eleonora d'arborea

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Scrittori di Sardegna

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Camillo Bellieni

ELEONORA D’ARBOREA

nota introduttiva di Antonello Mattone

Riedizione dell’opera:

Eleonora d’Arborea, Cagliari, Il Nuraghe, 1929

Periodico quindicinale n. 28del 24-03-2004Direttore responsabile: Giovanna FoisReg. Trib. di Nuoro n. 1 del 16-05-2003

Stampa: Lito Terrazzi, Firenze, febbraio 2004

© Copyright 2004Ilisso Edizioni - Nuorowww.ilisso.it - e-mail [email protected]

ISBN 88-87825-91-2

NOTA INTRODUTTIVA

Quando nel 1929 venne pubblicato a Cagliari il volu-metto su Eleonora d’Arborea nella collezione “Uomini illustridi Sardegna” delle Edizioni della Fondazione Il Nuraghe diRaimondo Carta Raspi, Camillo Bellieni – figura di rilievonazionale nel movimento combattentistico e fondatore nel1921, insieme a Emilio Lussu, del PSd’Az – aveva trentaseianni ed era considerato il maggior teorico del sardismo.

La critica storiografica ha colto l’importanza della rifles-sione teorica di Bellieni nella vita politica italiana degli an-ni 1919-25. Secondo Giovanni Sabbatucci egli è stato «unodegli ideologi più acuti e brillanti della sua generazione, noninferiore a un Dorso o a un Gobetti, ai quali lo legano molteaffinità politiche culturali».

In effetti, l’elaborazione di Bellieni appare ancor oggiestremamente originale. La sua lucida analisi sulle vicendestoriche, l’insularità geografica, la natura mediterranea dellaSardegna giunge all’amara conclusione che l’isola sia una na-zione irrisolta, o meglio una “nazione abortiva”, nella quale,pur essendovi le premesse etniche, linguistiche, le tradizioniper uno sbocco nazionale, sono mancate le condizioni storichee le forze motrici per un tale processo. Egli è stato uno dei pri-mi a considerare l’autonomismo, con largo anticipo sulle mo-de correnti, un problema tipico di quelle “etnie” e di quelle“nazionalità”, come la Catalogna, la Corsica, l’Irlanda, com-presse da formazioni statali egemoni, più coese e più forti.

Nonostante l’impianto essenzialmente salveminiano dellasua analisi sulle cause economiche ed istituzionali della que-stione meridionale, Bellieni era, però, convinto dell’esistenzadi un’aurorale civiltà mediterranea ormai scomparsa, inghiot-tita dal modo di produzione capitalistico, con forti tratti co-muni da regione a regione, che in Sardegna si manifestavanelle strutture tradizionali della vita del mondo agro-pastorale.

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del volto, attraverso gli scarsi documenti del tempo». Tutta-via, il suo tentativo appare pienamente riuscito: attraversoun accurato spoglio delle fonti (mancano ovviamente quelle,allora sconosciute, dell’Archivio della Corona d’Aragona) eun’ottima conoscenza della letteratura storiografica, Bellienioffre un vivo quadro delle vicende del tempo e del ruolo dellagiudicessa di Oristano. Un’ampia trattazione viene dedicataalla Carta de Logu d’Arborea in cui coglie un “acutissimoprofumo di vita sarda” che rivela le “millenarie tradizioni”che conferiscono al codice un “singolare colore arcaico”. Ma lasua analisi non si arresta ai contenuti giuridici dello statutotrecentesco: «Noi abbiamo cercato di far sentire – afferma –il profumo di intensa poesia che si sprigiona da questo vec-chio libro. È la Sardegna che ci si presenta viva dinanzi agliocchi, scorrendo queste ingiallite pagine, la Sardegna con ilsuo silenzio profondo, la brughiera verdebruna, l’acuto odoredi mirto, di lentischio, d’asfodelo».

Dedicato alla moglie Margherita Ciampo, il volume suEleonora rivela una straordinaria felicità di scrittura. Valgacome esempio questa suggestiva descrizione di Castelsardo: «Seil giorno è alto, dalla montagna colorata d’oro, e tutta immer-sa nel silenzio, si proietta sul mare un’ombra che trasforma incupo persio l’azzurro ricco di luci e di baleni. Se il sole è al tra-monto, il greppo gigantesco, sullo sfondo argenteo del mare,appare sfolgorante di oro e di rosso con grandi ombre violette».

Dopo la caduta del fascismo, pur partecipando nell’isolaalla rifondazione del PSd’Az, Bellieni – che era stato conside-rato, per la sua lucidità politica e per il suo spessore culturale,uno dei più acuti pensatori della sua generazione – si ritirò(con periodici ritorni alla sua casa nella campagna sassarese) aNapoli; qui, nella città che negli anni ’50 aveva eletto a suaresidenza definitiva, appartato e quasi dimenticato, morì il 9dicembre 1975. La Sardegna, che ne accolse la salma a Sassariavvolgendola con la vecchia bandiera dei Quattro Mori, avevaconquistato l’autonomia, ma non era riuscita a mostrare lagiusta riconoscenza ad uno dei suoi più illuminati profeti.

Antonello Mattone

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Nel 1923 Raimondo Carta Raspi, giornalista, libraio,editore, dava vita al mensile Il Nuraghe. Rassegna sarda dicultura (tiratura di 2.500 copie), di chiaro orientamento sar-dista. Bellieni fu uno dei primi collaboratori della rivista,pubblicando, tra il 1924 e il 1926, i profili di Emilio Lussue di Attilio Deffenu, riediti poi nella collana che aveva il si-gnificativo titolo di “Le avanguardie di Sardegna”; negli stessianni – nonostante i sempre maggiori impegni politici comedirigente del PSd’Az ed editorialista de Il Solco – egli trovavail tempo di pubblicare a puntate su Il Nuraghe i “Lineamen-ti di una storia della civiltà in Sardegna” che tracciavano unpregnante quadro delle vicende dell’isola dalla preistoria al-l’età Bizantina con finalità di alta divulgazione. Questi arti-coli sono alla base de La Sardegna e i Sardi nella civiltà delmondo antico, edito in due volumi nel 1928 nella “Colle-zione storica de Il Nuraghe”, sicuramente il suo lavoro piùmaturo ed importante, composto in un serrato confronto conle tesi nazionaliste di Ettore Pais e concepito come una sortadi “ritorno alle radici”. La storiografia dell’Italia fascista pun-tava, infatti, ormai, ad una lettura forzatamente nazionalistae imperialista della “romanità”. Bellieni poi non era uno sto-rico accademico: la sua opera pubblicata da un piccolo editoredi provincia fu sottovalutata e a lungo ingiustamente ignora-ta. Con la dittatura fascista, che lo destituì dall’impiego pub-blico, iniziava un lungo calvario di privazioni e di amarezze.

Proprio in uno dei momenti più bui della sua esistenza,Bellieni ricevette dall’infaticabile Carta Raspi la proposta discrivere un agile profilo biografico di Eleonora d’Arborea perla collezione de Il Nuraghe dedicata agli “Uomini illustri diSardegna”, nella quale – tra il 1924-26 – erano già statepubblicate le biografie di Gianfrancesco Fara di Egidio Pi-lia, di Giovanni Siotto Pintor di Filiberto Farci, di Vitto-rio Angius di Francesco Loddo Canepa.

Bellieni è pienamente consapevole delle difficoltà di unaricostruzione biografica basata soltanto su scarni ed esigui ma-teriali documentari: «Circondata da un velo d’ombra ci appa-re la grande figura di Eleonora d’Arborea; ed invano noi cer-chiamo di distinguerne i lineamenti, di precisarne l’espressione

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A Margheritacompagna affettuosa e gentile

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UN VOLTO IN OMBRA

Circondata da un velo d’ombra ci appare la grande fi-gura di Eleonora d’Arborea; ed invano noi cerchiamo didistinguerne i lineamenti, di precisarne l’espressione delvolto, attraverso gli scarsi documenti del tempo. È unvolto misterioso, per metà fasciato di nero, che lascia solovedere gli occhi lucenti, dallo sguardo vigile e deciso. Re-stiamo insoddisfatti, nella nostra curiosità, ma compren-diamo che non si tratta di una donna comune.

In questo ambiente storico crepuscolare, dietro unaleggera cortina di nebbia, la figura di Eleonora guerriera elegislatrice si profila come una massa bruna gigantesca eimponente. Gli scrittori isolani del periodo 1840-1870 siavvalsero dei documenti del tempo, delle narrazioni di sto-rici spagnoli o sardi ligi al regime allora vigente, per farneun tipo di eroina romantica, da ballata del Berchet o delCarrer; e dove mancavano le fonti si appoggiarono a do-cumenti creati dalla loro fervida fantasia. TrasformaronoOristano in una Arles sarda, dove si cantava di guerra ed’amore e s’insegnava una gaia scienza che al volgare pro-venzale sostituiva quello del Campidano Maggiore; e lapovera casa regia di Mariano e di Ugone, che gli ambascia-tori francesi del duca d’Anjou avevano guardato con di-sprezzo, divenne un fastoso castello splendente di luci, do-ve si adunavano cavalieri coperti di ferro e d’argento perpartecipare a giostre e corti d’amore, e trovieri e menestrel-li facevano echeggiare i mesti accenti delle loro mandòle.

Avevano così ansiosa cura codesti scrittori della per-fetta linea e profilo di dama trecentesca, attribuiti adEleonora, da arrivare a inventare un maestro di lettere ita-liane e latine tutto dedito all’educazione della giovinetta,che era stata compiuta in maniera esemplare; erano cosìpersuasi della sua necessaria avvenenza, da fabbricare dei

E la Kahena giacque con la spada nel pugno su una mon-tagna di cadaveri e di bestie uccise o malvive, abbandona-ta nel mistero della notte dai suoi cavalieri che si erano di-spersi sotto l’incalzare delle raffiche arabe.

Molto vicina a questa virile signora di Berberi ci sem-bra la nostra Eleonora, anche se non abbia il capo cintodall’aureola sanguigna del sacrificio sul campo di batta-glia. Ché essa non temette la morte, e l’attese più voltenella mischia con occhi fermi ed aperti. Ma la stessa deci-sa energia, il medesimo imperio, eguale fascino sulle mol-titudini di ingenui fedeli. E analoghe furono le condizio-ni di vita se si tien conto degli stretti legami fra il piccolomondo sardo e la civiltà africana, durante l’età vandalica ebizantina, e se si ripensa che Rum-Afarica berberizzantichiamò Edrisi nel Kitab muzhat’al mustaq, i Sardi, tre se-coli dopo la caduta di Cartagine; comuni le tradizioni e icostumi, se si vuole intendere il significato delle istituzio-ni giuridiche e sociali del popolo sardo nell’Alto Medioe-vo, quando il suo spirito fruttificò in solitudine.

Ma nella donna sarda una più alta e serena umanitàche si rivela nell’attività legislativa, ed una più ricca espe-rienza di vita, offerta dai rapporti con l’ambiente politi-co-economico ligure e quello forense-feudale aragonese,esperienza mediterranea d’una età tempestosa, ricca d’av-venimenti come la seconda metà del secolo XIV. Guer-riera e legislatrice, ha una precisa visione sintetica dellecomplesse condizioni sociali ed economiche del suo po-polo in modo da rendere ad esse adeguate le norme giu-ridiche. In lei la semplicità della madre di famiglia pa-triarcale, occupata nelle ordinarie faccende domestiche;ma al tempo stesso l’aspetto severo della domina che incaso di morte o di assenza del marito, tiene in pugno lafamilia; e, dalla fosca e alta sedia di quercia scolpita, rice-ve l’omaggio dei figli che si piegano alla sua autorità, del-le serve che l’hanno sempre conosciuta assoluta padrona,dei pastori e contadini che vedono nel suo volto la stessaenergia e risolutezza del consorte scomparso o lontano.

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versi in sardo che ne celebravano la slanciata figura e il fa-scino del sembiante. Ahimè, noi non sappiamo se Eleo-nora fosse bella o brutta, se colta oppure aliena dagli oziletterari, ma in compenso riusciamo ad intravvedernel’inquadratura decisa e possente di domina sarda, il gestorisoluto ed autoritario, tutto il fare da sovrana.

Eleonora non si può avvicinare alle ideali figure diMadonna, dai capelli biondi, e dagli occhi cerulei cele-brate dalla lirica provenzale o dal misterioso dolce stilnuovo; essa può solo trovare somiglianza e confronto inaltre donne guerriere dal volto bruno, pronte a balzare acavallo, abili a scagliare la lancia, nate in una terra affeb-brata come quella dei gialli campidani.

Ibn Caldun, nella sua storia del popolo berbero, ci nar-ra la strenua resistenza dei latino-africani collegati con letribù berbere dell’interno alla invasione araba. Era una lot-ta impari contro i cavalieri velocissimi che a migliaia inbianchi stormi spuntavano all’orizzonte, e in preda a reli-giosa follia si precipitavano con le scimitarre levate sugliavversari. Si succedevano senza tregua ad ondate come ma-re travolgente. Alla testa di tutti i berberi cristiani era laKahena, la regina guerriera dell’Auraso, che aveva alzato lostendardo di libertà della terra africana. La lotta continuòper anni, tenace, sanguinosa; ma anche quando il patrizioGiovanni dovette abbandonare Cartagine nelle mani deicavalieri del deserto, e, levate le ancore, partì con la suaflotta verso l’oriente, recando seco gli aurei simboli dell’an-tico potere romano sulla terra africana, e nel cuore losconforto per la rovina irreparabile d’una così luminosa ci-viltà, le fiere tribù berbere non si diedero per vinte; si rac-colsero sulla montagna, e si disposero a vendere cara la vi-ta. Anche allora la bruna regina raccolse nuovi trionfi, puressendo ormai rimasta con pochi fidi. La sua disperata re-sistenza continuò sino a che non giunse la morte liberatri-ce sul declinare d’un giorno di battaglia, mentre un rossotramonto illuminava di barbagli sinistri i grovigli d’uominie di cavalli che s’urtavano e confondevano nella mischia.

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BRANCALEONE D’ORIA

A chi venga da Sassari, su la strada che si svolge si-nuosa presso la bianca spiaggia che è l’estremo limite del-l’isola, oltrepassata la verzura quasi tropicale dei dintornidi Sorso e le sue fertili terre, appare di lontano, gettato sulmare, quasi staccato dal lido, il ciclopico macigno su cuis’erge il castello circondato da piccole case, che un tempoprese nome da Genova, poi da Aragona, e che ora è ri-consacrato alla piccola patria.

Se il giorno è alto, dalla montagna colorata d’oro, etutta immersa nel silenzio, si proietta sul mare un’ombrache trasforma in cupo persio l’azzurro ricco di luci e dibaleni. Se il sole è al tramonto, il greppo gigantesco, sullosfondo argenteo del mare, appare sfolgorante di oro e dirosso con grandi ombre violette.

Paese in cui la storia segnò le sue orme, Castelgenove-se. Vi posero lor signoria i Doria, figli di mercanti genove-si e di donnicelle sarde, impastati di ligure tenacia e di regioorgoglio, malfidi, violenti, affezionati alla terra sarda, sper-giuri e bestemmiatori, potenti a Bonifacio, oltre lo stretto,sempre in continuo traffico fra Sardegna e Corsica, fraCorsica e Genova; pronti all’intrigo nella città d’originedove scoppiano violenti gli odi di fazione e le vendettepersonali, e all’intrigo in terra sarda, prima ai danni dei Pi-sani, ora degli Aragonesi. Castelgenovese, con il molteplicecerchio delle sue brune mura, edificato su una penisolache strapiomba sul mare con pareti scabre e inaccessibili,popolato di gente fidata, ben fornito di grano di cui sonoriempiti sino al colmo gli ampi recessi della fortezza, sboc-co della fertile Anglona, è la chiave di volta del sistema didominio di casa Doria, il perno della tenaglia che stringecon morsa ferrea il Logudoro; l’ultimo propugnacolo della

Figura di donna isolana ancora attuale, che salta d’unbalzo a cavallo, impugna le redini, e, oggi col fucile infis-so sulla sella, allora col pugnale e la balestra, circondatada armati, va per sentieri rupestri, per balze montane,per valli incassate e raccolte, o aperte come un infinitorespiro, a dare un colpo d’occhio sui suoi possedimenti,perché tutti si ricordino di portarle a casa, nel giorno fis-sato, censi e tributi.

Prudente e saggia nell’arte di governo, perché abitua-ta all’amministrazione del patrimonio, e quindi acuta eprecisa nella formulazione dell’ordine, che deve essere datutti inteso e deve raggiungere quel determinato fine. Sache occorrono pene severe contro i pastori che invadonocon le loro greggi i campi ove ondeggia il frumento, sacome colpire il ladro di bestiame, e quando tagliare unorecchio, troncare una mano, estirpare un occhio.

Sposa fedele, affezionata al marito, ma più al fruttodel suo sangue. Sovra tutto madre gelosa come una fiera,pronta ad azzannare chi le tocchi la prole. Sarà probabil-mente la forza di antiche istituzioni di matriarcato, scom-parse da secoli, ma rivissute come impulso e fervore nelsangue, sarà l’indistruttibile istinto materno, certo cheEleonora preferisce la guerra con gli Aragonesi, tormento-sa e incessante, alla resa ignominiosa, alla consegna delsuo primogenito al re don Pietro, e disobbedisce agli invi-ti del marito che dal carcere la scongiura di cedere, diporre tutto nelle mani del sovrano, perché possa recupe-rare la sua libertà. È la domina figlia di Mariano, sorella diUgone, dall’orgoglio senza limiti, dallo sguardo severo,che appare nel mondo morale sardo con un gesto d’impe-rio. Per un sacro ideale, per la giustizia, parola che ha riso-nanza nel cuore di ogni Sardo, sorgono dai campi a mi-gliaia i guerrieri, e si stringono attorno a lei, pronti allamorte, dimentichi delle miserie e dei sacrifizi passati. LaSardegna è per molti anni uno spaventoso braciere chedivampa dal Campidano alla Gallura, come una gigante-sca offerta a Dio, del dolore di migliaia di madri.

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Brancaleone nella prima giovinezza aveva combattutocontro gli Aragonesi, insieme agli altri consorti della fa-miglia D’Oria; per i primi essi si erano ribellati alla siste-matica penetrazione ed estensione del nuovo ordinamen-to politico (creatore di una serie di privilegi diversa daquella già esistente) e avevano inflitto sanguinose sconfit-te alle truppe iberiche, ignare del terreno, e delle insidieche in esso si nascondevano, e che venivano preparatedalla agile tattica dei Sardi. Quando poi il più fedele di-fensore di Aragona, Mariano d’Arborea, diventò anche luiribelle, la famiglia D’Oria gli si era alleata, e approfittan-do delle incertezze in cui si trovava don Pietro il Cerimo-nioso per la guerra di Castiglia, aveva rioccupato nel1356 Casteldoria, ch’era stato alcuni anni prima espugna-to dal luogotenente Rambaldo di Cervera.

Erano i giorni in cui più alta risuonava la fama di Ma-riano d’Arborea. Le diverse potenze nemiche d’Aragonaguardavano con interesse questa lotta impari fra un regolorurale e la monarchia feudale e marinara, ricca di mezzimateriali e di energie morali, lotta in cui la peggio era spes-so d’Aragona. Lo stesso pontefice, irritato dalla mancanzadi scrupoli del re, ch’era arrivato al punto da sequestrare asuo profitto le rendite ecclesiastiche, minacciava di toglier-gli l’investitura del regno per darla a Mariano. Il re era de-ciso a farla finita con questo molesto ribelle, e aveva inviatonell’isola un esercito al comando di don Pedro de Luna.Appena sbarcati, insieme a tutte le altre genti alleate raccol-te a Cagliari, erano andati in cerca del giudice per la Sarde-gna, come se dovessero scovare un cinghiale. Mariano, perquanto disponesse di molte forze, non volle affrontarli inbattaglia campale, e si rinchiuse in Oristano. La città fu as-sediata dagli Aragonesi. La partita di caccia si era svoltacon tutte le regole, e i battitori si erano sparsi nelle vicinan-ze, forse in cerca di vettovaglie, quando il cinghiale accer-chiato balzò dal suo nascondiglio. Con tutti i suoi cavalierisi precipitò sul quartiere generale, annientò la guardia pocovigilante, distrusse l’accampamento. Nella mischia furono

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strenua difesa, quando la potenza dei donnicelli liguri saràtramontata; la rocca a cui si aggrapperanno con adunchemani e con disperata tenacia, prima che l’irresistibile spin-ta aragonese li precipiti in mare.

Allora no, allora, nella seconda metà del XIV secolo,la potenza dei Doria su quelle regioni era incontrastata.Ancora i trabaccoli genovesi venivano ad attraccare al pic-colo porto, e si crogiolavano là, nel breve specchio d’ac-qua, ben fitti, carichi di mercanzie, stoffe diverse, fusta-gni, baldinelli, velluti, sai, canevacci, piccoli oggettipreziosi, oggetti necessari al vivere civile, droghe, pepe, vi-no ed olio, che venivano scambiati col grano, le pelli, lecarni, i filati di lana e i tessuti d’orbace, e gli altri rusticiprodotti della terra sarda.

E nelle viottole dell’Anglona, tracciate dai solchi dellegrandi ruote piene, avanzavano, da villaggi lontani, versoCastelgenovese, carri pesanti tirati da buoi, su cui si accu-mulava la merce attesa dai mercanti di oltremare. Dal ca-stello poi partivano i Genovesi colà residenti, a cavallocon ampie bisacce, gonfie di campionari d’ogni ben diDio, e penetravano nelle regioni del Monteacuto, dellaGallura, nelle Baronie ardenti di febbre, nelle misterioseBarbagie, a concludere affari, a mostrare sul posto i pro-dotti d’Italia, a stabilire nuove relazioni d’interessi fra gen-ti che non conoscevano la strada che conduceva al piccoloporto quieto. Tutto ciò, naturalmente, quando lo permet-tevano le condizioni incerte dell’isola che si dibatteva nel-la guerra civile, e, dove erano presidi aragonesi, quando siristabiliva la concordia fra i due accaniti nemici sul mare,Aragona e Genova.

In questo castello abitava Branca Leone D’Oria, signo-re di Castelgenovese, Casteldoria, Monteleone e Roccafor-te, della città di Bisarcio e delle regioni di Nurcara, CabuAbbas e Anglona; come tutti i suoi, nobile ligure meticcia-to di sardo, ardito cavaliere, cupido uomo d’affari e grandemaneggione negli intricati e misteriosi sviluppi della poli-tica sarda. Egli era marito di Eleonora d’Arborea.

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giudice, devastandole, e attaccata battaglia con le truppearborensi, le scompiglia e le mette in fuga. Nell’anno se-guente Mariano, assalito da forze schiaccianti, era costrettoad abbandonare Sassari. L’obbiettivo dei D’Oria era ormairaggiunto, ed essi accettavano perciò con sollecitudine l’in-vito del re che, non potendo mantenere la promessa dimandare aiuti, consigliava un armistizio con gli Arboren-si, da denunziare in primavera. Ed in seguito il Doria simanteneva fedele ad Aragona, anche quando in uno sfor-zo supremo Mariano tentò di conquistare contempora-neamente Alghero e Cagliari. Gli Arborensi si erano infil-trati in Lapola, nel suburbio di Cagliari, e si combattevaaspramente per ricacciarli; gli assalitori erano efficacemen-te sostenuti da una flotta genovese al soldo del giudice, eguidata dal figlio Ugone. Nuovi rinforzi giunti d’Aragonaristabilirono la situazione. Alghero era stretta da presso.Brancaleone mostrò in quella occasione l’importanza delsuo intervento e l’utilità della sua amicizia con il re. Li-berò Alghero da l’assedio e portò l’ordine e la quiete intutto il settentrione.

Passarono gli anni. I difensori del castello di Cagliaristanchi ed ammalati, pativano una gran fame perché asse-diati da terra, e bloccati dalla flotta arborense sul mare; es-sendo privi ormai di cavalli e di bestiame, senza mezzi perrifornire le rocche di S. Michele, di Chirra, Acquafredda,Gioiosa Guardia, avevano intenzione di dar fuoco al ca-stello per disperazione, ed avvertivano il re che in tal casonon fossero considerati come traditori. Il re comprese l’av-viso, e spedì una flotta che liberò Cagliari dal blocco ma-rittimo. Ma Ugone di Arborea continuava a correre suimari, dando l’assalto a tutte le navi che portavano vettova-glie ai soldati spagnoli in Sardegna. Nell’isola tormentatada tanti anni di guerra estenuante compare la peste. Ma-riano muore. Gli succede Ugone, il terribile suo figliuoloche quasi riusciva a impadronirsi di Cagliari. Anche que-sto giudice ha la sua ora di fortuna; occupa il contado diChirra, estendendo così il suo dominio a quasi tutta la

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uccisi il luogotenente generale della Sardegna don Petro deLuna, suo fratello Felipe, altri molti ricos hombres spagnuo-li, e molti furono fatti prigionieri.

La vittoria presso Oristano suscitò una profonda econell’isola e fece dovunque divampare la ribellione. GliAragonesi furono costretti a chiudersi in Alghero, Cagliarie qualche altro castello. Grande fu la costernazione inIspagna, giacché le popolazioni sentivano un insopporta-bile gravame per le contribuzioni ordinarie e straordinariedovute in occasione di questa guerra, e disprezzavanoquella conquista che tanto era costata al regno, e per cuinon vi era nobile famiglia che non avesse perduto qualchesuo componente nelle guerre passate. Ricorda lo Çurita:Dezian que dexasse el rey a Cerdeña para los mismos Sardos,pues era una tierra miserable y pestilencial y la gente dellavilissima e vanissima: y que fuesse guarida para los cossariosGenoveses y poblacion de los desterrados y malhechores. Quepremio eran sus bosques y montañas llenas de fieras, en ven-gança de tantos y tan excellentes cavalleros, como avianmuerto en su conquista y defensa, y que recompensa de tanestrago de gente? Que devia considerar el rey que no era lacontienda por la isla de Sicilia, ni por los campos fertiles yabundosos de Jorgento y Lentin, sino por lo yermos y estañosde una isla, cuyo ayre y cielo era pestilencial.

Il re però la difendeva come la gemma più preziosadella sua corona. Mariano intanto, profittando della si-tuazione favorevole, estendeva il suo dominio sul Logu-doro e occupava Sassari (1369).

L’allargarsi dell’autorità del giudice d’Arborea sul Ca-po di Sopra doveva necessariamente suscitare la diffidenzae il risentimento dei D’Oria, che consideravano il Logu-doro come terra di loro dominio e influenza. Sono diquesto periodo le intese fra Brancaleone D’Oria e Dalma-zio Iardino, governatore di Logudoro, per un’azione com-binata contro gli Arborensi.

Brancaleone, decorato dal re dell’aurea insegna del-l’Ancora, si lancia nel 1370 con un esercito nelle terre del

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ATTESA SERENA

A questo punto vediamo apparire finalmente la mo-glie de l’ambiguo signorotto ligure. Eleonora è rimastasinora nell’ombra; con ogni probabilità attendeva all’am-ministrazione del vasto patrimonio comune, mentre ilsuo compagno era tutto preso nel giuoco della politica edella guerra. Essa vive in quella parte della Sardegna nordorientale dove non s’ode allora strepito d’armi. Il fuocodivampa ancora nel Basso Campidano, e sono scorrerie dicavalieri catalani usciti di Cagliari per sgranchirsi e menarle mani, e sono imboscate tese dagli Arborensi alle caro-vane che si recano a portare vettovaglie ai castelli dell’Igle-siente e della Marmilla. Ma in realtà niente di memorabi-le nel quadriennio 1378-1382, salvo l’insurrezione inCorsica che si svolge con carattere disorganico e scompi-gliato.

Si continuava a restare sul chi vive? e tanto nel mirabi-le sistema fortificato, creato in faccia al golfo degli Angelidalla sapienza e genialità costruttiva dei Pisani, quantonella vasta città di fango e di paglia, cinta anch’essa dimura, dove risiedeva il giudice, si dormiva con un occhiosolo.

Maggiore serenità invece nelle pingui terre d’Anglo-na, dove all’inizio di estate ondeggia il frumento comeun tormentato e scintillante mare d’oro. Eleonora dovevasoggiornare spesso in Castelgenovese, giacché al suo traf-fico fervido e continuo erano legati molti interessi di casaD’Oria; pur tuttavia quel borgo non poteva essere per leiun rifugio di calma e tranquillità: insistente era il cigolioe lo stridere dei carri che salivano l’erta, e insopportabileil vociare nelle favelle di Sardegna, Corsica e Liguria, du-rante i giorni di mercato.

Sardegna meridionale; poi si reca a Sassari già rioccupatadal padre, e per affermare il suo potere, conferma gli sta-tuti locali, e vi aggiunge capitoli nuovi. Urbano VI, se-guendo l’esempio dei suoi predecessori, meditava anchelui di dichiarare decaduto Pietro d’Aragona, ed investireUgone del regno di Sardegna. Ma il re prudente armanuove flotte, cerca di tranquillizzare il papa, riconferma lapace con i Genovesi, mai dalle due parti seriamente osser-vata, ch’era stata conchiusa nel 1360 sotto l’arbitrato delMarchese di Monferrato. Tenta di isolare politicamente ilgiudice, ed ottiene qualche risultato.

Non conosciamo esattamente in questo periodo qualefosse l’atteggiamento di Brancaleone D’Oria. È probabileche pur mantenendosi fedele agli Aragonesi, abbia con-servato una prudente linea difensiva senza uscire dai suoidomini. Lo Çurita ed il Fara non accennano alla sua atti-vità durante questi anni dal 1376 al 1383.

Forse questo comportamento si doveva ad alcuneconsiderazioni pratiche non prive di valore, e al sottilefiuto dell’avvenire politico. Non che fosse d’impedimentoal suo agire la delicata situazione in cui si trovava, essendomarito di Eleonora d’Arborea, sorella del giudice. I lega-mi familiari avevano una scarsa influenza nelle vicendepolitiche, e tutt’al più si dava loro peso come interessi pa-trimoniali; le donne seguivano fedelmente le sorti e le for-tune delle case in cui entravano, e obbedivano sia pur dimalavoglia ai mariti, anche quando la vicenda della vita leponeva contro i parenti. Ma in questo caso vi era un nuo-vo fattore da considerare: la scomparsa della figlia di Ugo-ne, le feroci persecuzioni compiute da costui contro il ra-mo collaterale di Arborea, contro Giovanni fratello diMariano, e Pietro figlio di Giovanni, rendevano possibileuna successione del primogenito di Eleonora al trono deltormentato ed irrequieto giudicato.

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Battista Boccanegra genero del doge, per mille fiorinid’oro, Franco Lercario per duemila, Francesco Maruffo,fratello di Andrea, altro genero del doge, per mille. Neldocumento Eleonora non si intitola ancora judicissa, co-me sarà solita più tardi, quando assumerà il potere in no-me proprio e di suo figlio.

Ma in questo contratto già traspare l’alto senno politi-co e la visione chiara dell’avvenire nell’augusta donna. Le-gando Federico ad una figlia del doge di Genova, volevafar convergere su la sua casa un potente complesso di for-ze, che anche per ragioni di proprio utile avrebbero agitoin suo favore. Accordando il credito a questo potente si-gnore, essa manteneva alto il prestigio della sua famiglia,e riconosceva l’importanza di quegli interessi liguri che sistendevano in tutta la zona settentrionale della Sardegna,e davano ad essa un più alto ritmo di vita. Le navi dellarepubblica di Genova facilitavano il respiro mediterraneodell’isola, e sopra tutto erano alimento di forza moraleper gli Arborensi, insorti contro il privilegio aragoneseche inaridiva le energie locali e le conduceva ad una lentamorte per soffocazione. Esse portavano notizie d’oltremare, dalle terre di Provenza, dal regno di Napoli, dallaSicilia, dalla Liguria, sugli avvenimenti di Castiglia, suipatteggiamenti e le pretese del duca d’Anjou, sulle conte-se interne del Regno, sull’ambigua politica di Genova,sulla ribellione e le proteste dei baroni di Sicilia. Metteva-no gli Arborensi a contatto col mondo, ed Eleonora, perquanto fedele al marito, era troppo legata alla sua regalefamiglia, per non sentirlo.

Ma codesta attesa serena della principessa, dedita allacura amministrativa del patrimonio, e all’affetto della suaprole, Federico e Mariano, doveva essere interrotta danuovi improvvisi avvenimenti che non avrebbero piùpermesso la sapiente politica di patteggiamenti e di equi-librio fra il re d’Aragona e il doge di Genova, che avevasvolto Brancaleone, secondato dalla moglie. Costei, tra-scinata dal giuoco del destino, sarebbe stata obbligata ad

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Asilo di quiete e di riposo era invece il Castel Doria,issato su una rupe scoscesa, ad una brusca svolta del ver-de Coghinas, chiuso da una triplice cinta di mura, pontelevatoio, saracinesca e fossati, una gran torre pentagona-le, grandi balconi e terrazza, numerose torri fornite di fe-ritoie e di barbacani. Di lassù si vedeva lo svolgersi dellavallata del fiume, ed il lucido specchio di acque scompa-rire dietro un gomito di montagna; poi la piana di Ozie-ri, nel fondo un po’ nebbioso. Di fianco la giogaia viola-cea e rossigna della Gallura, scabra e diruta, qua e làmacchiata da bruni cespugli di cisto, a precipizio sul fiu-me; e poi di fronte, al Nord, una distesa accidentata incui la gialla ocra si oppone al verde paolo-veronese, fracolline e valloni, sino alla azzurra distesa del mare diCorsica, che riempie l’orizzonte. Nell’estremo occidenteil miracoloso gioiello di Castelgenovese. Eretto sulla ci-ma della rupe battuta dai venti, il poderoso maschio sfi-dava le insidie dei miasmi malarici che germinavano sul-le rive del fiume, e le rendevano inabitabili. Ma lassù eraun vasto respiro.

Forse nella raccolta pace di questo castello, che avevaconosciuto recenti battaglie, ma che ormai non temeval’assalto aragonese, presso il camino, lieto d’ardenti tizzi edi fiamme, della gran sala comune, consegnò Eleonora aFrancesco Del Barbo di Castelgenovese quattromila fio-rini d’oro da recare a Nicolò di Guarco, doge della re-pubblica di Genova. E il 16 settembre 1382 nella salanuova superiore del palazzo ducale a Genova veniva re-datto l’atto di mutuo, con cui Nicolò di Guarco si obbli-gava di fare restituzione della detta somma nel terminedi dieci anni sotto pena del doppio; con la condizioneespressa che, se nel frattempo pervenuto alla pubertà, Fe-derico, figlio di Eleonora e Brancaleone D’Oria, Bian-china figlia del doge avesse con lui contratto matrimonioper verba de praesenti e non potesse poi tal matrimonioeffettuarsi, per causa di morte o per altro caso fortuito,l’atto diventava irrito e nullo. Fideiussori furono il nobile

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IL REGICIDIO AD ORISTANO

Attraversato l’altipiano basaltico-trachitico della Cam-peda, di livello uniforme, un tempo coperto di querciefrondose, il terreno comincia a digradare verso Macomer,bruno-rossigna, che appare sul ciglione. La squallida di-stesa dell’altipiano s’interrompe, la montagna fra balze,dirupi e gradinate precipita verso il piano, e all’orizzontelungo la cresta del Marghine compaiono i profili di severiNuraghes, allineati. Ancora terreno vario, in cui il grigiocinereo del basalto, si alterna con la cupa trachite, limitatoda bassi muriccioli a secco, e poi boschi, acquitrini, densimacchioni, sino a che si apre dinanzi ai nostri occhi l’im-mensa landa del Campidano Maggiore, a destra limitatadal poderoso massiccio del Montiferro; e si prolunga sinoa confondersi con le nebbie del mare. Ridono festosi i vil-laggi sulla groppa ed ai piedi del Montiferru; la terra èscura e feconda, cosparsa di grandi macchie di verde, col-tivazioni a vigneti, a ortaggi; il grano s’erge rigoglioso, edappaiono le prime case rosse, di mattoni crudi, da l’aspet-to africano. Laggiù, presso la fitta rete di stagni, appenaseparati dal mare azzurro da sottili striscie di sabbie, è labianca Oristano, orgogliosa e prepotente signora dellapiana malsana e feracissima. Essa s’asside da dominatricepresso il suo golfo, che descrive un grande arco di cerchio,perfettamente visibile a chi venga dal Nord; è circondatada una vegetazione lussureggiante, e vive di una sonno-lenta vita fisiologica, sovra tutto nell’estate quasi tropicale,quando il cittadino cerca conforto contro l’insidia dellafebbre nel fervido liquore, splendente come un topazio,della vernaccia di Solarussa. Residenza oggi di grossi pro-prietari, come un tempo di majorales, signori di donnika-lias, padroni di schiavi. Ed ancor oggi nello sguardo delpiccolo contadino, abbronzato dal sole, il capo coperto

assumere la parte di protagonista, condottiera di esercitie di popoli, guerriera e legislatrice. La storia si alimentadi passioni e di fede.

Ed Eleonora, fu, nell’adempimento della sua missio-ne, sorretta da una tormentosa passione e da una grandefede.

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Eguale disagio sentivano i mercanti della zona di Ori-stano, esportatori di grano, di formaggio e di bestiame, acui il protrarsi delle operazioni militari, la continua guer-riglia terrestre, la pirateria sui mari produceva gravissimidanni. Di questo malcontento si facevano portavoce i fo-restieri intellettuali, pisani, senesi, toscani in genere, cheesercitavano le arti liberali: notari, avvocati, medici, ed es-si non si peritavano di esprimere le loro ragioni a chiarenote, invece di tacere come facevano prudentemente glialtri. Forse per avere troppo chiacchierato, più che peravere partecipato a congiura, furono mandati a morte dalgiudice irritato i due medici pisani a cui accenna il Troncinelle Memorie pisane, e che avrebbero dato con il loro sa-crifizio la spinta al massacro di Ugone. Certo il malcon-tento era vivissimo. Già dal 1377 un ricco congiunto delregolo, Valore Deligia, aveva abbandonato la causa arbo-rense, ed aveva fatto insorgere una parte del giudicato,sicché era stato premiato dal re con la signorìa del Gocea-no e con molte altre terre e castelli del giudice. Donazio-ne in realtà non congiunta ad effettivo possesso, perchébisognava strappare dalle mani del giudice quel ch’egli te-neva saldamente; ma non priva di valore morale: offrivaun esempio all’attenzione di tutti, ed eccitava le cupidigiedi quanti bramavano onori e ricchezze e invidiavano ilDeligia, favorito del re.

Ma tutto questo non sarebbe bastato a far levare sulpetto del giudice il ferro del sicario. Occorreva una mentedirettiva che ordisse l’intrigo. E l’intrigo fu senza alcundubbio preparato nelle cupe sale della fortezza di Cagliaridai feudatari espropriati costretti a ricoverarsi entro la cin-ta delle mura, smaniosi di una soluzione qualsiasi dellaloro intollerabile situazione; e fu loro intelligente guida ilLuogotenente generale, saggio conoscitore dell’uso di me-todi sbrigativi, per la lunga esperienza fatta in Aragona.L’odio arborense, da stato d’animo, con quest’opera disollecitazione si trasformò in stimolo ad agire, e forse l’uc-cisione dei Pisani colmò la misura e trascinò i congiurati

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d’un fazzoletto che protegge anche il viso contro le trafittedella zanzara malarica, resta un’ombra dell’antica servitù.

In quello scorcio d’anno 1383, Oristano era in tu-multo. Un tragico avvenimento aveva sconvolto tutte leclassi sociali, e ciascuno si domandava con ansia qualinuove terribili conseguenze ne sarebbero derivate.

Ugone d’Arborea, il terribile nemico d’Aragona, pira-ta e condottiero, barbaro e leale, inesorabile contro i tra-ditori, il ribelle contro cui il re aveva sospeso ogni azionea fondo, in attesa del momento favorevole che mutasseuna situazione non ritenuta risolubile dal volere umano,era stato ucciso nel suo palazzo da alcuni congiurati. Dicelo Çurita: Por su fiera y inhumana condicion y naturalezale mataron, executando en su persona todo genero de cruel-dad, de la misma manera que el mandava matar a los quele parecia cruelissimamente.

L’uomo era effettivamente fiero e crudele; desideravaessere obbedito, e non ammetteva nella esecuzione degliordini né la malafede né la debolezza da parte dei dipen-denti. Doveva aver dato esempi terribili, senza alcunapietà. Ma oltre questa scìa di risentimento e di dolore, ri-masta nelle famiglie dei colpiti, vi doveva essere un diffusomalcontento fra i latifondisti del Campidano Maggiore, sucui gravavano carichi finanziari, sempre più opprimentimano a mano che si svolgeva la guerra. Approfittando del-la sospensione della ostilità tra Francia ed Inghilterra avevautilizzato in qualche modesta parte le masse di mercenaridisoccupati, Tedeschi, Provenzali e Borgognoni, che anda-vano errando senza meta nel Mezzogiorno di Francia equalche volta minacciavano di straripare in Aragona e Na-varra. Con i messaggeri del duca d’Anjou aveva Ugoneappunto trattato di questi assoldati che i signorotti nemicidi Aragona si prestavano reciprocamente; ma il loro sti-pendio, dovendo essere corrisposto in moneta, almeno inparte, rappresentava per l’erario esausto una grave uscita, etoglieva il poco medio circolante ad una economia in pre-valenza naturale.

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Oristanesi era l’esempio di Sassari, città di mercanti e diproprietari terrieri, che era stato comune autonomo, e cheancora allora, sia pure in un ritmo più lento, esercitava isuoi commerci con la Corsica e con Genova.

Nessuno di coloro che avevano partecipato alla con-giura per sbarazzarsi di Ugone, aveva desiderio di vedereinfeudata la terra di Arborea a baroni aragonesi o valen-ziani, nessuno bramava che nuovi dazi, nuove gabelle fos-sero introdotti nel mercato oristanese, e nuovi privilegiconcessi a mercanti catalani, e che bestiame, pelli, for-maggi, grano dovessero prendere la via di Cagliari, anzi-ché quella più naturale dei porti della costa occidentale.Gli Aragonesi nel primo quindicennio della loro occupa-zione avevano dato un chiaro e completo esempio delmetodo da essi usato nello sfruttamento delle terre sog-gette, e nessuno intendeva farne adesso la prova personal-mente e con i suoi beni. Repubblica aristocratica o demo-cratica, magari sotto la protezione di Genova, le idee nonerano molto chiare, ma ad ogni modo nessuno pensavaalla dedizione ad Aragona.

Se Cagliari comprese con una certa facilità e in brevetempo quali erano le vere intenzioni degli Arborensi, nonaltrettanto presto si rese chiaro conto della situazione laCorte, e quindi la disillusione fu maggiore. A Tortosa,dove il re si era portato, non appena ricevuta la prima no-tizia, per preparare una nuova spedizione nell’isola, lamorte di Ugone aveva suscitato grande gioia e soddisfa-zione fra i cortigiani, e tutti l’avevano celebrata come ungesto della Provvidenza Divina.

Si credeva da tutti che i Sardi da soli volessero fare at-to di dedizione al re, e che avrebbero deposto le armi,stanchi della tirannide degli Arborea. Ma ben presto arri-varono altre notizie meno piacevoli: los Sardos no conside-rando que el Rey tenia aquel feudo de la Iglesia intentaronde levantar toda la isla con voz de hazer aquel reyno comuny señoria libre, ò quando no pudiessen salir con su intencion,darse al comun y señoria de Genova.

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ad arrischiare il gesto, che raggiunse il suo scopo per il te-merario orgoglio del giudice, disdegnante ogni protezionee sorveglianza di guardie.

Ma quando Aragona, dinanzi al corpo di Ugone stra-ziato da cento ferite, ed ormai inerte cosa incapace di benee di male, credette di avere raggiunto l’agognato obbietti-vo, e di poter ormai celebrare il proprio trionfo, l’atteggia-mento dei cittadini arborensi, immediatamente dopo ilmassacro, le fece comprendere che molti sacrifizi dovevanoessere ancora compiuti e molto sangue si sarebbe dovutoversare prima che i Sardi abbandonassero le loro velleitàd’indipendenza.

I latifondisti che avevano partecipato alla congiura,prospettandosi quale altra forma di governo avrebbe potu-to succedere a quella di Ugone, avevano dinanzi a gli oc-chi più o meno chiaramente quei consorzi di famiglie pa-trizie che nell’Alto Medioevo avevano governato la cittàcome una azienda privata ed un bene ereditario, primonucleo da cui erano sbocciate le forme più moderne ecomplesse di comune; i mercanti e gli artigiani che li ave-vano secondati, e i forestieri che provenivano dalle ricchee fiorenti città dell’Italia centrale guardavano al libero co-mune italiano, associazione giurata, strumento di tutela ditutte le classi produttrici, organizzazione burocratica convasti compiti, eretta sulle basi della ricchezza mobiliare,coordinatrice di vasti interessi rurali agli interessi civici.Gli uni pensavano di trasformare il governo di Arborea inuna chiusa consorteria oligarchica senza re, dove il posses-so fondiario sarebbe stato fondamento del diritto al gover-no, gli altri volevano fare di Oristano una fervida cittàcommerciale, legata strettamente ad una ricca zona rurale,i cui prodotti per la dipendenza del territorio dalla cittàdovevano in essa affluire ed essere oggetto di traffico. Nonsembri strana questa aspirazione al libero comune in unperiodo in cui esso s’avvia fatalmente in Italia verso la si-gnoria. I fenomeni storici si verificano in Sardegna con unnotevole ritardo, e d’altro canto dinanzi agli occhi degli

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Nessun mercante o proprietario di terre si poteva permet-tere di annientare il potere degli Arborea, eventualità cheal solo affacciarsi, suscitava uno scatto d’ira nella signora.E in secondo luogo nessun indugio doveva essere interpo-sto al rapido recupero del regno. Questa esigenza, quasidi diritto privato patrimoniale, tormentava la mente diEleonora, mentre il pensiero di una offesa all’onore dellacasa metteva in tempesta il suo cuore. Perché nessunopossa contestarle il suo diritto, essa, in virtù della strettaparentela con il giudice Ugone, oltrepassando ogni que-stione giuridica di successione feudale, si proclama jui-ghissa de Arbaree, ricollegandosi alla tradizione dell’anticodiritto regio sardo, per cui le donne potevano succederesul trono al loro padre e al loro fratello, come Benedettadi Cagliari, come Adelasia di Torres, tradizione che si ri-scontra nei popoli gaelici e camitici. Solo che, al contrariodi quelle deboli donne, essa possiede l’energia, la forza divolontà, che è propria degli Arborea. Si porterà sul postoa ristabilire i diritti lesi, a rendere nullo ogni atto compiu-to in assenza del legittimo erede. Intanto bisogna pensareagli Aragonesi. Bisogna che nessun intralcio venga postoda parte loro, che il trapasso dagli antichi ai nuovi signorisi compia pacificamente, che la sanguinosa eredità di odie di violenze, germinati dalla feroce guerra, sia presto li-quidata. Nessuno con più efficacia di suo marito, fregiatodi regie insegne, considerato come fedele vassallo, alleatodegli Aragonesi nei più tristi giorni della insurrezione sar-da, può intercedere presso il re, affinché il suo desiderio sicompia. Egli può garantire al sovrano il ristabilimentodell’ordine in Arborea, il tranquillo ritorno al lavoro deicampi da parte dei vassalli, la pacificazione dei donnikellossardi, la riduzione di tutta l’isola alla più completa dedi-zione all’autorità del re.

Era la primavera dell’anno 1383 quando BrancaleoneD’Oria, traversato il verde mare di Maiorca, sbarcò a Bar-celona e si portò alla città di Monçon, dove allora il re sog-giornava. La città aveva un insolito movimento. Nelle vie

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L’AVVENTURA DI BRANCALEONE

Le notizie della tragica fine del giudice erano prestogiunte sino a l’estrema Anglona a turbare la vita raccolta equieta di Eleonora. Che essa sia stata crudelmente colpitanell’apprenderle ci è dimostrato dalle parole accorate concui ricorda, nella lettera indirizzata alla regina d’Aragona,il suo sventurato fratello. Ma composto il dolore, asciuga-te le lacrime, per quell’intima severità di atteggiamentoche è proprio della donna sarda, sorgeva ben presto, inquell’ambiente intonato ad una concezione strettamentefamiliare e patrimoniale, il problema della successione.Ugone aveva voluto lasciare il regno ai prossimi parenti, el’inadempienza del suo volere, soffocato dalla repentinastrage, poteva sembrare un insulto alla sua memoria. Il de-funto si faceva sempre obbedire, e ancor più doveva essereobbedito dopo la tragedia; Eleonora conosceva bene qualefosse il pensiero e la volontà del fratello.

Le voci di una proclamazione di comune libero, checomprendesse l’intiera Arborea come territorio dipenden-te, con la protezione di Genova più o meno palese, nonerano tali da rassicurare la principessa, fiera dell’autorità edel potere della sua casata, decisa a tutelare l’onore delfratello ucciso, ambiziosa di conservare al suo figliolo Fe-derico il trono di Arborea, che aveva ben più gloriosa tra-dizione e più lustro che non la signoria dei Doria.

Per quanto imparentata con Liguri essa sentiva freme-re nel suo sangue quel terribile orgoglio e quella sconfina-ta volontà di dominio che invade l’uomo sardo quando è,in qualche modo, un capo, quando gli viene messo in ma-no il bastone, su baculu, segno del potere. Viva ancora nel-l’isola la tradizione leggermente umoristica che dà all’uo-mo prepotente ed autoritario il titolo di sardu in baculu.

D’altra parte quanto richiedeva Brancaleone non erauna cosa semplice. Don Pedro, senza troppi discorsi avevacompreso perfettamente. Si trattava di riunire nelle manidi Federigo quasi due terzi della Sardegna, poiché i feudipaterni estesi in gran parte del Logudoro si sarebberocongiunti con il vasto giudicato di Arborea. Si ristabilivaquello stato di cose che aveva suscitato le legittime preoc-cupazioni dello stesso Pietro IV quando Mariano avevapreteso di rivendicare come suo diretto dominio, prima iterritori di Bosa e Monteacuto, poi anche i castelli di Gal-lura che erano stati concessi in feudo al fratello Giovanni.La lunga contesa era degenerata in guerra, e che guerra! ilre ne sapeva qualcosa.

Inoltre, le pretese di Federico ed Eleonora erano mol-to discutibili. La concessione che nel 1323 aveva assicura-to l’Arborea ai signori visconti de Bas era juxta moremItaliae, feudo proprio, e nel caso in questione mancandola discendenza mascolina per linea retta, ed essendo esclu-se le donne e i collaterali, il feudo doveva devolversi al fi-sco. Se si fosse trattato di una concessione di secondariaimportanza politica si sarebbe potuto derogare a questoprincipio, ma qui era in giuoco la sicurezza stessa dellacorona in Sardegna. Non era quindi affatto probabile chedopo tante guerre, dopo tanto sangue sparso, il re accon-discendesse a sancire una sistemazione così pericolosa; an-che perché tant’anni prima, in una situazione simile, ave-va preferito l’inimicizia di Mariano alla sua pericolosaamicizia di signore dei due terzi dell’isola.

In quei giorni giunsero altre notizie dalla Sardegna. Sela preoccupazione del re era stata molto viva nell’appren-dere l’intenzione dei congiurati Arborensi di fondare uncomune libero e di porsi sotto la protezione di Genova,ben più grave, ed accompagnata da un senso di vivo risen-timento, divenne quando apprese che la moglie di Branca-leone, Eleonora, percorreva l’intera isola per impadronirsidi tutte le posizioni munite e di tutti i castelli che eranostati del giudice suo fratello, e che egli aveva occupato in

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tortuose e ripide si assiepava una folla variopinta di solda-ti, popolani, uffiziali regi, venditori ambulanti, villici, cheapparivano gente forestiera accorsa per l’occasione. Drappie pennoni pendevano dalle bifore, e dai grandi balconi de-gli edifici principali, costruiti in quello stile gotico fioritoche è creazione di Aragona e di Provenza. Si festeggiava lapresenza del sovrano, che da questa città lanciava il bandoper la convocazione delle Corti del Regno.

Brancaleone, in abito da perfetto cavaliere e con lepreziose decorazioni conseguite per la sua fedeltà ad Ara-gona, si presentò al sovrano che lo accolse con grandecortesia e lo colmò d’onori. Nel giorno di S. GiovanniBattista lo armò cavaliere, e gli diede il titolo di conte diMonteleone, erigendo quella baronia in contea, e poi gliconcesse la baronia di Marmilla.

Le trattative fra Brancaleone e il monarca non portaro-no ad immediate conclusioni. Molti altri problemi politicioccupavano la mente di don Pedro: le contese fra il re diCastiglia e il pretendente alla corona; le proteste dei baronisiciliani che non potevano assolutamente tollerare che l’In-fante di Sicilia si sposasse con un signore iberico, ciò cheavrebbe condotto l’isola ad un nuovo dominio straniero;la rabbiosa polemica fra Roma e Avignone, fra i due pon-tefici che si scagliavano a vicenda fulmini e scomuniche, efacevano pressioni nelle corti per essere riconosciuti ciascu-no come solo e unico capo della Cristianità, minacciandoin caso contrario di mettere in discussione la legittimitàdel potere regio. Il re, giuocando fra Urbano e Clemente,chiedeva al primo la concessione in feudo della isola di Si-cilia, ne la maniera che era stata data a Carlo I d’Angiò, eremissione del censo spettante alla Chiesa per l’isola diSardegna, che gli costava tanto sangue della sua gente, ediritti di patronato, e rendite di diversi istituti ecclesiastici,e proventi di benefici vacanti, e le decime dei suoi regniper dieci anni; tutto un ben di Dio in attesa di concedereil sospirato riconoscimento. Intanto intrecciava un egualegiuoco col secondo.

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calpestato le leggi umane e divine, ma tutta la corte era diparere che questo sacrilegio fosse necessario, perché dalcontrollo della persona di Brancaleone dipendeva il recu-pero dell’isola e il suo ritorno alla calma. Salus publica su-prema lex. Don Pedro chiamò Branca D’Oria e gli annun-ziò che sarebbe restato in suo potere e a disposizione deiregi ufficiali fino a quando essi non avessero ricevuto inconsegna suo figlio Federico, il quale era stato acclamatogiudice dai Sardi. Il bimbo sarebbe rimasto a Cagliari, sot-to la custodia di Bernardo Senesterra, sino a raggiungereuna età adatta per venire in Ispagna e servire a Corte. SeBrancaleone non fosse riuscito a far consegnare il figliuo-lo, doveva restare a Cagliari a disposizione del governato-re, e cercare inoltre di ridurre sua moglie all’obbedienza,facendole comprendere che in caso contrario il re sarebbestato obbligato a procedere col suo esercito contro i ribelli.

Costretto dalla violenza, Brancaleone dichiarò cheavrebbe eseguito gli ordini regi.

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guerra. Comprese che, mano a mano che trascorrevano igiorni, la situazione si andava più aggravando; anzi diveni-va ancor più pericolosa che ai tempi di Ugone. Bisognavaprovvedere, ed in tempo.

Branca D’Oria intuiva ciò che si agitava nell’animadel re, e ormai aveva la netta sensazione di aver fatto unpasso falso recandosi a Monçon. Per sottrarsi alla imba-razzante situazione chiese il permesso di partire.

Il re lo pregò di attendere. Egli stava allestendo unaflotta ed organizzando un corpo di spedizione. Sarebbestato meglio che Brancaleone fosse partito con i suoi sol-dati. Così il compito degli ufficiali regi sarebbe stato dimolto facilitato. Il signore di Monteleone si piegò perqualche giorno al volere del sovrano; ma gli aveva lettonel volto la diffidenza e il sospetto. Sempre più tormenta-to dalla consapevolezza della sua situazione incerta edequivoca, fece ancora premura per partire subito, non ac-corgendosi che si comprometteva gravemente.

Infatti questo suo atteggiamento accrebbe il sospettodi re Pietro, che vedeva nella sua partenza causa di mag-giori complicazioni nella isola tormentata da gravi dissidie disordini. Confidenziali misteriose informazioni gli de-nunziavano Brancaleone come un traditore, relazioni uffi-ciali da la Sardegna confermavano che Eleonora avevatrionfato sui nemici e aveva ripreso possesso del giudica-to. In tali condizioni si trattava di ricominciare da capo acombattere, come ai tempi di Mariano. Il turbamento delsignore ligure, sempre più visibile, la sua impazienza diraggiungere l’isola tramutò il sospetto in certezza.

Convocò a consiglio la corte, espose i suoi timori e isuoi dubbi, presentò un quadro della situazione dell’isola.I suoi fedeli approvarono la severa decisione che egli avevapreso. Brancaleone fu affidato a due cavalieri in custodia.L’atto era di una straordinaria gravità, giacché oltre checontravvenire alle norme dell’ospitalità, era un’aperta offe-sa alla sacra promessa contenuta nel salvacondotto regiodi cui Brancaleone si era provvisto a Cagliari. Il re aveva

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Ritenne opportuno scrivere una dettagliata relazione alsovrano, sull’opera da lei compiuta, illustrando il corso de-gli avvenimenti e riferendo le ragioni del malcontento deiSardi. Chiedeva infine il riconoscimento regio alla assun-zione di Federico al trono di Arborea, di fatto già avvenu-ta. Alla missiva si accompagnava una lettera alla reginad’Aragona. Eleonora sperava di suscitarne l’interessamen-to, perché riducesse il re a più miti consigli. La fiera letterac’è stata tramandata, ed in essa traspare l’intima commo-zione sotto lo stile composto e reverente: Excellentissimaprincipissa et domina. Noscat vestra sublimis Excellentia,quod ego meis litteris largiflue declaro serenissimo regi, statumet facta huius insulae Sardiniae, qualiter processerunt postmortem infelicis germani mei, domini Hugonis de Arborea,olim judicis Arboreae. Quapropter gloriosae potentiae vestraehumiliter supplico, quatenus dignetur pro me ac pro omnibusSardis ac pro bono statu huius insulae apud dictum domi-num regem humiliter intercedere et vestras partes interponere,ad hoc ut haec miserabilis insula, quae tantis guerrarum tur-binibus est conquassata, statu pacifico et tranquillo sedari va-leat et reduci. Elionora judicissa Arboreae. Cum devota ethumili recomendatione.

Con tutta probabilità la missiva restò senza risposta;perché si credeva di dominare la situazione e di piegare lafiera donna esercitando un ricatto sui suoi affetti domesti-ci. Brancaleone era un ostaggio prezioso. Nello stesso an-no 1384 veniva inviato in Sardegna sotto la custodia didue cavalieri aragonesi, e con lui giungeva a Cagliari l’in-tiera spedizione militare caricata su un imponente nume-ro di navi.

Brancaleone, ch’era trattato con molti riguardi, mastrettamente sorvegliato, di buona o cattiva voglia cercò dipersuadere sua moglie ad accettare le richieste del re, manon fu possibile arrivare ad alcun risultato. Eleonora op-pose sempre un reciso rifiuto, e si tenne in armi, giacchésecondo lo Çurita: en la ambicion de tyrannizar aquella islano tuvo menos orgullo que su padre y hermano y marido.

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LA RICONQUISTA DEL GIUDICATO

Intanto Eleonora aveva compiuto la sua opera. Allatesta dei fedeli di Anglona e Logudoro era entrata inOristano quasi di sorpresa, schiantando il simulacro didifesa tentato dai congiurati. Aveva punito terribilmentei responsabili della uccisione del fratello che non eranoriusciti a sfuggirle dalle mani, e ristabilito l’ordinamentoantico del giudicato. Indi aveva cominciato a visitare aduna ad una le ville e i borghi. Convocati i magistrati lo-cali, gli anziani, tutto il popolo di liberi e di servi, facevagiurare solennemente fedeltà al giudice Federico. Indiconcedeva a tutti i liberi la franchigia ed esenzione de-cennale da ogni censo locativo e prestazione personale,con l’obbligo di servire da militi di cavalleria, armandosé e il cavallo e mantenendosi a proprie spese. Un nume-roso esercito era così costituito, capace di tenere testa al-la spedizione punitiva aragonese. Conoscitrice dell’ani-mo umano, delle condizioni economiche e sociali delsuo popolo, severa giustiziera, aveva ottenuto un com-pleto successo. Ogni resistenza si era infranta dinanzi al-la sua volontà d’impero, e gli stessi Aragonesi di Cagliarinon avevano osato muovere un dito per intralciare la suaopera. Attendevano l’arrivo della spedizione organizzatada don Pedro; e temevano quella fiera donna che erasorta a difesa dei diritti del figlio con le armi in pugno, eche era capace di un gesto improvviso e violento, d’unassalto di sorpresa delle posizioni cagliaritane, secondo lostile di Ugone, suo fratello.

Eleonora non sapeva ancora quale fosse stato l’esitodella missione del marito; per quanto dal suo ritardo com-prendesse che doveva avere trovato gravi difficoltà alla rea-lizzazione delle loro richieste.

macello di dubbio esito. La malaria, la mancanza d’acqua,i grandi calori estivi, il carattere rovinoso dei fiumi duran-te l’inverno, spesso inguadabili e privi di ponti, l’acciden-talità del terreno che si presta mirabilmente all’insidia, latendenza dei Sardi a non opporre mai masse compatte,ma a giuocare attacchi improvvisi alle spalle, all’ora del ri-poso o del cibo, erano tutti elementi sfavorevoli al felice ri-sultato di una spedizione dell’interno.

Re Pietro poi si trovava a corto di quattrini. Aveva unbel magnificare durante le cortes del 1383 ad Aragonesi,Catalani, Valenziani e Maiolichini le grandi conquiste e lesegnalate vittorie dei suoi predecessori e le sue; e un bel-l’avvertire che con tutta probabilità i Genovesi avrebberoportato un contributo di navi e d’armati ai Sardi ribelli,giacché si trattava fra loro di una alleanza; i baroni, di nuo-ve contribuzioni per guerre di oltremare, non ne volevanosapere. Piuttosto gli avevano rinfacciato la mala ammini-strazione della sua casa, del suo patrimonio, le insopporta-bili esazioni di tributi sui vassalli regi e la poca giustizia de-gli ufficiali, ciò che tornava a suo danno e a discreditodell’autorità regia. Attribuirono la causa di tutti questi malia cattivi consiglieri che lo circondavano, che avevano rive-lato i segreti di stato ai re don Pedro e don Enrique di Ca-stiglia, ai giudici d’Arborea, al duca di Anjou, al doge e allasignoria di Genova, ai baroni dell’isola di Sicilia, insommaa tutti i più cari amici del re.

Cosicché don Pedro era rimasto con le mani legate.E poi c’era un’altra ragione profonda che gli impediva discatenare una tempesta nell’isola: ai primi rovesci e alleprime difficoltà sarebbe stato obbligato a intervenire per-sonalmente; ed egli era ormai vecchio e stanco, e nonpoteva affrontare più il triste clima di Sardegna che nellasua giovinezza, sotto le mura d’Alghero, era stato per luiquasi fatale.

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Nobile orgoglio. Il suo cuore di madre si ribellava aconcedere a mani straniere il suo primogenito, che sa-rebbe divenuto un ostaggio per la integrale inesorabileesecuzione di duri patti. E d’altro canto una simile resa adiscrezione non sarebbe stata degna di una nobile di-scendente dalla schiatta de Bas, che, per sentirsi comple-tamente Sardi ed essere più vicini al loro popolo durantela guerra, avevano buttato via i broccati e i velluti già ve-stiti a corte, per indossare il sagu paberile e calzare grossiscarponi di cuoio naturale, ma erano rimasti sempre con-sapevoli della loro regia dignità, ed avevano terribilmentecolpito chi aveva osato porla in discussione. Quindi tuttele trattative ebbero esito nullo, e la decisione era oramaialle armi.

Gli Aragonesi non vollero rischiare. Eleonora avevaportato la sua occupazione presso a poco a tutte le terreche erano state conquistate dal fratello. Dovunque fecegiurare fedeltà a Federico, e levò uomini d’arme. Le di-sponibilità finanziarie della casa Doria le permettevano distipendiare ufficiali forestieri per l’addestramento dell’eser-cito, le esenzioni e privilegi concessi le facevano risparmia-re gran parte delle spese fatte da suo fratello per truppemercenarie, accrescendo invece il contingente della caval-leria, formata da isolani.

Agli Spagnoli che si accalcavano nella cinta fortificatadel Castello, e che si accontentavano di rifornire la lineadelle rocche del Mezzogiorno, essa oppose le vigili scolte acavallo presso le strade che conducevano alla capitale del-l’isola, per intercettare ogni traffico, e per tenere il nemicosotto la pressione delle armi arborensi. Tratto tratto, in-cursioni di sorpresa nei sobborghi della città, con sac-cheggio, rapine, e la fuga precipitosa, quando giungevanoi rinforzi dal colle. Passarono due anni in schermaglie, in-sidie, imboscate, scontri di pattuglie, ma la storia non re-gistra avvenimenti militari notevoli.

Re Pietro fidava nell’alto valore del suo ostaggio, e pre-feriva attendere piuttosto che iniziare nell’isola un altro

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Alla scoperta di questo tentativo di fuga seguono iprovvedimenti regi. Il custode principale del Doria, Bar-tolomeo Togores è chiamato in Catalogna a dare spiega-zioni, il governatore di Cagliari e il vicario del castello so-no sostituiti, la custodia del prigioniero si fa più rigorosae sicura.

Grave colpo per Eleonora, che aveva molto fidatosull’esito felice della impresa, che avrebbe coperto di ridi-colo Aragona; e fu così convinta della impossibilità di al-tre soluzioni, da decidersi a inviare al re nel settembre1386, Leonardo vescovo di S. Giusta e Comita Panza,cittadino arborense, per trattare la pace a nome suo e deiSardi ribelli.

Il re con tono solenne rispose che era disposto a per-donarli. Bisognava però ritornare alle condizioni stabilitecon Mariano, quando egli era stato in Sardegna e si erafatta la pace. Quindi: rinnovamento della concessione de-gli stati aviti, e sgombero del restante territorio illegalmen-te occupato.

Per le modalità dell’accordo il re delegò Bernardo deSenesterra e messer Ramon de Cervera. Eleonora dovevarestituire tutti i castelli regi occupati, e il re aveva diritto difarli presidiare da soldati catalani o aragonesi. Per il castel-lo di Sassari la giudicessa chiedeva che il re non inviasseSpagnoli, ma lo facesse custodire da Sassaresi, poiché que-sti cittadini si sottoponevano a qualsiasi ufficiale regio, manon potevano tollerare la gente del re, tanto era l’odio cheessa aveva loro inspirato, e ch’era stato causa delle prece-denti sollevazioni. Se questo non fosse stato possibile, de-sideravano i Sassaresi la distruzione del Castello. Volevainoltre Eleonora che non fosse permesso ad alcun baroneed heretat catalano od aragonese di risiedere in Sardegna;che vi fosse un governatore per tutta l’isola, e in ciascuncentro un ufficiale e amministratore che raccogliessero itributi, e che gli altri ufficiali fossero nativi dell’isola; salvoper il castello di Cagliari e quello di Alghero, dove il repoteva mettere quegli ufficiali che voleva.

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IL TENTATIVO DI FUGA E I PRIMI ACCORDI DI PACE

La casa di Arborea imperava ormai sovranamente suquasi tutta la Sardegna, ma non vi era pace per l’isola di-sgraziata. Se in apparenza gli Aragonesi erano ridotti all’ina-zione, ormai confinati in pochi castelli e rocche, in realtà lostato generale di malessere dimostrava che la sistemazioneera incerta e precaria. Se gli stranieri non potevano impa-dronirsi della Sardegna, gli Arborensi non riuscivano aprendere né Alghero né Cagliari. Specialmente Eleonorasoffriva una tormentosa pena: la sua ostinazione condan-nava il marito alla perpetua reclusione nel castello di Ca-gliari. Mano a mano che i giorni passavano, sentiva semprepiù l’importanza del pegno che don Pedro si era costituito.Il dolore però combatteva un’aspra battaglia con l’orgoglio,che le faceva sembrare vergognoso chiedere pace agli Arago-nesi. Dall’urto di questi due sentimenti, e da un lungo di-battito interno sulle decisioni da prendere, scaturì la possi-bilità di un’altra soluzione che avrebbe quietato ogni penase effettivamente si fosse potuta raggiungere. Eleonoratentò, con la complicità di fedeli Arborensi, abitanti nel Ca-stello di Cagliari, di liberare suo marito facendolo evadere.

Brancaleone era tenuto, con qualche comodità di vita,e con molti riguardi, nelle fortificazioni di S. Pancrazio.Fra due torri, la franca e la todeschina correva un bastioneabbastanza basso, nascosto alla vista di chi vigilasse dallagran torre del fortilizio. Da questo bastione doveva esseretentata la fuga. Servi e guardiani erano stati già compratiper agevolare l’evasione, e tutto sarebbe andato per il me-glio se uno dei guardiani, Pietro Cortils, non avesse rivela-to la trama al governatore di Cagliari, Giovanni di Mont-buy, ai primi di gennaio 1386.

visione S. Tecla, che gli aveva lasciato andare un manro-vescio sul muso, e da questo colpo avesse ricevuto origi-ne la sua mortale infermità.

Racconta lo Çurita, che per quanto questo principefosse di debole e delicata corporatura, pur tuttavia era ar-dente d’animo, rapido ed energico nella esecuzione di tut-to ciò che iniziava; non mai inferiore per animo e valorealle difficoltà dell’impresa, stranamente ambizioso, cono-scitore di tutte le arti del cerimoniale valevoli a tener vivi ilprestigio e l’autorità della corona. Si interessava di lettera-tura e sovra tutto di astrologia, coltivava con grande pas-sione l’alchimia, nella quale aveva trovato per maestro unmedico ebreo; questi svaghi non gli impedivano d’attende-re direttamente agli affari di stato. Durante i suoi cinquan-tun’anni di regno, ebbe quasi ininterrottamente guerraesterna e guerra civile; anzi al tempo della contesa con donEnrico di Castiglia, egli aveva eserciti in Castiglia, sui con-fini di Navarra e Francia, in Sardegna, e combatteva permare i Genovesi. Negli ultimi giorni della sua vita glitoccò perfino di prendere le armi contro suo figlio.

Nei riguardi delle trattative di pace con Eleonora, laprima stesura dell’accordo, sempre passibile di modificazio-ne e soppressione di molti articoli, rivela però nel comples-so una singolare condiscendenza alle richieste di Eleonora.Infatti, l’accettazione del mantenimento delle franchigietributarie ai vassalli, da la principessa arborense concesse,l’accoglimento di gravi limitazioni al diritto di nomina diufficiali regi, l’ammissione dell’incompatibilità fra eserci-zio della giurisdizione feudale e ufficio regio civile o mili-tare, erano sacrifici della propria autorità di non piccolaimportanza. Esse dimostrano quanto grave fosse l’ansia el’attesa del re per la soluzione del problema sardo, e comenel vecchio si fosse maturata la convinzione che a suscitareuna così fiera rivolta, non erano bastate invidie e ambizio-ni di piccoli signorotti, desiderosi di più ampio dominio,ma avevano sovratutto colmato la misura prepotenze, vio-lazioni di sacre costumanze, malversazioni di ufficiali regi.

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La giudicessa sosteneva che se avessero risieduto inSardegna gli Aragonesi e Catalani colà baroni ed heretats,giammai vi sarebbe stata concordia fra loro e i Sardi.

Concesse invece il re che nessun barone che avessegiurisdizione in Sardegna potesse avervi comando civile omilitare; inoltre che tutti gli ufficiali regi dovessero ognitre anni tener taula, così come si faceva in Catalogna, cioèdare un rendiconto circostanziato della loro amministra-zione e rispondere ad una inchiesta. Quelli che fosserostati trovati in fallo, condannati e allontanati dagli uffici.E altrettanto per i governatori, ma ogni cinque anni.

Concedeva il re inoltre la liberazione di BrancaleoneDoria, e degli altri prigionieri, la restituzione dei loro beni,in Sardegna e fuori; confermava le franchigie che Eleonoraaveva concesso per dieci anni, anche per gli abitanti deiterritori che dovevano tornare alla corona. In pratica poi-ché erano trascorsi tre anni dalla concessione, ne rimane-vano ancora solo altri sette.

Infine le due parti garentivano ai loro sudditi il dirittoreciproco di allontanarsi dalla terra di origine e di recarsicon tutte le loro robe nelle terre regie e, rispettivamente,nelle terre del giudicato.

Le trattative duravano ancora, anzi era già compilatala bozza del trattato per essere sottoposta all’esame defini-tivo del re, quando la sera di Natale questi si ammalò im-provvisamente e morì nel successivo 5 gennaio del 1387nel palazzo minore di Barcellona.

Re pieno di energia, privo di scrupoli. Aveva infrantoi privilegi ecclesiastici, si era appropriate le rendite di ve-scovadi e monasteri. Solo quando i medici gli palesaronoche non vi era più speranza di salvezza, fu assalito dal ri-morso per le violenze compiute di recente sui vassalli del-l’arcivescovo di Tarragona, che s’erano rifiutati di corri-spondere a lui i tributi dovuti al vescovado, e per il dannoche aveva recato alla Chiesa.

Il popolino considerò la malattia come un castigo diDio, e corse voce che gli fosse apparsa in una miracolosa

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LA PACE DI CAGLIARI

Don Giovanni, il nuovo re, aveva un carattere assaidiverso da quello del padre, e seguiva nel governare diffe-renti criteri. Di temperamento molto calmo e pacifico,mentre il padre guardava con occhio cupido ai regni vici-ni, cercando di strappar loro qualche brandello di terri-torio, ed aveva sempre con tutti qualche contesa, eglipreferì al primato in guerra la fama quasi europea per ilfasto della corte, per i ricchi apparecchi di caccia, per imagnifici e lussuosi balli e festini.

Un temperamento come il suo, disposto alla tran-quillità e alle gioie della pace, doveva sentire il peso diquesta lunga e noiosa contesa di Sardegna, che con i suoiincidenti giornalieri, con le sue brusche sorprese di guer-ra coloniale, interrompeva gli ozi della Corte, e la richia-mava alla severa realtà. Era una questione così fastidiosa,che non appena morì il padre, proprio lo stesso giorno,inviò nell’isola un suo fido, don Ximen Perez de Arenos,cortigiano inviso a re Pietro e da lui perseguitato a mor-te, appunto perché legato da grande amicizia col figlio.Sostituì Bernardo Senesterra nel governo dell’isola e, abi-le diplomatico, riprese le trattative con i legati di Eleono-ra. I risultati furono molto più vantaggiosi per Aragonadi quel che non fossero stati col primo accordo di massi-ma durante il regno di don Pedro.

Con questa pace, quando si fossero eseguiti integral-mente tutti i capitoli dell’accordo, si poteva ottenere laliberazione di Brancaleone. La città e il castello di Sassa-ri, la Villa di Chiesa col castello di Salvaterra, le rocchedi Osilo, Buonvicino, Petrese e Sanluri, i castelli dell’altae della bassa Gallura, le contrade di Montis, Posada, Gal-telli, e tutta la Baronia, dovevano ritornare al sovrano.

Inoltre, la disposizione di tener taula all’usanza di Catalo-gna rivelava la scarsa fiducia che aveva il re nella correttez-za dei suoi ministri, per la riscossione dei tributi, ed ilmaneggio in genere del denaro regio. Forse alla mente didon Pedro, si stava affacciando la possibilità di un accor-do sincero e durevole con i nuovi regoli d’Arborea, strettocon un trattato di pace che fosse conveniente per entram-be le parti e rappresentasse un atto di giustizia per tutti iSardi. Una tarda ma soddisfacente risposta alla dettagliataesposizione dello stato miserando dell’Isola che gli avevafatto Eleonora, e alla denunzia di tutte le vessazioni che iSardi avevano subite.

Certo che il secondo trattato, molto più gravoso pergli Arborensi, e di cui gli Spagnoli si vantarono come diun capolavoro di arte diplomatica, si poté concludere sol-tanto perché ormai Eleonora voleva liberare a qualunquecosto suo marito. Un trattato imposto con il protrarre ol-tre ogni limite un ricatto, doveva essere considerato certa-mente un atto nullo dalla parte che lo aveva subito. E laCorona dovette sopportare altri venti anni di guerra sarda.

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Elna, Cagliari, Alghero e da tutte le altre dell’isola. Pergaranzia della esecuzione di essa, Brancaleone D’Oriadoveva consegnare al re Castelgenovese e Casteldoria, ilre doveva consegnare parimenti all’avversa parte i castellidi Bonvehì e di Osilo, che in pratica erano già in manodegli Arborensi.

Anche questi accordi per lungo tempo restarono insospeso, e trascorse così tutto il 1387. Il re preferiva an-dare a caccia, piuttosto che occuparsi di questo proble-ma, tanto che si affacciava nuovamente la possibilità diuna rottura.

La pace in realtà fu firmata a Cagliari sotto gli auspi-ci di don Ximen Perez de Arenos, dai rappresentanti del-le due parti il 24 gennaio 1388. Al trattato seguono leratifiche che i delegati di ciascun paese facevano alle con-dizioni che li riguardavano, e l’elenco degli abitanti cheriuniti in assemblea avevano dato al loro sindaco e pro-curatore la potestà di sottoscrivere l’atto; sicché noi pos-sediamo uno dei più notevoli documenti della onomasti-ca sarda nel secolo XIV.

L’8 aprile il trattato fu ratificato dal re don Giovanni.Don Pedro Ximen de Arenos, di ritorno dalla Catalo-gna, dove si era recato per presentare personalmente alsovrano il testo dell’accordo, ricevette da Eleonora, a ga-ranzia di ciò che era stato convenuto, trenta ostaggi, efra questi Galzeran di Villanova, Roderico Lanzola, Gio-vanni D’Oria e Ioannetto figlio naturale di Brancaleone;la principessa sarda consegnò inoltre a Comita Pancia,suo procuratore per la conclusione della pace, il Castellodella Fava, e a Ranieri Pisquedda il castello di Salvaterra,immediatamente.

Il re ordinò l’invio per la occupazione dei castelli ditrecento soldati a cavallo, cosidetti bacinetes, e di mille sol-dati a piedi, servientes. Le spese necessarie per guernire ditruppe i castelli e vettovagliarli, come sappiamo, erano sta-te antecipate da Eleonora, che dovette sborsare dodicimilalire di alfonsini per questo prestito, e pagare ventiduemila

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Per Longosardo si restava d’intesa che sarebbe stato resti-tuito al re, e quando fosse stato in suo potere, poteva an-che Eleonora pro bono pacis presentare una supplica per-ché venisse demolito, oppure ricorrere perché fosseroriconosciuti i diritti che essa vantava su quel castello. Laconsegna al re non era considerata, di comune accordo,rinunzia ad essi. Per ciò che riguarda i luoghi di Ardara eCepola, si stabilì che restassero sotto sequestro, affidati allacustodia del vescovo di Oristano e del vescovo di Ales;giudice sarebbe stato il papa, quando fosse finito lo sci-sma, e si fosse ben saputo chi era il vero vicario di Dio. Inattesa si soprassedeva a qualunque deliberazione. Dal can-to suo il re concedeva nuovamente la investitura del giudi-cato di Arborea a donna Eleonora, non ostante che di di-ritto esso dovesse essere devoluto al fisco; ma si dovevadare un tutore a Mariano V, il piccolo figlio di Brancaleo-ne ed Eleonora (Federico era morto l’anno prima) e co-stui, col pieno ed espresso consenso della giudicessa, dove-va liberare i Sardi che ritornavano sudditi diretti del re,dal giuramento di fedeltà e dall’omaggio che avevano fat-to al regolo ancora infante, e quindi tale giuramento do-veva essere prestato al re ed in suo nome al governatoredell’isola. Eleonora doveva pagare il censo feudale arretra-to dal tempo di Mariano IV, e fare anche un prestito a no-me di Brancaleone perché il re potesse armare a vettova-gliare i castelli ceduti dagli Arborensi. Il re concedevainoltre la sindacatura annuale degli ufficiali regi nel castel-lo di Cagliari, fatta eccezione dei governatori. Le due partisi accordavano perché nessun ribelle o delinquente potessetrovare protezione in territorio aragonese, e reciprocamen-te, arborense, e che fosse arrestato e sottoposto alla giuri-sdizione dalla quale dipendeva, restituito al suo ordinariogiudice. Eguale arresto in caso di fuga di schiavi, fosseroessi Tartari, Mori, Turchi o Greci, purché non cristiani.

Questa pace doveva essere firmata dal duca di Mont-blanc, fratello del re e dai procuratori delle città di Barcel-lona, Saragozza, Valencia, Maiorca, Perpignano, Colibre,

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Cathalunya e daço no pugue excusar per ses armes ne peraltres ne per alguna manera.

Un diavolo nero, dal ghigno osceno, era senza dub-bio nell’ombra, accovacciato ai piedi di Brancaleone, e sitorceva ridendo a scroscio nell’istante in cui egli baciava ilnemico. Si leggevano reciprocamente negli occhi l’odio,la volontà di vendetta, i due volti accostati; fra gli astantidoveva essere viva e precisa l’intuizione che tutto ciò fos-se inutile, e che la celebrazione dei riti divini, e l’impiegodei sacri carismi non servisse ad altro che a rendere piùalto e distinto l’urlo del peccato. La voce di Brancaleonenel pronunziare il giuramento, suonava bestemmia. Tut-te le miserie della prigionia, tutte le prepotenze e umilia-zioni subite, risorgevano in quell’istante, al fioco e vacil-lante lume delle candele, e davano alimento alla gioiasatanica con cui pronunziava le mendaci parole. Coneguale rabbia, fissandolo bene negli occhi, per ricono-scerne il segreto pensiero che si affacciava sfavillante dale pupille, il cavaliere aragonese rispondeva al giuramen-to di Micer Branca con la lettura della terribile sanzioneche attendeva chiunque avesse tradito le sacre promesse,e a questa generica minaccia pareva desse un indirizzopreciso: Ricordati Brancaleone, sarai trattato da falsariotraditore, da servo ladro non più degno del titolo di ca-valiere, e non potrai difendere il tuo onore con le armi,ma ti schiacceremo senz’altro la testa come ad una bestiavelenosa. Noi sappiamo che ci attendono tempi più tri-sti; fame e pestilenza in questo uggioso castello, fatiche,malaria, ferite e infinita miseria fra le paludi, gli stagni epantani della tua terra maledetta. Ma ti ritroveremo ungiorno e sapremo vendicarci di questo tuo intimo riso dispergiuro sacrilego.

E all’alba del primo gennaio con infinite precauzioni,scortato da cavalieri aragonesi, Brancaleone giunse ai con-fini di Arborea, dove lo attendevano altri cavalieri, suoifedeli. Era la libertà. E forse il riso allora proruppe, an-nunzio di sventura per amici e nemici.

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fiorini per il censo arretrato degli Stati di Arborea. Lapace era dura, più che non fosse sembrato da principio,e intanto mentre proseguiva lentamente la consegna deicastelli, la liberazione di Brancaleone ritardava. Dallanarrazione degli storici più vicini agli avvenimenti, tra-spare la legittima impazienza di Eleonora e la diffidenzadegli Aragonesi. Si erano accorti di avere chiesto troppoe di avere troppo facilmente ottenuto, sicché temevanoche lo sdegno represso degli avversari, la loro cupa e si-lenziosa rassegnazione nascondesse qualche sinistro deli-berato. Finalmente il primo gennaio 1390, dopo nuoveincertezze, nuovi dubbi, nuove richieste di garanzie, fuliberato Branca D’Oria.

La cerimonia, fra le cupe mura d’una torre del fortili-zio cagliaritano, presso un altare debolmente illuminatodalla rossa fiamma di fumose candele, fu solenne, comeci appare dal verbale che fu in tale occasione redatto. Av-vicinatosi al sacramento della penitenza, e poi alla mensaeucaristica, insieme con i gentiluomini suoi custodi, divi-se con essi l’ostia consacrata, e dovette giurare di eseguirescrupolosamente tutte le obbligazioni assunte da lui e dasua moglie, dichiarare la sincerità delle sue intenzioni. Lasua solenne promessa fu consacrata nell’atto con la clau-sola comminatoria: E lo cors sant de Hiesu XC reevre loqual li sia en damnaciò de la su anima si les coses per elldamunt dites axi no son, nè si ell en aquelles no va, nè iraab tota pura veritat, fe e legaltat, segons que damunt se con-te. Nella imprecazione è contenuta la poena spiritualis.Indi il suo custode, guardandolo nel viso, gli domandò ilrinnovo del giuramento e dell’omaggio; e si strinsero aquesto scopo la mano e si baciarono dinanzi al notaio eai testimoni.

La carta si chiude con un’altra clausola, contenenteuna oscura minaccia: Axi que aquell dells qui contrafaria,ço que Deus no vulla, en toto o en partida en les coses perells promesses, incontinent per exhibiciò de la present cartafos haut por baro e trahidor segons fur d’Aragò e costums de

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LA PASSIONE DELL’ISOLA

Era la pace? L’illusione del re Giovanni durò per brevetempo. Brancaleone era entrato nella umile casa d’Orista-no, dove Ugone aveva regnato, e dove, vestito di pelli, ave-va ricevuto con aspro severo ma dignitoso linguaggio glieleganti messaggeri del duca d’Anjou. Ivi aveva trovato laconsorte, il piccolo Mariano, ma non più Federico, il suoprimogenito, ch’era da tre anni scomparso, povero fioreprecoce, presto avvizzito in quella atmosfera di tempesta.Non gioia, ma tristezza nel volto di tutti: malcontento deifamiliari e del popolo che vedevano ritornare tante ville ecittà sotto il giogo feudale; insistente e tormentoso il cruc-cio di Eleonora, che aveva dovuto pagare forti somme peril censo feudale arretrato, e un’altra ingente somma perchégli Aragonesi armassero contro Arborea.

Tanto più violenta era l’ira nell’animo di Brancaleone,gonfio di rancore per la lunga prigionia. Sovra tutto i dueconiugi non potevano darsi pace per la offesa fatta al loroorgoglio, quando si erano dovuti piegare al ricatto regio.

Una occasione bastava per spingerli ed afferrare le ar-mi, ed una scintilla fu malauguratamente gettata sul ter-reno arso e pronto all’incendio.

Il re Giovanni sulla fine dell’anno 1389, con sentenzadefinitiva aveva aggiudicato la contea di Chirra a ViolanteCarroz, figlia di Berengario Carroz. Già dal 1383, mortoil padre, le era stata fatta la concessione feudale, e le con-dizioni d’infeudazione portavano che, in caso di sua mor-te, dovesse subentrare il marito Ponzio di Senesterra. Magli avvenimenti guerreschi, difficoltà opposte dal fisco, e ilricorso al re dei figli di Benedetta d’Arborea e di Giovan-ni Carros, stretti parenti del defunto Berengario, avevanoimpedito la consegna. Il re stesso, nell’ordinare che la

Essendo state eseguite tutte le modalità della pace,furono restituiti dagli Aragonesi gli altri ostaggi. Il repremiò i valorosi difensori di Cagliari, e specialmente gliabitanti dei sobborghi, Stampace, Villanova e Lapola,che avevano dovuto difendersi aspramente dagli assaltiarborensi.

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vedono allargarsi sempre più la giurisdizione baronale, esi sentono parificati ai signori catalani. È questa la ragionedella loro protesta, e non quella addotta dal Fara che ilD’Oria considerasse il marchesato di Chirra come spet-tante ai giudici d’Arborea, mentre in realtà non aveva maifatto parte del territorio arborense, e molto discutibili era-no i loro diritti, fondati sulla parentela con Benedetta diArborea.

Grave appariva ai due coniugi l’ingiustizia dell’atto re-gio: ad essi veniva rinnovata la concessione dell’Arboreasecundum morem Italiae in feudo proprio; situazione pre-caria, perché, in caso di mancanza di discendenti diretti,la corona poteva porre le sue mani sul pingue bottino.

Gli stessi loro diritti aveva la Violante Carroz, in unvasto territorio che comprendeva quasi tutta la zona sudorientale dell’isola, su cui avrebbe governato con poteriquasi sovrani. Il marchesato era una minaccia sul fiancodi Arborea, un gigantesco cane da guardia, tenuto a guin-zaglio a pochi passi dai ribelli, pronto ad essere scatenato.Non solo, ma la Violante, premorto Ponzio di Senesterra,si era unita in seconde nozze con Berengario Beltran, cit-tadino di Barcellona, e questi veniva immesso nel posses-so del feudo come procuratore della moglie. Egli era unnemico, fedele esecutore dei disegni del re.

In conclusione: la concessione con ampi poteri tribu-tari e giurisdizionali del contado di Chirra, deprimevasempre più i regoli di Arborea che avevano una secolaretradizione di sovranità e di indipendenza, dava più auto-rità e prestigio nell’isola ad una donna, figlia di un cata-lano e a suo marito, anch’esso catalano.

Brancaleone ed Eleonora protestarono fieramente aCagliari contro la decisione del re; poi dalle proteste pas-sarono ai fatti. Fu la concessione del contado a Violante,una conferma della convinzione in essi già maturata chela politica d’infeudazione di tutta l’isola avrebbe paraliz-zato le energie sarde, sino a schiantarle, per cui null’altrorestava che tentare un’altra volta la sorte delle armi?

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Violante fosse messa immediatamente in possesso di quel-le terre faceva una riserva un po’ oscura.

Reservose el rey – dice lo Çurita – en la sentencia, quesi in algo repugnasse a los capitulos de la concordia que aviaassentado con doña Eleonor de Arborea, y con los Sardos,quanto la jurisdicion de aquel estado, no era su intento quefuesse in su perjuicio.

Si trattava forse di promesse fatte dal re di non au-mentare l’estensione del territorio infeudato in Sardegna,conservando al fisco le terre non ancora concesse e quelleche vi ritornavano per devoluzione? Nelle richieste diEleonora, infatti è evidente lo scopo di frenare la conces-sione di nuovi feudi, che arricchivano l’isola di una classesempre crescente di baroni ed heretats, prepotenti, invi-diosi della potenza degli Arborea e desiderosi di annien-tarla per soddisfare la loro fame di terre. Esse, del resto,si fondavano su un privilegio, da Pietro IV concesso allaUniversità di Cagliari, nel 1366, da Catalayud, col qualeda allora in poi non era più permesso, nei riguardi delleville del capo di Cagliari e Gallura che restavano prive disignore e dovevano essere devolute al regio dominio,concedere, vendere, dare o altrimenti alienare ad alcuno,maquicias seu calonias, il diretto dominio, la giurisdizionealta e bassa, né in alcun modo separarle dalla Corona edalla giurisdizione del governatore di Cagliari e degli altriufficiali regi; e ciò allo scopo di evitare che le oppressionidei feudatari potessero provocare la ribellione dei Sardicontro il regio dominio.

Nel caso particolare il fisco aveva preteso la devolu-zione del feudo, ma poi il re si era piegato alle preghieredella Violante Carroz, in considerazione dei grandi servi-zi prestati da suo padre, e le aveva concesso il feudo nellamaniera che lo possedeva il genitore cioè col mero e mi-sto impero ed ogni qualunque giurisdizione alta e bassa,civile e criminale.

Questa ampiezza di poteri immunitari e giurisdizio-nali offende in sommo grado Eleonora e Brancaleone; che

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proibito il passaggio, sicché il vettovagliamento della capi-tale diventava difficile. Il Campidano di Cagliari ritornainsicuro; villici arborensi armati scorazzano oltre i confini,percuotono e feriscono vassalli regi, saccheggiano i villag-gi. È il principio della crisi. Dalla capitale dell’isola si af-frettarono ad avvisare il re, ed egli il 18 febbraio 1391, daSaragozza ordinò a tutti i baroni ed heretats di recarsi inSardegna entro quattro mesi, mandò rinforzi e nominònuovo governatore e reformador generale Iuan de Mont-buy al posto di Ximen Perez de Arenos.

Il nuovo governatore, appena giunto, scrive imperio-samente ad Oristano perché sia lasciato libero il passo aivassalli regi di Siurgus. Eleonora acconsente, ma invece difarli passare per le vie note, li indirizza verso sentieri mal-certi, con molte svoltate e molti giri inutili, e fa pagare unpedaggio e altri diritti non tradizionali.

Ma gli avvenimenti precipitano. Per il Sarrabus e per ilmarchesato di Chirra girano degli inviati di BrancaleoneD’Oria, e radunano il popolo a parlamento, e annunzianoche il re vuole fare contro di loro una spedizione punitiva,e massacrare gli abitanti ed incendiare le ville.

Perciò bisognava abbandonare le proprie case e corre-re sulla montagna con le masserizie ed il bestiame, la-sciando dietro di sé il deserto. Le popolazioni sono presedal panico, ed obbediscono agli ordini dei messaggeri.

Queste informazioni vengono comunicate dal vica-rio, consiglieri e probiuomini di Cagliari al re, e la cartasi chiude con una postilla che rende noti i preparativi diBrancaleone per dar l’assalto a San Luri, e poi a Villa diChiesa. Le truppe arborensi sono già in marcia.

Le previsioni erano esatte. Brancaleone, dopo aver fat-to il colpo di mano sul Campidano e Iglesiente, marcia ra-pidamente verso Sassari, la prende con la violenza assiemeal castello, si impadronisce della rocca d’Osilo; poi si preci-pita nella bassa Gallura ad assediare il castello della Fava edi Galtelli che vengono espugnati senza resistenza, giacchéi castellani cedono per denaro, mentre hanno vettovaglie

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Restarono impressionati dalla notizia, diffusasi nell’iso-la, di una armata allestita in Catalogna, che, sotto il pretestodella spedizione di Sicilia, doveva prima recarsi in Sardegna,per dare il colpo di grazia agli Arborensi mal sottomessi, eormai in condizione strategica svantaggiosa, perché ridottiagli antichi confini? O fu piuttosto un pretesto, l’occasio-ne propizia per ritogliere agli Aragonesi ciò che essi aveva-no conquistato, non per forza d’armi, mediante una insi-dia ed un ricatto?

Non si può dare una risposta precisa. Certo che unpo’ tutte queste ragioni concorsero a scatenare la nuovaterribile guerra. Non erano passati molti mesi, da cheBrancaleone era stato rimesso in libertà, e già nelle valli diLogudoro, sui monti di Barbagia, nei piani di Baronia,perfino sui picchi diruti, magri e paurosi d’Ogliastra, pre-cipitanti sul mare, risuonava il grido di Arborea! Arborea!

Eleonora non risponde più alle lettere del governo edei consiglieri di Cagliari che chiedevano spiegazioni sul-la nuova irrequietezza di Arborea, o domandavano l’ese-cuzione di alcuni meno importanti capitoli del trattato,rimasti in sospeso; e per quanto messaggeri e corrieri vo-lessero consegnare tali lettere a lei personalmente, qualegiudicessa di Arborea, o volessero riferirle a voce i messag-gi, non potevano mai vederla, né consegnarle documentoalcuno.

Invece Brancaleone, pur non avendo in Arborea alcunufficio o carica pubblica, e pur non essendo in esse nomi-nato, rispondeva alle missive che gli venivano recapitate,quando i corrieri non riuscivano a trovare la giudichessa.Così le risposte erano prive di carattere ufficiale, ed Eleo-nora poteva affermare di non aver ricevuta alcuna richiestaformale dai rappresentanti del re. Pensavano a Cagliari chesi trattasse di uno strattagemma preparato con malizia.

Ma fatti ancor più gravi si verificavano. Le derrate do-vute come prestazioni in natura dalla curatoria di Siurgus,per giungere a Cagliari, dovevano attraversare una partedi territorio arborense. Su queste strade Eleonora aveva

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LE OSCILLAZIONI DI DON GIOVANNI

Re Giovanni è indeciso. Forse comprende d’aver com-messo un errore forzando la mano nei capitoli della pace.Non sa decidersi a considerare come novellamente nemiciEleonora e messer Branca. Egli preferirebbe non occupar-si di questo oscuro imbroglio sardo, per darsi alle consue-te distrazioni della caccia per cui dimentica ogni affare distato. Fida compagna dei suoi svaghi è la moglie donnaViolante che organizza serate musicali e danze nei castelli,attorno a cui si stendono le sue bandite di caccia, i suoiallevamenti di falconi. Una vita serena che dà maggiorisoddisfazioni dei fasti guerreschi. Raccontano gli storiciche durante il suo regno, agli ordinari passatempi deiprincipi, le armi e gli esercizi militari, si sostituiscono icanti dei trovieri, il culto della poesia volgare, l’insegna-mento della gaia scienza a paggi, cavalieri e donzelle. Tutticantano nella lingua limosina, e mentre prima era questoun onesto svago per dimenticare i dolori e le fatiche diguerra, ora i cavalieri catalani sono diventati talmente me-stieranti da sembrare addirittura dei giullari.

Il re Giovanni è indeciso. Lo seducono le sue ordina-rie occupazioni, ma vi sono questi nuovi gravi eventi cheimpongono una azione immediata.

In Sardegna è la guerra, ed i fedeli aragonesi, disprez-zando gli agi e le mollezze della capitale, e i canti dei tro-vieri, muoiono in silenzio, per l’onore del regio stendardo,nelle rocche presso il mare. Si risolve a mandare ambascia-tori ad Eleonora e Brancaleone per sapere se essi voglionopace o guerra. Ma Eleonora e suo marito non hanno piùrecapito.

Dopo qualche esitazione il re da Saragozza stabilì direcarsi a Barcellona alla fine di settembre; poi si trattenne

per sei mesi. La ribellione scoppia nelle ville d’Oliena, Sa-rule ed Elconi dove si acclama ad Arborea e si fanno pri-gionieri gli ufficiali regi.

Tutto il Montalbo cade nelle mani degli Arborensi peril propagarsi della rivolta. In Logudoro, intanto, Eleonorava di paese in paese con le sue schiere armate, e completal’opera del marito che si era accontentato di occupare i ca-pisaldi strategici, Sassari ed Osilo. Dovunque trova i villag-gi in subbuglio che acclamano l’eroica principessa. Ventatefuriose di assalto investono Alghero, che resiste per le sueben costrutte e salde mura, e per la fede dei suoi abitatori,tutti catalani. Manca però il pane e scarseggia ogni altroalimento; nessuna nave aragonese compare all’orizzonteper recare le necessarie vettovaglie. Gli abitanti sono co-stretti, quando cessano gli assalti arborensi, a correre per ilterritorio retrostante per predare un po’ di bestiame. Or-mai tutto il Logudoro, salvo Alghero, è in mano dei ribel-li. Nella Gallura superiore, Longosardo, il sistema fortifi-cato in vista dello stretto di Bonifacio, punto strategicoimportantissimo, è accerchiato strettamente dai luogote-nenti di Branca D’Oria. Al sud resistono ancora Acqua-fredda e Gioiosa Guardia all’imboccatura della valle delCixerri, e i castelli dell’Ogliastra e del Sarrabus. Cagliari,con la muta serrata dei suoi sobborghi, attende nuova-mente l’urto delle bande armate a cavallo oristanesi.

Ma i Catalani rimasti a difesa della città sono unoscarso numero, in prevalenza veterani delle antiche guer-re, ormai stanchi. Il Montbuy è spaventato dalla violenzadell’incendio che si propaga da per tutto, e scrive al rechiedendo soccorsi d’armi e di vettovaglie.

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spedisce Salvatore Estevan, suo camarero per affittare inSicilia alcune galere che possano servire a difendere laSardegna contro i pirati genovesi e portare aiuto a Lon-gosardo ed Alghero. Al tempo stesso svolge una azionediplomatica presso Genova, Venezia e Pisa, affinché nonvenga alcun aiuto ai ribelli. Genova promette, e continuaad armare navi da corsa. Ma la situazione è sempre gra-ve; i combattenti tormentati dalla malaria e dalla dissen-teria, scarseggianti di vettovaglie invocano l’intervento li-beratore del re. Don Giovanni è indeciso. Poi prende lagrande deliberazione. Egli si recherà in Sardegna; sin dalluglio 1392 gli araldi annunziano la partenza del re nellaprimavera successiva; a Barcellona, nel Born, sventola so-lennemente, dinanzi alla chiesa di S. Maria del Mare, lostendardo reale barrato di rosso e oro, come è costumequando il sovrano va a simili imprese d’oltremare.

Per non avere sorprese, il re mandò inoltre alcuni suoifidi alla signorìa di Genova, a Pisa, a Nizza e in Provenza,per fare note a i responsabili le sue intenzioni. Alghero eraalle strette, e in pericolo di arrendersi perché da mesi nonvi arrivava un bastimento e si moriva di fame. Don Gio-vanni per il mese di novembre, convocò un consiglio dinotabili a Barcellona per provvedere a queste urgenti esi-genze.

Ma era destino che il povero re non avesse mai pace.Ecco che nell’anno seguente scoppia la guerra di Granata,ed egli sin dal mese di marzo rinvia la sua partenza per laSardegna al prossimo ottobre. Spedisce intanto altri rinfor-zi, ma siccome nel frattempo le cose si fanno più gravi, e laresistenza si infiacchisce, perché da troppi mesi i soldati vi-vono attendendo il suo arrivo, delibera di far vela da Port-fangos il primo d’agosto di quell’anno. Corrono intantonuove voci di pace. Don Giovanni fiducioso spedisce inSardegna per trattare Iulian de Garrius, suo tesoriere emembro del suo consiglio, ma Eleonora e Brancaleone, seaccettano proposte di concordia, non vogliono per questoperder tempo: anzi in questo momento si sferra l’assalto a

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a Lerida fino alla fine del mese di novembre, e di là or-dinò che Antonio de Pujalt e Arnaldo Porta, che gli ave-vano recato le non liete notizie sarde, si trasferissero intutta fretta nell’isola con quattrocento servientes, duecen-to armati di balestra e il restante di lancia, per presidiarei forti che si difendevano ancora.

Passarono alcuni altri mesi. Il 1 marzo 1392 a Caglia-ri il procuratore generale del fisco, dinanzi al governatoree ai più alti uffiziali del regno, legge l’atto di accusa con-tro Eleonora e Brancaleone; essi sono ribelli e spergiuri edebbono essere perseguiti e condannati a morte. Il docu-mento è ricevuto dal re, che lo esamina, e poi lo passa algiureconsulto Bernaldo da Ponte affinché dichiari il cri-men laesae e proceda con tutta severità contro gli accusati.Ma non è questo il momento di procedure criminali; esseson povere armi di carta, senza alcuna efficacia laddove sicombatte veramente e si muore.

La storia degli anni successivi si riduce al ripetersi difatti d’armi presso gli stessi castelli, che resistono. DallaSpagna giungono delle truppe a spizzico per rafforzare leguarnigioni di Alghero e Longosardo stretti dappresso,contro cui si svolge vanamente l’assalto arborense. Caglia-ri è difesa da una piccola flotta, distaccata da quella di Si-cilia, che fa la spola fra le coste meridionali ed Alghero eLongosardo, per rifornire di armi e vettovaglie gli assedia-ti. I soldati finalmente ricevono lo stipendio, dopo esser-ne stati per lungo tempo privi; ottomila fiorini d’oro sonomessi a disposizione del governo di Sardegna per organiz-zare la resistenza. Ogni tanto si parla di nuove trattativedi pace, e, nonostante che la guerra infierisca, vi sonosempre ambasciatori più o meno autorizzati che vanno sue giù fra Oristano e Cagliari, ad esporre proposte e a tra-mare insidie. È un pochino la situazione del re Aman Ul-lah e dei ribelli afgani.

Ma più del governatore di Cagliari, che ha sulle spal-le tutto il peso della difesa e la direzione dei rifornimenti,si trova in una situazione imbarazzante il re. Nel 1392

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dopo trentacinque giorni di lotta sanguinosa riuscirono aliberare dall’assedio Longosardo. Gli assalitori, stanchi, la-sciarono dopo molte perdite l’impresa. Nel 1395 morì diinsulto apoplettico il re, mentre si dedicava al suo svagofavorito: la caccia. Per essa aveva trascurato ogni altro pas-satempo, aveva dimenticato le cure di stato, per essa avevasmesso l’idea di recarsi in Sardegna. E la morte che avreb-be potuto colpirlo presso qualcuna delle sconquassate roc-che di Sardegna, difese strenuamente e senza speranza daisuoi eroici fedeli, lo colse invece egualmente in una dolcegiornata di maggio, nella serenità della verde campagnacatalana, tutta ornata dai segni del lavoro e della pace. Locolse d’improvviso, e per quanto siano frequenti le mortirepentine, pur tuttavia suscitò nel popolino grande mera-viglia ed un infinito chiacchiericcio.

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Longosardo da terra, mentre appoggiano l’azione alcunegalere della vicina Bonifacio, che abbordano le navi catala-ne. L’esito dell’urto è incerto, ma Longosardo senza soc-corsi non può molto a lungo resistere. Il re è turbato perqueste notizie, e va a Tortosa nel mese di giugno per acce-lerare la partenza, nomina come capitan generale dell’ar-mata Gilbert de Cruillas, e stabilisce che senza fallo biso-gna esser pronti per il 25 d’agosto di quell’anno 1393.

La verità è che, nonostante che il re fosse a Barcellona,l’armata a settembre non era ancora pronta. E a preoccu-parlo maggiormente, ad accrescere la sua indecisione, ar-rivò un fiduciario di suo fratello, il duca di Monblanc, chelo scongiurò ad inviare aiuti di genti e di navi, perché ibaroni siciliani si erano ribellati, e minacciavano di fare lapelle al fratello stesso e ai loro sovrani. Rispose il buondon Giovanni che fra breve egli sarebbe partito con laflotta per la Sardegna, ed in quella occasione avrebbe fat-to in modo da rendere contento suo fratello. L’inviatocomprese che, a lasciarlo fare, il duca e i reali sarebberocaduti in mano cento volte dei bollenti baroni, e gli chie-se in grazia di concedergli certe galere già allestite perguardare le coste di Corsica e Sardegna; con esse avrebbeportato soccorso ai suoi stretti parenti; il re concesse, macosì fiaccamente, e nonostante il grave pericolo dei suoifamiliari, non sapeva prendere una decisione senza il pa-rere della regina. Se questa era assente, si doveva attendereil suo responso, e così vi era una grande confusione negliaffari di stato e tutto si faceva e disfaceva.

Le cose restarono a questo punto. Don Giovanni nonpartì mai, e la situazione di Sardegna continuò ad esseregrave, come per una lunga malattia incurabile. Per rompe-re la monotonia di questa guerra, l’anno seguente scoppiònel regno di Valencia la peste, che si propagò poi nell’iso-la. Il re se ne scappò a Maiorca, dove poteva respirare ariabuona, e di là sostituì il Montbuy, che non aveva saputorisolvere questa intricata faccenda sarda, con don Ruggerodi Moncada, e spedì alcune compagnie di mercenari che

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nell’età feudale le troviamo giuridicamente libere, non più le-gate dal vincolo che le teneva unite alla gleba.

È uno svolgimento da una inferiore ad una superiorecondizione di vita sul quale i documenti del tempo ciinformano molto imperfettamente. Pur tuttavia noi pos-siamo seguirne le varie tappe, se teniamo conto della si-tuazione sociale, economica del popolo sardo, e dei suoiobblighi tributari, nei secoli precedenti alla dominazionearagonese, durante l’età della occupazione dell’isola e du-rante il regno di Eleonora d’Arborea.

Bisogna quindi rifarci a quella oscura età dopo il mil-le, in cui le prime carte isolane ci danno informazioni sula semplice società, pur tanto caratteristica, dei Sardi sot-toposti al governo dei giudici.

Osserva molto acutamente il Di Tucci che la disposi-zione economica e sociale della Sardegna in quella etàracchiude nei suoi confini molti degli elementi più per-spicui delle società primitive. I rilievi da cui è modellatasi accostano con larga vivacità alle norme che regolanol’assetto originario delle associazioni etniche fissatesi suun territorio. Caratteristiche delle popolazioni camito-se-mitiche, diciamo noi, alle quali la gente sarda direttamen-te si ricollega.

In pratica, il suolo isolano è occupato da aggruppa-menti demografici, sorti dal consorzio di diverse famiglie,costituenti oramai una unità giuridica.

Queste popolazioni sono in gran parte formate daservos, che pur non trovandosi nella esatta situazione deiservi romani, possono essere ancora venduti, donati, datiin pegno, e chi li uccide deve risarcire il padrone del dan-no patrimoniale. Essi, come abbiamo detto, costituisconola maggioranza del paese, e sono servos de rennu, cioè di-pendono direttamente dal giudice. Nei latifondi, fuori deivillaggi, sono altri servos ma privati, dipendenti da signoriterrieri o da istituti ecclesiastici, e servi privati si possonotrovare, in piccola misura, anche nei villaggi. Accanto ai

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LA REDENZIONE DEI SERVI

In questo periodo (1390-1395) la lotta restò localiz-zata nelle estreme zone dell’isola occupate dagli Aragone-si; tutte le regioni dell’interno godettero una relativaquiete, e fu ripreso il lavoro dei campi. Triste semipace,che attenuava l’ardore del lavoro, perché si doveva esserepronti ogni istante ad abbandonare la falce e l’aratro perimpugnare le armi quando le necessità della guerra ri-chiedevano uno sforzo supremo. Pur tuttavia Eleonoracredette opportuno ristabilire nel regno un po’ di ordinee tranquillità, ricollegare le sparse energie, ed avviarle allavoro produttivo. Questo era possibile solo sotto l’im-pulso di una rinnovata attività legislativa, modificando inbase alle esigenze presenti le norme che erano state detta-te da suo padre, ed emanando nuove disposizioni. Si eb-be così la Carta de Logu.

Le esigenze che hanno spinto l’egregia principessa ademanare queste leggi e a compiere un atto solenne cheresterà memorabile nella storia dell’isola, perché tali nor-me si conserveranno come regolatrici della vita giuridicae sociale del popolo sardo per quattro secoli, sorgono dauna chiara visione delle situazione della Sardegna, da unprofondo senso storico che guidava Eleonora nella praticadi governo e di vita. Un grandioso fenomeno sociale lenta-mente manifestatosi negli ultimi duecento anni, era giuntosotto il suo regno ad una crisi, e doveva influire sull’ordi-namento sociale e sul processo produttivo dell’isola. Esso èstato acutamente posto in luce dal Manno, ed esaminatocriticamente prima dal Mondolfo e poi dal Di Tucci:Quelle popolazioni coltivatrici che nel secolo XI e XII eranoschiave, oggetti di vendita, divisione, permuta e donazione,

Non manca anche la vera proprietà privata, le don-nikalias, latifondi organizzati ad economia curtense, do-minî de sos lieros mannos. Pecuiare è in genere la proprietàprivata, sia dei mobili come degli immobili, sicché ancheil giudice ha, oltre al Rennu, che corrisponderebbe pressoa poco alla res privata di Costantino, anche su pecuiare,che è il patrimonium della stessa epoca: Pecugiare de Tru-gullei ki appo de parentes meos dice il giudice d’Arborea inun atto di donazione.

A questa semplice organizzazione economico-socialecorrisponde lo schema dei tributi. Principale fra essi laraccolta di una quota-parte della produzione agricola de-gli abitanti, di qualunque classe sociale, da principio ri-scossa segundu sa forza issoru, secondo la quantità dei pro-dotti raccolti; successivamente sostituita da una quantitàglobale fissa, che è poi ripartita per quote fra i diversi abi-tanti. Esso viene chiamato in genere dadu o collecta, macambia nome col variare del prodotto corrisposto. Anchenei saltos, terre indivise e sfruttate collettivamente, vienepagato con un decimo dell’armento, o con una diversaquota, e prende nome di glande o pastura. Questi preleva-menti sulla ricchezza individuale o famigliare, non sonoda confondersi con i censi che si pagano per la coltivazio-ne delle terre del rennu, da parte di collettività o privati.

Accanto a questi tributi sono le angarias od operas,obblighi di lavorare, più gravosi per i servos, meno per ipaperos, di lavorare sulle terre del rennu, destinate al giu-dice o ai curatori, gratuita forma primitiva di tributo.L’obbligo è esteso ai pastori che debbono custodire legreggi regie.

È questa in sintesi l’organizzazione economico-socia-le-tributaria della Sardegna del secolo XII e XIII. Lenta-mente si ha un processo di trasformazione che implicatutti e tre gli elementi, e che realizza un miglioramentodella posizione sociale, sopratutto degli schiavi.

Fra questi bisogna distinguere i servos de pecugiaredai servos de rennu. La situazione dei primi resta sempre

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servos de rennu, nei paesi, sono alcune categorie di semili-beri, scarsamente illuminate dalle fonti, su cui disparatipareri sono stati emessi dagli studiosi, e intorno alle qualinon è utile soffermarsi. Più in alto stanno i paperos, liberinon privilegiati e sprovvisti di terreni propri. Al disopra iliberos, forniti di proprietà, per quanto sottoposti a tribu-ti, come le altre classi sociali, e infine i lieros mannos, gros-si latifondisti, parenti del giudice.

Passiamo adesso ad esaminare i rapporti fra il grupposociale e la massa del territorio che gli appartiene. Talemassa prende il nome di fundamentu, è la base cioè sucui vive il gruppo demografico. Si tratta di terreni da col-tivare o paperiles, ed altri in luoghi accidentati, per pa-scolo e legna, più distanti dall’abitato o saltos. Ai terrenilavorativi hanno diritto tutti gli abitanti, liberi e servi,perché il villaggio come ente li possiede, e di essi può di-sporre, se è concorde la volontà della popolazione, diqualunque classe sociale. I paperiles sono divisi periodica-mente fra gli abitanti in lotti di diversa grandezza a se-conda della fertilità della terra e delle necessità della fa-miglia più o meno numerosa. I saltos invece rimangonoindivisi e sono sfruttati collettivamente. Accanto ai terri-tori che costituiscono il fundamentu o bidattone e che di-pendono sempre dalla autorità sovrana del giudice, sonoquelli del Rennu, appartenenti al fisco, nei quali non è lacollettività che esercita il diritto di ripartizione, ma ilgiudice. Egli concede lo sfruttamento alle collettività e aiprivati, mediante il pagamento di un censo locativo, op-pure li fa lavorare per suo conto dai servos de rennu, men-tre la coltivazione dei paperiles e lo sfruttamento dei sal-tos sono gratuiti. La concessione a privati od a istituzioniecclesiastiche di una quota parte del Rennu è la nota se-catura de Rennu, che si attua specialmente nei saltos regi,privi di popolazione organizzata a villaggio, dando dirit-to al possesso, alla coltivazione, e alla chiusura del fondo,con il corrispettivo di prestazioni d’opera e di censi innatura o denaro al giudice.

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Così la condizione dei servos de rennu, attraverso laproprietà, si viene a livellare con quella dei paperos chepresto scompaiono. In un momento di transizione non visono che homines, non più distinti in lieros et servos, chepagano i loro tributi, e danno le loro prestazioni persona-li. Si è agli inizi della dominazione aragonese. Nel primodei due testi citati dal Mondolfo, re Alfonso nel 1328 or-dinava ai feudatari di pagare per provvedere alle spesestraordinarie del regno, tertiam partem datii quod sive inpecunia, aut in frumento vel ordeo recipiunt in redditibusannuatim ab hominibus habitantibus in villis et locis perNos eis in feudum concessis; e così Ugone III d’Arborea,nel 1336, lasciava alla madre in legato usufructum medie-tatis fructuum et proventuum et serviciorum provenientiumde dicta villa seu de juribus et hominibus et feminis dicteville. Il trapasso è facilitato dalla nuova mentalità, quelladegli Aragonesi, che nelle loro terre non conoscono laschiavitù, ma una specie di villanaggio.

Un passo più avanti, e si arriva alle franchigie di Eleo-nora di Arborea, che restituiscono all’uomo il proprio di-ritto al possesso, la esenzione dalle prestazioni personali,non certamente la liberazione dai tributi e dalle colletteche avrebbe significato tagliare le vene che alimentano lavita dello stato. Il ritorno cioè alla condizione del paterfamilias sardo, come osserva il Di Tucci, con la sua indi-pendenza e i suoi diritti, secondo la più antica formuladegli Statuti di Castelsardo: item, chi si alcuna persona es-seret venidu a istare in Castellu Januese siat francu per unuannu, cio est custa persona tengiat fogu per se.

Eleonora nella occupazione del giudicato è andata dipaese in paese ed ha fatto giurare alle popolazioni fedeltàal suo primogenito Federico. In questa occasione essa ac-corda alcune franchigie, che consistono nell’abolizioneper dieci anni delle prestazioni personali, e probabilmentenella concessione di terre del rennu, senza corresponsionedi canoni per coloro che erano disposti a servire a cavalloin guerra.

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più gravosa, perché dipendono direttamente da un pri-vato; ma, come osserva con profondo senso storico ilMondolfo, essendo spesso oggetto di divisione fra diversiproprietari, e toccando a ciascuno una parte dello schia-vo, il dominio non è più sulla persona ma sull’opera diesso. Sicché il condominio tempera l’antico potere di vi-ta o di morte, e prepara la via alla liberazione, medianteprestazioni pecuniarie. Ma ciò avviene con molta fatica elentezza.

La maggior parte degli schiavi sono però servos de ren-nu. E costoro possono in tempi di mutazioni di dominiopolitico, e di guerre civili, elevare la loro condizione. Essisono obbligati al pagamento di tributi, a prestazioni per-sonali come i liberi, essi possono attraverso una intensifi-cazione del processo produttivo, o il risparmio, costituirsiun peculio. La porzione di paperile che è concessa al servocapo di famiglia viene a lui lasciata finché vive; poi do-vrebbe ricadere in proprietà del villaggio, ma siccome nelfrattempo sono cresciuti i figliuoli e lo hanno aiutato nel-lo sfruttamento del campo, questi hanno in realtà unaspecie di diritto di priorità, sicché gradualmente si viene asviluppare un titolo di proprietà, per quanto precario eimperfetto. Rimasto il terreno alla famiglia, pur restandodominio del villaggio ed inalienabile, viene trasmesso ere-ditariamente.

Accanto al possesso del paberile si costituisce anchelentamente la quasi proprietà sulle porzioni di terre delrennu, sulle quali si corrispondeva un censo per la conces-sione dello sfruttamento. Le guerre accelerano questo pro-cesso. Si ha bisogno di soldati a cavallo e la partecipazioneagli obblighi militari dà in corrispettivo la esenzione dapagamenti e da prestazioni personali.

Lo stato stesso facilita la trasformazione della locazio-ne nella proprietà assoluta, ed in tale senso deve essere in-teso il capitolo 67 della Carta de Logu che dispone: chiabbia posseduto a justu titulu immobili de su Rennu, ac-quisti dopo cinquanta anni il dominio assoluto.

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pisani e genovesi, penetrati in Arborea nel secolo prece-dente, beneficio e qualche immunità tributaria, scarsi po-teri giurisdizionali) il diritto di non pagare alcun tributoal feudatario. Item hordinamus qui sos lieros, qui no sunt apusti fidelles o terralis de fitu, o homini de sa corti qui istintiin sa villa afeada, non depian pagare nen dare tributu a sufidelli c’at avir sa villa, e i cussu chi at deber pagare o dareper ragione de jurados o per altera regione paguit a sa corte enon a su fideli.

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Sono le franchigie ricordate nel primo inizio di con-cordia con re Pietro: Item que sia merce del Senor Rey con-fermar aquella franquesa que Madona Eleonor los ha feta aX anys. Item que les franqueses e libertats dels dits Sarts sienservades segons de fur et de raho es fahedor elles de aquelleshan privilegis. Che questa franchigia non sia la esenzionedal dadu, dalla collecta, dalla vera e propria imposta, è di-mostrato dal fatto che la Carta de Logu parla appunto ditributi, essenziali, del resto, alla vita dello Stato. Fra le li-bertà vi è quella importantissima del trasferimento dauna terra a l’altra, che rompe il vincolo che teneva unitoil servo alla terra. Tale libertà ha un esplicito riconosci-mento nella stessa concordia, anzi raggiunge un più am-pio sviluppo con il diritto che acquistano i sudditi regi ei sudditi arborensi di passare dal territorio dell’uno aquello dell’altro, e di poter trasferire i propri penati senzaalcun impedimento.

Appare così in piena chiarezza il cap. 91 della Cartade Logu, che dispone che i bonos homines di Arborea sonoobbligati a servire la corte con cavalli ed armi, provveden-dosene a loro spese; debbono aver cavalli maschi che val-gano da X lire in su, tutta l’armatura, siano sempre prontiper la rivista, e per sfilare a cavallo quando il giudice lodesidera: e su chi non du faghet, torret assa servitudine depagare, o secondo altre edizioni, torret a munza. Ciò chesignifica: ritorni alle prestazioni personali che avevano ca-rattere di servitù. Quindi gran parte dei cavalieri di Eleo-nora erano uomini di origine servile, che, attraverso unfaticoso periodo di riscatto durato per intere generazioni,avevano ottenuto immunità da pagamenti di canoni e daprestazioni di opere. Nella Carta de Logu, codesti liberihanno ancora fresco il segno della loro inferiore condizio-ne, e possono con tutta facilità ricaderci se non adempio-no ai loro obblighi. Ed hanno bisogno di essere tutelati eprotetti da eventuali sopraffazioni se il cap. 92 della Cartagarantisce al lieru, che si trovi in una villa data in feudo (inquella forma cioè ibrida ed imprecisa, prodotto di influssi

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vuole instaurare un principio d’autorità e forgiare una na-zione. Nos Elianora per issa gratia de deus Iuiguissa de Arbo-re, comitissa de Gociano e biscontissa de Basso.

L’opera a cui l’egregia donna s’accinse, aveva già diver-si precedenti nell’isola. È vero che il diritto sardo si fonda-va sulla tradizione, ma già l’influsso della civiltà toscana eligure aveva spinto diverse città dell’isola a formulare i lo-ro statuti, fra cui giustamente celebri per saggezza di nor-me quelli di Sassari e di Villa Chiesa. Ma Bonifacio VIIIgià nel 1299 ricorda le constitutiones seu leges vel statuta perreges seu principes seculares Sardiniae et Corsicae editas contraecclesiasticam libertatem, e noi conosciamo l’esistenza di unBreve regni Kallari o Carta de Logu de Kalari pienamentein vigore nel 1313 come legge del vicario del regno di Ca-gliari, dipendente dalla repubblica pisana. Sappiamo altre-sì, per le sapienti ricerche del Solmi, che esso si conservòcome legge per i Sardi del meridione per tutto il primo pe-riodo della dominazione aragonese, e che era la trascrizio-ne delle antiche usanze e consuetudini delle popolazionicagliaritane, con qualche modificazione apportata dallaricca esperienza storica pisana.

Ma ci interessano sopratutto i precedenti arborensidella Carta di Eleonora. Essi sono rappresentati appuntoda una Carta de Logu di Mariano IV, alla quale si riferisceEleonora nel suo proemio, dichiarando di aver correttaed ampliata sa Carta de logu sa quali cun grandissimuprovvedimentu fudi facta; dai ventotto articoli del Codicerurale dello stesso Mariano, in cui sono interessanti di-sposizioni per la difesa dell’agricoltura dall’invadenza del-la pastorizia. Ad essi seguono alcune leggi ed ordinanze diUgone IV, in gran parte di carattere penale, che egli ag-giunse agli statuti della repubblica sassarese nel periodoin cui occupò la città. Il lavoro della grande giudicessa,che presuppone la legislazione precedente, e dà alla nor-ma un nuovo soffio di vita, fece dimenticare e quasi deltutto perire queste raccolte di antiche usanze e istituti.

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LA CARTA DE LOGU

Questo rapido emergere di nuove categorie sociali,forze produttrici che vivificano l’organismo economicoarborense, perché germinate dall’energia e dall’audacia dicoloro che si sono conquistati un migliore avvenire conla personale fatica, determina uno spostamento delle vec-chie posizioni, qualche volta il loro crollo, per un altroriassetto.

Si tratta appunto di questi mutamenti nel proemiodelle Carte, e da essi Eleonora trae la giustificazione per lanuova opera legislativa. Bisogna svecchiare le norme fissateda Mariano, modificarle e portarle all’altezza dei tempi, in-dicare i limiti dei loro diritti ai recenti liberi, regolare nellapratica le contrattazioni per i traffici interni e d’oltremare,stabilire energiche sanzioni contro il crescente ardire dellemasse risvegliate dalla guerra. Ecco il nuovo compito diEleonora. Ma sopra tutto l’esigenza della creazione di unostato, esteso a tutta l’isola, sistemato in forme moderne, asimiglianza dell’organismo aragonese, e quindi la formula-zione di un principio di sovranità che superi la più ristrettavisione quasi patrimoniale e privata che è stata sino allorapropria dell’amministrazione del giudicato arborense. Laseconda metà del secolo XIV e la prima del XV ci fannovedere nell’Europa occidentale forti tentativi di organismifeudali, o comunque in rapporti di dipendenza da altri or-ganismi statali, per raggiungere la sovranità. Questa esigen-za fu intensamente sentita da Eleonora, come da Marianoed Ugone, per quanto la storia abbia dato a tutte questeaspirazioni e tendenze la più crudele smentita. L’avvenire èdelle grandi monarchie. Ma la Carta che Eleonora diede aiSardi è la più gagliarda affermazione d’una volontà che

desunte dagli usi e consuetudini locali, rappresenta ancheun vigoroso sforzo per piegare le antiche tradizioni versonuovi sbocchi indicati dalle esigenze dell’ora storica, edavvicinarsi alla dottrina e alla pratica del diritto catalano-aragonese che, attraverso la diretta conoscenza del pensie-ro giuridico romano, si era in parte liberato dalle vecchieforme medioevali. È probabile quindi che quanto noi ri-troviamo nella Carta, che sia ricordo di una regola roma-na o accoglimento di alcuni principi del diritto romano,non sia frutto di diretta conoscenza delle fonti, ma indi-retto riflesso della cultura curiale catalana e delle influenzedella civiltà italiana non ancora spente. Naturalmente suquesto argomento non tutti i pareri sono concordi. Men-tre il Mameli, il Pertile, il Del Vecchio avevano affermatoche la Carta di Eleonora presupponeva l’autorità delleleggi romane, e che le consuetudini sarde avevano valorelà dove solo quelle non disponevano, il Solmi oppone cheil ricordo, al capo III, di una regola romana e l’accogli-mento di alcuni principi dello stesso diritto, dimostranosoltanto che i compilatori avevano conoscenza delle fontiromane, ma esse non avevano osservanza giuridica. Il Be-sta dà maggiore importanza a questo influsso, e ritieneche in Arborea venissero considerate come leges per eccel-lenza quelle dell’antico diritto, per quanto non avesserol’autorità attribuita loro dal Pertile, e fossero state diffusein Sardegna per opera degli elementi liguri e pisani pene-trati nell’isola. Né è da trascurarsi l’osservazione del DiTucci che mentre nelle altre parti dell’isola la conquistaaragonese spezzò ogni attività della cultura continentaleitaliana, nell’Arborea, mantenutasi quasi autonoma circaun secolo, la casa dei De Bas l’abbia invece ravvivata e fa-vorita, memore della tradizione curiale catalana, indirizza-ta a superare la legislazione visigota con l’introduzione deldiritto giustinianeo.

Allo stato attuale, mancandoci completamente la Car-ta de Logu di Mariano, ci è molto difficile discernere quel-lo che è, nell’opera di Eleonora, ripetizione delle antiche

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La Carta de Logu di Mariano, infatti, non era che laraccolta e la trascrizione delle consuetudini viventi nellogu, cioè nella popolazione che abitava nel territoriod’Arborea. Poiché questi aggruppamenti demografici era-no legati strettamente al suolo, quasi abbarbicati in esso,come una indigena flora, logu equivale a populu, e cartade logu a carta populi. Essa è espressione d’un plesso eco-nomico-sociale che nell’Alto Medioevo conservava i ca-ratteri delle società primitive. Le forze originarie, che co-vava nel suo seno, sopraffatte nel periodo imperiale, daldiritto pubblico e privato di Roma, dichiarato nelle cittàprincipali dai magistrati, ripullulano per una intima esi-genza locale non appena le leges o rexione divengono unvago ricordo di un’autorevole tradizione tramontata. Sitratta di una delle tante prove della superiore impostazio-ne dello spirito romano di fronte alle reali capacità dellepopolazioni assoggettate, secondo l’acuta interpretazioneche fa il Rostowzew della crisi dell’impero. Era necessarioad un certo punto arrestarsi e ritornare indietro, per po-ter poi ripercorrere la via che con sublime genialità erastata tracciata da la volontà romana. E pur troppo la Sar-degna dovette ritornare a la sua barbarie prepunica, perpoter ricominciare il faticoso cammino del progresso.

Le affinità che si riscontrano fra alcune disposizionidegli Statuti di Sassari, tratte dalla consuetudine sarda enon dalle leggi pisane (come tante altre norme degli Sta-tuti) e quelle rimasteci del Breve Regni Kallari, e alcunedella Carta de Logu di Eleonora, che sono una riprodu-zione di disposizioni della Carta di Mariano, ci dimostra-no che le condizioni di assoluto isolamento della Sarde-gna avevano creato una organizzazione di razza che, entroi limiti geografici della regione, conservava le sue peculiaricaratteristiche, sicché leggi dettate per i diversi giudicatiavevano una stretta rassomiglianza e derivavano dalla me-desima tradizione.

La stessa cosa non si può dire per l’opera di Eleono-ra; se anche essa si ricollega ad un complesso di norme

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difesa del consorzio civile, e viene eliminata ogni vendettaprivata.

Et pro denaro nixunu non campit. D’altro canto la gra-vità della pena non era graduata secondo la condizionesociale del reo, ciò che confermava l’esistenza d’una asso-luta sovranità regia. La pena, salvo nei più gravi delitti,era in genere pecuniaria, e solo in caso di mancato paga-mento veniva applicata quella sussidiaria, la mutilazione.Nella applicazione della pena non si badava alla sola ma-terialità del fatto, ma si teneva conto dell’elemento sog-gettivo: se il reato fosse stato compiuto deliberatamente opure no. Occorreva la coscienza della criminosità dell’attoperché fosse punito; e potevano essere causa discriminan-te la difesa personale e l’ordine superiore. Ma le ragionid’ordine soggettivo di cui abbiamo parlato davano lo stes-so valore alla esecuzione effettiva del delitto, alla compli-cità in esso, al mandato, sicché eguale era la pena.

Anche il sistema penale, è rispondente ai tempi in cuifu pubblicata la Carta. La pena capitale è comminata peri delitti contro la sicurezza dello stato o del sovrano, con-tro l’omicida, l’assassino, il grassatore, l’incendiario. Atta-nagliamenti e altre torture sono solo riservate ai reati dilesa maestà. Tre forme di esecuzioni capitali ammette laCarta de Logu: impiccagione, decapitazione, arsione.

Il bando è solo impiegato come sostituto della pena dimorte quando il condannato si è sottratto alle mani dellagiustizia; allora qualunque privato può ucciderlo senza ri-cevere noie.

D’altro canto nessun rapporto vi è fra l’entità dellamulta e la gravità della mutilazione, compiuta in via sus-sidiaria in caso di insolvenza, cosicché, osserva il Besta,impossibile stabilire una valutazione fissa dei singoli artiin relazione ad una estimazione complessiva del valore del’uomo. Ciò che pare argomento abbastanza valido perescludere che nella Sardegna medioevale esistesse un siste-ma ordinato di composizioni private. La pace fra le partiriduce la pena, ma non riesce mai a dare l’impunità.

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norme da ciò che è dovuto soltanto ad essa. Ma è fondatasupposizione che sopratutto nella distinzione fra dolo ecolpa, nell’importanza cioè attribuita all’elemento sogget-tivo del reato, nel carattere sociale riconosciuto alla pena,nel divieto della composizione dei delitti maggiori, nelleforme processuali, più complesse dell’antico rito, ed arieg-gianti quelle barcellonesi, si possa trovare l’elemento nuo-vo apportato dalla grande giudicessa. Certo che, nono-stante le ardite innovazioni, il profumo di vita sarda nellaCarta de Logu è acutissimo; su di essa gravano le millena-rie tradizioni, e danno all’opera un singolare colore arcai-co i ventotto capitoli del Codice rurale di Mariano che so-no stati dai copisti incorporati nel testo.

Il Besta, alla nuova critica edizione del maggior mo-numento legislativo della Sardegna medioevale, ha pre-messo una prefazione illustrativa nella quale, dopo avereesaminate le questioni preliminari, ha presentato unaesposizione sistematica del contenuto dell’opera, soffer-mandosi sugli elementi offerti per la ricostruzione, alme-no parziale dell’ordinamento amministrativo e giudiziariodel giudicato, poi esponendo le norme principali che si ri-feriscono all’amministrazione della giustizia e al procedi-mento, indi appalesando i civili intendimenti della legisla-trice nel diritto penale che è progredito in confronto delleleggi di Ugone. Segue l’esposizione del diritto privato, lacomunione dei beni nel matrimonio assa sardisca, le di-sposizioni riguardanti le relazioni fra padri e figli e la suc-cessione intestata, i contratti, la locazione, i diritti reali.

Sovra tutto sul diritto penale ha portato la sua atten-zione il Besta, ed afferma che in esso meglio risaltano i ci-vili intendimenti della legislatrice, che se non oltrepassò isuoi tempi, seppe tuttavia tenersi lontana dall’arbitrio edalla crudeltà che deturpano altri statuti contemporanei.

Quali altri scopi di carattere sociale l’esimia donna siproponesse, appare chiaro dal fatto che viene proibita ognipattuizione privata di risarcimento del danno. La pena vie-ne determinata dall’autorità regia per superiori criteri di

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IL CONTENUTO DELLA CARTA DE LOGU

La lingua che adopera Eleonora nel suo codice è l’arbo-rense, un dialetto vivo ancora sulle colline che sovrastano ilCampidano Maggiore, fra Abbasanta, Ghilarza, Neoneli eSorgono, in una zona ristretta. Un tempo essa arrivava finoad Oristano, e più oltre. Il dialetto è fondamentalmente illogudorese nei suoi svolgimenti morfologici, ma è influen-zato da accidenti fonetici del campidanese, che di giornoin giorno prende sempre più piede verso il settentrionedell’isola. È un linguaggio ricco e armonioso che ha tuttala dignità necessaria per dare forma solenne alla legge.

L’opera comincia con un proemio nel quale Eleonoraespone le ragioni che l’hanno condotta ad emanare laCarta de Logu.

Giacché l’incremento delle provincie, regni e terre, di-pende dall’osservanza di quel diritto universale che è detta-to dalla ragione (allusione alle antiche leggi romane consi-derate come leggi del mondo intero) e perché la giustiziasia salva, e la superbia dei rei e degli uomini malvagi sia in-frenata dalla paura delle pene, e i buoni e gli innocentipossano vivere in pace, obbedendo alle leggi, Noi Eleonoraper la grazia di Dio giudichessa di Arborea, contessa diGoceano, viscontessa di Basso, facciamo questi ordina-menti e capitoli che vogliamo e comandiamo espressa-mente debbano essere osservati come legge da ciascun sud-dito del nostro giudicato d’Arborea in giudizio ed extra.

La Carta de Logu, che con grande senno e preveggenzaera stata fatta dalla buona memoria del giudice Mariano,nostro padre, quale giudice sovrano di Arborea, non essen-do stata corretta per lo spazio di 16 anni (mentre ritenia-mo che le leggi debbano essere modificate ed emendatecol tempo, poiché la condizione degli uomini è di molto

Fustigazione, berlina, marchio sono nel codice diEleonora sempre succedanei di pena pecuniaria. Il carcereè mezzo preventivo di custodia, mai pena a sé. Fatta ecce-zione dei maggiori reati si tende a colpire il patrimonio,non la persona; ed anche in caso di confisca totale si sal-vano i diritti della moglie, dei figli, dei creditori del con-dannato. Il sistema punitivo di Eleonora si basa sopra tut-to sulle multe, sas maquicias.

Alla sistematica esposizione del contenuto della Carta,e dei criteri che hanno guidato la legislatrice, compiutadal Besta, fa riscontro lo studio accurato e profondo delDi Tucci, sia nel Diritto pubblico della Sardegna nel Me-dioevo, sia in altri suoi scritti. Il Di Tucci, che dà moltaimportanza, nell’esame del clima ideale in cui è sorta laCarta, alla tradizione curiale barcellonese, osserva che lenorme riguardanti i diritti e le pene sono disperse in tuttele sezioni del codice. Infatti, vi è una strana mescolanza dimateria in questa opera di Eleonora, quasi il frutto di suc-cessive interpolazioni; essa è dal punto di vista dell’ordinee dell’equilibrio parecchio confusa, il diritto pubblico e ildiritto privato si accavallano nelle medesime sezioni e neimedesimi capitoli. Ma questo tumulto non toglie il valo-re vitale della compilazione, che è fresca e quasi attuale, erispecchia tanta parte della moderna vita sarda. Noi cer-cheremo di presentarne la materia, non nella forma siste-matica e scientifica del Besta, ma in conformità alla divi-sione in sezioni che ritroviamo nella edizione dell’Olives,e che forse risponde ad una antica tradizione.

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La forca attende l’avvelenatore, e, se si tratta di unadonna, il rogo. Se il veneficio non è seguito da morte iltaglio della mano destra e il rifacimento dei danni e dellespese. Il suicidio è considerato come un delitto, ed il Be-sta ricorda che ciò risponde ad usi esistenti in terre giàsoggette a Bisanzio; può anche risalire ad antiche tradizio-ni camito-semitiche. Il cadavere di colui che ha dimostra-to col suo gesto la volontà di uccidersi, viene strascinatofino alla forca, e appiccato. I suoi beni sono confiscati.Eleonora dispone che sia fatta una severa inchiesta per co-noscere i motivi di questo atto inconsulto.

Il taglione è applicato ogni qualvolta la ferita importila perdita di un braccio o di una gamba. Sindi perdiritmembru, cussu simigianti membru perdat et pro dinari pe-runu non campit. Il taglione era per le mani, i piedi, le di-ta, gli occhi, le orecchie, le labbra. Per ferite più leggereerano comminate pene pecuniarie. Si distingueva se la fe-rita era stata fatta nel viso, se restava sfregio visibile, se eraprodotta da ferro, legno, pietra, mano. Si teneva contoanche della classe sociale dell’offeso.

Segue l’aggressione: poteva essere a mano armata osenz’armi, nella casa in cui risiede l’offeso o in fondo ru-stico e vigna propria. La multa in queste ultime condizio-ni è più grave che nel caso in cui l’aggressione si svolgasulla pubblica via. Se l’aggressione produceva ferimento,rientrava nel precedente reato, e la pena era aggravata dauna maquicia maggiore.

Il grassatore sulla strada pubblica, veniva afforcato.Per robaria fuori delle strade, in villa o in campu, o in sal-tu duecento lire, e in caso di insolvenza la forca. Fra que-sti capitoli sono anche disposizioni riguardanti il majore,capo amministrativo e ufficiale di polizia del villaggio, ilquale deve ricercare, denunziare, arrestare, consegnare gliomicidi, i banditi, i grassatori e i ladri al pubblico potere,con l’aiuto dei jurathos de logu.

Seguono i primi capitoli che delineano l’incarica cioè laresponsabilità degli ufficiali suaccennati, e la responsabilità

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mutata, e vi è maggior tendenza al mal fare che ad accre-scere il benessere della sardesca repubblica) abbiamo stabi-lito di mutarla di bene in meglio, e comandiamo che dalgiorno soprascritto sia osservato integralmente ciò che èinfrascritto.

Dopo questo solenne e contorto periodo che noi ab-biamo cercato di rendere alla bella meglio, s’inizia la pri-ma sezione sine titulo che va dal capitolo I al XVI. Il reatodi lesa maestà. È un delitto che acquista significato e valo-re nel momento politico che allora si vive.

Sul problema della sovranità si imperniava la sangui-nosa contesa fra Aragona ed Arborea. È Arborea un regnoindipendente, od un feudo governato da un vassallo? Inrealtà Eleonora, come già Mariano agiscono di fronte alre d’Aragona nella stessa maniera in cui agirà Carlo il Te-merario, dinanzi a Luigi XI, sognando di costituire la suaGallia Belgica.

Ora, chi osi offendere, materialmente e moralmente,il sovrano di Arborea, i suoi figli, i suoi nipoti, chi affermiche la sua autorità è tirannia come dicono gli Spagnuoli,mentre è invece potere supremo ed autarchia, conquistatada Eleonora con la punta della spada, sia portato attornosu di un carro per tutta la terra di Oristano, ed attanaglia-to; indi, sempre attanagliandolo, sia condotto alla forca eappiccato. Ed eguale sorte tocca ai traditori che faccianoperdere onori, terre e castella ai signori di Arborea. Legatialla coda d’un cavallo siano trascinati nella polvere pertutta Oristano e poscia afforcati.

Così anche l’omicidio è punito col taglio della testa,eliminando ogni forma di composizione. Et pro dinarinixunu non campit; salva s’intende la legittima difesa, nelqual caso non di siat mortu et pena alcuna non di hapat etnon paguit. D’altro canto Eleonora dà importanza al fat-tore soggettivo del reato, e distingue chi uccise con animodelliberadu e pensadamenti, da chi non ebbe intenzione diuccidere; in questo caso e nel caso fortuito la pena è la-sciata all’arbitrio del giudice.

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happida carnalmenti, paghi lire cento, e se non paga entroquindici giorni abbia mozzo un orecchio. Eleonora perònon è molto benigna neanche verso le donne che peccanocarnalmente. Se una maritata adesca un uomo e si fa tro-vare con lui in casa, viene frustata e privata di tutti i suoibeni e diritti, che vanno a favore del marito. Il ganzo dove-va pagare cento lire; venticinque se il reato non era statocompiuto in casa, ma la donna veniva frustata egualmente.

Cento lire doveva anche pagare il rapitore e detento-re di donna maritata che rifiutava di restituirla al marito,dopo che questi gliene aveva fatto richiesta. E anche inquesto caso, in via sussidiaria, un orecchio di meno.

I capitoli XXIV e XXV sono interpolazione di altramateria eterogenea. Chi va armato a feste o sagras de eccle-sia, paga venticinque lire di multa e perde l’arma. Disposi-zione di polizia giustificatissima, perché le soverchie libazio-ni in onore del santo festeggiato potevano essere consiglieredi dissennati propositi, e d’altra parte molti delinquentiavrebbero avuto agio di mescolarsi fra la folla dei festaioliper commettere armati qualche misfatto.

Gravissime disposizioni contro coloro che portino ingiudizio un documento notarile falso. Il presentatore vie-ne condannato ad arbitrio del giudice: il notaio esecutoredel falso deve pagare cento lire, e se non paga entro il me-se, gli è mozzata la mano destra. Viene inoltre interdettodall’ufficio. Gli immobili o le cose, oggetto di contesa,vengono senz’altro riconosciuti alla parte avversaria.

Ma gli ordinamenti contro il furto sono quelli chedanno il titolo a questa sezione, e data la importanza e fre-quenza del reato nell’isola, ricevono un adeguato svilup-po. Già abbiamo visto come a scopo preventivo venisserocompiute delle perquisizioni in tutte le case della villa, edin particolar modo in quelle dei negozianti e mercanti.Sotto l’aspetto della repressione, il furto è qui considerato:Come furto di cose sacre e di beni ecclesiastici, punitocon lire cinquanta, pena sussidiaria l’estirpazione dell’oc-chio; in caso di recidiva, la forca. Come abigeato con pene

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collettiva della villa per tutti i danneggiamenti arrecati al-la proprietà immobiliare e mobiliare, per la mancata de-nuncia o cattura del delinquente, per tutte le necessitàdell’ordine e della sicurezza pubblica. L’incarica è il logicosvolgersi degli ordinamenti dell’Alto Medioevo che mira-vano alla difesa economica della villa, della proprietà e deifrutti del lavoro della massa e di ciascun abitante, esercita-ta dagli organi amministrativi locali; ora con la Carta deLogu, tutto il villaggio è investito di una funzione di poli-zia giudiziaria.

La seconda sezione si intitola: Ordinamentos de fura etmaleficios (cap. XVII-XLIV). I primi tre capitoli ci pre-sentano il majore con i jurathos nell’esercizio di una fra leloro più delicate funzioni: quella di stimare una volta almese i danni ai quali potevano andare soggetti gli uominidella villa e due volte al mese quelli subiti da mercanti enegozianti. In queste ispezioni, entro le case del villaggiose trovavano del corame di bue, di vacca, di cavallo, dove-vano inquirire per accertarne il legittimo possesso, e in ca-so d’irregolarità arrestare il detentore immediatamente.L’importanza del corame era data dal fatto che per la suamarcatura e annotazione in apposito registro si pagavanodei diritti di Rennu. Inoltre intenso era il commercio colcontinente, e molto facile il furto.

Il codice, con un volo pindarico, passa dagli ordina-menti di polizia allo stupro. Poteva essere o di donna ma-ritata, o di fidanzata o di vergine senza altre qualifiche.Nel primo caso il violento veniva punito con lire cinque-cento di multa nel secondo e terzo caso, pro sa bagadia,vacativa, la nubile, duecento lire, pena sussidiaria il tagliodel piede, e aveva obbligo di sposarla; ma qui è una ecce-zione che rivela la psicologia femminile: si plaquiat a safemina, se questo sposalizio era di gusto della donna. Po-teva anche trovarle marito, dotandola convenientemente,secondo la sua condizione sociale.

Allo stupro segue l’adulterio. Si alcunu homini entraritpro forza a domo de alcuna femina cojada et non l’happat

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sfogo al crescere della nuova erba. Una volta dato fuoco,basta un po’ di vento perché intiere zone si trasformino inun braciere.

Le stoppie non debbono essere bruciate, dice Eleono-ra, prima del giorno di S. Maria chi est a die octo de capu-danni 8 settembre. Se si dà fuoco involontariamente sipagano i danni e dieci lire di multa se accade nei tempi incui è lecito poner fogu, venticinque nelle altre stagioni; sel’incendio è doloso e riguarda terreni coltivati, cinquantalire di multa e in via sussidiaria il taglio della destra. L’in-cendio doloso di abitazioni è punito col rogo. In tutti icasi il risarcimento del danno. Per difendersi da codesteterribili ondate di fuoco che potevano propagarsi sui se-minati, numerose ville elevavano delle barriere protettivedinanzi alle habitaciones, cioè ai terreni lavorativi apparte-nenti alla comunità, in modo tale da arrestare l’avanzatadella fiamma. Eleonora ordina che per il giorno di SanctuPerdu de lampadas, 29 giugno, la barriera, sa doha, deveessere pronta, e se non è pronta, paghino tutti gli abitanti10 soldi per ciascuno, e se la barriera non è preparata adovere, e può essere valicata dal fuoco, paghi il villaggio lamedesima somma, ed il curatore che doveva disporre per-ché tutto fosse in ordine, dieci lire di multa a la corte, e seegli aveva dato un ordine che non è stato eseguito, paghi-no collettivamente tal somma il majore e i suoi Iurathos.

Con il capitolo L s’iniziano gli Ordinamentos de cher-tos et de munza (cap. L-LXXX) dei giudizi cioè e delleprestazioni servili. Ma il capitolo L e il successivo trattanod’argomenti del tutto estranei a quelli sovracitati.

Fanticelle ed altre donnette che convivano irregolar-mente con i loro amanti, debbono ben guardarsi dall’aspor-tare cosa alcuna da casa dell’amico, contro sua volontà,sotto pena d’essere condannate per furto. Lo stesso si dicadell’amico che volesse fare altrettanto nei riguardi della suaganza. E da questo argomento piuttosto scabroso, che rive-la costumi e sistemazioni di vita non supponibili a primavista nell’ambiente ancora primitivo arborense, si passa al

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diverse a seconda che si tratti di proprietà del Rennu, o del-la Chiesa o di privati, a seconda che si tratti di cavalli, ca-valle, bovi domati; o cavalli e bovi indomiti, vacche, asini;o pecore, porci, capre. In tutti questi casi multe varie, conpena sussidiaria il taglio d’un orecchio. La seconda volta laforca, per il bestiame domito; nuova multa o nuovo tagliod’orecchio, per le altre due categorie. La terza la forca.Inoltre è considerato: come furto di cane de loru, da guar-dia, o jagaru, da caccia; come furto d’api, come furto difrumento mietuto, e punito con multe non gravi. Il furtocon effrazione è punito con la forca.

Seguono disposizioni di polizia per arrestare i ladriche si spostino nel territorio d’Arborea, da una curatoriaall’altra; ed altre riferentisi agli obblighi di risarcimentodei danni che, in base alla responsabilità collettiva, grava-no sui jurathos e sulla intera popolazione, presso cui èstato commesso il furto. Sono proibiti inoltre gli acquistidi bestiame appartenente al Regno, senza consenso di uf-ficiali responsabili. Il compratore veniva considerato co-me un ladro.

Il capitolo 42 tratta di materia di obbligazioni. A ri-chiesta del creditore l’ufficiale del luogo poteva arrestareil debitore di qualunque grado o condizione sociale senon pagava a tempo stabilito, purché la somma dovutasuperasse le quindici lire. Il debitore poteva sottrarsi al-l’arresto se riusciva a dare fideiussione di pagare entro ot-to giorni (si darit pagadoris assu dittu creditore de’llu paga-re infra dies VIII).

Un argomento di grandissima attualità è l’oggetto del-le norme contenute nella terza sezione: Ordinamentos defogu, dal cap. XLV al XLIX. Ancora oggi nel mese di ago-sto e di settembre tutta la Sardegna è in fiamme. L’aria,sovra tutto in agosto, è greve e irrespirabile, dense colonnedi fumo si appesantiscono sulle valli, le cime di boscosemontagne divengono un fantastico e gigantesco rogo. Ilmale trae origine dalle medesime cause d’un tempo. Si ac-cendono le stoppie per concimare il terreno e dare libero

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podestade. La corona de logu era presieduta dal giudice, co-stituita da alti personaggi del giudicato, trattava le causepiù gravi e rilevanti, ed era tenuta nelle grandi solennità,sul limitare d’ogni stagione. La corona de chida de berrudaera presieduta dai curatori in persona, assistiti da cinquebonos homines. Si erano istituite ad Oristano mudas o tur-ni di una settimana fra le diverse curatorie, cosicché cia-scun curatore con i suoi uomini risiedeva nella capitaleper quel periodo di tempo. Quali fossero precisamente lecompetenze della corona de logu e quelle della corona dechida non si sa con esattezza. Corona de podestade eraquella presieduta dal majore della villa di Oristano dive-nuto podestà.

Con il capitolo LVII si fa una escursione nei dirittireali, concedendo Eleonora l’actio spolii a favore di chi siastato spogliato di domo e fundamentu senza giustizia. Ilgiudice che denega giustizia o con la sua negligenza nerende difficile l’ottenimento, viene punito con una multae deve rifare la parte lesa dei danni subiti (cap. LX). Nelcapitolo successivo il Besta crede di riscontrare l’accennoad un antico uso per cui la parte accusata d’un delitto po-teva liberarsi da ogni responsabilità verso la parte lesa conun giuramento purgatorio prestato stragiudizialmente sul-la cruxi de credenza.

Eleonora dispone che in causas criminalis tale giura-mento sia fatto in mano all’ufficiale che presiede la corona,e vieta che possa essere prestato sença sa justicia, e in assen-za dell’ufficiale. Gravi multe sono inflitte a chi non osser-va tali disposizioni che valgono a mantenere alto il presti-gio della giustizia di Stato.

Molto importanti sono anche le norme proceduraliriferentisi ai testimoni, perché, secondo il Di Tucci anchequi Eleonora si inspira agli usi barcellonesi. Essi debbonoessere di buona fama, e sono esclusi quelli che già furonotestimoni falsi. Le deposizioni non sono valide se non af-fermate con giuramento, non obstanti alcunu capitulu debreve over usança ch’esseret facta et observada per tempus

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capitolo LI in cui si vede un altro aspetto della vita isolana.La cultura nel giudicato è molto scarsa, mancano i notainelle città, nei castelli, e sovra tutto nei villaggi. QuindiEleonora abilita i parroci e gli scrivani di curatoria a riceve-re i testamenti, affinché il volere dei defunti sia sempre ri-spettato. Gli atti, naturalmente, debbono essere redatti informa debita; e nel caso che manchino parroci e scrivani dicuratoria, bastano dei semplici scrivani locali che potrannoricevere testamenti in presenza di sette od almeno cinquetestimoni.

Col capitolo LII si entra nell’argomento che dà il titoloalla sezione. Nel fissare le norme del procedimento giudi-ziario, Eleonora si distacca arditamente dalle vetuste tradi-zioni locali; così appunto la nuntha o citazione deve esserefatta per iscritto mentre l’antica era soltanto verbale. Il DiTucci ritiene che qui e in molti altri particolari del proce-dimento lo spirito della riforma sia mutuato dalle formeprocessuali barcellonesi. Sa nuntha deve essere trascritta inun apposito cartolaiu e spedita, dopo essere stata letta dailieros che fanno parte della corona, e che inviano la citazio-ne. Deve essere consegnata, in presenza di due o tre testi-moni, in persona al convenuto; e se non si riesce a trovarlola si consegni ad abitanti nella stessa casa, sempre dinanzi atestimoni. E il nunzio deve fare relazione scritta della con-segna alla corona. La inosservanza della prima e seconda ci-tazione dava luogo ad un’ammenda in denaro, la terza eraperentoria, il convenuto era condannato in contumacia,salvo giustificazione per legittimo impedimento, l’attoreveniva immesso nel possesso dei beni richiesti.

Ora, da chi è amministrata la giustizia; che cosa sonocodeste coronas? I capitoli successivi ci presentano i magi-strati sardi che non giudicano singolarmente, ma collegial-mente, assieme ad una commissione di lieros. Tale collegiosi chiama corona, antichissimo istituto sorto dal dirittoconsuetudinario.

In questa sezione ci sono presentate tre specie di coro-nas: corona de logu, corona de chida de berruda, corona de

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controllate da un canattiere. Nel caso che un cervo fossestato azzannato dai cani, e qualcuno si fosse permesso digettarsi sul cervo, e strappar loro la preda per appropriarse-la, colto sul fatto dal canattiere e rifiutando di restituirla,doveva consegnare al canattiere come multa un bue, e pa-gare una forte multa al regno, di cui un terzo al curatore.

Gravi sanzioni si infliggevano al majore de cavallos, unaspecie di gran maresciallo arborense, se avesse impiegato asilva qualche cavallo regio senza il permesso del sovrano, ela bestia fosse morta per accidente durante la caccia.

Due capitoli trattanti di materia eterogenea: il LXXXVche vieta di avvelenare le acque a scopo di pesca neglistagni, prima della giornata di S. Michele, 29 novembre,sotto pena di una lira al regno e di mezza lira al curatore.La mitezza della pena, osserva il Besta, ci dimostra che ilprovvedimento ebbe solo lo scopo di tutelare la riprodu-zione della specie. Nel LXXXVI sono stabilite sanzionicontro l’impiego di misure e stadere false.

Si riferiscono invece agli ordinamentos de silva il divie-to di asportare astori dal nido o falconi. Scopo politicohanno invece le sanzioni contro coloro che vendevano ca-valli a stranieri (terramangesos): si trattava d’impedire laformazione di una riserva di animali per la cavalleria ara-gonese. Essi possono essere infatti venduti ai prelati, agliabati, ai chierici, ai borghesi non sardi, residenti in Arbo-rea, e legati da interessi ai giudici.

Parimenti di grandissima importanza sono le disposi-zioni dei capitoli LXXXIX, XC, XCI, che si riferiscono ailieros de couallu. Sono tenuti a servire la corte e con armia loro spese. I cavalli debbono essere maschi, di valore dadieci lire in su, sono registrati in su codernu de sa mostra,non possono essere venduti senza autorizzazione regia. Inogni caso debbono essere sostituiti da cavalli dello stessopregio. Nessuno di questi lieros può venire alla rivista conun cavallo preso a prestito per l’occasione. Debbono esse-re pronti, ad ogni richiesta, a partire, armati di tutto pun-to. Chi contravvenga a queste norme ritorni a sa munza,

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passadu (cap. LXXIV). I testimoni vengono esaminati se-paratamente in segreto, assenti le parti. Queste odono lalettura del verbale fatta nella corona, poi vengono dal cu-ratore invitate a dichiarare si bollent oppone o narre alcunacaussa contra sas persones issoru e contra su qui ant avir na-radu et testificadu. Se vogliono fare opposizione al loro de-posto debbono provare il loro assunto entro otto giorni.

Gli ultimi capitoli riguardano la pronunzia della sen-tenza, il pagamento delle spese processuali, l’esecuzionedella sentenza, l’appello.

La tortura non si poteva adoperare che nei processiper furto contro le persone di mala fama; essa aveva il so-lo scopo di ottenere la confessione dell’accusato.

Fra questi capitoli sono, come altrove, bizzarramenteinframmezzate norme riferentisi ai diritti reali. Sovra tuttiimportante è il LXVII dove è stabilita la prescrizione acqui-sitiva dopo cinquanta anni di possesso di terre del regnocum justu titulu. Si tratta del processo storico di conquistadella terra, a cui abbiamo precedentemente accennato, edin cui si concreta lo sforzo di redenzione delle classi inferio-ri. Quaranta anni bastano sul patrimonio ecclesiastico,trenta sul privato. Per il mobile quattro anni.

Dopo gli armeggi procedurali ed il lungo litigio delleparti e degli avvocati, il fresco profumo aromatico della fo-resta e l’urlo gioioso della caccia: Ordinamentos de silva(cap. LXXXI-CV). Silva è una grande riunione, a scopo dicaccia, di cavalieri e battitori, fatta a vantaggio del giudice,o del curatore della zona. Si batte una vasta regione imper-via e boscosa, ricca di selvaggina; antica tradizione sardache si svolge come un rito ancora oggi nelle grandi caccieal cinghiale della parte montana dell’isola. Vi dovevanopartecipare tutti i lieros de cuallu, e ciascuno doveva porta-re le sue prede a collectoriu. Chi, trovandosi a silva de Ren-nu, sottraeva il frutto della caccia, e non lo deponeva aipiedi del giudice, era punito con la confisca di un bue.

Altre disposizioni di un senso più oscuro si riferisco-no alla caccia del cervo. Le mute di cani erano guidate e

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agli ufficiali del loro paese d’origine. Gli antichi schiavi, iservos de rennu delle carte volgari cagliaritane e dei con-dakes sono ormai liberi da ogni vincolo a la terra, ma so-no ancora sottoposti a sa servitudine de pagare.

Il restante di questa sezione è occupato da norme didiritto privato, riguardanti le due forme di successione, latutela dativa e testamentaria, e sono in genere inspirate aldiritto giustinianeo, forse conosciuto attraverso la nuovalegislazione italiana e barcellonese, o per diretto studio deidotti consiglieri legali di Eleonora. Qualche deviazione omodificazione dalla pura fonte romana è dovuta ad esi-genze dell’ambiente sardo.

Gli Ordinamentos de corgios (cap. CVI-CXI) costitui-scono l’oggetto della successiva sezione, ed in essi si rive-la l’importanza del commercio dei cuoi, che già era statooggetto di particolari provvidenze negli Statuti di Sassari.Si trattava forse del principale articolo di esportazionedella Sardegna, che, dato il notevolissimo consumo deltempo, raggiungeva alti prezzi di mercato.

Per ragioni fiscali tutte le pelli di buoi, vacche, cavallie cavalle che morivano in terra d’Arborea dovevano essereportate ad Oristano a pubblici ufficiali incaricati della re-gistrazione dei nomi dei proprietari, e di porre un mar-chio di corte su tutte le pelli. In loro presenza dovevanoessere vendute, nel caso che tale desiderio avesse il pro-prietario, e anche di questo atto si faceva registrazione.Chiunque comprasse o vendesse in altro modo od espor-tasse senza il marchio regio, sarebbe stato considerato co-me ladro, furone. Eguali sanzioni contro tutti i negoziantiresidenti nelle villas. Il ritrovamento, in una casa, di pellenon segnata era presunzione di furto. I legatori di pelli,professione molto esercitata ad Oristano, non potevanolegare in balle i cuoi, per farne spedizione oltre mare, senon erano forniti di marchio. Chi contravveniva a questodivieto veniva messo alla berlina ne la piazza della capita-le, con un cuoio alla gola, e poi rimaneva in carcere sino ache non avesse pagato la multa.

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ritorni cioè ad obblighi servili. In altra parte di questo la-voro abbiamo spiegato il significato storico di questa frase.

Nel capitolo XCII ritroviamo tracce di quella formadi feudo prearagonese che influenze pisane e genovesiavevano fatto penetrare in Arborea. La organizzazione delgiudicato era naturalmente repulsiva a qualunque decen-tramento giurisdizionale, e nel feudo arborense, se tale erain sostanza, oltre che di nome, prevaleva fortemente l’ele-mento beneficiario. Lo dimostrano le disposizioni che ob-bligano i fideles a nominare nelle loro ville i jurados de lo-gu, la cui lista doveva essere portata alla camera regia ilgiorno di S. Pietro, pena il pagamento di una multa. Cosìin materia di polizia giudiziaria e di amministrazione, leloro ville erano parificate alle regie e sottoposte allo stessocontrollo. In fatto di immunità giurisdizionali dovevanoavere il solo giudizio civile di primo grado, e tutti i reatidi sangue erano sotto la giurisdizione giudicale. I lieros, egli hominis de corte, per quanto abitanti nella villa infeu-data, siccome non erano né fidelles o terrales de fitu, nondovevano pagare alcun tributo al feudatario, e dipendeva-no direttamente dal sovrano.

A criteri di difesa della categoria dei piccoli produtto-ri, in attesa di diventare completamente indipendenti, èinspirato il capitolo XCIV, in cui si dispone che se qual-che terramangesu abbia dato il suo giogo di buoi ad unisolano come jugariu o socio, non possa richiederlo senon a chi l’ha consegnato, ed anche costui si debba atte-nere nei rapporti col padrone a sa usança antiga, non a unqualunque diritto straniero. Si evitavano così rappresaglieverso terzi, e si opponeva a qualunque legislazione esoticala consuetudine sarda.

Altrettanto interessante è la disposizione riguardantegli homines che passano da una curatoria ad un’altra. Essihanno libertà di trasferimento, ma sono inesorabilmenteseguiti da i loro carichi tributari, sas rexones, che debbonoessere pagati agli ufficiali delle curatorie in cui hanno fis-sato la loro nuova residenza. Tali somme sono trasmesse

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Limitazioni al diritto di macello erano poste nei saltos,nelle zone impervie montane dove raramente si seminavail grano, e frequente era il passaggio del bestiame indomi-to. In questo caso sa cungiadura doveva essere molto sicu-ra, probabilmente costituita da un alto e grosso muro; seessa era mal fatta non si doveva stimare il danno per il ri-sarcimento, né si poteva macellare secondo le precedentidisposizioni.

La sezione si chiude con quattro capitoli in cui siprecisa la responsabilità dei pastori in queste circostanze.

Gli Ordinamentos de salarios et pagas qui debent levaresos auditores de sa audiencia ei sos nodayos pro ragione inso-ro (cap. CXXIII-CXXXII) trattano in primo luogo del-l’obbligo che ha il notaio di tenere un registro sul qualedeve trascrivere i contratti, i testamenti, gli inventari etutti gli atti fatti per suo mezzo. Segue una distinta deglionorari che competono agli uditores, notarios et escrivanosper il loro servizio, ed un elenco dei giorni festivi in cuinon si tengono giudizi di corona.

Come al solito, in fine della sezione, sono capitolitrattanti argomenti disparati. Curiose disposizioni per farcessare le molte frodi fatte dai carrettieri nel trasporto delvino. Eleonora proibiva ai carrettieri di sottrarre del vinodalle botti o caratelli di vino, che sono trasportati da unaterra a l’altra di Arborea, e di lasciare che altri ne sot-traesse, a meno che non ci fosse il consenso del padrone:proibiva inoltre di mescolare dell’acqua per nascondere ilfallo commesso, pena la multa di lire cinque. Egualemulta, oltre al risarcimento dei danni incombeva ai ca-vallari che obbligati alla trebbiatura dell’aia fossero venu-ti meno ai patti.

Vengono poi gravi sanzioni contro i bestemmiatori.Essi dovranno pagare cinquanta lire di multa, e in caso diinsolvenza il reo dovrà avere la lingua strappata con unamo in modo tale che la perda. Infine Eleonora disponeche nei giudizi di corona si tenga sempre presente la Cartade Logu.

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Seguono gli Ordinamentos de sa guardia de laores (cap.CXII-CXXII). Eleonora obbliga tutti coloro che hannoorti e vigne di fare la cungiadura, fossatello, cunetta, siepeo muro. Il majore ed i jurathos debbono recarsi sul posto econstatare se il fondo è stato ben delimitato. Dopo di che,se qualche branco di bestiame, abbandonato a se stessodalla incuria dei pastori, sia ritrovato entro il fondo, ed ab-bia quindi superato sa cungiadura, il padrone della vigna odell’orto, o il suo armentario, o il suo uomo o famigliaredebbono levare delle forti voci; e hanno diritto di maguel-lari, se si tratta di bestiame rude, di cavalli indomiti o dibovi semiselvaggi. Il maguellu è una rappresaglia primitivacontro il bestiame, e si ripercuote come danno finanziariosui padroni, spingendoli ad essere più severi con i pastoriperché rispettino i limiti dei fondi. Si risolve anche in unindennizzo per i signori del fondo danneggiato dalle man-dre. Del bestiame grosso può macellarsi un solo capo, e dibestiame minuto, due. Bovi e cavalli domiti dovevano es-ser consegnati all’ufficiale del giudicato, qui hat esser perNos in sa contrada; la loro uccisione importava una multadi dieci soldi, a meno che non fossero stati frammisti frabestiame rude. Ucciso l’animale sul luogo del delitto se nedoveva dare immediata comunicazione al curatore, altri-menti si incorreva in gravi sanzioni. Altrettanto veniva fat-to in caso di invasione di campi di grano, chiusi. Egualidisposizioni nel caso che carrettieri, finito il viaggio, invecedi consegnare i bovi ai boyuarios, che debbono guardarli efar pascolare, li abbandonassero a se stessi, incustoditi. Sepenetravano in un campo dovevano essere consegnati adun ufficiale della curatoria che li spediva senz’altro ad Ori-stano. Se non fosse stato possibile afferrarli, e avessero con-tinuato a commettere danni, i padroni del fondo dopoaver lanciato due potenti gridi, avevano diritto di ucciderei capi di bestiame che ancora restavano nel recinto. All’asi-no trovato fra il frumento, si tagliavano le orecchie, il por-co mannali veniva ucciso. Per tutti gli animali si pagaval’indennizzo.

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La Carta ritorna sul marchio delle bestie, e puniscecon la multa di venticinque lire chi apponga un altro se-gno sul primo segno e fuoco su fuoco. Chi non pagaavrà la mano tagliata. Così gli ufficiali dovevano seque-strare tutto il bestiame non segnato. Ciascun capo dove-va avere il marchio particolare del suo proprietario, ap-posto dalla regia corte e gli ufficiali che non facevano illoro dovere erano costretti a pagare la multa di dieci lire.La terribile punizione dell’amo nella lingua, in modo daasportargliela, veniva applicata al pastore che nascondes-se tra le sue greggi bestiame altrui, bestia de intradura.Eleonora è spietata e terribile nei riguardi dei pastori chevenivano considerati quasi dannati da Dio sin dalla na-scita. Se un furto, un qualsiasi delitto viene compiutonell’habitacione, nella terra comunale cioè, la responsabi-lità ricade sul covile più vicino, e i pastori che vi abitanodebbono provare di non esserne gli autori. Se un dannovien fatto al frumento, il risarcimento e la tentura sonorichiesti ai pastori del gregge più vicino al campo coltiva-to. Il pastore può essere creduto nel suo giuramento dinon aver commesso il reato, se è de bona fama; ma si noesseret di bona fama il suo giuramento è falso e qualsiasisua difesa non ha alcun valore.

Eleonora concede però ai pastori il risarcimento deldanno quando un cane de loru, da guardia, o un jagaru,da caccia, dà l’assalto ad un gregge e danneggia qualchecapo di bestiame. Bisogna però che il cane sia de mala fa-ma, a tutti noto pel vizio di mordere, in caso contrario ilproprietario può non pagare il danno e deve cedere il ca-ne. Se il pastore prova che il cane avrebbe potuto fare an-che peggiori danni, il padrone deve dare il risarcimento.Sono tutt’oggi noti i terribili cani di Bitti e d’Orgosolo,capaci di sbranare un uomo.

Siamo vicini alla fine. Gravi multe colpiscono coloroche lanciano ingiurie o fanno gesti sconvenienti. Nel pri-mo caso venticinque lire, e sussidiariamente il taglio dellalingua.

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Gli Ordinamentos de comunargios (cap. CXXXII-CXXXVII) regolano il così detto cumoni o contratto disoccida. Osserva il Besta che esso trae origine dal dirittoconsuetudinario. Apposite norme tutelano il socio mag-giore dinanzi al minore, in quanto gli fanno pagare venti-cinque lire di maquicia alla Corte se sia provata fraudi debestia qui avirit vendidu, donadu, o manigadu, senza farlosapere al suo padrone. Deve a costui consegnare la suaparte di latte, formaggio e lana, e gli è vietato di prenderecumoni supra cumoni, cumulare soccida a soccida, senzavolontà de su donnu suo. Non era permesso trasportare ilbestiame in altre zone, senza il permesso del padrone, e ilgiorno di S. Gavino gli si doveva rendere conto delle con-dizioni del gregge.

Dal CXXXVIII al CLXIII riprendono gli Ordinamen-tos de vingia, laore et hortos. La numerazione di questi capi-toli è fatta non tenendo conto dei ventotto del Codice ru-rale di Mariano, che è una raccolta di disposizioni a sé, ingran parte di carattere più rigido che non quelle di Eleo-nora, ed il cui contenuto si trova rifuso in alcuni capitolidel nuovo codice. L’incorporazione del codice rurale nellaCarta de Logu crea ripetizioni e sovente contraddizioni.

Gli Ordinamentos quali ci sono dati nella Carta diEleonora ci mostrano gli ufficiali del prato regio, majoride pardu e jurados de pardu con diritto di tenturare, dipercepire cioè una data somma per ogni bestia sorpresa inzona vietata, e di magueddare, di ucciderla. Il maguedduera possibile solo se, le cavalle, ad esempio, erano più didieci sul prato, in caso contrario si poteva solo imporre latentura ai loro padroni. Le stesse pene se fossero state vac-che, e nel caso che si potesse ucciderne una, bisognavache prima il padrargiu desse l’avviso per tre volte. Per legreggi di pecore e per le mandre di porci si potevano uc-cidere due capi, a meno che il pastore non volesse pagarela tentura. Il padrargiu non poteva macellare, se si trovavasolo, giacché era necessario sempre il controllo dei colle-ghi, per la legalità dell’atto.

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LA POESIA DELLA CARTA DE LOGU

Abbiamo seguito da presso, come si segue il tortuosocorso d’un torrentello che precipita da balze rupestri es’infrange schiumoso su ciottoli e macigni, il capricciososvolgimento della materia del codice; e anche dalla nostramodesta e schematica esposizione traspare fresca e viva larealtà storica che Eleonora ha fatto oggetto della sua nor-ma. L’ambiente sardo del secolo XIV è delineato con unaprecisione di contorni ed una luminosità di colori da farstupire. Altri in modo magistrale ci hanno dato una mira-bile esposizione sistematica delle norme contenute nellaCarta de Logu, da un punto di vista storico-giuridico. Noiabbiamo cercato di far sentire il profumo di intensa poe-sia che si sprigiona da questo vecchio libro.

È la Sardegna che ci si presenta viva dinanzi agli oc-chi, scorrendo queste ingiallite pagine, la Sardegna con ilsuo silenzio profondo, la brughiera verdebruna, l’acutoodore di mirto, di lentischio, d’asfodelo. Alcune volte ilpensiero smarrisce il significato normativo delle parole delcapitolo, e la fantasia indugia in una visione di sogno.Stanco pomeriggio di primavera ai piedi del Monteferru,in faccia al mare d’Oristano. Il profilo arguto d’un bovinospicca sulla cima d’una collina e si staglia su un cielo pu-rissimo rosa e oro, il canto melanconico d’una fanciullalontana, e l’improvviso tempestoso galoppare di cavalli inun viottolo nascosto.

La Carta de Logu ci presenta il secolare contrasto fra ilsalto e la piana, elementi dialettici della vita economicasarda. Il salto rupestre di Laconi e Sorgono ad immediatocontatto con la piana oristanese, aspro e desolato, copertoin parte da boschi e in parte landa deserta, è unito al Giu-dicato d’Arborea. Lassù fra le pieghe e gli spacchi delle

La pena è molto più grave, e il reato assume altra im-portanza, se venga ingiuriato un pubblico ufficiale nell’eser-cizio delle sue funzioni, oppure se si tenti di impedirgli dicompiere una pignorazione. Nel primo caso il reo devepagare alla corte venticinque lire, e se non paga in quindicigiorni gli sarà tagliata la lingua; nel secondo, se non paga,gli sarà mozzata la mano destra. Se poi si tratta di vie difatto, con effusione di sangue, contro un pubblico ufficia-le, l’offensore deve essere senz’altro appiccato per la gola, ese non vi è stato spargimento di sangue una multa di cin-quanta lire, e se non paga entro quindici giorni dalla sen-tenza, gli sia troncata la mano destra.

Sanzioni contro i furti rurali. Chi entri di soppiatto inun orto di meloni e rubi, deve pagare una multa; e se nonpaga resti in prigione a volontà del sovrano. Lo stesso siintenda per chi rubi dell’uva.

Coloro che posseggono dei buoi debbono custodirli,metterli in un sicuro recinto murato, in modo che nonpossano vagare per le campagne e danneggiare i seminati.

I costruttori di muri a secco per vigneti, di recinti perbestiame, sono puniti, se, dopo essersi già accordati con ilpadrone del fondo, non provvedono alla sollecita esecu-zione dell’opera.

I mercanti a cavallo o i vetturali che vendono mercan-zie, con fraudi e mancamentu de sa roba predita, con frodecioè nella misura, nel peso di bilancia o stadera, sono pri-vati della loro merce, come se l’avessero posseduta indebi-tamente. E paghino una multa di quindici lire.

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malfidi uomini dei monti. Essa difende altresì i piccoliagricoltori che vogliono godere il frutto delle loro annualifatiche. La legge è sempre dalla parte di chi crea ricchez-za, e l’applicazione delle sue terribili norme è in recisocontrasto col mondo misterioso di sogno in cui vivono isolitari conduttori di greggi.

Ma nel Campidano Maggiore la terra è grassa e ferti-le, produce in copia grano, vino, ortaglie, meloni, e se silasciano scendere al piano greggi e pastori nei mesi in cuiondeggia il biondo frumento, ricco di baleni d’oro e d’ar-gento, quando soffia il caldo vento del sud, la rovina è ir-reparabile. Bisogna produrre in terra di Arborea per l’eser-cito che combatte ad Alghero e Longosardo, bisogna darpane ai cavalieri che irrompono improvvisi nei tormentatisobborghi di Cagliari.

E le pene sono terribili contro i ladri, contro i predo-ni, contro gli invasori dei seminati, contro i distruttori diconfini. In caso di pascolo abusivo in terreni coltivati, èpermessa, in determinati limiti, la violenza privata. Ecconella vasta piana d’Oristano, durante la stagione della se-mina, il campo di recente arato, che spicca in rosso brunofra la verde distesa d’umida erba novella.

È terra di recente sfruttamento; da poco se ne sonoposti i limiti. Arriva solenne il majore de villa, col seguitodei suoi jurathos dalle salomoniche barbe e dai capellifluenti, le mastruche di lana, armati di lunghi bastoni chesembrano scettri. Essi esaminano se il fondo sia stato benchiuso, con siepe viva, con un profondo fosso, con muro.Il padrone è ormai investito dei suoi diritti; essi hanno tro-vato che tutto è regolare. Ma nella notte di primavera inol-trata, mentre il branco di pecore, entrato di soppiatto at-traverso la breccia aperta da l’abile mano del pastore, brucafra il sacro frumento, un urlo roco improvviso, un altrourlo, poi la pesta sorda e molteplice del gregge impazzitoche si precipita da tutti i lati, urta contro i muri, ne rag-giunge l’orlo d’un balzo e si rovescia nell’aperta campagna.Due o tre capi sono rimasti feriti dalle aste acuminate dei

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rocce, s’annidano oscuri covili in cui vivono pastori com-pletamente separati dal mondo. Essi scendono una voltaalla settimana nel villaggio più vicino per prendere il panefresco, e ritornano poi sulla montagna a vivere in solitudi-ne e silenzio.

Sdraiati sulla dura terra nella bella stagione, spesso gu-stano supini, il volto arrovesciato al sole, l’azzurra dolcezzadei cieli, oppure seduti su le gambe incrociate, con l’aiutodi acuminati coltelli, intagliano i loro bastoni, istorianograndi zucche e fiasche con scene di caccia, dove sonorappresentate figure stilizzate d’uomini e d’animali, gallet-ti e pavoni da la coda esuberante, danzatori geometriciche in lunghe file si tengono per mano, in una vicenda dimaschi e di femmine, cavalli e cavalieri cubistici. E tutt’at-torno alla scena rappresentata, ornati che s’intrecciano consquisito gusto decorativo, e croci greche, rose e cuori, chearmoniosamente riempiono gli spazi.

Hanno l’occhio languido e sognatore delle capre, lorofide compagne di eremitaggio. Cantano sovente le loronenie tormentose e monotone d’amore, in cui la fanciullaadorata si chiama giglio e colomba. Pastori de bona e demala fama, poiché spesso, durante il lungo sognare, sorgeimprovvisa come una rivelazione la gioia della rapina;l’occhio s’accende, pari a quello dell’astore; ed allora siprecipitano dalle alte rocche, si aggrappano a sterpi, a ma-cigni, a contorti olivastri piegati dal vento come da unamaledizione, strisciano fra i bruni macchioni di cisto,piombano sul covile del nemico e fanno preda.

Eleonora non ha pietà per questi primitivi, che hannoil cuore ingenuo degli eroi d’Omero, rapinatori e poeti.

Ha fatto rizzare, nella piazza grande d’Oristano, il lu-gubre ordegno che stronca la vita ai colpevoli dei piùgravi delitti. Sulla carrucola infissa in su corru de sa furcadanzerà appiccato per la gola il pastore de mala fama, acui non si può prestare fede neppure dopo il più sacrogiuramento. Eleonora difende i signori d’Arborea chehanno a cumone il bestiame con questi menzogneri e

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acqua, sono invasi dalle greggi, da branchi di grosso be-stiame che vi possono ormai pascolare.

Nella mente dell’agricoltore risorge ora con fatale te-nacia l’idea di sbarazzare col fuoco dalle stoppie il terreno,perché la cenere è un fertilizzante, e si dà così libero sfogoalla nuova erba; il pastore vuole anche lui procurare unpascolo pulito agli ovini. E si incendiano le stoppie del-l’habitacione senza alcuna cautela per circoscrivere le fiam-me, sicché molte volte corrono come serpentelli giù per igreppi, investono le macchie di cisto, che divampano estridono nel cacciar fuori tutti gli umori; poi procedonoancora.

La fiammata sale alta nel cielo, accompagnata da bi-gie colonne di fumo; il cielo diventa bianco caliginoso,ed una atmosfera rovente s’appesantisce sulle chiuse valli,trasformate in vasti bracieri.

Le squadre escono dai villaggi, e si tenta qualunqueespediente per arrestare la inesorabile marcia. Sono passaticinquecento e più anni da quando Eleonora poneva op-portuni limiti all’incendio delle stoppie, e stabiliva prov-videnze per impedire il dilagare del fuoco; ancora oggi laSardegna, agli ultimi di agosto e ai primi di settembre, ètutta un roveto ardente, i treni passano molte volte fra lefiamme.

E poi vengono le piogge a soffocare tanta passione diboschi carbonizzati e di campagne arse e nere. Piogge d’ot-tobre, ed un grato odor di mosto si spande nei verdi vi-gneti attorno ad Oristano.

O carrettieri che trasportate in città le pingui botti divin nuovo, non crediate di potervi confortare nel viaggiocon molteplici libazioni, né di poter disperdere il preziosoliquore come facevate un tempo, dispensandolo a tutti ipassanti che lo richiedono, con festosa lietitudine! E tantomeno vi permetterete di mescolarvi dell’acqua per riempi-re il vuoto creato dalla sete vostra e altrui. Questo è il vo-lere di Eleonora e vi è una grave multa per chi si attenti adisobbedirla.

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servi del donnu. Essi si affrettano a sgozzarli perché questoè il loro diritto riconosciuto dalla Carta. Possono farsi giu-stizia da sé.

Guai ai pastori che vogliano discendere al piano con iloro branchi di pecore e capre, prima che il grano sia mie-tuto! essi debbono restare sul monte, lontani da vigne, or-ti, frumento e prati. Solamente d’estate, quando enormeè l’arsura in tutta la Sardegna, e il cielo pare di fuoco,possono scendere ai rivi sonnacchiosi e verdastri del pia-no, dove l’acqua si impantana e scompare fra brago e can-neto. Abbeverate le capre, e munte, se vogliono mungerlein casa o all’abbeveratoio, presto di nuovo sui monti, pri-ma che giungano le fresche brezze di ottobre. In base alcodice di Mariano, infatti, è dal primo giorno de SantuGayni, il bel santo dall’elmo d’oro e dalla corazza d’argen-to, a cui i Sardi dedicano il mese di ottobre, che i pastorisono ricacciati dal piano, e in caso di disobbedienza gliufficiali regi sono pronti a mandarli in prigione.

Ma già sulle aie il grano è battuto quando compaio-no, con le loro greggi, i terribili nemici dell’agricoltura. Inmesi de argiolas gli ampi granai di donna Eleonora, a cuisi accede da larghe porte carradorie che permettono ilpassaggio del giogo di buoi e del grande carro dalle rotepiene, accolgono il prezioso alimento, presto trasformatoin pane per i guerrieri, ed in denaro per l’acquisto di nuo-ve armi. Nelle rosse case di paglia e di fango è rientrata lafiducia e la sicurezza per l’inverno veniente. La carestia, latriste visitatrice della Sardegna, in quegli anni di guerra edi pirateria sui mari, è allontanata. L’isola ha vinto la suadisperata solitudine. Si potrà lietamente trascorrere la seraaccanto ai ceppi del focolare vermiglio, gettati sulle stuoie,mentre le fiamme e la cenere calda rosolano le interiorad’agnello avvolte negli esili steli di lentischio, sa cordula,che manda un delizioso profumo.

Settembre; qualche bianca pecorella compare nel cie-lo, e pare che la stagione si faccia più mite. È una illusione.I campi dove il grano è stato mietuto, i gialli prati senza

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GLI ULTIMI ANNI DI ELEONORA

Dal 1395 al 1404, anno in cui scomparve la nostraeroina, gli avvenimenti si fanno sempre più scarsi. La lot-ta è sempre localizzata attorno alle poche fortezze rimasteagli Aragonesi. Il duca di Montblanc, che era diventato reMartino, dopo aver soffocato la ribellione dei baroni sici-liani e rafforzato il trono, già prima traballante, di suo fi-glio, lasciando l’isola in quiete nel 1396, volle visitare per-sonalmente l’altra isola, selvaggia, misteriosa e micidiale,dove centinaia di baroni catalani avevano lasciato la vita.Plau al Senyor Rey.

Con la protezione di una forte armata navale sbarcò aCagliari, ammirò le fortificazioni pisane, diede una oc-chiata alla gialla e affebbrata piana del Campidano dove lefortificazioni e le trincee attorno ai sobborghi indicavanolo stato di guerra. Poi si reimbarcò e costeggiando l’isolaad occidente giunse ad Alghero, e vi restò fino al 12 feb-braio 1397. Medesimo spettacolo e medesima desolazio-ne. Di là si recò in Corsica per incoraggiare i ribelli controGenova ch’erano alleati di Aragona. Di ritorno, passandoattraverso le bocche di Bonifacio, si avvicinò a Longosar-do, sempre accerchiata da terra dal nemico, e la provvidelargamente d’armi e di vettovaglie. Indi s’avviò a Marsigliaper andare a fare una visita al suo papa in Avignone.

Le impressioni che ricevette il re da questa sua ispezio-ne dovettero essere molto tristi. Le terre bruciate attornoad Alghero, le violenze fatte alle colture e ai campi in quel-la plaga, così come aveva potuto osservare dall’alto dellemura, le sofferenze degli assediati di Longosardo, gli ave-vano fatto comprendere tutta l’asprezza della guerra sarda,ben diversa dalla guerra siciliana. Los Moros avevano con-quistato Trinacria; erano stati sempre ricacciati, a prezzo di

Giunge ormai l’inverno. Il cielo è fosco, soffia un ven-to gelato; i monti di Barbagia, che si disegnano rosei al-l’orizzonte, hanno le cime bianche di neve. Sei dicembre:S. Nicola. Corona de logu nel piazzale di S. Giusta. La cat-tedrale dalla facciata nobilmente severa, dominata dallatrifora centrale e dalla porta con architrave (ambedue allaloro volta inquadrate nella grandiosa arcata centrale) si er-ge sulla imponente scalinata, e sembra, nella grigia atmo-sfera, un gigantesco monolito.

Eleonora tiene corona de logu, circondata dai maggio-renti del Regno, dai savios de Corte, dagli auditores de Au-dientia, dal vescovo di S. Giusta. D’intorno, al di là dellafila dei bujachesos armati di lancia e di spada, la folla vesti-ta di bruno orbace, come una vasta macchia nera, cheascolta silenziosa.

Eleonora parla, e la sua voce s’ode chiara e precisa. Ri-spondono con voce più sommessa e profonda i savios deCorte. Si ripete la scena solenne, tramandataci dall’inge-nuo cronista del condaghe di S. Pietro:

Iudike narait a tota sa corona… Et issos liveros torrantilli verbu.

La folla vestita di nero, ascolta e tace.

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Ancora sedici anni risuonerà per l’isola il grido Arbo-rea! e fra vittorie e sconfitte la resistenza sarda non saràmai doma. La battaglia di Sanluri non sarà neppure defi-nitiva, e la guerriglia continuerà disperata fino a che pat-teggiamenti, e vergognose vendite di sacri insanguinatidiritti da parte di eredi stranieri, non consegneranno glieroi nelle mani di Aragona. E ancora sulla fine del secolosi rinnoverà l’antico grido, e l’anima fiera di don Leonar-do Alagon cercherà di riprendere l’antica gesta epica, direalizzare il sogno della sua grande ava.

Gli stessi Spagnoli, renderanno omaggio alla saggezzadella legislatrice, estendendo la Carta de Logu a tutta lanazione sarda, e conservandola in vigore per secoli.

Il volto di Eleonora è ancora velato dall’ombra, manoi vediamo la sua anima fiammeggiare sulle ingiallitepagine del sacro e terribile libro di leggi.

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molto sangue e miseria secolare, da Ichnusa. I ribelli sici-liani erano stati sottomessi dalla cavalleria catalana; da cin-quanta anni si combatteva in Sardegna e non si veniva acapo di niente. Sarà più tardi la debolezza dei capi, non lavittoria militare, che restituirà l’isola agli Aragonesi.

Il re aveva constatato que por tener los enemigos dome-sticos y tan vezinos, las cosas de Cerdeña estavan siempre enpeligro, mayormente el castillo de Longosardo, que era muycombatido, y el cabo de Logudor y su comarca que era ordi-nariamente destruydo y abrasado por los enemigos y estavaen estrema necessidad.

Il re don Martino era più saggio e più attento uomodi stato che non suo fratello Giovanni. Fece governatoregenerale dell’isola don Roger de Moncada, che era unodei più valorosi cavalieri di quei tempi, diede un eroicocastellano a Longosardo, Bernaldo de Torellas, mandògente e denaro per munire Cagliari, Acquafredda e S. Mi-chele, ma cercò sopra tutto con una ansia quasi commo-vente, por que vio los trabaios y las grandes fatigas que pade-cian los del cabo de Logudor, di stabilire in qualche manierauna tregua con Brancaleone, conte di Monteleone, consua moglie Eleonora, col piccolo Mariano giudice di Ar-borea, e aggiunge lo Çurita, con toda la nacion sardesca pormar y por tierra.

La guerra si avvicendò alle trattative in questi ultimianni. E intanto si propagava la peste. Era lei la paciera, lasinistra malattia che strisciando misteriosa e invisibile pal-pava con le sue pallide mani gli uomini che avevano an-cora diritto a molti anni di vita. Tregua all’urto dell’armi,e tregua alle ire, perché la triste signora dimora a Cagliaried anche ad Oristano. Nel 1404 morì Eleonora. Nullasappiamo intorno alle estreme vicende della sua vita. Laregina guerriera, la saggia legislatrice usciva dalla scena delmondo ancora vittoriosa. I nemici erano ricacciati pressoil mare, dovunque i popoli obbedivano ad Arborea. Ma iltormento della terribile malattia distruggeva le migliorienergie e fiaccava gli spiriti dei sopravvissuti.

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Durante il periodo romantico, in cui gli studi storiciebbero in Sardegna un vivo rifiorimento, un certo signifi-cato e valore assumono gli scritti dell’Angius, ma essi so-no gravemente inficiati dall’uso delle Carte d’Arborea, ifamosi codici falsificati nel medesimo periodo per operadi Sardi desiderosi di accrescere il lustro della loro terra.Cfr. Vittorio Angius, Geografia storico statistica dell’isola diSardegna in voll. XVIII bis, ter, quater e XIX del Dizio-nario Storico Geografico del Casalis, Torino 1834. Consul-tabile lo studio sul feudalismo in Sardegna.

Utili a riscontrare, la biografia di Eleonora d’Arboreain Pasquale Tola, Dizionario biografico degli uomini illu-stri di Sardegna, Torino 1838, e le dissertazioni introdutti-ve ai documenti del secolo XIV pubblicate nel sopracitatoCodex. Inoltre cfr. Enrico Besta, Di alcune leggi e ordinan-ze di Ugone IV d’Arborea, Sassari 1904 e sul tentativo dievasione di Brancaleone D’Oria: Ioaquim Miret y Sans,Temptativa d’evasiò den Brancaleò d’Orsa del Castell deCaller, Barcelona 1907, estratto dal Boletin de la RealAcademia de Buenas Letras de Barcelona.

Per una chiara visione del problema politico arborense,fondamentale l’opera di Enrico Besta, La Sardegna me-dioevale, voll. I-II, Palermo 1908-11, e il profondo studiodi Arrigo Solmi, “Le costituzioni del primo parlamentosardo del 1355”, in Archivio Storico Sardo, 1910. Sui primirapporti fra Arborea e Aragona cfr. Ioaquim Miret y Sans,Los Vescomtes de Bas en la illa de Sardenya, estudi historichsobre los Jutges d’Arborea de raça catalana, Barcelona 1901,e dello stesso: “Notes historiques de Sardenya anteriors à ladominaciò catalana”, in Archivio Storico Sardo, 1909; infi-ne Arrigo Solmi, La conquista aragonese, in Studi storicisulle istituzioni della Sardegna nel M. E., Cagliari 1917condotta sui documenti del Finke, Acta Aragonensia Berlinu. Leipzig 1908.

Sulla Carta de Logu, oltre la Storia del Pertile, i manualidello Schupfer e del Solmi, l’opera già citata del Besta, laprefazione illustrativa del medesimo alla Carta nell’edizione

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Opere fondamentali per la conoscenza degli avveni-menti sardi della seconda metà del secolo XIV sono:Çurita, Anales de la Corona de Aragon, Barcelona 1562 eFara, De rebus sardois, Cagliari 1580. Il primo è bene infor-mato per la diretta conoscenza degli archivi barcellonesi, e,pur avendo spesso la modesta andatura del cronista, rag-giunge alcuna volta il respiro dello storico. Il secondo uni-sce al materiale dello Çurita, di cui si serve largamente, no-tizie non sempre certe, derivate dalla tradizione locale.Fino a che non saranno studiati sistematicamente i docu-menti giacenti negli archivi spagnuoli vi sarà poco da ag-giungere alle notizie offerteci da questi scrittori. Sonoperò prezioso sussidio i documenti dello stesso periodopubblicati da Pasquale Tola nel Codex diplomaticus Sardi-niae della collezione Historiae patriae monumenta editajussu regis Caroli Alberti, Torino 1861 in buona parte pro-venienti dall’archivio aragonese e spagnuolo del R. Archi-vio di Stato di Cagliari, altri provenienti dagli archivi dellapenisola. Accenni agli avvenimenti della guerra di Arboreanei regesti delle pergamene dell’Archivio comunale diCagliari, ad opera di Silvio Lippi (cfr. S. L. Arch. com. diCagl., Cagliari 1897) fra cui molti documenti non pub-blicati dal Tola, e nell’Indice dei documenti cagliaritani delR. Archivio di Stato dal 1323 al 1720 di Michele Pinna,Cagliari 1903.

Dallo Çurita e dal Fara dipendono direttamente tuttele narrazioni degli avvenimenti sardi di questo periodo, efra esse la più notevole, per chiarezza di stile e nobiltà dipensiero, quella del Manno in Storia della Sardegna, Tori-no 1825-27. Scarso valore hanno le narrazioni degli scrit-tori del secolo decimosettimo e decimottavo.

Besta, Guarnerio, Sassari 1905. Inoltre la recensione diquest’ultima di L. Siciliano, “Villanueva”, in Rassegna bi-bliografica A. S. S., 1906.

Sulle condizioni economiche e sociali della Sardegnanel secolo XIV, oltre le note opere del Besta e del Solmi,cfr. Mondolfo, “Agricoltura e pastorizia in Sardegna”, inRiv. ital. di Sociologia, VIII, 1904; “Terre e classi sociali inSardegna nel periodo feudale”, in Riv. it. per le scienze giu-ridiche, XXXVII, 1903; infine le originali ed acute osser-vazioni sull’ordinamento economico e sociale dell’isola delDi Tucci, “Diritto pubblico della Sardegna nel M. E.”, inA. S. S., 1924 e in Regime giuridico de le terre e la SocietàSarda nel Medioevo, Cagliari 1922.

Per gli ordinamenti politici e il feudalismo cfr. Gli ele-menti del feudo in Sardegna di Ugo Guido Mondolfo, Riv.ital. delle scienze giuridiche XXXII, 1901, A. Solmi, “Sullaorigine e sulla natura del feudo in Sardegna”, in Rivista diSociologia, 1906, cfr. cap. XVII, Besta, Sardegna Medioe-vale, parte II.

Seguono i più recenti studi del Di Tucci, Istituzionipubbliche di Sardegna nel periodo aragonese, Cagliari 1920molto importanti per illuminare il pensiero politico catala-no-aragonese; e i profondi ed esaurienti studi di FrancescoLoddo Canepa, Ricerche ed osservazioni sul feudalismo sar-do dalla dominazione aragonese, in cui, con una sistematicaricerca di archivio, viene tracciata la storia del feudalismosardo dalle origini sino alla sua estinzione. Al dott. LoddoCanepa siamo debitori di preziose informazioni dateci consquisita cortesia per il presente lavoro.

Sulla lingua adoperata nella Carta de Logu vedi laprefazione illustrativa di Pier Enea Guarnerio all’edizionedi Sassari 1905.

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INDICE

5 Nota introduttiva

11 Un volto in ombra

15 Brancaleone D’Oria

21 Attesa serena

25 Il regicidio ad Oristano

30 L’avventura di Brancaleone

36 La riconquista del giudicato

40 Il tentativo di fuga e i primi accordi di pace

45 La pace di Cagliari

51 La passione dell’isola

57 Le oscillazioni di don Giovanni

62 La redenzione dei servi

70 La Carta de Logu

77 Il contenuto della Carta de Logu

95 La poesia della Carta de Logu

101 Gli ultimi anni di Eleonora

104 Nota bibliografica

SCRITTORI DI SARDEGNA

Volumi pubblicati

1. D. H. Lawrence, MARE E SARDEGNA2. E. Costa, GIOVANNI TOLU3. G. Spano, PROVERBI SARDI4. S. Satta, CANTI5. G. Dessì, LEI ERA L’ACQUA6. Valery, VIAGGIO IN SARDEGNA7. S. Atzeni, PASSAVAMO SULLA TERRA LEGGERI8. O. Bacaredda, CASA CORNIOLA9. G. Fiori, VITA DI ANTONIO GRAMSCI

10. A. Bernardini, LE BACCHETTE DI LULA11. Montanaru, CANTOS12. C. Gallini, INTERVISTA A MARIA13. S. Cambosu, UNA STAGIONE A OROLAI14. B. Bandinu - G. Barbiellini Amidei, IL RE È UN

FETICCIO15. A. Carta, ANZELINU16. B. Zizi, ERTHOLE17. P. Casu, LA VORAGINE18. A. Cossu, I FIGLI DI PIETRO PAOLO19. G. Pinna, IL PASTORE SARDO E LA GIUSTIZIA20. C. Nivola, MEMORIE DI ORANI21. P. Rombi, IL RACCOLTO22. P. Casu, GHERMITA AL CORE23. E. Lussu, IL CINGHIALE DEL DIAVOLO24. G. Deledda, CHIAROSCURO25. G. Dessì, I PASSERI26. A. Puddu, ZIO MUNDEDDU27. B. Zizi, IL PONTE DI MARRERI