

– Non hai fortuna – disse ad Haradja,che fremeva tutta, e mandava fiammedagli occhi. – La cristiana non haaccettato.

– Che sia diventata vile, o che il suobraccio sia ormai troppo pesante? – sichiese la castellana, coi denti stretti.

– La faremo uscire.– Ah sì!... Quando vedrà il figlio non

rimarrà certamente entro Candia.– E nemmeno il Leone.– Ed il colpo sarà fatto.– Aspettiamo, nipote. Non aver fretta

e lasciati guidare da me, che in similifaccende, ho maggior esperienza di te.

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– Ma non vedi che io brucio, zio?– La tua armatura non e ancora

diventata rossa – disse il Pascià,sorridendo.

– Che non si decida?– Si deciderà quando vedrà il

piccino.– E, se per caso, io e Metiub,

venissimo disarcionati e feriti, dovremolasciarcelo portare via?

– Chi? Il piccolo? Mai più.Haradja lo interrogò cogli occhi.Lo affiderò ad un cavaliere arabo, che

monterà pure un cavallo arabo, ilmigliore che si troverà nel nostrocampo. Se tu perdi fuggirà a corsasfrenata, e tu sai come vanno quei figli

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del deserto quando montano i lorodestrieri. E poi… e poi ci saràdell’altro. Non ti lascerò certamentefinire né dalla cristiana, né da suomarito.

– Spiegati.– Farò scavare, questa notte, una

fossa abbastanza ampia per nasconderedieci cavalieri i quali, al momentoopportuno, copriranno la tua ritirata equella del tuo capitano d’armi.

– Tu prepari un tradimento.– Tutto e buono in tempo di guerra –

rispose il Pascià. Vengano i veneziani aprotestare nel nostro accampamento, sene avranno il coraggio. Io però, prima,vi lascerò battere finché o gli uni o gli

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altri non siano a terra.– Sicché domani?...– Io spero che tu potrai finalmente

incrociare la spada colla tua nemicarispose il Pascià. – Ora lasciamioccupare di quest’assedio, che misembra non debba finire così prestocome il Sultano sperava.

– Posso andare a vedere il piccino? – chiese Haradja.

– Domandalo ai due negri chevegliano dinanzi alla cabina. Cirivedremo a pranzo.

La castellana d’Hussiff attese che ilPascià si fosse imbarcato su unascialuppa, per recarsi a terra, poi siprecipitò giù dalla scala del cassero

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seguita dal suo capitano di armi. Dinanzialla cabina occupata dal figlio del Leonedi Damasco, vegliavano altri due negri,non meno giganteschi degli altri, armatidi archibugi colle micce accese.

– Fatemi largo – disse Haradja. – Iosono la nipote del Pascià.

– Non possiamo, signora disse unodei due negri, alzando rapidamentel’archibugio, con un gesto minaccioso.

– Ti ho detto, canaglia, che sono lanipote del grande ammiraglio!... gridòHaradja.

– Fossi tu anche la prima Sultana, – rispose il negro – non ti lascereipassare.

– E se l’uomo che mi segue fosse il

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Sultano e volesse vedere il fanciullo chesi trova rinchiuso in quella cabina?

– Non entrerebbe vivo.– Chi dunque può solamente entrare?– Il Pascià – rispose il negro.– E nessun altro?– Nemmeno il Sultano, nemmeno

Maometto, se fosse ancora vivo,nemmeno Allah.

Haradja mandò un urlo di furore e sivolse verso il suo capitano d’armidicendogli: – Spazziamo questacanaglia!...

Stava per estrarre la sua cortascimitarra e precipitarsi sui duegiganteschi negri, quando Metiub disse:Non comprometterti con tuo zio, signora.

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Ne hai troppo bisogno per compiere latua vendetta.

– È vero – disse la castellana, convoce sibilante. – Il Pascià poteva peròfare a meno di mettere qui questi duecretini che non capiranno mai niente.

– Fuorché gli ordini del padrone,signora.

– Nel mio castello non troverei dellepersone così devote.

– Ed io?– Tu sei il solo.Ringuainò la scimitarra e si allontanò

bestemmiando Maometto ed Allah,mentre i due negri cambiavano le miccedegli archibugi, che stavano perconsumarsi.

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Inizio

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CAPITAN TEMPESTACinque anni prima, quando già

Maometto II aveva deciso la conquistadi Cipro, che Caterina Cornaro, reginadi quell’isola, aveva lasciata aiveneziani, un giovane guerriero, chepareva quasi un fanciullo, seguito da unarabo d’aspetto feroce, giungeva inFamagosta.

Ventiquattro ore dopo 150.000 turchi,guidati da un famoso generale, il VizirMustafà, stringevano la città da tutte leparti, decisi ad espugnarla ed a farstrage della popolazione cristiana cheammontava già a più di quindicimilapersone. Pochi giorni prima Nicosia, la

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seconda città dell’isola, pure strettad’assedio, era stata presa d’assalto, e leorde ottomane avevano passato a fil dispada quasi l’intera popolazione, nonfacendo grazia che alle donne belle egiovani, destinate a popolare gli haremdi Costantinopoli e di Adrianopoli.Nemmeno i fanciulli erano statirisparmiati dalla rabbia folle degliadoratori di Maometto.

Chi era quel giovane guerriero cheuna galera italiana aveva appena avuto iltempo di sbarcare e di fuggire subitodopo all’avanzarsi delletrecentocinquanta vele mussulmane?

Un valoroso in cerca di gloria, prontoa morire fra i veneziani difensori della

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Croce contro l’odiata Mezzaluna, od unoscopo segreto lo aveva guidato laggiù,dove spaventose scene stavano persuccedere con orrendi massacri?

Era una splendida giovane che tuttaNapoli aveva ammirata per la suabellezza soprattutto, e poi per la suastraordinaria abilità nelle armi. Figliad’un duca, un d’Eboli, famosospadaccino, assassinato una notte daisuoi rivali che lo avevano assalito in viaToledo, in dieci, si era fidanzata ad ungentiluomo francese, il signor LeHussiére, valoroso capitano, che laRepubblica Veneta aveva assoldato emandato in Oriente. Disgraziatamente lagalera che lo conduceva era stata

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assalita, fra Cipro e Candia, da alcunivelieri di Alì Pascià, ed il disgraziato,dopo un terribile combattimento, vistosiquasi solo, aveva dovuto arrendersi. Lasperanza di poter ricavare un giorno unagrossa somma per riscattarlo, avevatrattenuto i vincitori dall’ucciderlo,anche perché era francese, e la Turchiaviveva allora in ottimi rapporti collaFrancia. Dove era stato condotto?Nessuno ne aveva saputo più nulla, macertamente doveva trovarsi in Cipro, giàin parte conquistata dalle possenti armidella Mezzaluna. La giovane duchessa,informata del disgraziato caso dallaSerenissima Repubblica alcuni mesidopo, aveva preso subito il suo partito.

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Salpare per l’Oriente, quantunque laguerra rumoreggiasse e si annunciassepiuttosto triste pei veneziani, andarlo atrovare e riscattarlo, a qualunque prezzo,avendole lasciato suo padre una fortunainvidiabile. Imbarcatasi su una galeramaltese, le sole ormai che osasseroavventurarsi in quei pericolosi mari,battuti giorno e notte dalle navi delPascià, sempre alla caccia del cristiano,era sbarcata a Cipro, seguita da un araboche suo padre aveva comperato comeschiavo a Moka, e che l’adorava allafollia, pronto sempre a morire per la suapiccola signora.

Come abbiamo detto, la duchessa eragiunta in Famagosta indossando un

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costume guerresco, e tre giorni dopo siera veduta chiusa ogni via, perché gliottomani, vinta e distrutta Nicosia, sierano rovesciati contro la più grossa epiù salda città dell’isola, ben decisi aconquistarla. Nessuno aveva sospettatoche fosse una fanciulla, più pel valoreche dimostrava nei combattimenti cheper la bellezza troppo perfetta del volto,fuorché un avventuriero polacco,capitano di ventura, senza fede e senzapatria, che la Repubblica Veneta, a cortodi soldati, aveva arruolato. Delgentiluomo francese non si aveva avutonessuna nuova, quantunque tuttiaffermassero dover essere egli semprevivo e non lontano da Cipro.

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Già l’assedio durava da parecchimesi, sempre più incalzante, sempre piùferoce, diretto da Mustafa, quando unmattino, durante una tregua, comparvesotto le mura della città assediata unbellissimo e giovane turco, quasi tuttocoperto d’acciaio, sfidando, comesovente accadeva, i più valorosicapitani veneziani a misurarsi con lui.Nel campo turco lo chiamavano il Leonedi Damasco, perché figlio del Pascià diquella città, e si dicevano meravigliesulla sua valentia e nel giuoco dellearmi. Infatti, dinanzi a Nicosia, avevascavalcato non pochi capitani ciprioti eveneti, e si era battuto come un veroleone. Una questione era sorta la sera

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prima fra Capitan Tempesta el’avventuriero polacco, il quale, comeabbiamo detto, si era accorto del veroessere del giovane guerriero, e ne eracorsa una sfida da risolversi contro ilcavaliere ottomano.

Entrambi erano quindi usciti daFamagosta, per misurarsi, peròlealmente, uno per uno, contro il fieronemico, e con gran sorpresa di tutti ilpolacco era caduto gravemente feritoalla gola da un colpo di scimitarra. LaMezzaluna trionfava ancora, ed il Leonedi Damasco confermava la sua fama diinvincibile guerriero.

Capitan Tempesta, o meglio laduchessa d’Eboli, doveva far stupire

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maggiormente ed assedianti ed assediati,assalendo con foga terribile il vincitoredel polacco e scavalcandolo ferito d’uncolpo di spada sotto un’ascella. Stranacosa, il Leone di Damasco non avevaconservato alcun rancore verso ilgiovane guerriero, così almeno locredeva, e doveva, più tardi, renderglidei preziosi servigi e salvargli la vita.Dopo un assedio rimasto ormai famosonella storia, Famagosta, quasi priva dibastioni sventrati dalle mine, quasi privadi difensori, affamata, aveva dovutoarrendersi, dopo d’aver avuta lapromessa da Mustafa di risparmiare levite e gli averi.

Era una promessa da turco, poiché

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quasi tutta la popolazione fu sterminata,i capitani o strozzati o scorticati, le casesaccheggiate. La giovane duchessa,ferita dalla scheggia d’una palla dipietra che le aveva sfondata l’armaturaproprio nel momento in cui le ordeottomane, con clamori spaventevoli, sirovesciavano sugli ultimi bastioni delladisgraziata città, era stata portata via dalsuo fedele arabo e nascosta in unacasamatta, semidiroccata, e perciò quasiinvisibile, e dove si era pure rifugiato ungiovane luogotenente veneziano, sfuggitomiracolosamente alla immensa strage.

Una fortunata combinazione avevafatto incontrare l’arabo, il quale pel suocolore e pel suo vestito nulla poteva

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temere, col Leone di Damasco, il qualecercava di frenare le crudeltà deigiannizzeri contro gli ultimisopravvissuti all’assedio e che venivanoscoperti nelle cantine delle casediroccate. Uomo generoso ecavalleresco, per quanto turco, il Leonedi Damasco nell’apprendere che la suavincitrice si trovava in pericolo divenire, da un momento all’altro,scoperta ed assassinata, era accorsooffrendole i suoi servigi. Ormaidall’arabo aveva saputo che CapitanTempesta era una giovane cristiana,come aveva pur saputo per quale motivosi era trovata chiusa in Famagosta. Datala sua altissima posizione di figlio del

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Pascià di Damasco, non aveva tardato asapere che il gentiluomo francese, ilvisconte Le Hussiére, caduto nelle manidei corsari di Alì Pascià, era statocondotto nel castello d’Hussiff, dove giàmolti altri prigionieri cristianipassavano giorni terribili. Comandavaquel maniero la nipote del Pascià, donnada tutti reputata degna di suo zio in fattodi crudeltà; maniero che era statostrappato ai veneziani dopo un lungoassedio, e che si trovava non molto lungida Famagosta, entro una rada chiamatadi Suda, ma che non si potevaraggiungere che per via di mare, pergente sospetta, essendo ormai tuttal’isola scorrazzata da orde feroci di

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mussulmani che, in nome di Maometto,non risparmiavano nessuno che potessepuzzare di cristiano. La bellezza dellagiovane cristiana, o forse più l’ardire ela sua valentia nelle armi, avevanodestato nel cavalleresco mussulmanouna profonda impressione. A Hussiff eraben conosciuto dalla castellana, perchéAlì Pascià le aveva offerto la crudelenipote come prima moglie dopo la finedella guerra, quindi poteva far cercarelaggiù il visconte francese. Il timoreperò che il rifugio della casamattapotesse da un momento all’altro esserescoperto dai giannizzeri, non ancora sazidi sangue cristiano, lo aveva consigliatodi assoldare una piccola galera montata

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da rinnegati greci, che in fondoall’animo non adoravano certoMaometto, e d’imbarcarvi la duchessacol suo arabo, col tenente veneziano, escortata da un suo fedele schiavo chepoteva presentarli ad Haradja comemussulmani autentici.

Già aveva saputo che l’avventurieropolacco, rinnegata la religione dei suoipadri e diventato, per l’occasione,mussulmano, non avendo trovato fra imorti che si contavano a migliaia lavalorosa duchessa, la cercava dovunqueper venderla forse a Mustafa. Ed unanotte, protetti dal Leone di Damasco, ilquale poteva compromettere la suapopolarità di fronte a tutte le orde

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ottomane, i fuggiaschi si erano imbarcatiper raggiungere il castello d’Hussiff. Laseparazione però fra la duchessa ed ilgeneroso turco era stata commovente. Sisarebbe detto che in un tempo, più omeno lontano, avrebbero desideratovivamente d’incontrarsi, quantunqueentrambi fidanzati, ed una cristiana el’altro turco.

La gagliotta, dopo perigliose vicende,era finalmente riuscita a gettare leancore nella rada di Suda, dinanzi almagnifico castello veneziano, che lemille colubrine di Alì Pascià avevanocostretto alla resa, dopo però unastrenua difesa.

Haradja, la nipote del grande

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ammiraglio, donna strana e capricciosa,ma soprattutto crudele verso i cristianiche le venivano affidati in attesa d’ungrosso riscatto, aveva ricevuto CapitanTempesta, presentatosi sotto le vestid’un giovane capitano albanese, coi piùgrandi onori, perché raccomandato dalloschiavo del Leone di Damasco.

Le informazioni erano state esatte: ilvisconte francese era stato affidato allanipote del Pascià assieme ad altricristiani, che la crudele ed avidamussulmana faceva lavorare negli stagnidelle «acque morte» alla pesca dellemignatte.

I poveri diavoli, guardati e bastonatisenza misericordia dai giannizzeri, non

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meno feroci della loro padrona, eranocostretti a servire come di esca allesanguisughe coi loro corpi. Lavorospaventoso che doveva in breve tempodissanguarli e ridurli nell’impossibilitàdi tentare una fuga. Il gentiluomofrancese non era stato risparmiato,quantunque si sperasse da lui, presto otardi, un grosso riscatto.

La duchessa, per la quale Haradja erastata presa da una improvvisa simpatia,credendolo un capitano albanese e nongià una donna al pari di lei, aveva potutoottenere la grazia del disgraziato,quando già ormai le sanguisughe loavevano ridotto in uno stato cosìdeplorevole, da disperare ormai che

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potesse rimettersi e tornare un giorno unuomo di guerra. Haradja, sempre piùinnamorata del bel capitano, avevacercato di trattenere più a lungo che leera stato possibile la duchessa, cercandodi distrarla con sanguinosi spettacoli,dove dei negri si accoppavano con deipugni di ferro a punte acute, lottandofuriosamente fra di loro. Il giorno dellapartenza era finalmente giunto, e laduchessa con tutti i suoi, compreso ilpovero visconte, si erano imbarcati sullagagliotta colla speranza di guadagnare lecoste di Candia, essendo ancoraquell’isola tenuta dai veneziani.

Erano partiti da poche ore quandogiungeva al castello d’Hussiff il

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capitano polacco, ormai diventato turco.Aveva saputo che il signor Le Hussiéresi trovava là, e vi era corso collasperanza di trovarvi la duchessa.Apprendendo dalla bocca di quelrinnegato che il bel capitano non era cheuna donna cristiana, Haradja, che nonpoteva perdonarsi di averla amata,aveva subito fatto armare una galeraordinando a Metiub di raggiungere aqualunque costo i fuggiaschi e diricondurli al castello. La caccia allagagliotta era cominciata con tantafortuna, che l’indomani i turchi lasorprendevano ancora in vista dellecoste di Cipro, essendo il vento mancatoed avendo i greci pochi remi. Lo

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schiavo del Leone di Damasco, famosonuotatore, visto il pericolo, non avevaesitato a gettarsi in mare per raggiungerela spiaggia e di là il campo turco.

Quasi subito un breve e disperatocombattimento si era impegnato fra lagalera e la gagliotta, e questa venivapresa d’assalto, non potendo i rinnegatireggere ai numerosi marinai di Metiub,ed anche perché il signor Le Hussiéreera caduto gravemente ferito da unapalla d’archibugio che gli avevaattraversato il polmone. La duchessa eracosì caduta nelle mani dell’avventurieropolacco che aveva seguito Metiub. Male cose non dovevano andare bene peiturchi. I rinnegati greci, sapendo ormai

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quale terribile sorte sarebbe lorospettata se ricondotti nel castello,avevano dato fuoco alla galera quandoquesta si trovava abbastanza vicina allacosta per poterla facilmente raggiungerecolle scialuppe.

Fra la confusione generale il polaccoaveva approfittato per prendere il signorLe Hussiére, già quasi moribondo, edannegarlo. I rinnegati greci, più lesti deimussulmani, si erano impadroniti d’unagrossa scialuppa, e dopo averviimbarcato a forza la duchessa, la qualesperava ancora che il suo fidanzatofosse stato salvato, si erano direttivelocemente verso la costa, lontanapoche miglia. Trovato un passaggio fra

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quelle alte rupi, si erano diretti versol’interno in cerca d’un rifugio, bensapendo che anche Metiub, il polacco edi loro marinai non avrebbero tardatopure a raggiungere la costa e adorganizzare la caccia. La fortuna liaveva guidati in una casa disabitata, e visi erano trincerati appena a tempo,poiché i loro implacabili nemici liavevano seguiti, certi di riprenderli.

A colpi d’archibugio i fuggiaschiavevano tentato di trattenere imussulmani che il capitano d’armi diHaradja spingeva energicamenteall’assalto, poi si erano rifugiati nellestanze superiori, continuando la lotta congrande furore.

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Nel momento in cui i greci, guidatidal tenente veneto, difendevano la scala,il tetto veniva sfondato e Metiub, ilpolacco e un giannizzero erano piombatinella stanza occupata dalla duchessa, dalsuo fedele arabo e da due marinai.

Un terribile duello si era subitoimpegnato con la valorosa cristiana, edil rinnegato era caduto col pettoattraversato da un colpo di spada. Quasinello stesso tempo anche Metiub cadevacol capo semifracassato da un colpo dicalcio d’archibugio, senza peròaccopparlo del tutto, poiché un mesedopo riprendeva le sue funzioni dicapitano d’armi. L’arabo intanto se l’erasbrigata col giannizzero con pochi colpi

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di scimitarra. La vittoria però non eraancora dei cristiani. Nel momento in cuila duchessa ed i suoi accorrevano inaiuto dei loro compagni, il povero araboera caduto sotto un colpo di pistolatiratogli dall’avventuriero polacco, negliultimi spasimi dell’agonia. Era cadutoper salvare la sua signora, contro laquale il traditore aveva fatto fuoco,colla speranza di ucciderla, salvandolacol proprio corpo. Intanto i turchiarmeggiavano ferocemente contro irinnegati greci, sicuri di prenderli, maun soccorso inaspettato stava pergiungere agli assediati.

Lo schiavo del Leone di Damasco,formidabile corridore, come lo sono tutti

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gli arabi aveva raggiunto il suo padroneinformandolo del pericolo che correvala cristiana. Il cavalleresco turco, chegià amava alla follia Capitan Tempesta,era subito partito pel castello d’Hussiff,accompagnato da trenta cavalieridamaschini, risoluti a qualunque cimentopel suo signore. Non avendo trovatocolà i fuggiaschi della gagliotta, dopouna tempestosa conferenza con Haradja,la quale aveva cercato di farlo perfinoprigioniero, era partito in cerca deinaufraghi, ed era giunto nel momento incui i turchi della galera stavano peropprimere i rinnegati greci e con loroCapitan Tempesta. Con una caricairresistibile dei suoi cavalieri, aveva

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fugata tutta quella canaglia, ed avevasalvato in tempo la donna che giàdoppiamente adorava, dopo la morte delvisconte francese, appresa da uno deimarinai.

Essendo il castello d’Hussiff troppovicino, e quindi sempre in attesa d’ungrave pericolo, aveva condotto ifuggiaschi nella baia di Suda, facendoricoverare la duchessa ormai vinta dalleterribili emozioni, in una bianca casettache un rinnegato greco gli aveva ceduta.Per due settimane la valorosa donnalottò contro la morte, poi la sua vigorosafibra aveva trionfata. Durante tutto queltempo il Leone di Damasco non avevalasciata la casetta che si specchiava

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nelle tranquille onde della baia.D’altronde nessuno era andato adisturbarli, e poi i trenta cavalieridamaschini ed i rinnegati grecivegliavano su tutte le vie che da Hussiffconducevano al mare.

Un giorno però, quando la duchessa siera completamente ristabilita, uncavaliere turco, che portava sulla cimadella sua lancia un fazzoletto di setabianca, era comparso chiedendo diparlare con Muley-el-Kadel. Era statosubito condotto nella casetta ed avevarimesso al cavalleresco damaschino uncofanetto d’argento, dicendoglisemplicemente: – Da parte del nostroSultano.

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Poi era rimontato in sella ripartendo agran galoppo. La duchessa, che si eratrovata presente, aveva veduto il turcoimpallidire spaventosamente.

– Che cosa avete, Muley? – gli avevachiesto, non senza una viva ansietà.

– Guardate – aveva risposto ilmussulmano, con voce turbata.

Aveva aperto il cofanetto,artisticamente cesellato, e le avevamostrato un elegante cordone di setanera che vi stava dentro. Era il laccioche il Sultano regalava a coloro cheerano caduti in disgrazia, un muto ordined’appiccarsi.

La duchessa, che già amava da tempoil cavalleresco turco, aveva mandato un

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grido d’onore.– E tu, Muley? gli aveva chiesto, con

estrema ansietà, dandogli per la primavolta del tu.

– La vita 2 troppo ridente al tuofianco perché io obbedisca – avevarisposto il fiero Leone di Damasco. – Rinnego la religione dei miei padri eMaometto ed abbraccio la tua.Conducimi in Italia, Eleonora: io sonoda questo momento cristiano, e saiquanto ti amo.

La sera stessa, col favore delletenebre, favoriti dai rinnegati greci,lasciavano silenziosamente le coste diCipro, ormai cadute in potere deimussulmani, e facevano rotta per

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Venezia a bordo d’una gagliotta,accasandosi nel palazzo dei Loredan. Ilmatrimonio aveva avuto luogo congrande pompa, poiché la nuova delleprodezze di Capitan Tempesta era giàgiunta anche a Venezia, e daquell’unione avevano avuto un figlio alquale avevano messo il nome di Enzo.

Haradja però non li avevadimenticati. Aveva mandato sicari inItalia, a Venezia ed a Napoli, dove ilLeone di Damasco e la duchessasoggiornavano, dei sicari, i quali perònon avevano avuto buona fortuna.

Inizio

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LA SFIDAL’annuncio della guerra che il

Sultano, dopo vinto, o meglio sterminatoi ciprioti, stava per intraprendere anchecontro Candia, avevano deciso il Leonedi Damasco e sua moglie a salpare perquell’isola, avendovi dei grossipossedimenti. Disgraziatamente, imussulmani erano piombati su Candiacon trecento galere e centomila uominiche avevano già vinto la Canea, ed iconiugi erano rimasti assediati.

Intanto Haradja aveva fatto rapire, dagente risoluta, il piccolo Enzo, ed avevapreparato, d’accordo col Pascià,l’agguato al Pascià di Damasco.

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Nel momento in cui il messo diHaradja lanciava la sfida, sul terrazzod’una torre avanzata, che già avevasopportate non poche cannonate, sitrovavano insieme il Leone di Damascoe la duchessa d’Eboli che, comeabbiamo detto, si erano lasciatiassediare in Candia.

Lui era un bell’uomo di forse appena,trent’anni, di statura piuttosto alta, lapelle bianca, i baffi e i capellibrunissimi, gli occhi vivi, ardenti, chetradivano l’impetuosità del vero soldatomussulmano, che nasce nell’Asia turca enon già in quella europea. Lei era unabellissima donna, molto più giovane delturco, di forme snelle ed eleganti, con

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occhi nerissimi, che parevanocarbonchi, una bocca adorabile,abbellita da due file di dentinisplendenti come perle, e la pelleleggermente bruna che tradiva il tipomeridionale. Così il marito come lamoglie indossavano un’armaturacompleta di vero acciaio, arabescato, eportavano in testa elmetti adorni displendide penne di struzzo. Nell’udire lasfida lanciata dal turco, la cui vocepoderosa era giunta fino sul terrazzo deltorrione, i due sposi si erano guardatil’un l’altro con profondo stupore, nonesente da una viva inquietudine.

– Si viene a sfidare una donnacristiana!... aveva esclamato la

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duchessa, portando istintivamente ladestra sulla guardia della spada. – Qualedonna? Io forse? Ci capisci qualchecosa tu, Muley?

Il Leone di Damasco, occupato aguardare il cavaliere turco, che per laseconda volta, e con voce più potente,lanciava la sfida, subito non avevarisposto.

Era diventato però un po’ pallido.– Che cosa vuoi che ti dica,

Eleonora? – disse finalmente. – Io sonostupito non meno di te. Si sfida unadonna cristiana che si batterà contro unaturca ed un capitano … Da quando lemussulmane, abituate solamente a viverenegli harem, fra il fumo dei narghilek ed

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i profumi, si sono dedicate alle armi?Per me é un mistero. Eppure, Eleonora,ecco che per la terza volta si grida chesarà una donna turca che combatterà conla cristiana.

– Ma chi potrà essere? chiese laduchessa, levandosi l’elmetto e gettandoindietro, colle mani, i suoi lunghi capellineri.

Il Leone di Damasco aveva guardatointensamente sua moglie.

– Vedo nei tuoi occhi bellissimi, omia Eleonora, scintillare una vampa.

– Che cosa ti dice?– Che tu vorresti provarti con quella

misteriosa donna turca che viene asfidare la cristiana.

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– Hai indovinato, Muley.– E tu vorresti esporti, quantunque

nessuna donna possa tener testa a te, chesei riuscita a ferirmi e disarcionarmi?

– Sì, Muley, e sai il perche?– Non saprei indovinarlo.– Perche sospetto che quella turca sia

Haradja.Il Leone di Damasco aveva fatto un

vero balzo.– La crudele nipote di Alì Pascià?– La tua ex fidanzata – disse

Eleonora, ridendo. Se t’avesse sposatoavrebbe fatto di te, che sei sempre statocavalleresco, chissà quale massacratoredi cristiani.

– Fortunatamente i tuoi occhi e la tua

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bellezza mi hanno fermato a tempo –disse Muley.

– E sei rimasto gentiluomo.– Lo credi, Eleonora?– Sì, Muley.Fra loro successe un breve silenzio,

interrotto solo da qualche colpo dicolubrina, poiché mancata la sfida,l’assedio era stato ripreso, poi il Leonedi Damasco, dopo essersi passata piùvolte una mano sulla fronte che apparivamadida di sudore, disse:

– Se si trattasse veramente diHaradja, non t’impedirei di accettare lasfida e di combattere al mio fianco,giacche si domanda anche un capitanocristiano.

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– Il cuore mi dice che é lei – disseEleonora. – Tu che l’hai conosciutameglio di me puoi dirmi quanto valecome spadaccina.

– Si diceva che fosse forte, avendoavuto per maestro quel Metiub che i tuoimarinai avevano mezzo accoppatoquando combattevate terribilmentedentro quella casa disabitata.

– Sono trascorsi quattro anni, Muley.– Vorresti dire che potrebbe essere

diventata una grande spadaccina?– Oh!... Non ho paura di quella tigre

in gonnelle. Il suo capitano d’armi, chel’ha istruita, non valeva un dito di miopadre.

– Che possa essere lui che viene a

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combattere a fianco di Haradja?– Ne ho il sospetto.– Nemmeno io avrò paura di lui –

disse il Leone di Damasco. Tu mi haiinsegnato troppe belle stoccate chenessun turco ha certamente conosciute.

– Saresti deciso?– Se si tratta di Haradja sì, perché

almeno potremo poi vivere piùtranquilli.

Gli sgherri che hanno tentato diassassinarci a Venezia ed a Napoli,erano tutti turchi camuffati da cristiani, esolo la nipote del Pascià poteva averlilanciati contro di noi.

La duchessa si avvicinò alla gradinatache metteva nell’interno del torrione e

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chiamò: – Mico!... Mico!...Pochi istanti dopo un uomo saliva sul

terrazzo. Era un albanese, alto evigoroso, di forse quarant’anni, e cheindossava il pittoresco costume di queibellicosi montanari. Gli albanesi chenon erano ancora diventati mussulmani,e per sfuggire a quel pericolo, dopod’aver difese eroicamente le loromontagne contro i seguaci dellaMezzaluna, erano emigrati in buonnumero in Dalmazia, ove venivanoarruolati, sotto il nome di schiavoni, econdotti a Venezia, la quale avevasempre estremo bisogno di soldati perdifendere le sue colonie situate nelMediterraneo orientale e sempre

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minacciate dai sultani di Costantinopoli.La duchessa, perduto El-Kadur, l’arabofedele, morto per salvarla dall’ultimapistolettata dell’avventuriero polacco,aveva preso ai suoi servigiquell’albanese, sapendo bene diprendere un valoroso, sempre pronto asnudare la scimitarra od il karngiar.

– Che cosa vuoi, padrona? – chiese.– Che tu abbia gran cura dei nostri

cavalli perché domani ne avremobisogno.

– Sì, padrona.– Preparaci gli sproni e lo scudo.– Null’altro?– Sì, andrai poi dal capitano generale

di Candia e gli dirai che se domani il

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cavaliere turco, che ha portata la sfida,ritornasse, faccia alzare il pontelevatoio del bastione di Malamocco.

– Vuoi batterti?– È probabile.– Verrò anch’io? Sai, padrona, quanto

odio i turchi dopo che hanno decimato ilmio popolo e distrutti migliaia divillaggi.

– Lo so, ma non uscirò che colpadrone. Puoi andare, Mico.

L’albanese scomparve, mentre laduchessa tornava verso il Leone diDamasco, il quale, coi gomiti appoggiatial coronamento del torrione, presso unmerlo atterrato da qualche palla,osservava i tiri degli assedianti e degli

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assediati.– Sei deciso, Muley? – gli chiese.– Sì, Eleonora, perché sono ormai

anch’io fermamente convinto che si trattidi Haradja. Ah!... La tigre!... Potessecadere sotto uno dei tuoi colpi.

– Cadrà, non temere. Vieni, le pallecominciano a cadere anche qui e saràmeglio rifugiarci nella nostra casamatta.

Ed infatti cominciava a diventareassai pericoloso rimanere esposti suibastioni e sulle piattaforme delle torri,poiché le artiglierie turche, forti di piùdi ottocento bocche da fuoco, frabombarde e colubrine, senza contare ipezzi della flotta, avevano ricominciatoa tirare con grande animazione, per

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proteggere gli uomini incaricati discavare le trincee e le parallele.Facevano soprattutto grande uso gliassedianti di palle di pietra, pesanticiascuna non meno d’un mezzo quintale,che venivano lanciate da bocche dafuoco speciali. Tendevano innanzi tutto arendere la città inabitabile ai candioti edai veneziani, e vi riuscivano, poichéquelle pesanti masse di pietrasfondavano i tetti delle case,massacrando le persone che vi sitrovavano dentro. I bastioni e le torri,ben più salde, avevano già deciso didiroccarli con enormi mine. La duchessaed il Leone di Damasco scesero la scalainterna della torre ed entrarono in una

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stanza illuminata solamente da duestrette feritoie ed ingombra di duelettucci, di sacchi contenentiprobabilmente dei viveri, di parecchiezare colme d’acqua e di armi d’ognisorta. Era il rifugio che i capitaniveneziani avevano offerto a CapitanTempesta, rifugio mal comodo, ma piùsicuro certamente di qualunque casadella città, poiché le palle di pietra sispaccavano contro le salde pareti dellatorre senza riuscire ad aprire alcunabreccia.

I due erano appena entrati, quandol’albanese entrò dicendo: – Signora, vi éun turco che vuole parlarti.

– Un turco!... esclama la duchessa.

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Come ha potuto entrare in Candia senzaperdere cento volte la pelle?

– Non lo so, signora.– Ha delle armi? – chiese il Leone di

Damasco, il quale per ogni buon conto,aveva staccata dalla parete una lungapistola preparandosi ad accendere lamiccia.

– Non mi pare.– Visitalo minutamente, poi

introducilo.Una voce, che fece trasalire sia la

duchessa che il damaschino, si feceudire, sulla seconda scala, poi un uomodi circa quarant’anni, dal volto moltoabbronzato, adorno di una lunga barbanera e vestito come i marinai delle

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galere mussulmane, entrò dicendo: Miavete dunque dimenticato? Eppure ionon ho mai scordato, in questi quattroanni, né il figlio del Pascià di Damasco,né Capitan Tempesta, o me glio HamidEleonora.

La duchessa aveva mandato un gridodi stupore misto ad una grande gioia.

– Nikola Stradioto, il greco rinnegato.Che quattro anni or sono, signora, per

ordine del Leone di Damasco, guidavala gagliotta che doveva condurvi aHussiff a fare, per la prima volta, laconoscenza della nipote del grandeammiraglio.

– Non l’ho dimenticato, Nikola dissela duchessa, muovendogli rapidamente

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incontro, mentre il Leone di Damascospegneva la miccia della pistola. – Dadove vieni, tu?

Dal campo turco, o meglio dallagalera ammiraglia di Ah, dove per forzadevo battermi contro i cristiani efingermi mussulmano, mentre da buongreco ho conservato nel mio cuore lafede per la Croce.

Ma come, tu, che indossi un vestitomussulmano, hai potuto entrare inCandia?chiese il Leone di Damasco.

– Mercé l’aiuto d’un ufficialeveneziano che avevo conosciuto in altritempi, e che avevo salvato a tempo dauna certa scorticatura – rispose il greco.

Poi, fissando la duchessa con una

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certa inquietudine, riprese: – Aveteavuto più notizie, signora, di Haradja?

– No, nessuna.– Quella tigre é qui, ospite di suo zio,

sulla galera ammiraglia.Muley-el-Kadel e la duchessa

avevano mandato due grida.– Haradja qui!...– E più feroce e più spietata che mai

– disse Nikola. – Guardatevi, signora!...Ha giurato di uccidervi e di catturare ilLeone di Damasco per provargli forse illaccio di seta che gli aveva mandatoSelim. Vi ricordate, signora?

– Come fosse ieri – rispose laduchessa, guardando dolcemente Muley-el-Kadel, il quale invece, a quel

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ricordo, era diventato un po’ pallido.– Ma vi é di più – disse il greco.– Parla, Nikola.Il rinnegato esitò.– Parla – comandò il Leone di

Damasco.– Ho da comunicare a voi, innanzi

tutto, una notizia che non vi farà piacere.Vostro padre, mentre navigava versoCostantinopoli, é stato catturato dallagalera di Haradja e da altre del Pascià,ed ora si trova rinchiuso nei sotterraneidel castello d’Hussiff.

– Mio padre!... urlò il Leone diDamasco. – Mio padre hai detto? Haiforse venduta la tua anima ai turchi evieni qui a straziare la mia, che ormai

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non batte più che per la Croce, comefossi nato cristiano?

– Signore!... Porto vesti turche persalvare la vita sempre minacciata, edessere utile ai cristiani, ma io non credoin Maometto. Apritemi il cuore, se lovolete, e non troverete nessuna tracciadell’Allah dei mussulmani, di quei caniche io odio e che odierò finché avrò unbattito, perché hanno scannata la miadonna e arsi, dentro la mia casa, i mieitre figli.

Il greco a quel ricordo atroce, erascoppiato in singhiozzi.

– Perdonami – gli disse Muley-el-Kadel, mettendogli una mano su unaspalla – di aver dubitato di te: ti credo.

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Ne sei però ben sicuro?– La prima sera che Haradja era

giunta, e che cenò sola col Pascià sulcassero dell’ammiraglia, io facevo laguardia, insieme ad altri quattro, ai piedidelle due scale, tutto quindi ho potutoudire.

– Mio padre prigioniero!... Mio padrea Hussiff!... esclamò il Leone diDamasco, con voce strozzata dal dolore.– Quanta crudeltà ha nel cuore quelladonna?

– Ma ho da dire qualche cosa anchealla vostra signora – disse il greco. – Non so però se debbo dirglielo.

– Tu, Nikola, mi hai sempre vedutocomportarmi più come un guerriero che

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come una donna – disse la duchessa, laquale tuttavia era diventata smorta.

– Parla.– Non oso, signora.– Il mio cuore rimarrà impassibile.– Non credo, signora, perché si tratta

di vostro figlio.– Di Enzo!... Del mio piccolo Enzo!...

aveva gridato la valorosa donna,slanciandosi verso il greco.

– Io so, signora, che vostro figlio éstato rapito a Venezia, e che ora si trovasulla galera del Pascià.

– Mio figlio!... Mio figlio!...– Non potresti esserti ingannato,

Nikola? – disse Muley-el-Kadel, mentrela duchessa si abbandonava su uno dei

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due lettucci, singhiozzando fortemente.– No, signore, il fanciullo che é stato

condotto sull’ammiraglia é propriovostro figlio.

Il Leone di Damasco aveva fatto ungesto di suprema disperazione, poiaveva mandato un urlo selvaggio.

– Mio padre ed Enzo!... Haradja miha spezzato il cuore!

Si tolse l’elmetto e si avvicinò alladuchessa che continuava a singhiozzare.

– Eleonora, – le disse – un terribilecolpo é piombato su di noi, ma te tihanno chiamata Capitan Tempesta e meil Leone di Damasco. Quando si portanoquesti due nomi non si deve piangere.

– Hai ragione, Muley, disse la

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valorosa donna, sforzandosi di soffocarei singhiozzi, – ma io oggi sono madre.Ah, la miserabile!... Anche mio figlio,oltre tuo padre, le era necessario pervendicarsi. Ed ora, Muley?

– La uccideremo – risposerisolutamente l’ex turco. Metteremo peròal duello delle condizioni.

Si volse verso il rinnegato, che avevaancora gli occhi umidi, e gli chiese: – Corre nessun pericolo mio figlio?

– Nessuno, signore, poiché giorno enotte vegliano dinanzi alla sua cabinadue sentinelle, coll’ordine d’impedirel’ingresso ad Haradja.

– Dato da chi quell’ordine? chiese laduchessa, che era riuscita a

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tranquillizzarsi.– Dal Pascià – rispose il greco.– Il grande ammiraglio proteggerebbe

mio figlio! – esclamò Muley-el-Kadel,con stupore.

– Così pare. Forse teme qualcheviolenza contro il piccino da parte dellatigre d’Hussiff.

– Tu puoi tornare sull’ammiraglia?– Sono mastro del cassero e posso

salire a bordo quando mi piace.– E traversare il campo, lo potrai?– Non temete: sono abbastanza

conosciuto. Che cosa volete ora da me?Dite, e se dovessi rischiare la vita saròben felice di cadere pel Leone diDamasco e Capitan Tempesta.

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– Tu sei un brav’uomo – disse ildamaschino. – È Dio che ti ha mandato.

– Non quello dei turchi, però – rispose Nikola. – Comandate, signore.

Muley-el-Kadel interrogò la mogliecollo sguardo. Si erano subito compresi.

– Torna sull’ammiraglia e, nel limitedelle tue forze, proteggi nostro figlio – disse. Aspettiamo gli avvenimenti, echissh che un giorno anche noi non loportiamo via al Bascih, malgradol’assedio ed i centomila turchi cheaccampano dinanzi alle galere. Ti faròcondurre dal mio servo, che é unalbanese devoto, dal capitano generale,onde ti venga rilasciato unsalvacondotto.

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– Quando potresti tornare, Nikola, adarmi notizie del mio Enzo? – chiese laduchessa, porgendogli la mano.

– Verrò dopo la sfida.– Potresti avvicinarlo per dirgli che

sua madre e suo padre sono qui?– È impossibile, signora: nessuno

entra nella cabina del piccino fuorché ilBascià. Se io lo tentassi verreiappiccato a qualche pennone.

– Non voglio la tua morte – si affrettòa dire la duchessa. Tu ci sarai più utilevivo.

– Disponete, come meglio vi piacere,della mia vita – disse il greco. Io hocompreso ormai che una lotta terribilesta per impegnarsi fra voi, vostro

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marito, Haradja ed il Pascià. Contate sudi me.

– Hai indovinato – disse il Leone diDamasco. – Noi non torneremo in Italiasenza aver liberato mio padre e nostrofiglio e punita la tigre d’Hussiff. CheMaometto sia maledetto!...

Mico era comparso ed aspettava gliordini dei padroni.

Furono rapidi e precisi. Unsalvacondotto doveva essere firmato dalcapitano generale affinché il grecopotesse entrare in Candia e i ponti calatiper l’indomani se il cavaliere turco sifosse presentato, cosa probabilissima,poiché le sfide si gridavano di solito tregiorni.

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– Va’, Nikola, e veglia su mio figlio – disse la duchessa, con vocesinghiozzante.

– Contate su di me, signora – risposeil greco. – La mia vita appartiene a voied al Leone di Damasco.

Baciò la mano alla valorosa donna,strinse quella del forte guerrierodamaschino, e seguì l’albanese.

– Ci hanno spezzato il cuore, miopovero Muley. Sarebbe stato meglio chetu avessi sposata Haradja e che nonavessi rinnegato la Mezzaluna disse laduchessa.

– Tu dici questo, Eleonora? – gridò ilLeone di Damasco. Sì, ci hanno colpitinel cuore, ma noi siamo gente da

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accettare una sfida e da compiere altreprodezze. A suo tempo mi occuperò dimio padre che si trova prigioniero aCipro e non a Candia, ma noiconcentreremo i nostri sforzi nellasalvezza del nostro Enzo. Come? Non loso, per ora, eppure sono convinto, miaEleonora, che noi usciremo vincitori.

– Con Alì Pascià?– Non sai dunque che Venezia, la

Spagna, l’Austria, il Papato si preparanoa dare un colpo mortale alla potenzaturca? Quando? Io non lo so, eppure lalega é stata firmata.

– Per colpire a morte la tua razza?Muley-el-Kadel si era rizzato,

mettendosi una mano sul cuore.

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– Sposando te ho rinunciato aMaometto ed a tutte le crudeltà turcheche mi ripugnavano – disse. – Io sonocristiano.

– Quanto ti é costato però l’averrinnegato il Profeta!

– Non ci pensare, Eleonora. So chi émio padre, ed avrà la pazienza diaspettare l’aiuto di suo figlio. Anche sesono diventato cristiano, tu lo sai, nonmi ha rinnegato.

– Lo so, Muley – rispose la duchessa.– Deve essere stato prode ecavalleresco come te.

– Damasco non scorderà mai miopadre, un Pascià come non ve ne sonomai stati in tutto l’impero turco. Sei

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decisa?– Ad affrontare Haradja? E me lo

chiedi, Muley?Ed io sono ben risoluto a spaccare il

cuore al capitano mussulmano chel’accompagna. Li faremo cadereentrambi sotto gli sguardi di questi prodiveneziani.

– Guardati dai tradimenti, Muley.Non sarà colla scimitarra che io

caricherò quel capitano. Quelle armi nonvalgono le vostre diritte e lunghe che tu,in questi quattro anni, mi hai insegnato amaneggiare così bene.

– Lo spero – rispose la duchessa.– Riposati, Eleonora: vado dal

capitano generale perché ogni cosa sia

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pronta per domani.– Guardati dalle palle.– Bah!... I miei compatrioti sono

sempre stati pessimi tiratori.La baciò sulla fronte e scese la

seconda scala, attraversò alcunecasematte, dove vi erano dei cavalli, euscì dal torrione. Grandinavano le palleottomane su Candia non meno fitte che aFamagosta, scrosciando sui tetti dilavagna delle case, i quali, poco dopol’urto cedevano, seppellendo talvolta,sotto i rottami, gli abitanti già desiderosipiù di morte che di vita, poiché la fameinfieriva orrenda. I venezianirispondevano però non menovigorosamente, coprendo di ferro

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l’immenso campo turco, e tentando dirovinare specialmente i mortai che colleloro palle di pietra producevanogravissimi danni alla città. Quantunqueassediati da più di un anno, avevanoancora munizioni in abbondanza, edanche ne fabbricavano, non mancando nédi zolfo, né di salnitro, né di carbone. Sei saldi bastioni, costruiti da valentisismiarchitetti della Regina dell’Adriatico,opponevano una grande resistenza alfuoco avversario, la città invece, a pocoa poco, se ne andava, e già più di metàdelle case erano state distrutte. Daquelle rovine, che avevano già copertobuona parte delle strade, usciva unfetore insopportabile, poiché intere

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famiglie vi erano rimaste sotto, e gliassediati, senza posa tribolati dai turchi,non avevano potuto procedere né ademolizioni né a sepolture sì difficili.

Cani e gatti, una volta numerosissimicome in tutte le città dell’Arcipelagogreco, da tempo erano scomparsi,perché divorati dagli abitanti, sicché nonpotevano dare alcun aiuto nelladistruzione dei cadaveri. Erano peròcalate su Candia delle turbe immense diuccellacci, venuti non si sa da dove,forse dall’Asia Minore o più da lontanoancora, somiglianti ai marabù indiani, equelli facevano efficacemente l’ufficiodei becchini senza inquietarsi dellecannonate, sicché per le vie della misera

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città s’incontravano di frequente gruppidi scheletri umani completamente privatidi carne e di nervi.

Muley-el-Kadel, tenendosi dietro laseconda cinta, che era la meno battutadai pezzi ottomani, si recò dal capitanogenerale pel prendere gli ultimi accordiper la sfida, nel caso che l’araldo fossetornato, poi fece ritorno nel torrioneaccompagnato da Mico che avevatrovato ancora nel palazzo. Tutto quelgiorno da una parte e dall’altra fu untirare furioso, con più danno dei turchi,che si trovavano male protetti, che deiveneziani, e nemmeno alla notte,quantunque meno intenso, cessò. Aiprimi albori tutte le batterie turche,

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come se avessero ricevuto un ordine,sospendevano il fuoco, e pochi minutidopo l’araldo del giorno primagaloppava verso la città, agitando la sualancia, alla quale era appesa una vistosabandiera di seta bianca. Anche iveneziani avevano cessato di spararecuriosi di assistere alla sfida fra ladonna turca e la cristiana, più che fracapitano turco e capitano cristiano. Ilcavaliere si arrestò alcuni minuti pressoun ridotto avanzato, chiamato degliAlberoni, situato a cinque o seicentometri da Candia, e che i turchi avevanogià preso d’assalto ed in parte rovinato,senza poter mantenere la conquistabattuta terribilmente in breccia dalle

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artiglierie veneziane. Parve che loesaminasse con particolare attenzione,poi riprese la sua corsa verso il bastionedi Malamocco sul quale si eranoradunati tutti i capitani veneti, essendo ilsuo sperone di settentrione assaiavanzato.

Giuntovi quasi sotto si mise a gridareper la seconda volta: Una donna turcasfida una donna cristiana, ed un capitanoturco sfida un capitano veneziano. Checosa devo rispondere al Gran Vizir ed algrande ammiraglio? Che né le cristiane,né i loro uomini, hanno più spade perbattersi?

Muley-el-Kadel, che si trovavaall’estremità dello sperone con

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Eleonora, tutti e due coperti d’acciaio,fu pronto a rispondere: – Va’ a dire adHaradja, la nipote di Alì Pascià, che vié una cristiana pronta a combatterla,come vi é pure un capitano pronto ascavalcare qualche vostro grandeguerriero. Noi siamo pronti a batterci.

Il turco abbassò la bandiera in segnodi saluto, e ripartì a corsa sfrenata,rasentando, per la seconda volta, ilridotto degli Alberoni, che parevaavesse per lui uno strano interesse.

– Capitano – disse Muley-el-Kadel,volgendosi al conte Morosini che si eraassunta la difesa di Candia. – Fateabbassare il ponte levatoio. Mia mogliedarà una terribile lezione a quella ladra

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di fanciulli.– Guardatevi dai tradimenti, miei

giovani amici – rispose il capitanogenerale.

– Conosco il vostro coraggio come lavostra abilità nel giuoco delle armi, eper questo non temo, tuttavia guardatevi.

– Non andremo più oltre del ridottodegli Alberoni – disse la duchessa.Rimarremo sempre sotto la protezionedelle vostre colubrine.

– E delle nostre spade!... gridarono icapitani che la circondavano.

– Muley, ai nostri cavalli.– Mico li tiene dietro il ponte

levatoio. Aspettiamo.Trascorsero dieci minuti d’intensa

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ansietà per tutti. I bastioni le terrazzedelle torri perfino i merli delle cinte sierano gremiti di guerrieri, ansiosi diassistere ad un altro trionfo di CapitanTempesta, poiché nessuno dubitava chela famosa spadaccina, che tanto si erafatta ammirare a Famagosta, nonvincesse la donna turca. Ad un trattosquillò, verso gli avamposti turchi, unatromba, e si vide poco dopo saltare unatrincea l’araldo, sempre colla suabandiera bianca.

Lo seguivano Metiub ed Haradja,montato il primo su un robustoturcomanno, e la seconda su un superbocavallo arabo, dal mantello grigiopomellato, la lunga criniera e la

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lunghissima coda che toccava quasi ilsuolo. Entrambi erano coperti d’acciaioed avevano le visiere calate per nonfarsi riconoscere, precauzione inutile,almeno per Haradja. I tre cavalieri siaccostarono al ridotto degli Alberoni,dietro il quale vi era un vasto spianatoveramente adatto per una sfida fra icavaliere, poi l’araldo, piantata lalancia con la bandiera, tornò indietro,lasciando soli i cavalieri.

– Eleonora! – aveva gridato, nonsenza una certa emozione, Muley-el-Kadel.

– La vedi Haradja?– Non può essere che lei – aveva

risposto la duchessa.

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– Andiamo, io non tremo per te, miaadorata.

– Nessuna donna mi getterà giù disella, sii sicuro, Muley

– Prima te, poi io darò il resto a quelcapitano che viene a sfidarmi.

Strinsero le mani al capitano generalee ai suoi amici,, scesero un gradinata dipietra, che al riparo dalle palle, mettevanella seconda cinta, e giunsero al pontelevatoio già calato e guardato da unacompagnia di schiavoni. Mico aspettavai padroni tenendo, a fatica, duebellissimi cavalli tutti neri con bardaturemontate in parte in argento.

– Via – disse la duchessa balzando insella al suo. – Andiamo a vedere quale

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colore al sangue della tigre d’Hussiff.Ed insieme al damaschino prese la

corsa verso il ridotto, mentre suibastioni, sulle torri, sulle cinte, sigridava:

– Buona fortuna a CapitanTempesta!... Fortuna al Leone diDamsco!...

Inizio

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IL TRADIMENTOLa duchessa e suo marito, seguiti da

migliaia e migliaia di sguardi, poichéanche i turchi, approfittando dellatregua, erano usciti dalle loro trincee edalle loro parallele, formando unimmenso e pittoresco semicerchio, sierano diretti sollecitamente versi ilridotto dove Haradja e il suo capitanod’armi, li attendevano immobili sui lorobellissimi cavalli.

Il sole, sorto allora, faceva scintillarevivamente le armature dei duellanti,specialmente quello della nipote delPascià che era argentata ed aveva peremblema una galera a vele spiegate,

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incisa sulla corazza a punti d’oro. Laduchessa giunta a dieci metri dallamortale avversaria, frenò il cavallo ed,abbassando la visiera, gridò:

– Scopritevi onde io veda se io,donna cristiana, devo veramentemisurarmi con una donna turca.

– Ne dubiteresti? – chiese la nipotedel Pascià con ira. – Le mie forme,quantunque chiuse entro l’acciaio, nonsono meno snelle, né eleganti delle tue.

– Io voglio sapere, dalla tua bocca,contro chi devo combattere rispose laduchessa. Qui, fra poco, vi saranno deimorti, e tutti abbiamo il diritto diguardare bene in viso i nostri avversari.

– Tu, forse, sai già chi sono.

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– Come tu sai che sono la donna che aFamagosta chiamavano, pel suo valore,Capitan Tempesta.

La nipote del grande ammiraglioottomano, dopo aver esitato qualcheistante, abbassò la visiera mostrando ilsuo viso rosso di collera ed i suoi occhipregni di fiamma.

– La castellana d’Hussiff!... – esclamò la duchessa, con un certodisprezzo.

– Che cosa vuole, dopo quattro anni,dal bel capitan che si faceva chiamare,sotto vesti albanesi, Hamid Eleonora?

La nipote del Pascià digrignò i denticome una giovane tigre, poi diventòpallidissima. Non aveva mai potuto

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perdonarsi di avere, sia pure per pochigiorni, amata una donna credendola inbuona fede un prode capitano albanese.

– Che cosa voglio da te, HamidEleonora, moglie del Leone diDamasco? –disse, con voce sibilante,Haradja. – Vendicarmi del tuo atrocescherzo.

– Uccidendomi?– Certo.– E lo speri?– Ne sono sicura.– Tu che fai rubare i bambini? – urlò

la duchessa, sguainando la spada. – Checosa ne hai fatto del mio piccolo Enzo,che io e mio marito avevamo lasciato aVenezia sotto la sorveglianza di servi

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fedeli?– Si vede che non erano fedeli quanto

tu credevi, cristiana, perché i mieiuomini hanno potuto rapirlo nel cuore diVenezia e scendere l’Adriaticoindisturbati.

– Che cosa ne hai fatto tu?– Io!... Finora nulla, ma giacché il

Leone di Damasco ha rinnegato la fededei suoi padri, al suo posto ci metteremosuo figlio.

– Tu vuoi fare del mio Enzo unmussulmano?

– Almeno lo spero.Il Leone di Damasco aveva mandato

un vero ruggito, e dopo aver snudata laspada, si era avanzato di qualche passo

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verso Haradja, sempre immobile e benpiantata sul suo splendido cavallo.

– Mia moglie ti ucciderà, cagna!... – urlò.

Un sorriso d’incredulità e quasi discherno contrasse le belle labbradell’algerina.

– Ah!... disse poi, levando dal foderola scimitarra, una vera lama diDamasco, che poteva sopportare deigran colpi senza spezzarsi. – Lo sivedrà.

– E mi hanno detto, miserabile, chehai fatto prigioniero anche mio padre!...

– Sì, l’ho preso sotto le coste diCipro, ed ora sta meditando sullecomodità che godeva a Damasco e

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quelle che non si trovano nel castellod’Hussiff, nelle sale sotterranee.

– Tigre!...– Mi sono vendicata, ecco tutto –

rispose Haradja.– Ed ora speri di compiere intera la

tua, infernale vendetta? chiese laduchessa.

– Sì, lo spero.– Chi é quel capitano turco che deve

misurarsi col Leone di Damasco?– Un uomo che già tu hai conosciuto:

Metiub.– Il tuo capitano d’armi che io ho

toccato dinanzi a te, quando ti avevapreso il capriccio di farmi forseuccidere? Non era dunque morto

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malgrado il colpo di calcio di fucile chegli aveva fracassato il cranio?

– Non sembra: come vedi, é pronto auccidere il Leone di Damasco.

– Muley-el-Kadel – disse laduchessa. – Mettiti da parte.Combatteremo due alla volta, per nonintralciare i volteggi dei cavalli.

– Era quello che volevo proportianch’io – disse Haradja. Se io cadrb,Metiub mi vendicherà.

– Così forte lo credi?– Sempre.– A noi due, tigre d’Hussiff.Muley-el-Kadel si portò di fronte a

Metiub, il quale si manteneva sempreimmobile e silenzioso, come se fosse

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assai preoccupato dell’esito di questasfida, dicendogli: Non muoverti finchéla turca o la cristiana saranno a terra.Bada che i veneziani sorveglieranno letue mosse, e che le colubrine sonopronte a mitragliarti.

Il capitano d’armi lasciò cadere lebriglie sul collo del cavallo, come perdimostrare che non lo avrebbe lanciato,però, sguainò la sua spada, un’arma chenon era affatto turca, poichérassomigliava a quelle usate daiveneziani, contro le scimitarre, conmolto vantaggio.

– Sei pronta? – chiese allora laduchessa, stringendo le ginocchia aifianchi del cavallo, e raccogliendo colla

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sinistra le briglie.– Sì, la donna turca é pronta a

uccidere la donna cristiana – risposeHaradja.

Calarono le visiere ed alzarono learmi. Per alcuni istanti le due donne siguardarono ferocemente attraverso ibuchi dell’elmo, poi la nipote delPascià, più impetuosa, spronò il suosuperbo arabo e si slanciò contro laduchessa, la quale l’aspettavafreddamente, con una bellissima guardiadi prima, assai allungata, per proteggereanche la testa del proprio cavallo.Passò, come un turbine, a pochi passidalla sua avversaria tentando un grancolpo di scimitarra, prontamente parato,

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poi, come usavano i cavalieri turchinelle sfide, con furiose spronatecostrinse l’arabo a descrivere deivertiginosi giri, ed a spiccare dei grandisalti. La duchessa, non nuova a queicombattimenti, faceva girare il propriocavallo, per trovarsi sempre di fronte alnemico colla spada tesa, avventando, diquando in quando, qualche colpo dipunta, più per preparare la mano allabotta decisiva che coll’intenzione dioffendere. Quel giuoco, pericolosissimoper entrambe le donne, durò qualcheminuto, poi la duchessa vedendo cheHaradja cercava di assalirla sullasinistra, fece fare al cavallo un gransalto, e le si precipitò addosso

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gridando:– Ti arresto!...I due cavalli si erano urtati così

impetuosamente, che per poco nongettarono di sella le padrone, poi fu unoscrosciare d’armi sulle armature.Haradja, più robusta e più focosa delladuchessa, avventava terribili colpi discimitarra, ma senza scuola però, poichéerano tutti diretti contro l’elmetto.Muley-el-Kadel, quantunque sapessequanto valeva sua moglie nella scherma,assisteva al duello col cuore sospeso.

– Sotto Eleonora!... gridava di quandoin quando.

Ad un tratto la duchessa interruppe ilcombattimento e lanciò il cavallo al

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galoppo, come se cercasse di fuggire.Haradja le si era precipitata dietro,colla scimitarra alzata, gridandole:

– Hai paura, dunque?... Ecco ilfamoso Capitan Tempesta!...

La corsa della duchessa durò appenamezzo minuto, poi il cavallo si piantòben fermo sulle zampe, ed attese lacarica del suo compagno arabo che siavanzava colla lunga criniera al vento ela lunghissima coda ondeggiante.Haradja, vedendo l’avversaria così benpiantata e temendo troppo quellaterribile spada, sempre in linea, che ipiù furiosi colpi di scimitarra non eranoriusciti ad abbassare, fece fare al suoarabo uno scarto, onde sottrarlo,

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nell’urto, ad una possibile caduta, poiriattaccò, gridando ferocemente: A te,mio bel capitano, i colpi della donnaturca!... Prendi!... Prendi!... Anche noisappiamo batterci!...

Le due donne, per la seconda volta, sierano impegnate a fondo. Haradjacontinuava ad assalire, tentando di farabbassare quella spada che aveva deilampi di fuoco sotto i raggi già cocentidel sole; la duchessa si limitava atenersi ben ferma in sella ed a pararequella grandine di colpi di scimitarrache le giungevano da tutte le parti.

– Per la morte di Allah!... bestemmiòla nipote del Pascià, dopo aver invanocercato di disarcionare l’avversaria con

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un traversone. – Sei salda come unarocca, tu?... Eppure io ti ucciderò!...

In quel momento stesso Muley-el-Kadel, che seguiva con maggior ansia lediverse fasi del duello, vide Eleonoraalzarsi sulle staffe, parare un gran colpodi scimitarra, poi distendersi quasi sulcollo del cavallo, stringendorapidamente la spada. Si udì un grido, omeglio, un urlo di belva ferita, poi lanipote del grande ammiraglio rovinò alsuolo con un gran fragore d’acciaio. Laspada dell’invincibile napoletana le erapenetrata sotto l’ascella destra, là dovel’armatura si snodava per lasciare liberoil movimento delle braccia.

Muley-el-Kadel aveva mandato un

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gran grido di gioia.– Finisci la tigre d’Hussiff!... aveva

poi tuonato.La duchessa si preparava a balzare a

terra, quando venti o trenta turchi,nascosti fino allora nei fossati delridotto, comparvero, urlandoferocemente e sparando alcuni colpid’archibugio.

– Tradimento!... aveva gridato ilLeone di Damasco, accorrendo verso lamoglie, onde proteggerla. – Fuggiamo!...

Impegnare una lotta contro queitraditori che avevano delle armi dafuoco, sarebbe stata un follia, sicché ilLeone di Damasco e sua moglie, sfuggitialle prime archibugiate per un vero

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miracolo, lanciarono i cavalli a corsasfrenata in direzione del bastione diMalamocco.

– Via!... Via, Eleonora!... avevagridato il Leone. – Sparano!...

Metiub aveva approfittato diquell’istante. Balzò da cavallo, raccolseHaradja, che non era ancora rinvenuta,poi udendo una palla di colubrina aronfare a breve distanza, si precipitòdentro il ridotto, ove si trovavanoancora delle casematte in ottimo stato. Iturchi, che erano balzati fuori dal fossatoe che dovevano trovarsi in quel luogofino dalla notte, l’avevano seguito dopouna seconda cannonata. La duchessa edil Leone di Damasco giunsero come due

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fulmini sul ponte levatoio del bastione elo attraversarono senza arrestarsi,mentre la compagnia degli schiavoni siprecipitava invece fuori, aprendo unfuoco d’inferno contro il ridotto.

Sulle mura, sulle torri, sui bastioni, iveneziani mandavano urla di furoreall’indirizzo dei turchi.

– Vili!...– Ecco la vostra cavalleria!...– Canaglie senza fede né legge!...– Pagherete questo infame

tradimento!...Con rapidità fulminea, avevano

portate altre dieci colubrine sul bastionedi Malamocco, e venti pezzi coprivanodi ferro il ridotto e la pianura che gli

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stava dietro, onde impedire ai traditoridi fuggire verso il campo.

Il capitano generale di Candia, lividodi collera, si era precipitato verso laduchessa e Muley-el-Kadel, i qualierano saltati a terra dinanzi alla secondacinta.

– Siete ferita, signora? – avevadomandato premurosamente.

– È la nipote del Pascià che ha presala stoccata, signor governatore – avevarisposto prontamente la spadaccina.

– L’ho veduta cadere la vostranemica.

– Ma non ho potuto finirla.– I vili!... Vi avevano preparato un

infame tradimento!... Fidatevi ora

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dell’ottomano!... Sono però tutti nelridotto e vedremo come saprannouscirne. Signora, non faremo economiadi polvere.

E non ne facevano davvero gliartiglieri che servivano i venti pezzi. Lecannonate si succedevano allecannonate, con un frastuono infernale,scaraventando sul ridotto palle e turbinidi mitraglia, onde impedire a Metiub diricondurre al campo Haradja e aitraditori di mettersi in salvo. Tutti,d’altronde, erano scomparsi, e sullapianura bruciata dal sole caracollavasolamente il superbo arabo dellacastellana d’Hussiff, come se cercassela vinta sua signora per invitarla a

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rimontare in sella. Quello di Metiubinvece, con un salto gigantesco, avevasuperato una scarpata ed era entrato nelridotto.

– Dove l’hai colpita? – chiese Muley-el-Kadel, aiutando Eleonora adiscendere dal cavallo.

– Sotto l’ascella – rispose laduchessa. Ho approfittato del momentoin cui alzava il braccio per avventarleun colpo di scimitarra. L’aspettavo pergiuocarla.

– Ferita grave?Che cosa posso dirti io, Muley? I

cavalli non stavano fermi, però io credoche la tigre d’Hussiff non oserà piùsfidare le donne cristiane. Guarda: la

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punta della mia spada é ancora arrossatadi sangue.

– Canaglie!... Sono avvilito di esserenato mussulmano!...

– Ed ora? – chiese Eleonora.– Non ho potuto misurarmi col

capitano d’armi, ma non ci sfuggirà. È làdentro, e se vorrà uscire bisognerà cheincontri sui suoi passi la mia spada che,spero, non sarà meno fortunata della tua.

– Oh, non lasceranno il ridotto – disseil capitano generale. – Finché i nostriventi pezzi tuoneranno, non oserannolasciare il loro rifugio.

– Se tentassimo, signor conte, di farlitutti prigionieri? – chiese Eleonora.

– Con questo fuoco? I turchi

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proteggono i loro amici da un possibileassalto, duchessa. Udite che concerto!...

Gli assedianti, vista la mala riuscitadella sfida, avevano portato un grannumero di bombarde e di colubrine sullafronte meridionale dell’accampamento,ed avevano cominciato a spararerabbiosamente, onde impedire aiveneziani di tentare una sortita contro ilridotto. Palle di pietra, palle di ferro epalle di ghisa piovevano fittissimedinanzi al bastione di Malamocco condei buonissimi e riuscitissimi tirid’arcata.

– Chi oserebbe sfidare una similetempesta? disse il conte Morosini alladuchessa la quale pareva un po’

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contrariata. – Se lanciassi duecompagnie dei miei più fedeli schiavonicontro il ridotto, non giungerebberocertamente là ancora in buon numero.

– Che non tentino i turchi una cosìpericolosa impresa? – chiese il Leone diDamasco. – Essi sono sei volte piùnumerosi di noi e non badano alleperdite.

Finché le nostre colubrine batterannola pianura, non oseranno uscire dal loroaccampamento, ed il fuoco io lo faròmantenere giorno e notte, soprattutto allanotte, poiché forse i turchi farannoqualche tentativo disperato. Pagherannocara la loro mossa, se dovessero farla,Muley-el-Kadel, poiché farò

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ammonticchiare sulle terrazze delle torrilegna in quantità per poter, al momentoopportuno, illuminare la pianura.

– Che Haradja ed i suoi compagni sirisolvano ad arrendersi? – chiese laduchessa.

– Io lo spero, signora, poichél’assedio potrebbe prolungarsi e noncredo che i turchi abbiano portato con sédei viveri. Il posto diventa pericoloso:ritiratevi nella vostra torre e confidate inme. Finché avremo polveri quei traditorinon usciranno dal ridotto.

Tutti cominciavano a sgombrare ilbastione sul quale cadevano, a decinealla volta, le palle turche, soprattuttoquelle di pietra. Muley-el-Kadel,

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temendo che qualche frammentotoccasse l’amata donna, obbedì alconsiglio del conte e, risaliti sui lorocavalli, fecero ritorno al torrione,mentre da tutte le parti si gridava asquarciagola: – Viva CapitanTempesta!... Viva l’eroina di Famagosta!

I soldati, entusiasmati, agitavano glielmi e salutavano colle spade. Intanto ilduello d’artiglieria aveva cominciato adinfuriare come mai si era visto prima diallora. I turchi proteggevano il ridottocon una pioggia di proiettili, checadevano però tutti o dentro la cittàdiroccando, con gran fragore, altre case,o abbattevano i merli del bastione diMalamocco sul quale i veneziani

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rispondevano vigorosamente, quasicolpo per colpo.

Avendo gli assediati migliori pezzi emigliori puntatori, una uscita dal campoda parte dei mussulmani era, pelmomento, assolutamente impossibile,poiché sarebbe finita in una spaventosastrage di carne umana. Forse avrebberopotuto tentarla nella notte. Nel ridotto,intanto, più nessuno si era fatto vivo. Itraditori dovevano essersi rifugiati nellecasematte che le mine avevano qua e làrisparmiate, per non cadere mitragliati.Nessuno più aveva fatto il tentativo discappare verso l’accampamentomussulmano, sapendo bene che nonavrebbero potuto correre per molto

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tempo. Solamente il cavallo di Haradjaera rimasto fuori e, quantunque presopiù volte di mira, era sfuggito alle palledelle colubrine. Il povero animalecontinuava a galoppare dinanzi alridotto, mandando dei lunghi nitriti, ecercando di trovare un passaggio perraggiungere la sua signora. Non dovevacontinuare per molto tempo le sue corsefuribonde che gli coprivano il petto dischiuma sanguigna. Mentre passavaaccanto alla bandiera bianca piantatadall’araldo, e più da nessuno tolta, unapalla lo colpi alla testa, portandogli viamezzo muso. L’arabo rimase comestordito sotto il grave colpo, poi si rizzòsulle zampe posteriori facendo così,

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tutto diritto, tre o quattro passi. Ad untratto ricadde, partì a corsa sfrenataperdendo sangue a catinelle dall’orrendaferita, ed andò a cadere in un fossato delridotto. Fu visto, dagli artiglieriveneziani, sparare alcuni calci, poirovesciarsi su un fianco e quasi subitoirrigidirsi. Peccato! Quell’animale,anche in quei tempi, poteva valere unafortuna, e chissà quanto lo aveva pagatoil grande ammiraglio per fame un donoalla nipote.

Già il sole stava per tramontare,quando Muley-el-Kadel si presentò alconte Morosini, il cui palazzo non erapoi stato troppo danneggiato,accompagnato dal fedele Mico,

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l’albanese, quasi sempre taciturno, masempre lesto di mano come tutti i suoicompatrioti delle montagne circondantiil lago di Scutari.

– Signor capitano – gli disse, mentreuna palla di pietra mussulmana facevarovinare due merli del palazzo delgovernatore. Potreste, a notte fitta,sospendere il fuoco per qualche ora?

Al Leone di Damasco ed alladuchessa d’Eboli, che tanto hanno fattoper la Serenissima, nulla si può rifiutare.Voi sapete che siete gli idoli dellaguarnigione, troppo scarsa, purtroppo,ma sempre pronta a misurarsicoll’odiato mussulmano.

– Io sono cristiano, – disse il

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damaschino e quindi non mi offenderò seinsultate i miei ex compatrioti. Ho laCroce sul cuore come l’ha mia moglie.

– Lo so, Muley-el-Kadel – rispose ilconte, il quale lo aveva ricevuto nellasala maggiore del palazzo. Venezia nonsarà mai abbastanza grata a voi dellavostra defezione. Che cosa volete?Parlate.

– Tentare, questa notte, col mioalbanese, di raggiungere il ridotto e dirapire la nipote del grande ammiraglio,se non é morta sotto la stoccata ricevutada mia moglie.

– Volete commettere una pazzia?– No, signor conte. Sono deciso, ma

per giungere al ridotto sarà necessario

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che voi sospendiate il fuoco.Il governatore generale, che da

vent’anni combatteva contro i turchinell’Adriatico prima, nell’Arcipelagodopo, e più tardi sulle isole del sud,aveva guardato il Leone di Damasco conimmenso stupore.

– Volete cercare la morte, voi? – chiese.

– Ho due divinità che mi proteggono.l’Allah dei mussulmani, e il Dio deicristiani.

– Io non oserei.– Sono il Leone di Damasco – disse

Muley-el-Kadel, con un certo orgoglio.– Lasciatemi tentare questa avventura.– E la duchessa?

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– Me ne ha dato il permesso. Noi,pensate, non potremo mai esseretranquilli finché la nipote del Pasciàsarà viva. Vedete come si vendicata, edopo quattro anni!... Facendoprigioniero mio padre per cacciarlo neisotterranei del castello d’Hussiff, efacendo rapire, perfino dentro Venezia,mio figlio.

Il conte si lisciò la lunga barbagrigiastra, e fissando i suoi occhi neri epenetranti sul Leone di Damasco, disse:

– Volete? Sia pure, quantunque noiabbiamo, colle genti che si trovanodentro il ridotto, buon giuoco. Per laMadonna della Salute e per San Marco,dovran no arrendersi. È questione di

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giorni. Quando avranno mangiato ilcavallo del capitano turco che dovevamisurarsi contro di voi, la fame verrà, esiccome sono in trenta o suppergiù, senon m’inganno, ed il calore corrompepresto le carni, dovranno arrendersi.

– Lo credete, signor conte?– Sì, Muley-el-Kadel.– Voi non conoscete a fondo i turchi.

Preferiscono morire sul posto.– Eppure io ho un’idea.– Quale, signor conte?– Di lasciarli tutti liberi, a condizione

che Alì Pascià vi restituisca il figlio cheHaradja ha fatto rapire a Venezia.

– La nipote del Pascià si lasceràmorire entro le casematte del ridotto, se,

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come vi ho detto, non già morta. Ma citengo ad assicurarmi.

– Volete tentare?– Sì, sono deciso, accompagnato dal

mio albanese. Vedrete comegiuocheremo quei traditori.

– A che ora la sospensione del fuoco?– Per le undici. La luna si alza assai

tardi questa sera.– Terrò quattro compagnie di

schiavoni sul ponte levatoio, pronti adaiutarvi.

– Non ci sarà bisogno, poiché io eMico giuocheremo d’astuzia.

– Le terrò però sempre pronte, poichérincrescerebbe troppo ai difensori diCandia che il Leone di Damasco non

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potesse più servire, colla sua valorosaspada, alla difesa della città. Vi aspettosul ponte levatoio all’ora che mi avetefissata.

Durante tutta la giornata turchi eveneziani si cannoneggiarono con lenacrescente senza ottenere però grandisuccessi, sia da una parte che dall’altra,essendo gli assedianti ancora troppolontani. Anche dopo il tramonto del soleil fuoco continuò, anzi raddoppiòd’intensità, essendo entrati in lotta altripezzi presi dai bastioni e dalle trincee, efors’anche dalle galere. Le pallecadevano fitte fitte sulla disgraziatacittà, compiendone la totale distruzione.Se resistevano le cinte, i bastioni e le

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torri, le case invece cadevano ogni voltache una palla di pietra mussulmanacadeva sui tetti, massacrando, il piùdelle volte, gli abitanti o riducendoli inuno stato compassionevole.

Alle undici Muley-el-Kadel, a piedi,ma tutto coperto d’acciaio ed armato dilunghe pistole, seguito da Mico, il fedelealbanese, che aveva preso il postodell’arabo El-Kadur, giungeva sul pontelevatoio del bastione di Malamocco,dove il capitano generale, come avevapromesso, l’aspettava.

– Siete deciso, Muley? – chiese ilconte, il quale pareva assai preoccupato.

– Sì, signor capitano – rispose ilLeone di Damasco.

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– Che importa a voi sapere se lanipote del Pascià é ancora viva o morta?

– E se fosse ancora viva, ed iopotessi farla prigioniera? Mio figlio miverrebbe restituito per scambio.

– Non dico di no, tuttavia l’impresami pare eccessivamente pericolosa.Siamo coperti dagli elmi e tutti e dueparliamo il turco. Ci fingeremo mandatida quella canaglia di Alì.

– Siete ben audace!... È vero che vihanno chiamato e che vi chiamanoancora il Leone di Damasco.

Gli porse la mano, dicendogli:– Buona fortuna e contate su di noi.

Saremo pronti a proteggere la vostraritirata.

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– Grazie, signor conte: fate cessare ilfuoco.

Aveva già quasi varcato il ponte,quando fu raggiunto da un guerriero diforme snelle. Lo riconobbe subito,malgrado l’oscurità.

– Tu, Eleonora!... esclamò.– Non commettere follie, Muley –

disse la duchessa, con voce commossa.Lascia che ti accompagni. Tre spadevalgono meglio di due, e sei pistole piùdi quattro.

Il damaschino scosse la testa.Se io cadessi nella lotta, chi

rimarrebbe a salvare Enzo? Tu: e secadessimo tutti, di nostro figlio se nefarà un mussulmano. No, Eleonora,

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serba la tua valorosa spada per migliorioccasioni. D’altronde agiròprudentemente, e se riuscirò adimpadronirmi della tigre d’Hussiff, piùnulla avremo poi da temere.

Va’, mia adorata: non temere, edaspetta fiduciosa il ritorno mio e diMico.

Il fuoco era stato in quel momentosospeso da parte dei veneziani.

– È tempo – disse Muley. – Mico, ame!...

Ora che i lampi delle artiglierie nonilluminavano più la pianura, i dueaudaci potevano inoltrarsi inosservati alridotto. I turchi però avevano continuatoil loro fuoco, ma battendo i bastioni e le

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torri della città, non vi era pericoloalcuno.

Muley-el-Kadel e l’albanese sigettarono in mezzo ad una piantagione difichi d’India, che si prolungava verso ilridotto, e si misero in marciarapidamente, tenendosi perfettamentesicuri. Attraversata la piantagione senzaalcun allarme, si trovaronoimprovvisamente dinanzi al fossatoentro cui era andato a stramazzare ilcavallo d’Haradja. Al di là vi era unascarpata difesa da un trincea sfondatadalle cannonate.

– Fuori la spada – disse Muley aMico.

Servendosi del cavallo come di ponte

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attraversarono il fossato, che erapiuttosto largo in quel luogo, e siarrampicarono fino alla stecconata.Stavano cercando un passaggio fra tuttiquei legnami, quando un’ombra sorseimprovvisamente dinanzi a lorochiedendo: – Turchi o cristiani?

– Inviati di Alì Pascià – risposeprontamente Muley-el-Kadel.

– Avanzatevi, ma prima aspettate cheravvivi la miccia del mio archibugio.

Inizio

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UN’ALTRA SFIDAIl turco si era messo a soffiare sulla

miccia che era quasi spenta, illuminandoa poco a poco il suo crudele viso digiannizzero. Muley-el-Kadel, dopoessersi ben persuaso che non aveva altricompagni nella guardia, sussurròall’albanese una parola. Il montanaro,lesto come i lupi delle sue montagne, erasubito piombato sul turco, e lo avevastretto al collo strozzandogli di colpo lavoce.

Avrebbe potuto accopparlo con unbuon colpo di spada, invece avevapreferito lasciar cadere l’arma, quasiavesse indovinato i pensieri del suo

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padrone. Il forte giannizzero tentò diresistere, ma dovette ben presto cederesotto la gran forza muscolare delmontanaro.

– Devo finirlo, padrone? chiese Mico,quando lo ebbe disarmato ed atterrato.

– No, portalo nel fossato tenendolosempre stretto – rispose il Leone diDamasco. – Un grido e noi saremmoperduti.

– Ho lasciato la spada sulla rampa,signore, ma ho ancora il mio yatagan eglielo punterò alla gola.

Lo afferrò, lo sollevò come se fosseun fanciullo, e discese la scarpata, nonsenza aver prima spenta la micciadell’archibugio. Il giannizzero, mezzo

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strangolato dalla formidabile stretta, nonaveva opposta nessuna resistenza, néaveva mandato alcun grido. Il Leone diDamasco, d’altronde, era pronto afinirlo con una stoccata diritta al cuoreprima che avesse dato l’allarme. Nessunaltro turco era comparso sull’alto delsemisfondato bastione, sicché Muley-el-Kadel e 1’albanese poterono scendereindisturbati nel fossato, e gettare ilprigioniero sul cadavere del cavallo diHaradja. Dall’accampamento turco sisparava sempre furiosamente, ma lepalle oltrepassavano tutto il ridotto,spaccandosi contro il bastione diMalamocco, o mozzando i merli dellenumerose torri. Da parte dei veneziani

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invece nessuna cannonata. Si sarebbedetto che avevano abbandonata la città.Il conte Morosini aveva mantenutascrupolosamente la parola.

– Signore disse l’albanese, vedendoche il giannizzero cominciava amuoversi. – Che cosa vuoi fame diquest’uomo?

– Appoggiagli la punta del tuoyatagan alla gola.

– È fatto, padrone.– Ora lascia che prenda una buona

boccata d’aria. Tu stringi troppo, Mico.Non é colpa mia se i figli della

montagna sono più robusti di quellidella pianura.

Il giannizzero, sentendosi pungere la

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gola, dopo quella famosa stretta, avevamandato un lieve grido, che l’albaneseaveva subito soffocato, mettendogli unadelle sue larghe mani sulla bocca.

– Ascoltami bene – gli disse il Leonedi Damasco in buon turco, curvandosisul prigioniero, sempre sdraiato sulcavallo della nipote del Pascià. – Semandi un grido per attirare l’attenzionedei tuoi compagni, tu non uscirai piùvivo da questo fossato.

– Tu non sei un mussulmano, dunque?chiese il giannizzero, con voce strozzata.

– Ciò non ti deve riguardare – risposeil Leone di Damasco. – Rispondi invecealle mie domande. È morta la nipote delPascià?

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– No, però la sua ferita sembra bengrave. Quella cagna di cristiana édunque invincibile? Vorrei provarla io.

– Ti passerebbe da parte a parteanche se hai l’armatura. Dove si trova?

– In una casamatta.– È Metiub che la cura?– Sì, il capitano d’armi.– Dove ha presa la stoccata?– Sotto l’ascella destra. Se la lama

fosse passata a sinistra, io credo chedella nipote del Pascià non se neparlerebbe più.

– In quanti siete nel ridotto?– In venticinque, oltre il capitano e la

castellana d’Hussiff, Ora che ho parlato, che cosa vuoi fare di me?

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– Lasciati imbavagliare e legare senzaprotestare rispose il Leone di Damasco.– Mico, sbrigati!...

L’albanese saltò addosso alprigioniero, gli chiuse la bocca con unfazzoletto di seta nera, poi con dellesottili corde, delle quali si era primaprovvisto da uomo previdente, gli legòstrettamente i polsi dietro al dorso e allegambe.

– Non cercare di fuggire disse ilLeone di Damasco al prigioniero, cheera rotolato in fondo al fosso. Abbiamoaltri venti compagni dispersi per lapianura, e non potresti andare moltolontano.

Ciò detto risalì la scarpata insieme

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all’albanese, il quale si era impadronitodell’archibugio del prigioniero.Riattraversata la stecconata, presso laquale si trovava una colubrina venezianasmontata, sostarono guardandosi benintorno, temendo, e con ragione, che vifossero altre sentinelle.

– Nulla Mico? – chiese il Leone,sottovoce.

– Nulla padrone.– Dove si troverà il ridotto che serve

da rifugio ad Haradja? Non vedobrillare nessun lume.

Stava per avanzarsi, quandol’albanese lo trattenne violentemente.

– Signore, – disse – il fuoco dei turchié cessato. Che tenti, Ai, di lanciare

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qualche colonna all’assalto del ridotto?Sarebbe la fine della nostra impresa,

poiché i veneziani sarebbero costretti ariprendere il loro, e le palle non hannoocchi per distinguere gli amici dainemici.

– Affrettiamoci, padrone.Attraversarono una seconda

stecconata, anche quella tutta sfondata,coi gabbioni sventrati, e scesero unagradinata la quale doveva certamentecondurre alle casematte. Già eranogiunti felicemente in fondo, quando uncolpo di cannone rimbombò sul bastionedi Malamocco. Era il segnale dellaritirata.

Qualche cosa di grave doveva in quel

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momento accadere, per indurre il conte afar fuoco.

– Partita perduta – disse il Leone diDamasco, con collera. – Se nonfuggiamo saremo presi fra due fuochi, enon so chi di noi giungerà vivo aCandia.

– Aspetta, padrone – disse l’albanese.– Che le palle ci ammazzino, siano

veneziane o turche?– Alla notte anche i proiettili

diventano ciechi. Vi é qui una casamattache é stata un po’ sfondata dallecolubrine, ma che pure ci servirà, tantopiù che non vi é nessuno dentro.

– Ne sei persuaso?– C’é la miccia dell’archibugio che

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brucia, e qualche cosa si può semprevedere.

Le cannonate ormai si succedevanofuriose. Mentre i veneziani facevano deitiri diretti, i turchi sparavano collebombarde, onde evitare di colpire ilridotto. Muley-el-Kadel e l’albanesedopo d’aver discesa un’altra scarpata, sitrovarono dinanzi ad un piccolo antro,costruito in mattoni. Mico soffiò sullamiccia, si accertò che non vi fossenessuno ed entrò risolutamente, bendeciso a fucilare il primo turco che gli sifosse parato dinanzi.

– Solo paglia – disse. Potremoattendere che il duello d’artiglieriacessi, senza correre troppi pericoli.

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Cristiani e mussulmani si stancherannodi sprecare polvere, e chissà che alloranon si presenti una buona occasione percompiere il nostro progetto.

– Entra – disse Muley.L’albanese soffiò nuovamente sulla

miccia e mostrò al padrone la casamattaingombra solamente di paglia e di pezzidi palizzata.

– Nessuno – disse l’albanese.– Si ode però parlare.– Sono i turchi che occupano le

casematte vicine.– Non poter approntare una mina e

farli saltare tutti!...– Non abbiamo polvere, signore.– Lo so: ascoltiamo.

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I turchi parlottavano fra loro a voceabbastanza alta per poterli udireattraverso la parete della casamatta.

– Etiub, – diceva uno – dovevamoscappare, malgrado le cannonate.

– Stupido – rispose un altro. – Quantidi noi saremmo giunti al nostro campo? Iveneziani hanno delle colubrine chevalgono meglio delle nostre.

– Ed anche le spade.– Perché dici questo, Jussif?– Non hai veduto come la cristiana ha

disarcionato la nipote del Pascià.– E proprio terribile quella donna?– Puoi dire che é invincibile. A

Famagosta l’ho veduta io ferire il Leonedi Damasco, che rappresentava la più

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famosa scimitarra dell’impero.– Il figlio del Pascià che poi é

diventato suo sposo?– Proprio quello.– Che non si possa ucciderla?– Provati tu.– Non mi sento in grado.In quel momento una palla di

colubrina, sparata dai veneziani, presedi traverso il muro che divideva le duecasematte, ed i due turchi, chebruciavano un pezzo di candela, ed ilLeone di Damasco e l’albanese sitrovarono di fronte. La muraglia eracaduta con gran fragore senza peròcausare danni alle quattro persone,poiché le volte avevano resistito. I due

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turchi vedendo quei due guerrieri cheindossavano corazze ben diverse daquelle usate dai soldati del Sultano, nonavevano indugiato ad estrarre lescimitarre ed a slanciarsi attraversol’apertura.

– Chi siete? – avevano chiesto, convoce minacciosa.

Mico aveva puntato risolutamentel’archibugio contro di loro, non essendola miccia ancora consumata, dicendo: – Arrendetevi o siete morti!...

Il Leone di Damasco aveva già laspada in mano e si teneva pronto adaiutare il fido albanese. I duemussulmani si guardarono un momento,poi lesti come scoiattoli, si

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precipitarono fuori dalla casamatta,urlando:

– Alì’armi!... I veneziani!...– Gambe, Mico – disse Muley-el-

Kadel. – Ormai siamo scoperti, e se cipiombano addosso gli altri ciuccideranno, poiché devono esserealmeno trenta.

Non meno lesti dei due mussulmani, sierano pure slanciati fuori della lorocasamatta, dandosi ad una fugaprecipitosa.

I turchi delle altre casematte, conMetiub alla testa, cominciavano adaccorrere, chiedendo:

– Dove sono? Dove sono?Muley-el-Kadel e l’albanese salirono

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di corsa la scarpata e andarono ad urtarecontro un cavallo che era legato ad unpalo, e che udendo le cannonate, facevasforzi disperati per fuggire.

Era quello di Metiub? Era probabile.I due cristiani, vedendolo ancora

sellato, non ebbero che un pensiero solo.– Sali dietro di me, Mico!... gridò il

Leone di Damasco, mentre una palla, od’archibugio o di pistola gli fischiavaagli orecchi.

– Sì, padrone, – rispose l’albanese – ma lascia prima che scarichi questabocca da fuoco finché vi é ancora dellamiccia.

– Sbrigati!...I turchi erano usciti dalle casematte, e

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si preparavano a dare la caccia aifuggiaschi.

Mico sparò il suo colpo, il solo,poiché non aveva munizioni, e fu seguitoda un grido. Qualcuno era caduto. IlLeone di Damasco, tagliata la corda, erabalzato in sella al destriero,stringendolo fortemente colle ginocchia.Mico, con un gran salto, salì dietro dilui, dicendo:

– Via, padrone!...I turchi non usano speroni servendosi

di staffe larghe, di forma quasi quadrata,che hanno un angolo assai tagliente.

Bastò che Muley-el-Kadel premesse,perché il cavallo spiccasse un gransalto, sfondando d’un colpo la vecchia

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palizzata. Degli uomini, saliti sul ridottoda qualche altra via, si erano gettatidinanzi ai fuggiaschi, agitando lescimitarre ed urlando ferocemente:

– A terra i cristiani!...Erano cinque o sei non armati,

fortunatamente, d’archibugi. Il Leone diDamasco e l’albanese fecero cadere suiloro elmetti in pochi istanti, una talegragnola di colpi, da gettarne subito aterra tre o quattro. Gli altri, spaventati,si erano dati alla fuga urlando:

– I cristiani fuggono!...I guerrieri di Metiub accorrevano, ma

ormai il cavallo, non trovando piùostacoli dinanzi a sé, si era slanciato giùdalla scarpata, niente spaventato, in

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apparenza, dalle palle che i venezianicontinuavano a lanciare dal bastione diMalamocco.

– Padrone!... – gridò l’albanese. – Noi andiamo incontro alla morte.

– Aggrappati ben saldo a me e nonaver paura. Non abbiamo da percorrereche cinquecento passi …Ah!...

Su tutte le torri settentrionali diCandia si erano improvvisamente accesidei grandi falò, i quali proiettavano unaluce abbastanza viva sulla pianura, perdistinguere un cavaliere. Il conteMorosini aveva mantenuta la parola.

– Mico!... – disse Muley-el-Kadel,lanciando il cavallo a corsa furiosa. – Urla forte: «Noi siamo cristiani».

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I veneziani, come se avesseroscoperto qualche grave pericolo,continuavano a sparare, ed i turchifacevano altrettanto, colle loromaledette bombarde. Le palle di pietramussulmane cadevano in gran numerosulla pianura che si stendeva dietro alridotto, e dopo d’aver tracciato,nell’aria oscura, una scia di fuoco,scoppiavano come bombe appena sentital’umidità della terra. Il maggior pericoloera da quella parte, tuttavia i veneziani,vedendo quel cavallo avanzarsipotevano far tuonare gli archibugi deglischiavoni che stavano a guardia delponte levatoio.

– Urla, Mico!... disse il Leone di

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Damasco, raccogliendo le briglie epungendo ferocemente il poveroanimale.

Due grida si alzarono potenti,dominando, per un istante, il fragoredelle colubrine e delle bombarde: – Siamo cristiani!...

Un istante dopo il fuoco da parte deiveneziani cessava, mentre sulle terrazzedelle torri venivano gettate nuove traviper alimentare i falò. Il cavallo, guidatoda uno dei più famosi cavalieridell’Asia Minore, galoppava fra le palledi pietra scoppianti, evitando la morteper un puro miracolo. I proiettilicadevano a dozzine, con un ronfopauroso, toccavano la terra, correvano

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per qualche centinaio di metri, poisaltavano, mandando schegge in tutte ledirezioni. Erano schegge infuocate chemostravano ancora bagliori sinistri,come se fossero state lanciate da unvulcano anziché da un pezzod’artiglieria.

– Via!... Via!... gridava Muley-el-Kadel, facendo uso, e moltobarbaramente, delle staffe taglienti.

– Cristiani!... Cristiani!... continuavaintanto a urlare l’albanese, che avevauna voce fortissima.

Il cavallo, guidato da mani sicure,attraversò la zona pericolosa collavelocità d’un proiettile, e salvo,miracolosamente coi due uomini che

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portava in sella, si precipitò finalmentesul ponte levatoio del bastione diMalamocco, dove fu subito fermatodagli schiavoni. Un momento dopo lecolubrine riprendevano il loro fuoco,battendo la pianura che si stendeva al dilà del ridotto, gagliardamente. Ilcapitano generale che sorvegliava i suoiartiglieri, era subito accorso insiemealla duchessa la quale aveva già datempo lasciata la sicura torre, in preda aprofonde angosce.

– Vivo!... – esclamò il conte. – Bisogna dir che la Croce vi ha protetto.

Muley-el-Kadel era balzato a terra esi era avvicinato a sua moglie,stringendosela al petto.

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– Come vedi, – disse il forteguerriero noi siamo ritornati. Sono imussulmani che muoiono più facilmenteche i cristiani.

– Sei passato fra una pioggia di fuoco,Muley – rispose la duchessa, con voceun po’ tremante. – Se qualche palla tiavesse colpito?

– Ma, come vedi, sono tornato ancoravivo per dirti che Haradja, a quanto hopotuto capire, é stata toccata da tegravemente.

– Non é morta, però – disse il conte.– Quella vipera ha vita troppo dura,

capitano – rispose il Leone di Damasco.– Bisogna inchiodarla contro una paretecon un gran colpo di spada e lasciarvela

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finché abbia esalato l’ultimo respiro.– E quanti sono nel ridotto?– Non più d’una trentina.Non oso lanciare i miei uomini

all’assalto con questa pioggia di palle.Siamo troppo pochi e nessunosostituisce i morti, mentre i turchipossono sempre riceverne daCostantinopoli. Guardate come sprecanoi loro uomini. Tentano di mandare due otre migliaia di uomini alla conquista delridotto.

– E li lascerete giungere? – chiese,con ansietà, Muley-el-Kadel.

Non udite come tuonano le nostrecolubrine? Sono trenta ore che gettano lamorte contro quei cani d’infedeli. No,

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nessuno di quegli uomini, per quanto sisappia che sono coraggiosi, passeràattraverso la nostra pioggia di fuoco.Venite sul bastione. Non vi é pericolo,poiché le palle dei turchi non giungonoche di rado fino alle batterie.

Dopo d’aver attraversata una enormenuvola di fumo, che la mancanza quasiassoluta di brezza notturna mantenevaquasi immobile, il capitano generale, laduchessa ed il Leone di Damasco,giacché l’albanese si era allontanato perricoverare il cavallo, si trovarono sullospiazzo dell’imponente bastione, ilquale era considerato, per la suarobustezza e la sua vastità, come larocca di Candia.

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Due compagnie d’artiglieri facevanoun fuoco furioso, non lasciando lecolubrine inoperose nemmeno un istante.Scaraventavano palle su palle controuna gigantesca massa oscura che si erastaccata dalle trincee turche e che si eraslanciata a gran corsa attraverso latenebrosa pianura. Erano certamente deimarinai di Alì Pascià che correvano alsalvataggio di Haradja. Quanti erano?

Due o tremila per lo meno, secondo ilgovernatore generale. Disgraziatamentequei coraggiosi, pur sapendo di andareincontro ad una morte quasi sicura,spaventati dalla pioggia di palle che liprendeva di fronte, non facevano grandiprogressi. Ad ogni scarica delle

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colubrine del bastione si vedevano leloro linee aprirsi e non rinchiudersi chedopo molto tempo.

– Che possano giungere? – chiese laduchessa al conte.

– È impossibile, e non ci vuole che unAlì Pascià per spingere tanti uominicontro la distruzione. Le nostre pallecadono fitte, e devono fare orrendestragi fra quei disgraziati.

– Che accorrano in aiuto i giannizzeridel Vizir?

– Il generalissimo é troppo pmdenteper sacrificare le sue migliori forze alsalvataggio d’una trentina d’uomini, sitratti pure di portare via la castellanad’Hussiff – rispose il conte. –

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Guardate!... I turchi non possono piùsostenere il nostro fuoco e scappano.Buone bestie le colubrine perammazzare la gente!...

Infatti gli ottomani, dopo di aversopportato per più di un ora quel fuocoinfernale che li decimava, spaventatidalle enormi perdite subìte, si eranodecisi a rinunciare all’impresa.

Il ridotto era ancora troppo lontanoper raggiungerlo, e sotto quella terribilepioggia di palle.

– Lo sapevo già prima – disse ilcapitano generale al Leone di Damasco.– Non si sfida impunemente il fuoco ditrenta colubrine, quando queste sonoservite dai migliori artiglieri della

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Serenissima.– Che non tornino all’assalto?– Per ora non credo, Muley.– Che cosa sarà di quei trenta uomini

rinchiusi nel ridono? – chiese laduchessa.

– Io spero che domani sarannoventinove, se sono proprio trenta – disseil Leone di Damasco, con uno scattoimprovviso.

– Perché?chiesero ad una voce ilcapitano generale e la duchessa.

– Per la morte del Profeta, la sfidanon é ancora finita. Metiub deve battersicon me, e se vorrà uscire dal ridottodovrà ben provare anche la tempra dellamia spada, come Haradja ha provato

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quella di mia moglie.– Volete battervi con quei traditori? –

chiese il conte. Io non mi fiderei,Muley-el-Kadel.

Conosco i miei compatrioti, signorconte. In fondo sono tutti un po’cavallereschi e, sfidati, non si tiranoindietro. Spiegate, domani mattina, labandiera bianca sul bastione perchiedere una tregua, e voi vedreteMetiub uscire dal ridotto. Lo farete?

– Sì, Muley.– Allora aspettate.– Che cosa vuoi fare, mio signore? –

chiese la duchessa con ansietà.– Rimettere in libertà il cavallo di

Metiub – rispose il damaschino.

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L’animale tornerà subito al ridotto, edomani lo rivedrò col capitano d’armi insella.

Questi cavalli della steppa sentono illoro padrone a grandi distanze, e sannoritrovarlo.

Si lanciò fra la nuvola di fumo escomparve. I pezzi, quantunque i turchisi fossero ripiegati versol’accampamento, dopo d’aver lasciato lapianura brulla, bruciata dal sole,continuavano a sparare. Le bombardeinvece avevano cessato di fulminare ilbastione.

– Che cosa dite, signor conte? – chiese la duchessa, mentre tutta labatteria vomitava fuoco.

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Che io spero di poter far prigionierala nipote di quel cane di Pascià, odalmeno di farvi rendere vostro figlio.

– Il mio Enzo!... Un cambio?– Sì, duchessa.– Accetteranno?– Chi lo sa? Io lo spero. Nessuno

andrà a levarli dal ridotto e sarannocostretti, presto o tardi, ad arrendersi. Ilridotto non si prende dinanzi alle bocchedelle nostre colubrine. Andate pure ariposarvi, miei valorosi amici, chenull’altro succederà in questa notte.Domani poi chiederemo anche noi unatregua ai turchi per rimettere in campo laseconda parte della sfida. Badate però,Muley, di venire a battervi di fronte al

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bastione. Basta tradimenti.Li accompagnò fino alla base della

gradinata, poi tornò fra i suoi artiglieri,essendo sempre stato uno dei miglioripuntatori della flotta veneziana. Il fuocosi era molto rallentato. Le colubrinesparavano solo di quando in quando uncolpo, per far capire ai mussulmani chevi era ancora polvere in abbondanza inCandia, e che il presidio si trovavapronto a ricevere una seconda volta seavessero ritentato l’attacco del ridotto.Alì’indomani, allo spuntare del sole, sututte le più alte torri della cittàsventolavano delle grandi bandierebianche, segnale di tregua.

I turchi vedendole, avevano sospeso

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il fuoco, poi un cavaliere giunse a corsasfrenata dinanzi al bastione, chiedendoaltezzosamente se la città si arrendeva.

Muley-el-Kadel, vestito da guerriero,dopo d’aver rassicurata la duchessa, erabalzato sul proprio cavallo e gli eramosso incontro tenendo la spadasguainata.

– Chi sei e che vuoi? – chiese il turco.– Sono il Leone di Damasco.– Il rinnegato.– Ciò non ti riguarda.– E domandi?– Che i turchi sospendano il fuoco

finché la sfida si sia compiuta.– Non é terminata?– No, perché solo la donna cristiana

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si é misurata con Haradja, ed ora tocca ame provare la punta della spada delcapitano d’armi del castello d’Hussiff.

– È stata ferita la nipote del Pascià? – chiese il turco.

– Sì, ma é ancora viva. Va’ dal Vizir adirgli che se non ci concede questatregua, prima che il sole tramonti nonrimarrà pietra su pietra del ridotto, cosìli uccideremo tutti, anche se sonorifugiati dentro le casematte.

Il volto del turco si era fatto oscuro.– Uccidere una donna ferita – disse

poi.– Una donna che ci aveva preparato

un infame agguato. Non era con unascorta che doveva venire.

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– Forse il Leone di Damasco haragione – rispose il turco.

– Nei duelli ci vuole della lealtà.Orsù, andrò a compiere la mia missione.Fra cinque minuti sarò di ritorno. – aspetto qui.

Il cavaliere era appena partito,quando il Leone di Damasco videscendere da una rampa del ridotto ilcapitano d’armi del castello d’Hussiff,coperto d’acciaio, e colla spada inpugno, una lama diritta e non già unascimitarra. Montava il suo cavallomesso in libertà alla notte, e tornatofedelmente al suo padrone. Il magnificostallone, con pochi slanci, giunse dinanzial Leone di Damasco, arrestandosi quasi

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di colpo.– Che cosa vuoi, tu? – chiese Muley-

el-Kadel.– Vendicare la mia padrona – rispose

Metiub.– Ti aspettavo, ma bada che il Vizir

non ci ha ancora accordata la tregua.– Ci batteremo sotto le palle di

cannone. Il Leone di Damasco non puòtemerle.

– Perché dici questo?– La Croce ormai lo protegge – disse

Metiub, con tono ironico.– E tu hai la protezione del Profeta –

rispose Muley-el-Kadel. – Vedremo sesarà più valida la prima o la seconda.

– Speri dunque di uccidermi?

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– Sì, colla protezione della Croce.– Ah!...– Sei pronto?Il capitano d’armi si era voltato verso

gli accampamenti turchi. Aveva vedutoun cavaliere galoppare per la pianura edavanzarsi verso la città, portando sullalancia una bandiera bianca.

Non era un cavaliere qualunque, bensìun jutbasci, ossia colonnello.

– Aspettiamo, Leone di Damasco – disse Metiub. Nell’attesa non perderainulla, poiché se anche tutte le bocche dafuoco mussulmane e cristianeriprenderanno la loro musica, noi cibatteremo egualmente. Un capitanod’armi non può ritirarsi da una sfida

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senza essere per sempre disonorato.– Io ti aspetto – rispose Muley-el-

Kadel.Inizio

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IL TRADIMENTO TURCOIl colonnello, un bellissimo uomo, che

aveva due baffi giganteschi, e che eravestito tutto in seta verde con ricamid’oro vistosi, avvicinò i due cavalieri.

– La tregua accordata – disse. – Leleggi dell’onore sono sacre anche pernoi.

– Coi tradimenti – gridò il Leone diDamasco. Come si trovavano quei trentauomini nel ridotto, armati di archibugi?Sapresti tu dirmelo?

Io no. Sarà stata una cattiva idea delgrande ammiraglio per salvare suanipote. Se vero, ha fatto male. Voletebattervi? Io servirò da testimonio

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insieme ai veneziani che vi guardanodall’alto del bastione.

Poi aggiunse, con un certo rimpianto:– Turchi contro turchi!... Era scritto.– Largo!... gridò il Leone di Damasco.Il colonnello si trasse in disparte, per

non impacciare le mosse dei duecavalieri, poi gridò:

– Alì ’attacco! ..Vedremo se sarà piùvalida la protezione della Croce o delProfeta!...

Muley-el-Kadel aveva fatto fare alsuo cavallo un gran salto, ed avevapreso il largo, mentre invece Metiub erarimasto immobile sul suo destriero,colla spada alzata. Muley fececaracollare il cavallo per qualche

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minuto, stringendogli i fianchifortemente, poi si precipitò contro ilcapitano d’armi. Il colonnello, fermo acinquanta passi, assisteva impassibilealla lotta. Sul ridotto nessun uomo eracomparso, forse per paura dellecolubrine veneziane ben cariche amitraglia, e che avevano le bocche volteverso quella rovina. Migliaia diassediati invece si erano accumulati suibastioni, alzando, sulla punta delle lorospade, gli elmetti.

Il Leone di Damasco, sicuro delproprio cavallo, si era scagliatofuriosamente contro Metiub, urlando:

– Chiama il tuo Profeta in aiuto,perché ti ucciderò!...

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– No, sarò io che ti spaccherò il cuoreper vendicare la mia padrona – avevarisposto il capitano d’armi, facendoinalberare il suo stallone.

– Bella padrona!... La chiamano latigre d’Hussiff.

– Di ciò che dicono sul conto dellanipote del Gran Pascià io non mi occupo–rispose Metiub, facendo alcune finte.

Il Leone di Damasco lo lasciò fare,poi lo incalzò furiosamente, e le duespade mandarono le prime scintille. Icavalli, guidati abilmente, ora sislanciavano ed ora retrocedevano,obbedendo più alla pressione delleginocchia dei cavalieri, che alle briglie.Se non avessero avuto il morso, si

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sarebbero, probabilmente, attaccatianche loro, appartenendo a razzediverse.

Per qualche minuto il capitano d’armied il Leone di Damasco si scambiaronodelle stoccate, sempre prontamenteparate, e che non avevano forse altroscopo che di far scoprire il giuoco deicombattenti, poi tornarono ad investirsicon rabbia estrema, urlando: – Paraquesta!...

– E prendi questa!...– Ah!... La Croce ti protegge!...– E tu chiama in tuo aiuto il Profeta.– Prendi, rinnegato!...– A te!...Il Leone di Damasco, frettoloso di

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finirla, aveva attaccato a fondo, edaveva vibrato una tale stoccata aMetiub, che per poco non lo avevagettato d’arcione.

– Per la morte della Croce!... urlò ilcapitano, rimettendosi però prontamentein guardia. – Chi ti ha insegnato questocolpo meraviglioso?

– La cristiana.– Sempre Capitan Tempesta!... Che

cosa non sa quella donna in fatto discherma? Se non avessi avuto la corazzami avresti spaccato il cuore.

– Lo credo – rispose Muley-el-Kadel,continuando a fare delle finte.

– Pagherei cento zecchini per farmeloinsegnare.

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– Sarà per un’altra volta.– Ma ora ti farò io il mio giuoco.– Giuoco mussulmano!... Non vale

contro quello italiano e francese.– Ah!... La vedremo!...Aveva fatto retrocedere il cavallo, poi

era tornato a slanciarsi tirando stoccatesu stoccate. Nemmeno una, con granstupore del turco, aveva toccato lacorazza del Leone.

– Sei invincibile dunque, tu? – urlò. – Eppure ho giurato alla mia padrona diucciderti, e ti ucciderò, dovessi cadereanch’io morto.

In quel momento, fra i veneziani chesi pigiavano sui bastioni, si alzò unavoce: – Muley, ricordati del colpo

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diritto!...Quel grido l’aveva mandato la

duchessa. Le ultime parole vibravanoancora quando il capitano d’armi siaccasciò sul suo cavallo, lasciandosisfuggire la spada e mandando unaimprecazione. Il Leone di Damasco, conuna stoccata diritta, una botta segretacertamente, che non aveva parata, gliaveva spezzata la gorgiera piantandoglila lama nel collo. Un grande urlo si eraalzato sui bastioni.

– È vinto!... È vinto!... Viva il Leonedi Damasco!...

– Bravo mio signore!... – avevagridato la duchessa.

Metiub, malgrado la stoccata che

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poteva averlo colpito mortalmente, siera mantenuto ancora in sella. Il sanguecominciava a sgorgare fra le lamined’acciaio, macchiando la lucida corazza.Muley-el-Kadel scese di sella e siavvicinò all’avversario, dicendogli:

– Ti arrendi?La risposta fu data dallo stallone. Sia

che avesse compreso che il suo padroneera ferito, o che avesse obbedito allapressione delle ginocchia del ferito,s’inalberò, girando su se stesso sullezampe deretane, poi partì a corsasfrenata verso il campo mussulmano.Metiub si era aggrappato al robustocollo e resisteva ferocemente allescosse, pur rantolando per lo spasimo. Il

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colonnello turco si era avanzato verso ilLeone di Damasco, il quale pareva sipreparasse ad inseguire il fuggiasco,quantunque non avesse ormai alcunasperanza di raggiungerlo.

– Fa’ grazia a quel vinto – gli disse. – Forse tu l’hai ucciso.

– Ma non si é arreso – rispose Muley-el-Kadel.

– La colpa é del suo cavallo. Voi nonsiete più leali!... Venite a sfidare e poifuggite od ordite dei tradimenti.

Un cavaliere era intanto uscito dalbastione e si avanzava a gran galoppo,facendo sprizzare lampi abbagliantidalla sua corazza dorata, e che il solepercuoteva in pieno.

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Era il conte Morosini.– Signore – disse, con voce acre, al

turco, quando gli fu vicino. – Qui siabusa troppo della nostra bontà. Perchénon avete costretto il ferito adarrendersi?

– È fuggito come un lampo – risposeil colonnello. Chi avrebbe potuto,d’altronde, fermare quello stallone?Avrebbe rovesciato subito il mio arabo.

– E quegli uomini chi li ha fattinascondere nel ridotto?

– Forse il Pascià, il quale si divertead usare dei dispetti al Vizir permetterlo in mala vista a Costantinopoli.

– V’incarico d’una missione.– Dite, capitano.

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– Andate a dire ad Alì Pascià che sevuol riavere sua nipote, non ha daaccettare che una sola condizione. Serifiuta, udite bene le mie parole, acannonate od a colpi di mina faròspianare al suolo il ridotto, emassacrerò quanti si trovano nellecasematte.

– Continuate, signore – disse il turco.Il Pascià tiene nelle mani il figlio

della cristiana che ieri ha atterrataHaradja.

– L’ho udito raccontare.– Dite al Pascià che se consegnerà

nelle mie mani il bambino, sua nipotepotrà uscire dal ridotto.

– Viva?

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– Viva, poiché si dice che la feritariportata non sia molto grave.

Il volto del turco si era illuminato.– Voi mi assicurate che non é ancora

morta?– No – disse Muley-el-Kadel,

avvicinandosi. – La scorsa notte eraancora viva, ma nel ridotto non potràavere le cure necessarie.

– Mi accordate dieci minuti? – chieseil turco.

– Anche venti – rispose il conte. Sedopo non vi vedrò ricomparire, tutte lecolubrine del gran bastione spazzerannoil ridotto, e finche avremo palle epolvere, e ne abbiamo ancora inabbondanza, ringraziando Iddio, lo

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manterremo.– Non mi sparerete alle spalle?– Non siamo mussulmani, noi – disse

il conte, con disprezzo. – Siamo uominidi guerra che ci battiamo lealmente.Andate, colonnello.

Il turco, un po’ confuso, piantò lestaffe nel ventre del suo arabo, e partìcon una furia indiavolata.

– Signor conte – disse Muley-el-Kadel, con una viva apprensione. Che ilBascià accetti un tale scambio?

– Ne sono sicuro – rispose il capitanogenerale di Candia. – Ama troppo suanipote per lasciarla perire sotto i colpidelle nostre colubrine.

– Che non ci preparino, i turchi,

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qualche altro tradimento?– Tutti gli artiglieri sono dietro ai

pezzi, ed hanno già ricevuto l’ordine difar fuoco senza misericordia. Nonoseranno, ve l’assicuro, slanciarsiattraverso la pianura, dove verrebberoschiacciati dalle nostre palle. Sonoancora troppo indietro colle loro operedi assedio, quantunque sia trascorso unanno. Volete avanzare verso il ridotto?

– Purché non ci sparino addosso!...– Ed allora le trenta colubrine, che ho

fatto caricare a mitraglia, civendicheranno.

Il valoroso veneziano aveva spronatoil cavallo, un po’ magro a dire il vero,poiché il fieno scarseggiava in Candia, e

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si diresse verso il ridotto sui cuibastioni non si vedeva apparire nessunapersona. Ne fece il giro senza riceverealcun colpo d’archibugio, poi tornò,seguito dal Leone di Damasco, verso ilbastione di Malamocco. Stava perraggiungerlo, quando un galoppo furiosolo arrestò. Quaranta o cinquanta cavalli,guidati da pochi mussulmani,attraversavano la pianura. Dinanzi vi erail colonnello il quale teneva fra le suebraccia un fanciullo.

– Mio figlio!... aveva gridato Muley-el-Kadel. Dopo un anno lo rivedrò,finalmente!...

Il piccino era vestito alla veneziana enon già alla turca, con vesti di seta

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azzurra e pizzi. I suoi capelli bruni nonerano coperti, ed essendo piuttostolunghi, svolazzavano liberamente.

Il Leone di Damasco ed il contemossero incontro al colonnello, mentre itrenta cavalli s’arrestavano dalla parteopposta del ridotto.

– A voi, signore – disse il turco,dandogli il fanciullo. – Leone diDamasco, io ho mantenuta la miapromessa. Addio!...

Ciò detto il colonnello ripartì ventre aterra, mentre partivano pure i trentacavalli montati da altrettanti cavalieri,gli assediati del ridotto.

Un uomo reggeva, sulla larga sellaottomana, Haradja.

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– Enzo!... aveva gridato Muley-el-Kadel, fissando il piccino, il quale loguardava con due occhi che parevanospaventati.

– Non conosci più tuo padre?L’aveva preso fra le braccia e se l’era

accostato al viso, tempestandolo di baci.Intanto i turchi si allontanavano a

corsa sfrenata, come se avessero pauradi qualche tradimento. Quella fugaprecipitosa gettò uno strano sospettonell’animo del conte.

– Muley – disse. – Era molto che nonvedevate il piccino?

– Un anno e più, conte.– È proprio vostro figlio?– Chi volete che sia?

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– Corriamo dalla duchessa, Muley.Lanciarono i cavalli al galoppo, ed in

pochi istanti si trovarono sul pontelevatoio del bastione di Malamocco. Laduchessa, seguita da uno stuolo dicapitani, si era precipitata incontro aicavalieri gridando:

– Enzo!... Enzo!... Figlio mio!...– A te – disse il Leone di Damasco,

porgendole il piccino. Finalmentel’abbiamo avuto.

Eleonora l’aveva presostringendoselo subito sul seno egridando: – Parla Enzo, alla tua mamma.Fammi udire la tua voce. È troppo tempoche non l’odo più!...

Il piccino guardò la donna coi suoi

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grandi occhi neri, pieni di terrore, comeaveva guardato Muley, e rimase muto.

– Non mi comprendi più? – gridò laduchessa. – Quando io ti ho lasciato tuparlavi.

– Signora, – disse il conte Morosini – siete ben certa che sia vostro figlio?

– Dio!... Conte!...– Guardatelo bene.– E trascorso un anno.– Gli occhi, i capelli, guardateli bene,

signora.– Conte!...Il capitano generale per tutta risposta

si tolse dalla cintura il pugnale e lo fecebrillare dinanzi agli occhi del piccino,dicendogli in buona lingua turca:

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– Parla o ti uccido!...– Sidi aman2 – aveva risposto il

fanciullo.Un urlo si era alzato da ogni parte:– È un bambino turco!...Poi seguirono scoppi d’ira violenta

fra i capitani, mentre la duchessa,deposto a terra il meschino, con un gestod’orrore, rompeva in singhiozzi.

– Ancora una volta ci hannomistificati quei miserabili!... gridavano icapitani.

– Appicchiamo questo figliodell’Islam sulla più alta torre diCandia!...

– È troppo.– Questa non é guerra!...

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Il conte Morosini intanto si eraslanciato su per la scala che conducevaalle batterie, ed aveva lanciato unrapido sguardo sulla pianura.

I turchi, che correvano a brigliasciolta, erano ormai lontani più diduemila passi.

– Fuoco su quelle canaglie!... grida. – Distruggeteli tutti.

– I pezzi sono tutti carichi a mitraglia,signore – gli fece osservare un mastropuntatore.

– Non importa, fuoco, fuoco!... Lepalle le lancerete dopo.

Le trenta colubrine tuonarono con unfragore spaventevole, facendo sussultarel’intero bastione, ma solamente due

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uomini che si trovavano in coda aifuggenti, si abbatterono insieme alle lorocavalcature. Gli altri erano ormai fuoridi portata pel tiro di mitraglia, e quandole colubrine cominciarono a sparare apalla, erano giunti presso le palizzatedel gigantesco accampamento. Leartiglierie turche, soprattutto lebombarde, si erano affrettate a tuonare,onde sviare l’attenzione dei cannonieriveneti.

– Si direbbe che il Profeta é più fortedella Croce disse il conte Morosini,facendo un gesto di disperazione.

Quando ridiscese dal bastione,Muley-el-Kadel e la duchessa, affrantida quel terribile colpo, non vi erano più.

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Avevano già fatto ritorno alla loro torre,dopo d’aver strappato a Mico il piccolomussulmano che stava per passare unterribile quarto d’ora, e d’averloaffidato ad un capitano. Chi lo avrebbeucciso? Il disgraziato piccino nessunacolpa poteva avere in quell’atrocemistificazione.

Il conte, assai rattristato per quellanuova gherminella giuocatagli da AlìBascià, dopo aver raccomandato ai suoiufficiali di mantenere il fuoco dellecolubrine, seguì la cinta interna delbastione per cercare di consolare i duedisgraziati.

I turchi, lieti orma della splendidariuscita del loro giuoco, sparavano più

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forte che mai, e le palle cadevanonumerose anche dentro la città,completandone la rovina

– Vili!... – mormorò il conte, evitandocon un salto un frammento di palla dipietra, – Festeggiano la loro vittoria!...E non avere le forze sufficienti perassaltarli e distruggerli, o ricacciarlialmeno in mare!... Povera Venezia!...Perduta Cipro, perderà anche Candia,malgrado il nostro valore.

Seguendo sempre la cinta che eradifesa da altissime muraglie, guarnite dimerli in gran parte diroccati, giunse allatorre abitata dal Leone di Damasco edalla duchessa. Mico, all’aperto,ridendosi delle bombe, strigliava

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furiosamente i cavalli bestemmiando.– I tuoi padroni – chiese?– Andate a consolarli – signor conte –

rispose l’albanese. Povera signora! …Il capitano generale quantunque nonfosse più giovane, salì lestamente lastretta scala e giunse al secondo piano.Il damaschino passeggiava furiosamentecome un leone appena chiuso in gabbia,mentre la duchessa, sbarazzatasi dellacorazza, singhiozzava fortemente,appoggiata ad uno dei due lettucci.

– Che cosa dite signor conte di questanuova infamia? … Il capitano generalequantunque non fosse più giovane chieseMuley-el-Kadel con voce roca. … Ilcapitano generale quantunque non fosse

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più giovane Mi vergogno di essere natomussulmano e di aver creduto nelCorano.

– I vostri compatrioti sono deibirbanti – rispose il capitano generale. – Ah!... Quel Bascià!... Eppure io sonoconvinto che un giorno cadrà sotto icolpi della cristianità.

– Siamo stati infamemente giuocati – disse la duchessa, tergendo due grosselagrime. Ed anch’io avevo creduto chefosse il mio Enzo... occhi uguali, capelliuguali, e forse la stessa età. È dunque undemonio quel cane d’un Bascià? Chevenga ad un combattimento con me, sel’osa!...

– Non l’accetterebbe, il vile – rispose

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il conte. – Capitan Tempesta fa troppapaura ai turchi.

– Che cosa faremo noi ora? – sichiese il Leone di Damasco,continuando a passeggiarerabbiosamente, – Lasciarlo nelle manidel Pascià il piccolo Enzo. Dite conte?

Il capitano generale fece un gesto discoraggiamento, poi disse, con voceassai rattristata:

– Come potrei io, Muley-el-Kadel,lanciare i miei uomini contro il campomussulmano e poi addosso alla flotta?Siamo appena ventimila, mentre queicani, che hanno le vie del mare libere,sono diventati nuovamente centomila.Tentereste voi un simile sforzo con

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guerrieri valorosi sempre sì, ma ormaisfiniti dai patimenti, dalle veglie e dallemalattie. Ditemelo?

– No – rispose francamente il Leonedi Damasco. Al vostro posto non miassumerei una così terribileresponsabilità.

– E voi, signora?– No, perché la lotta finirebbe colla

strage generale di tutti i cristiani – rispose Eleonora. – Ma che cosa nevorranno fare di mio figlio?

– Forse un mussulmano, signora – disse in quel momento un uomo, il qualeera entrato silenziosamente, scortatoperò dal fido albanese.

– Nikola!... avevano esclamato, ad

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una voce, Muley-el-Kadel e la duchessa.– Sì, il rinnegato greco.L’uomo di mare s’inchinò un po’

goffamente dinanzi a tutti, poi disse: – Muley-el-Kadel, signora, devocomunicarvi delle buone notizie.

– Parla!... Parla!... gridò la duchessa.– Vi posso assicurare, innanzi tutto,

che vostro figlio non corre alcunpericolo, perché il Pascià lo proteggesempre, malgrado i mormorii dei suoiequipaggi. Si direbbe che l’ama comefosse suo figlio.

– Quel miserabile!... gridò Muley-el-Kadel.

– È già molto, Leone di Damasco – disse il greco. Io, della testa di vostro

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figlio, non avrei dato un mezzo zecchino.– E voi dite che lo tratta bene? –

chiese la duchessa.– Come se fosse il figlio di un

sultano.– Ed a quale scopo?– Chi può indovinare i pensieri di

quella bestia malefica? – disse il greco.– Per ora accontentatevi di sapere,signora, che vostro figlio non correnessun pericolo.

– Ed Haradja?chiese il capitanogenerale.

– Si é presa una magnifica stoccatache la terrà inchiodata nella sua cabinaalmeno tre settimane.

– E Metiub? – chiese Muley-el-

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Kadel.– È giunto al campo più morto che

vivo, ma quell’uomo deve avere la pelleben dura, e malgrado la stoccata che gliavete data nel collo, si assicura che nonmorrà – disse il greco. – Io credo chedopo queste due terribili lezioni, chehanno prodotto una disastrosaimpressione nel campo, i turchi nonoseranno più lanciare delle sfide sotto lemura di Candia. Badate però, signore,ed anche voi, Muley, di non cadere vivinelle mani di quei cani. A partitaperduta, vi consiglierei di darvi unapistolettata nella testa.

– Conosco la crudeltà di queimiserabili, – disse il Leone di Damasco

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– come conosco troppo bene l’odio diHaradja.

– Voi siete l’uomo che ha ilsalvacondotto, é vero?chiese il conte.

– Sì,signor capitano generale – rispose il rinnegato. – Ora ascoltatemi.

– Hai altre notizie da comunicarci? – chiese il Leone, con ansietà.

– E buone, forse. Io ho saputostamane, da un mio amico, purerinnegato, e che abita la campagna, cheda tre giorni si sono raccolte nella radadi Capso delle galere veneziane alcomando di Sebastiano Veniero.

– Il grande ammiraglio dellaSerenissima!... esclamò il conte.

– Sì, capitano generale.

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– Sono molte?– Appena otto, ma tutte nuove, armate

potentemente e rapidissime, avendodoppi equipaggi di galeotti. Voiconoscete l’audacia del grandeammiraglio, e qualche colpo di testacontro il Pascià possiamo aspettarcelo.

Il conte crollò la testa.– Otto contro trecento – disse poi.

Quale spaventevole massacro. Finché laSerenissima non avrà stretto alleanzacon tutti gli stati cristiani, e avrà fattoraccolta di navi spagnole, siciliane,austriache, papali, francesi, genovesi,noi non riusciremo mai ad avere ilsopravvento sul mare. Grande é statal’audacia di Mocenigo, che ha fatto

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sventolare le bandiere veneziane dinanzia Costantinopoli, come grande é stata lasua vittoria ma tutto ciò non é bastato. Èil Pascià che bisognerebbe colpire alcuore, ed allora la potenza navalemussulmana si sfascerebbe.Disgraziatamente Venezia, oggidì, nonpuò, purtroppo, tentare un simile colpo,quantunque nei suoi arsenali si lavorigiorno e notte a costruire nuove galere.

Il Leone di Damasco si era fermatodinanzi alla duchessa, fissandolaintensamente.

– Se io partissi? – disse.– Per dove?– Per la rada. Chi lo sa, con

Sebastiano Veniero tutto si può

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attendere, anche l’arrembaggio dellacapitana del Pascià e la liberazione delnostro Enzo. Lo vuoi, tu, Eleonora?Nikola, che sa dove si trovano ancoratele navi e che ha amici nelle campagne, eMico mi accompagneranno.

I grandi occhi neri della duchessa siilluminarono d’una viva luce.

– Tu vuoi tentare una così pericolosaimpresa? – chiese con voce commossa.

– Sì, Eleonora, tutto io tenterò perstrappare ad Haradja nostro figlio e miopadre.

Pensavo appunto in questo momentoal povero Pascià di Damasco chiuso neisotterranei del castello d’Hussiff. Io nonso se il Veniero, con così poche navi,

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oserà gettarsi contro la flotta del Pascià,ma potrebbe ben assalire e demolire ilcovo di quella trista donna, ora che icapi sono qui al campo. Che cosa ditevoi, signor conte?

– Che non si devono perdere leoccasioni per fare ai turchi il maggiormale possibile. Assalire l’ammiragliadel Pascià, a meno d’un miracolo, nonsarà possibile, ma Hussiff non si trovasulla terra cretese, dove i turchipullulano come le mosche – rispose ilcapitano generale. – Se volete, Muley-el-Kadel, vi darò una scorta di fidiguerrieri per farvi scortare fino alla radadi Capso.

– No, signor capitano generale – disse

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il rinnegato. Tre uomini possonosfuggire agli esploratori turchi; sefossero di più non risponderei della lorovita.

– Battono sempre la campagna gliottomani?

– Sì, signor conte.– Sta a te ora parlare, Eleonora –

disse il Leone di Damasco.– La notte sarà oscura poiché odo il

tuono brontolare – rispose la duchessa.– Parti: sei sempre il Leone di Damascoche i turchi, malgrado tutto, rispettano etemono ancora.

– Lo vuoi, Eleonora?– Sì – rispose la duchessa.– Ma chi veglierà su di te durante la

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mia assenza?– Il capitano generale di Candia –

disse, con voce grave, il conteMorosini.

– Vostra moglie, Muley, é sotto laprotezione della Serenissima.

Grazie, signor conte, e se mi si offriràl’occasione, non solo salverò mio figlio,ma farò pagare ad Alì Pascià le sueinfamie.

– Ve lo auguro. A che ora la partenza?– chiese il conte. Devo awertire i nostriavamposti.

– Lasceremo Candia appena letenebre saranno calate – rispose Nikola.– So dove si trovano le grosse guardieturche, e spero di poterle sfuggire.

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Pregano troppo quella gente!...– Muley – disse la duchessa, con le

lagrime agli occhi. – Sei deciso?– Sì – rispose il Leone di

Damasco,.con accento risoluto. – Lamorte non mi prenderà, Eleonora, e poila mia vita ho sempre saputo difenderla.

– A questa sera – disse il capitanogenerale. Vi farò uscire dal bastione diCavarzere, che non é guardato dai turchi,almeno così sembra. Vi aspetto, Muley.

Inizio

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ATTRAVERSO LE ROVINE DI CANDIAA sera piuttosto inoltrata, quando i

turchi spingevano il bombardamentocolle grosse bombarde, tre uomini,montati su bellissimi cavalli,attraversavano il ponte levatoio delbastione di Cavarzere, il quale era statosilenziosamente abbassato per nonattirare l’attenzione di qualchevolteggiatore dell’armata assediante.

Erano tutti vestiti d’acciaio; avevanospada, mazza ed archibugio appeso allasella; sulle spalle, invece del solitomantello bianco, che doveva proteggerlidall’umidità della notte, ne avevano unonero per meglio confondersi colle

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tenebre. Quei tre audaci che lasciavanola città assediata, mentre potevanotrovare ad ogni momento la cavalleriaturca, scorrazzante sempre per lacampagna, erano il Leone di Damasco,Nikola il rinnegato greco, o meglio,falso rinnegato, e Mico l’albanese. Nonerano che tre, é vero, ma tutti solidi, edecisi a passare anche attraverso unosquadrone.

Come se i mussulmani si fosseroaccorti di qualche cosa, o per sfogare laloro rabbia di aver veduto cadere primala nipote del Pascià e poi Metiub, anchequesti assai popolare come famosalama, quella notte sparavano piùterribilmente che mai.

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Le grosse palle di pietra, lanciate dabombarde che si spingevano moltoinnanzi durante l’oscurità, fino alleultime parallele, e che all’alba, conimmensa fatica venivano ritirate,solcavano le tenebre tutte rosse di fuoco,lasciandosi indietro delle lunghissimecode di scintille che non si spegnevanoche sopra Candia.

Si udivano distintamente cadere suitetti delle case e non già sui bastioni esulle torri, perche i turchi avevanol’abitudine, negli assedi, di terrorizzarespecialmente la popolazione collasperanza che costringesse il comandantedella piazza alla resa.

Se questa manovra era già riuscita

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contro le piccole città, non poteva averesito su Candia, dove si trovavanoancora abbastanza guerrieri per tenere afreno gli abitanti e costringerli adividere con loro tutti gli orrori dellaguerra.

Essendo il bastione di Cavarzere ilpiù lontano dalle linee d’assedio, lepalle non potevano giungere fino là,quindi i tre cavalieri ebbero tutto il loroagio di uscire da Candia e di lanciarsiattraverso la tenebrosa campagna.

– Tu conosci l’isola, Nikola? – chieseMuley-el-Kadel.

– Sì, signore – rispose il rinnegatogreco. – Potrei percorrerla conqualunque tempo ed a qualunque ora,

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poiché era qui che io esercitavo i mieifortunati commerci, rovinati più tardi, daquei cani maledetti.

– Quanto potremo impiegare pergiungere a Capso?

– Non prima di ventiquattro ore noi lapotremo vedere, se i cavalli resisteranno e se non succederanno cattiviincontri.

– Ma la flotta turca ignora che dellegalere veneziane si trovano ancoratenella rada?

– Fino ad ora sì, posso garantirvelo,signor Muley. Il Pascià é persuaso che iveneziani tentino qualche colpodisperato contro la Morea, o un grancolpo di testa contro Costantinopoli,

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come l’aveva così audacemente tentatol’ammiraglio Mocenigo.

– E tu da chi lo hai saputo?– Da un cretese rinnegato che odia i

turchi più di me, perche ha perduto purelui tutta la sua famiglia sotto i colpidelle scimitarre infedeli. Fra noirinnegati abbiamo frequenti rapporti, peraiutarci contro l’oppressore.

– E quel tuo amico ti 5 venuto atrovare sulla galera ammiraglia? chieseMuley-el-Kadel.

– Non ha osato tanto, e mediante unsegno convenzionale ho dovutoraggiungerlo ad uno degli angolidell’accampamento. D’altronde, essendovestito da turco, non poteva correre

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pericolo alcuno. Regna troppaconfusione fra l’armata, e non si ha iltempo di occuparsi di una persona chepotrebbe anche essere una spiapericolosa.

– E questo tuo amico dove si trovaora?

– Nella sua fattoria, mezza diroccata,ma che pure continua a lavorare.

– Lontano dalla rada?– Sei ore di cavallo e forse meno –

rispose Nikola.– Vedi nulla dinanzi a te?– No, signore.– E tu, Mico?– Nessuno per ora – rispose

l’albanese.

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– Per ora, hai detto?– Quei cani spuntano quando meno si

aspettano.– Sguainate le spade, e giacché la via

pare che sia libera, spingiamo la corsa –comandò Muley-el-Kadel.

I tre cavalli, scelti fra i migliori che sitrovavano ancora in Candia, silanciarono al galoppo, mentre le bombeturche continuavano a piovere sulladisgraziata città.

I veneziani, dal canto loro,rispondevano debolmente, poiché nonavendo alcuna comunicazione colMediterraneo, cercavano di fare moltaeconomia delle loro munizioni, collavaga speranza che gli assedianti, che già

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enormi perdite avevano subite senzamolto progredire, vista l’impossibilitàdell’impresa se ne tornassero aCostantinopoli, o che la Serenissima,con una poderosa flotta, accorresse inloro aiuto.

Gravi erano state le perdite subite daquei valorosi che combattevano emorivano pel Leone di San Marco,lontani dai loro superbi palazzi, lontanidalla città meravigliosa del CanalGrande, ma tre volte, ed anche di più,erano state quelle degli ottomani feroci.

I tre cavalieri già si trovavano fuoridella zona pericolosa e si preparavano alanciare i destrieri ventre a terra,quando Nikola, che aveva gli occhi d’un

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vecchio marinaio, trattenneviolentemente il suo, dicendo: – Uominidinanzi a noi.

– Carichiamo a fondo – rispose ilLeone di Damasco, senza esitare un soloistante.

– Allora via! ..E lanciò il cavallo, seguito dal

damaschino e dall’albanese, i qualitenevano tutti la pesante spada in alto,pronti a colpire.

Due cavalieri erano comparsi fra letenebre, ed a loro volta tentavano dicaricare i cristiani.

Con quelle lame che avevano difronte, avevano ben da sudare ad aprirsi

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il passo, se erano soli.– Sotto!... gridò un’ultima volta il

Leone di Damasco. – Accoppiamo queicani!...

I cinque cavalli si urtaronofuriosamente fra uno scrosciare di spadesulle corazze e non furono quelli montatidai cavalieri cristiani che andaronocolle gambe all’aria.

– Il mio avversario é caduto collagorgiera spaccata!... gridò Muley-el-Kadel.

– Spero che almeno questa volta lagola sarà tagliata netta!...

– Io ho scavalcato il mio tirandoglisotto un’ascella – disse il greco. – Sperodi avergli toccato il cuore.

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– Ed io, – disse l’albanese nonavendo più guerrieri da combattere hoassassinato un povero cavallo. Bah!...Servirà a divertire le un’del Profeta, severamente esisteranno. Quel Maomettole ha sparate ben grosse, ed i turchi,come se fossero fanciulli, le hannobevute.

I tre cavalieri, temendo qualche altroagguato, si erano arrestati, interrogandoansiosamente le tenebre che le infuocatepalle di pietra delle bombardemussulmane ormai non illuminavano cheassai vagamente.

– Si agita il tuo uomo, Nikola? – chiese il Leone di Damasco.

– Non mi pare, signore.

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– Lascialo morire in pace.– Ed il vostro?– Non si é più alzato.– E nemmeno il mio cavallo – disse

l’albanese, con aria desolata. – Avereuna lama in mano capace di sfondareun’armatura del più saldo guerriero, edover uccidere dei combattenti a quattrogambe, più felici di scappare che divenire ad un attacco. Ah!... Padrone!...

– Non siamo ancora a Capso – rispose Muley-el-Kadel. Avrai tempo diprovare il filo e la punta della tua arma.Frattanto una cosa m’inquieta.

– Dite, signore – disse il greco.– Dov’é finito il secondo cavallo?– Verso il campo turco – disse

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l’albanese.– Ne sei certo?– Oh!... I cavalli ottomani tornano

sempre dove hanno mangiato e dormito.– Ed allora lavoriamo di staffe, e

cerchiamo di guadagnare via, giacché larada é ancora così lontana, é veroNikola?

– I nostri cavalli avranno tempo distancarsi.

Allentarono le briglie, puntarono lestaffe, e senza preoccuparsi dei duecavalieri turchi, i quali erano forseancora vivi, si slanciarono attraverso lavasta pianura interrotta, di quando inquando, da campi non più coltivati,quantunque ancora difesi da imponenti

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bastioni di fichi d’India. Ormai eranolontani da Candia e le detonazioni nongiungevano che molto deboli. 1: lampinel cielo non si scorgevano più. I campisi succedevano ai campi, e da quellicominciavano a giungere insopportabilifetori che non sapevano certamente diuva in fiore: Dentro i profondi solchi sidovevano trovare ammassi di scheletri,poiché i turchi, colla loro solita ferocia,prima di assediare Candia avevanoquasi sterminata la popolazione dellacampagna, senza far grazia né alledonne, né ai piccini, e là, dove una voltacrescevano prosperose, quasi senzacurarle, le piante più utili, non sivedevano ormai che mucchi di ossami.

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Ben pochi erano stati i cretesi a sfuggireall’immensa strage, e la vita l’avevanoavuta a prezzo dell’abiura. Quei pochiperò erano i più animosi che contavano,presto o tardi, su sanguinose vendette, eche la Croce la portavano sempre, sipuò dire, scolpita sul cuore.

E quanti drappelli turchi, sorpresinelle deserte campagne, giannizzeri ocavalieri, erano caduti dentro imedesimi solchi ove riposavano le lorovittime sventurate!...

Qualche scontro doveva essereavvenuto sulle terre che Muley-el-Kadeled i suoi compagni attraversavano,poiché il fetore era intenso, e poi icavalli avanzavano a fatica, sfondando

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mucchi di ossami.– Povera Creta!... disse Muley-el-

Kadel, con un lungo sospiro. Quanterovine!... Quante rovine!... Desolazionedovunque!...

– Ed é notte – disse Nikola. Vedretedomani come i turchi hanno ridotto lefattorie e le terre. Ci vorranno almenocent’anni perché quest’isola, un giomocosì invidiata ed ora coperta di carogne,tomi a diventare quella che era prima,ve lo dico io, signor Muley.

– Ti credo, Nikola.– I giannizzeri del Vizir prima hanno

massacrato, poi hanno tutto diroccato obruciato. Eppur ve ne sono ancora divivi, degli isolani, fra queste sterminate

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campagne.Saranno forse un migliaio, poiché

molti altri sono rimasti, abbastanzatranquilli, nelle città occupate dai turchi,ma sono come mille leoni.Probabilmente avremo occasione divederli alla prova.

– La Croce lo voglia per mio figlio,pel mio Enzo, che fa tanto piangere ibegli occhi della mia donna.

L’impresa che noi stiamo per tentare,non vi nascondo, signor Muley, saràestremamente pericolosa, ma se noi, perora, non riusciremo a strappare alBascià vostro figlio, tenteremo almenodi salvare vostro padre. SebastianoVeniero é un uomo che non ha paura del

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castello d’Hussiff. Ne ha espugnati benaltri in Morea.

– Mio padre!... Povero uomo,condannato, per colpa mia, a soffrire ilcarcere.

– E non sapete il resto.– Che cosa vorresti dire?– Haradja l’ha torturato, togliendogli

un pezzo di pelle da una spalla.– Chi?... urlò il Leone di Damasco,

trattenendo di colpo il cavallo.– La tigre del castello d’Hussiff –

rispose Nikola. Me lo ha narrato unmarinaio turco che ha assistitoall’infame supplizio.

– Ha osato tanto!...– Che cosa non sarebbe capace di

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osare quella terribile donna?– Mio padre passato sotto i rasoi

come Bragadino, l’eroico difensore diFamagosta?

– È così, signor Muley.– E poi l’ha sepolto nei sotterranei

umidi d’Hussiff!...– Sta meglio là, ve lo assicuro io, che

alla pesca delle sanguisughe. Sapetebene che Haradja si serviva deiprigionieri cristiani perché servisseroda esca a quelle maledette bestioline,che io pure ho provate. Alle «acquemorte», non si può resistere a lungo.

– Lo so – rispose Muley-el-Kadel,con voce sorda. – Hanno ucciso ilvisconte Le Hussiére, il fidanzato di mia

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moglie.– Me lo ricordo, signore, in quale

miserando stato era ridotto quelgentiluomo francese.

Aveva appena pronunciate quelleparole, quando a sua volta trattenneviolentemente il cavallo, facendolopiegare fino quasi a terra, comandandosubito: – Fermi tutti!...

Il greco si era messo in ascolto.Guardare era inutile, poiché la

pianura era coperta di tenebre fitte,aleggiando in alto delle larghe fasce divapori acquei i quali nascondevano tuttele stelle.

– Che cos’hai udito? chiese, dopoqualche istante, il Leone di Damasco che

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aveva troppo fuoco nelle vene per poterrimaner tranquillo anche un solo minuto.

– Sono certo che c’inseguono.– I turchi? Noi abbiamo uccisi quei

due cavalleggieri, o per lo meno ridottiin così pessimo stato, da non poter farritorno da soli al campo.

– Saranno stati trovati da qualchepattuglia, signor Muley – disse il greco.

– Non avranno nemmeno loro gliocchi dei gatti – disse Mico. – Chidistingue nulla fra queste tenebre?

– Ascolta tu, albanese – disse Nikola.I montanari hanno quasi sempre l’uditoacutissimo.

Rimasero tutti e tre immobili,accarezzando i cavalli affinché non

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nitrissero, poi Mico disse: Sì, odo unfragore lontano, che non può essereprodotto che da qualche grosso stuolo divolteggiatori. Per la barba del Profeta!...Non ci mancherebbe che uninseguimento ora!...

– Non mi ero ingannato – disse ilgreco. I nostri due scavalcati devonoessere stati scoperti, ed i loro camerati,ora, vorranno vendicarli. Bah!... Sehanno dei cavalli arabi anche i nostri losono, e di razza scelta, é vero, signorMuley-el-Kadel?

– Sono animali da temere ben pochiinseguimenti rispose il Leone diDamasco il quale non appariva affattopreoccupato. – Tu ci guidavi alla casa di

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un tuo amico?– Sì, signor Muley, e non lo

troveremo probabilmente solo, poichéha potuto salvare, sborsando moltizecchini, anche due suoi parenti, famosiper menar le mani.

– Lontana?– Da quattro a cinque miglia.– Verremo accolti anche se abbiamo

dietro di noi un drappello di cavalieriturchi?

– Il mio amico non é uomo daspaventarsi, e tanto meno gli altri.Dobbiamo accendere le micce degliarchibugi?

Sarebbe un’imprudenza per ora, e poiquei cavalieri sono ancora ben lontani.

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Lavoriamo di staffe, e cerchiamo di nonfarci raggiungere prima di arrivare allafattoria.

I cavalli non avevano già cessato ditrottare. Sentendo il ferro tagliente dellestaffe, presero un galoppo indiavolato,avventandosi sempre fra i larghi solchidei campi, privi quasi ormai di piante. Icavalieri tendevano sempre gli orecchi,cercando di raccogliere ancora illontano fragore sospetto, ma il fracassoprodotto dagli zoccoli dei loro animalinon permetteva di udire qualche cosa.

– Eppure sono sicuro che siamoseguiti – borbottava Mico.

Per due ore i cavalieri varcaronocampi e campi, saltando solo, di quando

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in quando, un ammasso dei soliti fichid’India, ormai altissimi dacché nonerano stati più curati, poi rallentaronodinanzi ad un fitto bosco di carrubi.

– La fattoria del mio amico non élontana – disse Nikola. Che i cavallireggano ancora mezz’ora, e noi saremoal sicuro.

– Al sicuro, dici? – chiese il Leone diDamasco.

– Le fattorie dell’isola si sonotramutate in arsenali, e troveremo altrearmi ed altra polvere, tanto da smontareuno squadrone.

– Ma come fai, tu, a dirigerti conquesta oscurità?

– Non so, ma il fatto é che io non mi

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sono mai ingannato sulla direzione, néper terra, né per mare, anche senzabussola. Forse vi sarà nel mio cervelloqualche cosa di quel sesto senso chehanno gli uccelli migratori. Notate cheio ho un’altra particolarità, preziosaspecialmente in quest’isola che soffrelunghe siccità: io odo le correntid’acqua sotterranee e so anche trovarle.

Eh!... Badate!... Qui é stata commessaun’altra strage: tutto il campo é copertodi scheletri.

– Cristiani? – chiese Muley.– Oh, ve ne saranno anche molti di

turchi, poiché gl’isolani, resi furiosi perle orrende stragi patite, non cadevanosenza aver prima bruciato l’ultima

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cartuccia o rovinato il filo dei loroyatagan. Reggete i cavalli e badate chenon si feriscano.

Balzarono nel campo tutto coperto diossami, i quali esalavano ancora deipestiferi odori. Essendo, nel frattempo,le stelle ricomparse, i cavalieripoterono scorgere, a breve distanza, lerovine di parecchie grosse fattoriecandiote. Un combattimento furibondodoveva essere successo in quel luogo fraisolani e conquistatori, poi questi ultimi,certamente più numerosi, in nome delProfeta avevano distruttoinesorabilmente i primi, che altra colpanon avevano che di adorare la Croce, edil fuoco aveva fatto il resto.

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– Un villaggio quello? – chiese ilLeone di Damasco, indicando gli avanzidei casolari.

– Sì, signor Muley – rispose il greco,con un sospiro. Qui i turchi hannomacellati più di seicento tranquillilavoratori della terra, senza far graziaalle donne ed ai fanciulli. Voi conoscetemeglio di me la ferocia ottomana.

– E so quanto fa orrore – rispose ilLeone di Damasco. Ah!... Infami!...Infami!... È contro il forte guerriero cheil vero guerriero si misura.

Facendo spiccare ai cavalli deigrandi salti, attraversaronoquell’orrendo campo di ossami e sicacciarono dentro al bosco di carrubi.

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Avevano appena fatta irruzione, quandoudirono a terra, in alto, a destra ed asinistra, un violentissimo starnazzared’ali, che proiettò su di loro unacorrente d’aria impetuosa e per nienteprofumata.

– Che cosa sono? – chiese Muley-el-Kadel, maneggiando la spada.

– I mangiatori di morti – rispose ilgreco. – Sono uccellacci neri, con unlungo becco, alti più d’un metro, e cheprima della guerra nell’isola nonesistevano.

– Si dice che siano venuti da paesimolto lontani, dalla Persia perfino, e chesiano passati qui dopo aver fatta unalunga sosta sulle campagne di Cipro.

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– Dove si saranno ben ingrassati – disse Mico.

– Ed ora sono venuti qui. Badate chetalvolta, resi feroci dalla fame, osanoassalire anche le persone. Due volte hodovuto difendermi da quei puzzolentivolatili a colpi d’archibugio.

– Basteranno le nostre spade, Nikola– disse il Leone di Damasco. Comedecapitano i turchi coperti di ferro, nonavranno da guastarsi il filo. E poi nonfacciamo uso delle armi da fuoco perora. Non dimentichiamo di essereinseguiti, e che uno sparo può sempreservire di guida.

– È vero, padrone – disse Mico.Ah!... Vengono all’assalto!... Non

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contenti di aver divorati tanti morti, orapretenderebbero di ingoiare anche ivivi. Adagio, miei cari: questo bastonetaglia come il rasoio d’un carneficeturco. Guardate le vostre teste!...

Gli uccellacci che non dovevano avertrovato di che sfamarsi nelle campagne,dove giacevano solo degli scheletriquasi calcinati dal sole, calavano adondate sui ;e cavalieri, tentando dirimpinzarsi con quelle carni fresche.Erano tutti neri come le tenebre che licircondavano, con dei becchi lunghi unpiede, e tanto larghi, aperti, da potercontenere comodamente un grosso falcoo qualche volatile anche più grosso.Squittivano rabbiosamente, quasi

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fossero volpi, e calavano all’attaccorisolutamente, tentando soprattutto dispaccare le teste ai cavalli che nonerano coperte di ferro come quelle deicavalieri.

– Ecco gli alleati dei turchi!... avevagridato l’albanese, tirando colpi dispada in tutte le direzioni.

Anche il Leone di Damasco ed ilgreco avevano impegnata la lotta,quantunque fossero convinti che nessungran male potesse derivare da quegliuccellacci affamati. Tiravano colpi dispada in pieno, e teste, e ali, e codecadevano in gran numero intorno aicavalli, i quali, spaventati spiccavanodei salti immensi. Il bosco di cambi fu

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però in breve attraversato, ed i cavalieritornarono a ripiombare nei solchi deicampi.

Speriamo che quelli che c’inseguonofacciano l’incontro di quei pocopiacevoli amici – disse Mico. – Tutti iturchi sono, pia o meno, superstiziosi, enon si impegneranno certamente fraquelle piante.

In quel momento, nel gran silenzio cheregnava sulla campagna si udironodiffondersi per l’aria tranquilla duetocchi bronzei.

– Che cos’é? chiese il Leone diDamasco, preparandosi ad arrestare ilcavallo.

– Questo suono ci annuncia la fattoria

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di Domoko – rispose il greco. Il suocampanile suona ancora, e credo che sial’unico che i turchi, chissà per qualecapriccio, non hanno distrutto.

– È la fattoria del tuo amico?– Sì, signor Muley. I nostri cavalli

hanno divorata la via più rapidamenteche io lo pensassi. Sia ringraziata laCroce che ci protegge sempre.

I due tocchi squillarono nuovamente.L’onda sonora del bronzo vibrò forte,quasi fosse viva, poi si smorzòlentamente in lontananza in una specie dilamento. I tre cavalieri, passando per unmomento le spade da destra a sinistra, sifecero il segno della Croce, poiallargarono le gambe urlando ai cavalli:

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– Via!... Via!...Mentre il suono della campana si

spegneva, avevano udito ancora illontano fragore che annunciava ilnemico implacabile.

– Ci salvi la Croce!... aveva gridatoMico.

– E contiamo sulle nostre spade – disse il Leone di Damasco.

La pianura s’apriva davanti a lorosenza spalliere di vigneti, senza cambi,senza fichi d’India, senza datteri: unpolverone immenso si alzava sotto lezampe dei cavalli. Il fuoco turco avevadistrutto ogni cosa, dopo d’averdecimati i lavoratori della terra collescimitarre e gli archibugi. Si erano

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preparato, i conquistatori dellaMezzaluna, l’ingrassamento dei campicon cenere e sangue, il guano diquell’epoca. Per un altro quarto d’ora itre cavalieri avanzarono, poi ritrovaronodei solchi con qualche magro filare diviti.

– Guardate laggiù – disse il greco.– Una casa ed una torricella!... –

esclamò il Leone di Damasco.– La fattoria del mio amico Domoko.– Ci sarà in casa?– Io lo spero.In quell’istante si udirono i latrati

feroci dei cani, bestie grosse di certo, agiudicarle dalla potenza e profonditàdella loro voce. Rallentarono la corsa e

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giunsero su un vasto piazzale in mezzo alquale si ergeva la fattoria, una casamassiccia, con muraglie e tetti di piena,e con ai lati delle tettoie semisfondate. Iturchi, non potendo ardere la casa,avevano cercato di distruggere almenoquelle, affinché i poveri contadini,ancorché convertiti all’islamismo,potessero riparare i loro cavalli ed iloro montoni.

Nikola ringuainò la spada, accostò lemani alla bocca e mandò ne fischiprolungati. Un momento dopo, mentre icani latravano più rabbiosamente chemai dentro la casa, tentando di uscire,una piccola finestra si apriva, ed unavoce tuonante chiedeva:

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– Chi vive? Islam?– No, San Marco – rispose Nikola. –

Vieni ad aprirci, Domoko: siamoinseguiti.

– Da quei cani col turbante?– Si.– Aspetta che svegli i miei cognati.

Sei ben Nikola, tu?– Si, e conduco con me il Leone di

Damasco.La finestra si rinchiuse, si udì dentro

la casa un tramestio ed uno scricchiolaredi scale malferme, poi la porta si apri ene uomini, tutti alti e robusti, e moltobarbuti, si affacciarono soffiando sullemicce di ne archibugi.

– Serba quei colpi pei turchi, Domoko

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– disse Nikola. – Noi siamo cristiani.– Si diffida sempre in questi pessimi

tempi – rispose il fattore. – La mia casaé a vostra disposizione colla cantina e ilgranaio.

Uno dei suoi parenti si affrettò adaccendere una puzzolente lampada adolio, di forma quasi antidiluviana,mentre l’altro metteva a catena i cani,due enormi mastini ringhiosi epericolosi tanto pei turchi quanto peicristiani. I tre cavalieri balzarono disella, portando le loro armi, compresigli archibugi, ed entrarono in un vastostanzone, mentre già i cognati diDomoko correvano ad impadronirsi deicavalli per condurli sotto una delle

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tettoie.Il soffitto era annerito, le pareti pure,

il pavimento fangoso, essendo formatosolamente di terra battuta. La mobiliaconsisteva in una dozzina di orci,chiamati zare, destinate a conservarel’olio, e così solide da sfidare le palledi pistola di quell’epoca, in una lungatavola vecchia forse d’un secolo, tuttabucherellata, ed in pochi scannizoppicanti. Appesi alle pareti vi eranoinvece molti archibugi, colle miccepronte, e parecchi yatagan lucentissimi.

Il fattore, che come abbiamo detto,era un uomo robustissimo, quasi ungigante, ed ancora fortissimo quantunquela sua lunga barba fosse’brizzolata da

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lunghi fili d’argento, mossesollecitamente incontro agli ospiti.

– Il Leone di Damasco? – chiese.– Sono io – rispose Muley-el-Kadel.Il candiota lo guardò con un misto di

stupore e di meraviglia, poiinchinandosi dinanzi a lui disse: Lungavita all’eroe di Famagosta, sposo diCapitan Tempesta, la cristiana cheabbatteva i turchi come io abbatto le mieulive. Entrate: siete in casa vostra.

– Una parola prima – disse Nikola. – Io non vorrei comprometterti coi turchi.

– Che cosa vuoi dire? – chiese ilfattore, corrugando la sua larga fronte.

– Ti ho detto che siamo inseguiti.– Sono molti quelli che vi danno la

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caccia?– Non lo sappiamo ancora. Siamo in

sei, abbiamo con noi il Leone diDamasco, che cosa potremmo temere daparte di quei cani? La casa é solida, learmi e le munizioni abbondano, e poinon credo che il Vizir possa averdistaccata tutta la sua cavalleria perinseguire così poca gente. Sarannolontani quei cavalieri?

– Avremo un vantaggio di qualchemiglio, suppongo – disse Nikola.

– Kara – disse ad uno dei suoicognati, che in quel momento entrava. – Va’ a prendere del vino, giacché neabbiamo ancora. Fa più bene ai cristianiche ai mussulmani.

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– Non badano più al Profeta ormai – disse Mico. Trincano più vino cheacqua, ve lo assicuro io.

– Ne sono convinto, giovanotto – rispose il fattore, sorridendo. SignorMuley-el-Kadel, é ben questo il vostronome che tante volte ho udito, doveeravate diretti?

– Alla cala di Capso – rispose ilLeone di Damasco. – Ho assolutobisogno di vedere Sebastiano Veniero.Lo troveremo ancora?

– Sì – rispose il cretese. – Le sue ottogalere sono sempre all’àncora, ma collevele semispiegate.

Uno dei due cognati era entratoportando un grosso boccale di terra,

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pieno di quel vino generoso che piacevatanto perfino ai turchi. Furono portatedelle tazze di legno e Domoko lo versò,dicendo: – Alla morte dell’Islam!...

– Alla sua distruzione – avevanoaggiunto l’albanese e Nikola.

Il Leone di Damasco non aveva avutoil coraggio di bere alla fine della suarazza, tuttavia aveva bevuto.

In quel momento i due grossi mastinidrizzarono gli orecchi e si misero amugolare minacciosamente.

– Silenzio – disse il fattore,prendendo una f’sta e facendolafischiare.

– Hanno udito i turchi avvicinarsi, évero? – chiese Nikola.

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– Sì, fiutano quelle canaglie dalontano, ma non crediate che questa nottedebba succedere un combattimento. Imussulmani sono troppo amanti dellaluce, e non li vedremo comparire se nonquando il sole si sarà alzato. Io spero,però, di giuocare loro un bel tiro. Seandrà male allora daremo mano allearmi e cercheremo di fare del nostromeglio. Che cosa dite voi, signor Muley-el-Kadel, che avete trascorsa la vostraesistenza sempre in mezzo aicombattimenti?

– Spiegatevi, Domoko.– Un momento, signore – disse il

fattore.Poi volgendosi verso i suoi due

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cognati che stavano a guardia dellaporta, cogli archibugi già pronti asparare, disse: – Tu, Kitar, va’ a fermarel’orologio della torretta.

– Perché? – chiese il greco, facendoun gesto di sorpresa. – Lascia che lacampana suoni.

– No. Quando i pochi contadinisfuggiti alla immane strage turca, e se netrovano a non molta distanza da qui, nonudranno più il vecchio orologio suonarele ore, comprenderanno che qualchecosa di grave sarà avvenuto qui, e livedremo giungere, sia pure in pochi, innostro aiuto.

– È un segno convenzionale? – chieseil Leone di Damasco.

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– Sì, signor Muley, e se…Si era interrotto. Il vecchio orologio,

prima di essere stato fermato, avevavoluto compiere, ancora una volta, il suodovere secolare.

Le onde bronzee si ripercosserostranamente dentro la casa, facendomugolare i due mastini, poi si disperseroper la porta rimasta aperta, rombandonella campagna.

– Fra un’ora il sole sarà alto ed iturchi compariranno – disse Domoko.

Si avvicinò ai grossi orci, ne scoprìtre, e dopo d’aver fiutato più volte,aggiunse: – Vi é stata solamentedell’acqua lì dentro?

– Che cosa vuoi fare? – chiese

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Nikola.– Non ti sembra che un uomo possa

nascondersi dentro questi vasi panciuti?– E tu credi che i turchi non

solleveranno i coperchi?– Allora scatenerò i cani e daremo

battaglia – disse il fattore. Moriredomani od un altro giorno fa lo stesso,da che la nostra vita, malgrado l’abiura,é sempre esposta a gravissimi pericoli.

Kitar era entrato insieme a suocognato Kara. I due forti isolani, gihabituati ai combattimenti, quantunquefossero entrambi ancora giovani,apparivano tranquilli.

– È fermo l’orologio? – chieseDomoko.

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– Non batte più – rispose Kitar. Hotagliato la corda che sosteneva ilcontrappeso e la pietra é caduta in fondoalla torricella.

– Spegniamo il lume e andiamo aperlustrare le vicinanze della fattoria.

I sei uomini attesero che l’oscuritàavesse invaso lo stanzone, soffiaronosulle micce degli archibugi e uscirono,mentre i cani, prevedendo qualche cosadi grave, mugolavano sordamente efacevano sforzi disperati per rompere lecatene.

Inizio

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LA CAVALLERIA TURCAFuori della fattoria si stendeva una

notte ancora cupa, poiché l’alba nondoveva spuntare che fra qualche ora e lestelle erano rimaste coperte dai vapori.

Regnava una grande e tetra calma diaria, e sulla terra pareva che gravassequalche cosa d’invisibile e di paurosoche assorbisse ogni rumore, ognipiccolo strepito, ogni minimo alito divento, dando alle piante ed al cielol’immobilità delle cose morte. Anchenella fattoria regnava ora un gransilenzio, poiché i mastini, come seavessero compreso a quali pericolipotevano esporre i loro padroni,

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avevano cessato completamente dimugolare. Solamente sui tralci delle viti,di quando in quando, si udiva echeggiarela lugubre voce dei mangiatori dicadaveri. I sei uomini si avanzarono,con precauzione di qualche cinquantinadi metri, poi si gettarono nei solchi permeglio nascondere le micce chebruciavano.

– Brutta notte, é vero Domoko, per uncombattimento? – disse il greco.

– Ne ho vedute di peggiori – risposel’isolano, colla sua solita vocetranquilla e ad un tempo robusta. – Ah!...Quei turchi!... Non la sarà finita finchéuna o l’altra razza rimarrà distrutta, epurtroppo saremo noi questi.

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– Venezia non é ancora morta – disseil Leone di Damasco – e come vedete, arischio di mille pericoli, non viabbandona.

– Lo so, signor Muley. La Serenissimanon potrebbe fare di più in questimomenti, poiché le flotte non siimprovvisano.

– Credete che Veniero possa tentarequalche colpo?

– Malgrado i suoi settantaquattro annié sempre il più audace marinaio che siamai nato nelle lagune. La vecchiaia nonsembra pesare a quell’uomo. Si direbbeche nelle sue vene scorra bronzo invecedi sangue.

– L’avete veduto?

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– Tre giorni fa a Capso.– Pareva disposto a precipitarsi sui

mussulmani?– È venuto nelle acque di Candia per

combattere e non già per riposarsi,signor Muley – disse Domoko. Quelvecchio, quantunque abbia una gambaferita, che lo costringe a portare dellepantofole sotto l’abito del guerriero, nonsente il bisogno di starsene tranquillo abordo della sua galera.

– Potente?Una fand con sessanta pezzi e cinque

ordini di remi. Prenderla, farà caldoanche pei turchi.

– Silenzio – disse in quel momentol’albanese. – I turchi si avanzano.

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– Come lo sai – chiese Muley.– Dalla cenere che sollevano i loro

cavalli e che forma una specie dinuvola.

– Che cosa ci consigliate di fare, voiDomoko? Di rimontare in sella eripartire?

– I vostri cavalli, quantunque di buonarazza, sono giunti qui stremati di forze. Inostri campi sono cattivi da percorrersi,ed anche i migliori arabi si rovinanodentro i solchi pieni di ossa. Ritorniamoalla fattoria e lasciate che tenti il colpo.

– Vorreste nasconderci?– Sì, dentro le zare.– E se i turchi alzassero il coperchio

degli orci?

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– Io spero di giuocarli.– In quale modo?– Kitar, Kara, andate a prendere dei

vasi colmi del miglior vino e mettetelitutti sulla mia tavola.

– Sì,padre risposero i due giovani,spegnendo le micce degli archibugi ecorrendo verso la casa.

– Ritiriamoci anche noi – disseDomoko. – Noi non sappiamo in quantisono i turchi, e colle armi da fuoco nonvi é più da scherzare. Anche quellecanaglie hanno cominciato adabbandonare le balestre.

– Vedi nulla, tu, Mico? – chiese ilLeone di Damasco.

– Sì, una nuvola di polvere che si

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avanza lentamente e che si distenderispose l’albanese.

– S’avanzano dunque?– Certamente.– Compare Domoko, in ritirata.I quattro uomini ripercorsero il solco

e giunsero ben presto dinanzi allafattoria, la quale si era di nuovoilluminata. L’orologio ormai non battevapiù ed anche i cani stavano zitti.Domoko scoperse tre zare che avevanoservito a contenere solamente dell’acquae disse ai fuggiaschi: – Presto, saltatedentro cogli archibugi e colle spade. Uncombattimento può avvenire con quellecanaglie.

Muley-el-Kadel aggrottò la fronte.

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– Io nascondermi!... – disse.– Signore, – disse il greco la guerra

ha le sue necessità. Vale, il più dellevolte, più la furberia che l’audacia. Unapalla parte presto e spacca il cuore ocrepa un polmone.

– Hai ragione.Spensero le micce e si cacciarono

dentro i giganteschi vasi, i quali eranocosì grossi da contenerli comodamente.Domoko rimise a posto i coperchi, inmodo però che l’aria non potessemancare ai prigionieri, poi scatenò icani. I due mastini si erano subitoslanciati attraverso la tenebrosa pianura,urlando ferocemente. Erano due nemiciformidabili che non avevano certo paura

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delle scimitarre turche. Domoko e i suoicognati avevano nuovamente spento illume e si erano messi in agguato fuoridella porta, dietro a tre o quattrogabbioni.

Nel gran silenzio si udivano i caniurlare, ma insieme a quei latrati si udivapure un fragore sordo, pesante, cheannunciava della cavalleria.

– Vengono – disse Kara. – Ai primialbori saranno qui infallantemente.

– Ne sono convinto anch’io – risposeDomoko.

– Credi che siano in molti?– Non mi pare: col grande silenzio

che regna sui campi, anche pochi cavallifanno del fracasso.

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– Speri di salvare i nostri ospiti?– E anche la fattoria – disse Domoko.

– Questa volta sarà il sangue turco e nongià quello cristiano che ingrasserà ilnostro vigneto. Badate di non lasciarnescappare neppur uno, onde non ci siaqualcuno che rechi al Vizir la notiziadella strage dei suoi cavalieri.

– Li troveranno, padre – disse Kitar,il quale come Kara chiamava Domokocon quel dolce nome, dopo che tutti iloro parenti erano stati distrutti dagliimplacabili nemici della Croce.

– Li bruceremo, uomini e cavalli – rispose il forte cretese. – La legna quinon manca, ed in cantina abbiamo duezare ancora piene di grappa.

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– Che vengano i nostri amici?– Non udendo più l’orologio suonare

lasceranno le loro fattorie, e possiamocontare su sei giovani che ammazzano lequaglie al volo.

– E un turco é più grosso d’unaquaglia – disse Kitar.

– Ci sono vicini!...– Senza aspettare l’alba?Delle ombre si avanzavano verso la

fattoria, ombre di cavalieri, semiavvoltenella cenere sollevata dalle zampe deicavalli.

Domoko, che aveva la vista acuta,malgrado l’età avanzata, guardòattentamente il drappello il quale parevache non avesse molta fretta di venire ad

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un combattimento.– Tredici – disse. – Né uno di più né

uno di meno. Quella gente, questa sera,sarà ridotta in cenere.

Una voce rauca si alzò, chiedendo:– Chi vive?– Che nessuno risponda – disse

Domoko.Trascorsero alcuni secondi, poi la

voce, che era sgradevolissima, ripresecon una intonazione di ferocia: – Cani dicristiani, volete rispondere si o no?Sono un kaymakan e conduco con medella cavalleria.

I tre candioti eseguirono una prudenteritirata, non volendo in nessun modoimpegnarsi a fondo, anche perché

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dubitavano che indietro fossero rimastialtri cavalieri.

– Accendi ora il lume, Kitar – disseDomoko. – La visita l’avremoegualmente.

Il kaymakan, fermo a duecento passidalla fattoria, continuava intanto astrepitare, come se fosse tutto d’uncolpo impazzito.

– Ah!... Cani di cristiani!... Luridimaiali!... Non volete rispondere? Per labarba del Profeta, vi farò impalare tuttie darò le vostre budella ai mangiatori dicadaveri.

Domoko si affacciò alla porta tenendopel collare uno dei suoi due cani.

– Chi vive? – gridò.

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– Porco d’un cristiano, hai il sonnocosì duro da non udire la voce d’unkaymakan?

– Ho lavorato la campagna, io,quest’oggi ed ero stanco.

– Sei tu che ti chiami Domoko?– Si.– Un rinnegato della Croce?– Si.– Non sei solo?– No, ho con me i miei due cognati.– Ed anche dei cani mi pare.– E terribilissimi, effendi.– Quanti?– Due.– Prima che io entri nella tua bicocca

esigo che siano morti.

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– I miei cani? No, effendi.– Come!... Tu, lurido cristiano, perché

hai indossata la camicia mussulmana, ticredi in diritto di ribattere parola?

– Sì – rispose Domoko, con vocefremente.

– Vuoi che ti abbruciamo dentro la tuacasa?

– Ed io scatenerò i cani, e coi mieicognati vi darò battaglia, briganti!...

– Per la barba del Profeta, – disse ilkaymakan – quell’uomo é un vero gallocandiota. Camerati, avremo dadivertirci. Aspettiamo solamente chespunti un po’ di luce.

– Effendi,disse Domoko poteteavanzarvi senza timore. I cani non vi

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daranno alcun fastidio. Volete che vimandi, se volete proprio aspettarel’alba, un paio di vasi pieni di vino?

– Ah!... Falso mussulmano!... urlò ilkaymakan. – Tu bevi ancora del vinomentre il Profeta l’ha proibito ai suoifedeli.

– Mi hanno detto che ne beve anche ilSultano.

– Ma a quello tutto é permesso, e poinon beve che vino di Cipro.

– Il mio non é meno dorato, né menogeneroso di quello che si fa inquell’isola.

– Porco lurido!... Tu mi tenti!...– Volete sì o no? – chiese Domoko,

impazientito, il quale non ignorava che i

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turchi avevano fatto un largo strappo alCorano per tracannarsi il succo del granNoé.

Udì i cavalieri borbottare, poi ilkaymakan rispose: – Porta.

– Se prometti salva la vita sul Profeta.– Pel vino che gustano i sultani si può

promettere. Mandaci da bere e nonfaremo alcun male agli uomini cheporteranno i vasi.

– Conto sulla promessa.Domoko si volse verso i cognati e

chiese loro:– Avreste paura a portare da bere a

quelle canaglie?– No – rispose Kitar. Condurremo con

noi i cani, e vedrai che i turchi

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rimarranno tranquilli. Temono più inostri mastini che i cristiani.

– Perché sono lesti a saltare alla golaed a strangolare – disse il fattore. – Prendete quattro vasi e andate. Noi tuttisaremo pronti ad accorrere in vostroaiuto.

Kitar alzò le spalle.Morire questasera o domani che cosa importa a noi?Lo sappiamo che questa isola é ormaimaledetta, e che la calma non regneràfinché non sarà scomparsa tutta la nostrarazza. Bah!... Coi turchi ci si abituaall’idea della morte, e non ci si fa piùcaso.

Il kaymakan cominciava adimpazientirsi per quel piccolo ritardo.

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– Luridi adoratori della Croce, nonavete una parola voi? Portateci da bere,per la barba del Profeta. Abbiamo legole piene di polvere, e di polvered’ossa cristiane, per di più.

– Canaglie – disse Kara. – Faremoprovare loro i denti dei nostri mastini.

I due cognati di Domoko slegarono icani, i quali già cominciavano ad urlareferocemente, presero fra le robustebraccia quattro grossi vasi colmi di vinobianco, che poteva rivaleggiare conquello di Cipro, e si avviaronointrepidamente incontro ai turchi, i qualinon avevano fatto un passo innanzi.

– Ecco i cani rognosi che ci portanoda bere – gridò il kaymakan. Hanno

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paura di noi, questi adoratori dellaCroce. Se io fossi il Vizir li fareidecapitare tutti, anche se hanno rinnegatala loro religione. Non c’é che la testache non cresce più, per la barba diMaometto!...

Kara e Kitar, per niente atterriti daquelle minacce, si avanzavano verso icavalieri, reggendo a fatica i grossi vasi.Ai loro fianchi i cani urlavanospaventosamente. Attraversarono ilcampo coltivato a vite, e ben presto sitrovarono dinanzi ai loro eterni nemici.L’alba cominciava appena allora aspuntare, arrossando dolcemente ilcielo. I cavalieri erano dodici, guidatida un kaymakan di feroce aspetto, che

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aveva la fascia di seta piena di pistolonie di yatagan, e sul capo un monumentaleturbante di broccato, adorno d’unamezza dozzina di penne di struzzo, cheavevano perduto ormai tutte le lorobarbe.

– Cani schifosi!... urlò l’irascibilecondottiero, vedendoli giungere. – Vifate aspettare, a quanto pare!...

– Il Profeta ha proibito ai suoi seguacidi bere vino – rispose, audacemente,Kara.

– Hai la lingua lunga, cristiano – rispose il kaymakan. Se ti afferro saràla prima cosa che ti taglierò. Per chi ciprendi, noi? Per dei facchini, degliamali di Costantinopoli?Ah!... La

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vedremo!...– Tu dimentichi che anch’io, ora, sono

un credente del Profeta.– Da quando? – chiese il kaymakan,

ironicamente.– Da sei mesi.– Ti sei accorto troppo tardi che la

nostra religione é la sola, la vera,l’unica.

– Sono vissuto sempre fra i cristiani – disse Kara.

– E tu preghi con fervore col visovolto alla Mecca?

– Sì, al mattino, al mezzodì ed allasera.

Il kaymakan scoppiò in una risata.– Se ti aprissi il petto e ti levassi il

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cuore non vi troverei dentro nessunafede pel Profeta. Voi, canaglie, rinnegatela religione dei vostri padri per salvarela pelle, e null’altro. Bada di non fartisorprendere da me. Sono capace digiungere qui di volata per accertarmi setu preghi.

– Vieni: le mie preghiere le dico fuoridella porta, e tutti possono vedermi.

– Posate i vasi e tenete indietro i duecani. Io non voglio aver – disse il turco.– da fare con quei denti.

I due candioti obbedirono, poi feceroatto di tornare verso la fattoria.

– Olà!... Adagio, pezzenti!... urlò ilkaymakan, il quale era già sceso dacavallo impugnando una enorme

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scimitarra.I due candioti, avendo veduto che

anche i suoi compagni non erano più insella, e che quindi non avrebbero potutolì per lì inseguirli, volsero le spalle efuggirono a tutte gambe verso la fattoria,protetti dai cani, i quali, coi loro latrati,spaventavano i cavalli.

– Aspettate che mi abbia bagnato lalingua e poi verrò a dirvi due paroledisse il kaymakan. – A me non la fanno,per la barba del Profeta!...

I cavalleggieri, contenti di avertrovato da bere, si erano seduti intornoai vasi pieni d’un vino bianco, dolce,quasi sciropposo, poco dissimile daquello che si ricava dalle uve dorate di

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Cipro, e si erano messi a bere, lasciandoche il loro capo continuasse abrontolare. Dovevano essere abituati aquelle sfuriate e non vi facevano piùcaso.

Domoko mosse incontro ai cognati,portando, per precauzione, unarchibugio, temendo che i turchi, sempreusi a considerare i cristiani, anche serinnegati, come buona preda da nonrisparmiarsi, facessero contro di lorouna scarica di pistole. Il vino però eratroppo dolce e tenne incatenati imussulmani intorno ai vasi. Il kaymakanse n’era preso uno per se solo, etrincava allegramente, infischiandosenedel Corano.

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– Verranno a farci una visita? – chieseDomoko ai due cognati.

– Alì’alba saranno qui – risposeKara.

– E quello che sarà peggio ubriachi – disse Kitar.

– Se non sarà un bene – risposeDomoko.

Alzò gli occhi e guardò il cielo. Lepoche stelle che apparivano fra glistrappi dei vapori, cominciavano già aspegnersi dolcemente. Verso oriente unaluce non ancora ben definita,s’avanzava.

– L’alba – disse.Entrò nello stanzone, levò i coperchi

delle rare affinché i prigionieri

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potessero respirare più liberamente, poidisse a Muley-el-Kadel:

– Un combattimento forse avverrà, mavoi non comparirete che all’ultimomomento. Lasciate prima che cerchi digiuocare quelle canaglie.

– Non sono molti? – chiese il Leonedi Damasco.

– Tredici.– Mi sentirei capace di caricarli

accompagnato solo dal mio albanese.– Aspettate, signore. Vi é sempre

tempo a prendersi un colpo di scimitarraod una palla di pistola. Voi sapetemeglio di me che i soldati turchi sibattono bene, disprezzando la loro vita.

– Lo so.

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– Ricacciatevi dentro, signori, e statezitti. Il sole si alza, e quelle canaglie frapochi minuti saranno qui.

Si udivano i turchi, messi in buonumore, forse troppo, da quel generosovino, schiamazzare intorno ai vasi chedovevano ormai essere stati vuotati. Ilkaymakan soprattutto si faceva udire, enon erano altro che atroci ingiurie controi cristiani, che uscivano dalla sua boccaed orribili minacce. Finalmente siarrampicarono sui loro cavalli e simossero verso la fattoria, strepitandocome se si preparassero a prenderlad’assalto. Domoko, Kitar e Karaprepararono i loro archibugi ed i loroyatagan, cacciarono i cani in fondo allo

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stanzone e si affacciarono.Il sole sorgeva maestoso, spegnendo

quasi di colpo le stelle e sciogliendo,col suo intenso calore, i vapori roteantiper l’aria. Il kaymakan, il quale sireggeva assai male in sella, fu il primo agiungere dinanzi alla fattoria.

– Dov’é il padrone? – urlò.– Eccomi – rispose Domoko,

avanzandosi intrepidamente. – Che cosavuoi da me?

– Sei anche tu un falso mussulmano, évero?

– Io credo al Corano.– Tutti, voi rinnegati, dite così per

paura di perdere il naso o gli orecchi.– Io ti ho domandato che cosa vuoi –

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disse il cretese, il quale cominciava ascaldarsi. – Le minacce serbale per altreoccasioni.

– Per la barba del Profeta!... esclamòil kaymakan. – Ecco un cristiano che hadel vero sangue nelle vene.

– Ti ho detto che sono ormaimussulmano.

– La!... La!... La!... fece il turco, conun risolino ironico.

Aggrappandosi ben stretto al pomodella sella, mise i piedi a terra, tostoimitato dai suoi cavalleggieri, e mosseverso il fattore, facendo scintillare, aiprimi raggi del sole, la sua grossascimitarra.

– In quanti siete? – chiese.

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– In tre.– E non si sono rifugiati dei cristiani

nella tua fattoria?– Sono quindici giorni che nessuna

persona viene a trovarci. Ormai non sicommercia più.

– Ah!... Lurido cane!... Tu cerchid’ingannarmi. Ingannare un kaymakan?

– Ah!... Ah!... Non sai che abbiamoseguite le tracce di quei ne cavalierifuggiti da Canea, e che hanno ammazzatodue dei nostri?

– Saranno passati oltre questa notte,mentre noi dormivamo. Noi siamo soli.

– Io vedo il tuo naso in pericolo – disse il turco, facendo roteare lascimitarra.

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– Dopo il naso verranno gli orecchi, efinalmente si giungerà a spegnere unrinnegato che inganna il Profetadall’alba alla sera.

– Vuoi visitare la mia casa? Entrapure.

– Non mi tenderai un agguato?– Hai abbastanza uomini sotto di te

per punirmi.– Oh!... Basterebbe la mia scimitarra

disse il tenente colonnello dellacavalleria ottomana. – Io, i cristiani, meli mangio senza fare smorfie, al mattinoed alla sera.

– Sì, una colazione ed una cena – disse Domoko, ironicamente.

– Sei un contadinaccio, ma si vede

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che hai un po’ di cervello. È il Profetache ti aiuta.

– Infatti alla sera, quando vado adormire, sento la sua barba a sfiorarmiil viso.

– Tu!...– Io!...– Tu sei una grande canaglia che

cerca di giuocarmi – disse il kaymakan,con voce terribile. – Lascia che visiti latua bicocca.

– Vi sono i cani.– Accoppali.– Ah, no!... Sono bestie troppo brave

contro i nemici.– Allora ti spaccherò la testa.– La miccia brucia sul mio archibugio

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– rispose audacemente il fattore.– Ah!... Lurido cane!... Vorresti

ribellarti ad un kaymakan?– Io no: io ti ho detto di entrare nella

mia casa e di bere il mio vino.– Per tutte le barbe del Profeta!... Tu

hai un vino che rende allegri perfinotroppo presto.

– È come il Cipro che bevono isultani – disse Domoko, non senza unapunta di ironia.

– Ora capisco perché ammazzano,senza batter ciglio, principi e ministri.Orsù, vediamo. Qui si sente odore dicristiani.

Traballando un po’, varcò la soglia edentrò nello stanzone, sbattendo

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fragorosamente al suolo la scimitarra.– Qui devono essere venuti – disse,

guardando Domoko. – I cristiani.– Quali?– Quelli che hanno ucciso i miei

compagni.– Cercali.– Che cosa contengono quelle zare?– Dell’acqua corrotta.– Niente vino?– No, però ho la cantina ben fornita.– Fa’ portare.– Ancora?– Beve il Sultano: bevano anche i

suoi cavalleggieri.I soldati erano entrati, strascinando

rumorosamente le scimitarre e soffiando

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sulle micce delle pistole. Vedendo lalunga tavola e gli scanni si sedetterotranquillamente, in attesa diricominciare la bevuta. Il kaymakanperò non pareva tranquillo, epasseggiava con aria sospettosa, dinanzialle enormi zare. Sentiva i cristiani chestavano rinchiusi dentro? Per un turcoanche quello era probabile. Kitar, che loteneva d’occhio, condusse i cani inmodo da farli trovare dinanzi aglienormi recipienti. Il kaymakan, chepareva avesse una gran paura di queiterribili mastini, passeggiò tre o quattrovolte, sagrando e bestemmiando contro icristiani, poi si sedette al tavolo e simise a bere in compagnia dei suoi

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cavalleggieri.Aveva già vuotato un paio di tazze,

quando si alzò di colpo, urlando: – Questi luridi cristiani ci giuocano, ve lodico io.

Poi fissando Domoko, il quale eradiventato pallido, gli disse: – Scopri lezare: voglio vedere che cosacontengono.

– Scoprile tu – rispose il fattore. – Non vi sono già dei morti là dentro.

– Credi che abbia paura io?– Comincio anzi a crederlo.– Ah!... Per tutti i briganti

dell’Arabia, qui ci si giuoca.Si avvicinò alla zara ed alzò il

coperchio. Il Leone di Damasco apparve

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colla spada in pugno, pronto allabattaglia.

– Un cristiano? – aveva urlato ilkaymakan, alzando la scimitarra.

– Non sono né turco né cristiano, inquesto momento: sono il Leone diDamasco.

Con un salto il terribile spadaccinoera balzato fuori della zara, muovendocontro il kaymakan.

Inizio

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LA RADA DI CAPSOI turchi, vedendo il Leone di

Damasco, avevano dato indietro, presida un subitaneo senso di ammirazioneper quel forte guerriero che eraappartenuto alla loro razza. Anche lealtre due zare si erano scoperchiate, el’albanese ed il greco erano saltati fuori,sempre pronti a menar le mani control’odiato nemico.

Il kaymakan sembrava istupidito, enon aveva voce per dare ordini ai suoiuomini, i quali guardavano, con un po’ dispavento, quei sei uomini ed i duemastini che urlavano ferocemente infondo alla sala, pronti a slanciarsi.

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– Che cosa vuoi dunque dal Leone diDamasco? – chiese il rinnegato turco,avanzandosi colla spada tesa.

– Tu sei il Leone di Damasco!...esclamò finalmente il kaymakan,facendo un passo indietro e coprendositutto con un rapido mulinello della suapesante scimitarra. – Il Pascià hapromesso cinquemila zecchini per la tuacattura, e quantunque io abbia sempreuna grande stima di te, non ti lascerò.

– Eccomi, prendimi – rispose ildamaschino.

– Sotto, cavalleggieri!... urlò ilkaymakan. – È una preda che vale orocolato.

Con suo stupore vide i suoi uomini,

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addossati alla tavola, niente affattodecisi ad affrontare un uomo che godevauna così grande fama di guerriero.

– Ah!... Vili!... – urlò. Vi faròimpalare tutti dal Pascià. Chi é questoLeone di Damasco? Un uomo che harinnegata la sua religione e che ora, dimia mano, punirò.

– Tu!... – disse Muley-el-Kadel, condisprezzo. Ci vogliono altre lame peraffrontare la mia. Non sei nemmeno unallievo di Metiub.

Il turco, esaltato dal troppo vinobevuto, si cacciò coraggiosamenteavanti, menando terribili colpi discimitarra ed urlando: Ah!... Non sonoun allievo di Metiub!... Tifarò vedere,

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ora, figlio d’un pascià, diventato unlurido cristiano, che basto io solo peratterrarti.

– Senza che nessuno ti aiuti?– Sono abbastanza forte per tagliarti

la testa con un gran colpo di scimitarra.– Tu non sei altro che un karagheuz!...

(una specie di pulcinella turco) – gligridò in viso il Leone di Damasco.

I cavalleggieri avevano rotto in unafragorosa risata. Il kaymakan,doppiamente furioso di essere dileggiatoanche dai suoi uomini, si avventò sulLeone di Damasco, tirando colpiall’impazzata. Muley-el-Kadel, che nonvoleva provocare un urto della pesantescimitarra colla propria spada, troppo

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leggera, balzava a destra ed a sinistracome una giovane tigre, aspettando ilmomento opportuno per vibrare il colpomortale. Il kaymakan, credendo cheavesse paura, si spingeva stupidamentesotto, tagliando solamente l’aria eminacciando di spaccare le zare. Perfinoi cavalleggieri ridevano, aumentando lasua rabbia.

Muley-el-Kadel giuocava il suouomo, senza però commettereimprudenze.

Aspettava la buona occasione per farpenetrare la salda punta della sua spadain qualche arteria della corazza.

Il kaymakan, che non faceva troppobella figura di fronte ai suoi uomini, di

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quando in quando scattava, assaltando ilLeone con grande coraggio. Non era unospadaccino, tuttavia con quella pesantescimitarra era un avversario sempretemibile.

I cavalleggieri, i candioti, l’albanesee Nikola assistevano a quel drammaticoduello senza intervenire, non avendoquesti ultimi che una cura sola: quella ditrattenere i cani, sempre pronti aslanciarsi. La lotta durava da un paio diminuti, ed una grossa zara era andata apezzi con grande fracasso sotto unterribile colpo di scimitarra, quando sivide il Leone di Damasco slanciarsiurlando: – Sei morto!...

La sua lama era scomparsa sotto la

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gorgiera del kaymakan, affondandosinella gola. Il turco, che non aveval’elmo, fissò sul suo avversario dueocchi pieni d’odio, poi le forze glivennero improvvisamente meno e rovinòal suolo con gran fragore, lasciandoandare la scimitarra che non avevasaputo difenderlo.

I cavalleggieri, vedendo il loro capocadere, invece d’impegnarerisolutamente la lotta, fuggirono arompicollo, perseguitati dai mastini, iquali tentavano di mordere loro legambe, difese fortunatamente dallegambiere d’acciaio. Raggiunti i cavallimontarono in sella e si allontanarono agran corsa, fermandosi a duecento metri

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dalla fattoria, in mezzo ai solchiprofondi e larghi dei campi.

Il kaymakan non parlava più, né siera più mosso. Il colpo che al Leone diDamasco non era riuscito che in partecontro Metiub, aveva raggiunto il suoscopo. La punta della spada avevaspaccata la carotide del fanfarone, ed ilsangue sgorgava a torrenti dalla ferita.

Domoko si curvò sul ferito, poi dissea Kara ed a Kitar:

– Portatelo fuori: é un uomo morto.I due robusti giovanotti afferrarono il

turco per le gambe e le braccia eandarono a gettarlo in un solcoprofondo, pieno di ossa di cristianicalcinate. Alcuni colpi di pistola furono

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sparati contro di loro dai cavalleggieri,ma quelle armi avevano allora troppopoca portata per spingere un proiettile aduecento metri.

– Vittoria sterile – disse il Leone diDamasco, mettendo in fuga i cani, i qualistavano bevendo avidamente il sanguedel kaymakan. – Eccoci ora assediati.

– Non preoccupatevi, signore – disseil fattore. – L’orologio é sempre fermo, equesta sera gente animosa, pronta a tutto,giungerà. Io vorrei caricare quellecanaglie a corsa sfrenata. Sono certo chenon resisterebbero al nostro urto.

– Ne sono convinto, ma una palla dipistola, sparata anche a casaccio, puòuccidere l’uomo più audace che viva

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sotto la cappa del cielo. Lasciateli fare:più tardi salderanno i conti con noi.

– E se mandassero qualcuno al campoa domandare dei rinforzi?

– Non inquietatevi anche per questo,signor Muley – disse Domoko. Kitar égià sulla torre coll’ordine diarchibugiare il primo turco che cerca diallontanarsi. Mio cognato é unmeraviglioso tiratore che vi abbatte unuomo anche a cinquecento passi. Voleteche andiamo a vedere che cosa fanno gliassedianti?

– Stavo per proporvelo – rispose ilLeone di Damasco.

Presero gli archibugi, accesero lemicce, ed uscirono scortati da Nikola,

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dall’albanese, da Kara e dai cani. Icavalleggeri, anche se privati del lorocapo, non parevano affatto disposti adandarsene. Avevano fatto coricare icavalli affinché servissero come trincea,e si vedevano gesticolare animatamente.

– Si sono messi in testa di prenderci – disse Domoko. Sono sempre in dodici,ma se giungono gli amici dell’altrafattoria, anche noi saremo per lo meno indieci e tutti ben decisi. Ah!... Mel’aspettavo!...

Un cavallo si era alzato di colpo, edun cavaliere si era slanciato sulla sellaguidandolo verso levante, ossia indirezione dell’accampamento.

– Lasciate fare a Kitar disse il fattore,

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vedendo che il Leone di Damascoimbracciava l’archibugio.

– E se mancasse il colpo?– Non lo mancherà.Il cavaliere si era allontanato di due o

trecento passi, filando a gran galoppofra i larghi solchi dei campi. Ad un trattosi udì uno sparo risuonare in aria. Kitar,dal campanile, aveva fatto fuoco. Ilcavalleggiero, colpito dall’infallibilepalla dell’isolano, allargò le braccia eprecipitò dalla sella.

– Il cavallo ora!... gridò Domoko.Muley l’aveva già puntato. Una

seconda detonazione rimbombò sullatranquilla pianura soleggiata, ed ildestriero fece dapprima un immenso

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scarto, poi si drizzò sulle zampe didietro scuotendo rabbiosamente la testa,e andò a cadere a quindici passi dalcavaliere. I turchi, spaventati balzaronoin piedi sparando i loro pistoloni i cuiproiettili avevano appena la portatad’una ventina di metri, poi, fatti alzare icavalli, saltarono lestamente in sella,andando ad accamparsi in mezzo alvigneto di Domoko.

– Mi rincresce per la vostra uva – disse Muley-el-Kadel, ridendo, alfattore.

– Oh!... Non ero certo di pigiarla tuttaquest’anno, signore. Quando c’é il turcoin campagna divora il cristiano ed ancheil rinnegato. Non ci contavo su quella

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raccolta.– Ed intanto ci assediano – disse

l’albanese. – Hanno la testa dura quellagente.

– Di’ che hanno del coraggio – disseMuley.

– E noi rimarremo qui a guardarlisenza nulla tentare?

– Non aver fretta, giovanotto – disseDomoko. – Aspettiamo questa sera, egiacché gli assedianti ci lascianorespirare, facciamo colazione. Ho benpoco da offrirvi perché la miseria regnaormai dappertutto, ma approfittate.

Kara rientrò e preparò rapidamente latavola. La colazione era piuttosto magra,poiché consisteva in una terrina piena di

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koisé, ossia di foglie di bietole, conditeperò con olio eccellente, in un vaso diyaourt, ossia di latte cagliato e di panegrossolano, vecchio di qualche mese.Quantunque i turchi continuassero astrepitare ed a sparare pistolettate, gliassediati fecero scomparire lacolazione, non dimenticando però Kitar,il quale vegliava sempre sulla cimadella torretta. A mezzodì la situazioneera invariata. I turchi non avevano osatodistaccare più nessun cavaliere perpaura di quell’infallibile archibugiere,che li vedeva benissimo anche se eranonascosti nel vigneto.

– Fino a questa sera non avremonovità. – disse Domoko, offrendo al

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Leone di Damasco uno scibouk carico ditabacco biondo e profumato. I turchi cisorveglieranno, però credo che nonoseranno assalirci.

Come per contraddirlo si udì, proprioin quel momento, un altro colpod’archibugio seguito dalla voce di Kitar.

– All’armi!... aveva gridato il cognatodi Domoko.

I cinque assediati si precipitaronofuori dallo stanzone e videro tutti imussulmani in sella, colle scimitarresguainate, come,se si preparassero atentare una carica disperata.

– Alto là., teste calde!... gridòl’albanese, sparando una archibugiata.

I cavalieri, per nulla spaventati,

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lanciarono i loro destrieri verso lafattoria, mandando urla selvagge.

– Lascia andare i cani, Kara!... gridòil fattore.

I due mastini, appena udito un fischio,partirono velocissimi abbaiandofuriosamente e minacciando di morderele gambe dei cavalli. Intanto Muley,Nikola e Mico continuavano a sparare,con nessuna fortuna però, poiché icavalleggieri si tenevano fra i filaridelle viti, ancora copiosamente copertidi pampini e di foglie. I mussulmani,privi del loro kaymakan, pareva cheavessero rinunciato ad una caricafuriosa e decisiva, una di quelle caricheche avrebbe dovuto portarli fino alla

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sala a pianterreno della fattoria, acombattere fra le zare, le tavole e gliscanni. I mastini, abituati alla guerra,tribolavano gli assedianti con fintiattacchi, sfuggendo facilmente ai colpidi pistola, poiché i cavalli non stavanopiù fermi, e tentavano di sbarazzarsi deicavalieri. Dopo una mezz’ora, tuttavia, icavalleggieri riuscirono a raggrupparsi,e sfilarono a corsa sfrenata davanti allafattoria, scaricando le loro pistole.

Fu allora che Mico fece un bel colpo.Vedendo avanzarsi un sergente a brigliasciolta, mulinando la scimitarra, loprese di mira e gli sparò contro,sbalzandolo di sella.

I mastini si erano subito precipitati

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sul caduto, per finirlo coi loro dentid’acciaio, e la cosa non fu lunga.

– Non sono che dieci – disse Muley-el-Kadel. Gli assedianti si squaglianocome le nevi del monte Libano, quandoil sole comincia a morderle. Setentassimo una carica?

– No – rispose ancora una volta ilprudente fattore. – Siete mio ospite, edevo salvarvi.

– Ma quella canaglia fuggirà appenaci vedrà in sella. Fate condurre qui icavalli e diamo dietro ai cani.

Domoko scosse la testa.– No – disse. – Se il Leone di

Damasco fosse ucciso, mi attirereil’odio tanto dei mussulmani quanto dei

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cristiani. Aspettate, signore.In quell’istante si udì l’orologio, che

era stato muto fino allora, battere alcunitocchi.

Domoko mandò un grido:– I soccorsi giungono, e Kitar ha dato

nuova corda all’orologio. Kara, va’ ainsellare i cavalli, mentre noi teniamo adistanza quelle canaglie.

I cavalleggieri, sempre tribolati daimastini, dopo d’aver fiancheggiata lafattoria a corsa sfrenata, erano ritornatinel vigneto, nascondendovisi dentro.

Muley, Domoko, l’albanese ed i lorocompagni continuavano a schioppettare.

Anche Kitar sparava, cercando didiminuire il numero degli assalitori, più

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che mai ostinati in quell’assedio cosìpoco felice. Già una ventina di colpierano stati sparati, quando Karacomparve dinanzi alla porta conducendoi cavalli.

– In sella – disse. – Gli amicigiungono.

Anche i candioti avevano deibellissimi animali, assai più robusti diquelli di Muley e dei suoi compagni,derivati da incroci di cavalli arabi edella steppa turcomanna.

Un colpo d’archibugio rimbombò inlontananza, seguito subito da unsecondo.

Tutti erano montati in sella ed eranousciti. Quattro cavalieri d’aspetto

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brigantesco, si avanzavano attraverso lacampagna, urlando:

– Morte alla Mezzaluna!...– Aiutiamoli – disse Muley.E partirono tutti, ventre a terra, colle

spade, colle scimitarre o gli yatagan inpugno. I turchi, vedendo rovinarsiaddosso quella valanga, tentarono lariscossa, e andarono a cadere addossoai quattro candioti che accorrevano inaiuto degli assediati cogli archibugiarmati. Rintronò una scarica e trecavalieri vuotarono l’arcione.

Gli altri cercarono di ritornare versoil vigneto, ma Muley-el-Kadel, Domokoed i loro compagni li attendevano inpiena volata. L’urto fu tremendo.

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Scrosciarono le corazze, le spade e lescimitarre, poi tutto il gruppo deicavalleggieri si abbatte fra i solchi. Icani finivano ferocemente i feriti, senzache i candioti, troppo avvezzi alleodiosità ed alle crudeltà turche,cercassero d’intervenire.

– Si confonda il sangue dei nostripadri con quello dei mussulmani!...gridavano.

E dove i cani non finivano, finivanocogli yatagan. Avevano, d’altronde,imparato dagli invasori, i quali nonavevano risparmiato né i vecchi, né ledonne, né i fanciulli.

Muley-el-Kadel, ritto sul suo cavallo,aveva assistito alla strage dei suoi

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correligionari d’un tempo, colle labbrastrette e la fronte oscura. Dato il grandeurto decisivo, si era ritirato da parte.Ormai la battaglia era vinta, e la suaspada invincibile non aveva più nulla dafare.

– Ebbene, sono finiti, Korika? chieseDomoko al candiota che aveva condottiquei quattro intrepidi cavalieri.

– A quest’ora sono seduti sulleginocchia delle urì – rispose l’isolano.– Gente fortunata!...

– Grazie del tuo intervento.– Al mio posto, tu avresti fatto

altrettanto, Domoko – rispose il padronedella fattoria della Korika.

– Oh, non avrei esitato. Siete stato

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attento all’orologio?...– Si, – rispose il fattore. – Non

udendolo più suonare, mi sonoimmaginato che tu, Domoko, doveviessere alle prese coi turchi, e sonopartito subito coi miei tre figli.

– Hai mai veduto quest’uomo,Korika? – chiese Domoko, addttandogliMuley-el-Kadel, il quale sparava, conMico e Nikola, sui cavalli fuggenti,affinché non tornasseroall’accampamento turco.

– Un bel guerriero. L’ho vedutocaricare, e lui solo ha fatto per quattro.

– È il famoso Leone di Damasco.– Per tutti i pescicani del

Mediterraneo!... Il famoso guerriero

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mussulmano che ha rinnegata laMezzaluna per la Croce?

– Si, Korika.– E vuole andare? Alla rada di

Capso. Vi sono ancora le galereveneziane di Sebastiano Veniero?

– Sono sempre all’àncora, in attesa didare improvvisamente addosso allaflotta del Pascià.

– Che sia sgombra la via?– Non troveremo nessun turco sulla

nostra corsa, Domoko. E poi, ormai,siamo in buon numero, e col Leone diDamasco non vi é d’aver paura. I turchihanno perduto un grande guerriero, chepoteva avere nelle vene il sangue d’unMaometto II.

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Muley-el-Kadel ritornava collamiccia quasi consumata, accompagnatoda Mico e dal greco. Tutti i cavalli,rimasti senza cavalieri, erano caduti inmezzo ai campi, sotto i colpid’archibugio. I poveri animali, privi deiloro padroni, si erano lasciati fucilaresenza protestare. Erano caduti tuttidentro il vigneto, entro il quale avevanocercato di rifugiarsi.

– Signor Muley – disse Domoko,andandogli incontro. – Volete chepartiamo per la rada di Capso? Ilmomento é buono.

– Lo credo – rispose il Leone diDamasco. Voi, candioti, avete però nellevene non dell’acqua, come credono i

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miei correligionari d’un tempo. Vicredevano dei montoni da tosare, edinvece hanno trovato dei lupi, e dei lupiben fieri.

– È una guerra a morte, signore – rispose il fattore. Anche se hoabbracciata la fede mussulmana collaparola, e non già col cuore, credete voiche io fossi sicuro di svegliami semprevivo al mattino? I vostri hanno bisognodel nostro sangue per ingrassare i campiche un giorno diventeranno, a meno d’unmiracolo, loro proprietà. Partiamo?

– Io ritorno alla mia fattoria – disseKorika. – Ho i montoni all’aperto, e se iturchi giungono, non ne troverò più uno.

– Va’, brav’uomo, e grazie.

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Il fattore salutò il Leone di Damascoed i suoi compagni, e partì, a grangaloppo, verso ponente, accompagnatodai suoi tre figli.

– A che ora potremo giungere allarada? – chiese Muley a Domoko.

– Verso mezzanotte, signore.– E tutti questi cadaveri? Li

lasceremo marcire così? È vero che iturchi non si prendono la briga diseppellire i cristiani.

– S’incaricheranno i mangiatori dimorti – rispose il candiota, indicando gliuccellacci che calavano in gran numerosul vigneto. – Domani nessuno saprà se icaduti erano turchi o seguaci dellaCroce. Partiamo prima che Sebastiano

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Veniero spieghi le vele e tenti qualchecolpo verso la Morea.

Discese da cavallo, chiuse la porta,poi il piccolo drappello si mise incorsa, mentre le tenebre scendevanorapidamente. I mangiatori di cadaveriaccorrevano a stormi immensi,gettandosi ferocemente sui cavalli e suiturchi.

Accorrevano da tutte le parti,pigolando stranamente, e sbattendofortemente le larghe e robuste ali. Primadell’alba tutta quella carne dovevaessere sparita, e forse anche moltoprima. Altro che le iene e gli sciacallidell’Algeria e della Tripolitania!...Domoko si era messo alla testa del

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drappello e conduceva la corsavelocemente, avviandosi verso il mare,che doveva rumoreggiare verso ilsettentrione. Per la campagna tenebrosanon si scorgeva anima viva, tuttavia icavalieri, per precauzione, avevanoaccese le micce agli archibugi, poichénon era improbabile che deivolteggiatori turchi si aggirasserospecialmente lungo la marina. Versomezzanotte Domoko rallentò la corsa.Un vento fresco, vivificante, cominciavaa soffiare dal nord era vento marino.

– Fra poco ci saremo disse il fattore,il quale aguzzava gli sguardi, collasperanza di scoprire i grossi fanà dellegalere veneziane.

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Concessero ai cavalli un po’ diriposo, poi tornarono a spingerli cogliangoli delle staffe.

– Lumi – disse Nikola, dopo pochiistanti. – Sono lumi di navi.

– Avanti!... disse il Leone diDamasco.

Si slanciarono attraverso i campi, inmezzo ai quali non sorgevano che radefattorie, quasi rase al suolo dai turchi,poi scesero verso la marina, gridando apiena gola: – Aiuto!... Aiuto!...Cristiani!...

Dentro la rada di Capso, una piccolainsenatura nascosta da alte scogliere, sitrovavano ancorate sei galere di grossaportata, a ne ordini di remi, le migliori

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che la Repubblica aveva potutoraccozzare nell’Adriatico. Udendoquelle grida, i marinai venezianispararono in aria qualche colpod’archibugio, poi misero in acqua ungrosso caiccio, armato d’una piccolacolubrina, imbottita di mitraglia. Unufficiale era sbarcato sulla spiaggia e siera mosso verso il drappello, mentre isuoi uomini, temendo sempre qualchesorpresa da parte dei turchi, soffiavanosulle micce degli archibugi.

– Chi siete? – domandò.– Andate a dire che Domoko é

ritornato, e che conduce con sé il famosoLeone di Damasco.

– Siete inseguiti?

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– No: abbiamo distrutta tutta lacavalleria che ci dava la caccia, e nonvi é più un turco vivo per un giro diventi miglia.

I marinai alzarono le lanterne,guardando attentamente uno ad uno ifuggiaschi, poi l’ufficiale disse: – Abordo: il Leone di San Marco viprotegge sulle sue galere.

Inizio

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SEBASTIANO VENIEROSebastiano Veniero, che doveva più

tardi immortalarsi nella famosa battagliadi Lepanto, era il più audace ammiraglioche avessero i veneziani. Dagiovanissimo, come usavano allora ifigli dei patrizi veneziani, si era datocorpo ed anima al mare, intraprendendolunghissimi viaggi, specialmentenell’oriente barbaro, dove vi era quasisempre la possibilità che qualchesquadriglia di galere turcheaccorressero all’abbordaggio. Scoppiatala guerra col turco, il forte marinaio,innalzato alla carica di grandeammiraglio, malgrado contasse allora

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ben settantadue anni, vi aveva presa unaparte importantissima, accorrendo alladifesa di Cipro.

Con poche navi, e non di certo nuove,quell’uomo ammirabile aveva compiutodei prodigi, e molti di più ne avrebbeconseguiti, se il suo compagno,l’ammiraglio Angelo Zane, lo avesseappoggiato colle sue navi, mentresvernava tranquillamente nella baiadell’Arcipelago. Prima di essere statomandato a combattere i turchi, era statomandato a Brescia, come capitanogenerale, guadagnandosi il titolo diSavio, poi a Udine, coi delegati dellaRepubblica, a trattare coi rappresentantidi Ferdinando I, per risolvere le gravi

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controversie esistenti fra i confini dellaSerenissima e di casa d’Austria,mostrandosi ammirabile diplomatico.

Era però uomo troppo d’azione peraccontentarsi delle questioni dove solola lingua aveva ragione. Aveva provato iturchi in parecchi scontri, ed avevagiurato contro quei barbari un odioimplacabile.

La potenza ottomana già verso la metàdel 1500 si era minacciosamenteingrandita, e non rispettava più nétrattati, né convenzioni: «avanti collenostre scimitarre e colle nostre galere.»,era il grido che usciva da milioni dipetti di fanatici, sempre pronti a morireper Maometto. L’Europa, quantunque

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spaventata, nulla aveva fatto perfiaccare fino da principio lo smisuratoorgoglio di quegli orientali, che piùtardi doveva naufragare, senza alcunagloria, a Lepanto. Solo Venezia avevacolonie e grossi interessi in Oriente; benpoco fecero i genovesi e gli spagnoli, iquali miravano, segretamente, alladistruzione della Serenissima, diventataassai potente allora. Sulla fine del 1569giunge a Costantinopoli, esagerata, lanotizia che l’arsenale di Venezia hapreso fuoco e che la flotta é distrutta.Era allora Sultano Selim, un granbevitore di vino di Cipro, che nullaaveva delle grandi energie di MaomettoII. Credendo che quell’incendio avesse

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fiaccato d’un colpo la potenzamarinaresca della Reginadell’Adriatico, come un malfattore chedomanda la borsa o la vita, intimabrutalmente la guerra, e lancia trecentogalere verso Cipro, montate dacentomila uomini. Venezia, quantunqueavesse in quell’epoca una flotta assaiscarsa, abituata a lottare coi turchi,accetta la sfida anche se le mancal’appoggio degli stati cristiani, e mandale sue galere nelle acque delMediterraneo orientale, al comando delZane e del Veniero, il quale eranominato capitano generale di quelladisgraziata isola, ma troppo tardi ormaiper salvarla.

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Nonostante i suoi anni, lanciato nellagrande impresa guerresca, Venieroagisce come un giovane ammiraglio.Espugna audacemente il castello diSopotò di Corfù, tenuto fortemente daiturchi, per agguerrire i suoi equipaggi,montando lui stesso all’assalto inpantofole, avendo riportata, in uncombattimento navale colle navi di AliPascià, una grave ferita che non volevarimarginarsi. Incoraggiato dal successo,il vecchio guerriero tenta l’espugnazionedel castello di Margariti, poi attaccafuriosamente la fortezza di Moina,situata sulla punta meridionale dellaMorea, e veleggia verso Cipro, pursapendo che i mussulmani hanno

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radunata una squadra strapotente.Disgraziatamente vi giungeva troppo

tardi. Nicosia era stata espugnata daiturchi, e la sua popolazione era statapassata quasi tutta a filo di spada, eFamagosta aveva ormai intornocentomila giannizzeri. Già la testa diNicolò Dandolo era stata gettata dentro ibastioni della città assediata, come unterribile ammonimento ai capitaniveneziani che non volevano arrendersi.Sebastiano Veniero, quantunque nonappoggiato per nulla dallo Zane, tenta laspedizione di Cipro, ma la grave piagaalla gamba lo costringe a fermarsi aCandia per curarsi. Non aveva perdutoperò il suo tempo, ma da buon

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ammiraglio, aveva agguerriti con cura isuoi scarsi equipaggi, per prepararliall’urto supremo col mussulmano.

Frattanto Venezia, spaventata daquello scatenarsi della potenza turca,che minacciava di strapparle tutte lecolonie che possedeva in Oriente, si erarivolta a Pio V affinché decidesse glistati cristiani, in difesa della fede, asoccorrerla colle loro flotte. Il Papa nonera rimasto sordo al grido d’aiuto dellaSerenissima, ed aveva potuto indurre ilre di Spagna, Filippo Il, a mandare inItalia una forte squadra al comando diGiannandrea Doria, mentre metteva adisposizione della Repubblica le suegalere romane, guidate da Marcantonio

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Colonna.Ma la Spagna non aveva nessun

interesse ad aiutare efficacementeVenezia, che le aveva date tante noie interra, sui piani lombardi, sicché lesquadre, dopo una lunga attesa, avevanofatto finalmente vela per Suda, nell’isoladi Candia, dove l’animoso Veniero leaspettava ansiosamente per piombaresulle squadre del feroce Pascià. Fu unapura comparsa, giacché nessuno deglialleati aveva voglia, allora, di provareil filo delle scimitarre ottomane, nonreputandosi ancora abbastanza forti, edapprendendo che ormai Cipro erainvasa, e che Famagosta stava percadere, se ne stettero tranquilli a

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svernare in quella comoda baia.Sebastiano Veniero però, malgrado la

sua ferita, malgrado le irresolutezzedello Zane, non era rimasto inoperoso, eall’abbandono delle due squadre guidatedai veneziani Canal e Quirini, ritiratesidinanzi alle galere del Pascià, giàveleggianti verso Candia, concepisce unarduo disegno: quello di tagliare lastrada del ritorno alla flotta avversaria.Voleva tentare anche di accorrere inaiuto di Famagosta, ormai ridotta agliestremi, ma lasciato solo dagli alleati,torna in Italia, sfuggendo alle galere delPascià che s’apprestavano allaconquista di Cipro, in attesa di tempimigliori e di maggiori rinforzi.

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Quando il Leone di Damasco ed i suoicompagni salirono sulla capitana, ilvecchio ammiraglio era ancora desto estava discutendo col giovanissimo, magià valorosissimo nipote Lorenzo, di cuiintendeva fare un gran capitano. Stavaseduto sull’ampio cassero, difeso daltelone, tenendo la sua gamba, sempreferita, su una sedia. Vedendo Domoko eNikola, che già in altre occasioni avevaconosciuti, apprezzando il loropatriottismo per la Serenissima, el’intenso odio contro i turchi, aveva fattocenno d’alzarsi, ma il Leone di Damascofu pronto a farsi innanzi ed impedirgli dimuoversi.

– No, signor ammiraglio – aveva

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detto il prode ex turco, che godevaormai una immensa popolarità anche inItalia. – Voi non dovete alzarvi persalutare Muley-el-Kadel.

– Il Leone di Damasco!... avevaesclamato l’ammiraglio, guardandolocon vivo interesse. Il vostro nome étroppo noto a Venezia perche ogni buonveneziano non lo ricordi. Venite daCandia?

– Si, ammiraglio.– Come vanno le cose laggiù? Che

anche quella disgraziata città finiscacome la infelicissima Famagosta?

– Si resiste, si combatte giorno e nottee si muore per la gloria del Leone di SanMarco, col nome di Gesù sulle labbra.

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– La sua caduta non é imminente?– No, i turchi avranno ancora molto

da fare per stringere l’assedio.– Se voi, Muley, avete osato uscire

dalla città per raggiungermi, vi deveaver spinto qualche grave motivo.

– Il Pascià mi ha rapito mio figlio dalpalazzo Loredan, sul Canal Grande.

– Ah!... Canaglia!... gridò il vecchioammiraglio. – Che cosa vuol fame? Unpiccolo mussulmano? Voi aveteabbandonata la Mezzaluna, e quelbrigante ha pensato subito di dare unaltro seguace al Profeta.

– Sarà stata Haradja a organizzaretutto – disse il Leone di Damasco.

– La castellana d’Hussiff!

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– Si, ammiraglio.– È vera nipote del Pascià, ma non

cada fra le mie mani: benché donna, nonla risparmierei. Dove si trova vostrofiglio: sulla capitana?

– Sì – disse Nikola. – È guardato inuna cabina del quadro.

– Maltrattato?– No, finora. Ho lasciato la capitana

tre giorni fa, ed ho potuto vederlo.– Tu eri marinaio del Pascià, se non

m’inganno.– Sì, ammiraglio – rispose il greco.– Ecco un uomo prezioso – mormorò

Sebastiano Veniero. – Quante galere hail Pascià?

– Duecento, signore. E tutte in ottimo

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stato e formidabilmente armate.L’ammiraglio fece un gesto di

scoraggiamento, ma subito l’ammirabileenergia gli ritornò.

– Chissà... disse, come parlando frasé. – Una sorpresa può sempre avvenire.

Guardò in viso Muley-el-Kadel,dicendogli:

– Non sarà facile strappare vostrofiglio al Pascià, tuttavia voi avete resi aVenezia troppi servigi perché io noncerchi di aiutarvi.

– Ero venuto anche per un altroscopo.

– Dite, Muley.– Mio padre, il Pascih di Damasco, é

stato fatto prigioniero da Haradja,

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coll’aiuto di una parte delle galere delPascià, torturato e poi rinchiuso neisotterranei del castello d’Hussiff.

– Del castello maledetto che io centovolte, se ne avessi potuto avere i mezzi,avrei già distrutto!...

– Sì, ammiraglio.– Lo abita la nipote del Pascià?– No, perché é a bordo della capitana

di Alì, ferita da una stoccata che le hadato dinanzi ai bastioni di Candia miamoglie, Capitan Tempesta …

– La duchessa, vostra moglie, é laprima lama della cristianità – dissel’ammiraglio. – Ha scavalcato anchevoi, é vero Muley e sotto le mura diFamagosta?

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– Io non ho mai rimpianto quellaferita e quella terribile umiliazione,perché senza di quelle sarei ancoraturco.

– È vero – disse l’ammiraglio. – Sidice però che voi siate sempre il piùfamoso spadaccino che avesse l’armataottomana.

– Lo ero prima dell’incontro con miamoglie. Ora la duchessa può battereanche me.

– Cavalleria.– No, ammiraglio, mia moglie, come

avete ben detto poco fa, é la piùtremenda lama della cristianità.

Sebastiano Veniero calzò la suapantofola, fabbricatagli appositamente,

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non potendo reggere il peso dei gambalid’acciaio, e con uno sforzo si alzò.

– Non é colle chiacchiere che sivincono le battaglie, ed il Senatoveneziano l’ha capito, ma quando eratroppo tardi.

Girò intorno alla sedia senza l’aiutodi alcuno, poi fermandosi dinanzi aMuley-el-Kadel gli chiese: – Il padre odil figlio prima?

– Il figlio – rispose il Leone diDamasco.

– Ah!... Se potessi attirare in unagguato quel dannato Pascià con pochegalere!...

– E perché no, ammiraglio – disseNikola. – Si manda a quella canaglia una

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lettera perché venga subito qui aricevere ordini da parte del Sultano.Sarebbe necessario però avere un sigillodei sultani.

– Ne ho due che mi sono stati regalatidal conte Mocenigo risposel’ammiraglio. – Li aveva presi su unagalera ottomana del seraschieratodurante la sua ardita crociera in vista diCostantinopoli. Ah!... Quello era ungrande marinaio. Se Venezia ne avesseavuti due, le squadre di Ah Pasciàsarebbero a quest’ora in fondo alMediterraneo. Ma tutto non é finito. Lanostra volta verrà, e sarà allora ladistruzione della potenza ottomana. Tudunque dicevi, Nikola, di scrivere una

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lettera all’ammiraglio turco. Hum, étroppo furbo per cadere nell’agguato,tuttavia si può tentare, purché si possatrovare l’uomo che porti la lettera.

– Sarò io, signor ammiraglio – disseMico. – Il Pascià non mi ha mai veduto,e posso passare per un turco più o menofinito.

– Io ammiro il tuo coraggio, – disseVeniero però devo awertirti che i turchinon risparmiano, e che potresti finirestrozzato come Lorenzo Tiepolo, chepure aveva settant’anni; o tagliato apezzi come Astorre Baglione, o privatodella tua pelle, a colpi di rasoio, comeMarcantonio Bragadino.

– Conosco la ferocia di quelle

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canaglie, – rispose l’albanese eppure viassicuro, signor ammiraglio, che ioporterò la lettera se qualcuno mi terràcompagnia nel canotto che metterete amia disposizione.

– Se tu mi sbarchi prima di giungeresotto la squadra del Pascià, tiaccompagno io – disse il greco.

– Accettato, amico – risposel’intrepido albanese. Signor ammiraglio,non aspetto che la lettera ed unascialuppa armata a vela.

– È presto fatto – disse SebastianoVeniero. Conosco benissimo il turco e loscrivo correntemente. Speriamo che ilPascià, almeno una volta, metta da partela sua eccessiva prudenza e venga

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all’appuntamento.Sorretto da suo nipote, discese nel

quadro, che era ancora illuminato,mentre i marinai, già avvertiti,mettevano in acqua il loro migliore e piùrapido canotto, armandolo rapidamentecon una piccola vela latina ed un floccoinvece piuttosto largo.

Il Leone di Damasco intanto si eraavvicinato a Mico, in preda ad unavisibile emozione, dicendogli: – Potresti?

– V’intendo, padrone. Voi vorresteche io cercassi di rapire ad Haradjavostro figlio.

– E la tua fortuna sarà fatta.– No, padrone, non voglio fortune. Mi

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affidate però un’impresa che credosuperiore alla mie forze. Tuttavia viprometto che se posso tentare il colpo,lo eseguirò senza guardarmi alle spalle.

L’ammiraglio era tornato sul casserotenendo in mano una lettera che portavadei grossi sigilli.

– Ecco pel Pascià – disse, porgendolaall’albanese. – Se ti domanda che cosacontiene, rispondi solo che sono notiziedel Sultano. Non verrà, però qualchevolta una imprudenza si può commettere,ed Alì non é Maometto. Non avraipaura?

– No, signor ammiraglio – rispose ilcoraggioso albanese. – Se il canotto épronto io parto, purché Nikola mi

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accompagni.– Eccomi – rispose il greco. Io solo

so come si trova ordinata la squadra delBasciA nella rada di Candia. Se avessiun fuoco greco potrei incendiare lacapitana senza ingannarmi.

– E mio figlio!... gridò il Leone diDamasco.

– Avete ragione, signore. C’é ilfanciullo che impedirà molte audaciimprese.

– Vuoi, Nikola, che io m’imbarchi conte? – chiese Muley-el-Kadel.

– No – disse l’ammiraglio. – I turchisarebbero troppo felici di strapparvi didosso la pelle. Lasciate agire i nostriuomini, giacché non hanno paura della

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morte.– Il canotto – chiese Mico.– È pronto – rispose un ufficiale. –

Non avete che da imbarcarvi.– Andiamo, Nikola.– Una parola ancora – disse

l’ammiraglio. Io suppongo che voi nonimpiegherete meno di dodici ore agiungere nella baia di Candia,quantunque il vento sia favorevolissimoper una corsa verso oriente. Cercate digiungervi verso sera, così se il Basciàcadrà nella rete, non gli lasceremo iltempo di vedere se ha a che fare conturchi o con veneziani. Ed ora andate,miei bravi, e che San Marco vi protegga.

Il greco e l’albanese attraversarono la

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galera guidati da due giovani ufficiali, econ una scala di corda si lasciaronocalare nell’imbarcazione che alcunimarinai tenevano ferma, essendo il ventopiuttosto vivo.

Era una di quelle scialuppe che iveneziani chiamavano caicci, corti elarghi, ma buoni velieri se guidati da unabile timoniere.

– Lasciateci il posto – disse il grecoai marinai. – Ora ci pensiamo noi.

– Buon viaggio, signori risposero iveneziani, risalendo prestamente sullagalera.

– A me il timone, a te le vele – disseil greco a Mico. – Tutti gli albanesifanno una buona pratica sul lago di

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Scutari.– E ben pochi montanari l’hanno

percorso come me, camerata rispose ilfedele servo di Muley-el-Kadel. – Potrei passare subito gabbiere di primaclasse.

La corda fu ritirata insieme aiparabordi, ed il caiccio si mise al vento,allontanandosi velocemente versooriente. La notte era bellissima,quantunque non ci fosse luna, ed ilMediterraneo era appena mosso. Labrezza soffiava regolare ed abbastanzaforte da ponente, scaraventando solo ditratto in tratto qualche ondata contro lacosta, dove si rompeva con una lungaserie di detonazioni che parevano

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cannonate.– Giungeremo a Candia senza faticare

– disse il greco a Mico, che stringeva lascotta del largo flocco.

– E va bene, ma ora intendiamoci,amico – disse l’albanese. Dove dovròsbarcarti?

– A due miglia dalla città vi é ungruppo di scogliere che ha delle cavernemarine abitabili. Mi lascerai là.

– Ed io proseguirò colla scialuppafino alla capitana del Pascià.

– La costa non si presta in quel luogoper una marcia a piedi, e poi potresticadere sotto qualche archibugiata deivolteggiatori arabi, senza avere il tempodi mostrare la lettera del Sultano.

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– Potrò poi raccoglierti?– Farai il possibile. Non

preoccuparti, d’altronde, per me.Conosco l’isola e tutti i suoinascondigli, e avranno da fare i turchi sevorranno scoprirmi.

– Che il Pascià cada nella rete?– Chi lo sa? È sempre stato diffidente,

però io credo che dinanzi ad una letteradel Sultano non frapporrò indugio asalpare le àncore.

– Ah!... Se potessi strappargli primail piccino del mio padrone!

– Sarebbe un tentativo assolutamenteinutile, che potrebbe costarti la vita enull’altro. È troppo sorvegliato.

– Nel cassero?

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– Sì, nel cassero.– Bah, si vedrà – disse l’albanese,

che pareva deciso a tentare un colpo ditesta.

– Guardati soprattutto da Haradja.– So quanto vale quella terribile

donna.– Non ti conosce?– No.– E tu?– L’ho veduta battersi colla mia

padrona, ed ho potuto osservarla bene. Èuno di quei tipi che difficilmente siscordano.

– E nessuno può negare che la nipotedel Pascià sia una bellissima donna –disse il greco.

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– Oh, no!... disse l’albanese. – Io perònon la sposerei, ed il mio padrone hafatto bene a piantarla per tempo.

– Chissà a quest’ora se sarebbeancora vivo. Nelle vene di Haradjascorre un sangue perfido, che pare chenon domandi che delle stragi. Allarga latrinchettina e raccogli invece un po’ lalatina.

Il vento andava acquistando moltaviolenza, e sollevava delle grosseondate, le quali si spezzavano intornoalla scialuppa con un fracasso infernale.

Delle luci strane correvano sotto leacque del Mediterraneo. Le medusedovevano trovarsi raccolte in grannumero a due o tre meni di profondità, e

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sprigionavano i loro lampi simili aquelli che proietta una lampada elettrica.

Nikola osservò attentamente la costache si profilava a qualche miglio didistanza, piuttosto bassa e priva discogliere, poi si risedette al timonedicendo: – Tutto andrà bene.

Alle quattro del mattino il sole lisorprese dinanzi ad una minuscola radadeserta, che si allargava molto entro laterra. Un tempo doveva essere stataforse una importante stazione dipescatori, ma i turchi avevano distruttonon solo le barche e le reti, bensì anchegli equipaggi. E la strage doveva esserestata commessa di recente, poichéattraverso alle acque calme e limpide

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della rada, Nikola e l’albanese scorserodue uomini completamente nudi, legatiintorno ad un’àncora grossa di galera.

– Quante infamie!... disse il greco,mentre un’ondata di sangue gli saliva inviso. E morti, e sempre morti!... Il canemussulmano non é mai sazio di carnecristiana.

Quantunque nei dintorni non avesseroscorto né volteggiatori, né giannizzeri, everso il mare nessuna scialuppa, perprecauzione abbassarono le vele eaffondarono l’ancorotto accendendosubito le micce degli archibugi. A pochipassi dalla sponda sorgeva una vecchiacatapecchia, già mezza arsa, la qualepoteva, in caso di pericolo, servire di

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rifugio.– Se vengono li riceveremo come alla

fattoria di Domoko – disse l’albanese.Scesero sulla spiaggia, si prepararono

la colazione, avendoli l’ammiraglio benprovvisti di viveri, poi si stesero fra ledune di sabbia, in attesa che il soletramontasse. Quantunque fossero benlontani da Candia, udivano, di quando inquando, i colpi delle bombardemussulmane, piazzate intorno alla cittàassediata. Il rombo delle colubrineveneziane non giungeva che a lunghiintervalli, e quasi indistinto. Due volte ilgreco e l’albanese, completamenterassicurati, si prepararono il pranzodentro la catapecchia, affinché i

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volteggiatori turchi non potesseroscorgere il fumo, poi quando il soleparve annegarsi nel mare, rosso comeuna lastra di rame incandescente,tornarono a spiegare le vele.

Le stelle cominciavano a fiorire amiriadi in cielo, e le meduse, quasifossero invidiose, lanciavano attraversole oscure acque i loro bagliori piùvibranti che mai. Anche l’onda larga delMediterraneo non si rompeva più controla costa dell’isola, quantunque soffiasseun buon vento da maestro.

– Fra due ore, e forse prima, – disseNikola – noi saremo a Candia. TIbatte ilcuore?

– No, affatto – rispose l’albanese,

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alzando le spalle.– Eppure la tua impresa

spaventerebbe qualunque audace.– Parlo il turco correntemente, prego

come un muezzin, chi può credermi uncristiano con una lettera del Sultano? Tusai che se ne trovano dei mieicompatrioti a Costantinopoli.

– E anche dentro gli harem – risposeNikola. – Siete dei preferiti, credendovimussulmani più che convinti.

– No, l’Albania non é ancora tuttaturca – rispose Mico. Vengano adassalirci fra le nostre montagne, evedremo se la Mezzaluna mostrerà suinostri picchi i suoi colori.

– Là!... Dei lumi!...

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– I fanà della squadra del Pascià?– Certo rispose Nikola, il quale si era

alzato per osservare nuovamente lacosta.

– E il tuo rifugio? – chiese Mico,preparandosi a calare la vela latina.

– Aspetta ancora.Il caiccio continuò la sua corsa

velocissima per tre o quattro miglia, poiil greco lo spinse verso la costa dove sivedevano ergersi degli scogli. Parevache nascondessero qualche profondainsenatura, poiché al di là si udiva larisacca rumoreggiare fortemente.

– Ecco il mio rifugio – disse Nikola.Lassù vi sono delle caverne che eranoservite ancora d’asilo ai cristiani

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perseguitati dalle scimitarre turche. Nondista che un paio di miglia dalla rada diCandia, e non si trovano altre scoglieresimili sulla costa. Saprai venirmi ariprendere?

– Non mi sbaglierò, camerata – rispose l’albanese. Appena consegnatala lettera, se il Pascià non mi avrà fattoimpiccare, ti prometto di affondare quil’ancorotto.

– Per l’ultima volta: non tentare dirapire il figlio del Leone di Damasco.Moriresti nell’impresa senza esserestato utile a nessuno. Penseremo noi astrapparlo dalle unghie della tigred’Hussiff.

Prese un pacco contenente dei viveri,

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si gettò sulle spalle il pesantearchibugio, e dopo essersi benassicurato d’aver nella fascia I’yatagan,balzò sulla spiaggia.

– Parti subito – disse all’albanese. Lespie non mancano anche a Candia dopola venuta di quei cani di mussulmani.

– Buona notte, Nikola, e che Dio ce lamandi buona ad entrambi.

L’albanese, con un colpo di remo,allontanò la scialuppa, la rimise sul filodel vento, e si allontanò velocissimo,scomparendo ben presto fra le tenebre.Il greco lo seguì cogli sguardi finchépoté, poi si mise a salire la scoglieraper raggiungere una caverna a lui bennota. Essendo i pendii poco ripidi, in

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pochi minuti si trovò ad un’altezza dipiù di cinquanta metri. Vagò per un po’fra le rocce, poi si fermb davanti ad unlargo ed oscuro squarcio.

– Ecco la mia camera – disse. – E lascialuppa?

Si era voltato a guardare il mare, mail caiccio, come abbiamo detto, erascomparso.

– Terribile impresa – disse. – Ha delbuon sangue quell’albanese.

Ad un tratto, appena pronunciatequelle parole, il disgraziato si sentìafferrare fortemente per le spalle,mentre due voci rauche urlavano:

– Ah!... Cane d’un cristiano!...L’attacco era stato così improvviso,

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che il greco non aveva avuto il tempo ditogliersi l’archibugio, per servirsenecome una clava, poiché la miccia eraspenta, né d’impugnare l’yatagan.

Due uomini, due marinai della flottadel Bascià, erano usciti dalla caverna el’avevano sorpreso, riducendolo, quasisubito, all’impotenza.

– Che cosa facevi qui, cane lurido? – chiese il più anziano dei due turchi, unuomo barbuto e d’aspetto ferocissimo.

L’avevano disarmato e preso per lebraccia, scuotendolo ruvidamente.

– Io non sono affatto un cristiano – rispose prontamente Nikola. Comevedete, parlo il turco al pari di voi.

– Sì, tutti dicono così, per salvare la

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pelle – riprese l’uomo barbutoghignando.

– Non saremo però noi a crederti.– Ho servito il Pascià fino a pochi

giorni fa – disse Nikola. Ero uno deimastri della capitana.

I due turchi, che impugnavano dueluccicanti ed affilati yatagan, e cheavevano le fasce piene di pistoloni,proruppero in una grande risata.

– Brutto porco!... urlò l’uomobarbuto. Cerchi d’ingannarci? Noi nonsiamo uomini da lasciare la preda, unavolta sorpresa. È vero, Kitab?

– Certamente – rispose il secondomarinaio. – I cristiani sono prede fini, epoi valgono uno zecchino.

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– Che cosa volete da me? chiese ilgreco, che non cercava nemmeno di dibattersi.

– Che cosa vogliamo!... gridò l’uomobarbuto. Ah!... Ah!... Hai mai trovati diquesti stupidi, Kitab?

– Io no.– E nemmeno io. Signor mastro del

Pascià, fate il piacere di regalarci lavostra pelle. Le teste candiote si paganouno zecchino ciascuna, e con unozecchino, un povero marinaio ha da berevino di Cipro tutta la settimana, come ilnostro Sultano.

– E dov’é che si pagano? – chieseNikola, ironicamente.

– A bordo della capitana.

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– Così quando il Pascià vedrà la miatesta, e la riconoscerà, vi farà impalare.

– Adagio, marinaio d’acqua dolce,che non ha mai montato in vita sua suuna galera. Vedremo se la testa che gliporteremo giungerà in così buono stato.Orsù, lurido cristiano, ci hai giuocatiabbastanza, ed é tempo che ti prepari amorire. È vero, Kitab?

– Per la barba del Profeta!... Io nonvoglio perdere il mio zecchino.

– Come lo accomodiamo?– Canaglie!... – gridò il greco,

tentando, con uno sforzo supremo, disvincolarsi.

– Un’idea – disse Kitab. – Io non homai veduto una zucca cristiana

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scoppiare.– E cosi? – chiese il marinaio

barbuto, con un po’ d’inquietudine.Gli mettiamo in mano un paio delle

nostre pistole, e lo costringiamo asopprimersi. La testa sarà semprecristiana, ma con due colpi a bruciapeloil viso diventerà irriconoscibile. Se nonobbedisce, lo bucheremo coi nostriyaragan.

– No, Kitab, lo leghiamo all’ancorottodella nostra scialuppa e lo caliamodolcemente in mare. Vedrai come igranchiolini ridurranno quella testa.

– Tu ragioni come un gatto d’Angora– disse Kitab. – Il Pascià potrebbe direche noi abbiamo pescato un morto

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qualunque, annegato per caso. Ed allora,addio zecchino.

– Parli come Maometto – disse ilmarinaio barbuto. – Ed allora vediamocome scoppiano le teste dei cristiani.Credi tu che rimangano intere?

– Ne sono più che convinto.– Anche colle nostre pistolone? Vuoi

scommettere lo zecchino?– Accettato – disse Kitab.– Ed allora accendiamo le micce.Lasciarono in libertà il greco, il quale

d’altronde, trovandosi presso la cimadella scogliera, non avrebbe potutofacilmente fuggire, e prepararono le loroarmi, tranquilli, come se si trattasse dimandare all’altro mondo un cane

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qualunque.– Che cosa devo fare? – chiese

Nikola, quando vide le micce fumare.– Farti saltare le cervella – disse il

marinaio barbuto. – Abbiamo impegnatauna scommessa sulla tua testa, e né io,né il mio compagno, vogliamo perderla.

– Chiudi gli occhi e premi i grilletti.– Date: ormai sono un uomo morto.I due furfanti gli presentarono le due

pistole per la canna, poi dissero:– Fa’ saltare, cocomero cristiano.Due spari, seguiti da due urla,

avevano tenuto dietro a quelle parole.Nikola aveva impugnate le grosse

pistole, ma invece di puntarsele alletempia, per soddisfare quei manigoldi,

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spiccati tre passi indietro, aveva fattofuoco gridando:

– Sarò io, imbecilli, che vedròscoppiare i meloni turchi.

Aveva mantenuta la parola. I duemussulmani, colpiti in piena fronte,erano stramazzati dinanzi alla caverna,perdendo torrenti di sangue e di sostanzacerebrale.

– Le un’vi aspettano: passate!... disseil greco, con voce terribile.

Afferrò i due cadaveri, li spogliòdelle armi e delle munizioni, poi li feceruzzolare giù dall’alta scogliera. Siudirono due tonfi, poi più nulla. I turchierano già fra le urì.

Inizio

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SULLA GALERA DEL BASCIÁMentre il greco si sbarazzava così

abilmente dei due imprudenti manigoldi,Mico aveva continuata la sua corsaverso la rada di Candia. Per nonprendersi qualche colpo di colubrina,aveva acceso il fanale, poi si eracacciato sotto la costa, stringendo beneil vento. In lontananza scintillavano ifa& della squadra turca, quei grossi esplendidi fanali, alti talvolta perfino unmetro e mezzo, tutti in argento, e d’oropuro sulle capitane. Al largo invecebrillavano i segnali delle gagliotte,incrocianti avanti la rada, per coprire ilPascià da qualsiasi sorpresa. Mico, che,

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come marinaio, valeva il greco, orientòbene le sue vele, poi mosse verso unamezza galera che si lasciava andarelentamente, senza far uso dei remi, ad unmiglio dalla costa.

Una voce si alzò ben tosto sul mare,una voce piena di minaccia: – Ehi,fermati, o ti mitragliamo come un canedi cristiano. Chi vive?

– Turco che viene dalla rada diCapso, con lettera del Sultano gridò,l’albanese.

– Accosta.L’albanese lasciò cadere le vele, e

con una pronta ed abilissima manovra,condusse il caiccio sotto il babordodella mezza galera.

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– Monta!... – gridò una voce.L’albanese legò la scialuppa alla

scala, poi si arrampicò lestamente,finche giunse sulla tolda.

Un capitano, seguito da una mezzadozzina di ufficiali, gli piombò addosso,e stringendolo pel collo brutalmente,disse: – Mostra la lettera.

– Devo consegnarla solamente nellemani del Pascià – rispose l’albanese.Non sarò così stupido da aprirla. Ilgrande ammiraglio sarebbe capaced’impalarmi sulla cima di qualchealberetto, e non ho, per ora, nessunavoglia di andarmene. Prima desiderovedere la distruzione completa diCandia.

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Alcuni marinai avevano portato deifanali.

Mico levò la lettera, che avevanascosta in una tasca interna, e mostrò alcapitano, assai stupito, i grossi suggellidel Sultano.

– Per la morte di tutte le urì chepasseggiano nel nostro paradiso!...esclamò il capitano, facendosi un po’smorto. Avrei fatto un bell’affare seavessi mitragliato quest’uomo. Corpo diuna bombarda!... Veri sigilli. Liconosco, io.

Poi guardando attentamente, ed un po’sospettosamente, Mico, gli chiese: – Chite l’ha data?

– Non posso dirlo – rispose

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l’albanese. – Sono affari che riguardanosolamente il Pascià, ed anch’io ci tengoun po’ alla mia pelle.

– Hai ragione: sei giovane ancora, epuoi assistere a ben altri trionfidell’Islam.

Fece prendere a rimorchio il caicciogovernato da due marinai, poi la mezzagalera mosse sollecitamente, a grancolpi di remi, verso la flotta ottomana,ancorata di fronte alla spiaggia diCandia, in forma di un grande arco.Pareva che vi fosse tregua quella nottefra assediati ed assedianti, poiché lecolubrine e le bombarde tacevano.Solamente agli avamposti si sparavano,di quando in quando, delle archibugiate.

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La mezza galera, con una pronta ed abilemanovra, passò attraverso le duecentonavi della squadra, senza urtarnenessuna, ed abbordò la capitana, il cuicassero era vivamente illuminato da tregrossi fanà.

Il capitano salì a bordo, e si fececondurre dal Pascià. Questi stavafumando placidamente il narghilek,seduto dinanzi alla lunga tavola cheserviva pei pranzi dello stato maggiore,cercando di vuotarsi, di nascosto, comefaceva sempre, qualche vecchia bottigliadi Cipro. A pochi passi da lui, su di unaottomana di seta bianca, appoggiatacontro la murata di babordo, stavaadagiata Haradja, tutta avvolta in una

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leggera coperta di seta, essendo la notteassai afosa. La temibile donna era unpo’ pallida, ma i suoi occhi non avevanoperduto il loro splendore.

– Che cosa vuoi? chiese il Pascià,vedendo il capitano della mezza galerasalire la scala del cassero.

– Notizie da Costantinopoli, colsuggello del Sultano, signore.

– Una lettera?– Sì. Recata da un marinaio che viene

dalla rada di Capso.– Chi é?– Io non ho osato interrogarlo.– Tu sei uno stupido – disse il Pascià,

prendendo la lettera che il capitano gliporgeva. – Mandami qui l’uomo che l’ha

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portata.– Una lettera del Sultano!... – esclamò

Haradja, con voce un po’ alterata.Guardati, zio: sono sempre tristimessaggi, che finiscono per condurre allaccio di seta.

– Bah!... fece. – Si ha troppo bisognodi me, e poi la flotta mi é così devota,da condurla anche a Costantinopoli e farun po’ tremare tutti i poltroni cheingombrano gli harem non sognando chedelitti.

Ruppe, con precauzione, i grossisigilli, lacerò adagio adagio la busta dicartapecora ed estrasse una carta chelesse rapidamente.

– E così?chiese Haradja, che pareva

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assai inquieta.– Mi si invita a recarmi, colla

capitana, nella baia di Capso, perricevere ordini segreti che mi verrannotrasmessi da un alto funzionario delseraschierato.

– E perché? Che il Sultano siamalcontento delle operazioni d’assediodi Candia?

– È probabile – rispose il Pascià, ilquale sembrava pure non poco turbato.

– Che cosa si crede a Costantinopoli,che si possa radere al suolo una fortezzain una giornata? Vengano qui loro aprovare le colubrine e le spade deiveneziani.

– Non fidarti: si congiura troppo a

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Costantinopoli, e puoi avere moltiinvidiosi della tua fortuna.

– Lo so meglio di te – rispose ilPascià, il quale si era messo apasseggiare, assai accigliato,tormentando l’impugnatura della suascimitarra. – Se credono di togliermi ilcomando della flotta s’ingannano assai.

In quel momento ricomparve ilcapitano, seguito dall’albanese.

– Ecco l’uomo che ha portata lalettera aveva detto il comandante dellamezza galera.

Il Pascià piantò i suoi occhi addossoa Mico, il quale conservava una calmaammirabile, pur sapendo di camminaresull’orlo della tomba.

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– Vieni?gli chiese.– Da Capso.– Come sei giunto fino qui?– Con un caiccio armato a vela.– Vi é una galera a Capso?– Sì, mio signore, e giunta

direttamente da Costantinopolicoll’ordine espresso di non toccareCandia.

– Come si chiama quella nave?– La Strumica.– Non la conosco; sarà forse una

galera nuova.– È stata varata tre settimane fa.– Chi la comanda?– Il capitano Rodosto, ma…– Perché ti sei fermato? – chiese il

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Pascià, guardandolo fisso.– È un capitano che non ha più

comando, si può dire, dopo che ilSultano gli ha messo ai fianchi un ferik(generale brigadiere) che non se neintende affatto di cose di mare.

– Lo credo. Sai che cosa si vuole dame?

– No, mio signore.– Se tu avessi potuto dirmi qualche

cosa, ti avrei pagato bene.– Non sono che un povero marinaio

che non può sperare di interrogare isuperiori.

– Hai un accento strano. Da dovevieni?

– Dall’Albania, mio signore.

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– Anche quei montanari battaglieri sisono decisi a gettarsi sul mare?L’Adriatico é a portata di mano, ebattuto, quasi ininterrottamente, dallegalere veneziane.

Il Pascià guardò Haradja come perchiederle consiglio.

– Che cosa fare? – le chiese,sottovoce, avvicinandosi all’ottomana,Se tu non obbedisci, il Sultano é capacedi mandarti il laccio di seta, sia puredentro una scatola d’oro.

– E se mi ribellassi a questi ordiniche vengono da Costantinopoli, e nongià dal quartiere generale del Vizir?

– Una ribellione!... E poi?– È vero: dovrei andare a fondo e

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bombardare anche la moschea di SantaSofia. Ti farò trasbordare su un’altragalera ed io partirò, non solo però,piaccia o no al Sultano. Sono io cherischio la mia pelle questa sera, mentrelui se ne sta fra le sue favorite, bevendovino di Cipro. Anch’io sono unmussulmano.

– Cosa decidi?– Di recarmi all’appuntamento con

una grossa scorta.– Chi la comanderà?– Non preoccuparti. Ho sotto le mani

dei capitani che non hanno paura delfuoco.

Si volse verso Mico, il quale tendevagli orecchi, per non perdere nessuna

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parola, e gli chiese: – Che cosa ti hadetto il tuo capitano?

– Di ritornare al più presto possibile.– Per la morte del Profeta!... gridò il

Pascià. – Hai da preparare un laccio perme?

– Sono un marinaio e non uncarnefice, mio signore, e poi non osereialzare un dito verso il più grandeammiraglio che abbia oggi la Turchia.Voi siete un uomo troppo prezioso inquesti momenti.

– Odi, Haradja? – chiese il Pascià. Enon é che un semplice marinaioquest’uomo, che io, domani, se fossi ilSultano, nominerei contrammiraglio.

– Hum!... fece la castellana d’Hussiff,

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sottovoce.Poi il Pascià, rivolgendosi

nuovamente all’albanese, gli domandò:– Vuoi partire?– Se voi me lo permettete – rispose

Mico.– T. darò però un compagno, il quale

sarà incaricato di consegnare al tuocapitano una mia lettera. Io, primadell’alba, non potrò trovarmiall’appuntamento. Mogdor!...

Un negro gigantesco, che avevaaddosso un vero arsenale di armibianche e da fuoco, a quella chiamataaccorse, salendo sul cassero.

– Tu accompagnerai quest’uomo – glidisse il Pascià. Se tenta di fuggire

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ammazzalo.– Sì, padrone – rispose il negro,

guardando di traverso l’albanese.Il grande ammiraglio si mise una

mano nella larga fascia di seta rossa ene levò alcuni zecchini, dicendo: – Questi per ricompensarti della tuapremura. Se un giorno avrai bisognod’un alto appoggio, non scordare Alìl’algerino.

E porse le monete a Mico, che era benlontano dall’idea di guadagnarsi quelregalo, ma anche da quella di dovertornare alla rada di Capso con quelterribile negro.

– Grazie, mio signore dissel’albanese, cercando di nascondere le

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sue apprensioni. – Non mi dimenticheròmai della generosità del grandeammiraglio.

– Puoi andare.Mico augurò la buona notte e

riattraversò la capitana, seguito dalgigantesco negro, che pareva fosse, adogni passo, lì lì per piombargli addossoe strozzarlo, senza ricorrere alle armi. Ilcapitano della mezza galera aveva giàfatto armare la scialuppa, e l’aveva fattarimorchiare fino sotto la scala.

– Guardati dai pescicani – gli disse ilcomandante. Una gagliotta che é entrataor ora, ne ha incontrato parecchi.

– Ho il mio archibugio – risposeMico.

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Con pochi colpi di remo spinse allargo il caiccio, orientò le vele, poisedette al timone, mentre il negro gli sipiantava dinanzi, sul secondo banco,fissandolo terribilmente coi suoi grandiocchi di porcellana.

– È inutile che tu mi guardi così – disse Mico, seccato. Aiutami, invece,nella manovra.

– Io ho ricevuto l’ordine disorvegliarti – rispose il gigante.

– Non so da quale parte potreifuggire.

Il negro, invece di rispondere, si tolsedalla cintura due pistoloni, ecoll’acciarino e l’esca accese le micce.

– Che cosa fai? – chiese Mico, il

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quale cominciava a diventare assaiinquieto.

– Non hai udito che al largo vi sonomolti pescicani? rispose il negro,collocando le armi fumanti sul banco. Ilnostro caiccio é piuttosto piccolo, epotrebbe subire un assalto da parte diquei brutti pesci.

– Ah!... È vero – disse Mico. – Edallora accendo le micce del mioarchibugio.

– No.– Come no?– Io solo devo far fuoco. Passami il

tuo archibugio.– E poi vorrai anche la mia testa per

depredarmi di quei pochi zecchini che il

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Pascià mi ha regalati.– Io ho ricevuto solamente l’ordine di

sorvegliarti e non già di derubartirispose il gigante. – Gli zecchini litroveremo a Candia a palate, quando lacittà si sarà arresa. Sotto quelle case videve essere un letto d’oro.

– Chi te lo ha detto?– Lo dicono tutti al campo.– Io credo che non troverete che dei

cadaveri da spogliare – disse Mico.– Tu non sai nulla.– Se vengo dal mare, no di certo, non

essendo vissuto nei vostriaccampamenti.

– Oro!... Fiumi di zecchini!... – disseil negro.

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– Lascia andare gli zecchini, e badaun po’ anche tu alle vele.

– Io penso ai pescicani.– Ed allora potevi rimanere a bordo

della capitana se non posso contare sultuo aiuto.

– Ti ho detto che penso ai pescicani.– Ah, sì!... Finora non ne vedo.– Oh!... Giungeranno, non dubitare.– Passa anche a me una pistola, se

vuoi tenerti il mio archibugio.– Ci penso io a difenderti – rispose

l’ostinato negro. Le armi da fuocofumeranno vicino a me e non a te. Non sisa mai.

Mico masticò fra i denti unaimprecazione, e tornò a sedersi alla

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barra del timone, dopo d’avernuovamente orientata la piccola velalatina ed il largo flocco.

– Bisogna che mi sbarazzi di questosorvegliante, checché debba succedere –mormorò l’albanese, il quale, se avevaperduto il suo archibugio, aveva peròconservato il kamgiar, una specie didaga affilatissima, a doppio taglio,d’acciaio purissimo.

Il disgraziato si tormentava il cervelloper trovare il modo di sbarazzarsi diquell’importuno, quando scorse scorreresul mare, delle forme semicircolari chemandavano dei bagliori sinistri.

– I pescicani!... gridò. – Spara, osfonderanno la nostra scialuppa.

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Il negro era balzato subito in piedi,impugnando i pistoloni e si era portato aprora, poiché pareva che l’assaltodovesse avvenire da quella parte.

– Ah, le brutte bestie!... gridò. – Eccola peste dei mari giunge, ma ci sono io.

Sali sul castelletto, largo pochi passi,dove non era facile mantenersi inequilibrio colle controndate chegiungevano dalla costa, e cominciò asparare.

Voltava le spalle a Mico, sicché nonlo poteva più sorvegliare.

– Ora ti preparo io un bel giuoco – mormorò il montanaro.

Adagio adagio slegò la scotta dellavela latina, tirando a sé il pennone, poi

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diede al timone un colpo deciso.In quell’istante il negro si era armato

del moschetto, e per mirare meglio erasalito su un banco.

– Ci sei? – disse Mico.La scialuppa fece un brusco scarto,

poi la sua vela, presa da una rafficacontraria, volteggiò intornoall’alberetto, trascinando con sé ilpennone.

Si udì un grido terribile. Il negro,colpito dall’alto, era stato sbalzato inmare, fra i pescicani.

– Levatela come puoi, ora!... – gridòl’albanese, riprendendo il timone eraccogliendo la scotta.

– Assassino!... gridò il negro, il quale

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si trovava già fra le bocchefosforescenti. – Vieni a raccogliermi!...

– Ti do una delle tue pistole, se vuoi.– Il Pascià ti farà impalare sulla cima

d’un alberetto della capitana.– Non sarò così stupido di ritornare

laggiù.– Torna, canaglia, o se ti prendo ti

strapperò tutta la pelle che hai indosso.– Intanto difendi la tua dai morsi dei

pescicani.Il negro aveva ancora due yatagan

passati attraverso la sua larga fascia.Sicuro ormai che l’albanese non

avrebbe commessa la sciocchezza diandarlo a raccogliere, impegnò alloracogli squali che lo assalivano da tutte le

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parti, tentando di troncargli le gambe ele braccia, una lotta spaventosa. Robustocome era, e buon nuotatore di certo,come lo sono quasi tutti i negri, nondoveva cedere al primo urto. L’acquaera diventata fosforescente intorno a luied agli squali, poiché in quell’orasalivano dai fondi del Mediterraneo lenottiluche in compagnia delle meduse.Mico, che non aveva avuto il coraggiodi allontanarsi, poteva distinguerebenissimo il colosso, che si trovavaappena a cinquanta piedi dalla prora delcaiccio. Balzava come un animalemarino, sciabolava disperatamente, ecacciava fuori delle urla spaventose, lequali però pareva che non producessero

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alcun effetto sulle tigri del mare.– Sarà meglio una palla che provare i

denti di quei bruti – disse, montando sulbanco di prora e proiettando innanzi a séi raggi della lampada.

Allora vide uno spettacolo orribile. Ipescicani avevano già tagliato unbraccio al negro, tuttavia questicontinuava a dibattersi, mandando, diquando in quando, veri ruggiti di belvaferoce.

Ormai il disgraziato era perduto, enemmeno Mico avrebbe potutostrapparlo a quella torma di squalifamelici, resi più feroci dall’odore delsangue.

– È meglio che l’uccida – si disse. –

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La sua agonia sarà più breve.I due pistoloni fumavano sul primo

banco di prora. L’albanese li impugnò eli scaricò in direzione del negro. Duelampi illuminarono la notte profonda,seguiti da un urlo che parve il muggitod’un giovane toro. Mico alzò la lanternae guardò.

I pescicani erano tutti scomparsi;certo seguivano il cadaveredell’africano, scendente verso leprofondità del Mediterraneo, perdivorarselo più comodamentesott’acqua.

L’albanese si terse, colla largamanica, il sudore che gli copriva lafronte.

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– Ecco dei momenti terribili – disse.Eppure bisogna difendersi ad ogni costocontro il crudele turco che non risparmianemmeno i fanciulli cristiani. Andiamo acercare il greco: la scogliera non deveessere lontana.

Ricaricò, per precauzione, i duepistoloni, diede una stretta alle scottedelle vele, poi si rimise al timonelanciando il caiccio verso ponente.Delle larghe ondate, che venivano dallacosta, prodotte dalla controspinta dellarisacca, di quando in quando,investivano l’imbarcazione, facendolefare dei bruschi soprassalti. Per unquarto d’ora l’albanese mantenne la suarotta, poi mandò un grido di gioia.

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Quantunque la notte fosse oscura, avevascoperta la scogliera, sulla quale si erarifugiato Nikola. Impugnò le pistole e lescaricò in aria. Pochi momenti dopo unlampo brillava sulla cima d’uno scoglio,seguito da una fragorosa detonazione.

– Accosta!... – gridò una voce robustache scendeva dall’alto. – Chi vive?

– Mico, l’albanese.– Va bene, aspetta un momento.Il caiccio fece un paio di bordate

dinanzi alla scogliera, poi, approfittandod’un momento di sosta della risacca, siaccostò rapidamente.

Due grida partirono.– Mico!...– Nikola!...

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– Accosta ancora un po’.L’albanese non si fece pregare, e

subito dopo il greco era a bordo, armatodel suo moschettone.

– Alle vele, Nikola – dissel’albanese. – La flotta del Pascià forse aquest’ora ha lasciato la baia di Candia.

– Colla sola capitana?– Ah!... Non credo.– Ed il figlio del Leone di Damasco?– Fra tutta quella gente era

impossibile tentare il colpo.– Te lo avevo detto io. Ed Haradja?– L’ho veduta, e pare che vada

migliorando.– Le tigri guariscono presto – disse il

greco, scuotendo la testa.

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Lanciarono il caiccio, edapprofittarono del buon vento, che nonrichiedeva soverchie manovre, perraccontarsi le loro avventure.

– Dio ci ha protetti, – disse il greco – però non vorrei trovarmi ancora in unasituazione terribile come mi sonotrovato io.

– E nemmeno io – rispose Mico. Hosempre dinanzi agli occhi quelgigantesco negro che mi fissava comevolesse affascinarmi.

– Che i pescicani però hannodivorato.

– Sì, per mia fortuna, o avrei dovutoimpegnare un combattimento corpo acorpo, e queste scialuppe non si

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prestano per le mosse brusche.– Sicché tu credi che il Pascià sia

caduto nella rete tesagli da SebastianoVeniero?

– L’ho udito dire ad Haradja chesarebbe partito, non colla sola capitanaperò.

– Allora verrà; é la piccola tigred’Hussiff che comanda alla flotta.Forziamo le vele e cerchiamo digiungere alla rada di Capso. Ormai piùnessun pericolo ci minaccia.

– A gran corsa – rispose il greco.Orientò meglio le vele, poi si sedette

sul primo banco di prora, tenendo fra legambe il suo moschettone colla micciadi già spenta. Quelle delle pistolone del

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negro fumavano sempre sull’ultimobanco di poppa.

Inizio

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LA CACCIA AL CAICCIOGià avevano percorse molte e molte

miglia, e si credevano ormaicompletamente al sicuro, quando ilgreco nel volgersi per esplorare il mareverso oriente, scorse un punto luminosoche ballonzolava sulle onde.

Una imprecazione gli sfuggì.– Che i cristiani siano proprio

destinati a cadere sempre nelle mani deiturchi?

– disse poi, caricandoprecipitosamente il moschettone. – Vedi,Mico?

– Non sono cieco. Un semplice fanaleod un fanà da galera?

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– No, no fanà – rispose il greco, ilquale osservava attentamente. – Da doveé sbucata quella nave? Prima nonl’abbiamo scorta.

– Può essere un pacifico mercantilecarico d’uve secche di Cipro – disseMico.

– Nessuno osa mettersi in mare, e tuttii piccoli velieri, da mesi e mesi,dormono in fondo alla rada della Morea.

– Che il Pascià, diffidando del negro,ci abbia mandato dietro qualchegagliotta?

– Non deve essere nemmeno unagagliotta.

– Che cosa sarà allora?– Una nave assai più piccola: una

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feluca.– Quanto potremo distare da Capso?– Una quindicina di miglia – rispose

il greco.– Potremo giungervi prima che quel

veliero ci piombi addosso e ci prenda?– Corriamo più che possiamo. In caso

disperato ci getteremo alla costa eraggiungeremo la baia a piedi. Nellemani del Pascià io non voglio cadere.

– E nemmeno io, dopo che gli houcciso l’uomo incaricato disorvegliarmi. Sarebbe capaced’impalarmi su qualche alberetto dellasua galera. No, no, mi fa pauraquell’uomo.

Il greco si era alzato, e guardava

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attentamente il fanale, il quale siavanzava rapido, spiccando vivamentesul cielo tenebroso.

– Non può essere che una feluca – disse poi.

– Barche rapidissime?– Vanno come i gabbiani, mio caro

Mico.– Ed allora ci prenderanno.– Non siamo ancora nelle loro mani.

Stringi contro la costa, e bada di nonurtare.

– E la risacca?– Il caiccio terrà bene: avanti!...La scialuppa cambiò rotta e filò lungo

la spiaggia, cacciandosi in mezzo alleonde spumeggianti promosse dalla

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risacca. Il greco si era messo a prora colfanale, e stava attento ai banchi ed allescogliere.

Anche la feluca aveva stretta la corsaverso la costa, ben decisa, a quantopareva, ad impadronirsi di queimisteriosi fuggiaschi.

– Non ci vuole lasciare – disseNikola. – Ci sta alle costole.

In quel momento un lampo ruppe letenebre, seguito da una detonazioneabbastanza forte, ma né l’albanese, né ilgreco, udirono il ronfo del proiettile.

– Colpo in bianco – disse Nikola. – Ci invita a fermarci sotto pena diaffondarci.

– Pezzo?chiese Mico.

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– Da non spaventarci: é una piccolacolubrina, che lancerà palle di trelibbre.

– Se ci arriva uno di quei dolciattraverso il caiccio, coleremo a picco.

– Aspettiamo.Passò un minuto. La scialuppa si

dibatteva a venti o trenta soli metri dallacosta, facendo dei salti bruschi, essendola risacca assai violenta, in causa d’ungran numero di minuscoli scoglietti chespezzavano, laceravano l’onda chegiungeva dal largo.

– Finiremo col fracassarci su qualcheostacolo – disse Mico.

– Fino a che tengo la barra io, ciò nonavverrà – rispose. – Tu segnalami gli

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scogli ed i banchi, e lascia a me la curadi condurre in salva la scialuppa.

– Bisognerebbe spegnere il fanale.– Pei turchi é un buon punto di mira,

ma giacche tu non sei nato un gatto, lascialo pure acceso. Come ci vedrestidopo?

– Nulla affatto.– Bum!... Un altro colpo!...La detonazione fu seguita, dapprima

da un suono acuto, poi da un sibilo, eduna palla passò sopra l’alberetto delcaiccio, all’altezza di pochi piedi, agiudicarlo dalle scintille che il proiettilesi era lasciato indietro.

Per tutti i pescicani del Mediterraneo,quei turchi tirano meravigliosamente –

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disse Mico. – Un’altra cannonataancora, e ci spaccheranno in due lascialuppa. Credi a me, Nikola, spegni ilfanale. Se urteremo tanto peggio per noi.

– Non ancora – rispose il greco, ilquale continuava a proiettare, dinanzialla prora del caiccio, la luce del fanale.

Una terza cannonata rimbombò sullafeluca, ed una palla forò il gran flocco,perdendosi poi in mezzo alla spumadella risacca.

– Un po’ più vicino, e ti portavano viala testa – disse l’albanese al greco, ilquale non cessava di esplorare.

– Si trova ancora sulle mie spalle – rispose Nikola. Ne sento il peso. Non siva a caccia colle colubrine. Lascia che

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si sfoghino, e che consumino munizioni.Stringi sempre la costa tu, e non usciredalla risacca. I soprassalti che fa farealla scialuppa renderanno la mira assaidifficile.

– E se ci spacchiamo?– Prenderemo terra, ecco tutto rispose

Nikola, il quale conservava una calmameravigliosa.

La feluca, che doveva essererapidissima veliera, guadagnava via dimomento in momento. Cercava diaccostarsi, tanto da poter tentare qualchescarica di mitraglia. Era già alle presecolla risacca, e quantunque fieramentepercossa, non aveva arrestata la suacorsa.

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– Che cosa dici, Nikola? – chiese, adun certo momento, l’albanese.

– Che non ci rimane altro che difracassare il caiccio contro qualchebanco, e poi prendere subito terra – rispose il greco.

– Allora urto.– No, no, aspetta.Un altro colpo. Era una gragnola di

mitraglia che si rovesciava sopra lascialuppa.

Il piccolo bompresso fu portato via dicolpo, lasciando cadere il flocco; poianche il pennone della latina cadde.Nikola aveva subito spenta la lanterna.

La feluca non era ormai che aquattrocento passi, e poteva permettersi

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di mitragliare.– Un banco dinanzi a noi!... – gridò il

greco. – Manda in secca la scialuppa, ebada di non perdere le armi. Ne avremobisogno più tardi.

L’albanese tirò rapidamente la barradel timone.

Il caiccio fece un gran salto su.llacresta d’un’onda che veniva dal largo,tutta risplendente di meduse e dinottiluche, poi avvenne un urtospaventevole.

– A terra!... Salta fra la risacca!...urlò Nikola.

Mico prese le due pistole e lemunizioni, e quantunque avesse battutoviolentemente la fronte contro l’ultimo

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banco di poppa, si slanciò fra le acquerumoreggianti, tenendo ben alte le armi,affinché la spuma non spegnesse lemicce.

– Lesto, Mico!... gridò il greco, ilquale aveva già preso terra. – Gettatidietro a qualche rupe, o la mitraglia deiturchi ti farà fumare le carni.

La costa si prestava per nascondersi,poiché delle rocce enormi erano cadutedall’alto e si erano accumulate qua e la,formando dei veri bastioni impenetrabilianche alle grosse artigliere. I duefuggiaschi, attraversato il banco,malgrado gli urti della risacca, sigettarono subito in mezzo a quel caos dimassi. Si erano appena nascosti dietro

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una pietra enorme, quando la felucaspazzò la spiaggia con una grandine dimitraglia.

– Se tardavi un po’ ad obbedirmi, tuavresti, a quest’ora, una ventina di queiproiettili che fanno sudare anche imedici ad estrarli.

– Che cosa adoperano dunque i turchiper mitragliare? – chiese l’albanese.

– Chiodi e pezzi di ferro vecchio, chepossono produrti una infezioneinguaribile.

Un’altra tempesta di mitraglia caddesulle rocce, con dei lunghi fischi, maormai i due fuggiaschi si trovavanocompletamente al sicuro.

– Consumano la polvere disse Nikola,

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il quale conservava sempre il suomagnifico sangue freddo.

– Che non tentino uno sbarco? – chiese Mico.

– È probabile, ma non primadell’alba, sicché avremo un paio d’oredi tregua.

– Per fuggire verso la baia di Capso?– Non aver tanta premura. Qui siamo

come dietro i bastioni di Candia.– Vorrei però vedere presto

l’ammiraglio ed il mio padrone.– Che aspettino un po’ anche loro.

Vorresti romperti le gambe fra questerupi?

– Aspettiamo che le tenebre sidiradino.

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Si erano accovacciati dietro ad unlastrone di pietra, che nemmeno lebombarde turche avrebbero potutodemolire.

La feluca, avvicinatasi assai allaspiaggia, continuava a scaraventaremitraglia all’impazzata, poiché nessunodell’equipaggio aveva potuto vederedove si erano rifugiati i due naufraghi.Chiodi e pezzi di ferro, ridotti in verghe,continuavano a piovere, con mille sibili,schiacciandosi contro le rocce. Il grecoe Mico si guardavano bene dalrispondere; d’altronde il primo nonaveva che un archibugio, mentre ilsecondo non possedeva che i pistolonidel negro, armi buonissime in uno

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scontro, ma non già per eseguire dei tiri.Il greco lasciò che la feluca si

sfogasse per quindici o venti volte, poidisse all’albanese: – Passami uno deituoi pistoloni affinché accenda la micciadell’archibugio, e poi andiamo. Se aiprimi albori ci scorgeranno ancora qui,ci massacreranno.

Raccomandati alle tue gambe e guardadi non cadere.

– Sono un montanaro – rispose Mico.– Passerei sulla cresta di qualunquemontagna.

– Aspettiamo un altro colpo, e poi dicorsa.

Non si fece attendere. La feluca,quantunque non avesse speranza di

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stecchire i fuggiaschi, continuava asparare con un intervallo di qualcheminuto, fra un colpo e l’altro.

– Su, Mico!... gridò il greco.I due fuggiaschi lasciarono il

nascondiglio che fino allora li avevaprotetti da tutta quella tempesta dichiodi, e quantunque ci vedessero benpoco, e la sponda si alzasserapidamente, tutta cosparsa di pietre piùo meno grosse, si innalzarono perqualche centinaio di metri, lasciandosisubito cadere dietro un masso enorme.

– Non un passo più avanti, Mico, se tié cara la pelle – disse Nikola. – Vedraiora che batteranno in alto.

Un colpo rintronò quasi subito, ed una

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pioggia di mitraglia tempestò le rocceappena venti metri sopra i fuggiaschi.

– Canaglie!... esclamò l’albanese. – Che fra quei turchi vi sia qualcuno chepossegga gli occhi dei gatti? Lamitraglia ci segue nella nostra ritirata.

Ragione di più per approfittare delricaricamento del pezzo e guadagnareancora – rispose il greco. – Nonromperti le gambe, ed io rispondo ditutto.

E tornarono ad arrampicarsiaffannosamente, sempre colla paura cheun colpo li raggiungesse e li crivellasse,e guadagnarono un altro centinaio dimetri. La cima non distava più diduecento passi, quindi con un’altra corsa

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avrebbero potuto raggiungerla.– Giù, Mico – disse il greco.Il comando fu seguito dallo sparo

della maledetta colubrina, ed un’altragrandine di ferraccio fischiò più in alto.

– Che ci vedano davvero? – chiesel’albanese, un po’ impressionato.

– Bah!... Sparano a casaccio,immaginandosi che noi cercheremo dimetterci in salvo sulle alture.

– E tu come fai ad indovinare ilcolpo? Appena lo avverti il pezzo tuona.

– Sono stato artigliere anch’io, – rispose Nikola – e so quanto temporichiede una colubrina per esserericaricata.

– Rimontiamo?

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– No, aspettiamo dietro questa rocciache nessuna bordata di mitragliaspezzerà mai, per vedere se i turchimodificano il puntamento del loro pezzo.

– Che ai primi albori sbarchino, e cidiano la caccia per terra?

– È probabile, Mico. Il comandante diquella feluca deve aver ricevutol’ordine di sorvegliare strettamente ilcaiccio. Ora farà il possibile perprenderci anche in mezzo alle rocce.

– Quanti uomini hanno quei velieri? – chiese l’albanese.

– Una dozzina, ordinariamente, nonrichiedendo quelle leste navi troppebraccia.

– A dodici, piazzati dietro la punta

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d’una roccia, tu coll’archibugio ed iocoi pistoloni, spero che potremo tenertesta. «Ronf!... » La colubrina delpiccolo veliero non aveva tirato questavolta a mitraglia, bensì a palla.

Il proiettile, di ghisa, pesante forse treo quattro libbre al più, andò afrantumarsi contro un’alta roccia, che sitrovava a cento passi dai fuggiaschi,senza far male a nessuno.

– Assaggiano – disse il greco. Su,Mico, un’altra corsa prima chericarichino il pezzo.

Si gettaron dentro un canalone chepareva fosse stato aperto dalle acque, efecero rapidamente un’altra salita,raggiungendo finalmente la cima della

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costa, la quale non si elevava a più ditrecento metri dal mare.

– Ed ora? – chiese Mico, lasciandosicadere al suolo, completamente sfinito,da quelle continue corse.

– Aspettiamo l’alba – rispose ilgreco. – È impossibile dirigerci conquesta oscurità. Prima che i turchisalgano fino a noi, avranno molto dafare, non avendo né le gambe dei cretesi,né quelle degli albanesi.

Un’altra palla passò sopra le loroteste, miagolando sinistramente, e, comele altre, s’infranse, senza alcunsuccesso, contro le rocce.

– La vedi tu, la feluca,Mico?chiese ilgreco.

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– Il suo fanale scorgo, ma non il suoscafo.

– Eppure deve essere ben vicina allaspiaggia.

– Lo credo anch’io.– Riposiamoci cinque minuti, e poi,

palle o mitraglia, andiamocene.Cerchiamo di frapporre fra noi ed iturchi una certa distanza.

– Saprai ritrovare la rada di Capso?– Basta seguire la costa – rispose il

greco. Da’ fuoco alla miccia del miomoschettone, e poi faremo unapasseggiata. Quassù la costa non écoperta di macigni, e potremo filare condiscreta velocità.

– Andiamo, Nikola?

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Il greco non rispose. Si era spintoinnanzi puntando l’archibugio, e parevache ascoltasse.

– E dunque, Nikola? chiesel’albanese, impugnando rapidamente isuoi pistoloni.

– Vengono.– Sono già sbarcati?– Lo credo.– Restiamo qui?– Sì, siamo bene riparati dalle palle

d’archibugio ed anche dai colpi dimitraglia. Guarda bene.

L’albanese alzò la testa e la sporsesopra la roccia protettrice, gettando unrapido sguardo lungo la costa. Gli parvedi vedere alcune ombre arrampicarsi

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come i gatti.– Sì, sono i turchi – disse.– Abbastanza bene.– Scarica le tue pistolacce. Io tengo in

serbo l’archibugio.– Aspetta un momento che li veda

meglio.– Sono vicini?– A soli quindici passi, mi pare.– Da’ dentro, Mico.L’albanese impugnò, con mani ferme,

le due pistole del povero negro e sparò.Si udirono due urla, poi delle

imprecazioni, quindi un rotolare disassi. I turchi scappavano. La colubrinafu pronta a rispondere, a rischio diammazzare anche gli assalitori, però

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partì una palla la quale andò molto alta,senza produrre guasti.

– Che pessimi artiglieri! – disseNikola. Qui ci voleva la mitraglia. Èvero che la colubrina può ammazzareamici e nemici insieme. Ammesso chel’equipaggio si componga di dodiciuomini, o tredici col comandante, non neavremo che dieci alle calcagna.

– Credi, tu, Nikola, che li abbiauccisi? – chiese l’albanese.

Al lampo sprigionato dalla polvere,io ho veduto due di quei furfantiprecipitare attraverso le rocce.Compare, si tira bene in Albania.

– Viviamo sempre colle armi allamano per paura d’una sorpresa da parte

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dei turchi, e tutti cercano di diventareottimi, o per lo meno, discreti tiratori.

– Ora alza i tacchi, e mettiamoci inmarcia verso la rada di Capso. Nonvoglio farmi sorprendere qui ai primialbori.

L’albanese ricaricò le pistole, poi sislanciò dietro al greco, il quale siavanzava rapidamente, seguendo leultime alture.

– Giungeremo tardi, ma giungeremo – disse Nikola.

– Coi turchi alle spalle?– Lascia che corrano. Come vedi,

siamo uomini da saperci difendere.La feluca continuava a sparare, ora a

mitraglia ed ora a palla, però i due

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fuggiaschi non se ne inquietavano granche. Avendo trovato una zona di terrenoabbastanza piana, si erano slanciati agran corsa, quantunque non sapesserodove andassero, poiché mancava ancoraqualche ora allo spuntare del sole.Corsero così per quindici minuti,sempre perseguitati dalle palle dellacolubrina, poi sostarono per prenderefiato. Si trovavano sempre in mezzo arocce seminfrante, essendo finita la zonascoperta. Era d’altronde una fortuna,poiché nessun proiettile sparato dallaparte del mare poteva raggiungerli.

– Gambe!... Gambe!... continuava adire Nikola, il quale continuava aosservare il cielo, temendo che si

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illuminasse troppo presto.E correvano, spronati da quelle

detonazioni, che si seguivano con unafrequenza inquietante.

Dopo venti minuti fecero una nuovafermata sulla cima d’una cresta. Da unaparte il mare rumoreggiava; dall’altra igrilli cantavano allegramente nei campideserti.

– Che cosa facciamo, ora, Nikola? – chiese l’albanese.

– Si prende un po’ di fiato – rispose ilgreco.

– E la rada?– È ancora un po’ lontana.– Che i turchi ci prendano prima di

giungervi?

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– Abbiamo anche noi delle gambe.– Ciò che mi rincresce é di non aver

potuto rapire il figlio del Leone diDamasco.

– A quest’ora saresti appiccato, odimpalato, o tagliato a pezzi come unsalame a gran colpi di scimitarra.

– Ne sono persuaso anch’io, Nikola – rispose l’albanese. Io vorrei peròsapere come finirà quest’avventura.

– Il Pascià non mancherà di recarsiall’appuntamento, e l’ammiraglioveneziano non si lascerà certamentesfuggire l’occasione di impegnare labattaglia. Poi si vedrà.

– Che non andiamo a Hussiff?– Io credo di sì – rispose il greco. –

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Abbiamo da salvare il padre del Leonedi Damasco.

– Conosci il castello?– Sì, ci sono stato già.– Molta guarnigione?– Più donne e negri che altro, gente

che scapperà alle prime cannonate.– Niente di meglio? Peccato che non

vi sia lassù Haradja.– Eh!... Chi lo sa?... rispose il greco.

Vorrei sorprenderla nel suo nidod’avvoltoio.

– Vedremo, compare Nikola. Quelloche manca, pel momento, é la colazione.

– Tu non ti ricordi più a che oraabbiamo cenato ieri sera?

– Ti lamenti a torto – rispose Nikola.

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Guarda laggiù quel bel vigneto che sicurva sotto il peso dei suoi grappoli. Unpo’ di biscotti passeggiano ancora infondo alle mie tasche, ed i contadinicretesi non domandano di più per la lorocolazione. E, come vedi, sono sani erobusti e per niente affamati. Vieni conme.

– Devo spegnere le micce dellepistole?

– Sarebbe un’imprudenza – rispose ilgreco. – Quei cani di turchi non si sa daqual parte possano giungere, e si fapresto a cadere in un agguato.

Lasciarono la cresta e si spinseroverso la campagna, la quale si stendeva,a perdita di vista, dietro le rocce

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marine, più o meno guastata.Avanzandosi con precauzione, i duefuggiaschi ben presto raggiunsero ilvigneto, già scoperto dal greco, e vi sicacciarono sotto. L’ombra proiettatadalle foglie e dai pampini era tale, chenon era possibile distinguere unapersona alla distanza di pochi passi.

L’albanese ed il greco si gettaronodentro un solco e cominciarono aspogliare le viti, cariche di splendideuve, così mature, che ormai cadevano alsuolo.

– Vedi nulla, tu? – chiese il greco aMico.

– Sì, un magnifico grappolo che mitocca la punta del naso.

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– Allora addenta senza paura, emangia il biscotto che ti ho dato.

– E, se i turchi giungessero a guastarcila colazione ed anche la pelle?

– Ebbene, noi li cacceremo dallanostra proprietà a colpi d’archibugio edi pistola. Il padrone di questo vignetosarà stato assassinato come tanti altricampagnoli candioti quindi noipossiamo prenderne possesso finché nonsi presentano gli eredi.

– Saranno stati massacrati anchequelli – disse Mico.

– È probabile – rispose il greco.Fecero una scorpacciata d’uva

stritolando alcuni biscotti, poi nonvedendo comparire nessuno, né udendo

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più la colubrina del piccolo velieroturco tuonare, si misero in marcia,tenendosi sempre fra le viti, le quali,colle loro ombre, li proteggevano. Ilsilenzio del pezzo non persuadeva, omeglio, non tranquillizzava il greco.

– Che siano sbarcati tutti, e che cidiano una caccia disperata? – sichiedeva.

– Amerei meglio udire la mitragliafischiare ancora sopra la mia testa.

Sempre dentro i solchi e fra le vitiche si stendevano infinitamente, i duefuggiaschi percorsero di gran lena unbuon miglio, poi si ritrovaronoimprovvisamente fra le rocce.

– Anche queste serviranno come

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barricate se i turchi verranno a contattocon noi – disse Nikola all’albanese.

– Cammineremo male, però.– Forse che sulle montagne

dell’Albania si marcia sui tappetipersiani?

– Ah, no, camerata!...– Allora non lagnarti e cammina.In quel momento udirono la colubrina

della feluca turca tuonare verso il mare,ed a brevissima distanza.

– Per la morte di Maometto!...esclamò Mico. – Ci hanno seguiti?

– Così pare – rispose semplicementeil greco.

– Che sappiano che noi dobbiamorecarci alla rada di Capso?

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– Ne sono più che convinto.– Che non possiamo sbarazzarci da

quelle mignatte?– Si vedrà più tardi. Intanto cacciati

dietro quella roccia e riposati. Lasciamoche la feluca vada avanti.

– E poi tornerà per massacrarci piùfacilmente. Non vedi che le stellecominciano ad impallidire? Quando ilsole sarà sorto, spareranno piùesattamente.

– Contro chi? Contro le rocce? – chiese il greco. – Tempo perduto.

– Che una parte dell’equipaggioc’insegua?

– È questo che vorrei sapere.Aspettiamo qui finché le tenebre si

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dileguino.Albeggiava rapidamente. Tutto

l’orizzonte rosseggiava, anche versoponente, percosso ormai dai primi raggidel sole. Nikola si era alzato vivamenteper vedere dove si trovavano e subitouna imprecazione gli,sfuggì.

– Non mi aspettavo questa sorpresa – disse.

I vigneti, come abbiamo detto, eranoterminati, ed al loro posto si trovavanodegli orribili burroni, assolutamenteimpraticabili. Verso il mare la costarocciosa continuava altissima, interrottaqua e là da larghe spaccature, attraversole quali potevano passare le palle dellacolubrina del piccolo veliero turco.

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– Che cosa dici, Nikola? – chiesel’albanese.

– Che avremo da fare per giungerealla rada di Capso attraverso a questiterreni. Saliamo verso la costa.

– E la colubrina?– Quando sparerà abbasseremo la

testa. Non perdiamo tempo; sono sicuroche una parte dell’equipaggio si érimesso in caccia.

– Ne sono convinto anch’io – risposel’albanese.

– Ed allora, gambe.– Cambiarono le micce alle loro armi,

le riaccesero, e ripartirono a passo dicorsa scalando la costa. Giunti lassù,scorsero subito, a meno di cento passi

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dalla spiaggia, il veliero turco.– Ci ha seguiti – disse Mico. – Hanno

gli occhi dei gatti quelle canaglie pervederci anche di notte, o posseggono ilfiuto dei cani?

Una nuvoletta si alzò sulla prora dellafeluca, ed uno sparo la seguì. Mico ed ilgreco, che si trovavano attraverso unaspaccatura della roccia, si erano lasciaticadere prontamente a terra. La pallaandò a perdersi nei burroni, sollevandoun gran polverio.

– Via!... Via!... gridò il greco.– Ma che via!... rispose l’albanese. –

Non vedi che abbiamo quattro uominialle spalle.

– Turchi?

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– Come Maometto, se non di più.– Ed allora diamo battaglia – rispose

risolutamente il greco.Si appiattarono dietro ad una roccia,

che formava come una barricata, e che limetteva completamente al coperto daitiri della feluca, ed attesero. Quattrouomini, armati d’archibugi fumanti, siavanzavano, con precauzione, attraversoquel terreno accidentato, facendo dellefrequenti soste, dietro i massi rotolatigiù dalla scogliera. Non era possibileingannarsi sul loro vero essere, ora chela luce scendeva sulla costa.

– Dammi l’archibugio – disse il grecoa Mico.

– Tiro bene anch’io.

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– Sparerai dopo.Imbracciò la pesante arma da fuoco, e

mentre la feluca scagliava un’altrapalla, urlò a gran voce: – Chi va la?Turchi o cristiani?

Uno scroscio di risa fu la risposta,poi uno dei quattro ottomani disse aicompagni: Che qualcuno ci abbiastampata sul petto quella maledettaCroce? No, canaglie, abbiamo laMezzaluna, e vi faremo vedere come ilProfeta ci proteggerà.

Chissà quanto avrebbe continuataquella chiacchierata, se non fosse statainterrotta, improvvisamente, da un colpod’archibugio. Il turco, miratoattentamente dal greco, fece un salto

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indietro, alzò le braccia, gettò viarabbiosamente l’archibugio, che nonaveva avuto il tempo di scaricare, poi siabbatté come un albero sradicato dalvento, e non si mosse più. I suoicompagni, forse spaventatidall’esattezza di quel tiro, invece dislanciarsi avanti, si rannicchiaronodietro una roccia urlando:

– Cani di cristiani!... Avremo lavostra pelle!...

Due altri colpi rintronarono ancora edue turchi stramazzarono dentro la lorobuca.

– Bravo, Mico!... gridò il greco, ilquale s’avanzava coll’archibugio giàcarico.

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Non ebbe bisogno di adoperarlo. Nonvi erano dinanzi a lui più nemici, poichél’ultimo turco, sfuggito alla morte, erascappato come una lepre, gettandosidentro i burroni.

– Lascialo andare e risparmia lacarica disse Mico, vedendo che il grecopuntava già l’archibugio.

– Hai ragione, amico – risposeNikola. – Lasciamo che si sperdanell’interno dell’isola. Qualchecandiota, se lo incontrerà, presto o tardigli farà la pelle.

Un altro colpo di colubrina rimbombòin quel momento. La palla, come prima,passò attraverso una spaccatura dellerupi e si perdette lontana con un lungo

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sibilo.– Approfittiamo finché ricaricano –

disse il greco, slanciandosi sulla crestadella costa – Gli archibugi non avrannonessun successo contro di noi.

La feluca si era accostata ancora piùalla spiaggia, malgrado la risacca fosseviolentissima e vi fossero numerosiscoglietti, e si era messa a bordeggiare.

L’equipaggio, vedendo i duefuggiaschi balzare sulle creste delle rupicoll’agilità di camosci, si era messo aurlare ferocemente, intimando lorod’arrestarsi, poi aveva fatto parlare gliarchibugi, non essendo la colubrinaancora pronta.

Come il greco aveva previsto, fu una

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scarica inutile, poiché i proiettilicaddero tutti a mezza costa, non avendoquelle armi, come abbiamo detto, lungaportata.

Lesti lesti i due attraversarono tre oquattro spaccature, attraverso le qualipoteva ancora giungere qualche palladella colubrina, poi attesero.

– Lasciamo che ci cerchino e chemirino – disse Nikola. Ormai non ciprendono più.

– Se non ci accoppano con qualchetempesta di mitraglia – rispose Mico.

La mitraglia non può giungere quassù,e le palle difficilmente colpiscono ilbersaglio, se sparate da bocche da fuocogrosse. Ah!... Cantano, quelle

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canaglie!...La colubrina aveva fatto udire

nuovamente la sua voce, ed il proiettileaveva smussata una punta rocciosa chesi alzava solamente a pochi passi daifuggiaschi.

– Corpo d’un tuono!... – esclamòl’albanese. – Che puntatore!... Sidirebbe che ci scorga anche dietro lerupi.

– Polvere e palle sprecate – rispose ilgreco. Su, un’altra corsa, prima chericarichino.

Si erano slanciati sulla cresta dellacosta, la quale offriva migliori passaggi,e si erano messi a correre senzaoccuparsi delle intimazioni dei turchi.

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Già avevano rinnovata quattro o cinquevolte quell’ardita manovra, sfuggendosempre alle palle della colubrina,quando d’improvviso giunsero ai loroorecchi una serie di fortissimedetonazioni.

– Il fuoco di bordata!... gridò il greco.Che cosa succede ora? Arriva il Bascià?

– È il Leone di San Marco che giunsein nostro aiuto – disse Mico. Guarda!...Guarda!...

Una grossa galera, ancora tuttafumante pei colpi sparati, girava in quelmomento la punta d’un promontorio,correndo velocissima incontro allafeluca, la quale ormai non poteva piùsfuggire all’abbordaggio.

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– Viva Venezia!... urlò Mico, agitandoil suo berretto.

Dalla galera, che si avanzava a grancolpi di remo, partì una secondabordata.

La povera feluca, crivellata alla lineadi galleggiamento, ondeggiò unmomento, come se un gran colpo divento l’avesse investita, poi si rovesciòimmergendo il suo albero in acqua, e diIl a poco scomparve nei flutti.

– Buon riposo!... urlò Mico,avanzandosi sulle rocce che la colubrinadel piccolo veliero turco ormai nonpoteva più spazzare. – Salutate anche daparte mia il Profeta e tutte le urì delparadiso mussulmano. Intanto riposate

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dieci metri sott’acqua e difendetevi daigranchi marini.

La galera veneziana si era intantoavvicinata lentamente alla feluca, laquale mostrava la sua chiglia in aria.Mise in mare un grosso canotto e lomandò verso la costa. Mico ed il grecodiscendevano verso la spiaggia, sicuridell’impunità, gridando, di quando inquando, con quanta voce avevano incorpo.

– Cristiani!... Cristiani!...I veneziani si guardavano bene dal

tirare, quantunque avessero a bordotante colubrine da spazzare via con unasola bordata il minuscolo gruppo deifuggiaschi. Aiutandosi l’un l’altro, il

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greco e Mico poterono finalmenteraggiungere la spiaggia.

La grossa scialuppa della galeraaveva gettato già i suoi ancorotti, onderesistere alla risacca che la investiva.

– Chi siete? chiese il comandante,mentre a prora, sull’alto castello, siarmava una grossa colubrina.

– Cristiani che tornano da Candia conpreziose notizie per SebastianoVeniero!... gridò il greco. – Io sonoNikola, il rinnegato.

– Ti conosciamo – rispose ilcomandante della galera. T’ho vedutol’altra sera a bordo della capitana.

– Allora accostate.I marinai alzarono, a forza di braccia,

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gli ancorotti, poi con pochi colpi diremo spinsero la scialuppa in mezzo adue scoglietti che la risacca non batteva.

– Imbarcate!... gridò il comandantedella galera.

Mico e Nikola non si fecero ripeterel’ordine, e saltarono nell’imbarcazionesalutati da entusiastici evviva.

Inizio

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BATTAGLIA NOTTURNA

La squadra veneziana, quantunquepotesse trovarsi esposta ad un repentinoassalto da parte delle navi ottomane, nonsi era mossa da Capso, attendendo ilritorno di Mico e di Nikola prima diprendere una decisione. SebastianoVeniero però, sempre prudente, nonaveva mancato di lanciare al largo unpaio delle sue navi esploratrici, e comeabbiamo veduto, aveva avuto una buonaidea, poiché i due valorosi che avevanorecata la lettera ad Alì Pascià,spingendosi l’albanese, audacemente,dentro la baia di Candia, difficilmente

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avrebbero potuto sfuggire a tutte lecannonate della feluca. Quando i salvatigiunsero sulla capitana, l’ammiragliostava pranzando col Leone di Damasco,cui era stato accordato il posto d’onore,e con gli ufficiali del suo stato maggiore.

– Riusciti? – chiese l’ammiraglioalzandosi prontamente, nonostante laferita che lo faceva sempre tribolare.

– Il Pascià ha promesso di venire – rispose l’albanese.

– Colla sua capitana?– Ah!... Questo non lo so, signor

ammiraglio. Non c’é da fidarsi di quellagente, anche quando promettono.

– Tu sei sicuro, però, che si spingeràfino qui?

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– Possiede troppo coraggio quelmaledetto algerino per avere paura d’unagguato.

– Hai veduto le galere salpare?– No, signor ammiraglio – rispose

Mico.– Se ci assalirà lo tenterà questa sera.

Ad Alì piacciono i combattimentinotturni, anzi, sono una sua specialità.Venga, e coll’aiuto di Dio, tenteremouno sforzo disperato. Ah!... Se potessiimpadronirmi di quell’uomo!...

– Che cosa ne fareste? – chieseMuley-el-Kadel.

– Proporrei uno scambio con vostrofiglio, e nemmeno Haradja lorifiuterebbe, malgrado tutto l’odio che

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nutre verso di voi.– Verrà?... Ecco il punto

interrogativo.– Che cosa dici tu, Mico? – chiese

l’ammiraglio.– Io credo che verrà, signore –

rispose l’albanese.– Di mio figlio hai avuto nessuna

notizia? – chiese Muley-el-Kadel.– So che é ancora a bordo, ma nulla

di più. Mi é stato impossibile farequalche cosa per quel fanciullo.

– Non ti rimprovero – disse il Leonedi Damasco. – Hai già compiuta unagrande audacia a presentarti al Pasciàcon quella lettera.

– Che lo avrà fatto certamente

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arrabbiare – disse Sebastiano Veniero.– Pareva una belva fuggita da qualche

deserto.– Terminiamo il pranzo, e poi

prepariamoci per la battaglia dissel’ammiraglio.

Si era nuovamente alzato guardando ilcielo che andava coprendosi di leggeriveli di vapori, cacciati innanzi dal ventosciroccale che é il guastamestieri delMediterraneo.

– Avremo una notte assai oscura – disse, facendo un gesto d’impazienza. Ionon so, ma si direbbe che la Mezzalunaprotegge più i mussulmani, che la Crocei cristiani. Bah!... Siamo in buon numeroe tutti valorosi, e se vedremo di non

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poter reggere all’urto, passeremoattraverso le galere di Ah a gran furia diremi.

– Per rifugiarvi nell’Adriatica? – chiese il Leone di Damasco.

– No, Muley-el-Kadel, se non potròsalvare vostro figlio, pel momento,andremo al castello d’Hussiff e lodiroccheremo, se la guarnigione non ciconsegnerà vostro padre. Ho l’ordine dimantenermi in queste acque perproteggere i cristiani, e non lascerò néCandia, n6 Cipro.

Poi rivolgendosi agli ufficiali dellostato maggiore, che non avevano lasciatala tavola, disse loro: Che questa seranessuna galera affondi le ancore grosse,

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per essere noi subito liberi di salpare, diaccettare la battaglia o di evitarla se nonci converrà. Passate il mio ordine agliequipaggi, e soprattutto ai mastri.

– Sicché, – disse il Leone diDamasco, mentre gli recavano una tazzadi vero moka e delle pipe già cariche,voi non siete sicuro, ammiraglio, di dareaddosso al Pascià?

– Se venisse solo colla sua capitana,malgrado la mia gamba ferita, sarei ilprimo a montare all’abbordaggio – rispose il prode veneziano. – Qualchecosa questa sera succederà, e moltapolvere si consumerà – dissel’ammiraglio.

– Aspettate prima che valuti le forze

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dell’avversario.Sorseggiato il caffè e fatta qualche

fumata, gli ufficiali andarono a visitaretutti i pezzi, le polveriere ed i remi deigaleotti, affinché non mancasse, almomento supremo, la grande spinta perl’arrembaggio. Durante la giornatanessun altro veliero si mostrò nelleacque di Capso. Non avrebbe potuto,d’altronde, avvicinarsi di sorpresa,poiché le galere più rapide esploravanoal largo e lungo la costa, pronte a fartuonare le loro colubrine.

Sebastiano Veniero sembravapiuttosto preoccupato dell’assenza divelieri turchi.

– Possibile che Ali Pascià, prudente

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come é sempre stato, non mandi qualchevolteggiatore di mare, per assicurarsidelle mie forze? Avremo una sorpresa, eforse una terribile sorpresa. Bah!...Siamo stati mandati qui per combattereper la gloria del Leone di San Marco,finché le nostre dita avranno la forza distringere le spade e di reggere gli scudi.

Il sole finalmente tramontò, peròsull’orizzonte subito diventato oscuro,non splendette nessun punto luminoso,che potesse tradire l’avvicinarsi deimussulmani.

Si era pentito il Pascià, ed avevapreferito rimanersene tranquillo sullasua capitana, per provare qualche nuovabombarda contro le cinte della città

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assediata?– Che cosa dite, signor Veniero? –

chiese il Leone di Damasco,abbordando sul largo ed altissimocassero della galera, il valorosoveneziano. Che sia un’attesa inutile?

– No, signor Muley. La lettera portavai sigilli del Sultano, e credo chenemmeno il Pascià oserebbe rifiutarsi adun ordine che parte dalla corte diCostantinopoli. Si corre il pericolo diricevere una cassetta, sia pure elegante,d’argento forse e cesellata con dentro unlaccio di seta nera. Voi, Muley-el-Kadel,sapete che cosa significano quei regali,anche se non contengono alcun biglietto.

– L’hanno mandata anche a me –

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rispose il Leone di Damasco. Mi sonoperò ben guardato dall’obbedire, e quelcappio mi serve ora per stringeremaggiormente la mia cintura, affinché learmi non cadano.

In quell’istante, sul pennone dellavela latina, si udì una voce gridare: – Luci verso l’est.

– Quante?chiese l’ammiraglio.– Non so ancora.– Fanà di galere, o lampade di

galeotte o di feluche?– Fanà – rispose il gabbiere.– Guarda bene e conta giusto.– Quattro.– Sole?– Per ora non ne vedo di più.

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L’ammiraglio si volse verso il Leonedi Damasco e gli disse: – Mi stupisceche il Pascià venga qui con così pocheforze. Già che venisse colla sua solacapitana non era da sperarlo.

– Daremo battaglia? – chiese Muley-el-Kadel.

E senza ritardi, quantunque io tema unagguato, ma le nostre galere sono piùveloci di quelle dei turchi, ormaiinvecchiate dalla lunghissima crociera, ese vedremo che l’affare si farà serio,daremo dentro ai remi, sparando tutte lenostre colubrine.

Imboccò il portavoce, salì sul pontedi comando, aiutato da suo nipote, egridò con voce ancora poderosa: – Tutti

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a posto di combattimento!... Andiamo amisurarci con Alì Pascià!...

Sulle galere veneziane, per alcuniminuti, regnò un tramestio febbrile. Siformavano, in fretta ed infuria, conpanconi e ammassi di grosse gomene,delle barricate, fra il castello di prora el’albero maestro, onde gli ottomani nonpotessero subito correre alla conquistadel timone; si trascinavanofragorosamente i pezzi, cambiando lorodi posto, marinai ed archibugierigareggiavano fra di loro. I mastri dellacala, nel frattempo, si erano slanciativerso i galeotti incatenati tre per tre ailoro banchi, ed incaricati della manovradei remi.

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– Mettete in bocca il tappo – urlavano, facendo fischiare gli staffili. – Morite sul posto senza lamenti.

Le otto galere, alle dieci e mezza,lasciavano la rada, muovendoanimosamente incontro ai mussulmani.La capitana, montata da SebastianoVeniero e dal Leone di Damasco, nonchédai migliori ufficiali della squadra, leprecedeva.

Essendo il vento completamentecaduto, tutte le immense vele latineerano state calate, perché nonimbrogliassero le difese, ma i remimaneggiati energicamente dai galeottisupplivano con vantaggio la spinta, nonsempre regolare, delle vele. Sebastiano

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Veniero si era portato sul castello diprora, guardato da trenta archibugieri eda una cinquantina di alabardieri tutticoperti di ferro, e seguiva attentamentecogli sguardi le mosse delle galeremussulmane. Il Pascià si avanzavalentamente, tenendosi stretto alla costa,come non avesse nessuna frettad’impegnare la lotta.

– Il birbante non é solo – disse ad untratto l’ammiraglio veneziano a Muley-el-Kadel, quando le dodici navi furono aportata di colubrina. – Sono più checerto che entro qualche spaccatura dellacosta, vi sono altre navi nascoste, prontea piombarci addosso appena avremoimpegnata la battaglia.

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Le artiglierie, specialmente sullegalere veneziane, cominciavano asparare furiosamente, con un rimbombocosì spaventevole, che rendeva quasiimpossibile ai marinai di udire gliordini degli ufficiali. I galeotti intanto,che avevano prima ricevutaun’abbondante razione di vino di Cipro,e che ora venivano spietatamentepercossi da mastri della cala, davanodentro ai remi a tutta lena, facendotrabalzare le catene che li tenevanolegati ai banchi. Nessuno di queimiserabili, per la maggior parteassassini e prigionieri turchi, parlava,avendo ben stretto fra i denti il tappo disughero. Urlavano invece a tutta gola i

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mastri, correndo come pazzi per lecorsie e scagliando terribili nerbate chelasciavano dei gran solchi sanguinosi: – Sotto!... Forza, canaglie, o vi facciamomitragliare ….

Le galere veneziane prima delle diecie mezza, con una splendida corsa, sitrovavano già nelle acque della squadramussulmana, la quale si era spiegatarapidamente in ordine di battaglia,facendo coprire i ponti ed i castelli dibalestrieri, invece che di archibugieri.La capitana veneziana stava perprecipitarsi addosso a quella del Pascià,quando un grand’urlo echeggiò su tutti iponti di comando: – Ferma!... Ferma!...

Quel grido l’aveva mandato, pel

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primo, Sebastiano Veniero. Non si eraingannato, sospettando che l’algerino glitendesse a sua volta un agguato, edaveva scorte a tempo altre dieci oquindici grosse galere, uscire da unaspecie di fiordo nascosto da due altipromontori. Tutte portavano famì suicasseri e ciò significava che si trattavadi vere navi da combattimento.

– Di volta al settentrione!... avevagridato l’ammiraglio. Sparate daicasseri!...

Le otto galere della Repubblicaarrestarono quasi di colpo il loroslancio, descrissero una grande curva,tuonando colle colubrine e cogliarchibugi, poi si misero in gran fuga, su

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due linee. I mussulmani, vedendosfuggire le prede, avevano mandato urlaferocissime, ed avevano anche lorosparato, e saettato, ma ormai era troppotardi. Le loro navi non potevanocompetere con quelle veneziane, fatteveramente per la corsa, e poi la lungacrociera in quelle acque tiepide le avevadeteriorate.

– Mi spiace dover volgere le spalle alnemico – disse Sebastiano Veniero alLeone di Damasco.

– Non vi sono abituato, ma laSerenissima non ha che questo gruppo dinavi, ancora capaci di tentare qualcheimpresa, e preferisco salvare i mieiequipaggi.

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– Dove andiamo? Verso la Morea? – chiese Muley.

– Ah, no: non ho dimenticato, miobravo, che nel castello d’Hussiff si trovarinchiuso vostro padre.

– E vorreste tentarne la liberazione!...– esclamò il damaschino.

– Non potendo, per ora, salvarevostro figlio, occupiamoci di vostropadre rispose l’ammiraglio. E poi quelcastello d’Hussiff ho sempre desideratovederlo spianato al suolo. Guardatevidalle palle, Muley. Fra poco nongiungeranno più sui nostri ponti, poichéle nostre navi corrono come rondinimarine.

Le galere mussulmane, mancato il

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colpo, si erano provate a mettersi incaccia, facendo tuonare tutti i loro pezzidi prora, ma quantunque i mastri dellacala bastonassero a sangue i galeotti deiremi, di minuto in minuto rimanevanoindietro. Ormai le navi noncombattevano che colle lunghe colubrineda caccia, poiché quelle piccole, gliarchibugi e le balestre erano diventateinservibili per la grande lontananza. Peruna mezz’ora ancora i veneziani e gliottomani si cannoneggiarono senzaprodursi grandi danni, poiché il colpo ditutti quei remi rendeva la mira quasiimpossibile, poi il fuoco rallentòrapidamente, e finalmente si spense. Leotto galere veneziane erano ormai fuori

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di portata, e filavano magnificamenteverso oriente, tenendosi a circa cinquemiglia dalle coste dell’isola.

– Ecco finito tutto – dissel’ammiraglio al Leone di Damasco. – Pel momento i padroni del mare siamonoi, ed Alì Pascià farà bene a tornarsenea Candia a far tuonare le sue bombarde.

Durante tutta la notte le galereveneziane scapparono a gran velocità,senza più consumare una carica dipolvere che sarebbe stata, d’altronde,sprecata, ed ai primi albori passavano allargo di Candia, ad una distanza di unaquindicina di miglia.

Quelle mussulmane, rimaste tutteindietro, disperando ormai di poterle

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arrembare, o si erano fermate o si eranorifugiate dentro qualche fiordo. Sul marenon volavano che dei grossi uccellimarini, ma non si scorgeva nessuna vela.

Passando dinanzi a Candia, iveneziani, quantunque si fossero tenuticosì lontani, essendovi nella rada altreduecentocinquanta navi del Pascià,avevano udito, portate dal vento, ledetonazioni dei mortai e delle bombardemussulmane, fulminanti le ultime difesedella disgraziata città.

Per un momento, quei valorosi, cheavevano ormai donata la loro vita allaCroce, ebbero l’idea di cambiare rotta edi piombare improvvisamente sullesquadre mussulmane, ma Sebastiano

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Veniero che ci teneva a conservare allaRepubblica quelle poche navi, avevadato recisamente l’ordine di continuarela corsa verso Cipro. E le otto galere,colle vele sciolte, le rosse bandierespiegate sugli alberi mostranti il Leonedorato, avevano approfittato d’un saltodi vento per allontanarsi maggiormentedalle coste di Candia. Nessun pericoloormai poteva minacciarle, poiché ilPascià non era più ricomparsosull’orizzonte, e grosse squadremussulmane non stazionavano nei portidi Cipro. Tutto il giorno le otto galerenon cessarono un solo momento di filarea piena corsa, poi, verso il tramonto,restrinsero le linee, spensero i fanali e

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presero la mezza corsa, per accordareun po’ di riposo ai disgraziati galeotti,che da tante ore maneggiavano i pesantie lunghissimi remi, non ricevendo incompenso altro che nerbate.L’ammiraglio, dopo aver fatto i suoicalcoli sulla carta, si era ritirato sulcassero, invitando a cena solamente ilLeone di Damasco.

– Prima di assalire Hussiff abbiamoda parlare – disse il veneziano. – Voisiete stato in quel castello, é vero?

– Si, ammiraglio, e vi sono statoinsieme a Nikola.

– Il rinnegato?– Quando io riuscii a fuggire con mia

moglie, era con me, ma vi era già stato

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prima.– Con Capitan Tempesta?– Si, ammiraglio.Sebastiano Veniero mandò un mozzo a

cercare il greco, il quale non tardò acomparire, accompagnato dall’ormaisuo inseparabile amico l’albanese.

– Siedi di fronte a me – disseSebastiano Veniero. Non spaventarti seio sono ammiraglio, perché prima nonero che un semplice ufficiale di marinache tormentava i turchi a Ragusa ed aDurazzo. Mi diceva, in questo momento,il Leone di Damasco, che tu sei stato aHussiff, nel covo di Haradja.

– Si, signor ammiraglio, insieme alladuchessa cristiana che andava a cercare

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il visconte Le Hussiére.– Presenta difese formidabili?– Due ordini di terrazze armate di

colubrine, con due fortini accanto allosbarcatoio.

– Una sorpresa non la credipossibile?

– No, poiché il castello 2 piantatotroppo in alto, e nessuna galera potrebbeavvicinarsi senza essere scoperta.

L’ammiraglio fece un gesto di stizza,poi guardando Muley-el-Kadek chefumava il scibouk, gli chiese: – Checosa dite voi?

– Che coi turchi, ammiraglio, émeglio ricorrere ai tradimenti. Avetesempre il sigillo del Sultano?

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– Vi ho detto anzi che ne ho due.– Allora tutto andrà bene.– Che cosa volete dire?– Scriveremo una lettera con ordini

espressi, sotto pena di morte, di riceverenel castello gl’inviati di Alì Pascià.

– Che saranno?– Io, Nikola, Mico ed altri valorosi se

vorranno seguirci. Una volta dentro lapiazza metteremo a posto facilmente ipochi guardiani lasciati da Haradja etutte le donne che ingombrano i giardinie gli harem. Se vi fosse Metiub sarebbeun altro affare; fortunatamente ilcapitano d’armi pare che debbaricordarsi per un po’ della mia stoccatae non lo rivedremo tanto presto.

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– Ecco un’idea magnifica – dissel’ammiraglio. Io vi accompagno fino adHussiff con una sola nave, onde nondestare sospetti, scortandovi però adistanza, poiché dei turchi non c’é dafidarsi. Quando ci farete dei segnali ciavvicineremo tutti, e se Hussiff non sisarà ancora arreso, lo spianeremo acolpi di colubrina. Questa impresa, chesomiglia in modo straordinario a quelladi Durazzo, che ho condotto felicementealla fine, mi sorride assai.

– Mi preparerete la lettera?– Prima che giungiamo in vista di

Hussiff sarà pronta. Io unirò a voiquattro ufficiali che truccheremo daturchi, e che parlano la vostra lingua

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meglio di me, onde vi prestino manforte. Le sorprese possono sempregiungere improvvisa fra le spalle e lanuca.

– E poi?– Poi, quando saremo sicuri sul

vostro conto, entreremo noi. Voi ed ivostri compagni non avete altro da fareche alzare qualche ponte levatoio, dopoaver ammazzati i guardiani.

– Un’impresa non troppo difficile – disse Nikola. – Conosco i fossati e sodove si trovano i ponti.

– Resta così stabilito? – chiesel’ammiraglio.

– Sì, signor Veniero – rispose Muley-el-Kadel.

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– Ed allora allarghiamo sempre dallecoste di Candia, quantunque ormai nonabbiamo più nulla da temere dalle navidel Pascià rimaste alla baia, e andiamoad avvistare quel maledetto castellod’Hussiff.

Inizio

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NELL’HISAR D’HUSSIFFQuarant’otto ore dopo, la piccola

squadra delle galere veneziane, dopod’aver percorse tutte le costesettentrionali di Candia, giungeva invista d’Hussiff, arrestandosi però a taledistanza da non poter essere scorta. Ilfortissimo castello, che nessuno avrebbepotuto prendere di sorpresa per la suaposizione, appariva come una semplicemacchia giallastra, appena spiccantesull’azzurro cupo delle montagnedell’isola. Accostarsi di più sarebbestato pericoloso, poiché il Leone diDamasco ed i suoi compagni, volevanogiungervi di sorpresa, quindi

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l’ammiraglio fece mettere in mare lagran scialuppa della capitana, capace diportare anche venti uomini, ed armata aprora di due petrieri, poi inalberare apoppa la bandiera turca. Muley-el-Kadel, Mico, Nikola erano saliti sulcassero dell’ammiraglia accompagnatida quattro ufficiali veneziani travestitida turchi, uomini di polso, che avevanogià battagliato molte volte contro glieterni nemici della Repubblicanell’Adriatico, nell’Arcipelago greco enel Mediterraneo orientale.

Il Leone di Damasco ebbe conSebastiano Veniero un ultimo colloquioper mettersi ben d’accordo su quantopoteva succedere, poi la grossa

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scialuppa, spiegata la sua vela latina,filò lungo la fronte delle galere, salutatadagli «evviva» degli equipaggi, poi alunghe bordate, poiché il vento non eradel tutto favorevole, si diresse verso ilcastello.

– Quando giungeremo? chiese Muleya Nikola, che teneva la barra del timone.

– Fra un paio d’ore vedremo le scoltedelle terrazze segnalarci – rispose ilgreco.

– O salutarci con qualche colpo dicolubrina?

– Battiamo bandiera turca col segnaledel Sultano. Chi oserebbe fare fuoco sudi noi?

– Che nessuno ti possa riconoscere

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dei soldati d’Hussiff?– Non C’é nessun pericolo, signore.

Sono passati tre anni e più, é vero, daquando vostra moglie, la duchessa, osòpresentarsi ad Haradja?

– Sì, – rispose il Leone di Damasco – ed io vi sono rimasto così poco, chenon credo che la mia fisonomia siarimasta impressa in nessuno di queimanigoldi.

– Crederanno alla lettera?– Ha creduto anche Alì Pascià, che

passa pel più furbo marinaio dellasquadra ottomana!... E poi una letteracon tanto di sigilli!...

– E che cosa ordina alla guarnigioned’Hussiff?

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– Di trattarci come messi del Sultano,incaricati di sorvegliare la condotta diHaradja.

– Cosi mangeremo e berremoallegramente finché ci si presenteràl’occasione opportuna per liberarevostro padre.

– Giacché Haradja e Metiub sonoentrambi a Candia, a Hussiff si sarànominato un governatore, ed a quelloimporrà subito, d’ordine del Sultano, difar uscire dal carcere il Pascià diDamasco. Vedrai che tutto andrà bene seHaradja rimane ancora un po’ di giorni aCandia.

– Che possa ritornare?– Io spero di no, poiché la sua ferita

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non é ancora guarita, ma se giunge quiimprovvisamente colle galere delPascià, resteremmo ben presi dentrol’hisar (castello).

– Certamente, poiché l’ammiraglio,malgrado tutta la sua buona volontà,sarebbe costretto a lasciarci soli alleprese coi turchi, rifugiandosi in qualcheporto cipriota, in attesa di aiuti.

– Come credi che finirà tu, Nikola,questa guerra?

– Candia resiste sempre, e laSerenissima ha grossi arsenali capaci dilanciare in mare le più grosse galere. Iocredo signore, che dopo tanto silenzio,avremo uno scoppio spaventevole, unurto terribile fra cristiani e turchi, e che

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non saranno questi ultimi che saprannocavarsela. L’ammiraglio mi ha già dettoche tutte le potenze cristiane sipreparano a dare il gran colpo al luridoottomano.

– Non sono ancora d’accordo, miocaro Nikola – rispose il Leone diDamasco.

– Hanno troppi interessi contrari.– Per lasciar assassinare quanti più

cristiani potranno? Non giunge l’ecodelle cannonate di Candia fino allosbocco dell’Adriatico? Non si sadunque che diecimila eroi sono giàcaduti sotto le rovine e le bombarde, eche gli altri ventimila resistonoferocemente, lottando colla fame giorno

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per giorno, ed inghiottendo pagnotte disegatura di legno per la gloria del Leonedi San Marco?

– Si ha paura appunto del Leone diSan Marco – disse Muley-el-Kadel. Unavittoria completa sui turchi, qualepotenza darebbe alla Serenissima? Eperciò, mio caro, si indugia ad aiutarla,specialmente la Spagna, che si é sempreproclamata lo Stato più cristiano di tuttal’Europa. E perché non si é mossaquando Mustafà trucidava ferocementela popolazione di Famagosta? Era quiche il suo re doveva mandare i suoiguerrieri, invece che spedirli al di làdell’Atlantico alla caccia dell’indiano edell’oro. Ho navigato diversi anni lungo

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le coste della Spagna, da Alicante aGibilterra, da Barcellona a Cadice, econosco benissimo quel paese.

– Alto!... gridò in quel momentol’albanese, che stava seduto a prora.

La grossa scialuppa, a furia dibordate, era giunta a due o tre miglia dalcastello d’Hussiff, sicché il fortemaniero ormai appariva in tutta la suaimponenza, colle sue terrazze coperte,coi suoi bastioni, colle sue lunette, coisuoi ridotti accovacciati gli uni viciniagli altri come tante tigri in agguato. Unaimmensa bandiera rossa, con unamezzaluna senza stella, era sta spiegataproprio allora su uno dei più grossibastioni, e pareva che dicesse agli

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audaci naviganti: – Badate!... Qui regnail turco!... Questo 6 il covo della nipotedi Alì Bascià!...

Poi una nuvola di fumo si era alzatasu un ridotto, ed una detonazione seccasi era distesa rapidamente sul mare.

– Colpo in bianco – disse Nikola. – Ci invitano a mostrare i nostri colori!...

– O che non vedono ancora labandiera turca che ci sta alle spalle?Che siano tutti ubriachi lassù, ora che laterribile padrona ed il capitano d’armisono assenti?

– Mico, – disse il Leone di Damascorispondi anche tu con un colpo inbianco, prima che ci cada dall’altoqualche enorme palla di pietra e ci

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sfondi la scialuppa.– Lasciate fare a noi, signor Muley

dissero gli ufficiali veneziani, cheoccupavano la prora.

Come abbiamo detto, la scialuppaportava due petrieri, armi leggere, maall’occorrenza abbastanza buone per unfuoco a corta distanza.

Uno dei due pezzi fece fuoco apolvere, mentre l’altro, per precauzione,veniva caricato con una buona palla dighisa. Trascorse qualche minuto, poi lagrande bandiera turca fu ammainata finoa mezz’asta, per risalire poi rattamenteal suo posto. Era il saluto. La scialuppapoteva ormai avanzarsi senza correrealcun pericolo.

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Se vi fosse stata ancora Haradja alcastello, quel saluto non avrebbeconvinto nessuno, ma ormai si sapevache la tigre d’Hussiff dolorava a Candianella cabina di qualche galera, e forseinsieme al suo capitano d’armi.

Nikola diede uno sguardo all’entratadella minuscola rada, capace dicontenere solamente qualche mezzadozzina di gagliotte, osservòattentamente il passaggio cosparso digrossi massi, precipitati probabilmentedall’alto, poi disse: Ammainate la vela ediamo mano ai remi. Voi, signor Muley,passate al timone.

– Le ho salde anch’io le braccia perbattere il mare – disse il Leone di

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Damasco.– Lo so, ma voi dovete passare come

il rappresentante del Sultano, e miseccherebbe che quelle canaglie, chespiano tutti i nostri movimenti, vivedessero arrancare come un galeotto.

– Forse hai ragione, Nikola – risposeil Leone, prendendo la barra del timone.

La vela fu ammainata e chiusa controil pennone inferiore, poi i quattroveneziani, Mico ed il greco si misero alavorare di remi. Il mare era abbastanzatranquillo, quantunque da quella parte lecoste dell’isola cadessero quasi apiombo, dando così agio alla formazionedei flutti di fondo, quindi la granscialuppa, malgrado la sua pesantezza,

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sotto i vigorosi colpi dei sei remi, inmeno d’un quarto d’ora, potéoltrepassare il canale e gettarel’ancorotto a pochi passi da unabanchina da sbarco, sulla quale in quelmomento era comparso un omaccioneassai barbuto e d’aspetto pocorassicurante, armato d’un archibugio, didue pistole e di due yatagan.

– Corpo d’un pescecane!... – esclamòl’albanese. – Che sia questo Maometto IIrisuscitato, o Mustafà il Massacratore?

– Chi siete e che cosa volete? – chiese l’omaccione, dandosi l’aria d’ungrande personaggio, e ravvivando, conuna rapida mossa della mano, le miccedelle sue armi da fuoco.

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– Domando a te chi sei – disse ilLeone di Damasco, mentre i suoi uomini,per precauzione, preparavano pure iloro archibugi. – Haradja non é più qui,e nemmeno il suo capitano d’armi.

– Come lo sai, signore?– Lascia andare ora. Io voglio sapere

chi governa ora il castello, avendo unalettera del Sultano.

– Per la mia padrona?– Niente affatto: per la persona che

l’ha surrogata nella vigilanza d’Hussiff.– Sono io – rispose l’uomo barbuto. –

Sono il nuovo capitano d’armi, e qui iosolo comanderò fino al ritorno della miapadrona.

– Allora sarai tu che aprirai la lettera

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del Sultano.– Io! – esclamò l’omaccione,

impallidendo.– Devo consegnarla al governatore

del castello, e giacché ora sei tu che quicomandi, aprirai anche la lettera.

– Non mi manderà poi il Sultanoqualche bel laccio di seta, per averviolati, colle mie mani impure, i sigilli?

– Stupido: ho l’ordine di fare così,quindi tu non puoi avere nessun timore.Lasciaci sbarcare ed andiamo a leggereinsieme la lettera, quantunque ioconosca a memoria il contenuto. Come tichiami innanzi tutto?

– Sandjak.– Sei dell’Asia, mi pare.

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– Sì, signore.– Ora lasciaci il passo, e da’ ordine a

tutti quei negri che si nascondono dietroi parapetti della gradinata con gliarchibugi fumanti, di andare a farcolazione. Per ora non abbiamo bisognodei loro servigi.

Il turco, impressionato dall’aspettodel Leone di Damasco, che anche sottosemplici vesti poteva passare per uneffendi almeno, si tirò tre o quattro voltela lunga barba nera, poi spense le miccedelle sue armi e gridò ai negri, che sierano appiattiti sui gradini: – L’inviatodel Sultano vi ordina di recarvi a farecolazione. Sgombrate.

I dieci o dodici archibugieri, udendo

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quelle parole, si affrettarono a salire lascala, scomparendo in alto.

La grossa scialuppa fu assicurata adun anello di bronzo che era infisso nellabanchina, e che in alto raffiguraval’eterno Leone di San Marco ruggente,poi i sei uomini, vestiti completamented’acciaio, prese le loro armi, archibugi,pistole, draghinasse e mazze, preseroterra.

– Guidaci – disse il Leone diDamasco al governatore. – Spero cheavrai una colazione da offrire anche anoi. L’aria del mare aguzza l’appetito.

– Sì, effendi, per te e per i tuoi uomini– rispose il turco.

Il drappello salì la lunghissima e

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stretta scala aperta nella viva roccia,che due soli uomini sarebbero bastati adifendere quasi senza correre pericolo,varcò, trecento passi più sopra, un pontelevatoio, e raggiunse il gran cortiled’onore, tutto circondato da bellissimiporticati di stile moresco, con in altoampie terrazze sulle quali curiosavanoparecchie donne.

Tutta la guarnigione, malgradol’ordine ricevuto di andare a farcolazione, si era schierata, sia perprudenza, sia per fare onore agli ospiti.Si componeva d’una dozzina di negri,quasi tutti di forme erculee, e dialtrettanti curdi, ai quali forse eraaffidato il tiro delle artiglierie.

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Vi erano poi servi e valletti quasi tuttinegri o mulatti, che si nascondevanodietro i colonnati dei chioschi, emoltissime schiave sulle terrazze chefacevano udire delle risa argentine.

Il nuovo capitano d’armi feceattraversare al drappello il cortile,mentre i soldati salutavano, con le micceaccese però, e lo introdusse in una vastasala, anche quella di stile moresco, nelcui centro una fontana di marmo verdezampillava, grillettando allegramente.

Tutto intorno vi erano delle superbeottomane di seta bianca di Damasco, esulle pareti grandi trofei di armicristiane, conquistate, probabilmente daAli Pascià, dopo d’aver massacrati

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inesorabilmente coloro che leportavano.

Da una parte si allungava una tavoladi cedro del Libano, capace di servire aventi convitati, con sgabelli di stilemarocchino montati in madreperla ecuoio rosso di Rabat.

– Effendi – disse il governatore, chepareva ancora assai scombussolato. – Lacolazione verrà subito. prego diaccomodarti coi tuoi amici.

– Un momento – disse Muley-el-Kadel, vedendo entrare uno stranoindividuo coi capelli lunghissimi, ilcappello altissimo e la veste tutta di setanera. – Chi é quell’uomo?

– Era il segretario di Haradja –

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rispose Sandjak, con voce un po’esitante.

– Lo si direbbe un armeno.– Ed infatti, é un armeno.– Razza di traditori – borbottò

Nikola, stringendo i denti.– Perché lo hai fatto venire?– Perché lui solo sa leggere, effendi –

rispose il capitano d’armi.– Va bene, ma sarai tu che romperai i

sigilli del Sultano.– Perché io invece di Hassard?– Chi é questo Hassard?– L’ameno che ti sta dinanzi.– La lettera deve esser aperta dal

governatore d’Hussiff, chiunque sia – rispose Muley-el-Kadel con voce

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imperiosa.Indi trasse la lettera datagli

dall’ammiraglio, e che portava i grossisigilli del Sultano, e la depose sullatavola dicendo: – Tu aprila e l’armenote la leggerà. Questa operazione poteteperò compierla su qualche altrotavolino, poiché qui noi aspettiamo lacolazione.

– È pronta, effendi.– C’é corte bandita in Hussiff dopo

che Haradja non é più qui? – chieseMuley, corrugando la fronte.

– No, mio signore, si é sempre vissutobene in Hussiff. Abbiamo le «acquemorte» che ci somministrano tantaselvaggina da non saperne, talvolta, che

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cosa fare.– Ah!... Vi sono dei cristiani che

pescano ancora le mignatte?– La guerra ha rovinata

quell’industria, signore.– Va bene: assaggiamo la selvaggina

delle «acque morte» d’Hussiff.Sandjak si avvicinò ad una porta,

prese un martello e fece rullarefragorosamente il gong che stavasospeso allo stipite.

Come per incanto, dieci servi e seivalletti, carichi di piatti e di posated’argento, invasero la sala, eprepararono in un momento la tavola.

– Per la barba del Profeta – mormoròMico. Si deve stare molto bene in questo

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hisar, ed io credo che passeremo qui deibei giorni.

Appena preparata la tavola, entraronoaltri servi ed altri valletti, portandograndi piatti d’argento pieni d’anitreselvatiche arrostite, di beccaccini, didorate e di polpi di mare, di yaourt,ossia latte cagliato; di hreke, ossia disfogliatine fritte nel grasso, e che sonola delizia dei palati mussulmani; poigranoturco bollito, datteri, fichi secchi.

– Ci si può stare disse Mico, cheaveva un appetito feroce, e che fiutavaavidamente gli arrosti. Ma, signore, quiora non c’é da bere. Dite al governatoreche anche il Sultano beve vino di Cipro.Qui ve ne deve essere, nascosto nel le

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profonde cantine.– Hai capito? – domandò Muley al

capitano d’armi.– Sì, effendi: anche a Hussiff si può

ora bere dopo che ne ha dato l’esempioil Sultano che é il capo dei credenti.

– Fa’ portare le migliori bottiglie elasciaci mangiare tranquilli. Tu, intanto,va’ a leggere la lettera insieme alsegretario d’Haradja.

Tutti si assisero intorno allalunghissima tavola, preparata con lussoorientale, e diedero l’attacco allacolazione, mentre dei valletti giàaccorrevano portando dei canestri pienidi bottiglie polverose.

In un angolo, il capitano d’armi e

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l’armeno studiavano la terribile letterache pareva avesse messa, indosso a tuttie due, una vera febbre senza conoscerneil contenuto.

– Il colpo é fatto – disse Nikola alLeone di Damasco, squartando unasuperba anitra. Fra mezz’ora, o meglio,fra cinque minuti, noi saremo i padronid’Hussiff e potremo sapere la sortetoccata a vostro padre.

– Io spero che viva ancora in qualchesotterraneo di questo maledetto castello– rispose Muley. Era un vecchio dallefibre d’acciaio che non avrà soffertogran che se gli hanno levati pochi palmidi pelle. Più di venti ferite ha riportate,combattendo ferocemente contro le

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indomabili tribù dei curdi di Bassora,senza morire. Non sarà quindi un colpodi rasoio che lo avrà ucciso, ma sedovessi trovarlo morto, d’Hussiff nonrimarrà pietra su pietra.

– Ed appiccheremo tutti questi furfanti– disse Mico. – Ho notato che vi sonomolte corde di seta nei tendaggi diquesta sala: servirannomeravigliosamente, e questi banditimorranno coll’illusione di aver ricevutoil laccio fatale del Sultano.

– Stiamo un po’ a vedere come vannole cose – disse il greco. Noi siamosolamente sette, e qui dentro fra soldati,schiavi, valletti, vi sono almenocinquanta persone, senza contare le

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donne. È vero che al largo incrocia lasquadra veneziana.

– La faremo accorrere per tarpare tuttii merli d’Hussiff.

– Il segnale lo darete questa notte? – chiese il greco a Muley.

Si, dalla più alta terrazza del castello,se tutto andrà bene. Non voglio com

promettere la squadra veneziana perla salvezza mia e di mio padre. Ah!...Ecco il moka che giunge scortato dalcapitano d’armi. Povero uomo!... Ha ilviso ben oscuro.

– Gli é crepato il cuore rompendo isigilli del Sultano – disse Mico.

Un negro portava sulla testa lanuta ungigantesco vassoio, di argento cesellato,

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con chicchere di porcellanasemiracchiuse entro piccole gabbied’oro.

– Ehi, faccia nera – disse Mico cheera in vena di scherzare, avendo bevutinon pochi bicchieri del Cipro d’Hussiff.– Sarà veramente moka?

– È quello che beveva la padrona – rispose il povero africano, tremando.

– Un caffè un po’ vecchio, poiché latua padrona manca da molti giorni daHussiff.

– Tostato stamani, effendi.– Ebbene, proviamolo – rispose

l’albanese, guardandolo un po’ ditraverso.

Come si sa, i turchi sono maestri nella

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preparazione del caff3. Non macinano ilgrano prezioso ed aromatico, lostritolano fra due pietre fino a ridurlopolvere quasi impalpabile, che si gettadentro il bricco quando l’acqua bolle. Èspesso come una cioccolata, ma nessunoche sia stato a Costantinopoli mai si élagnato di quel moka. Il negro deposel’enorme vassoio sulla tavola, poi ad ungesto imperioso di Mico, scappò vialesto come una gazzella delle sue terre.Il governatore intanto si avvicinava, apassi lenti, seguito dall’armeno, tenendoin mano la terribile lettera che portava isigilli del Sultano.

– Il segretario di Haradja é riuscito adecifrare gli sgorbi arabi impressi su

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quella carta?chiese Muley-el-Kadel,dopo d’aver sorbito in fretta la sua tazzadi caffè.

– Sì, effendi – rispose il governatore,mostrando la lettera.

– Hai dunque capito che cosa vuoleda te il Sultano?

– Che vi accordi ospitalità fino alritorno della padrona, e che vi tratticogli onori che spettano ai principi.

– Il sangue che scorre nelle mie vene– disse Muley – é quello della più altanobiltà turca. Mia madre era cugina diMaometto II.

– Effendidisse il governatore,diventato subito livido. – Che cosaposso fare per te?

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– Quello che dice la lettera – risposeMuley.

– Lasciare l’hisar nelle vostre mani?– Sì, fino al ritorno della tua padrona,

e bada che io comanderò come per labocca del Sultano. Lacci aCostantinopoli ve ne sono sempre daregalare.

– Lo so effendi, ma io non sono ungrande personaggio.

– Sei un governatore d’un hisar, fortecome pochi ve ne sono su queste isole,quindi puoi crederti un grandedignitario, o per lo meno, un grandecapitano. Fa’ accostare il segretario diHaradja. Vi é ancora una tazza di caffèper lui.

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– Non oserà, effendi.– Lo trascinerò io – disse Mico,

alzandosi. Nello zucchero noi nonmettiamo polvere di diamante, come siusa alla corte di Costantinopoli, perforare gli intestini d’un uomo che dànoia.

– Questo é zucchero d’Hussiff.Nikola ebbe un brivido pensando al

caffè bevuto ed ai tradimenti deimussulmani, però si rassicurò subitovedendo l’armeno ad un cenno diSandjak, accostarsi al tavolino edaccettare la tazza che Mico gli porgeva.

– Troppo onore, illustri signori – disse il losco personaggio.

– Bevi e poi parliamo – disse Muley-

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el-Kadel, con voce secca, imperiosa.– Ti ascolto, effendi.– Siedi anche tu, Sandjak – continuò il

damaschino. – Tu devi rispondere aduna mia domanda.

– Dì pure, signore – rispose ilgovernatore, sedendosi accanto aNikola.

– Quanti prigionieri vi sono nelcastello? – chiese allora, a bruciapelo,Muley.

Sandjak e l’armeno si guardarono l’unaltro sbigottiti, poi il primo, dopod’aver bevuto un mezzo bicchiere diCipro, per prendere animo, rispose:Forse che il Sultano crede che il castellosia pieno di prigionieri? Vi ho detto che

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le Ťacque morte. non vengono piùlavorate dopo che una malattia hadistrutte le sanguisughe.

– E nei sotterranei non si troverebbe,per caso, qualche prigioniero? – chieseMuley.

– Credo.– Credi?... Ma a Costantinopoli si sa

già che quel prigioniero é il Pascià diDamasco.

– Io non l’ho mai saputo, signore,poiché dopo la sua cattura, Haradja noné più tornata qui.

– E si sa anche che la tua padronaebbe l’audacia di strappare, al vecchioed illustre guerriero, un po’ di pelle. Èvero, sì o no?

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Sandjak aspirò una gran boccatad’aria, bevette un altro mezzo bicchiereche il greco gli porgeva, poi rispose:

– Infatti quel prigioniero é giunto quicon una spalla fasciata.

– È stato più curato? – chiese Muley-el-Kadel, con voce terribile.

– Sì, effendi, te lo giuro sul Corano,perché la padrona mi aveva mandato adire di avere cura di quell’uomo.

– Dove si trova il Pascià?– Sarà veramente il Pascià di

Damasco?– Si sa più a Costantinopoli, di quello

che succede in Hussiff, che voi.– Io lo ignoravo, signore, pure

ritenendolo un grande personaggio che

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avesse usato qualche torto alla miapadrona.

– Tu farai preparare una stanza perquel prigioniero, ed esigo si trovi vicinaa quelle che tu destinerai per noi, poichévoglio sorvegliarlo io.

– Sono pronto a obbedirvi, signore.– Mico, accompagna Sandjak nei

sotterranei colla scorta – disse Muley-el-Kadel.

– Eccomi – rispose l’albanese, mentrei quattro veneziani si alzavano perseguirlo.

Sandjak prese con sé l’ameno ed uscì,seguito dai cinque uomini. Nella salanon erano rimasti che Muley e Nikola.

– Perché non siete sceso voi, signore?

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– chiese il greco.Mio padre mi avrebbe subito

riconosciuto, ed allora chissà che cosasarebbe potuto succedere. Nondimentichiamo che noi siamo i piùdeboli, e che dobbiamo lavorare più difurberia che colle nostre spade.

– Talvolta divento una bestia – disseil greco. – Ammiro la vostra prudenza.

– Usciamo sul terrazzo. Chissà chequalche punto nero non ci segnali illuogo ove la squadra veneziana incrocia.

Vuotarono un altro bicchiere diCipro,attraversarono il grandiosocortile, e uscirono sul vasto terrazzo,che era armato da una mezza dozzina dicolubrine e da due bombarde.

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Muley-el-Kadel si avvicinò alparapetto, senza degnarsi di rispondereai saluti dei curdi che stavano in quelmomento lucidando i pezzi, ed interrogòansiosamente l’orizzonte che erapurissimo, senza la più piccola nube.

– Tu, che hai gli occhi dei marinai,vedi nulla? – chiese al greco.

– Non scorgete proprio nulla, voi?– Lo confesso, quantunque creda

d’aver due buoni occhi.– Ebbene, signore, la squadra si trova

laggiù, verso settentrione. Otto punti neriche io solo posso scorgere: il conto égiusto col numero delle galere.

– Che vista hai tu, Nikola?– Quella d’un uomo che ha passata

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quasi tutta la sua vita sul mare, signore.Voi, laggiù, non scorgete che un nembogrigio verdastro, battuto dal sole, manon vedete niente di quello che sinasconde sugli estremi confinidell’orizzonte.

– Non ho i tuoi occhi, Nikola.– Bisogna nascere marinai, e vivere

lunghi anni sul mare – rispose il greco.– Tu mi assicuri che le galere sono

sempre al largo d’Hussiff?– Sì, mio signore: volete che lo giuri

sul Corano, come rinnegato, o sullaCroce come cristiano sempre fedele?

– Non occorre, Nikola – risposeMuley-el-Kadel. – Tu hai veduto, e perme basta.

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– Se volete la mia vita prendetevela,signore.

– No, no, la sapremo difendere anchecontro queste canaglie che vegetano inHussiff.

Il Leone di Damasco stette ancoraqualche minuto appoggiato al parapetto,guardando il mare tutto scintillante dipagliuzze d’oro, poi disse: – Ed oraandiamo a vedere mio padre.

– Non traditevi, signore.– Caccia dalla stanza, anche a colpi

di spada o di mazza il governatore, esoprattutto quell’armeno.

– Sapete, signore, che io ho più pauradi quell’Hassard che di Sandjak?

– Ed io pure – rispose Muley-el-

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Kadel. – Quell’uomo mi é sospetto.– Appartiene ad un popolo di traditori

– rispose Nikola. Perduta la loronazionalità, si sono resi schiavi deiturchi, senza tentare alcuna resistenza.

– Andiamo, Nikola.– Prudenza, signore.– Ne avrò. D’altronde Mico ha avuto

da me istruzioni per mettere in guardiaanche mio padre. Andiamo a vederequel povero vecchio, che da tre anni nonho più riveduto.

Fece scorrere la spada nella guaina,poi torna, col rinnegato, verso il gransalone.

Inizio

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IL TRADIMENTO DELL’ARMENOMico, accompagnato dai quattro

ufficiali veneziani, sempre pronti amenare le mani sulle pelli dei turchi, epreceduti da Sandjak, che portava unagrossa lanterna, e dall’armeno, si eracacciato dentro una interminabile scala,scavata nella viva roccia, e che parevadovesse finire a livello del mare.

– Qui c’é da rompersi l’osso delcollo – disse l’albanese. – Signorcapitano d’armi alzate bene la lampada.Non sono mai stato un gatto, né di Cipro,né d’Angora.

– Ecco fatto, signore – rispose ilpovero governatore, che tremava ancora

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per quella maledetta lettera del Sultano.– Dove finisce questa scala?– Nelle prigioni del castello.– I prigionieri devono stare molto

bene in fondo a questa interminabilescala. Che odore di vecchiume, e cheumidità!...

– L’hisar ha le sue radici piantate sulmare, – rispose Sandjak – e le onde delMediterraneo le bagnano senza posa.

– La tua padrona, però, non andava ariposarsi in quei sotterranei durante legiornate afose.

– Aveva di meglio – disse,bruscamente, l’armeno.

– Lo credo – disse Mico. – Si stameglio sulle ottomane coperte di seta

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dinanzi ad una vasca zampillante.– Che voi non avete mai pagato.L’albanese, che aveva già disceso

cinquanta gradini, senza essere giuntoalla prigione, si volse impetuosamentecontro l’armeno, dicendogli: Vuoi chefaccia scrivere al Sultano di strappartila lingua? Vi sono, sappi, otto galere cheincrociano al largo, montate tutte dauomini fedelissimi al capo dei credenti.Un segnale, e saranno qui, ed allora nonsaprei rispondere più della tua vita,giacche il mio padrone può uccideresenza rendere conto a chicchessia,nemmeno al Gran Vizir diCostantinopoli.

– Non arrabbiarti, effendi – disse

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l’armeno, diventato d’un colpoumilissimo.

– Non ho voluto che scherzare.– In Albania si amano poco gli

scherzi – rispose Mico, piccato.– Ah!... Sei albanese?– Ti si sente dall’accento, signore –

disse Sandjak. – Alcuni anni or sono, hopassato non poco tempo fra quellemontagne, combattendo i bosniaci chenon volevano decidersi a gettare in uncanto la Croce.

– Ottanta!... esclamò Mico. – Ottantagradini!... Ma dove andiamo a finirenoi? Sotto il mare?

– Le acque del Mediterraneo sonoancora assai più basse – rispose

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Sandjak.– Cinque gradini ancora, e saremo

nella prigione.– Allora scendiamo ancora.La scala cominciava ad allargarsi,

tutta umida, per le infiltrazioni chestillavano attraverso le rocce, sullequali si reggeva l’hisar d’Hussiff. Ad untratto Mico si trovò dinanzi ad unagrossa porta di ferro arrugginita, copertadi gigantesche borchie metalliche.

– Ci siamo – disse Sandjak,togliendosi dalla fascia una chiaveenorme.

– Era tempo – rispose Mico.La porta fu aperta, ed i sette uomini si

trovarono in un vasto sotterraneo,

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illuminato da un fascio di luce che non sisapeva da dove provenisse. In mezzonon vi era che un letto, con coperte diseta però, e su quello riposava il Pasciàdi Damasco.

– Come vedi, signore, il prigioniero éancora vivo – disse Sandjak. Puoimandarlo a dire al Sultano, onde noncreda che la mia padrona l’abbiasoppresso.

Il Pascià, udendo quelle voci, si erasubito alzato a sedere, guardando i setteuomini.

– Che cosa si vuole da me? – chiese,inarcando le ciglia. Non bastava adHaradja di avermi fatto provare i rasoidel suo carnefice, per poi cacciarmi

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dentro questa prigione, che il marepercuote rabbiosamente giorno e notte,impedendomi di dormire?

– Signore, – disse Mico – ho l’ordinedi liberarvi e di farvi trasportare in unastanza del castello, dove potrete esseremeglio curato, se la vostra ferita nonfosse rimarginata. Qui regna troppaumidità.

– Chi sei, tu? – chiese il Pascià. Unaltro capitano d’armi di questomaledetto castello?

– No, mio signore: lasciatevitrasportare, senza opporre resistenza, edio vi prometto di farvi riposare in unastanza piena di sole.

– O gettarmi giù dalle rocce

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dell’hisar? Da Haradja tutto possoaspettarmi.

– No, ve lo giuro sul Corano.Il Pascià, che pareva non avesse

affatto sofferto, né per la prigionia, népel pezzo di pelle, gettò via la coperta,ed essendo vestito, disse:

– Se si tratta di cambiare stanzaandiamo. Qui vi era troppa umidità, epoi quel rombo eterno del mare.

Quantunque non fosse più giovane,discese dal letto rifiutando l’aiuto diMico, diede un lungo sguardo alla suaprigione, come ad imprimersela persempre nel cervello, poi disse: – Andiamo: tu hai giurato sul Corano.

– Sì,signore – rispose l’albanese.

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Permettete che vi aiuti a salire lalunghissima scala.

– Come vuoi.Il drappello lasciò il sotterraneo

senza prendersi la briga di chiudere lapesante porta di ferro, e si mise a saliregiungendo, dopo cinque minuti, sullavasta spianata del castello. Il Pascià sifermò un momento sotto una porta,respirò a lungo l’aria marina, poi,sempre guidato da Mico, da Sandjak edai quattro veneziani, entrònell’immenso castello.

L’ameno, nel frattempo, erascomparso.

Sandjak fece attraversare al Pasciàparecchie stanze piene d’aria e di sole, e

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sontuosamente ammobiliate, dicendo:– Scegliete, signore: quella che

meglio vi piacerà vi servirà, per ora, diprigione.

– Almeno potrò dormire – disse ilPascià. – Dirai ad Haradja che in quelsotterraneo un prigioniero non potrebberesistere tre mesi. Dov’é ora la nipotedel Pascià?

– A Candia – disse Mico.– Alì’assedio?– Sì, signore.– In compagnia del suo grande zio –

disse il Pascià, con voce ironica.Tornò a rivedere le stanze e scelse la

più vasta e la più arieggiata, le cuifinestre, di stile moresco, a sesto acuto,

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permettevano di spingere lontanilontanissimi gli sguardi sulMediterraneo.

– Andate tutti e lasciatemi dormiredisse il Pascià, lasciandosi cadere,quasi come un corpo inerte, su un largoletto abbellito da magnifiche coperte diseta.

– Andatevene – disse Mico a Sandjaked ai veneziani. – Voglio vedere primase il Pascià si addormenta. Poi viraggiungerò.

L’albanese li accompagnò fino allaporta, non perché diffidasse deiveneziani, attese qualche minuto, poi,non udendo nessun rumore sul marmoreoscalone, rientrò nella stanza

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avvicinandosi rapidamente al letto delPascià. Il vecchio guerriero asiatico,preparato a tutti i tradimenti, udendoquel passo balzò a sedere, gridando convoce terribile:

– È qui dunque che mi si devestrangolare? Sei il carnefice, o meglio,uno dei carnefici di Haradja, tu? Siibreve, della vita ormai poco m’importa.

L’albanese si tolse dalla larga fasciadi seta rossa i due yatagan ed unapistola e depose quelle armi sul lettodicendo: Mio signore: ecco qui perdifendervi se qualcuno volesse farvimale, ma vi é qui, nell’hisar, un uomo,che veglia su di voi. Disgraziato ilmiserabile che osasse toccarvi.

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– Chi é?L’albanese si curvò sul Pascià, come

avesse paura che le sue parolefuggissero e venissero udite, e gli disse:– Vostro figlio.

Il vecchio guerriero ebbe unsoprassalto, e per un momento rimasemuto, fissando sull’albanese i suoi occhiancora intensamente vivi e pieni difuoco.

– Mio figlio qui!... esclamòfinalmente, quasi balbettando.

– Sì, effendi.– Prigioniero anche lui? – chiese il

Pascià, con angoscia.– Padrone dell’hisar, almeno finché

non giungerà la squadra di Alì Pascià.

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– In qual modo?– Ve lo dirà lui solo.– Come siete giunti qui?– Su galere veneziane.– Muley adunque aveva saputo che io

ero stato catturato?– Si, effendi.– Ed ha pensato subito a salvarmi. E

sua moglie? E suo figlio?– Lo chiederete a Muley, che fra

qualche minuto sarà al vostro letto.– È sempre cristiano?– Sempre, effendi.– Ha fatto bene: anch’io rinnegherei

Maometto ed il Corano. Va’ a chiamaremio figlio. Sono tre anni che non lovedo.

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– Sono ai vostri ordini, signore – rispose Mico. – Conservate le miearmi.

– Lasciami solamente un yatagan – disse. – Il mio braccio é ancora buonoper tagliare qualche testa.

– Vi credo, effendi – rispose Mico,rimettendosi nella fascia la pistola eduno dei due yatagan. Vado a chiamarevostro figlio, ma siate prudente, poichénoi abbiamo i nostri motivi di crederci,anche essendo qui come padroni,strettamente sorvegliati.

– Va’, vola!... Nessun grido usciràdalla mia gola quando Muley micomparirà dinanzi.

Mico socchiuse un po’ le finestre, che

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avevano dei vetri azzurri ed aranciati,attraversò la stanza senza far rumore,scese lo scalone, e dopo essersi fermatoqualche po’ sull’ampio piazzale, pervedere se scorgeva le galeredell’ammiraglio veneziano, entrò nelsalone. Muley-el-Kadel era ancoraseduto a tavola, e stava fumando unoscibouk carico di tabacco profumato diMorea, a fianco di Nikola. In un angolosi erano ritirati i veneziani, semprepronti però ad accorrere alla primachiamata, ed a far rimbombare le solidecorazze di Milano, che superavano, inresistenza, tutte quelle dei turchi.

– Vostro padre é libero, signor Muley– disse Mico, curvandosi verso il Leone

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di Damasco, che fingeva di non vederlo.Venite e conducete Nikola ed anche iveneziani, perche guardino le scale. Vi étroppo odore di tradimenti nell’hisar diHaradja.

– Ci minaccia qualcuno? – chiese ildamaschino.

– Nessuno, per ora.– Come sta mio padre?– Mi pare che non abbia sofferto della

sua prigionia.– Nemmeno della ferita che quella

donna le ha fatto fare dal suo carnefice?– Non mi pare, signore. Parlate

sottovoce: queste muraglie possonoavere degli orecchi. Dov’é Sandjak?

– L’ho veduto poco fa ronzare sul

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piazzale coi curdi – rispose Nikola.– E l’ameno?– Non é più rientrato.– Si direbbe che tu l’hai a morte con

quell’uomo – disse il Leone diDamasco.

– Temo più da parte di quell’uomoche del capitano d’armi – risposel’albanese. – Quegli occhi non mi vanno.

Muley vuota lo scibouk, diede unrapido sguardo alle sue armi e disse aiveneziani: – Andiamo, o signori, aprendere possesso del castello. Nondimenticate gli archibugi. Non si sa maiche cosa può succedere.

I sette uomini, guidati da Mico,lasciarono il salone e si diressero verso

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la scala marmorea che conduceva nellestanze del Pascià.

Erano appena usciti, quando da dueporte diverse entrarono, cauti esospettosi, Sandjak e l’armeno.

I due ribaldi si scambiarono un segno,poi uscirono nel cortile, nascondendosidietro le colonne.

– Sai proprio leggere, tu, Hassard? – chiese il capitano d’armi.

– La padrona non mi avrebbe presoper suo segretario – rispose l’armeno.Ho imparato a leggere e scrivere adErzemm, città che vanta famose scuole.Perché mi hai fatto ora questa domanda?

– Perché sono tormentato da undubbio che mi gela il sangue dentro le

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vene – disse Sandjak.– Quale?– Che quella lettera possa essere stata

falsificata.– Stupido – rispose l’armeno. – Credi

che io non abbia veduto, qualche volta, isuggelli del Sultano?

– Eppure sento che intorno a noialeggia non so quale pericolo. Chequegli uomini siano proprio inviati dalSultano?

– Io lo credo. Non hai notato nel lorocapo la sua grand’aria signorile? Deveessere qualche Vizir, se non di più. Iome ne intendo di persone.

– E gli altri? – chiese Sandjak.– Sembrano guerrieri ed alcuni

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devono essere d’alto lignaggio.– Turchi anche quelli? Non mi hanno

l’aspetto.– Invece di guardare i visi degli

uomini, hai tu osservata la scialuppa cheha condotto qui quelle persone?

– Perché mi fai questa domanda?– Perché poco fa l’osservavo, e non

mi parve affatto una imbarcazione turca.– Che cosa mi dici tu, Hassard?– Che io sono ben più furbo di te –

rispose l’ameno. Io osservo tutto,mentre tu non ti occupi che di bere delvino di Cipro.

Sandjak si alza di scatto ed uscì sulterrazzo, seguito, dall’armeno, e guardaattentamente la gran scialuppa

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dell’ammiraglia veneziana, che sidondolava in fondo al bacino, presso ladiga.

– Corpo d’un yatagan!... – esclamòfacendo un balzo. – Tu hai ragione.Quella barca non é turca; ha un taglioben diverso dalle nostre.

– Dove sono gli ospiti?– Presso il prigioniero – rispose

Sandjak.– Allora pel momento non avranno

tempo di occuparsi di noi. Scendi conme.

– Dove?– Fino alla cala.– A pescare i granchi?– No, a guardare meglio quella

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scialuppa.– Forse hai ragione.Si guardarono intorno, e non avendo

scorto nessuno degli ospiti, sicacciarono giù per la lunghissima estretta scaletta che conduceva allospecchio d’acqua.

Quando raggiunsero la gettata, pressola quale era stata legata la granscialuppa, Hassard vi salì sopra e sidiresse verso la barra del timone. Unnome era impresso a fuoco: “Mocenigo–Venezia”

– Tu non sai leggere, per tua disgrazia– disse l’ameno.

– Lo sai già – rispose il capitanod’ami, seccato. Io non so che menar le

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mani e uccidere.– Ed allora devo dirti che questa

scialuppa é veneziana, e che porta ilnome di quel famoso ammiraglio cheosò gettare le ancore in vista diCostantinopoli.

– Potrebbe essere una barca catturataai veneziani.

– Hum!... – fece Hassard. – Non vediche é quasi nuova?

– Che cosa vuoi concludere allora,tu?

L’armeno si lisciò parecchie volte labarba, sputò sulla tolda della scialuppa,socchiuse tre o quattro volte gli occhicome se volesse raccogliere meglio isuoi pensieri, poi disse: – Io non ci vedo

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chiaro in tutta questa faccenda.– Ed io meno di te – rispose Sandjak.– E vorrei darti un consiglio.– Parla.– Di mandare, questa notte, una barca

a Candia ad avvertire la padrona.– Per farla tornare?– Sarà meglio.– Credo che tu abbia ragione. Se quei

signori saranno veramente degli inviatidel Sultano, se la sbarazzerà Haradja.Questa sera, appena il sole sarhtramontato, farò partire il grosso caicciocon otto rematori ed un timoniere.

– E farai bene, Sandjak – dissel’ameno. – Vorrei che giungesse qui colBascià per vedere meglio in questo

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affare.– È occupato nell’assedio di Candia.– Ha galere da staccare finché vuole,

e che si logorano inutilmente nelle acquedella baia candiota. Mi approvi?

– Pienamente – rispose il capitanod’armi. – Tu mi hai levato un gran pesoche mi schiacciava lo stomaco. Andiamoa vedere che cosa fanno i nostri ospiti.Non suscitiamo sospetti.

– Eh!... Hanno da fare col prigioniero.Lasciarono la gran scialuppa e

salirono lentamente la lunghissima scala,tornando sul terrazzo. Il primo uomo cheincontrarono fu Mico, il qualepasseggiava gravemente, fumando uncorto scibouk.

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– Dove siete stati? chiese l’albaneseil quale si dava già l’aria di esserealmeno un mezzo Vizir.

– A pescare i granchi, – risposeprontamente l’armeno per offrirne a voiun bel piatto, ma quest’oggi la marea éstata un po’ burrascosa, e non ha gettatoalla spiaggia nessuno di quei deliziosicrostacei che tanto piacevano adHaradja.

– Sicché cena magra questa sera – disse Mico, con accento un po’ ironico,e guardando ben fisso l’armeno.

– Nell’hisar d’Hussiff si mangiasempre bene – disse Sandjak, con vocebrusca.

– Nessun ospite si é lamentato della

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tavola della nipote del Grande Pascià.– Avete mandato fuori i pescatori?– E sono già ritornati colle reti piene

da scoppiare. Vi é molto pesce nellapiccola rada, e soprattutto vi abbondanole ostriche.

– Piacciono assai al mio signore – disse Mico.

Sandjak lo guardò un momentosospettosamente, poi gli chiese abruciapelo: – Che grado occupa il tuopadrone a Costantinopoli?

– È un pascià dei più ammirati e deipiù ascoltati di tutta la corte. Hacombattuto in Asia ed in Austria, haspezzato lame contro croati e serbi, si émisurato nell’Adriatico coi veneziani, e

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porta un nome famoso che un giornoconoscerai.

– Un forte guerriero dunque?– Sia per mare che per terra. Il

Sultano non l’avrebbe mandato qui senon avesse saputo a quale uomo affidavala missione.

– Ma che cosa si teme aCostantinopoli? – chiese Hassard. – Cheil castello d’Hussiff si arrenda, ungiorno o l’altro, ai veneziani?

– I segreti di stato non si dicono – rispose il furbo albanese. – Noivedremo, guarderemo, giudicheremo, epoi riferiremo al Sultano.

– Su chi? – domandò l’armeno.– Tu va’ a scrivere delle carte, o

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meglio, va’ ad ordinare la cena. ACostantinopoli non si aspetta mai iltramonto del sole per mettersi a tavola,per poter ben digerire e dormiretranquillamente. Mi hai capito?

– Parli il turco troppo bene per noncomprenderti rispose l’armeno,stringendo i denti e saettandosull’albanese uno sguardo quasi feroce.

– Ed allora vattene, o meglio, levatidai piedi.

– Chi?chiese Sandjak, il quale eradiventato pallido, ed aveva appoggiatala destra su uno dei due kamgiar cheportava attraverso all’alta fascia di setarossa.

– Il tuo compagno – rispose Mico.

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Lascia stare i tuoi kamgiar: ne ho dueanch’io nella cintura e nessuno eguagliagli albanesi in una lotta ad armi cosìcorte.

– Mi sfidi?– Io? Non ho nessuna voglia di

rompere delle lame né di trasgredire gliordini del Sultano, m’intendi bene? DelSultano.

Il capitano d’armi abbassò la testa,masticò qualche cosa fra i denti, perònon osò replicare, e si allontanòcoll’armeno che schizzava veleno dagliocchi.

– Bisogna sorvegliarli – dissel’albanese, seguendoli collo sguardo.Questa sera niente caffè: la polvere di

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diamante si mescola troppo facilmenteallo zucchero, ed anche qui ve nepotrebbe essere.

Entrò nel salone e vide quattro negried altrettanti valletti occupati apreparare la gran tavola, ornandola digrossi mazzi di fiori.

– Corpo d’un pescecane!... mormoròMico. – Come mi obbediscono. Bastanominare il Sultano, ed ecco tutte questecanaglie volare. Il padrone cenerà consuo padre, questa sera, quindi resteremonoi padroni assoluti del salone.Pensiamo anche alla loro cena.

Il bravo ed intrepido giovanotto passònella cucina del castello, dove duecuochi stavano cucinando pesci, pezzi di

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montone, volatili e granchiolini di mare,e diede gli ordini opportuni affinchéparte della cena si servisse nella stanzadel prigioniero.

– Ordine del Sultano – disse. – Noisiamo i suoi inviati e parliamo per lasua bocca.

I due cuochi, spaventati, fecero deiprofondi inchini, promettendo di faremiracoli per gli illustri ospiti.

– Si diceva che Hussiff era un tristecastello, – mormorò l’albanese – mentreinvece a me pare che vi regnil’abbondanza. Se rimarremo duesettimane qui, torneremo a Creta grassicome botti.

Fece ai cuochi un’ultima

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raccomandazione, poi tornò nel salonedove trovò Nikola che chiacchierava coiveneziani.

– Contento dunque il Pascià d’averriveduto suo figlio, anche se cristiano? –chiese.

– È stata una scena commovente, – rispose il greco che non avrei volutovedere. Ora però il Pascià, informato ditutto, e sapendosi sotto la protezione disuo figlio e nostra, é tranquillo. Eglispera un giorno di ritornare a Damasco,se non getterà all’inferno il Corano.Credo che sia perfino troppo nauseatodella ferocia dei suoi compatrioti, e nonsarebbe improbabile che la cristianitàcontasse un rinnegato di più.

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– E di quel valore – disse uno deiquattro veneziani. – I pascià checalpestano la Mezzaluna non nasconocome i funghi.

– Abbassate un po’ la voce – disse inquel momento, prontamente, Mico.

Ad una porta si era affacciata la pocosimpatica figura dell’armeno. Il loscoindividuo pareva che cercasse diraccogliere attentamente le parole chegli ospiti si scambiavano.

– Ecco un uomo che io gettereivolentieri giù dalle rupi del castello – disse l’albanese, stringendo i pugni. – Non so il perché, ma quell’uomo saràben più pericoloso del capitano d’armi.

Si alzò, gli mosse incontro e gli disse

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con voce dura: – Fa’ servire la cena quie nella stanza del prigioniero.

– Sì, mio signore – rispose Hassard,colla sua voce strisciante, antipatica.

Cinque minuti dopo i cuochi ed ivalletti entravano portando ogni ben diDio, poi si ritirarono prontamente perlasciare gli ospiti in piena tranquillità.

Muley-el-Kadel e suo padre eranostati già serviti nelle loro stanze, congrande sfarzo di piatti d’argento e dibicchieri di Venezia colorati e nonpesanti più d’una noce.

I quattro veneziani, Nikola e Micocenarono in fretta, per raggiungere evegliare sul Leone di Damasco.

Non era però trascorsa mezz’ora, che

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l’albanese ed il greco ridiscendevanonel salone, colle pistole rinnovate dimicce.

– Che cosa c’é, dunque? chiese Mico,dopo essersi ben assicurato che nessunopotesse ascoltarli.

– Questa notte, appena la guarnigioned’Hussiff dormirà, ritorneremo sul maree raggiungeremo le galere veneziane.

– E le sentinelle?– Le ammazzeremo con un colpo di

yatagan o di kamgiar alla gola.– Cosi presto scappare? Cominciavo

a trovarmi bene in questo castello.– Siamo sospettati, malgrado la

lettera del Sultano, e da un momentoall’altro, il capitano d’armi potrebbe

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avventarci contro tutta la guarnigione.– C’imbarcheremo sulla grande

scialuppa?– Sì, ed é meglio andarcene al più

presto.Ed infatti io ho paura di quell’armeno,

tanta paura che, come hai veduto, hofatto rimandare il caffé, per paura chenello zucchero avessero potutamescolare della polvere di diamante.

– Si avvelena facilmente in Turchiaed anche fuori della Turchia – risposeNikola. – In Hussiff poi non se ne parla,e chissà quanta gente Haradja hamandato all’altro mondo con unbicchiere di Cipro.

– Se andassimo a vedere se la grande

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scialuppa é sempre al suo posto?– È quello che volevo proporti, Mico,

e sai perche? Perche oggi, da unafinestra, ho veduto l’ameno scendere lascala insieme al capitano d’armi.

– Fulmini di Scutari!...– Parla sotto voce. Il sole é

scomparso, la notte é scesa, quindipossiamo per metterci il lusso di andarea respirare una boccata d’aria frescasulla calata del bacino. Accendi peròprima le micce delle tue pistole.

– Non suscitiamo sospetti, Nikola – rispose Mico. Lavoreranno i nostriyatagan.

Si alzarono, visitarono prima tutte leporte per vedere se vi erano dei curdi

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nascosti dietro, poi uscirono sul vastopiazzale. Avevano fatto un po’ tardi,però la notte era abbastanza chiara,limpida, piena di astri brillantissimi, iquali si riflettevano vagamente nelletranquille acque del Mediterraneo chenessun vento tormentava. Sentinelle nonve n’erano al di fuori: d’altrondesarebbero state affatto inutili. Hussiffnon si poteva prendere per sorpresa, e lasua guarnigione poteva dormiretranquilla fra due guanciali e lecolubrine delle terrazze. Il greco primadi avviarsi verso la scala salì sul largoparapetto, che cadeva a piombo sul marecon un salto di duecento e più metri, eguardò attentamente verso ponente

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prima, poi verso settentrione.– Vedi nulla? – chiese Mico.– Sì, otto punti luminosi, ma che

solamente i miei occhi possonodistinguere, possedendo io una vistaestremamente acuta.

– Dunque l’ammiraglio incrociasempre aspettando il nostro segnale pervenire a raccoglierci.

– Sì, Mico.– E quale deve essere il segnale?– Solo Muley-el-Kadel lo sa.

Andiamo: io non so per quale motivo,questa sera, non sono affatto tranquillo.

– Quel brutto ameno ti ha gettatoindosso qualche stregoneria.

Il greco alzò le spalle e si avviò

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verso la scala, scendendo i gradinilentamente.

I due uomini si erano abbassati dicirca cento metri, quando udirono salire,dallo specchio d’acqua, dei colpi sordiche si succedettero quasi subito conrapidità prodigiosa.

– Che cosa succede laggiù? – chieseMico.

– È a te che vorrei chiederlo.– Questi colpi …– Si direbbe che si sfonda un

galleggiante nella piccola cala. Questo éil mio pensiero.

– Ragione di più per andare a vedere,Nikola.

– Non sarò io che tornerò indietro

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senza aver veduto rispose il greco, cheappariva assai preoccupato. – Giù, asalti!

Si precipitarono giù dalla scala,facendo i gradini a quattro a quattro, maquando giunsero in fondo, un silenzioassoluto, appena rotto dal borbottaredella risacca, regnava nella piccola caladell’hisar.

– Noi dobbiamo spiegare questomistero – disse Nikola. – Qui, poco fa,vi erano degli uomini che sfondavanoqualche cosa, ed ora non si vede animaviva e…

Un grido dell’albanese lo interruppe:– Ah!... Cani!...– Che cos’hai, Mico? chiese il greco,

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volgendosi impetuosamente con unyatagan in mano.

– Sai che cosa sfondano quegliuomini?

– Un pezzo della gettata?– La nostra gran scialuppa!...– È impossibile!...– Guarda: é affondata, e non emerge

che il suo alberetto. Ormai é pienad’acqua come una botte!...

Fra i due uomini regnò un brevesilenzio, poi il greco fece un gesto difurore.

– Ci hanno assediati – disse. – Noinon possiamo più riprendere il mare sel’ammiraglio non ci manda altrescialuppe.

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– Io ho notato una cosa – disse Mico.– Che in questa cala prima vi era ungrosso caiccio turco, e che ora non lovedo più. Guarda tu pure: é scomparso.

– Siamo stati traditi, e la lettera delSultano non ha prodotto l’effetto dipoche ore.

– Che ci massacrino?– Non siamo uomini da lasciarci

infilzare come polli – disse Nikola. Cibarricheremo nelle stanze che occupanoi nostri compagni ed il Pascià, eresisteremo finché giungeranno gliuomini dell’ammiraglio. Da’ fuoco allemicce delle pistole e seguimi subito. Hofretta di vedere Muley-el-Kadel.

Inizio

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LA MORTE DEL CAPITANO D’ARMIQuando il greco e l’albanese salirono

nell’appartamento destinato agli inviatidel Sultano, Muley-el-Kadel stavaseduto presso il letto occupato da suopadre, mentre i quattro veneziani,all’estremità della sala, su un tavolino dimadreperla, giuocavano, sottovoce, unapartita a zara, colle spade snudate però,e le pistole e gli archibugi a portata dimano. Nikola e Mico chiusero le quattroporte delle splendide stanze,sbarrandole per di dentro, poi siprecipitarono nella stanza ove siriposava il Pascià di Damasco, collemicce delle pistole accese ed un

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yatagan in pugno. Muley-el-Kadel,vendendoli entrare in quel modo, e coivolti sconvolti, era balzato prontamentein piedi, snudando la sua terribile spada.

– Che cosa avete, amici? – chiese,con voce un po’ alterata.

– Che noi non possiamo più lasciareil castello senza l’aiuto delle scialuppedell’ammiraglio – rispose Nikola.

– E la nostra?– Si trova a due metri sott’acqua

sfondata, signore.– Da chi?– Da qualcuno che aveva interesse a

trattenerci qui.– Narrami tutto, Nikola.Il greco non se lo fece dire due volte,

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e lo informò minutamentedell’esplorazione che aveva compiutacon Mico, nella piccola rada delcastello.

– E gli uomini che poco primasfondavano la nostra scialuppa? – chieseMuley-el-Kadel, il quale appariva assaipreoccupato per quell’inatteso disastro.

– Scomparsi, signore – disse Mico.Non ne abbiamo veduto alcuno.Mancava invece il gran caiccio turco.

– Affondato anche quello?– No, signore – disse Nikola.Muley-el-Kadel guardò suo padre, il

quale non aveva perduto una sillaba diquel racconto, e gli chiese:

– Che cosa ne pensi tu, padre?

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Il Pascià si lisciò un momento lafoltissima barba, poi disse: Io ho giàindovinato il disegno del capitanod’armi. Egli ha fatto partire degli uominiper Candia, onde avvertano Haradja diciò che succede qui. Mi pare che siafacile.

– Per far accorrere il Pascià eprenderci tutti? – chiese Muley,impallidendo.

– Certo, figlio mio. Qui si devononutrire dei forti sospetti sulla lettera delSultano.

– Eppure i sigilli erano perfetti.– Non voglio contraddirti, Muley, ma

come vedi, questa gente cerca digiuocarti dei pessimi tiri. Come faremo

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noi tutti a lasciare il castello eraggiungere la squadra veneziana, se nonvi sono più imbarcazioni a Hussiffi

– Posso segnalare la gravità della miacondizione all’ammiraglio, e farlosubito accorrere colle sue otto galere edi suoi ottocento combattenti. Basta cheio collochi, su una finestra qualunque, osu una terrazza, fra le undici e le due delmattino, un fanà verde.

– L’hai? – chiese il Pascià.– No, ma nel castello ne troveremo

certamente qualcuno, o anche più diqualcuno.

– Signore – disse Nikola. – Lasciate ame ed a Mico questo incarico. Vedreteche il fanà, coi vetri verdi, fra mezz’ora

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sarà collocato sul davanzale di quellafinestra.

– E che cosa dirai a Sandjak?– Ho pensato a tutto, Mico, spegni la

miccia e andiamo a vedere se é rimastoancora, nel salone, qualche bottiglia diMarsala da vuotare.

I quattro veneziani si erano alzati,dicendo:

– Veniamo anche noi.– No, signori – disse Nikola. Se

avremo bisogno di aiuti chiameremo, edallora daremo battaglia disperata aicurdi ed ai negri, e li faremo saltare tuttiin mare. Per ora lasciate fare a noi.

– E ci sono anch’io se occorresse unguerriero di più disse il Pascià di

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Damasco. – Sono ancora in forze.– Speriamo di non averne bisogno,

almeno per ora – rispose Nikola. Siamoin due, ma faremo il possibile disciabolare per otto, se i curdi vorrannoguardare, un po’ troppo da vicino, inostri baffi.

Arrotò un momento i due yatagan,con grande strepito, subito imitato daMico poi i due valorosi lasciarono lestanze e scesero cautamente lo scalone,che era illuminato da una lampada avetri azzurri.

Giunti sotto il porticato, Nikola eMico entrarono nel salone, anche quelloilluminato da una grossa lampadaazzurra, che faceva scintillare vivamente

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le piastrelle di maiolica che coprivanole pareti.

Subito fecero, entrambi, unmovimento di gioia.

L’armeno era seduto tranquillamentedinanzi al tavolo, fumando il narghilek.

Da parte aveva un lungo e largopugnale, come usavano gli uomini delsuo paese, ed una tazza di caffè ancorafumante.

Vedendo entrare Nikola e Mico, illosco individuo si alzò, pallido come uncadavere.

– Come!... Non dormite ancora? – chiese. – A Hussiff, alle dieci, sispengono tutti i lumi, e non mancano chepochi minuti.

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– Noi andremo a dormire, signor mio,disse Nikola, con voce un po’minacciosa – quando tu ci avrai datodelle spiegazioni che ci interessano.

– Non poneste rimandarle a domanimattina?

– No: é una cosa che ci preme assai anoi.

– Avete trovato, forse, dellesanguisughe nei vostri letti? – chiesel’armeno, con voce beffarda. – Noncredo, poiché gli stagni delle «acquemorte» sono secchi, e la razza cherendeva così bene alla padrona, éscomparsa col sangue cristiano cheassorbiva.

– Lascia andare le mignatte, che a noi

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non interessano affatto rispose Nikola. – È ben altro che noi vogliamo sapere.

– Dite.– Noi siamo giunti qui al castello a

bordo d’una grossa scialuppa che oranon galleggia più nello specchiod’acqua della piccola rada.

– Come!... È scomparsa!... esclamòl’ameno, alzando le mani al cielo. – Èimpossibile!...

– Ti dico, Hassard, – disse il greco,con voce irata – che é stata sfondata, eche non emerge dalle acque che il suosolo albero.

– Da chi?– Tu lo saprai.– Ah!... I granchi!... esclamò l’ameno.

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– Quali granchi? – chiese Mico.– La vostra barca era forse un po’

vecchia …– Sì, come la barba del Profeta –

disse Nikola. – È stata varata sei mesifa.

– Varata, o presa?– Che cosa vuoi dire?– Io sono andato ad osservarla, e

sulla barra del timone ho trovato,impresso a fuoco, il nome d’un famosoammiraglio veneziano, che anni fa hafatto tremare Costantinopoli: Mocenigo.

– E che cosa vuoi concludere? – chiese Nikola, che si sentiva una pazzavoglia di saltargli al collo e distrozzarlo.

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– Che mi é sembrato un po’ strano chevoi siate arrivati su una barca veneziana.

– E se quella scialuppa fisse statacatturata dalle galere turche?

– Anche questo é possibile – dissel’armeno, prendendo la tazza colma dicaffè.

– Continua la storia dei granchi – disse Mico.

– Ah!... Non mi ricordavo più. Volevodirvi che nella cala del castello, diquando in quando, fanno eruzione deigiganteschi ragni di mare, che tuttodistruggono.

– Anche le galere? – chiese Nikola,ironicamente.

– Non hanno branche così solide, ma

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non mi stupirei che ne affondasseroqualcuna.

– Sei un marinaio tu?– No, sono un uomo di penna.– E che cosa vieni a raccontare a

gente navigata come noi? – disse Nikola.– I granchi erano delle scuri maneggiateda mani robuste, che sfondavano ilfasciame della gran scialuppa.

– A quale scopo?– Lo sapremo più tardi, ma noi siamo

venuti qui per un altro motivo.– Dite, dite pure.– Il Pascià di Damasco non può

soffrire la luce bianca, e desidererebbeun fanà a vetri verdi.

– Fanale da segnali!...

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– Per illuminare una stanza.– Non so se ve ne saranno.– Andrai a cercarlo ed io ti seguirò

coll’yatagan in pugno – disse Nikola,che aveva esaurita tutta la sua pazienza.

– Vuoi uccidermi?– Anche, se mi accorgo di qualche

nuovo tradimento.– Vi sono qui dei curdi e dei negri che

non hanno paura di una battaglia.– E noi al largo abbiamo otto galere,

sempre pronte ad accorrere, montate daottocento uomini ed armate da duecentocolubrine, fra grosse e piccole.

– E chi sono quegli uomini?– Turchi come noi!... gridò Nikola. –

Fuori il fanale!...

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– Io non posso darvelo senza ilpermesso del capitano d’armi risposel’armeno, che cercava di farsi piccolopiccolo e che non osava allungare lamano verso il grosso pugnale.

– Ne farai a meno.– Io non posso.– Su, canaglia!... Il fanà!...In quel momento entrò nella sala

Sandjak, il capitano d’armi del castello.– Quale fanà?... chiese, posando

ambo le mani sui due yatagan cheportava infilati attraverso la fascia diseta.

L’ameno, ripreso animo, lo mise alcorrente dello strano desiderio degliospiti.

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– Un fanà verde!... esclamò Sandjak,facendosi oscuro in viso. – Segnale dipericolo. Che cosa volete fame, voi?

– Servirà agli occhi del Pascià – rispose Nikola. La sua vista é assaisofferente.

– Mi pare che voi diventiate un po’troppo esigenti – disse Sandjak. – Quinon c’é Haradja.

– Ma qualcuno, a quest’ora, correràsul mare per avvertirla della nostrapresenza – disse il greco. Venga: noiaspettiamo lei ed anche il Gran Pascià.Vedremo chi impallidirà di più quelgiorno.

– Un fanà verde – ripete il capitanod’armi, il quale pareva che non sapesse

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decidersi.– E subito!... – comandò il greco, con

voce minacciosa. La lettera del Sultanoparlava chiaro.

– E se fosse falsa?– Chi oserebbe falsificare i sigilli del

capo dei credenti? Tu, forse, ma io no,avendo paura del palo.

– Vi é proprio necessario questofanale? – chiese Sandjak, stringendo identi.

– Assolutamente. L’umidità delsotterraneo ha rovinato gli occhi delPascià in modo da non poter più soffrirela luce bianca.

– È così caro al Sultano il Pascià?– Un pascià di Damasco!... E come

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osi domandare ciò?– Perché la mia padrona non lo

stimava affatto, a quanto pare.– Haradja non é il Sultano – disse il

greco, con voce ferma.– Potete aver ragione.Si volse verso Hassard, che stava

raggomitolato su una sedia, continuandoa fumare, e gli disse: – Fa’ portare unfanà verde. Ve ne sono cinque o sei nelmagazzino.

– Ma serviranno pei segnali – osservòl’armeno.

– Obbedisci e non seccarmi. Sono ioche comando ora qui; se avrò sbagliato,la padrona si prenda pure la mia vita.Va’!...

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L’armeno masticò qualche cosa fra identi, ed uscì per tornare poco dopo incompagnia d’un negro, il quale portavaun magnifico fanà montato in argento,alto più d’un metro, e con tutti i vetriverdi.

– Ecco per gli occhi del Pascià, – disse Sandjak – però vi avverto che selo esponete sulla finestra, io lo faròscoppiare a colpi d’archibugio.

– Farai ciò che vorrai – disse ilgreco, prendendo la lampada, che erastata già accesa.

– Mico, é ora di ritirarci e di provarei letti d’Hussiff.

Fece colla mano un saluto, piuttostoironico, al capitano d’armi ed

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all’armeno ed uscì, spalleggiato daMico, il quale aveva già sguainati gliyatagan, onde premunirsi controqualunque sorpresa. La loro ritirata sicompì invece felicemente, e dopoqualche minuto i due valorosi eranonella stanza del Pascià.

Quando il Leone di Damasco seppedelle intenzioni del capitano d’armi, dispezzare il fanale con una archibugiatase veniva esposto sulla finestra come unsegnale, ebbe un movimentod’inquietudine.

– Qui siamo sospettati – disse. Oranon ci rimane che andarcene prima chegiunga Haradja colle galere del Pascià.Il segnale però é assolutamente

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necessario per fare accorrerel’ammiraglio.

– Come siete stato d’accordo? – chiese Nikola.

– Esporlo tre volte, ad intervalli d’unminuto, e questo sarà il segnale digravissimo pericolo. Vedi le galere tu,che hai degli occhi portentosi?

Il greco s’avvicinò alla finestra edosservò a lungo il Mediterraneo checominciava ad illuminarsi per qualcheirruzione di nottiluche, miste ad altripiccoli pesci fosforescenti.

– Sì, signor Muley, io le vedo: ottopunti luminosi. I miei occhi nonm’ingannano.

– Credi tu che altri possano vedere i

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fanà delle veneziane?– A questa distanza, no, signore –

rispose il greco.– Allora aspettiamo che la

guarnigione si addormenti. Pel segnaleabbiamo tempo.

Spensero tutti i lumi, non conservandoche il gigantesco fanale collocato inmezzo alla vasta camera, visitarono lesbarre delle porte, poi i veneziani,Nikola e Mico si sdraiarono sui lettidelle stanze vicine, mentre il Leone diDamasco s’addormentava sulla suapoltrona, accanto a suo padre. Amezzanotte, il greco, che dormiva come imarinai, balzò dal letto, entròsilenziosamente nella stanza del Pascià,

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e prima di tutto diede fuoco alle miccedei sei archibugi.

Ciò fatto si affacciò al finestrone chedava sul largo terrazzo e scrutò letenebre.

– Pare che siano andati tutti a dormire– disse. – Ed allora, succeda quello chesi vuole, agiamo senza perdere tempo.

Uno ad uno svegliò tutti, poi prese ilfanale e lo espose audacemente suldavanzale del finestrone a sesto acuto.

Un momento dopo si udì alzarsi dalbasso una voce minacciosa, la qualechiedeva: – Che cosa fate lassù?...Ritirate subito quel fanale o sparo.

– Chi sei? chiese il greco, facendosipassare da Mico un archibugio, onde

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poter subito rispondere.– Sandjak.– Buona notte.– Scherzate? Vi ho detto di ritirare

quel fanale.– Il fanale fa troppo fumo, ed il

Pascià é troppo sofferente per tollerarlo.– Allora spegnetelo.– Vogliamo vederci, noi signor

capitano d’armi. C’é poco da fidarsid’Hussiff.

– Volete obbedirmi sì o no? – gridòSandjak, il quale usciva dai gangheri.

– Non trovi piacevole scambiarquattro parole sotto il raggio verde?Guarda come la luce si espande sulterrazzo.

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– Basta!... Sparo!...– Ritira il fanale, per ora – disse

Muley al greco. Ormai deve essere statorilevato dagli uomini di guardia dellegalere.

– Dovremo però rimostrarlo.– Due volte ancora.– E quel bestione non vuol saperne

della luce verde!...– Bada di non prenderti qualche colpo

d’archibugio a tradimento.– Sorveglio il mio uomo – disse

Nikola, il quale aveva già ritirato ilfard.

– Ed anch’io – disse Mico. – Se sparafaremo fuoco anche noi.

– E poi ci assedieranno – disse

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Muley.– Penserà l’ammiraglio a venirci a

prendere, signore – disse Nikola. Ilsegnale é necessario per la nostrasalvezza, e noi lo ripeteremo due volteancora, anche se i curdi dovesseropuntare contro di noi le colubrine.

– Insomma, tu vuoi battaglia completa– disse Muley-el-Kadel.

– Credo sia giunto il momento,signore.

– Ed anche a me – disse il Pascià. Senon vi imporrete colla forza o collaprepotenza, da questo maledetto hisarnon uscirete, e non dovete dimenticareche Candia non é molto lontana, e che làsi trova il Pascià.

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– Signore, – chiese il greco a Muley – che sia passato già un minuto?

– Sì rispose il Leone di Damasco.– Ed allora in alto il fanà.La luce verde si era appena proiettata

sull’ampio terrazzo, quando la voceirosa del capitano d’armi si fecenuovamente udire, più minacciosa chemai.

– L’avete finita?... Dentro quel fanà,sangue di un cristiano! Dentro, o chiamoi curdi ed i negri e faccio parlare lecolubrine.

Nikola, tenendosi prudentementenascosto dietro le due colonnette dimarmo verde che reggevano il magnificofinestrone, lanciò al di fuori un rapido

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sguardo.Sandjak stava ritto sul parapetto sopra

l’abisso, e soffiava sulla micciadell’archibugio.

– Signor capitano d’armi!... gridò. – Non si può dormire tranquilli inHussiff.

– Fin che vorrete, ma senza quellaluce, che é proibita.

– Tu hai delle storie, mio caro – rispose il greco. – La luce verde non hamai fatto male a nessuno. Fa piacere,anzi a conversare dall’alto d’un balcone,quando non si ha sonno. Il caffèd’Hussiff deve essere troppo cattivo.

– Dite?– Che non ho sonno rispose Nikola il

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quale cercava di prendere tempo,affinché l’ammiraglio potesse rilevare ilnuovo segnale.

– Venite allora qui a passeggiare.– Fa troppo scuro.– Se vorrete ci diremo quattro parole

a colpi di yatagan!...– Si é guastato il filo del mio, poco

fa, nel tentare d’aprire una porta troppoirrugginita.

– Fatevene dare un altro dai vostriamici.

– Dormono come ghiri, e mispiacerebbe svegliarli ed interrompere iloro sogni.

– Per tutte le mignatte delle Ťacquemorteť!... urlò il capitano d’armi,

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alzandosi quanto era lungo sul parapetto,e puntando l’archibugio. – Basta!... Ate!...

Un lampo ruppe le tenebre, ed unapalla passò sopra il fanà, senzatoccarlo.

Mico, che si trovava accanto al greco,e che per un vero miracolo non era statocolpito, puntò a sua volta, rapidamente,l’archibugio e sparò. Il capitano d’armi,che, come abbiamo detto, si trovava inpiedi sul largo parapetto del piazzale,accanto ad una piccola colubrina,colpito dall’infallibile palla delmontanaro, girò due volte su se stesso,annaspando le mani come se cercasse diaggrapparsi a qualche cosa, poi

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stramazzò indietro, e la spinta lo portòfuori del parapetto. Dall’immenso etenebroso abisso, in fondo a cui muggivail mare, s’alzò un urlo spaventevole, pois’intese come una detonazione. Ilsecondo capitano d’armi di Haradjadoveva essersi sfracellato su qualchescoglio.

– È morto – disse Mico.– Lo credo disse il Leone di

Damasco, il quale si era awicinato alverone, armato pure d’archibugio.

Per alcuni istanti non si udì più nulla,poi ad un angolo od altro del piazzales’alzò un risolino beffardo.

– Ah!... Cane!... L’armeno!... urlòNikola. – Mostra anche la tua faccia, o

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meglio sali sul parapetto del piazzale.Il risolino sardonico si fece ripetere,

seguito poco dopo da grida furiose.Curdi, negri, mulatti, si precipitavano

giù dagli scaloni, muniti di torce edarmati di sciaboloni, di yatagan, dikamgiar, di pistoloni e di archibugi,urlando: – Alì’armi!... I giaurri!...

Sulle terrazze le donne del castello,uscite ai due colpi di fuoco, strillavanospaventosamente, come se avessero già icoltelli alla gola.

I soldati d’Hussiff, una quarantina intutto, poiché vi erano nell’hisa~ moltiservi e molti valletti negri che nonvalevano per le armi, fecero, correndo,il giro del piazzale, ululando

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spaventosamente, ma una voce li arrestò.Era Hassard, uscito dall’ombra, pronto aoccupare il posto del disgraziatocapitano d’armi.

– Fermatevi!... – urlò. – Sandjak éstato ucciso dagli ospiti del Sultano, edio prendo il vostro comando. Levatevidalla luce verde e seguitemi. Orarideremo.

– Sei tu che vorrai ridere, luridospione? – gridò Nikola. Non osaremostrarti, perché la prima palla che escedal mio archibugio é tua.

– Che io ti ricambierò con una palladi colubrina rispose audacementel’armeno, diventato ad un trattocoraggioso.

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– Provati e ti manderemo aCostantinopoli a provare le delizie delpalo.

– Aspettami.Tutti i soldati erano scomparsi,

ritirandosi verso un ridotto armato didue colubrine, e che si alzava di fronteal palazzo verso la gradinata chemetteva nella rada.

– Leva il fanale!... Basta!... gridò ilLeone di Damasco.

Nikola stava per obbedire, quandodue colpi d’archibugio rintronarono aldi fuori, ed i vetri del fard andarono inpezzi.

Muley-el-Kadel aveva mandato ungrido di disperazione.

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– Ecco la nostra rovina!... esclamò,mentre i vetri cadevano in terra,rimbalzando e spezzandosi.

Il greco, che per poco non avevapresa qualcuna di quelle due palle, nonaveva levato dal davanzale del veroneche l’armatura del fanà.

– Corpo di Maometto arrostito!...esclamò. – Non C’é più un pezzo divetro largo un palmo.

– E così non possiamo fare il terzosegnale – disse Muley-el-Kadel,passeggiando nervosamente per la sala.

– Era proprio necessario, figlio? – chiese il Pascià.

– Sì, padre. L’ultimo segnale dovevasignificare estremo pericolo, e noi non

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possiamo più farlo.– Ne hai fatti ben due.– Il primo doveva significare: tutto va

bene; il secondo: incrociate sempre; ilterzo: accorrete subito. Così erod’accordo coll’ammiraglio veneziano.

– E tu credi che senza il terzo segnalela squadra non si avvicini ad Hussiff?

– No, padre.– Dove trovare ora un altro fanale? si

domandò il greco, torcendosirabbiosamente le dita. Eppure Sandjakaveva detto che ve ne dovevano esserequattro o cinque. lì ricordi, Mico?

– Sì,l’ha detto a quel maledettoameno.

– Dove si troveranno?

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– Pel momento non pensarci, Nikola – disse il Leone di Damasco. Vorrestiscendere a frugare le sale ed i magazzinicon tutti quei curdi e quei negri inagguato?

– Eppure, signore, il segnale ultimodovremo ben darlo se vorremo venireraccolti dall’ammiraglio.

– Lo so, ma per ora vediamo come sisvolgono qui le cose. Forse i soldatid’Haradja, pel timore di offendere deiveri rappresentanti del Sultano, nonoseranno nulla. Sono sbarrate le porte?

– Tutte, signore – risposero iveneziani.

– Sarà meglio barricarle coi mobilidelle stanze.

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– Lo faremo, signore.In quel momento si udì l’ameno

gridare dal di fuori: – Si puòparlamentare? Ho fatto spegnere tutte lemicce.

Inizio

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IL PASSAGGIO MISTERIOSOMuley-el-Kadel allontanò col piede il

gigantesco fanà, il quale ormai nonproiettava altro che una luce bianca,piuttosto smorta, e si affacciò al verone,impugnando però due pistole le cuimicce ardevano, crepitando.

– Chi chiama? – domandò.– Io, l’ameno Hassard.– Che cosa vuoi?– Dirvi che i curdi chiedono la testa

dell’uomo che ha ucciso il capitanod’armi.

– A noi, inviati del Sultano?... gridòMuley-el-Kadel. – Tanto osano? Non sicomanda forse più a Costantinopoli?

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– Io non so che cosa dirvi, signore,ma inviati o no, intendono vendicareSandjak.

– E tu credi che io ti consegni l’uomoche ha fatto fuoco, o meglio, che harisposto al fuoco del capitano d’ami?

– Io non posso trattenerli, signore.– Da’ loro da bere.– Parlano di forzare le vostre stanze,

e di farvi fare a tutti la miseranda fine diSandjak – disse l’ameno.

– Tu esageri, corvo maledetto!... gridòNikola. – Sei tu che cerchi di aizzarlicontro di noi.

– Io ho sempre avuto in orrore ilsangue.

– Concludi – disse Muley-el-Kadel.

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– Io dico che i curdi esigono la testadell’assassino del capitano d’ami, e chese non lo consegnerete, verranno acercarlo.

– Fra noi.– Certo.– E noi non contiamo per nulla?– E le colubrine d’Hussiff non

valgono meglio delle spade e degliarchibugi? – rispose l’ameno.

– Vuoi rovinare il castello della tuasignora?

– Non sono più io che comando ora: icurdi non vogliono obbedirmi.

– Chiama i negri e lanciali contro diloro.

– Non mi obbediscono nemmeno

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quelli, signore.– Allora vieni a prenderci, se ne avrai

il coraggio.– Vi consiglio di consegnare

l’assassino di Sandjak.– Tu sei pazzo, Hassard.– Allora parleranno le colubrine –

rispose l’ameno con voce minacciosa.– Le muraglie sono grosse, le porte

sono bene barricate, e la nostra squadraincrocia sempre in vista d’Hussiff.

– Io non l’ho veduta.– Tu non sei mai stato un marinaio –

urlò Nikola. Sei un gatto delle montagnedell’Amenia, che non ha nemmeno lafortuna di vedere di notte.

L’ameno mandò un urlo selvaggio, un

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urlo da tigre in furore.– Ah!... Se potessi prenderti!... gridò

poi. Mi sentirei di morire più tranquillo.– Se vuoi una partita di yatagan o di

kamgiar, non hai da far altro che salire,e noi ti apriremo – rispose il greco.

– Per assassinarmi?– Buffone!... Siamo gente d’armi, noi,

e non già degli scrivani.– Ti tarperò la lingua.– Parla meno ed agisci di più.– Curdi!... Negri!... urlò l’armeno, che

pareva impazzito. – Fate tuonare lecolubrine e diroccate tutto l’hisar.

– Troppa roba – rispose il greco. – Noi stiamo qui ad aspettare le tuecannonate.

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Gli assediati, temendo qualchescarica, si erano ritirati dietro gli angolidel verone, che misuravano quasi unmetro di spessore, e che erano formaticon lastre dure di marmo cipriota.

Nel piazzale si udivano i curdi e inegri chiacchierare ad alta voce, e sivedevano, di quando in quando, dellemicce che gettavano dietro il ridotto, deiriflessi rossastri.

– Non osano – disse il Pascià diDamasco, il quale aveva lasciato illetto, per prendere parte alla difesa, nelcaso che vi fosse stato bisogno d’unuomo di più.

Muley-el-Kadel e Nikola scossero ilcapo.

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– Vedrete, padre, che quell’armenoriuscirà a convincere la guarnigionedisse il primo.

– Eppure é stato lui che ha decifratola lettera del Sultano e che ha rotto isuggelli – disse il greco.

– Pare che i suggelli del capo deicredenti non abbiano fortuna in Hussiff –disse Muley-el-Kadel, accostandosicautamente al verone.

La voce strascicata ed antipaticadell’armeno risuonò di nuovo:

– Comando io!... Rispondo io di tuttopresso la padrona!... Fuoco!...

Dieci o dodici colpi d’archibugioimberciarono il verone, e le palleandarono a cacciarsi dentro la parete di

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fronte, sollevando un fitto polverio.– Non rispondete!... gridò Muley-el-

Kadel, vedendo i veneziani, Mico ed ilgreco cogli archibugi in mano. – Risparmiate le munizioni per l’attaccofinale.

– Se potessi però scorgere quel caned’armeno, una carica la consumereivolentieri – disse Nikola. – È lui l’astromaligno del castello.

– Si terrà ben nascosto, mio caro – disse il Leone di Damasco. Ha vedutocome abbiamo spacciato il capitanod’armi, e non commetterà la sciocchezzadi mostrarsi sul parapetto del piazzale,per offrirsi ai nostri colpi.

Un’altra bordata di proiettili

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attraversò la stanza, fracassando tutti ivetri dell’ampia finestra e due lanterneche erano sospese al soffitto, e quello fututto il successo che ottennero i curdi edi negri d’Hussiff. Ci voleva ben altroper le salde muraglie dell’hisar,costruite con gran cura dai turchi.

Per cinque o sei minuti i soldatid’Haradja continuarono a sparare conmaggior rabbia, poi vedendo che nonottenevano nessun successo, e che gliassediati non si degnavano nemmeno dirispondere, misero in batteria unacolubrina.

– Ora canta il cannone!... urlòl’ameno, con gioia selvaggia.

– Dirocca pure il castello – rispose il

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Leone di Damasco. – Il Sultano locoprirà più tardi di pali per voi tutti.

– Intanto vi costringeremo alla resa.– Noi!... T’inganni, amico. Vieni ad

assalirci nel nostro nido.– Aspettate un po’. Volete cederci

l’assassino del capitano d’ami?– Ma se é già morto!... La vostra

prima fucilata lo ha ammazzato.– Allora gettatelo giù dal verone

affinché i curdi gli taglino la testa, e poiscaraventino il corpo sopra le scogliere.

– È ancora caldo, e noi stiamopregando intorno a lui rispose il Leonedi Damasco. – Ne parleremo domanimattina!

– Avanti le colubrine!... urlò l’ameno.

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– Spara pure!... gridò Nikola. – Guasti solamente la casa della tuapadrona. In quanto a noi, prenderemo lepalle in mano e giuocheremo a zara.

– Vi fracasserete le dita.Non preoccuparti di ciò: noi stiamo

qui, in piena sicurezza, a contare lecannonate.

Nella stanza non erano rimasti che ilPascià, suo figlio e Mico, poiché iquattro veneziani si erano messi aguardia delle due porte che mettevanosullo scalone, temendo un attacco acolpi d’ascia dai robustissimi negri.

– Teniamoci dietro la muraglia, – disse Nikola – e non avremo nulla datemere. Per rovesciare queste mura ci

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vogliono delle grosse bombarde e nongià delle colubrine. Ridurranno questastanza e fors’anche le altre in pessimostato, ma sarà Haradja che pagherà. Inguardia!... Vedo una miccia grossabrillare dietro il ridotto.

Tutti si erano allontanati dal verone,che era rimasto spalancato.

Trascorsero cinque o sei secondi, poiun lampo avvampò sul ridotto, edun’acuta detonazione si disperse pelmare. Una palla di forse tre libbre, entròdi volata pel verone, facendo saltare,col solo suo ronfo, tutti i vetri, e andò afracassare un magnifico specchio diVenezia che si trovava dall’altra parte,formando un buco dentro la massiccia

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parete.– Zara!... gridò il greco, accostandosi

cautamente al verone. – Ho vinto lapartita, Hassard, e la tua padronapagherà.

– Che cosa pagherà? – urlò l’ameno,tenendosi sempre nascosto.

– Il grande specchio di Venezia che lapalla ha rovinato. Non sono unveneziano, però sono certo di noningannarmi assegnandogli un valore dicento zecchini per lo meno. È così,Hassard, che curi gli interessi della tuapadrona?

– Morte di tutti i demoni della terra!...urlò l’ameno. – Uno specchio?

– Quello grosso, che luccicava così

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bene a fianco del letto. Lo ricorderai,spero. Cento zecchini!... Hassard é riccoe può permettersi questi lussi, é vero,amico? – gridò Nikola.

– Fate che non vi prenda!– Che cosa vorresti fare di noi?

Levarci la pelle per esercitarvi la tuapenna?

– Ti getto giù dalla scogliera!...– Bisogna prenderci però prima.– Cederete, ve lo dico io.– Ecco uno scriba che da un momento

all’altro si crede diventato un uomoterribile – disse Nikola, ridendo. – Noné colle penne, amico, che si diventaguerrieri, anche se sono d’oca azzurra.

– Ti arrendi?

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– Ma che!... Si sta così bene inHussiff.

– E che cosa mangerete domani?– Che cosa? Scenderemo noi nelle

cucine, e se i cuochi non ci serviranno liaccopperemo.

– E troppo!... – urlò Hassard, chepareva dovesse schiattare. Su, un altrocolpo!... Snidiamo quei falsi inviati delSultano. Vi dico io che sono deicristiani.

– Anche il Pascià di Damasco? – chiese il greco.

Hassard non credette opportunorispondere.

– Orsù, prepariamoci pel secondocolpo – disse il Leone di Damasco. –

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Che cosa fracasseranno questa volta? Illetto di mio padre?

In quel momento comparve Mico, ilquale aveva fatta una rapida visita aiveneziani, sempre in armi dietro le dueporte, fortemente barricate.

– Padrone – disse il giovane, convoce alterata. – Ci assalgono da dueparti.

– Montano la scala i curdi?– Saranno piuttosto i negri, signore. I

curdi non valgono che per le armi dafuoco, e non lasceranno certamente iloro cannoni.

– Avrei desiderato meglio che fosserocurdi, perche assai meno robusti – disseMuley-el-Kadel. – Hanno già attaccato

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colle asce?– Non ancora, signore, però credo che

non tarderanno ad assalire le porte.Sono già sullo scalone e si odonoparlare.

– Tutti i mobili sono stati utilizzati? – chiese il Pascià.

– Sì, signore, e poi le porte sonorobustissime, montate su enormi arpioni,e per di più hanno tre grosse sbarreciascuna – rispose Mico. – Se però...

Un’altra palla era entrata nella stanza,infilando il verone, ormai privo di vetri,ed era andata a cacciarsi sopra unquadro antico, sgretolando le pareti esollevando un polverone enorme.

– Zara!... gridò Nikola, che si

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divertiva a far arrabbiare l’armeno. – Anche questa volta ho guadagnata lapartita e reclamerò i danni presso la tuasignora, mio caro Hassard.

– Un altro guasto? – urlò l’ameno. – Etu non sei ancora morto!...

Se sto giuocando a zara colle palledelle tue colubrine. Te l’avevo detto ioche con noi avresti perduto il tuo tempo.Preparati a slacciare la tua borsa perrifondere alla tua padrona quel quadroantico, che io stimo valere almenocinquanta zecchini.

– Anche un quadro dopo lospecchio!... Va tutto in rovina lì dentro?

– E sono le cose più costose, amico,che fai fracassare dai tuoi curdi.

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Compiango i tuoi risparmi, perchedovranno finire nelle casse della nipotedel Pascià.

– Ma muori una volta!...– C’é tempo. Non ho che

quarantacinque primavere sulle miespalle – rispose il greco.

– Vi prenderemo dalla parte delleporte.

– Imbecille!... Avresti dovuto tentarloprima, senza gettare via centocinquantazecchini, pel capriccio di vedere un paiodi belle partite.

– Che Maometto ti maledica!...– Non ne ha tempo in questo

momento. Sta confabulandocoll’arcangelo Gabriele e le sue

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favorite.– Lo farai morire idrofobo, Nikola

disse il Leone di Damasco, il quale,malgrado la gravità della situazione, nonpoteva trattenere le risa. Sei troppoferoce.

– Quell’armeno é un gattopardoresistente come quelli che infestano lesue montagne – rispose il greco. – Nonmorrà d’un colpo di rabbia, vel’assicuro io.

– Oh!... Conosco perfino troppo benegli armeni, e mio padre più di me.

Gli assediati udirono i curdi discutereanimatamente, poi videro comparireMico con due pistole annate.

– Quali novità? – chiesero il Pascià

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ed il Leone di Damasco.– Ecco la risposta – disse l’albanese.Un colpo secco rimbombò in fondo

alle stanze occupate dai veneziani, chepareva prodotto da un formidabile colpodi scure, avventato contro una delle dueporte.

– Il pericolo sta là – disse il Pascià,staccando dalla parete una spada ed unpaio di pistoloni. Dei curdi nonoccupiamoci almeno per ora anche secontinuano a far tuonare le colubrine.

– Io credo che ci penseranno ai danniche potrebbero produrre – disse ilgreco.

– Alla lotta!...Lasciarono la stanza, dove la loro

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presenza non era necessaria, e siprecipitarono verso l’ultima cameraoccupata dai veneziani, e che eraingombra di mobili pesanti e di lettiaccumulati dietro le porte, gridando: – Ci siamo anche noi!...

Un altro colpo formidabile rimbombò,seguito da un lungo scricchiolio. I negriassalivano già, a gran colpi di scure, unadelle due porte, tentando di sfondarla.Le grosse sbarre di ferro però, ed eranoquattro, non erano facili a cedere, anchesotto l’urto poderoso dei muscolosi figlidell’Africa.

– Chi batte? – gridò il Leone diDamasco, che aveva amato l’archibugio.

– Io, Hassard – rispose l’armeno.

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– Come!... Non hai più fiducia nel tirodelle colubrine?

– Guastano troppo.– Ed hai pensato di forzare le porte?– Le getteremo giù, mio signore, e più

presto di quello che credete.– Fa’ picchiare ancora, dunque; bada

però che siamo armati d’archibugi e dipistole, e che qualche palla potrebbefarti scoppiare la testa.

– Sarò prudente, mio signore – rispose l’ameno. Avete avuto il torto diavvertirmi e mi terrò in guardia.

– Vuol dire che ammazzeremo i negri.– Sono uomini d’armi che non sanno

né leggere né scrivere.– Ah!... Canaglia!... urlò Nikola.

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Mostra un pezzo del tuo viso, grossosolamente come uno zecchino, e tiprometto una superba ferita.

– Ti prenderò, io spero, e ti farò fareun bel salto sugli scogli d’Hussiff – rispose l’armeno, colla sua solita voceirosa.

– Non mi hai ancora nelle tue mani.– Su, poltroni: forza colle asce!...Un terzo colpo, che parve una

cannonata, rimbombò nella stanza,facendo cadere parecchi piccoli quadri,e attraverso la porta comparve una lama.

– Che cosa dobbiamo fare, padre? – chiese il Leone di Damasco.

– Lasciali fare – rispose il Pascià.Quando saranno riusciti ad aprire un

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varco, interverremo noi colle ami dafuoco, e non saranno quei negri lì cheresisteranno ai nostri tiri. La polvere fapaura agli schiavi dell’Africa maledetta.

Dietro la porta gli assalitori sisforzavano di strappare la scure,mettendo a dura prova i loro muscoli,poi un’apertura si produsse, non piùlarga di due dita, ma sufficiente per farparlare le armi da fuoco. I quattroveneziani, che si trovavano dinanzi,furono lesti, tenendosi seminascostidietro ad un mobile pesante, a fare unascarica di archibugi.

Si udirono dei clamori spaventevoli,poi Hassard urlò: – Poltroni!... Haradjavi farà impalare, massa di canaglie.

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– Sono scappati come conigli – disseNikola. – Noi possiamo resistere ancheun mese.

– Senza mangiare? – chiese Mico.– Stringeremo le cintole.– Io spero che non ne avremo

bisogno. Ho fatto, poco fa, una scopertaimportante.

– Quale? – chiese il Pascià.– Stavo osservando un quadro che mi

pare voglia rappresentare Roxelana,quando fui colpito da una puntaacutissima che sporgeva dalla cornice.

– Tira avanti pigrone – disse il greco.– Non siamo già fra le montagnedell’Albania.

– Ho provato a premerla, e mi si é

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aperto dinanzi un passaggio, aperto frale pareti, e dal quale salivano deiprofumi di cucina.

– Per la barba di Maometto!...esclamò il greco. – Un passaggio chemette nelle cucine di Haradja?

– Credo – rispose Mico.– Fa’ vedere – disse il Leone di

Damasco.– Seguitemi nell’altra stanza – rispose

l’albanese.Essendo ormai i negri fuggiti, almeno

pel momento, poiché non dovevanoessere uomini così pusillanimi darifiutare un combattimento, lasciarono iveneziani a guardia delle barricate, eseguirono l’albanese.

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– Qui disse Mico, mostrando ungrande quadro che rappresentava unabellissima sultana, e che doveva esserestato dipinto da qualche cristiano,poiché i turchi non conoscevano affattola pittura.

– Sì, é Roxelana – disse il Pascià diDamasco.

– Apri il quadro, Mico – disse ilLeone di Damasco, armando, perprecauzione, le pistole.

L’albanese fissò gli sguardi sullacornice che era assai larga e riccamentescolpita, poi posò un dito su un punto.

Si udì subito lo stridere di una molla,ed il quadro scomparve entroun’apertura.

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Subito un tanfo caldo di grassi fritticolpì in pieno viso gli assediati.

– È odor di cucina questo – dissel’albanese. – Che cosa dici tu, Nikola,che continui a fiutare?

– Che questo passaggio segreto devemettere nelle cucine del castello – rispose il greco.

– Andiamo ad esplorare!...– Aspetta che accenda un pezzo di

candela.– Voglio venire anch’io – disse il

Leone di Damasco.– No, signore – rispose Nikola. Pel

momento siete più utile qui che su questastretta scala aperta fra le muraglie. Inegri ritorneranno alla carica, forse

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insieme ai curdi, ed avrete da fare.Tenete occupata quella gente finché noiesploriamo.

– Cercami un fanale verde.– Faremo il possibile, signore.

Andiamo, Mico.I due valorosi passarono sopra il

quadro e si trovarono su una scala cosìstretta, da permettere il passaggioappena ad una persona per volta. Ilgreco, che teneva con una mano lacandela e coll’altra uno dei suoi dueyatagan, cominciò a scendere senza farrumore, seguito dall’albanese. Il tanfo digrassume, a misura che si abbassavano,diventava più acuto, quasi asfissiante.Discesero undici gradini, descrivendo

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una larga curva, poi si trovarono dinanziad una porta che era chiusa internamenteda due grosse sbarre di ferro coperte diruggine.

– Questo passaggio non dovevaessere noto forse nemmeno ad Haradja – disse il greco. – Questa porta non éstata aperta da parecchi anni.

– Hai veduto in alto due piccoli buchiovali? – chiese l’albanese.

– Sì – rispose Nikola, alzando lacandela. – E di là che entra l’odore dicucina.

– Che possiamo aprire?– Io credo di sì, essendo la porta

sbarrata internamente.– Vedi nessuna luce brillare nelle

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cucine?– Nessuna. I cuochi avranno

approfittato di tutto questo trambusto perubriacarsi di Cipro e scappare a letto.

– Ad inventare nuovi pasticci.– È il loro mestiere. Attacca, Mico,

finché io sorveglio.L’albanese scosse le grosse sbarre,

facendo cadere a terra molta rugginepoi, con un grande sforzo, riuscì alevarle. Afferrò una larga maniglia dibronzo e tirò fortemente. La portadapprima resistette, poi si apersecigolando sui cardini non più unti.

I due valorosi scesero tre gradini e sitrovarono in una spaziosa cucina, dovesi trovavano dei giganteschi fornelli e

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delle immense pile di tondi e di pentoledi rame.

– Alle dispense, prima di tutto – disseil greco.

Vi erano due immensi armadi, coldavanti di filo di ferro. Le chiavi eranonelle toppe. I due valorosi, senzapreoccuparsi d’un altro colpo dicolubrina, che doveva aver fatto unnuovo guasto nella stanza del Pascià, silanciarono al saccheggio delle dispense,le quali erano abbondantemente fornite,essendo gli abitanti d’Hussiff abbastanzanumerosi.

Arrosti, schidionate di uccelli, chedovevano servire per la colazionedell’indomani, pani e dolciumi, furono

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portati sui primi gradini della scalasegreta, unitamente ad una mezzadozzina di bottiglie di vino di Cipro.

– Ora, – disse Nikola – possiamocontinuare l’esplorazione. Perventiquattro ore e più il mangiare non cimancherà, e poi potremo sempre fare diqueste sorprese notturne finché i cuochidormono. Ah!... Se potessimo saperedove si trovano i magazzini del castello.

– Nulla di più facile – rispose Mico,il quale aveva alzato il karngiar come sevolesse ammazzare qualcuno.

– Lo sai tu?– Io no, ma ecco qui un uomo che ce

lo dirà.Aveva fatto il giro di una tavola, ed

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aveva scoperto, sdraiato su una vecchiaottomana unta e bisunta, un cuoco grassocome una botte, il quale russavaplacidamente.

– Ecco una bella fortuna, se nessunoviene a disturbarci – disse il greco.

– I curdi ed i negri sono troppooccupati in questo momento per pensarealle cucine – disse Mico.

Nikola avvicinò la candela al voltodel cuoco, arrosolandogli leggermente lafolta barba. Il disgraziato spalancò gliocchi e tentò di mandare un grido, cheMico gli soffocò prontamente con unaenergica stretta al collo.

– Silenzio o ti spacco il cranio!...disse Nikola, alzando l’yatagan.

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– Sono un povero uomo – balbettò ilcuoco, alzandosi.

– E per questo non ti manderemoall’altro mondo, purche tu risponda allenostre domande.

– Ma…voi siete gl’inviati dalSultano. Come vi trovate qui?

– Ciò non ti riguarda rispose Nikola,il quale continuava a far rotearel’yatagan. – Alzati e guidaci.

– Dove, signori? – chiese il cuoco,con voce tremante. – Non scordate cheio sono un povero uomo che non ha maiimpugnata un’arme.

– Fuorché per sgozzare dei capponi – disse Mico, con voce ironica.

– È vero, signore: io non sono che un

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cuoco. Non sono mai stato guerriero, edanche mio padre era cuoco del Pascià...

– Lascia stare tuo padre disse Nikola,mentre dei colpi d’archibugiorimbombavano nelle stanze deiveneziani ed un colpo di colubrinarombava al di fuori. – Sai dove sitrovano i magazzini del forte?

– Quali magazzini?– Dove si conservano tutti gli oggetti

necessari alle scialuppe ed alle galere?– È qui vicino, signore.– Guidaci, se ti é cara la pelle.Il cuoco, che pareva avesse bevuto

troppo Cipro quella sera, tirò unsospirone, girò intorno uno sguardospaventato fissandolo sul yatagan e sul

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kamgiar di Nikola e di Mico, poi disse:– Seguitemi, signori, purché non

diciate nulla a Sandjak. Il capitanod’armi é cattivo come la padrona.

– Non ti darà nessun fastidio perche émorto – disse Nikola.

– C’é l’altro però, che é più cattivoancora.

– L’ameno?– Sì, Hassard.– Non ti dara nessun fastidio, te lo

prometto. Sbrigati, conducici nelmagazzino.

Il cuoco si passò una mano sulla largafronte adiposa, come se volessescacciare gli ultimi vapori delCipro,poi, dopo d’aver fatto alcuni passi

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a casaccio, si avvicinò ad una porta,girò la chiave ed aprì. Una immensa salasi presentò agli occhi di Nikola edell’albanese, ingombra di scialuppe, diremi, di attrezzi di ricambio per galere,di montagne di funi, e di grossi janh.

– Che cosa dici tu, Mico? – chiese ilgreco, avanzandosi col suo pezzo dicandela.

– Che Maometto ci protegge risposel’albanese, slanciandosi, con granstupore del cuoco, in mezzo ai grossifanali da galera.

– Cerca!... Cerca!...– E trovato!...– Uno verde?– Si, Nikola.

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– Vale più dei viveri che abbiamorubati.

Prese da terra alcune funicelle cheerano aggrovigliate a dei timoni ed adelle ribolle, ne tagliò alcune, poiavvicinandosi al cuoco, il qualeappariva terrorizzato, gli disse:

– Ed ora, mio caro, lasciati legare legambe e le braccia. Tu, Mico, taglia unpezzo di vela e forma un bavaglio.

– Che cosa volete fare di me? – chiese il cuoco, con voce semispenta.

– Renderti inoffensivo e null’altro – rispose Nikola.

– Chiudetemi a chiave in unadispensa, ed io non manderò nessungrido, ve lo prometto.

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– No, mio caro – risposel’inesorabile greco. – Allunga le gambee le braccia.

– Voi volete ammazzarmi.– Ma no – disse Mico. – Tu, domani,

tornerai a sgozzare i capponi d’Hussiff ele anitre delle «acque morte» per empireil ventre ai negri, ai curdi ed alle donne.

– Me lo giurate?– Sulla barba di Maometto e sulla

penna di luce dell’arcangelo Gabrieledisse Nikola. – Allunga, allunga, e nonparlare altro.

Il disgraziato che temeva, da unmomento all’altro, di sentirsi spaccare ilcranio sotto un terribile colpod’yatagan, fu pronto ad obbedire. I due

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valorosi lo legarono per bene, loimbavagliarono, poi lo sollevarono e lomisero dentro una vecchia scialuppafuori d’uso.

– Puoi terminare tranquillamente iltuo sonno – disse Nikola. Domaniqualcuno verrà a liberarti. Sogna labarba di Maometto e quella del Sultano,che si dice sia bellissima.

Il povero uomo rispose con un rantolosoffocato, e si abbandonò nel fondodella scialuppa.

Mico intanto aveva preso il fanaleverde, grosso come quello che avevanofracassato i curdi, e, dopo essersiassicurato che era ben pieno d’olio,fuggì in cucina.

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Nikola chiuse la porta del magazzino,sprangò quella del passaggio segreto, esalì i gradini a quattro a quattro,portando, pel momento, alcune bottigliedi vino di Cipro.

Inizio

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IL FANALE VERDECome era da prevedersi, i negri,

aizzati da Hassard, quantunque avesserosubito delle perdite durante il primoattacco, erano tornati alla carica insiemead alcuni curdi e molti servi, più pronti,questi, a scappare che a combattere. Sierano ostinati contro una sola porta,come se ignorassero l’esistenzadell’altra, e vi picchiavano dentro a grancolpi di scure, cercando di allargare lafessura già prima fatta. Il legnodurissimo, vero rovere di Candia, espesso cinque dita, sostenuto anche dallequattro sbarre di ferro, opponeva unaresistenza terribile alle salde

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muscolature degli assalitori. Di quandoin quando, fra un colpo e l’altro discure, si udiva la voce irosadell’armeno gridare: – Sotto!... Sotto!...Non sono che in otto!... Avreste paura?Che cosa direbbe la padrona se fossequi? Spezzate, fracassate, vendicate ilcapitano d’armi.

I quattro veneziani, il Leone diDamasco e suo padre, cogli archibugifumanti, non aspettavano altro cheun’altra crepatura si facesse per fare unascarica serrata.

Non avevano paura d’una invasione,poiché dopo la porta vi era la barricata,formata, come abbiamo detto, da vecchimobili massicci, dietro alla quale

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potevano opporre una furiosa resistenzaa colpi di spada e di pistola.

Proprio nel momento in cui Nikola eMico rivarcavano il passaggio segreto, inegri erano riusciti a sfondare unatavola, al di sopra dell’ultima sbarra diferro, ma i quattro veneziani avevanorisposto subito con una scarica, e, comela prima volta, gli assalitori, sordi alleurla di Hassard, erano scappati,mandando altissime grida. Qualcunodoveva essere caduto giù dalla scala,morto o ferito, a giudicare da una speciedi tonfo sordo, seguito da un lamento. IlLeone di Damasco, vedendo il grecocomparire col fanà verde, avevamandato un grido di trionfo.

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– Dove l’hai trovato? – chiese.– Non é il momento di dare delle

spiegazioni, signore – rispose Nikola,prendendo la miccia d’un archibugio edaccendendo il lanternone. – L’abbiamoscoperto, e, come vedete, siamo ritornatitutti e due vivi.

– Questo sarà la nostra salvezza.– Lo spaccheranno.– A me basta che la luce brilli

qualche istante, e poi le galeredell’ammiraglio non devono trovarsilontane da Hussiff.

– Lo credo anch’io, attirate dai colpidi colubrina sparati dai curdi.

– Sì, Nikola.– Andiamo a posarlo. I curdi hanno

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sospeso il fuoco.– Forse lo riprenderanno, ma a noi

non farà gran male. Sarà Haradja chepagherà, più tardi, i danni.

Passarono nella stanza da letto delPascià, tutta piena di polvere e dicalcinacci, poiché ben quattro palle sierano conficcate nella partefronteggiante l’ampio verone, e dopod’aver dato al di fuori un rapidosguardo, e di essersi assicurati chenessuna miccia brillava dietro il ridotto,innalzarono sul davanzale il fanà.

– Hai veduto nulla, Nikola, sul mare?– chiese il Leone di Damasco.

– Sì, signore, otto punti luminosilontani forse due miglia da Hussiff.

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– La squadra?...– Che si avvicina.Allora domani non so come se la

caveranno i curdi ed i negri, poiché iveneziani monteranno sicuramenteall’assalto dell’hisar.

– Sono abituati ad espugnare i saldicastelli della Dalmazia e della Morea, enon si guarderanno né dinanzi, né dietro.

– È proprio la squadra?– I miei occhi sfidano quelli del

migliore marinaio, lo sapete già – disseil greco.

– Lo so.– Ed allora, signore, fidatevi di me…

ed abbassate subito la testa.– Perché?

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La risposta fu pronta. Un colpo dicolubrina rimbombò, e la palla andò aspezzare, con matematica precisione, ilfanale verde, portandolo fino in mezzoalla stanza.

Il greco guardò il Leone di Damascocon ispavento.

– Non importa – disse Muley-el-Kadel. – L’ammiraglio a quest’ora hapotuto rilevare il terzo segnale, che erail più importante. Odi, Nikola?

– Sì, una lontana cannonata – risposeil greco.

– Sparata senza dubbio dalla squadra.– Viene dal largo, la detonazione. Che

cosa fanno i curdi?– Accendono le micce e si preparano

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a rispondere.– Palle sprecate.– Lo credo anch’io. I curdi non sono

mai stati grandi artiglieri. Giù la testa,giù!...

Un altro colpo di colubrina rombòsull’ampio piazzale, ed un’altra pallaattraversò la stanza del Pascià,sfracellando un vecchio stipo arabo digran valore, pieno di porcellanefinissime, che forse erano stateacquistate in Persia o nell’Afganistan.

– Povera Haradja – disse Nikola. – Se tarda alcuni giorni ancora aritornare, non troveri in piedi nemmenole sue cucine.

– E nemmeno i suoi servi rispose il

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Leone di Damasco, sparando unamoschettata attraverso l’ampio verone,per poi ritirarsi prontamente.

Alcune archibugiate risposero,fracassando gli ultimi pezzi di vetro delfanà, poi si udì la voce dell’armenourlare: – Ci attaccano!... Difendetel’hisar fino alla vostra ultima goccia disangue.

Alcune cannonate partirono dalridotto più alto ed altre da quello chedifendeva lo specchio d’acqua, ma lasquadra continuava a bordeggiare invista del castello, sparando colpi sucolpi. I merli cadevano fracassati, lesvelte colonnine, di stile moresco, chedividevano gli ampi finestroni delle

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terrazze superiori, cadevano pure comese fossero di vetro, anche le merlaturedella gradinata cominciavano arovinare. Poi cominciò a salire anchequalche palla di pietra, quantunque iveneziani non facessero grande uso dibombarde sulle loro galere.

I quattro veneziani, Mico, il Pascià, ilLeone di Damasco ed il greco, essendostato sospeso l’assalto dei negri,avevano impugnati gli archibugi etentavano di prendere alle spalle icannonieri curdi.

Le scariche si succedevano allescariche, controbattute solamente daqualche colpo sparato dai negri, i qualierano accorsi alla difesa della scala,

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guidati da Hassard, diventatoimprovvisamente un terribile guerriero.

La squadra, dopo d’aver lanciato uncentinaio di palle e aver bordeggiato allargo, forse per meglio scorgere ilfanale verde, ad un certo momentostrinse le linee e mosse risolutamenteverso il castello, per gettare le ancorenello specchio d’acqua e sbarcare gliequipaggi indicati per gli assalti.

I turchi avevano costruito un piccolofortino in pietra, quasi a filo d’acqua,armandolo con sei grosse colubrine, percontrastare l’entrata alle navi chevenissero di fuori e che non battesserobandiera della Mezzaluna.

Hassard, coi negri e quattro puntatori

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turchi, l’aveva prontamente occupato,colla speranza di opporre una validaresistenza; disgraziatamente per loro nonavevano avuto il tempo di tendere lagrossa catena di ferro che serviva achiudere la bocca del piccolo porto,sicché le prime navi veneziane avevanopotuto entrare, scegliere gli ancoraggi eriprendere subito il fuoco interrotto daquelle manovre. L’ammiraglio,sospettando un agguato, ed ignorandoquanti uomini contasse la guarnigioned’Hussiff, prima di far mettere in acquale scialuppe per lanciare i suoi uominiall’attacco della stretta e pericolosascala, decise innanzi tutto di ridurre alsilenzio il fortino. Quattro galere, ad un

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segnale di tromba, cominciarono a farpiovere una grandine di proiettili,mentre le altre quattro, rimaste fuori delporto, rispondevano furiosamente allecannonate del ridotto. La lotta nondoveva durare a lungo. Hussiff, sorpresoquasi senza difesa, doveva cadererapidamente sotto il vigoroso doppioattacco che lo batteva in alto ed inbasso.

– Coraggio, figlioli – gridaval’ammiraglio, il quale s’appoggiava asuo nipote, non essendo la sua gambaancora guarita. – Ricordatevi delleorrende stragi di Nicosia e diFamagosta, e che questa é terra turcapresa a noi.

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Le quattro galere che erano entratenello specchio d’acqua, manovrandolentamente sui loro remi, sparavanobordate terribili, quasi a bruciapelo,diroccando rapidamente il fortino.

Per un quarto d’ora i negri ed ipuntatori curdi, quantunque crollasserosulle loro teste le volte, tennero duro,facendo tuonare le sei grosse colubrine,poi vedendo che la tempesta di ferrodiventava opprimente e che minacciavadi distruggere tutto, inchiodarono i pezzie fuggirono su per la stretta scala,contando forse di opporre una nuovaresistenza, ma non erano sfuggiti agliocchi degli artiglieri veneziani. Duetremende bordate di mitraglia li

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raggiunsero prima d’aver toccato gliultimi gradini, e fu una vera strage. SoloHassard, pochi negri, più o menomitragliati, e qualche curdo, eranosfuggiti all’onda di ferraccio e dipiombo che scrosciava sui gradini.

– Le canaglie sono scappate, ed ilfortino é diventato muto dissel’ammiraglio, il quale aveva semprecomandato il fuoco. – Ora andiamo avedere che cosa é successo dei nostriamici.

– Io credo, zio, – disse suo nipote – che siano stati attaccati e che si

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difendano disperatamente. Odi learchibugiate che partono da quel veroneche ci fece il segnale verde?

– Ragion di più per lanciare i nostriuomini all’assalto. Ah! Maledettagamba!... Non poter io guidare i mieivalorosi come a Durazzo e nei castellidella Morea!

– Ci penso io, zio rispose l’animosogiovanotto, degno nipote d’un cosìgrande eroe.

I caicci venivano messi rapidamentein acqua, e le truppe d’assalto, tuttecoperte d’acciaio ed armate di archibugie di spadoni, vi si affollavano, perniente spaventate dalle palle checadevano dall’alto, poiché i curdi non

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avevano cessato di servirsi dellecolubrine nel ridotto del piazzale.

Duecento uomini, guidati da ufficialiormai rotti ai terribili assalti dei castellidella Dalmazia, di Negroponte e dellaMorea, in un batter d’occhioattraversarono lo specchio d’acqua esbarcarono sulla gettata, dinanzi alfortino ormai muto.

Il nipote dell’arnmiraglio si eramesso alla loro testa gridando:

– Su tutti, a salvare il Leone diDamasco!... La miglior spada di tutta lacristianità!...

Le galere che erano rimaste fuori eche potevano, data la distanza, fare deibuoni tiri di semiarcata, avvertite che

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l’attacco cominciava, fulminavanorabbiosamente il ridotto, per impedire aidifensori d’Hussiff di accorrere alladifesa della scala. Quelle ancorate nellospecchio d’acqua mitragliavano in alto,verso i merli, dove i servi del castello,improvvisatisi difensori, sparavanoqualche colpo d’archibugio e di pistola.

I duecento veneziani, presa terra, siincolonnarono e salirono rapidamente lascala, senza gridare, per sorprendere icurdi che continuavano a sparare dalridotto. In un lampo, senza perdite,poiché tutti i negri ormai erano fuggiti,salvandosi forse verso le «acquemorte», dove già si erano rifugiate ledonne ed i paggi, i veneziani raggiunsero

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il gran piazzale e si scagliaronofuriosamente entro il ridotto, pugnalandoi curdi sui loro pezzi.

– Venezia!... Venezia!... aveva gridatoil nipote dell’ammiraglio, vedendo degliuomini affacciati al gran verone edarmati d’archibugi. – Giù le armi omontiamo all’attacco.

– Noi siamo il Pascià ed il Leone diDamasco ed i loro amici! – gridòMuley-el-Kadel. – Salite: le porte sonoaperte.

Ormai più nessuno opponevaresistenza in Hussiff. I pochi sfuggiti allastrage, erano scappati verso lacampagna che si stendeva dietro ilcastello, salvandosi in mezzo ai grandi

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stagni pantanosi, ormai non piùpericolosi dopo la morte dellesanguisughe. Il greco, Mico ed i lorocompagni avevano levate le barricate ele sbarre delle due porte, sicché iveneziani poterono entrare facilmentenell’appartamento del Pascià, cosìvalorosamente difeso.

– Signor Muley!... esclamò il nipotedell’ammiraglio, slanciandosi verso ilLeone di Damasco. – Non dubitavamo ditrovarvi vivo. hai i turchi non viriprenderanno più!...

– Adagio, signor Lorenzo – disse ilLeone. Non siamo ancora al sicuro, efaremo bene a sgombrare al più prestopossibile.

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– Chi può minacciarci ora? Mi pareche siano scappati tutti, e Nicosia étroppo lontana da Hussiff perchegiungano, da un momento all’altro, delletorme di giannizzeri.

– Il pericolo verrà dal mare, signorLorenzo. Una barca ha lasciato ilcastello, ed abbiamo i nostri buonimotivi per credere che si sia recata aCandia.

– A domandare soccorsi al Pascià?– E ad avvertire Haradja della

presenza, nel castello, di messi delSultano.

– Ciò é grave – disse il valorosogiovanotto.

– Pare anche a me.

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– Giacche l’abbiamo conquistatoquesto saldo castello e non possiamomantenerlo, lo bruceremo, così Haradja,la piccola tigre, al suo ritorno, troverà ilsuo covo distrutto.

– Volevo proporvelo io – disse ilPascià di Damasco.

Il nipote dell’ammiraglio si volseverso i suoi guerrieri e diede loro alcuniordini, poi disse rivolgendosi al Leonedi Damasco: Venite, signore: mio ziosarà ben lieto di rivedervi e diconoscere anche vostro padre.

I veneziani, guidati da Mico e daNikola, si erano slanciati attraverso lestanze e le cucine, avevano radunate lemobilie e vi avevano dato fuoco,

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cospargendoli di polvere.In un baleno gigantesche nubi di fumo

eruppero violentemente dai porticati,avvolgendo le terrazze superiori.

Hussiff, il maledetto e temuto castellodi Haradja, cominciava a bruciare.

Le trombe suonavano a bordo dellegalere veneziane, chiamandoimperiosamente a bordo gli equipaggiche avevano preso parte all’assaltodell’hisar.

Qualche pericolo minacciava lasquadra? Nikola, l’uomo dalla vistalunga, prima di lasciare l’ampiopiazzale, aveva gettato sul mare un lungosguardo.

– Giungono!... – aveva esclamato. – I

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cannocchiali dei capitani veneziani lihanno scoperti. Abbiamo appena iltempo d’imbarcarci.

Raggiunse il Leone di Damasco cheaiutava suo padre a scendere la strettascala e gli disse: Facciamo presto,signore. Ho scoperte parecchie naviall’orizzonte che puntano su Hussiff.

– Navi turche?– Vengono da ponente, ossia da

Candia, e non saranno certamenteveneziane.

– Quel maledetto armeno ha mandatoad avvertire Haradja, ed eccoci oraaddosso un altro pericolo.

Le trombe veneziane suonavano conmaggior furia, mentre il castello

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cominciava ad avvolgersi fralunghissime fiamme che irrompevanoviolentemente dalle ampie vetrate,facendo crepare i vetri. Immense nubi difumo rossiccio si stendevano sopra leterrazze e venivano spinte lentamenteverso il Mediterraneo, da una leggerabrezza.

In cinque minuti i veneziani, il Leonedi Damasco ed il Pascià, Mico e Nikola,furono a bordo delle galere.

Le ancore furono salpate, e le quattronavi, capitanate dall’ammiraglia,raggiunsero sollecitamente, a granbattuta di remi, le altre che eranorimaste fuori della piccola rada delcastello.

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Su tutti gli alberi erano state spiegatele bandiere rosse, come segnale diprossimo combattimento, e sulle tolde sicaricavano in fretta cannoni espingardoni pieni di mitraglia.

Parecchie vele erano comparseall’orizzonte, ed essendo la nottechiarissima e l’aurora non lontana, iveneziani, che già facevano uso deiprimi cannocchiali, le avevano scoperte,a tempo.

– Credete che la guidi il Pascià inpersona? – chiese l’ammiraglio al Leonedi Damasco, che era salito sul ponte dicomando della capitana insieme aNikola.

– Io non credo che l’ammiraglio turco

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abbia lasciato l’assedio di Candia.Forse ha spedito contro di noi lasquadra di Alì Arab.

– Una squadra forte?– D’una ventina di galere – disse il

greco.– Troppe – rispose l’ammiraglio.

Avremo appena il tempo di scambiarepochi colpi di colubrina e di fuggireverso la rada di Capso.

– Ancora là? – chiese il Leone diDamasco.

– È il luogo d’appuntamento per lenavi veneziane – rispose SebastianoVeniero. E poi voi dovrete ritornare aCandia per prendere la duchessa vostramoglie. Finché c’é tempo, é meglio che

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lasci la città assediata e coll’aiuto diDomoko e dei suoi amici potrà farlo.Pensate, Muley-el-Kadel, al terribileassalto di Famagosta. Quelle canaglie diturchi sarebbero capaci di ripeterloanche contro Candia, ed allora nonrisponderei di Capitan Tempesta.

– Avete ragione, signor ammiraglio – rispose il Leone di Damasco. – Ma miofiglio?

– Se é sempre sulla galera del Pascià,non pensate, per ora, a salvarlo. Èvostra moglie che dovete sottrarre aipericoli d’una strage generale. I turchisono furiosi per la lunga resistenza che iveneziani oppongono, e se riusciranno avarcare i bastioni e ad espugnare le

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torri, passeranno tutti a fil di spada.– Lo so – disse Muley-el-Kadel,

tergendosi il freddo sudore che glibagnava la fronte. – La mia Eleonora!...Oh che non cada in mano di queimiserabili che non risparmiano né ledonne né i fanciulli. Succeda quello chesi vuole, coll’aiuto di Domoko e deisuoi amici, rientrerò in Candia e salveròla mia donna.

– E verrete a raggiungermi alla radaal più presto. Avremo presto dellegrosse novità.

– Quali, signor ammiraglio?– Ho saputo che la cristianità si é

finalmente decisa a menare un colpodisperato alla potenza turca: Spagna,

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Austria, il Papa, Genova, armano le lorogalere, ed anche la Serenissima ne havarate parecchie. Fra venti o trentagiorni io spero che due o trecento navisbucheranno dall’Adriatico e che siscaglieranno verso l’Arcipelago greco.Un giovane principe, figlio naturale delpotentissimo Filippo Il, pare destinato acomandarle.

– Valente, in cose di mare?– Oh!... Ci sarò io nel momento del

grande urto – rispose l’ammiraglio,sorridendo. Non basta, sul mare, sapermaneggiare solamente le spade permontare all’abbordaggio. Un galeottoqualunque, che abbia spezzate le suecatene del remo, può farlo.

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Puntò il cannocchiale verso ponente,uno dei primi che si usavano inquell’epoca, essendo appena statiscoperti, e guardò a lungo, poi si volseverso il greco.

– Quante galere? – gli chiese.– Diciotto, signor ammiraglio –

rispose Nikola. – I miei occhi valgonoquanto il vostro tubo.

– Che vista meravigliosa possedete!...Avete due cannocchiali viventi sotto lepalpebre.

– È giusto il numero?– Sì Nikola – rispose l’ammiraglio.– Allora é la squadra di Alì Arab.– Ho udito vantare l’audacia di questo

allievo di Alì Pascià.

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– Accetterete la lotta? – chiese ilLeone di Damasco.

– Mi preme troppo conservare le mienavi, signor Muley – risposel’ammiraglio. – La Serenissima ne hatroppo poche in questo momento, pertentare dei combattimenti parziali senzarisultato. E poi non abbiamo che ottonavi, siano pure più grosse e più rapidee meglio armate, e non ci conviene.Scapperemo cannoneggiando e fileremodiretti alla rada di Capso.

Imboccò il portavoce, e con voceancora poderosa, lanciò alcuni rapidicomandi, che il vento portò facilmentefino sui ponti delle altre galere. La rottafu subito modificata, ed i remiganti

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dettero furiosamente dentro ai remi,facendo saltellare, rapidissime, le ottonavi. Intanto l’hisar d’Hussiff bruciavacome una gigantesca fiaccola, lanciandoattraverso alle tenebre vampe immense,che si riflettevano perfino nel mare.

Nessuno pensava certo a salvarlo. Ipochi negri ed i pochi curdi sfuggiti allecannonate, od ai rovesci di mitraglia,non si sentivano più l’animo di ritornareal castello che credevano ancoraoccupato da un reparto di veneziani, eassistevano da lontano, insieme alledonne, ai valletti ed ai servi, all’immaneincendio.

Mentre Hussiff a poco a pococrollava sotto i feroci morsi del fuoco,

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la squadra di Alì Arab forzava la marciaper tagliare la via ai veneziani edopprimerli con un abbordaggio generale.

Sebastiano Veniero però, non erauomo da lasciarsi prendere ed avendomaggior numero di vogatori e navi piùrapide, si diresse, su due colonne, versoil nord, per evitare il pericoloso urto.

– Giunge troppo tardi il mussulmano – disse a Muley-el-Kadel, che gli stavasempre a fianco. Se spera che io miscaldi, s’inganna, e non m’importaaffatto che mi dia poi del prudente.

Diede un altro sguardo alle galereavversarie che precipitavano la corsa,cercando di distendersi, poi imboccandonuovamente il portavoce, gridò:

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– Fuoco di bordata!... Poi fatelavorare i pezzi di poppa!

Le duecentotrenta colubrine dellasquadra, tutte di calibro superiore aquelle turche, tuonarono con unrimbombo spaventevole, avvolgendo iponti d’un fumo così fitto, che per alcuniistanti gli equipaggi non poterono vederenulla.

Poi seguì il fuoco degli spingardoni edi poche bombarde, più utili in unassedio che in un combattimento navale.I turchi furono solleciti a rispondere coiloro pezzi di prora, non permettendo laloro rotta i fuochi di bordata, eparecchie palle passarono sulle galereveneziane, fuggenti come rondini,

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uccidendo degli uomini e producendodei danni nelle alberature e nelle murate.Alì Arab, poiché si trattava delluogotenente di Alì Pascià, vistosisfuggire la preda, allargò le sue lineemaggiormente, esponendosi a gravipericoli. Ed infatti i veneziani, scortedue galere staccate dal grosso, che conaudacia ammirabile tentavano ancora divenire all’arrembaggio, con un fuocoinfernale le disalberarono, facendogrossa strage non solo sui ponti, bensìanche fra i rematori delle corsie. Labattaglia ormai era finita.

Le galere veneziane, avvantaggiatesinuovamente, continuavano a scappare,sparando le colubrine degli alti castelli

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di poppa, le sole che potessero servire aqualcosa in quel momento.

– Alì Arab dirà forse che noi abbiamoavuto paura – disse l’ammiraglio aMuley-el-Kadel. – A me non importaaffatto. Ho troppe vittorie al mio attivo,ed i turchi sanno quanti danni ho recatoloro. Ci rivedremo più tardi, Arab, e oio o tu affonderemo nel Mediterraneo.

I turchi quantunque ormai avesseroperduta ogni speranza di raggiungere legalere veneziane e di abbordarle,continuavano la caccia, facendo ungrande ed inutile spreco di polvere e dipalle.

L’ammiraglio Veniero aveva datoordine ai suoi uomini di non rispondere

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più premendogli conservare lemunizioni che non avrebbe potutorinnovare che a Messina, dove le navidella cristianità, a poco a pocoandavano radunandosi.

Per un paio d’ore le due squadre sitennero in vista poi quella mussulmana apoco a poco scomparve.

Le sue navi, troppo pesanti, non eranoriuscite a competere con quelleveneziane.

– Hussiff bruciato, le galere ancoraintatte – disse l’ammiraglio al Leone diDamasco. Non potevo desiderare unagiornata più felice. Ed ora andiamo adaffondare le nostre ancore a Capso,affinché voi possiate far fuggire da

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Candia vostra moglie, ciò che saràfacile, poiché l’assedio, dopo due anni,non si é ancora ristretto.

– Non troveremo il Pascià sullanostra corsa?

– Ma no, Muley. Ha troppo da fare, ocrede di aver troppo da fare a Candiacolle sue bombarde. Noi, d’altronde, citerremo lontani dalle coste dell’isola, eterremo bene gli occhi aperti.

Comandò d’issare le vele, essendosorta, coll’aurora, una fresca brezzolinad’oriente, poi la squadra filòsuperbamente verso ponente, aiutatapoderosamente anche dai remi.

Le galere turche, come abbiamo detto,erano ormai scomparse, e più nessuna

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detonazione guastava la grande calmache regnava sul Mediterraneo.

Inizio

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LE ULTIME DIFESE DI CANDIATre giorni dopo, la squadra

veneziana, sospinta da buoni ventid’oriente, affondava le ancore nellapiccola baia di Capso, occupatasolamente, in quel momento, da unlaneko greco, un minuscolo velierolungo appena quattro metri, eppure cosìcarico di generi diversi, da quasiaffondare. Senza dubbio si era rifugiatolà dentro per paura delle galeremussulmane che facevano, nonostantel’assedio, delle rapide corse versol’Arcipelago per spiare l’arrivo deirinforzi veneziani, sbucantidall’Adriatico. Le navi erano appena

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giunte quando si vide giungere Domoko,montato su un robusto cavallo, chepareva d’origine turca, seguito daquattro suoi amici, pure montati eformidabilmente armati.

– Ecco l’amico fedele e prezioso – disse l’ammiraglio a Muley-el-Kadel.Solamente quell’uomo potrà, coll’aiutodei suoi, farvi entrare in Candia. Sapetegià quanto vale.

– Sì, ammiraglio.– Potete quindi affidarvi interamente a

lui.– Voi rimarrete qui?– Fino al vostro ritorno.– Allora mio padre rimarrà a bordo

della capitana.

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– È già convenuto, Muley. Fate peròpresto a ricondurre vostra moglie, poiché i turchi potrebbero sorprendermi ecostringermi a prendere il largo.Domoko non sarà imbarazzato a fornirevoi, Mico e Nikola di cavalli. Ha fattocertamente, durante la nostra assenza,una buona raccolta di bestiemussulmane.

– Non vorrei esservi d’imbarazzo,ammiraglio.

– Niente affatto, Muley. Se i turchi miassaliranno, prenderò il largo, pertornare più tardi a raccogliervi. Non viabbandonerò, ve lo assicuro.

Domoko intanto era salito a bordodella capitana, insieme ai suoi

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compagni.Fu subito combinata la corsa verso

Candia, per salvare la duchessa primache avvenisse una strage generale.

Già si sapeva che la città, oppressadalle bombarde mussulmane, nonresisteva che per un vero miracolo,avendo i bastioni e le torri enormementesofferto durante quel lunghissimoassedio. Verso sera un compagno diDomoko parti verso l’interno dell’isola,per provvedersi dei cavalli necessari aMuley, a Mico ed a Nikola. Tutte lefattorie erano ben provviste di bestieturche, poiché i volteggiatori dellaMezzaluna, che osavano scorrazzare lecampagne, cadevano in gran numero

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sotto le archibugiate dei candioti, per lamaggior parte abilissimi tiratori,vivendo di caccia.

Alle cinque del mattino, otto cavallicalpestavano le sabbie della baia. Altritre erano stati condotti dall’interno, tuttisplendidi animali dalle lunghe criniere ele lunghe code, la testa leggera, il ventrestretto, le zampe nervose.

– Con questi arabi potrete fare unarapida corsa – disse l’ammiraglio,indicando a Muley gli animaliscalpitanti. Candia finirà col popolarsidi cavalli turchi. La guerra a qualchecosa sarà servita a questi disgraziatiisolani. Partite e tornate al più prestopossibile, poiché i turchi possono

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riuscire a scovarmi anche qui. Forsehanno già un sospetto.

Alle sette, il Leone di Damasco, dopod’aver salutato il padre e averlorassicurato, scendeva sulla spiaggiacolla sua scorta, armata d’archibugi, dipistole e d’armi bianche.

Un ultimo saluto, cui risposero iveneziani con un gran grido, poi gli ottouomini montarono a cavallo escomparvero rapidamente dietro lealture.

Domoko, il più pratico dell’isola, siera messo alla testa del drappello, eguidava la corsa in compagnia diNikola, il quale non valeva meno delcretese per conoscenza di terreni.

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Una splendida luna versava torrenti diluce azzurrina sulle campagne deserte,allungando immensamente le ombre deicavalieri. Fra i filari delle viti, ormaigià spogliati dei loro grossi e dolcissimigrappoli dorati, gli uccellacci dellamorte zufolavano sinistramente,domandando la cena. A mezzanotte, gliotto cavalieri, dopo una corsarapidissima, giungevano alla fattoria diDomoko. I turchi non erano più ritornatia vendicare i loro compagni, sicchéquesta si rizzava ancora sullamalinconica campagna cosparsa diossami umani e di cavalli.

– Non andiamo più innanzi, per ora,signore disse il cretese al Leone di

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Damasco. – Sarebbe pericolosogiungere a Candia all’alba.

– Dovremo fermarci qui fino adomani sera? – chiese Muley.

– Si, mio signore. Senza il segnale,noi non potremmo avvicinarci aibastioni senza cadere sotto qualchecolpo di mitraglia, o qualche scaricad’archibugi.

– Quale segnale?– Un fanale rosso.– Mentre sul mare vale il fanale

verde. Orsù, rassegniamoci, edaspettiamo.

– E poi, signore, voglio mandare unpaio dei miei amici ad esplorare idintorni della città. Non sappiamo a

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quale punto siano i turchi coll’assedio.– Che Candia sia stretta tutta intorno

in modo da rendere impossibile lanostra entrata? Ardo dal desiderio dirivedere mia moglie e di metterla insalvo prima che succeda la grandestrage. I veneziani ormai non potrannoresistere a lungo.

– Purtroppo, signore – risposeDomoko, mettendo delle scranne dinanzialla lunga tavola. – Il loro valore nonvarrà a salvare la bandiera dellaSerenissima, a meno d’un miracolo.

– Che può darsi si compia, Domoko – rispose Muley-el-Kadel.

– In quale modo?– Tutte le nazioni cristiane sono

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stanche dell’insolenza mussulmana, epare che abbiano deciso di dare un grancolpo al Sultano.

– Chi ve lo ha detto?– L’ammiraglio.– Allora qualche cosa di vero ci deve

essere, ma a Candia, giungeranno troppotardi i cristiani dell’Europa.

– Chi lo sa!...Domoko scosse la testa con un fare

scoraggiato, e mise in tavola un mezzocapretto arrostito e parecchi pani digranoturco, duri ormai come ciottoli. Isuoi compagni intanto erano scesi nellacantina ed avevano portato sopra deivecchi fiaschi di vino bianco, tuttiavvolti da ragnatele.

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– Ceniamo – disse il cretese. – Cenano anche i nostri cavalli.

Gli otto uomini mangiarono in fretta,vuotando parecchi bicchieri, poi sigettarono sulle sedie, eccettuato uno,incaricato di vegliare sulla sicurezzagenerale.

La lampada era stata spenta, affinché ivolteggiatori turchi, se per caso siaggiravano nei dintorni, nons’accorgessero che la fattoria eraabitata.

La notte passò senza allarmi, equando l’alba sorse, la campagnaimmensa era ancora deserta.

– Ripartiremo questa sera – disseDomoko a Muley. Oggi, intanto, due dei

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miei amici faranno una punta versoCandia. Se, come spero, l’entrata saràpossibile, a mezzanotte noi supereremo ibastioni.

A mezzogiorno, due cretesi, dopod’aver pranzato, montarono a cavallo esi spinsero animosamente verso la cittàassediata, scomparendo ben presto fra ifolti vigneti. Pei rimasti, e soprattuttopel Leone di Damasco, furonolunghissime ore d’ansietà estrema. Fusolamente verso il tramonto che i duecretesi, coi cavalli bianchi di schiuma,tornarono alla fattoria.

– E così? – chiese Muley-el-Kadel.– L’assedio é sempre alle medesime

condizioni – rispose uno dei due cretesi

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– e degli uomini ben decisi non avrannograndi difficoltà ad entrare in Candia.

– Da quale parte? – chiese Domoko. – Dal bastione di Malamocco?

– No, non vi é che quello del Pontedei Pugni che sia ancora libero dallestrette dei turchi. Tutti gli altri hanno leparallele davanti armate di colubrine edi bombarde.

– Sicché l’accerchiamento é quasicompleto? – chiese Muley.

– Quasi, signore, poiché anche lecolline che si ergono a mezzodì dellacittà, sono state occupate. È vero chemigliaia e migliaia di turchi giaccionoancora insepolti in fondo ai burroni.

– Sicché tu ci prometti di farci

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entrare? – chiese Muley.– Sì, signore.– E volteggiatori ne avete incontrati?

– chiese Domoko.– Pare che i mussulmani non ne

abbiano quasi più, dopo una disperatauscita dei veneziani.

– Come l’hai saputo tu? – domandòDomoko.

– Da uno dei nostri fratelli in agguatonei campi, in attesa di quelle canaglie.

Strigliarono i cavalli, diedero loroabbondante biada, e quando il solescomparve gli otto uomini montarono insella, completamente armati.

Domoko, sotto l’ampio mantello dipelle di capra, portava un piccolo fanale

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rosso, senza il quale non avrebberopotuto avvicinarsi ai bastioni.

– Via!... – gridò il Leone di Damasco,allentando le briglie. – O morremo tuttiod entreremo in Candia.

– E vi entreremo vivi, signore – rispose Domoko, mettendosinuovamente alla testa del drappello. – Iveneziani conoscono il segnale e nonfaranno fuoco su di noi, anzi, siaffretteranno ad abbassare il pontelevatoio per farci entrare. Temosolamente quei maledetti volteggiatori,che preferiscono la notte per fare le lorosorprese. Fortunatamente non vanno chein poco numero, e noi siamo uomini dadare una carica furiosa, come l’abbiamo

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già data dinanzi alla mia casa.Gli otto cavalieri si slanciarono

attraverso un campo, protetto da altifilari di viti, e si misero a galopparesfrenatamente.

A Candia il cannone tuonava. Oraerano le colubrine che facevano udire leloro detonazioni secche; ora le grossebombarde turche, le quali strepitavanoenormemente, rompendo il silenzio dellanotte con gran fracasso.

Quantunque ancora lontani, i cavalierivedevano quegli enormi proiettili dipietra attraversare il cielo come bolidi,lasciandosi indietro lunghe code discintille, ed udivano il rombo cheproducevano nello spaccarsi sulle

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misere case di Candia, già quasidistrutte da un assedio che durava daben ventotto mesi, con ben pocheinterruzioni. Cavalcando sempre fra ifilari, fra le dieci e le undici, il Leone diDamasco ed i suoi amici, giunsero invista dei bastioni occidentali della cittàassediata. Domoko si orientòrapidamente, per poter giungere sottoquello chiamato del Ponte dei Pugni, eche sapeva non stretto dai turchi, troppooccupati a trincerarsi e fortificarsi sullecolline, che avevano acquistate conimmense perdite d’uomini. Passandoaccanto ad un filare strappò una lungapertica, vi legò in cima il fanale rosso eriprese la corsa con maggior prudenza

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ed allargando bene gli occhi, per noncadere in qualche agguato. Giunto acinquecento metri dal bastione piantò lapertica in terra, per attendere, primad’avanzare, la risposta al segnale. Tuttierano scesi di sella per accendere lemicce degli archibugi e per accordare aicavalli, grondanti di sudore, un momentodi riposo. Erano trascorsi alcuni minutisenza che i veneziani avessero risposto,quando Domoko strinse fortemente unbraccio al Leone di Damasco.

– Eccoli i maledetti!... – disse.– Chi?domandò Muley.– I volteggiatori.– Dove?– Sbucano dietro quel vecchio

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bastione mezzo distrutto.In quel momento il greco disse:– Il segnale: i veneziani hanno

risposto.– E a tempo – rispose Domoko. – Ci

aiuteranno a sbarazzarci daivolteggiatori.

Parecchi uomini erano comparsi sullacima del bastione del Ponte dei Pugni,stringendosi intorno ad una lanternarossa.

Quasi nell’istesso momento, otto odieci scorrazzatori turchi si eranoslanciati, a gran galoppo, verso ilgruppo dei cristiani, urlandoferocemente:

– I giaurri!... Ammazza!...

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Ammazza!...– A cavallo!... gridò il Leone di

Damasco. – Spariamo i nostri archibugi,poi attacchiamo colle armi bianche.

In un lampo gli otto uomini furono insella, puntando le armi da fuoco.Stavano per sparare, quando dalbastione del Ponte dei Pugni partì unacannonata.

Una colubrina, carica a mitraglia, eforse fino alla bocca, come usavano inquel tempo, aveva preso d’infilata iturchi che giungevano a corsa sfrenatacolle scimitarre in pugno, sempreurlando: – I giaurri!... Ammazza!...Ammazza!...

Cinque o sei cavalli ed i rispettivi

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cavalieri andarono a gambe levate,trivellati di grossi chiodi e di pallettonipuntuti. Gli altri, spaventati, senzaattendere la scarica degli archibugi degliotto uomini, sempre stretti intorno alfanale protettore, volsero le briglie efuggirono disordinatamente versol’accampamento turco, dando un allarmeormai troppo tardivo.

– Avanti!... – disse Muley-el-Kadel,che aveva udito stridere le catene sulponte levatoio.

Poi alzandosi sulle staffe, gridb a granvoce:

– Sono il Leone di Damasco cherientra in Candia. Non fate fuoco.

Gli otto uomini misero i cavalli in

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corsa, e dopo pochi minuti superavano ilponte levatoio, cadendo fra le bracciad’una ventina di veneziani.

– Tu, Domoko, rimani qui a spiegare aquesti signori il motivo del nostroritorno – disse Muley-el-Kadel. – E tu,Mico, seguimi con Nikola alla torreabitata da mia moglie. Tenete i cavallipronti, poiché non ci fermeremo finoall’alba.

Salutò il comandante del bastione e siallontanò lentamente insieme ai duefedeli, inoltrandosi nelle cinte internedove si trovavano le casematte e lepolveriere. I turchi non avevano cessatoil bombardamento, anzi, preferivanosparare le loro grosse bombarde di

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notte, affinché i veneziani non potesserotroppo facilmente scoprire dove sitrovavano montate. Le enormi palle dipietra, a sei, ad otto, rovinavano sulladisgraziata città completando la rovinadelle case. Ormai Candia era diventatainabitabile. Solo i bastioni e le grossetorri resistevano sempre, dando rifugioalla popolazione ormai ridotta alla metàin causa delle malattie, della fame edella continua pioggia di pietreinfuocate.

Il Leone di Damasco ed i suoi duefedeli si orizzontarono, e dopo d’averattraversato un quartiere quasiinteramente diroccato, giungevanodinanzi al torrione che il capitano

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generale della città aveva messo adintera disposizione della duchessa.

– Fermatevi qui e sellate uno di questicavalli – disse Muley, entrando alpianterreno dove si trovavano alcunianimali più o meno scheletriti. Se nonfuggiamo questa notte, noi nonrivedremo più l’ammiraglio. Le ore diCandia sono contate.

– Andate, signore – risposero Mico eNikola. – Ci troverete pronti.

Muley-el-Kadel salì la scala,semidiroccata, che girava in forma d’unalumaca, e raggiunse il primo piano,entrando in un vasto camerone arieggiatoda due ampie cannoniere edammobiliato con due letti sgangherati.

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La duchessa, tornata forse poco primada qualche esplorazione o da qualchevisita al capitano generale, indossavaancora tutta l’armatura, eccettuatol’elmo, e riposava su uno di quei letti,stringendo ancora nella destra la fidaspada.

– Eleonora!... gridò il Leone diDamasco, scuotendola.

La duchessa aprì i suoi bellissimiocchi profondi, ed allargò le braccia,stringendole poscia intorno al collo delforte guerriero.

– Tu Muley!... esclamò. – Tu,tornato!...

– Sì, mia adorata, e appena in tempo.– E nostro figlio?

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Muley-el-Kadel fece un gesto discoraggiamento.

– Non é stato possibile strapparlo alPascià – rispose. – L’ammiraglioveneziano non aveva forze sufficientiper impegnarsi a fondo in una battagliacontro duecento e più galere.

– Si trova sempre a bordodell’ammiraglia turca?

– Sì, Eleonora, ma io spero che non virimarrà a lungo, poiché tutte le navidelle potenze cristiane sono già radunatea Messina per schiacciare la potenzanavale turca. Ci saremo anche noi ilgiorno della grande battaglia, emonteremo all’abbordaggio dellacapitana del Pascià.

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– E tuo padre, Muley?– Salvato, ed il castello d’Hussiff

distrutto dal fuoco.– Il covo di Haradja?– Sì, Eleonora.– Come hai trovato tuo padre?– È robusto, l’uomo, e non ha sofferto

per la prigionia.– Già guarito?Muley-el-Kadel ebbe un lieve

sorriso.– Noialtri turchi abbiamo la pelle

dura, che si rinnova facilmente – dissepoi. – Forse siamo più resistenti deicristiani.

– Ed ora, Muley?– Partiamo.

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– Lasciamo Candia, ora che hamaggiormente bisogno delle nostrespade?

– I veneziani hanno una bandiera dadifendere, e qui devono rimanere finchéavranno una carica di polvere ed unaspada, mentre noi dobbiamo pensare anostro figlio.

– E andiamo?– A raggiungere la squadra di

Sebastiano Veniero nella rada di Capso.Se rimaniamo qui, il nostro Enzonessuno lo salverà, poiché non sarà laguarnigione di Candia, ormai sfinita epiù che decimata, che ci aiuterà.

– Hai ragione, Muley – disse laduchessa, balzando dal letto. – Sarà

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libera la via?– Io lo spero.– Con chi partiremo?– Abbiamo una piccola, ma valorosa

scorta. Vieni, Eleonora ormai le ore diquesta disgraziata città sono contate. Ungiorno o l’altro il Gran Vizir lanceràcentomila uomini all’assalto deibastioni, e non saranno né lo colubrine,né le spade dei veneziani chearresteranno quelle masse di guerrieri.

– E che cosa succederà qui? – chiesela duchessa, mettendosi l’elmo.

– Una strage orrenda, simile a quelladi Famagosta – rispose il Leone diDamasco, con un lungo sospiro. – I mieicompatrioti sono troppo barbari e di

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istinti troppo sanguinari. Vieni,Eleonora: giù ci aspettano Mico eNikola.

La duchessa cinse la spada, si misenella fascia un paio di grosse pistole eseguì Muley-el-Kadel, il quale portavasempre la lampada rossa. Mico e Nikolaavevano già insellato il miglior cavallo,un mezzo arabo, che quantunque avessepatito molto digiuno, poteva far correreancora i cavalli turchi.

– Andiamo, amici – disse il Leone diDamasco, dopo che i due valorosiebbero scambiati i loro saluti con laduchessa. – È tempo di sgombrare. Tisenti, Eleonora, di resistere ad una corsadi sette od otto ore?

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– Si, Muley, la fame non mi ha ancorasfinita come tu credi, poiché i venezianisi sono privati loro per pensare semprea me.

– Che cosa dici tu, Nikola?– Io penso sempre ai volteggiatori che

i veneziani hanno mitragliati – rispose ilgreco, la cui fronte si era assaiaggrottata.

– Temi che ci diano la caccia al di làdel ponte levatoio?

– È così, signore.– Eppure non possiamo rimanere.– Non vi consiglierei. I turchi sono

impazienti di muovere all’assalto dellacittà. L’assedio é durato già troppo, edavrebbe stancato qualunque esercito.

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– E potrò esporre la mia donna aicolpi dei volteggiatori?

– Forse che non mi hanno chiamataCapitan Tempesta? – disse la duchessa.– Vengano, e la mia spada berrà ancorasangue mussulmano.

– E poi ci siamo noi, signore – disseMico. – Non troppi, ma tutti solidi, epronti a morire pei nostri signori.

– Ecco dei valorosi, Eleonora, chesono davvero ammirabili – disse ilLeone di Damasco, con voce commossa.– Partiamo, Nikola?

– Sono pronto, signore – rispose ilgreco. Guardiamoci dalle palle dellebombarde, poiché questa notte i turchisembrano decisi a spianare a terra tutte

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le torri di Candia.– Mi sembri assai preoccupato,

Nikola – disse il Leone. Pensi sempre aivolteggiatori?

– Che cosa volete? Odio quellecanaglie che non si sa da quale partegiungano e che sciabolano senzamisericordia.

– La casa di Domoko non é lontana.Ci rifugeremo là dentro.

– Cogli archibugi che abbiamopotremo resistere e dare, forse, un’altralezione ai volteggiatori.

– A cavallo, Eleonora – disse Muley-el-Kadel, apprestandosi ad aiutarla.Lascia stare, per ora, le tue grossepistole. Coi volteggiatori valgono

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meglio gli yatagan e le spade.La duchessa montò sul suo mezzo

arabo, che come abbiamo detto, sitrovava ancora abbastanza in gambe, poiallentò le briglie. Quella notte i turchipareva che avessero giurato didistruggere Candia. Una orrenda pioggiadi palle di piena, si abbatteva, quasisenza intervallo, sulla povera città.

Erano le torri ora che diroccavano,poiché case non ve n’erano quasi più dadistruggere. Attraverso le vie strette,aperte dietro i bastioni, le pallefiaccavano e si spaccavano,rimbalzando con lunghi sibili. Lemuraglie delle poche case che ancorarimanevano ritte, crollavano con gran

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fragore, completamente sventrate.I quattro cavalieri, tenendosi ben

vicini ai bastioni, giunsero finalmente albastione del Ponte dei Pugni, dove sitrovavano Domoko coi quattro cretesi.

Il comandante era andato incontro alLeone di Damasco.

– Ci lasciate, signore? – gli chiese,con voce commossa.

– È necessario, capitano.– Avete vostro figlio da salvare: tutti

lo sappiamo e tutti siamo impotenti adaiutami. Èvero che tutte le galere deglistati cristiani, fra poco, si rovescerannoaddosso alla flotta del Pascià?

– Sebastiano Veniero lo ha affermato– rispose Muley-el-Kadel.

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– In tempo per salvare questadisgraziata città?

– Chi può dirlo? Tutto dipenderàdalla sorte delle armi. Sarannoindubbiamente forti, quel giorno, icristiani, ma anche i turchi non sarannodeboli.

– È vero, signore: per mare, ormai,sono troppo potenti.

– Se resisteranno. Sono tornati ivolteggiatori?

– No, signore, e poi noi saremo prontia mitragliarli. Potete uscire tranquillocolla vostra signora. Fin dove i nostripezzi potranno giungere viproteggeremo, poi vi guarderà Dio.

– Grazie, capitano. Io spero, un

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giorno, di rivedervi, quando la potenzaturca sarà infranta.

Il veneziano fece un gesto discoraggiamento.

– Candia finirà come Famagosta – disse poi, con rassegnazione.D’altronde venendo qui a difendere leultime bandiere del Leone di San Marco,in Oriente, sapevamo bene che nonsaremmo tutti tornati a rivedere né laRiva degli Schiavoni, né il Campanile,né la Torre dell’Orologio. Già tuttiabbiamo fatto testamento prima dipartire.

– Signore – disse in quel momentoNikola. – Il ponte levatoio é abbassato,e gli artiglieri non aspettano che la

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nostra uscita per proteggerci le spalle.Un ultimo saluto, poi i nove cavalieri,

scortati da due dozzine di archibugieri,colle micce fumanti, attraversarono ilponte levatoio, con gran fracasso. Laluna era tramontata, ed un fitto velotenebroso si stendeva al di là delleultime difese di Candia che i turchi,dopo due e più anni di assedio, nonerano ancora riusciti ad espugnarequantunque non fossero sprovvisti ditruppe valorosissime.

– Aprite gli occhi, – disse Nikola,quando furono al di là del ponte edaccendete le micce degli archibugi. Unabuona scarica, talvolta, vale megliod’una carica a fondo.

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Tutti prepararono le armi, guardaronoa lungo la pianura, poi, credendo di nonaver veduto nessuno, lanciarono icavalli al galoppo. S’ingannavano. Ivolteggiatori turchi, che erano scampatiai colpi di mitraglia dei veneziani, conuna corsa rapidissima erano andati alcampo a chiamare dei camerati per lacaccia al cristiano.

Si erano forse immaginati che gliuomini che erano entrati in Candia,sarebbero più tardi usciti, e si eranoimboscati, in una trentina, dietro ilvecchio bastione diroccato, assetati divendetta.

Nikola, che come si sa, aveva la vistamigliore di tutti, si era subito accorto

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della presenza dei terribili volteggiatoriche tanto temeva.

– Ve lo dicevo io, – disse Muley-el-Kadel – che ci avrebbero aspettati? Nonsarà cosa facile raggiungere la baia diCapso con tutta quella gente dietro allespalle.

Fortunatamente i veneziani delbastione del Ponte dei Pugni, vegliavanosui fuggiaschi. Vedendo i turchigaloppare sfrenatamente dietro laduchessa ed il Leone di Damasco ed iloro amici, spararono quattro cannonatea mitraglia.

L’effetto di quella bordata di chiodi edi pallettoni puntuti, fu disastroso peimussulmani, che sfilavano, in quel

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momento, proprio davanti al bastione.Dodici o quindici, crivellati per bene,andarono a gambe levate insieme ai lorocavalli, e rimasero a terra urlandodisperatamente e rotolandosi comebestie selvagge, mentre un’altra bordatadi mitraglia si abbatteva su di loro.

I superstiti però, una dozzina, pernulla spaventati, avevano continuata lacorsa ululando:

– Alla caccia dei giaurri!... VivaMaometto!... Abbasso la Croce!...

Dal bastione furono sparate contro diloro quattro palle di colubrina, ma gliartiglieri, per tema di colpire anche ifuggiaschi, avevano fatto fuoco troppo inalto, sicché i proiettili passarono

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ronfando senza colpire nessuno.– Non sono che quindici – disse

Nikola, il quale li aveva contatiattentamente.

– I nostri cavalli sono solidi, e finoalla casa di Domoko spero di giungeresenza troppi malanni. Quando saremo là,rinnoveremo il giuoco dell’altra volta,ed i mangiatori di cadaveri non avrannoda lamentarsi. Via, signor Muley-el-Kadel!... Guidate la corsa dinanzi allavostra sposa. Noi copriamo le spalle.

– Grazie, Nikola – rispose il Leone diDamasco, passando in capo aldrappello.

– Alla mia donna ci penso io adifenderla di fronte.

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I turchi, i cui cavalli dovevano esserestati anche feriti da quelle mitragliate,erano rimasti indietro, però alcuni, chemontavano dei buoni arabi, conducevanorapidamente la corsa.

Si avanzavano come un uragano, collescimitarre alzate, sparando, di quando inquando, qualche pistolettata che andavaa vuoto, in causa del movimentodisordinato dei cavalli. Urlavanosempre più ferocemente che mai, perincoraggiarsi nella gara furiosa, perònon guadagnavano niente sui fuggiaschi,i quali conducevano la corsameravigliosamente. Di quando in quandoi cretesi si voltavano sulla sella esparavano qualche colpo d’archibugio,

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il quale non andava sempre perduto.Dal bastione del Ponte dei Pugni

sparavano ancora, inutilmente, lecolubrine, più per impressionare i turchiche per decimarli, poiché erano ormaifuori di portata.

– Via!... Via!... non cessavano digridare Nikola e Domoko, i qualicercavano di mantenere una certadistanza fra loro e quegli spietativolteggiatori, pronti a decapitarli tutti acolpi di scimitarra per gettare le testenei solchi, ad ingrassare la futura terramussulmana.

E andavano con una velocitàspaventosa, fra i filari delle viti e le altesiepi di fichi d’India, sempre

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perseguitati dall’orda selvaggia, assetatadi sangue cristiano.

I turchi però, quantunque dovesseroessere tutti abilissimi cavalieri, nonriuscivano a guadagnare un palmo suifuggiaschi, i quali, ad ogni intimazioned’arresto, sapendo già che cosa sarebbeaccaduto se avessero commessa quellaimprudenza, rispondevano o con qualchepistolettata o con qualche archibugiata.

Il Leone di Damasco cavalcava afianco della duchessa, fissandolaansiosamente.

– Puoi resistere, Eleonora? – lechiedeva di tratto in tratto.

– Ma sì, Muley, ed anche il miomezzo arabo, quantunque debba aver

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sofferta molta fame, si comportasplendidamente – rispondeva CapitanTempesta, che non pareva affattoimpressionata da quella caccia alcristiano.

A Famagosta aveva vedute ben altrecose, e poi, si può dire, era stataallevata fra il fragore delle armi.

Per un’ora i cavalli cretesigalopparono furiosamente, sempreperseguitati dai volteggiatori ad unadistanza di appena duecento metri, poiDomoko mandò un gran grido: – La miacasa!... Un ultimo sforzo, amici, edavremo un rifugio sicuro che i turchi nonespugneranno tanto facilmente.

I cretesi di coda fecero un’ultima

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scarica scavalcando un altro turco, poitutto il drappello giunse in grupposerrato dinanzi alla fattoria la cui portaera ancora aperta.

– Conducete i cavalli in cucina!...gridò Domoko. Ci possono starecomodamente tutti.

Il Leone di Damasco prese fra lebraccia sua moglie, ed entrò correndonella sala pianterrena, mentre ivolteggiatori si arrestavano scaricandole loro pistole. Tutti i fuggiaschi eranoentrati, conducendo i cavalli checacciarono in una specie di cucina, poi icretesi, Mico, Domoko e Nikola simisero a guardia della porta, soffiandosulle micce.

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– Assedio numero due – dissel’albanese, mirando il capo deivolteggiatori.

– Ce la caveremo come l’altra volta,Domoko!

– Io lo spero – rispose il cretese, ilquale ormai, trovandosi in casa sua, sitrovava ben sicuro, sapendo di potercontare su uomini risoluti, pronti ad ognisbaraglio.

Il Leone di Damasco e sua moglie sierano seduti dinanzi alla lunghissimatavola, dopo d’aver accesa una lanternaad olio assai puzzolente.

– Che ci prendano, Muley? – chiese laduchessa.

– Anche l’altra volta siamo stati qui

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assediati, e ci siamo sbarazzatibenissimo degli assedianti – rispose ilLeone di Damasco. I volteggiatori nonsono pericolosi che in aperta campagna.

– Che cosa faranno?– Manderanno qualcuno di loro a

domandare aiuti, ma noi non aspetteremoche giungano dinanzi alla fattoria. Icretesi sparano bene, ed anche Mico dirado sbaglia, quando ha fra le mani unbuon archibugio. Odi?

L’albanese, dopo aver miratoattentamente, aveva fatto fuoco sulcomandante dei volteggiatori, e l’avevasbalzato di sella con una palla piantatain fronte.

I turchi, furiosi per quella perdita,

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accennarono a tentare una carica furiosacontro la fattoria, ma vedendo gliassediati balzare fuori cogli archibugi inpugno e schierarsi rapidamente, diederodi volta, rifugiandosi in mezzo ai filaridelle viti.

– Ecco della carne che andrà adingrassare gli uccelli dei morti – disseMico. – Sarà la seconda volta, chedinanzi a questa casa si sarannorimpinzati di muscoli e di pellimussulmane.

– Che ritornino, Muley? – chiese laduchessa.

– Non sperare che ci lascino. Finchéne rimarrà uno in sella rimarrà a guardiadella fattoria – rispose il Leone di

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Damasco. – Bisogna distruggerli tutti acolpi di archibugio.

– Non potremo raggiungere la rada diCapso senza cadere sotto le scimitarredi quegli indomiti cavalieri?

Ora non sono che nove; ne giunganopure dal campo altri tre o quattro,saremo sempre in buon numero perdifendere le nostre teste, Eleonora.Anche l’altra volta ci hanno assediatiqui dentro, eppure tutto é andato bene.

In quel momento altri due colpid’archibugio rimbombarono dinanzi allaporta, seguiti da un grido di Mico: – Ecco un altro merlo scavalcato. Serimarrò qui un paio di mesi ritornerò inAlbania famoso tiratore. Briganti!... Non

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volete sgombrare? Prendete dunque!...Fuoco, amici, finché tomo a caricarel’archibugio!

I quattro cretesi fecero una scarica,mentre Domoko e Nikola serbavano iloro colpi, temendo una nuova carica. Iturchi, che sfilavano fra i vigneti,balzarono in mezzo ai profondi solchi, efuggirono a corsa sfrenata, dopo d’aversparata qualche pistolettata. La lorocorsa però non durò molto. A duecentopassi fecero coricare i cavalli e sinascosero dietro di loro, urlando: – Amorte i giaurri!...

Inizio

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LE FRECCE INFIAMMATEGli assediati, vedendo che i turchi si

tenevano tranquilli, avevano sospeso ilfuoco, cominciando a scarseggiare dimunizioni.

Si erano anzi seduti dinanzi alla lungatavola, discutendo sul da farsi, mentredue cretesi vegliavano al di fuori.

– Ogni momento che passa, per noiaumenta il pericolo – disse Domoko. Hogih veduto un cavalleggiero fuggireverso Candia, e non si sarh recato perdare l’assalto al bastione del Ponte deiPugni. Fra poco noi vedremo giungerequi altri volteggiatori, i quali potrannobenissimo farci cadere tutti, prima di

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raggiungere la squadra veneziana.– Mi sembri più inquieto del solito –

disse il Leone di Damasco. – Eppurenon ti ho mai veduto tremare dinanzi alpericolo.

– Credo di averne ragione, signore – rispose il cretese. Non sarà facileattirare qui dentro quei volteggiatori peroffrire da bere, come l’altra volta, e poiaccopparli tutti.

– Poco manca all’alba – disse laduchessa. – Se provassimo una carica?

– I nostri cavalli sono sfiatati, ecadrebbero in mezzo ai solchi prima diaver attaccati i turchi.

– È lontana la rada?– Cinque ore ancora – rispose Muley-

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el-Kadel.– I nostri cavalli non potrebbero

resistere, dopo tanta corsa, é vero,Muley?

– No, Eleonora: hanno estremobisogno di riposo.

– E la squadra é così vicina!...– Non dubitare, noi giungeremo alla

rada, anche se avremo alle spalle altrivolteggiatori – rispose il Leone diDamasco.

– E fino a quando rimarremo qui?– Poche ore, io credo. Se sei stanca,

qui ci sono dei letti e puoi andare acoricarti finché noi vegliamo.

La duchessa scosse energicamente labellissima testa, poi disse: Sono abituata

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alle lunghe guardie sui bastioni diCandia, e preferisco guardare quello chefa il nemico.

– Sempre valorosa, Eleonora!...– Non mi hanno forse chiamata

Capitan Tempesta? – rispose la belladonna, con un adorabile sorriso.

– Ed hanno avuto ragione – rispose ilLeone di Damasco. – Tu sei la donna piùfiera e più battagliera della cristianità.

– Oh!... Ve ne sono altre!... Vi é ancheHaradja che non la cede a me.

– Non potrà mai tenerti testa.– Forse ne sono un po’ convinta

anch’io – rispose la duchessa. – Eppureha del coraggio e dei muscoli ben saldiquella donna, per essere una turca. Non

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é stata certo allevata fra la vitasnervante degli harem.

– Ha avuto suo zio per maestro, e poisuo padre era un famoso corsaro che leha dato del buon sangue.

– Ed Enzo? Che quella donnamalvagia lo tormenti? – chiese laduchessa, con angoscia.

– No, il Bascià, per chissà qualestrano capriccio, lo protegge, te l’ho giàdetto.

– E quando potremo riaverlo?– Aspettiamo il grande urto fra la

cristianità e l’Islam – rispose Muley-el-Kadel. Ci saremo anche noi allora, esiccome si combatterà per mare,assaliremo subito, coll’ammiraglia di

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Sebastiano Veniero quella del Pascià.Già me lo ha promesso, e quello é uomoda non mancare alla parola data.

– Grande marinaio!...– E così vecchio!...Stettero zitti, mentre i cretesi

sparavano, di quando in quando, dellearchibugiate sui volteggiatori per tenerlilontani. Un grande sconforto pareva chesi fosse impadronito di entrambi,malgrado le promesse del grandeammiraglio.

– Orsù, vedremo – disse finalmenteMuley-el-Kadel. – Non scoraggiamoci,Eleonora. In qualche modo noi andremoalla rada di Capso, dovessimo passaresul corpo di cento volteggiatori. Quegli

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uomini non mi fanno paura colle loroscimitarre.

Si alzò e si avvicinò alla porta. Icinque cretesi, l’albanese ed il grecostavano sdraiati dietro alcune balle dilana che servivano magnificamente dabarricata, non potendo le palle dei turchiin alcun modo attraversarle, e siaccontentavano pel momento diconsumare, di quando in quando,qualche carica di polvere.

– E così, Nikola? – chiese Muley algreco. – Come va?

– Male, signore.– Perche dici che va male, mentre i

turchi non si sentono in grado diassalirci?

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– Preferirei che ci attaccassero afondo, signore. Se ritardano, é percheaspettano dei rinforzi.

– Hai troppa paura tu deivolteggiatori.

– Anzi, non mi é mai spiaciuto dipiombare su quelle canaglie e diattaccarli colle armi bianche. Dateordine di sellare i cavalli e di correreall’attacco, e mi vedrete pel primo, intesta a tutti.

– Credi tu che le nostre bestie siano ingrado di sostenere un tale urto? – chieseMuley-el-Kadel.

– Ecco il nostro male, signore.Dovremo lasciare riposare i nostricavalli almeno un paio d’ore, affinché

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abbiano i garretti saldi per filare versola rada. La via é pessima e lunga.

– Lo so.– E se i turchi intanto aumentano di

numero?– Li decimeremo più che potremo –

rispose Nikola.– E resisteremo alla meglio.– Sì, signore.– Che cosa fanno intanto quei

volteggiatori?– Eseguiscono una manovra sospetta

che comincia ad inquietarmi. Vi é lascuderia, a fianco della fattoria, che ében piena di paglia. Se laincendiassero?

Il Leone di Damasco ebbe un fremito.

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– Nikola, vuoi spaventarmi? – chiese.– Non si può impressionare un uomo

coraggioso come siete voi.– Ah!... Se i cavalli potessero reggere

ad una carica!...– Lo potrebbero, ma poi cadrebbero

tutti prima di giungere a Capso.– Allora non ci rimane che aspettare.– E di fucilare più che potremo,

signore.– Come stiamo a munizioni?– Ne abbiamo abbastanza. Cinquanta

colpi ciascuno li possediamo ancora.– Ed allora sparate.Anche il Leone di Damasco si era

impadronito d’un archibugio, e dopoaver alimentata la miccia, aveva

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cominciato a sparare contro ivolteggiatori, i quali, accortisi che afianco della fattoria vi era una scuderia,cercavano, di quando in quando, diavvicinarvisi per incendiarla. I cretesiperò vegliavano attentamente.

Ogni volta che un volteggiatoremontava in sella e tentava di passare frai filari delle viti, lo salutavano a colpid’archibugio, ed i proiettili nonandavano sempre perduti. Alle quattrodel mattino gli assedianti non erano piùche in nove. Tutti gli altri erano cadutifra i solchi o dinanzi ai filari delle vitiormai quasi spoglie.

– Ecco il momento opportuno pertentare una carica – disse il Leone a

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Nikola.– Sì, signore, a cavallo, a cavallo!...Dopo d’aver fatta una scarica, tutti

erano rientrati, insellando rapidamente idestrieri.

– Sei pronta, Eleonora? chiese Muleya sua moglie, la quale si eraaddormentata, appoggiata all’orlo dellatavola.

– Sempre, Muley – rispose lavalorosa donna, accendendo le miccedelle sue pistole.

– Sta’ dietro di me. Conosco megliodi te le scimitarre mussulmane.

– Le ho conosciute abbastanza aFamagosta.

– È vero – rispose Muley.

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I cavalli erano stati tratti dalla cucina,dove si erano riposati su abbondantepaglia, ed erano stati condotti fuori. Gliassediati stavano per montare in arcione,quando udirono delle urla lontane che siavvicinavano rapidamente.

– I volteggiatori di rinforzo!... avevaesclamato il greco. – Che nessuno simuova!...

– Abbiamo tardato troppo disse ilLeone di Damasco, facendo un gesto difurore, e gettando su Eleonora unosguardo inquieto.

– La casa é solida – disse Domoko.Qui potremo resistere a lungo. È lascuderia che mi dà sempre da pensare,essendo quasi aperta. Se la incendiano

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anche la casa prenderà fuoco.– Trenta – disse in quel momento

Nikola, che si era messo inosservazione. – E tutti balestrieri.

– E quelli che ci stanno dinanziancora – disse il Leone di Damasco. – Eccoli in buon numero, troppi per noi.

Si avvicinò a Nikola.– Tu solo puoi salvarci – gli disse.– Parlate, signore: la mia vita é

vostra.– Monta sul miglior cavallo, e

giacché i balestrieri non sono ancoragiunti, corri fino alla rada di Capso adawenire l’ammiraglio della nostraterribile situazione.

Muley-el-Kadel aveva appena

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terminato di parlare, che già il valorosogreco, dopo d’aver scelto, con un solosguardo, il miglior cavallo, balzavafuori, partendo a corsa sfrenata. Ivolteggiatori che si trovavano nei solchi,gli spararono dietro parecchiepistolettate, ma non si presero la brigad’inseguirlo.

Aspettavano i compagni chegiungevano, ventre a terra, sui loroarabi, urlando: – A morte i giaurri!...

I turchi avevano adottate le armi dafuoco, soprattutto quelle grosse, maavevano conservate le loro balestre cheadoperavano con meravigliosa abilità,molto meglio degli archibugi e dellepistole.

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Le frecce erano terribili, poichéavevano la punta d’acciaio o di ferroseghettate, le quali producevanogravissime ferite, difficili a guarirsi.

I volteggiatori che giungevano dirinforzo, come abbiamo detto, erano tuttibalestrieri.

Appena unitisi ai compagni balzaronoa terra e cominciarono a trarre frecce,sulle cui punte avevano messo deibatuffoli di cotone impregnati d’unliquido ardente, forse una specie difuoco greco.

I cretesi, veduto il pericolo, avevanorinforzata rapidamente la loro barricatacon altre balle di lana, materia difficilea prendere fuoco, poi avevano

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cominciato a sparare rabbiosamente.Le frecce ardenti si seguivano con

rapidità impressionante, ma anche gliassediati ben ricoverati, nonrisparmiavano i colpi e gli arcieriandavano a gambe levate, mentre i lorocavalli fuggivano attraverso lacampagna, spronati dalle sole staffe adangolo tagliente, che dovevano produrreloro delle dolorose ferite.

Il Leone di Damasco, ed anche laduchessa, alla quale Nikola avevalasciato il suo archibugio, erano pureaccorsi dietro alla barricata, ed essendo,oltreché buoni spadaccini, valentissimibersaglieri, non risparmiavano i colpi.

E gli arcieri, che si avanzavano

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spavaldamente in gruppo, cadevanonumerosi a fianco dei loro compagni, maanche i dardi incendiari cadevano fittisulla fattoria, e specialmente sullascuderia.

– Muley – chiese la duchessa, dopod’aver sparato una dozzinad’archibugiate, e non sempre senzafortuna. – Credi tu che potremo resisterefino all’arrivo dei veneziani?

Domoko si era avvicinato in quelmomento.

– Il mio orologio suona, perché pocofa l’ho montato, e se non verranno iveneti dell’ammiraglio dellaSerenissima, accorreranno tutti i cretesiche abitano le fattorie dei dintorni.

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Signor Muley, li avete già vedutigaloppare al suono del mio vecchioorologio.

– Sì, Domoko – rispose il Leone diDamasco. Purché questa volta nongiungano troppo tardi. Sette od ottobalestrieri sono già andati a trovare leurì di Maometto, ma ne rimangonoancora troppi. Se provassimo unacarica?

– No, signore: sono troppi.– E se la tua casa va in fiamme?– Allora scapperemo, non prima.– Eppure, con mia moglie, mi sentirei

in grado di caricarli e di spazzarli via.– Voi non commetterete questa pazzia,

signore. I turchi hanno troppe scimitarre

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e troppe frecce sulle loro balestre. Se lacasa andrà in fiamme, le spegneremo, senon coll’acqua, col vino che si trova inabbondanza nella mia cantina.

– Vino che sarebbe meglio bersi disseMico, che era tornato in quel momentoper ricaricare l’archibugio, al sicurodalle frecce infiammate.

– Quanti ne hai gettati giù aquest’ora? – chiese Muley.

– Ne ho contati sette, padrone – rispose l’albanese. – Se gli aiuti nonfossero giunti ben pochi sarebberorimasti.

– Questi montanari sono, infatti, deimeravigliosi tiratori – disse Domoko.

– Ora lascia, per qualche minuto, in

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pace il tuo archibugio e seguimi incantina.

– A compiere il sacrificio del vino? – chiese l’albanese.

– La cisterna é fuori, e sarebbepericoloso per noi attingere acqua inquesto momento. Vada la raccoltadell’annata del generoso succo di papàNoé, ed inondiamo la barricata. La lanadifficilmente brucia, ma produce moltofumo e molte scintille che vi darebberonoia. Su, bravo giovanotto, ti accorderòil permesso, prima di vuotare tutte lemie pinte, di bere finché vorrai.

– Sì, quando tutti i turchi saranno aterra, o se ne saranno andati.

– Hai da aspettare un bel po’, amico –

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rispose Domoko. – Non ci lascerannotanto facilmente.

– Allora sacrifichiamo la cantina – disse il bravo giovane.

Mentre il Leone di Damasco e laduchessa accorrevano alla difesa dellabarricata con due altri archibugi, ilcretese e l’albanese scesero, correndo,nel sotterraneo, portando sopra dellegrosse pinte piene di vino. I turchi,quantunque assai maltrattati dallearchibugiate dei cretesi, nonaccennavano ad andarsene.Continuavano a lanciare frecceinfiammate, non solamente sopra labarricata, bensì anche verso la piccolascuderia protetta da una semplice tettoia

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di legno, che da un momento all’altropoteva prendere fuoco e distruggerel’intera fattoria. Mico e Domokoinondarono le balle di lana checominciavano già a fumare,rovesciandovi sopra due grosse pinte divino, poi si ritrassero rapidamente pernon ricevere qualche dardo.

– È fatto – disse Mico, guardando unpo’ malinconicamente le fiamme che sisprigionavano altissime. – Peccato chesia il fuoco che lo beva.

– Orsù, un’altra pinta, amico – disseDomoko. – Se poi vorrai, scendi incantina dove tengo ancora del Cipro didue anni fa.

La barricata fu nuovamente inondata,

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e le piccole fiamme e le scintille sispensero subito. I turchi si erano messi aurlare ferocemente, poiché credevanoormai di aver sloggiati quei terribiliarchibugieri che li decimavano. Vedendoormai che non potevano più dar fuocoalla barricata, inzuppata come era stata,cambiarono tattica. Lasciarono i filaridelle viti ed i solchi che liproteggevano, e con un coraggioincredibile, si slanciarono sui lorocavalli, tentando di attaccaredirettamente la scuderia.

Domoko aveva dato l’allarme.– Tutti agli archibugi, o morremo

bruciati.In quel momento il vecchio orologio

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che serviva per segnalare i pericoli,suonò alcuni colpi, poiché nessunoaveva pensato a regolarlo.

Sì, voce di bronzo, corri per lecampagne e fa’ accorrere i valorosi cheancora rimangono sull’isola, se nerimangono.

Tutti avevano dato mano agliarchibugi, ed un magnifico e terribilefuoco aveva sorpreso i cavalieri turchiallo scoperto, gettandone parecchidall’arcione.

Si vendicavano gli assalitori con unapioggia di frecce infiammate, che data lapoca portata delle balestre, difficilmentegiungevano a destinazione. Mico, ilbravo tiratore albanese, faceva miracoli.

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Ogni palla che usciva dal suoarchibugio, scaraventava a terra un turcocolla fronte spaccata o colla colonnavertebrale frantumata. Faceva piùbaccano lui solo che tutti gli altri uniti,ed ottenendo maggiori successi. Per unpo’ i turchi resistettero con ostinazioneferoce, rinnovando le cariche peravvicinarsi alla scuderia, poiimprovvisamente volsero le spallesalvandosi ancora fra i filari delle viti.

– Scappano – disse Domoko. – Bruttosegno.

– Perché?chiese il Leone di Damasco.– Hanno avuto abbastanza dei morti.

– Eppure, signore, ciò non mipersuade.

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A rischio di prendersi qualche dardo,balzò al di là della barricata e siavvicinò alla scuderia. Un gridoterribile gli uscì dalla gola: – Alfuoco!... Al fuoco!... Siamo perduti!...

– Che cosa brucia? – chiese il Leonedi Damasco, impallidendo.

– La stalla: il fieno fiammeggia già eminaccia la casa.

– Ci lasceremo bruciare vivi quidentro? – chiese la duchessa. – Iomonterò a cavallo col mio sposo edattaccherò a fondo.

– Non da questa parte, signora – disseDomoko. – Sarà meglio che i turchi nonci veggano fuggire. Mico, aiutami!...

– A massacrare ancora quelle

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canaglie? – chiese l’albanese.– Ci penseranno gli altri per cinque

minuti. Difendete la porta voi, e tenetelontani i balestrieri che sono piùpericolosi, in questo momento, degliarchibugieri.

Nella cucina, lungo una parete, vi erauna grossa trave. Il cretese e l’albanesela sollevarono, corsero all’estremità dellocale e si misero a picchiarefuriosamente contro la parete,sgretolandola rapidamente, essendoformata solamente di argilla impastatacon strame.

Intanto i turchi non cessavano dilanciare i dardi e di urlare: – Moritetutti dentro, cani di giaurri!... Creta

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ormai é nostra.Un gran fumo s’alzava dietro la casa,

abbattendosi verso la barricata edisturbando gli archibugieri. Il Leone diDamasco e la duchessa, che avevanoormai capita la idea di Domoko,avevano radunati rapidamente i cavalli,esaminando attentamente le bardature.La rottura d’una cinghia sola, in unacorsa disperata, poteva essere causad’un disastro. Intanto Mico ed il cretese,picchiavano sempre più rabbiosamentecontro la parete, facendo cadere, collagrossa trave, dei larghi pezzi. I turchi,assordati dalle archibugiate, nonpotevano udire nulla, essendo al difuori. E poi, sicuri che i maledetti

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giaurri sarebbero morti fra le fiamme, sierano allontanati ancora più dallabarricata, limitandosi a sorvegliare laporta, dalla quale speravano, da unmomento all’altro, di veder irromperegli assediati sui loro cavalli. I quattrocretesi, aiutati, di quando in quando,dall’albanese, mantenevano un fuocoinfernale, abbattendo uomini e cavalli.Cadevano però coraggiosamente imussulmani, esponendosi pazzamente aicolpi. Sette od otto, più pazzi chevalorosi, avevano tentata una caricacontro la barricata, così ostinatamentedifesa, ed erano caduti quasi tutti sotto iloro cavalli.

Ad un tratto una voce echeggiò nella

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stanza terrena: – In sella!... La porta éaperta!...

Era Domoko che aveva lanciato quelgrido.

Un gran pezzo di parete era caduta,sotto i colpi della grossa trave, ed avevalasciata un’apertura abbastanza larga perlasciare uscire dei cavalli.

– Su, Eleonora!... urlò il Leone diDamasco. – Non perdiamo nemmeno unminuto. La Croce ci proteggerà fino aCapso.

Gli archibugieri, avvertiti, dopod’aver fatta un’ultima scarica, si eranoripiegati precipitosamente nella salapianterrena, dove i cavalli, ben riposatie ben pasciuti, e spaventati

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dall’incendio, scalpitavano tentando difuggire.

– Ci siete tutti? chiese Domoko,mentre il Leone di Damasco aiutava laduchessa a montare in sella.

– Sì – risposero ad una voce.– Che cosa fanno i turchi?– Ci sorvegliano dinanzi alla porta.– Ecco il buon momento!... gridò il

cretese. In sella, in sella!... E nonrisparmiate i cavalli!...

Un’altra porta, che i turchi nonpotevano vedere, era stata aperta, edabbastanza larga per lasciar passare deicavalleggieri.

In un lampo gli assediati furono insella, e mentre il fumo cominciava ad

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entrare ad ondate, nascondendoli aiturchi, varcarono l’apertura con un gransalto.

– Via!... Via!... disse Domoko. I turchinon si sono ancora accorti della nostrafuga. Avremo un vantaggio dicinquecento passi, e forse di mille.

Tutti i cavalli, aizzati a gran calci,attraversarono lo squarcio, e guidati daDomoko, si misero a galopparedisperatamente per la campagna,dirigendosi verso la rada di Capso. Iturchi, forse pel gran fumo cheavvolgeva la fattoria, destinata ormaialla distruzione completa, non si eranoaccorti ancora di nulla. Stavano semprea guardia della porta, pronti a lardellare

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colle loro frecce gli assediati, nel casoche avessero tentato una sortita. Nondovevano però rimanere a lungoinoperosi a guardare le fiamme ches’alzavano sempre più, tuttoavvolgendo.

I fuggiaschi avevano percorsi appenamille passi, quando udirono i turchiurlare: – I giaurri scappano!...Addosso!... Addosso!...

Quei terribili cavalieri erano tuttimontati in sella, e si erano messi incaccia, urlando e minacciando.

– Lasciateli fare – disse Domoko, ilquale conduceva sempre la corsa. – Abbiamo già un bel vantaggio, e forse iveneziani non sono lontani. Proteggete la

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signora, quantunque sappia combatteremeglio di noi.

Tutti avevano appesi alla sella gliarchibugi, diventati inservibili in unagaloppata così furiosa, ed avevano trattele armi bianche, yatagan e spade, piùadatte in una carica.

I quattro cretesi con l’albanese eranopassati alla retroguardia insieme alLeone di Damasco, il quale agitava lasua valorosa spada gridando ai turchi:

– Venite a prendere i figli dellaCroce, cani!... Io ho rinnegato quelbugiardo di Maometto, e non appartengopiù alla vostra religione. Vi sononemico!... Assalite il Leone di Damasco,se l’osate, e Capitan Tempesta che tutti i

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mussulmani hanno ammirata aFamagosta!...

I turchi rispondevano con altissimegrida, però non osavano spingere troppola corsa, giudicandosi ancora troppopochi per assalire il Leone, la primascimitarra dell’Islam, e la duchessa, laprima lama della cristianità. Noncessavano però l’inseguimento, e, diquando in quando, come potevano, siprovavano a lanciare qualche frecciache andava sempre perduta. I cavalli deifuggiaschi, più riposati di quelli deimussulmani, a poco a pocoguadagnavano, distanziando sempre piùgl’inseguitori. Correvano ventre a terrafra i solchi dei campi, sfilavano come

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uccelli fra i filari delle viti, poiattaccavano a gran galoppo una collina,e la ridiscendevano con una velocitàvertiginosa, impressionante.

Il Leone di Damasco aveva raggiuntoDomoko, il quale sorvegliava il cavallodella duchessa, pronto a sostenerlo.

– Quanto ancora? – gli chiese.– Tre ore, signore – rispose il cretese.– Potranno i nostri cavalli resistere e

mantenere la distanza?– Quelli dei turchi, signore, sono più

stanchi dei nostri, e non ci daranno lacaccia fino a Capso. Questo ve loassicuro io, e poi incontreremo Nikola.

– Se avrà trovato i veneziani ancoraall’àncora.

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– Non spaventatemi, signore. Se lasquadra fosse partita, avrebbe segnata lamorte di noi tutti, poiché questi cani diturchi, finché troveranno terra,continueranno ad inseguirci, anchequando i loro cavalli saranno caduti.

– Lo so – rispose il Leone diDamasco, con un sospiro.

Si volse e guardò gli avversari.– Non guadagnano – disse.– E non guadagneranno probabilmente

– rispose il cretese. Ma se questa corsadovesse prolungarsi ancora per ore edore, anche le nostre bestie dovrannocedere, signore.

– Ed allora riprenderemo gliarchibugi, e finché avremo una carica di

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polvere spareremo. Le frecce non cifanno paura a tanta distanza.

– Ma sono troppi per noi.– Torneremo a decimarli. A questo

penserà Mico, che di rado sbaglia ilcolpo.

Un’altra collina, assai erta, si erapresentata di fronte a loro, cosparsa dimagri cespugli.

– Non possiamo aggirarla? – chiese laduchessa. I cavalli cominciano a daresegni di estrema stanchezza.

– È impossibile, signora – rispose ilcretese. – Vi sono abissi da tutte le partie…

Si era improvvisamente interrotto,mettendosi in ascolto.

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– Che cosa c’é, Domoko? – chiese ilLeone di Damasco, che vedeva i cavalliesaurirsi rapidamente, nell’attacco diquella seconda collina.

– Mi é sembrato di udire lo squillod’una tromba.

– Non ti saresti ingannato?– No, signore.– Tromba turca o veneziana? Oh,

suonano troppo diversamente perconfonderle.

– Che sia Nikola che giunge coimarinai?

– Ascoltate, signore!...Quantunque i cavalli ansassero

rumorosamente e scalpitasserofortemente sulle rocce della collina, tutti

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i fuggiaschi udirono distintamente unosquillo acutissimo di tromba che parevascendesse dall’alto.

Tutti avevano mandato un gran grido:– I veneziani!... Avanti!... Avanti!...

Non risparmiate i cavalli!...Anche i turchi dovevano aver raccolto

quello squillo che non era rauco comequello delle loro trombe di guerra, edavevano subito cominciato a rallentarela corsa.

– Muley – disse la duchessa. Che noipossiamo avere tanta fortuna? Il miomezzo arabo, sfinito dai lunghi digiuni,minaccia di cadere da un momentoall’altro.

– Ti darò il mio, Eleonora.

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– Oh, mai!...– Ti strapperò dalla sella colla forza.– Resiste ancora.Un terzo squillo, più acuto, più

vicino, lacerò l’aria, poi quasi subito sivide la vetta della collina coprirsi dimarinai veneziani.

Non vi era che un solo cavaliere:Nikola.

Un comando breve, secco, echeggiòlassù:

– Fuoco!...Cinquanta archibugi tuonarono con un

rimbombo assordante, scatenando l’ecodegli abissi, ed una pioggia di piombocadde, fitta, fitta, sui turchi esterrefatti.Dieci e più uomini andarono a gambe

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all’aria insieme ai loro cavalli.Gli altri, vistisi impotenti a tentare

una carica, colle bestie semisfinite, super l’erta e contro tanta forza, volsero legroppe, e spronando ferocemente, siallontanarono, scomparendo fra i filaridelle viti. I marinai veneziani si eranofermati per ricaricare gli archibugi,pronti a rinnovare la strage, e solo ilgreco, che montava il suo solito cavallobianco, discendeva, agitandopazzamente le braccia.

– Ti dobbiamo la vita – disse laduchessa, quando gli fu presso.

– No, signora – rispose il valoroso. – Non ho fatto che il dover mio, e sonodoppiamente contento di avervi

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incontrati, perché l’ammiraglio siprepara a salpare per Messina, dove loattendono gli alleati. Vi dico io chequesta volta daremo una terribilebattaglia, che manderà all’infemo lapotenza marinaresca turca.

– E Candia? – chiese il Leone diDamasco, con apprensione.

– Non ci pensate, signore. È un’altracittà perduta per la Repubblica, e nonsarà, disgraziatamente, l’ultima. Sonoscappati tutti i volteggiatori?

– Sono stati quasi interamente distrutti– disse Mico. – Che cosa volevi chefacessero ancora? Che rimontassero suiloro cavalli morti? O che Maomettofacesse risuscitare anche gli uomini? Ha

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da pensare alle sue un’ e non ai suoiguerrieri.

– Venite – disse il greco. I venezianihanno fretta di spiegare le vele.Accoppate le bestie, se é necessario.

– Ora che non sono più inseguite,possono tirare innanzi fino alla rada – disse il Leone di Damasco.

Si rimisero in marcia, risalendolentamente la collina, salutati daaltissime grida da parte dei veneziani, iquali avevano una speciale simpatia perla duchessa e pel suo sposo,rammentando ancora gli eroismi diFamagosta. In lontananza, i pochi turchisfuggiti al massacro, poiché si potevachiamare tale, galoppavano

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disperatamente, non urlando più: – Morte ai giaurri!... In caccia!...

Ne avevano avuto abbastanza daicristiani, e non osavano ritentare uno diquei colpi disperati pei quali andavanofamosi i volteggiatori, rovesciati amigliaia e migliaia dal Sultano, dinanzialla disgraziata Candia, già ormaiimpotente a difendersi.

I fuggiaschi raggiunsero i marinaiveneziani che con uno sforzo supremoerano venuti da Capso a piedi, nonavendo la squadra imbarcato nessuncavallo, poi tutti insieme, lentamente,ridendo e chiacchierando, ridisceserol’altra parte della collina ammirando ilsempre meraviglioso spettacolo del

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mare soleggiato dai primi raggi, cosicaro anche ai più vecchi marinai.

Inizio

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LA BATTAGLIA DI LEPANTOI fuggiaschi si erano appena

imbarcati, che la squadra veneziana, nonaumentata da nessun legno, malgrado lelarghe promesse della Serenissima,salpava le ancore e spiegava le vele.Una grande speranza animava queiprodi: di novare finalmente a Messina,riunite tutte le galere delle potenzemarinaresche cristiane. Il grande colpoormai era stato deciso per fiaccarel’orgoglio, o meglio, l’insolenzamussulmana, da Venezia, che semprealla testa d’ogni audace impresanell’oriente, come la maggiorinteressata, aveva insistito presso il

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Papa Pio V perché i più forti staticristiani si unissero in lega.

Già tutti soffrivano della potenza edelle scorrerie turche, che, di quando inquando, intralciavano i commerci,catturando le navi a qualunque paesecristiano appartenessero, e condannandoi disgraziati equipaggi alla duramanovra del remo sulle galere dellaMezzaluna, senza nessuna speranza dipoter un giorno rivedere le lorofamiglie, poiché sempre incatenati estrettamente sorvegliati. Fino dall’annoprecedente, il Pontefice era riuscito adecidere la Spagna, che era la potenzamarinaresca più forte della cristianità,ma che pei suoi fini politici avrebbe

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desiderato la completa rovina diVenezia, concorrente sul mare e semprein armi nel Veneto per impedirel’assorbimento di quella grossa regioneche Filippo Il, più ambizioso di Carlo V,ma meno valente guerriero, già da tempodesiderava, per compiere poi la totaleconquista dell’ltalia. Le flotte si eranoriunite senza entusiasmi, salvo da partedei veneziani, si erano limitate amandare alcune squadre verso Cipro alcomando dell’intrepido Veniero, poierano tornate in Italia, lasciandosolamente quel vecchio capitano console otto galere. Impressionati daimassacri di Nicosia e di Famagosta, poidalla presa di Canea e dell’assedio di

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Candia, gli alleati avevano finito permettersi d’accordo e tentare un grancolpo, quantunque sapessero che laflotta mussulmana era potentissima, eguidata da un ammiraglio che era AlìPascià, il terrore di tutti i naviganti.

Che ci fosse però poco entusiasmo,almeno da una parte degli spagnoli, chepur reputandosi i più cristiani di tutti, éun fatto constatato. Fuori che daiveneziani e i Cavalieri di Malta, sisarebbe detto che tutti gli altri citenevano poco a provare il filo dellescimitarre turche. Nondimeno, verso iprimi di settembre del 1571,una flottaimponente si era raccolta nel porto diMessina, in attesa del ritorno di

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Sebastiano Veniero. Il comando supremoera stato dato a Don Giovanni d’Austria,figlio naturale di Carlo V, giovaneappena ventenne, pieno di fuoco, maaffatto ignaro di cose marinaresche.Così aveva voluto Filippo Il, e Venezia,allo stremo ormai delle sue forze, avevadovuto subirlo, invece d’un Veniero od’un Barbarigo, i due più celebridell’epoca, che avevano semprearmeggiato contro i mussulmani, mentregli spagnoli mai nulla avevano osato inOriente e nemmeno in Occidente, indifesa della Croce.

Così, a poco a poco, in Messina sierano raccolte ben settantatre galerespagnole, poi sei maltesi, montate da

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prodi cavalieri, i più terribili nemici cheavessero i mussulmani, quindi altre tredel duca di Savoia. Più tardi si univanododici galere del Papa, comandate daMarcantonio Colonna, uomo che godevaaltissima fama di valoroso, poi seiimmense galeazze piene di cannoni,mandate da Venezia, affidate alprovveditore Agostino Barbarigo, unfamoso capitano. Altre poi più piccolesi erano aggiunte più tardi ancora, inmodo che l’imponente flotta potevadisporre di duecentoventi vele. DonGiovanni non attendeva che il ritorno diSebastiano Veniero, che dovevaportargli altre otto galere di rinforzo,oltre a equipaggi vissuti quasi sempre

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nelle acque dell’Oriente, e quindiabituati a menar le mani addosso aiseguaci della Mezzaluna.

A Selim Il, allora Sultano, non eranosfuggite quelle manovre sospettose, erammentandosi della comparsa audace,fatta anni prima, dal conte Morosinidinanzi a Costantinopoli, non avevaindugiato a chiamare a raccolta i suoiammiragli, e cioè Alì Pascià, sempre inprima linea, Petew Pascià Vizirseraschiere, Uluge Alì, il PasciàMucasizade Alì, i sangiacchi Giafer edHassan, per tenersi pronti a parare ilgran colpo, col loro abituale valore. AlìPascià era stato il primo a muoversi,anche perché informato, fortunatamente

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troppo tardi, che vi erano galere aCapso e che dubitava appartenessero alVeniero.

L’ammiraglio veneto già più volte erasfuggito miracolosamente ai suoiattacchi, sulle coste della Grecia, diCipro, ed anche di Candia, ed il terribilecorsaro algerino si era giurato, discorticare vivo il glorioso marinaio,come Mustafà aveva scorticato aFamagosta il provveditore Barbarigo.

Sicuri i mussulmani, che gli assediatidi Candia, già stremati dalla fame, acorto di munizioni, completamentedemoralizzati da quella lunga campagna,nulla avrebbero osato tentare contro idue giganteschi campi d’assedio,

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guardati ognuno da settantacinquemilauomini, avevano imbarcatefrettolosamente le loro colubrine e legrosse bombarde, poi erano corsi aCapso.

L’ammiraglia del Pascià portava abordo Haradja, Metiub, il suoformidabile capitano d’armi, ed ilpiccino del Leone di Damasco, che nonavevano voluto affidare a nessuno.

Dopo una corsa disperata, le primesquadre irrompevano dentro le acque diCapso, pronte ad una distruzionegenerale, poiché erano in buon numerole galere e montate da equipaggi quasiraddoppiati.

Guai se il Veniero vi fosse stato

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sorpreso, colla sua squadrarelativamente debole! Forse la battagliadi Lepanto si sarebbe risolta colladistruzione di tutte le navi della Lega.

Il vecchio marinaio veneziano, fiutatoil pericolo, aveva già sgombrato,conducendo con s6 il Leone diDamasco, la duchessa, Mico, Nikola edil Pascià.

I cretesi avevano preferito rimanereancora sulla loro infelicissima isola,sperando in tempi migliori.

Il Veniero non era sfuggito al Pasciàche per un vantaggio di poche ore, edoveva veleggiare fino a Messina, dove,come abbiamo detto, le galere dellaLega si erano radunate.

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Una tempesta, dei venti contrari, unesaurimento nei rematori, ed il Pasciàavrebbe potuto avere ancora la speranzadi catturarla prima che vedesse le costedella Sicilia.

– Manderò un grosso cero allaMadonna della Salute – dissel’ammiraglio al Leone di Damasco edalla duchessa, che non lo lasciavano unmomento. – Poche ore ancora, e quelcane di Alì ci prendeva tutti e fors’ancheci scorticava tutti.

– Non temete un attacco durante ilviaggio? – chiese Muley-el-Kadel.

– Quando sono sul mare, fra i mieilegni, non ho paura di nessuno – risposeil valoroso vecchio.

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– Non incontreremo altre squadremussulmane?

– È impossibile, poiché tutte le galereche si trovavano nei golfidell’Arcipelago, sono state richiamateper l’assedio di Candia. Vi dico che noiveleggeremo tranquillamente, e che fracinque o sei giorni saluteremo l’Etna.

– E mio figlio, il mio piccolo Enzo? – chiese la duchessa. – Sarà ancora abordo della capitana turca?

– Ne sono sicuro, signora – risposel’ammiraglio – come sono sicuro che vitroveremo anche Haradja.

Un lampo pregno d’odio illuminò ibegli occhi della duchessa.

– La piccola tigre d’Hussiff!... disse,

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con voce rauca per la collera. – Che latrovi ancora, e le affonderò la mia spadanella gola, fino all’elsa. È stata troppocattiva verso di noi quella donna, é veroMuley?

– Sì, Eleonora – rispose il Leone diDamasco. – Ci sarò però anch’io in quelmomento, e saranno due i colpi chericeverà quella perfida donna.

– Serbate il vostro pel Pascià – dissel’ammiraglio. – Vostra moglie sapràsbrigarsela senza il vostro aiuto.

– Sì, a te Haradja, Eleonora, ed a mela vita del Pascià.

– Ed a me quella del capitano d’armidella piccola tigre – disse il padre diMuley, comparendo sul ponte di

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comando. – Così ognuno avrà il propriolavoro, é vero, signor ammiraglio?

– Non siete più turco, dunque,signore?

– No!... No!... gridò il Pascià.Diventerò cristiano come mio figlio seriusciremo a raggiungere la terraitaliana.

– Finalmente!... esclamò Muley-el-Kadel, gettando le braccia al collo delgenitore. – La Croce ti ha toccato.

– Credo di sì, figlio mio – rispose ilPascià. – Ero stanco di appartenere aduna nazione così barbara che non parlache d’impalare e di scorticare. Siadannato quel bugiardo di Maometto, cheha fatto di noi, prodi e valenti guerrieri,

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tanti selvaggi assetati continuamente disangue umano.

– La colpa maggiore, signore, é deisultani – disse Sebastiano Veniero. – Non hanno mai cessato di chiederecarne cristiana, come se noi fossimostati creati pel provare tutte le atrocitorture che sogliono usare i vostricompatrioti. Si direbbe che credano chela nostra pelle é diversa dalla loro, ed inostri nervi meno sensibili.

– Avete ragione, signor ammiraglio – rispose il Pascià. Ma io credo cheanche pei sultani cominci la decadenza.Chi vivrà vedrà.

La squadra intanto, preceduta da unasottile gagliotta, mandata all’ammiraglio

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da Don Giovanni d’Austria, peraffrettarne il ritorno, veleggiava eremava nelle limpide e tranquille acquedell’Arcipelago greco, tenendosicostantemente in guardia. Le squadre,ormai riunite, dei mussulmani, laperseguitavano forse ad una distanza dicinquanta miglia, facendo sforzidisperati per piombare sui deboliveneziani prima che potesserocongiungersi cogli alleati. Le galere cheil Pascià, preceduto dal corsaroCarrascosa, che comandava le piùleggere e le più veloci, conduceva allacaccia, erano duecentottanta, montate daottantamila marinai anelanti di stragicristiane. Speravano sempre, quei

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barbari, che qualche tempestasorprendesse il Veniero e lo sbattessesulle coste della Morea o diNegroponte, ma come abbiamo detto,avevano da fare con un marinaio troppoabile e troppo risoluto. L’ammiraglioinfatti, accortosi dell’inseguimento deinemici, temendo di venire raggiuntodalle navi più rapide e trattenuto, avevafatto mettere tutte le prore verso le costedella Sicilia, raccomandando a tutti ditenersi uniti. Sapeva che la sua squadraera assolutamente necessaria alla Lega,la quale, con tutti i suoi sforzi, sitrovava ancora inferiore ai figli dellaMezzaluna e con ottomila uomini dimeno.

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Fortunatamente il vento erasimantenuto sempre propizio, sicché tuttigli sforzi del Pascià a nulla avevanoapprodato, fuorché a stancareimmensamente i suoi rematori che lenerbate, dispensate senza misericordia,non potevano certamente rimettere inforze. Il Veniero, forzando sempre, eormai certo di non poter essere piùraggiunto, un bel mattino del mese disettembre, dopo una corsa meravigliosa,giungeva in Messina, dove le flotte deglialleati lo aspettavano ansiosamente,poiché tutti avevano una immensafiducia in quel vecchio ed audacecapitano.

Vedendo apparire le bandiere della

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Repubblica, un vivo entusiasmo si eramanifestato fra tutti gli equipaggi.Sparavano le galere salutando ilvaloroso che aveva saputo ricondurreancora intatta la sua squadra; tuonavanole batterie di terra, mentre il popolo sirovesciava sulle ampie gettate,applaudendo freneticamente. DonGiovanni d’Austria aveva subito fattoinnalzare sulla sua capitana lo stendardodella Lega, offertogli dal Papa, e cheaveva ricevuto con grande pompa aNapoli alcune settimane prima, ed avevainvitato il vecchio guerriero a recarsi dalui per accordarsi con tutti i capitani.

Grande fu però lo stupore del Leonedi Damasco e della duchessa, vedendolo

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tornare, verso il tramonto, a bordodell’ammiraglia, col viso assai oscuro.

– Si direbbe che non siete contentodel consiglio di guerra tenuto sullagrossa spagnola – disse Muley-el-Kadel. – Eppure eccoci in mezzo ad unaflotta che potrà spaventare il Pascià etutti i suoi sangiacchi. Mai si sonoradunate, io credo, tante navi da guerrain un porto.

– È vero, Muley risposel’ammiraglio, il quale pareva di assaicattivo umore. Se io comandassi tuttequeste squadre, vi assicuro che andrei aCostantinopoli a far tremare il Sultano.

– Che cosa c’é dunque di nuovo? – chiese la duchessa.

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– Che gli alleati, pur essendo animatida un gran desiderio di sbarazzare tuttoil Mediterraneo orientale dagliscorridori turchi, come l’anno scorso,non sanno decidersi.

– Don Giovanni avrebbe paura? – chiese il Leone di Damasco.

– Lui no, poiché é un giovanevaloroso che non sogna che la gloria, madeve fare i conti con Filippo Il, il qualepare tema assai per le sue galere.

– Sicché rimarremo qui.– Hanno saputo che Venezia ha

mandato un’altra squadra sotto ilcomando di due intrepidi capitani, cheio conosco personalmente: Canal eQuirini.

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– E vogliono attenderla?– Sì, Muley, così intanto i turchi

avranno tutto il tempo per radunare leloro ultime navi. Rimanere quiinoperosi, con ottantamila uomini, é undelitto.

– Cercate d’imporvi a Don Giovanni.– Lui é figlio, sia pure naturale, d’un

re, e per di più d’uno dei più famosi cheabbia avuto la Spagna, ed a me nonspetta che chinare la testa e passare inseconda linea – disse l’ammiraglio, convoce amara. – Dopo tanti anni dinavigazione e tante vittorie, nondovevano mettermi sotto gli ordini d’ungiovane che per la prima volta vede iturchi e monta una galera di battaglia.

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– Il Senato veneziano non dovevasacrificarvi così – disse la duchessa.

– Avrebbe dovuto opporsi.– Ed allora, signora, per la seconda

volta la Lega si sarebbe sciolta senzasparare una cannonata e senza arrembareuna miserabile gagliotta inalberante icolori della Mezzaluna.

– E così? – chiese Muley, con unaprofonda apprensione, pensando alfiglio che il Pascià teneva fra le sueugne.

– Aspettiamo – rispose l’ammiraglio,il quale appariva assai scoraggiato.

– Giungerà la squadra del Quirini edel Canal?

– Chi potrebbe dirlo? Sta scendendo

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l’Adriatico, battuto ormaispavaldamente da navi mussulmane lequali potrebbero, in qualche luogo,sorprenderla ed opprimerla. Confidiamoin Dio e nella Croce.

E le galere della Lega, quantunqueabbastanza forti per cimentarsi in uncombattimento, rimanevano neghittosenel porto di Messina, lasciando così aimussulmani maggior tempo perraccogliere tutte le loro forze e perscegliere il miglior posto per attenderegli avversari. Non andavano affattod’accordo i capitani cristiani. Gli uniavrebbero voluto spingersi direttamenteal largo alla ricerca della formidabilesquadra del Pascià, ma erano ben pochi;

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gli altri continuavano a consigliare laprudenza e l’attesa dei rinforzi cheVenezia, quantunque esausta, avevapromessi. Veramente non vi era che ilVeniero che spingeva alla guerra afondo, trattenuto però dal conte AgostinoBarbarigo, provveditore generale dellaRepubblica.

Aveva il vecchio guerriero tentatoperfino di mettersi d’accordo colColonna per fare una scorreria, ondedecidere gli altri a seguirli, ma il lealeromano, pur approvando le ragionidell’ammiraglio, vi si era rifiutato,temendo per le galere del Papa.

Finalmente, verso la metà disettembre, la squadra condotta da

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Antonio Canal e dal Quirini, dopoessere passata meravigliosamente fra leinsidie turche, affondava le sue ancorenel porto di Messina, a renderepotentissima la già formidabile flotta deicollegati. Ormai nessun pretesto potevatrattenere Giovanni d’Austria, e cosìpure i troppo prudenti capitani, sicché lamattina del 16 la grande armata salpava,risoluta a non tornare vinta. SebastianoVeniero era riuscito a decidere tutti icapitani, guastandosi però col figlio diCarlo V, che lo riguardava, quasi, comeun intruso.

Erano giunte notizie che le galereturche, invece di awicinarsi alle costedella Sicilia, si erano rinserrate nel

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porto di Lepanto, luogo sicuro, perchédifeso da molte scogliere.

Nemmeno però la vicinanza deinemici aveva sopite le invidie fra idiversi capitani. Erano soprattutto glispagnoli, che colla loro insolenza,mettevano un continuo scompiglio fra gliequipaggi, specialmente veneti. Il focosoVeniero, fatto più ardito dall’imminenzadella grande battaglia, a rischio dirompere la Lega, non tardò a dare unterribile esempio a quei prepotenticabalieros. Alcuni marinai, aizzati dalcapitano Scalera, imbarcati sulla galeraveneziana di Andrea Calergi, avevanosuscitato un gran tumulto, usando perfinole armi. Il Veniero passa sulla galera in

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subbuglio, fa prendere il capitano e duemarinai spagnoli, e li fa impiccare alleantenne.

L’affare era grave. Don Giovannid’Austria, che già mal tollerava ilVeniero, non poteva correre in aiuto deisuoi compatrioti, e per un momento sitemette che tutte quelle navi destinate adistruggere la flotta turca, sidistruggessero fra di loro, prima digiungere a Lepanto.

Gli altri capitani però, che sisentivano più sicuri col vecchioammiraglio che col giovane spagnolo,accomodarono, dopo lunghe trattative, lecose. E fu convenuto che da quelmomento l’ammiraglio non avrebbe più

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veduto il giovane, e che gli ordinisarebbero stati trasmessi a mezzod’intermediari. Tutte quelle questioninon facevano altro che ritardare lamarcia della flotta e demoralizzare gliequipaggi.

Era giunta alle Gomenizzi nell’Epiro,però invece di andare subito in cerca deimussulmani, si era messa a fare delleinutili e spavalde evoluzioni, perancorarsi nel porto di Guiscardo.

Dobbiamo dire però che anche ilPascià, avendo maggiori forze, nonmostrava affatto di aver premura digiungere al tremendo cozzo di tantecentinaia di navi.

Non era certo Giovanni d’Austria che

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lo preoccupava, bensì il semprevittorioso Sebastiano Veniero, che mai,per quanti agguati gli avesse tesi, e sullecoste di Cipro e su quelle di Candia, erariuscito a catturare.

Dopo parecchie e sempre inutilievoluzioni, la squadra possente deglialleati, muoveva finalmente decisa versole Curzolari, le antiche Echinadi, avendoormai saputo che il Pascià si celava inLepanto, mettendosi in ordine dibattaglia.

Si era divisa in tre grosse squadre:alla destra vi era Giannandrea Doria,con cinquantacinque galere; al centroDon Giovanni d’Austria con SebastianoVeniero e Marcantonio Colonna, con

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sessantadue galere; alla sinistraAgostino Barbarigo, provveditore diVenezia, con altre cinquantatré galere. Incoda venivano altre trentasette galere,con molte navi minori, al comando delmarchese di Santa Croce.

Il 7 ottobre del 1571, verso l’una emezzo, le due squadre avversarie sitrovano improvvisamente di fronte,dentro il canale di Lepanto.

Il momento era terribile: o trionfavala cristianità, o restava l’Islam acontinuare i suoi massacri.

Giovanni d’Austria, quantunqueappena ventenne, dà ordine alle squadredi schierarsi, poi le passa rapidamentein rivista, e giunto dinanzi alla capitana

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del Veniero, il quale stava ritto sul pontedi comando, senza elmo e collebabbucce, poiché la ferita non si eraancora rimarginata, dimenticando irancori vecchi e recenti, dopo d’averlorispettosamente salutato, come aconsiglio ed a conforto gli domanda adaltissima voce: – Che si combatta?

Il vecchio ammiraglio, dopo d’averreso il saluto, rispose pronto con questeparole:

– È necessità e non si può far dimanco.

E l’imponente flotta allora si avanzò,mentre sull’ammiraglia di Don Giovanniveniva spiegato lo stendardo della Lega,donato dal Papa. Erano duecentotredici

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navi cristiane che stavano per misurarsiin un duello mortale con duecentottantaturche.

Lo spettacolo che offrivano le dueflotte in quel momento, era meravigliosoed anche terrificante. Tutti i ponti sierano coperti di guerrieri, diarchibugieri, di artiglieri e dibalestrieri. Il sole, caldissimo, facevascintillare le corazze, gli elmi, gli scudi,gli acciari di quella gran massa di gente,e faceva risaltare vivamente, soprattutto,gli alti fanà dorati che ornavano icasseri.

Vi fu tuttavia un momento ancora diesitazione da parte dei turchi, del qualeapprofittarono i cristiani per ammainare

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tutte le bandiere, per non lasciar visibileche lo stendardo della Lega, rossofiammante con un gran crocifissoricamato in mezzo, e per farsi dare laconfessione generale dai cappuccini checorrevano sui ponti incitando icombattenti, e rammentando loro chetutti gli occhi della cristianità liseguivano anche da lontano. Neapprofittarono altresì per riordinaremeglio la loro linea di battaglia,distendendo molto la fronte edappoggiando le ali estreme alle vicinescogliere, per impedire agli avversari disalvarsi in mare.

Un colpo in bianco, sparato dai turchi,e che voleva essere una intimazione di

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resa per le navi cristiane, dà il segnaledella battaglia. Don Giovanni d’Austriafa rispondere a quel colpo facendosparare a palla il più grosso cannonedell’ammiraglia.

Tutte le galere, con gran furia di remi,giacché tutte le vele erano stateabbassate, essendo in quel momento piùd’impiccio che di utilità, si precipitanole une addosso alle altre per venireall’abbordaggio. Alì Pascià era statopronto a muoversi per correresull’ammiraglia cristiana che credevafacilmente di espugnare, mentre AlìSilocco correva ad assaltare le navi diBarbarigo, coprendole con unaininterrotta pioggia di frecce. In un

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momento la battaglia diventa generale,spaventosa. Più di ottocento cannonituonano, con un rimbombo assordante,da una parte e dall’altra, coprendo iponti delle galere d’un densissimo fumo.

Sebastiano Veniero che ha scorto ilpericolo che corre Don Giovannid’Austria, si fa innanzi colle sue galere,mentre i turchi, con una mossaammirabile, avevano ormai quasicircondata la squadra del Colonna. Conterribili scariche d’artiglieria e diarchibugi, per un’ora e più, il valorosovecchio riesce a trattenere l’ammiragliadel terribile Pascià, deciso adarrembare prima di tutte l’ammiragliadella Lega, e d’impadronirsi del suo

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giovane comandante, ma poi, quasiesaurite le munizioni, muove al soccorsocol suo equipaggio, fidando nell’abilitàdei suoi capitani che si difendonodisperatamente quasi addosso agliscogli.

Chi in quel momento si trovava inestremo pericolo era la capitana delBarbarigo. Stretta da tutte le parti da benquattro grosse galere che saettano i suoiponti, abbattendo un gran numero diveneziani, sta per essere abbordata epresa, quando il suo capitano ha unlampo di genio. Nelle corsie vi sonotrecento galeotti, i cui remi ormai nonservono più a nulla. Si precipita fra diloro seguito da parecchi uomini armati

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di martelli per infrangere le catene, epromettendo loro di far ottenere lagrazia dei loro delitti se sannodimostrare di combattere da prodi, se liconduce sul ponte ormai in parte invasodai turchi. La pugna si rinnova conmaggior furore. I galeotti, disprezzandola vita, si gettano sui seguaci dellaMezzaluna che non volevano lasciare lagalera, ed aiutati dall’equipaggio, nefanno orrenda strage. Le teste turchevolano in mare senza interruzione,tingendo le acque fino alloralimpidissime del canale.

Già erano stati scacciati, quando unbalestriere di Alì Silocco, senza dubbioabilissimo, vedendo il Barbarigo sul

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ponte di comando, che volta a voltaallontanava lo scudo dal viso per farmeglio udire i suoi comandi gli piantauna terribile frecciata, a puntadentellata, in un occhio. Il disgraziatoammiraglio, per non scoraggiarel’equipaggio che continua a combattererabbiosamente contro le genti diSilocco, rimane per mezz’ora sul ponte,senza mandare un grido, senza ungemito.

Cadde infine il valoroso e fu portatonella sua cabina, mentre affidava ilcomando della capitana a FedericoNani.

Mentre le galere maltesi e quelledella retroguardia entravano pure

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furiosamente in battaglia per aiutare iveneziani che erano più specialmentepresi di mira dai turchi, perché piùtemuti, la grossa galera del Pascià, conuna fulminea manovra e con unardimento senza pari, aveva abbordatal’ammiraglia di Spagna. Gli ottomani,dopo d’aver scaricate sulla copertaavversaria, tutti gli ultimi colpi delleloro grosse artiglierie, si erano slanciati,con grida spaventevoli, all’assaltodell’immenso castello di prora. Glispagnoli però, quantunque terribilmentedecimati da quella scarica, alla voce delloro giovane e valoroso principe,avevano affrontati gli assalitori contanto impeto, da poter saltare sulla

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grande galera turchesca e formare, fra ilcastello di prora e l’albero di trinchetto,come una muraglia di ferro, che noncedeva a nessun urto.

Sebastiano Veniero, che comeabbiamo detto, si era promesso divegliare sul figlio di Carlo V, e chevoleva tentare il salvataggio del figliodel Leone di Damasco, piomba a suavolta sull’ammiraglia del Pasciàabbordandola da poppa.

Cinque guerrieri sono i primi amontare sul cassero, dove pochi turchitentavano una troppo tarda resistenza:erano la duchessa, il Pascià, il Leone diDamasco, Mico e Nikola.

Menando rabbiosamente le mani si

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fanno largo, e guidati dall’albanese, chesapeva dove si trovava la cabina delfanciullo, si precipitarono nel quadro.

In quel momento un grido echeggiava:– Mamma!... Mamma!...Era stato il piccolo Enzo a mandarlo.La duchessa ed i suoi compagni si

scagliano come cinque tigri, non piùimpugnando le spade, bensì le grossepistole, e si trovano dinanzi ad Haradjaed al suo capitano d’armi, i quali tentanoforse di gettare in mare il piccinoapprofittando dell’assenza del Pascià.

– Lascia mio figlio!... urlò laduchessa, affrontando ferocemente lacastellana d’Hussiff.

– Non prima d’averlo ucciso sotto i

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tuoi occhi – rispose la nipote del Pascià,tentando di estrarre una «misericordia»e di affondarla nel petto del piccino.

– Allora muori, infame!...Due colpi di pistola rimbombarono,

facendo tintinnare tutti i vetri delquadro, ed Haradja, che aveva la visieraalzata, cadde colla testa fracassata,lasciandosi sfuggire il piccolo Enzo.

Intanto Muley, il Pascià, Mico eNikola si erano scagliati contro ilcapitano d’armi che tentava di accorrerein aiuto della sua padrona. La faccendafu altrettanto spiccia. Il forte guerriero,crivellato di ferite, stramazzò a suavolta, con un gran rombo di ferraglia.

– Via!... – gridò la duchessa,

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prendendosi in braccio il fanciullo.Salirono in coperta proprio nel

momento in cui il Pascià, colpito daun’archibugiata, cadeva alla testa deisuoi guerrieri.

Un grido altissimo aveva coperto ilrombo della moschetteria: – Vittoria!...Vittoria!...

I turchi, spaventati, ormai fuggivano,mentre la testa del famoso ammiraglioveniva tagliata e piantata su una piccaaltissima, affinché tutti potesseroscorgerla.

Subito dopo lo stendardo dellaMezzaluna veniva ammainato, ed al suoposto veniva innalzato lo stendardodella Lega.

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Quanti turchi furono trovatisull’ammiraglia, ed erano parecchiecentinaia, non ebbero nessuna grazia daparte degli spagnoli vincitori e deiveneziani di Veniero che erano puremontati all’arrembaggio, per proteggerepiù che altro la duchessa ed il Leone diDamasco.

Tutti furono ferocemente sgozzati epoi gettati in mare a gruppi. Tuttavia labattaglia non era ancora decisa, anche seAli Pascià e la castellana d’Hussifferano morti e la grossa flottigliaconquistata. I turchi erano ancoraabbastanza forti per far tremare lacristianità. Il fuoco delle artiglierie eracessato e tutte le galere correvano

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all’arrembaggio per combattersi ad unaad una od a gruppi.

E la battaglia divenne alloraveramente spaventosa. Le spadecristiane trucidarono trentaseimilaturchi, perdendo solamente ottomilauomini fra morti e feriti. Alle sei di seratutto era finito. Le galere turchefuggivano dinanzi ai guerrieri dellaLega, e piuttosto che arrendersi,andavano a spaccarsi contro lescogliere. Molte invece bruciavanolungo le spiagge coprendo l’ariad’immensi nuvoloni di fumo.

La cristianità aveva vinto e rovinatoper molti e molti anni la potenzamarinara turca.

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Alì’ultimo colpo di cannone,annunciante la fine del combattimento ela raccolta della flotta, SebastianoVeniero e Giovanni Colonna montaronosull’ammiraglia spagnola, e si gettarono,piangendo di commozione, fra le bracciadel giovane principe, che, quantunqueappena ventenne, aveva combattuto dafortissimo guerriero.

In quel momento spirava il Barbarigo,nella sua cabina, felice di aver appresala notizia della grande strage.

Duecentoquattro navi turche eranostate affondate; novantaquattro cacciatesugli scogli ed incendiate, e centotrentaaltre erano state catturate, con trentamilaschiavi cristiani dannati al remo,

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centodiciassette grossi cannoni,duecentocinquantasei di minor calibro, ifanà, le bandiere, compresa quella delPascià, che figura ancora oggidìnell’arsenale di Venezia, le code delseraschiere ed altri magnifici trofei.

Inoltre i valorosi della Lega avevanofatti prigionieri 3.468 mussulmani,risparmiati perché i combattenti nonavevano più forze per uccidere.

Per due giorni il cielo di Lepanto fuoscurato dal fumo delle galere ancorabrucianti, ed il mare rimase rosso pelgran sangue cadutovi dentro.

Terminata la terribile pugna,Sebastiano Veniero mandava a Veneziala galera Angelo Gabriele, comandata

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da Oufredo Giustiniani, e sulla quale sierano imbarcati il Pascià di Damasco,suo figlio, la duchessa, il piccolo Enzo,Mico e Nikola.

Dieci giorni dopo, a gran furia diremi, e trascinando lungo le murate lebandiere turche, la galera entrava inVenezia pel porto del Lido recando lagrande novella.

Il comandante era incaricato di recareal Senato la descrizione della battaglia,scritta tutta di pugno di SebastianoVeniero.

Merita di venire riprodotta.

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All’incontro di noicapitani, erano quattrofanà-galere con fanale,insegna di comando.

Don Giovanni investìAlì Pascià a prua perprua, ed io all’alberomanco et Dio volle chetutti i colpi mi andaronoper puppa.

In quellosopraggiunsero quelli duevalorosissimigentiluomini, messerCattarin Malipiero etmesser Zuan Loredan cheavevo mandati a chiamare

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e che valorosamentecombattendo rimaserotutti doi morti.

La mia galera conl’artellaria, archibusi etarchi, non lasciavapassare nessun turco dallapoppa del Pascià allaprova.

Perilché Don Giovanniebbe largo campo dimontare all’arrembaggiole sue genti e conquistareil Pascià, il quale fumorto nella battaglia, etposso dire con verità chese non fosse stata la mia

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galea, così facilmente nonarrembava l’ammiragliaturca.

Io, oltre a combattere aprova, combattevo conaltre galee, una al latodestro et l’altra un po’ piùper poppa, finché i mieivi montarono sopra.

Menati parte deiprigionieri turchi nellamia galea bene incatenati,tornai ad aiutarel’ammiraglia spagnolasempre pericolante.

Dura fu la lotta perchédurò tre hore et più...

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Faceva seguire la lettera colla listadei morti e dei feriti e null’altro, ed eraseguita da questo commento:

Io per me gli ho tostoinvidia che compassione,essendo morti honorevolmenteper la nostra patria, et per lafede di Gesù Cristo.

Grande, straordinaria, fu l’esultanzadei veneziani nell’apprendere una cosìstrepitosa vittoria.

Grandi feste furono organizzate,

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specialmente date dai mercanti, allequali non mancarono di intervenire laduchessa, Muley, il Pascià, il piccoloEnzo, Mico e Nikola, ormai stabiliti nelgrandioso e magnifico palazzo Loredansul Canal Grande.

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CONCLUSIONELa grande vittoria navale, la più

gigantesca ottenutasi nel mondo, nonebbe nessun effetto pei segreti disegni diFilippo Il, il quale non voleva cheVenezia riacquistasse la antica potenza el’antico splendore.

Gli alleati invece di approfittare dellosgomento dei mussulmani e delladistuzione completa della loro superbaflotta, per correre alla conquista diCipro o alla liberazione di Candia, cheresisteva sempre, risollevarono leantiche questioni, le antiche rivalità, emalgrado gli sforzi disperati diSebastiano Veniero si scioglieva, senza

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aver più nulla tentato.La disgraziata Repubblica, malgrado

il valore dei suoi capitani e dei suoimarinai, venne così ancora a trovarsisola contro i mussulmani, poichésolamente i Cavalieri di Malta lapotevano aiutare.

Sebastiano Veniero sdegnato, ancheperché la Spagna aveva insistito permettergli a fianco un altro comandante, econcedergli solamente il comando dellapiccola squadra dell’Adriatico, tornavain patria dove fu accolto con grandissimionori.

Questo grande marinaio che fu il verovincitore della battaglia di Lepantomoriva Doge il 3 marzo 1578, nella

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tarda età di ottantadue anni e venivasepolto nella Chiesa di S. Pietro martirea Burano

Intanto Candia continuava a difendersiferocemente e ben vent’anni duròl’assedio.

Quando gli ultimi difensori siarresero, non erano che quattromila, omeglio eran quattromila ombre,però daimussulmani furono tutti risparmiati.

La popolazione era scomparsa, lebombe, la fame, i disagi avevanospazzato via uomi, donne e fanciulli.

Tuttavia Venezia, nella resa di quellaeroica città, poté ottenere daimussulmani due piccoli porti pei lorotraffici in Candia, porti che dopo pochi

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anni doveva anche loro veder sventolaresulle loro spiagge l’odiato vessillo dellaMezzaluna.

Inizio

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EmilioSalgari

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Un ritratto di fantesia firmato Walter Molinoapparso su Scena Illustrata, 1952 e

precedentemente sul fumetto Salgari del 16 aprile1949.

Ida Peruzzi

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Emilio Giuseppe Carlo Maria Salgarinasce il 21 agosto 1862 a Verona, daLuigi e Luigia Gradara, in una modestacasa al numero 7 di corso Porta Borsari.La famiglia appartiene alla piccolaborghesia di origine popolana - gliantenati erano osti - il padre commerciain stoffe. Il cognome si pronuncia conl'accento piano, Salgàri. Emilio sentepresto voglia d'avventura, a 16 anni è aVenezia, presso una zia, dove si iscriveal primo corso del Regio IstitutoTecnico e Nautico. In qualche modopassa tre mesi su una piccola nave datrasporto che batte l'Adriatico: saràquesta la sua unica esperienza dimarinaio, anche se in seguito la sua

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fantasia gli farà dire di aver compiutoviaggi memorabili (e dopo la sua morteanche il figlio Omar rincarerà la dose),fino a fregiarsi del titolo di "Capitano".Scrive alla fidanzata Ida, poi suamoglie, lettere che sono già romanzi (IdaPeruzzi, di Ubaldino e AgostinaMontrezot, nata a Verona nel 1868). Nel1883 è di ritorno a Verona, dovecollabora a La Nuova Arena comecorrettore di bozze finchè vienepubblicato a puntate La tigre dellaMalesia (dal 16/10/83 al 13/3/84), ed èl'inizio del successo. Nel 1887 esce ilsuo primo volume presso un editoremilanese (Guigoni), La favorita delMahdi. L'abate Galiani, che è stato suo

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insegnante, gli suggerisce in seguito ditrasferirsi a Torino presso l'editoreSpeirani, attivo nell'editoria per ragazzi(Il novelliere illustrato, La vacanza delgiovedì, L'innocenza, pubblicazioni chespariranno sotto la scure del Giornalinodella Domenica). La famiglia arriva aTorino a fine 1892, dove per lungotempo deve fare quadrare il pranzo conla cena. E' vero che Emilio scriveindefessamente - lavoracontemporaneamente per tre editori:Speirani, Treves, Paravia; a partire dal1895 anche per Bemporad - ma i soldiche arrivano o sono troppo pochi, ovengono mal impiegati: resta il fatto chela mancanza di denaro sarà la cagione

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del disastro.La produzione salgariana nel

frattempo acquista una popolaritàimmensa, grazie anche alle sapientiillustrazioni che gli editori procuravanoa corredo del testo, e perfino la ReginaMargherita si congratula con l'autore.Nel 1897 Emilio Salgari è nominatoCavaliere, e da allora dedicherà laprima copia di ogni sua pubblicazionealla Regina.

La casa editrice Donath lo convince atrasferirsi a Genova; in questi annistringe amicizia con i suoi pochi veriamici: il musicista Emilio Firpo,l'illustratore Pipein Gamba, e LuigiMotta, veronese come lui, e assai più

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giovane, che in seguito nel divennel'epigono.

Nel 1899 esce per Donath Il CorsaroNero, uno dei successi editoriali piùstrepitosi della storia. A Genova lafamiglia si trova bene, tuttavia Salgaridecide di tornare a Torino al volgere delsecolo. Qui la situazione economicapeggiora sempre più, e Salgari non trovadi meglio che pubblicare altri testi sottopseudonimo (i suoi erano già unaquarantina), ma si tratta di canovacci unpo' tirati via, e non hanno il successodelle avventure firmate Salgari. Glipseudonimi usati sono: Guido Landucci,Cap. Guido Altieri, E. Bertolini, S.Romero. La moglie comincia a star male

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e dare segni di pazzia, i figli cresconosenza una guida, poiché lui passa legiornate e le nottate a scrivere, scrivere,scrivere. Come ricordano in molti,consulta continuamente atlanti edenciclopedie, e soprattutto i giornali conresoconti di viaggi e scopertedell'epoca: si documentascientificamente per poter descrivere iluoghi esotici dei suoi libri. Cambianospesso di alloggio: via Morosini, viaSuperga, piazza San Martino, viaGuastalla, corso Casale; i soldi mancanosempre, anche se la produzioneletteraria, non si sa come, aumenta: negliultimi cinque anni pubblica oltre ventiromanzi. Sono gli anni in cui Salgari

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viene preso da una certa lucida follia(per i dettagli rimandiamo alle biografieufficiali), raccontati in seguito dal figlioOmar, il quale mescola verità einvenzioni, manipolato dallo spirito delsuo tempo

Nel 1906 rompe il contratto conDonath e passa a Bemporad, per il qualepubblica complessivamente 25 titoli.Enrico Bemporad si rende conto che letrame sono più o meno le stesse esollecita qualcosa di nuovo: Salgariproduce allora Le meraviglie delDuemila, un testo pieno di anticipateinvenzioni - quali la televisione - nondiversamente da ciò che fece JulesVerne con La giornata di un

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giornalista americano nel 2889. I duescrittori sono stati più volte accumunatidalla critica, per il genere avventuroso,per l'inventiva, per la descrizione dipaesi esotici da loro mai veduti, per lapassione del mare, e tuttavia essi sonoprofondamente diversi, così come laloro scrittura: fredda, colta e ricercataquella di Verne, passionale, semplice ediretta quella di Salgari. C'è daaggiungere che Salgari stesso ammette diprender spunto dai romanzi d'avventuradi Fenimore Cooper ma anche dellostesso Verne, di cui talvolta ricalcaperfino le trame. Tuttavia, la criticaaccolse Verne assai favorevolmente findagli esordi (e infatti Verne divenne

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ricco), mentre Salgari fu sempreosteggiato, e molto soffrì dall'esserecosì sfavorevolmente paragonato alcollega francese.

Nel 1909 Emilio Salgari compie unprimo tentativo di suicidio, gettandosi suuna spada. Lo trova la figlia Fatima. Nel1910 la moglie si vede costretta ascrivere a Bemporad sollecitando non sisa bene cosa (lamenta comunque lasoppressione dell'assegno mensile), mal'editore risponde seccamente di nonessere uso a subire pressioni di nessuntipo. 3

Nel 1911 le cose precipitano. Idamanifesta segni di follia e vienericoverata in una casa di salute, ma

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poiché Salgari non ha il denaro perpagare la retta, la donna viene confinatain manicomio, cosa che getta il maritonello sconforto. Il 22 aprile scrivenumerose lettere di addio, ai figli, aglieditori, ai giornali. In tutte si dicerovinato e senza un soldo, nonostante i"milioni di ammiratori", i soli che gliabbiano dato soddisfazione. Il 25 siallontana da casa, lo trovano la mattinaseguente in un burrone nella valle di S.Martino, dove appunto aveva scritto aifigli di cercarlo. Si era ferito al collo eall'addome con un rasoio, ed era mortodissanguato.

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La radura sul Colle del Lauro (Torino) doveEmilio Salgari pose fine alla sua vita il 25 aprile

1911Questa fotografia, chissà come, appare in quasi

tutte le biografie da noi consultate, con varianti sulposto esatto, contrassegnato da una croce, e in

genere con la figura sulla destra eliminata.Questa è la fotografia originale dell'epoca.

(courtesy Archivio Brandolini Morgagni)

La morte dello scrittore non suscitò il

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clamore che forse egli si aspettava, e ilfunerale fu fatto passare sotto silenziodalle Autorità, impegnate in queimedesimi giorni nelle manifestazioni perl'Esposizione Universale; a seguire ilferetro v'erano solamente dei giovani,dei ragazzi con i libri sotto il braccio: iveri unici estimatori di Salgari.Nemmeno i giornali diedero risaltoall'accaduto, con l'eccezione de LaStampa, che tra l'altro aprì subito unasottoscrizione per aiutare i figli, allaquale aderirono due sole personalità:Amalia Guglielminetti e GiacomoPuccini. La salma fu mandata a Verona,dove fu accolta dalla famiglia Peruzzi edegnamente sepolta.

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UNA FAMIGLIA DISGRAZIATA

Nel 1889 il padre dello scrittorecommise suicidio, dando vita a ciò che iposteri chiameranno la tara dellafamiglia: suicida sarà Emilio, e suicidi isuoi figli. C'è da aggiungere che lamoglie Ida, sposata il 30 gennaio 1892,morirà in manicomio il 1° ottobre 1922.Lui la chiamava Aida, e l'amerà per tuttala vita. Ebbero quattro figli, anch'essisegnati da un destino avverso. Laprimogenita Fatima (1892-1915) muoredi tubercolosi - studiava canto esembrava quasi una promessa, ma nonebbe il tempo che di dare qualche

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concerto. Nadir (1894-1936) ex-ufficiale della guerra libica, ferito settevolte, decorato di medaglia al valoremilitare, muore in un incidentemotociclistico. Romero (1898-1931)militante negli Arditi, nella GrandeGuerra si guadagna due ferite e unamedaglia d'argento al valor militare, main un accesso di pazzia tenta di uccideremoglie e figlio e si suicida.L'ultimogenito Omar (1900-1963) nellaGrande Guerra rimane invalido, etrascorre la vita in operazioni editorialivolte alla salvaguardia della memoriapaterna tuttavia accettando dagli editoritutta una serie di mistificazioni, sia perla vita privata (si inventa i trascorsi

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esotici del "Capitano"), sia perl'avallamento dei numerosi falsisalgariani che ebbero vita nei decennisuccessivi. Sposatosi tardivamente, sigetta dal balcone di casa, a Torino.

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La casa della Madonna del Pilone,abitata dalla famiglia Salgari

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In questo stabile di corso Casale n. 205era sito l'ultimo appartamento abitato da

Emilio Salgari

FALSI ED EPIGONI

Gli imitatori di Salgari nascevanocome funghi dice Yambo.

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Verissimo: impossibile contare tutti ipennivendoli assoldati in seguito persfornare i famosi falsi salgariani.Purtroppo i mistificatori più agguerritiprovenivano tutti dalla cerchia privatadello scrittore, a cominciare dai suoistessi figli. E' Nadir, infatti, che firma laprefazione di Le mie memorie (1928) dital Lorenzo Chiosso, che si fecedelegare dal tutore dei ragazzi Salgari,lo zio Ugo Peruzzi, a trattare con glieditori per i diritti delle trame e deititoli, il quale non si perita dirielaborare appunti e manoscritti e di farpassare per proprie le fantasiesalgariane. Un altro epigono, ma di benaltra tempra, é Luigi Motta, autore di un

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centinaio di romanzi d'avventure, scrittisenza quella passione che Salgariimmetteva nei suoi testi, e che tuttaviagli fruttarono l'agiatezza con l'editoreBemporad. Motta era stato buon amicodi Emilio Salgari, e da questi incitato ascrivere (e lo chiamava CapitanoMotta); tuttavia anch'egli non si perita dipubblicare numerosi titoli con il doppiocognome Salgari-Motta, al fine diattirare il pubblico; e anch'egli infine fuaccusato da un tipografo di essere soloun prestanome. Peraltro, i figli stessiportavano agli editori (Bemporadsoprattutto) i pochi appunti slegati traloro che il padre aveva lasciato,spacciandoli per trame, tal che costoro

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assoldavano i ghost-writers affinchéproducessero testi assimilabili a quellisalgariani. Numerosi romanzi uscironoinfatti con il nome di Emilio Salgari incopertina come autore, e sul frontespiziola dicitura romanzo postumo tratto datrama lasciata dall'Autore e pubblicata acura di Nadir/Omar Salgari.

Tra i ghost-writers salgariani vifurono anche anche Paolo Lorenzini eSandro Cassone; il piùprolifico fuGiovanni Bertinetti (17 falsi, più labiografia Mio padre Emilio Salgari(1940), firmata da Omar Salgari; inoltrevi furono innumerevoli riedizioni divecchi testi con il titolo cambiato.

Insomma, fiorirono innumerevoli

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volumi nuovi e trame vecchie, in uncrescendo di confusione editoriale elegale tra gli eredi e le case editrici.Un'altra mistificazione fu la produzionesuccessiva di prodotti derivati (ai nostrigiorni sarebbero gadgets e cappellini)quali fumetti, giornalini, circoli amici diSalgari, e tutto ciò che poteva fregiarsidella magica parola. Famose sono lefigurine Salgari della Liebig e dellaTato, nonchè le cartoline edite daCarroccio. Negli anni Trenta e Quarantavi fu un nuovo entusiasmo editoriale cheportò ad innumerevoli ristampe, favoritodalla campagna di valorizzazioneoperata dal regime, che tuttavia presentòlo scrittore come precursore dello

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spirito fascista e imperialista. La criticadel dopoguerra sI occupò di Salgari inmodo più equo, e infine seppericonoscere - a partire dagli AnniSettanta - il vero valore del Maestro e aridargli la dignità che gli compete. Unasapiente e intelligente moderna filologiaha saputo inoltre discernere le vereopere salgariane da tutto il resto.

In totale i testi riconosciuti di EmilioSalgari sono 87, i testi detti falsi sono58. I racconti sono numerosi, sia per leriviste per ragazzi sia per le collane:Biblioteca giovanile illustrata,Bibliotechina aurea illustratadell'editore Biondo, Nuovacollezioncina dell'editore Carabba,

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Piccole avventure di terra e di maredell'editore Speirani. I racconti per lagran parte appaiono con lo pseudonimodi Cap. Guido Altieri. Per labibliografia completa di Emilio Salgaririmandiamo alla Nuova bibliografiasalgariana

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INTRODUZIONEIl romanzo dell’odio e della

vendettaSono trascorsi quattro anni da quando

la duchessa Eleonora d’Eboli conosciutacon il nome di Capitan Tempesta perchétravestita da valoroso cavaliere avevadifeso le mura di Famagosta dall’assaltodei turchi – e Muley-el-Kadel – leale,intrepido guerriero turco, e noto come ilLeone di Damasco –si erano innamoratie avevano cercato rifugio nella lontanaItalia, prima a Napoli e poi a Venezia.Più o meno, si tratta dello stesso tempoche intercorre tra il primo romanzo(Capitan Tempesta) del ciclo Il Leone diDamasco, e l’inizio della stesura del

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secondo (Il Leone di Damasco,appunto), entrambi pubblicatidall’editore fiorentino Bemporad,rispettivamente nel 1905 e nel 1910.

La bella e crudele Haradja, nipote delpotente Alì Pascià, che era stata respintadal Leone di Damasco e beffata daEleonora, non ha dimenticato i suoimortali nemici e medita contro di lorouna terribile vendetta. Suoi sicarirapiscono il piccolo Enzo, figlio diEleonora e Muleye1 Kadel, e lei stessa,proditoriamente, cattura la “gagliotta”,ossia l’imbarcazione che trasporta ilPascià di Damasco, padre del Leone,procurandosi, in tal modo, un’efficacearma di ricatto per catturare i suoi

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irriducibili nemici.Il Leone di Damasco é il romanzo

dell’odio e della vendetta. I sentimenti ele passioni, infatti, guidano le gesta deiprotagonisti, sebbene sia venuto menoquel tenue erotismo che circondava, nelprecedente volume, la conturbante figuradi Eleonora. La vicenda, ancora unavolta, si svolge durante la lunga contesache contrappone la declinante potenzadel Leone di San Marco agli ottomani.Nonostante la grande caparbietà dellesue truppe e dei suoi valorosicondottieri, lentamente einesorabilmente Venezia cede ai turchi isuoi possedimenti e la sua influenza nelMediterraneo.

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Questi ultimi, con un eccezionaledispiegamento di forze, hanno presod’assalto l’isola di Candia, doveEleonora e Muley-el-Kadel combattonoa fianco dei pochi ed eroici venetiassediati. Salgari, che si prende qualchelicenza poetica, poiché trova difficoltànel far collimare gli avvenimenti con larealtà storica, rinuncia a uno deglielementi ricorrenti nei suoi testiavventurosi: la dettagliata descrizionedell’ambiente, della flora e della fauna,il generoso dispiegarsi delle sueconoscenze geografiche. Propone,invece, al lettore, ampie informazionisulle vicende della Repubblica diVenezia e introduce, tra le pieghe della

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trama, personaggi storici come il conteMorosini, difensore di Candia, oSebastiano Veniero, il più audaceammiraglio veneziano, immortalatosinella famosa battaglia di Lepanto chesegnò una battuta d’arrestoall’espansione turca verso l’Europa.

In ogni caso, il cuore dello scrittorebatte per Venezia: la città che aveva datole origini all’amatissima madre e in cuiaveva vissuto da giovane, della qualericorda il meraviglioso Canal Grande eil palazzo Loredan. Le stesse mura,bastioni e ridotti della piazzaforteassediata portano i nomi lagunari diMalamocco, Cavanere e Alberoni.

1 veneziani sono araldi del

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cristianesimo, l’ultimo baluardocattolico contro i mussulmani, mentre iturchi sono infidi e traditori, pronti aversare sangue senza rispetto per ilvalore dei vinti, sebbene sempreammirati come prodigiosi combattenti.In confronto a Capitan Tempesta nonsembra possibile alcuna comprensionetra Oriente e Occidente. È uno scontro diciviltà cui solo l’abiura del proprioPaese e della propria religione puògarantire salva la vita, come avviene peri greci o gli albanesi al servizio delturco, o allo stesso Muley-el-Kadel e asuo padre che abbracceranno il Vangelo.

Numerosi i colpi di scena, i rapidicambiamenti dei luoghi in cui si dipana

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la storia: la cattura in mare del Pascià diDamasco; il duello sotto le mura diCandia tra il Leone di Damasco eCapitan Tempesta, da una parte, eHaradja e Metiub, il suo fedeleluogotenente, dall’altra; la fuga daCandia; la trappola tesa al Gran Pascià;la presa del castello d’Hussiff.

Il lungo inseguimento tra i contendentisi concluderà durante la battaglia diLepanto, con l’abbordaggio della navedell’ammiraglio turco in cui troverannola morte tutti i nemici di CapitanTempesta.

Il fascino che Venezia esercitò sulloscrittore in questo romanzo éevidenziato dall’insolita conclusione in

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cui si riporta ampiamente la descrizionedella battaglia di Lepanto che proprioSebastiano Veniero aveva prontamenteinviato al Senato della gloriosaRepubblica marinara.

Notevole é il potere evocativo chetraspare dalle illustrazioni di AlbertoDella Valle, dal tratto particolarmentefelice nel delineare l’altera Haradja.

Claudio GalloInizio

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TramaLe nuove avventure del Leone di

Damasco e di Capitan Tempesta, ormaidivenuti marito e moglie e con un belfiglioletto di nome Enzo, comincianoancora in una città cristiana assediatadai Turchi: questa volta sono a Candia,dove erano giunti per controllare delleproprietà e dove sono costretti ancorauna volta a combattere. Nel campo turcosono purtroppo presenti delle vecchieconoscenze dei due valorosi, la "Tigredi Hussif", che, furiosa per essere statarespinta dall'uomo che amava ora vuolevendicarsi ad ogni costo, e il suoinseparabile luogotenente.

Grazie all'intervento del potente zio,

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Alì Bascià, Haradja e' riescita a farrapire dall'Italia il piccolo Enzo, ed afar prigioniero anche il padre del Leonedi Damasco, servendosi vigliaccamentedi entrambi come esche e come ostaggi.I combattimenti e i duelli si succedonogli uni agli altri per il Leone di Damascoe Capitan Tempesta, i quali vengonoanche sfidati a duello ad armi bianchesotto le mura di Candia da Haradja eMetiub, che sono facilmente sconfitti dainostri eroi, spadaccini eccellenti.Malgrado le loro macchinazioni etradimenti, Haradja e Metiub nonriescono ad averla vinta, pur avendoancora come vantaggio i due ostaggi.

Muley ed Eleonora sono così costretti

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ancora a combattere in avventure che sisuccedono sia per terra che per mare,ma sarà proprio su questo elemento cheavverrà la battaglia finale, la famosa"Battaglia di Lepanto", tra la flotta turcae quella cristiana, in cui, come ciricorda la storia, ci sara' la vittoria diquest'ultima.

Per quello che riguarda gli eroisalgariani, Haradja e Metiub sarannodefinitivamente sconfitti, ed il piccoloEnzo e il pascià di Damasco liberati erestituiti ai loro cari, pronti per fare tuttiinsieme ritorno nella bella Italia.

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IndiceIl Leone di Damasco

LA NIPOTE DI ALÌ BASCIÁFEROCIA TURCAIL PASCIÁ DI DAMASCOI RUGGITI DEL LEONE DI SAN MARCOIL GRANDE AMMIRAGLIO OTTOMANOCAPITAN TEMPESTALA SFIDAIL TRADIMENTOUN’ALTRA SFIDAIL TRADIMENTO TURCOATTRAVERSO LE ROVINE DI CANDIALA CAVALLERIA TURCALA RADA DI CAPSOSEBASTIANO VENIEROSULLA GALERA DEL BASCIÁLA CACCIA AL CAICCIOBATTAGLIA NOTTURNANELL’HISAR D’HUSSIFFIL TRADIMENTO DELL’ARMENOLA MORTE DEL CAPITANO D’ARMIIL PASSAGGIO MISTERIOSO

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IL FANALE VERDELE ULTIME DIFESE DI CANDIALE FRECCE INFIAMMATELA BATTAGLIA DI LEPANTOCONCLUSIONE

Emilio SalgariUNA FAMIGLIA DISGRAZIATAFALSI ED EPIGONIINTRODUZIONEIl romanzo dell’odio e della vendettaTrama

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1 Il disgraziato Pascià non era stato ancora fattostrozzare dal Sultano.

2 Perdono, signore.3 Si innesca qui una storica

“querelle”dei posteri: se la cronicamancanza di denaro fosse realmentedovuta al mancato pagamento deglieditori o se fosse dovuta ad una pessimagestione casalinga. Se si deve stare allenumerose lettere di Salgari in questosenso, parrebbe che tutti gli editori,passati e presenti, lo avrebbero sfruttatosenza pagargli la giusta mercede, seinvece si deve stare ai contratti,parrebbe una storia diversa. Per idettagli rimandiamo ai calcoli eseguitisulle tirature e riportati nella biografiadi G. Arpino e R. Antonetto (op. cit.,

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pag. 93), dove risulta lampante l'erroredi fondo di Salgari: egli chiese sempreun fisso, e mai una percentuale sullevendite, che con le tirature da capogirodei titoli gli avrebbe assicuratol'agiatezza. Risulta comunque dallacorrispondenza intercorsa conBemporad, che questi si attenevascrupolosamente alle clausolecontrattuali, laddove tali clausole eranocertamente favorevoli alla casa editrice,né l'editore si mosse mai a pietà e negò;sempre ogni richiesta ulteriore di denaroda parte dello scrittore. E' innegabileche nel 1908 vi fosse una sorta di“misunderstanding” tra l'Autore el'editore, se é vero che il contratto

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stabiliva che Salgari si impegnava afornire tre romanzi l'anno per uncompenso di 8.000 lire, compenso cheBemporad non gli versò; in quanto eraandato a coprire la penale verso Donath,con il quale Salgari aveva rotto ilcontratto precedente. Ancora nel 1928non é ben chiara la posizione diBemporad, che dovette cedere agli eredile opere di Salgari, pretendendo unriscatto di 150.000 lire (ma continuandoa pubblicare opere salgariane o presuntetali), somma che fu anticipata da AlbertoMatarelli della casa editrice Sonzogno,che in tal modo iniziò; a buon diritto apubblicare a sua volta opere salgariane.Alla morte dello scrittore, che lasciò;

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per testamento un “j'accuse”agli editoriche é un vero “coup de théatre “ - A voiche vi siete arricchiti colla mia pelle[...] Vi saluto spezzando

la penna” -, la varie case editrici siaffrettarono a smentire ognimalversazione e soprattutto ogniresponsabilità morale, fornendo dettaglisui contratti stabiliti a suo tempo conSalgari che “La Stampa”pubblicavasenza riserve. Nell'occasione,invariabilmente mandavano una sommaper la sottoscrizione a favore degliorfani di Salgari. L'unico editore inrealtà chiamato in causa, cioé quello chedeteneva un contratto corrente con loscrittore, Bemporad, inviò; la somma di

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lire 500.