Eleonora Manca artista del mese, febbraio.

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Febbraio con ELEONORA MANCA “Io sono amica dei miei demoni. Non sarei ciò che sono senza di loro. Il terreno sul quale poggia il mio fare arte è quello della metamorfosi”. Raccontare attraverso il corpo Laureatasi con una tesi sulle Avanguardie russe, Eleonora Manca (Lucca, 1978) è un'artista visiva e videoperformer che utilizza vari media (principalmente fotografia e video) al fine di creare percorsi comunicativi mediante installazioni e micro-narrazioni (spesso attraverso la compenetrazione tra immagine e parola col fine di dare origine a una forma ibrida di codice poetico). Il suo lavoro ruota attorno i temi della metamorfosi e della memoria del copro. Ha esposto in numerosi festival, collettive e personali in Italia e all'estero. Vive e lavora a Torino. Ecco un suo ritratto, attraverso un’intervista di Cecilia Leucci (“Juliet Art Magazine”). Chi è Eleonora Manca e come si avvicina all’arte? Eleonora Manca è una creatura sempre alla ricerca di nuovi stimoli che in qualche modo possano ampliare e amplificare le conoscenze che sino ad adesso ha simbolicamente ripiegato nella valigia che si porta incessantemente appresso. Sin da bambina ho sempre ragionato per immagini. In casa avevamo molti libri d’arte e trascorrevo gran parte del tempo a sfogliarli. Ritagliavo le immagini che più mi parlavano e con esse, a poco a poco, tappezzai il muro della mia camera. Lo faccio tutt’ora. Non riesco a distinguere la parola scritta dall’immagine; per me entrambe sono icone. Il mio percorso artistico è iniziato con la pittura, proseguito con installazioni su carta giapponese di poesia visiva e poi naturalmente, come se fosse inevitabile il tutto è confluito nel ritorno all’immagine. Considero la fotografia e i l video due processi comunicativi che mi permettono di sintetizzare armonicamente il lavoro sino adesso compiuto. In definitiva, non saprei dirti come mi sono avvicinata all’arte. Ci sono nata vicino all’arte. Numerosi artisti contemporanei nei decenni hanno utilizzato il proprio corpo come medium comunicativo, dando vita ad atti performativi anche estremamente violenti e masochistici. Come si sviluppa, in te, la necessità di esporre il tuo corpo al posto dell’opera, in maniera così fortemente concettuale? Raccontare attraverso il mio corpo e la sua gestualità mi è del tutto naturale perché parto dal presupposto che ciò che nasce è un’immagine di me. Un’immagine filtrata dalla luce che esisteva in quel momento, dalla macchina fotografica, dalla videocamera, dalla post produzione, dagli influssi visivi e testuali che mi parlano. Un’immagine per la quale non utilizzo mai il colore, ma sempre sfumature declinate nella gamma dei grigi perché credo che l’uso del B/N sia già di per sé rappresentazione del reale. Esporre il proprio sé “nudo” significa prima di tutto metterlo a nudo davanti a sé stessi. Si nasce nudi e nudi si è più forti. Alla mia fisicità è affidato il ruolo di un’immediata comunicazione che, come in un atto di genesi, avviene. Il tutto senza la nevrosi di un’indagine insistente sul proprio io. Del resto la maggior parte dei miei lavori nascondono una specie di cortocircuito: la me-di-

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Intervista ad Eleonora Manca realizzata a cura di Cecilia Leucci.

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Febbraio con

ELEONORA MANCA “Io sono amica dei miei demoni. Non sarei ciò che sono senza di loro. Il terreno sul quale poggia il mio fare arte è quello della metamorfosi”.

Raccontare attraverso il corpo Laureatasi con una tesi sulle Avanguardie russe, Eleonora Manca (Lucca, 1978) è un'artista visiva e videoperformer che utilizza vari media (principalmente fotografia e video) al fine di creare percorsi comunicativi mediante installazioni e micro-narrazioni (spesso attraverso la compenetrazione tra immagine e parola col fine di dare origine a una forma ibrida di codice poetico). Il suo lavoro ruota attorno i temi della metamorfosi e della memoria del copro. Ha esposto in numerosi festival, collettive e personali in Italia e all'estero. Vive e lavora a Torino. Ecco un suo ritratto, attraverso un’intervista di Cecilia Leucci (“Juliet Art Magazine”).

Chi è Eleonora Manca e come si avvicina all’arte?

Eleonora Manca è una creatura sempre alla ricerca di nuovi stimoli che in qualche modo possano ampliare e amplificare le conoscenze che sino ad adesso ha simbolicamente ripiegato nella valigia che si porta incessantemente appresso. Sin da bambina ho sempre ragionato per immagini. In casa avevamo molti libri d’arte e trascorrevo gran parte del tempo a sfogliarli. Ritagliavo le immagini che più mi parlavano e con esse, a poco a poco, tappezzai il muro della mia camera. Lo faccio tutt’ora. Non riesco a distinguere la parola scritta dall’immagine; per me entrambe sono icone. Il mio percorso artistico è iniziato con la pittura, proseguito con installazioni su carta giapponese di poesia visiva e poi – naturalmente, come se fosse inevitabile – il tutto è confluito nel ritorno all’immagine. Considero la fotografia e il video due processi comunicativi che mi permettono di sintetizzare armonicamente il lavoro sino adesso compiuto. In definitiva, non saprei dirti come mi sono avvicinata all’arte. Ci sono nata vicino all’arte.

Numerosi artisti contemporanei – nei decenni – hanno utilizzato il proprio corpo

come medium comunicativo, dando vita ad atti performativi anche estremamente

violenti e masochistici. Come si sviluppa, in te, la necessità di esporre il tuo corpo

al posto dell’opera, in maniera così fortemente concettuale?

Raccontare attraverso il mio corpo e la sua gestualità mi è del tutto naturale perché parto dal presupposto che ciò che nasce è un’immagine di me. Un’immagine filtrata dalla luce che esisteva in quel momento, dalla macchina fotografica, dalla videocamera, dalla post produzione, dagli influssi visivi e testuali che mi parlano. Un’immagine per la quale non utilizzo mai il colore, ma sempre sfumature declinate nella gamma dei grigi perché credo che l’uso del B/N sia già di per sé rappresentazione del reale. Esporre il proprio sé “nudo” significa prima di tutto metterlo a nudo davanti a sé stessi. Si nasce nudi e nudi si è più forti. Alla mia fisicità è affidato il ruolo di un’immediata comunicazione che, come in un atto di genesi, avviene. Il tutto senza la nevrosi di un’indagine insistente sul proprio io. Del resto la maggior parte dei miei lavori nascondono una specie di cortocircuito: la me-di-

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quel-momento non appare quasi mai in maniera pienamente visibile. Si crea, quindi, un corpo spesso frammentato, che non smette di dissolversi, di essere predatore del proprio sé mediante gesti sottrattivi. È fenomenologia d’una presenza assente. Di un’assenza presente.

Spesso il tuo corpo è stato definito “malato”, perché non rispondente ai canoni

attuali della bellezza. Tu hai sempre contestato questa definizione, ma credi che una

fisicità più “morbida” rispecchierebbe le necessità della tua arte?

Partirei dall’antipatico (ma tant’è) concetto che qualsiasi essere organico, dacché viene al mondo, è già di per sé malato. Esposto alle logiche fisiche terrene altro non è che compendio di radicali liberi destinato a soffocare. Questo in generale. Potrei rilanciare chiedendo quali siano i canoni attuali di bellezza e di salute, solo che non credo ai canoni. Credo, invece, che un corpo magro (o grasso) non sia necessariamente sinonimo di malattia o assenza di bellezza e che ogni corpo “offeso” sia bestemmia e oltraggio alla creazione. Ogni corpo è splendido perché, prima di essere giudicato adeguato o meno a dei canoni studiati a tavolino per renderlo più commercializzabile, è un misterioso compendio di linee, di piani concavi e convessi. A me interessa questo. Il mio corpo mi ricorda quanto possa provare dolore, piacere, gioia. Essendo così in contatto con lui, mi rimane veramente poco tempo da dedicare a chi sostiene che possa essere “malato” perché difficilmente collocabile in una casella da barrare con una generica “X”. Non credo che una fisicità più “morbida” rispecchierebbe le necessità della mia arte, per il semplice motivo che – adesso, considerato il corpo che ho adesso – non sarei io, quindi non sarebbe la mia arte, ma l’arte di un’altra artista.

Le tue performance sono spesso legate a intime proteste sulla mancanza di

controllo nella propria vita e recentemente hai iniziato un percorso strettamente

legato allo studio della memoria. Quanto influisce la tua vita privata sulla tua arte?

Ognuno di noi ha una biografia. La mia è particolarmente romanzesca, ma nel tempo ho imparato a guardare con gratitudine e riconoscenza al mio passato perché mi ha reso la donna e l’artista che adesso sono. Non si può (né si deve) avere sempre tutto sotto controllo. Riesco a sorridere solo perché prima ho imparato a piangere. Parafrasando Walt Whitman ho succhiato e continuerò a succhiare il midollo della vita. La mia vita privata è quindi tutta nella mia arte perché semplicemente parlo di lei. Ti racconto una storia. Come questa storia debba essere ascoltata per rendere grazia al tuo cammino. Forse vedi qualcosa che assomiglia a qualcosa che ti ha attraversata e quindi sai di cosa parlo e ti ri-conosci. E impari la misura. La misura cioè di quanta parte del tuo corpo sei in grado di perdere continuando a riconoscere te stessa. Questo si lega necessariamente a un discorso più complesso sulla memoria. Il pensiero comunica con il corpo e scrive su di esso le proprie emozioni, recuperando incessantemente i contenuti della memoria. Dal mio punto di vista l’idioma del corpo è l’inesplicabile linguaggio della memoria.

Parlami del progetto “Tessere memoria” a cui stai lavorando.

Si tratta di un lavoro creato a partire da fogli strappati da un taccuino sui quali sono stati scritti a macchina alcuni miei ricordi. Su ogni foglio c’è stato un intervento manuale di cucitura e di montaggio di fotografie. Il titolo allude a un gioco di parole: “tessere” nel

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senso di intrecciare e nel suo significato di elemento materico. L’installazione finale crea una compenetrazione fra parola e immagine avvalendosi delle simbologie insite nell’ago e nel filo da cucito. Un filo che unisce e al contempo dipana attimi riaffiorati alle mente, qui voluti fissare quasi a imperitura memoria. Lo considero un progetto aperto: in esso faranno la loro conoscenza accenti provenienti dal mio passato e nuove esperienze. É dunque un lavoro molto complesso che implica anche un inevitabile coinvolgimento emotivo. Un lavoro di pazienza che non richiede fretta.

Qual è il senso della tua arte? Credi abbia un effetto catartico su di te o è

semplicemente il risultato di un tuo percorso interiore?

Non ho mai creduto all’arte come terapia. All’arte consolatoria. E temo che difficilmente inizierò a crederci. Per amor di scenario potrei rispondere che il senso greco di catarsi mi è molto vicino, ma quando lavoro se accade una catarsi, accade per caso. Non la ricerco. Non sono certo il tipo che inizia un lavoro sperando di ricevere alla fine di esso una “liberazione” da chissà quale demone. Io sono amica dei miei demoni. Non sarei ciò che sono senza di loro. Il terreno sul quale poggia il mio fare arte, quindi, più che della catarsi è quello della metamorfosi (che è poi il substrato di ogni mio lavoro). Anzi: del dolore che ogni metamorfosi richiede, esige. Sto imparando che il dolore non tollera forma e che quindi fa irruzione una specie di forza straniera che disordina la respirazione del corpo. Ricerco costantemente il dare forma al dolore senza farne la mostra. Emanandolo, traghettandolo mediante gesti che nascono in lotta con il respiro. Il senso della mia arte è concentrato in questo e nella coscienza di un corpo inteso come confine. Confine non nell’accezione negativa di essere “confinati”, ai margini, alienati, ma nell’accezione espansiva di linea netta, forte e presente di demarcazione fra il “sé” e il resto del mondo. Un confine fra pelle, struttura e spazio. Si tratta di essere contemporaneamente pensiero, carne, immagine e luogo dell’opera d’arte. Tanto che il soggetto diventa immediatamente plurale. In qualche misura archetipico.

Sei la compagna di Alessandro Amaducci, videoartista molto noto nel settore, col

quale spesso collabori. Quanto la sua arte ha influito sulla tua?

Io e Alessandro ci consideriamo un Rebis Alchemico. Condividiamo arte e vita con impulsi simbiotici che sono però vitali e non soffocanti. Abbiamo entrambi molto rispetto dei percorsi individuali, delle proprie inclinazioni, dei propri tempi e spazi. E questo è già di per sé un miracolo. Lui e la sua arte mi hanno permesso di essere libera e di creare ciò che realmente desideravo. Il fatto che ci confrontiamo pressoché quotidianamente non può che accrescere l’entusiasmo e la reciproca conoscenza. Alessandro mi esorta a non aver paura, a portare avanti un progetto anche se ho dei dubbi. «Lo devi fare se senti un impulso. Non è detto che poi l’esito sarà positivo, ma lo devi fare!», questo è ciò che mi ripete spesso. La sua arte mi affascina perché è simile per poetica alla mia (entrambi lavoriamo sul corpo), ma con esiti di frequente dissimili. Questo è molto stimolante perché sottolinea quanto una radice comune possa far sviluppare gemme diverse. Quando facciamo incontrare la nostra estetica e la nostra poetica è un ulteriore momento di crescita per entrambi. Ognuno mette un po’ di ciò che è nella creatura in gestazione e solo quando i nostri linguaggi trovano un’euritmia inedita ma complementare, sentiamo il vagito.

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Qualche anticipazione su progetti futuri?

I progetti sono infiniti e plurimi. Una casa-laboratorio con grandi finestre dalle quali pare entrare tutta la luce del mondo. Portare avanti, sempre più avanti, la ricerca sulla metamorfosi e la memoria del corpo cercando un ibrido poetico nel quale far incontrare parola e immagine. Realizzare un lavoro più intimo sul senso dell’avere radici, sull’origine dei miei occhi dopo che ho scoperto ignote somiglianze, da parte del ramo paterno, grazie a una zia conosciuta da poco. Arricchire di nuova linfa vitale i progetti con Alessandro Amaducci. Dal futuro mi aspetto molto, ma non ho ansie nei suoi confronti. Ho voglia di godermi appieno anche il presente e soprattutto ho voglia di non smettere mai di imparare.

Siti di riferimento:

Video: Eleonora Manca on vimeo. Fotografia: Eleonora Manca on photovogue.