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eLab-PRORisorse e strumenti digitali Psicologia - Logopedia - Autismi - Disabilità - Anziani - Minori

Tutela dei minori

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Argomenti trattati

• Abilità di counseling e colloquio di aiuto

• I colloqui

• Esercizi sul colloquio

• Il dialogo

• Gestire bene il tempo e lo stress sul lavoro

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“Riflessioni per gli educatori"

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La curatriceMaria Luisa Raineri

Assistente sociale, è ricercatrice e docente di Metodologia del servizio sociale presso il corso di laurea in «Scienze del servizio sociale» e il corso di laurea magistrale in

«Politiche sociali e servizi per i minori, le famiglie e le comunità» dell’Università Cattolica di Milano e di Brescia. Coordinatrice scientifica della rivista «Lavoro Sociale», le sue principali pubblicazioni sono Il metodo di rete in pratica: Studi di caso nel servizio sociale (Erickson, 2004), Linee guida e procedure di servizio sociale (Erickson, 2014), Tirocini e stage di servizio sociale (Erickson, 2015).

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218 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

SCHEDA 4.1 – Gli atteggiamenti nel colloquio di aiuto*

Mucchielli ha identificato sei atteggiamenti spontanei che si possono assumere quando si vuole aiutare una persona e ha analizzato i loro effetti sul colloquio. Cinque di questi atteggiamenti rischiano di ostacolare il colloquio, perché possono bloc-care la persona nell’esprimere ciò che pensa e come si sente. Il sesto, l’atteggiamento di comprensione, è quello che meglio comunica il desiderio di capire davvero la persona e di accompagnarla a esplorare la sua situazione. Gli atteggiamenti si esprimono attraverso le parole, ma in un colloquio sono molto impor-tanti anche l’ambiente in cui ci si trova e i messaggi non verbali: sono tutti elementi che contribuiscono a facilitare oppure ostacolare il tuo interlocutore.

Gli atteggiamenti ostacolanti

Gli atteggiamenti ostacolanti, che non facilitano il colloquio, sono: valutazione, interpreta-zione, sostegno, indagine, soluzione.Questi cinque atteggiamenti nascondono tutti due difetti principali:– possono limitare o mettere in difficoltà la persona nell’esplorare la sua situazione o il suo

problema;– sono centrati sul counselor: l’attenzione è rivolta a ciò che pensa il counselor; ciò che dice

il counselor viene messo in primo piano e ciò che la persona sta esprimendo passa in secondo piano. Così, diventa difficile comprendere a fondo quello che la persona esprime.

Atteggiamento di valutazione

Consiste nel fare riferimento a norme o a valori, indicando ciò che è bene o male. Chi as-sume un atteggiamento di valutazione «offre» un consiglio morale (o moralistico): mette in guardia, approva, disapprova, invita a pensare in una certa maniera, allude ai criteri che si devono ritenere validi, secondo lui.

Potenziali effetti dannosi

L’interlocutore può sentirsi in una posizione di ineguaglianza morale e quindi in uno stato di inferiorità. Non si sente considerato abbastanza «morale» o razionale, o al contrario si sente dire «bravo», ma in ogni caso si sente giudicato.Tra le possibili reazioni innescate dall’atteggiamento valutativo troviamo, a seconda della personalità dell’interlocutore: inibizione (freno, reticenza, blocco); colpa (sensazione di essere in errore o colpevole); ribellione; dissimulazione; ansia.

Atteggiamento di interpretazione

Si manifesta in vari modi. A volte il counselor pone l’accento su uno tra gli elementi espressi dall’interlocutore che lui giudica essenziale e quindi fa un riassunto parziale e orientato. Altre volte il counselor deforma il significato di quello che è stato detto partendo da sue categorie di interpretazione. Altre volte ancora il counselor dà una spiegazione della situazione che la persona gli riporta, con un tono didascalico: è come se, ponendosi implicitamente in

* Tratto da Folgheraiter F., Pasini A. e Raineri M.L. (a cura di) (2006), Apprendere il counseling nel metodo di Mucchielli, CD-ROM, Trento, Erickson.

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IL COLLOQUIO DI AIUTO E LA VISITA DOMICILIARE 219

una posizione di superiorità, volesse spiegare alla persona che cosa le sta accadendo. Possiamo anche trovare una varia mescolanza di questi modi di porsi.

Potenziali effetti dannosi

L’interlocutore può sentirsi frainteso e quindi costretto a rettificare. Se però l’atteggiamento si ripete più volte, esso produce:– il disinteresse dell’interlocutore nel proseguire l’esplorazione della sua situazione: cambierà

argomento o mostrerà un accordo solo di cortesia;– una crescente irritazione;– un blocco difensivo (resistenza).

Atteggiamento di sostegno

La risposta di sostegno è finalizzata a dare supporto, incoraggiamento, consolazione. A volte fa riferimento a una comunanza di esperienze tra interlocutore e counselor («È capitato anche a me…»). Il pensiero e le emozioni della persona vengono considerate «naturali». Si cerca di rassicu-rare la persona sdrammatizzando e minimizzando il problema. L’essenza della risposta di sostegno è un atteggiamento paternalistico.

Potenziali effetti dannosi

L’interlocutore potrebbe, a lungo andare:– sentirsi portato a mantenere una certa dipendenza dal counselor per non perdere la sua

vicinanza emotiva, accettando di essere guidato, di rimanere in attesa delle sue proposte e dei suoi suggerimenti;

– restare passivo, per la sensazione di aver «sbagliato» a preoccuparsi della questione (ansia, vergogna per effetto della minimizzazione);

– rifiutarsi di essere trattato con pietà paternalistica o arrabbiarsi perché questioni che per lui sono importanti vengono considerate di poco conto.

Atteggiamento di indagine (o investigazione)

Consiste nel porre domande per ottenere dall’interlocutore indicazioni aggiuntive su aspetti che il counselor ritiene importanti per comprendere la situazione. Il counselor non lascia che sia la persona a esplorare la sua situazione e i suoi sentimenti, ma guida il colloquio in una precisa direzione, scelta da lui.

Potenziali effetti dannosi

L’atteggiamento di indagine può provocare, a seconda della personalità dell’interlocutore:– l’orientamento del colloquio nella direzione indicata dal counselor. La persona assumerà

l’atteggiamento di chi risponde a un interrogatorio e interromperà (o non svilupperà) la sua riflessione interiore;

– una reazione ostile. La persona può percepire il counselor come qualcuno che vuole metterla alle strette o può avere l’impressione che il counselor la giudichi negativamente perché tiene nascosti certi dettagli;

– messa in allarme delle «difese sociali». La persona reagisce cercando di dare di sé la migliore immagine possibile.

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220 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Atteggiamento di soluzione

Il counselor propone all’interlocutore una soluzione per uscire dalla situazione. Può con-sigliare a chi altri rivolgersi, può suggerire quale è, secondo lui, l’obiettivo da perseguire e come fare a realizzarlo, può fare una proposta pratica.

Potenziali effetti dannosi

Le possibili conseguenze di questo atteggiamento possono essere:– l’interlocutore si sente sminuito per non aver pensato da sé alla soluzione e quindi è

portato ad accettarla, anche se non ne è convinto. È facile che questo lo porti a mettersi in un atteggiamento passivo e a delegare completamente al counselor la responsabilità di risolvere il problema;

– la persona non accetta la soluzione e quindi interrompe il contatto o con palese insod-disfazione, o mostrando un accordo di cortesia in merito al consiglio ricevuto, che poi però non terrà davvero in considerazione.

L’atteggiamento di comprensione

L’atteggiamento di comprensione si differenzia da tutti gli altri perché non è centrato sul counselor, ma nasce dal tentativo di entrare nel problema così come è vissuto dalla persona. Le risposte di comprensione possono essere di diverso tipo, ma mirano tutte a «ritornare» alla persona che parla, in sintesi e con altre parole, l’essenza o parte di ciò che ha detto esplicitamente o implicitamente, focalizzando i fatti o le emozioni o i vissuti personali. L’effetto della risposta di comprensione è di accrescere la fiducia e la motivazione dell’interlocutore a proseguire e approfondire la sua narrazione.L’atteggiamento di comprensione può esprimersi a due livelli:Comprensione 1: atteggiamento di ascolto comprensivo che cerca di riportare il più fedel-mente possibile ciò che l’interlocutore ha detto esplicitamente.Comprensione 2: atteggiamento di ascolto comprensivo che cerca di chiarire, senza defor-mare, l’essenza di ciò che l’interlocutore vuole esprimere esplicitamente o implicitamente.

La tecnica della riformulazione

La tecnica principale per trasmettere l’atteggiamento di comprensione è la riformulazione, che consiste nel «ritornare», in sintesi e con altre parole, alla persona che parla, l’essenza o parte di ciò che ha espresso esplicitamente o implicitamente, focalizzando i fatti, le emozioni, i vissuti personali. In questo modo il counselor non introduce nulla di estraneo rispetto a quanto espresso più o meno direttamente dall’interlocutore e quindi rimane centrato sull’altro, non su se stesso; l’interlocutore sente di essere ascoltato e compreso ed è stimolato a esprimersi ulteriormente; il counselor ha conferma se ha davvero compreso ciò che gli è stato espresso.La riformulazione di solito è un’affermazione — non una domanda, tranne nel caso in cui sia necessaria la conferma a una deduzione — introdotta da espressioni quali: «Lei mi sta dicendo che…», «In altre parole…», «Quindi…».La riformulazione può avere diversi «gradi»:

La riformulazione a specchio è un rimando puntuale di ciò che la persona ha effettivamente comunicato, sia verbalmente sia attraverso il suo atteggiamento non verbale (ad esempio

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Che si tratti di prendersi cura degli altri e dei loro problemi, di gestire collaboratori o di lavorare in team, tutto dipende dalla propria abilità di rapportarsi efficacemente con gli altri. Occorre quindi sviluppare una più matura consapevolezza delle dinamiche che intervengono quando si lavora con le persone e arricchire il proprio bagaglio di competenze nelle relazioni interpersonali. Nel volume viene spiegato come potenziare la propria efficacia personale, gestendo al meglio il tempo lavorativo, valorizzando doti personali e creatività e contrastando lo stress. Vengono poi presentate le varie modalità di interazione con gli altri, che devono essere conosciute e potenziate per generare rapporti di lavoro effi-caci. Infine ci si occupa dei processi di lavoro e, quindi, delle abilità e dei metodi necessari — soprattutto agli operatori sociali — per affrontare i problemi individuati.In questa nuova edizione, l’autore propone dunque una guida am-pliata e aggiornata sulle conoscenze e le competenze essenziali per lavorare con successo con e per gli altri. Scritto in maniera accessibile e ricco di esempi, consigli ed esercizi pratici, il libro è una risorsa indispensabile per operatori sociali e sanitari, studenti, coordinatori, manager e in generale per chiunque lavori con le persone.

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Scrittore, educatore e consu-lente indipendente, vanta una pluridecennale esperienza di lavoro nell’ambito dei servizi alla persona. Nella sua carrie-ra è stato docente in quattro università inglesi e ha pubbli-

cato oltre 200 lavori, tra cui alcuni manuali di grande successo. Tra la sua produzione si contano anche numerose risorse per la formazione: e-book, DVD, manuali, corsi online. Ha ideato e condotto l’Avenue Professional Development Programme, una comunità di formazione online innovativa, basata sui principi del-la pratica riflessiva e dell’apprendimento autodiretto.

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«Essere “creativi” significa uscire dai binari dei modi di lavorare abituali e convenzionali. Tra i maggiori ostacoli allo sviluppo della creatività vi è l’atteggiamento di chi dice: “Non ci riesco. Non sono assolutamente una persona creativa!”. È questo un tipico atteggiamento disfattista, proprio di chi confonde abilità che si possono imparare e qualità personali intrinseche. Il tema della creatività è uno di quelli su cui c’è maggiore confusione: c’è chi la vede come una sorta di qualità magica, quasi si trattasse di un dono di natura. La creatività invece può essere appresa: può essere affinata, come qualità, con l’impegno e con l’esperienza. La creatività è un insieme di abilità.»

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NuovaEdizione

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Capitolo secondo

Gestire bene il tempo

Introduzione

La capacità di gestire bene il tempo, o time management, è qualche cosa che si tende ad associare ai professionisti, ai manager o ai dirigenti delle grandi imprese, più che ai lavora-tori «normali». Circolano molti pregiudizi e fraintendimenti, in effetti, a proposito del time management: su ciò che è, su come funziona, sul perché sia così importante e via discorren-do. In questo capitolo ci proponiamo di sgombrare il campo dai dubbi più frequenti, presentando un’introduzione chiara e comprensibile al time management.

Che cos’è il time management?

Si tende spesso a distinguere, nel linguaggio comune, tra efficacia (fare le cose giuste) ed efficienza (fare le cose bene). Benché l’efficacia sia un aspetto di indubbia importanza, ri-spetto al time management ci interessa soprattutto l’aspetto dell’efficienza. Il tempo è una risorsa scarsa, che richiede di essere utilizzata nel modo migliore possibile, e non va certo sprecata, né impiegata male.

Si usa dire spesso, nel mondo del lavoro, che «il tempo è denaro». Se lavoriamo con le persone, il tempo può essere davvero

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la risorsa più preziosa di cui disponiamo. Molte volte, anzi, il tempo è la cosa più importante che possiamo offrire agli altri; un motivo in più per non sprecarlo, o per non impiegarlo malamente.

Il time management, però, non ha a che vedere soltanto con l’organizzazione del nostro tempo e con il tentativo di non sprecarlo. Uno dei suoi aspetti principali — anzi, essenziali — sta infatti nella capacità di calibrare l’energia e di mantenere su livelli ottimali la motivazione e l’impegno personale. In altri termini, è qualche cosa che riguarda non solo la quantità di tempo, ma anche la sua qualità.

La questione dell’energia, della motivazione e dell’impegno assume particolare importanza per chi lavora a stretto contat-to con le persone. I problemi e le esperienze di vita in cui ci imbattiamo, in questo campo, possono farci sentire esauriti, demoralizzati, talvolta addolorati o carichi di rabbia. Altre volte, il lavoro con le persone può risultare noioso, poco stimolan-te, ripetitivo: può comportare, ad esempio, tutta una serie di adempimenti burocratici da sbrigare in ufficio. Nell’uno come nell’altro caso, è evidente che la motivazione è un elemento di grande rilevanza. Di qui una domanda di importanza vitale: in che modo è possibile mantenere l’impegno e la motivazione, nei momenti più difficili del lavoro?

Per rispondere a questa domanda, nelle pagine seguenti ci occuperemo principalmente di due aspetti: come organizzare il proprio tempo in modo ottimale e come mantenere alte le proprie energie. Come prima cosa, però, dobbiamo spendere qualche riflessione sul funzionamento dei processi di time management, e sugli effetti che ne derivano.

Come funziona il time management

Il modo più comune di guardare al time management è quello della cosiddetta «cronotecnica»: si tratta di analizzare

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in dettaglio il modo in cui si trascorre abitualmente il proprio tempo sul luogo di lavoro. È possibile utilizzare, a questo scopo, strumenti ormai ben noti, come registri o «diari del tempo». Questo approccio al time management ha i suoi lati positivi, come quello di mettere a fuoco un’immagine esauriente del modo in cui si impiega il proprio tempo; accanto a questo, però, c’è anche l’altro lato della medaglia. Il problema più evidente è che un’attenzione eccessiva alle «modalità d’uso» del tempo si rivela assai dispendiosa e quindi risulta controproducente. Se guardiamo troppo ai dettagli, inoltre, rischiamo di perdere di vista le nostre energie e motivazioni.

L’approccio che presentiamo in queste pagine è sensibil-mente diverso. Il suo obiettivo di fondo è aiutarvi a capire (e in-coraggiarvi ad applicare) i principi di base del time management, sul piano dell’organizzazione del tempo e del mantenimento di adeguati livelli di energia. In questa prospettiva, il time ma-nagement richiede la sensibilità di saper cogliere l’importanza del tempo e dell’energia di cui si dispone, per svolgere bene un determinato lavoro. Conoscere i principi che stanno alla base del time management serve proprio a sviluppare questo tipo di sensibilità.

Può essere utile, per comprendere il funzionamento del time management, cogliere alcuni dati di fondo: – Non esistono risposte giuste, valide per tutti. Ciò che va bene per voi potrebbe risultare inadatto per qualcun altro, e viceversa. È importante, nell’imparare il time management, tenere conto della personalità, delle esigenze, della situazione in cui si trova ciascuno di noi.

– In un giorno ci sono solamente ventiquattro ore. Per quanto possiate diventare bravi a gestire il tempo, ci sono dei limiti oltre i quali non si può andare. Una buona gestione del tempo vi può aiutare a non sovraccaricarvi, ma non è sufficiente a «proteggervi» dagli eccessi di lavoro.

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– Il time management è qualche cosa che si può imparare. Come abbiamo detto all’inizio di questo libro, ci sono delle abilità che si tende spesso a scambiare per «qualità». Si tende a credere che vi siano persone che, a differenza delle altre, sarebbero «tagliate» per organizzare bene il proprio tempo. L’esperienza ci insegna che non è il caso di essere così fatalisti: ciascuno di noi ha in sé le potenzialità per rafforzare le proprie abilità di time management.

Organizzare il proprio tempo

La capacità di organizzare il proprio tempo nel modo mi-gliore è un aspetto importante per chi lavora con le persone. Il lavoro con le persone, infatti, è ben poco compatibile con una scansione rigida e inflessibile dei tempi di lavoro. Di solito, i singoli lavoratori hanno dalla loro un certo margine di mano-vra, per decidere come impiegare il tempo di cui dispongono. Spesso, però, si stenta a comprendere l’importanza di una buona gestione del tempo e non le si riconosce l’attenzione che meriterebbe. Non è raro, quindi, imbattersi in operatori di grande esperienza e competenza che pure hanno serie difficoltà a gestire bene il tempo di lavoro. Ciò ha ripercussioni negative sull’efficacia delle loro iniziative a favore degli altri. È per questo che è senz’altro utile dedicare un po’ di tempo a comprendere i fondamenti del time management. L’idea di un buon «investi-mento del tempo», del resto, sta alla base del primo principio di time management che ci accingiamo a trattare.

Investire tempo per risparmiare tempo

C’è chi commette l’errore di diventare «troppo impegnato» per potersi permettere di organizzare o di pianificare il proprio tempo. Quando ciò si verifica, la persona direttamente interes-

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sata ha ormai perso il controllo del proprio tempo e faticherà non poco per recuperarlo. Un buon time management richie-de di saper mettere da parte una certa quantità di tempo, per programmare le modalità di impiego del tempo restante, fissare delle priorità, prevedere i problemi che potrebbero emergere, riconoscere le potenziali opportunità, e così via. Occorre, in altri termini, investire del tempo in attività di programmazione e di organizzazione, che serviranno poi a risparmiare del tempo. Chi non riesce a fare questo «investimento» potrebbe anche risparmiare un po’ di tempo nell’immediato, ma sul lungo periodo rischierà di perderne assai di più.

Detto questo, va anche riconosciuto il rischio opposto: quello di investire troppo tempo nella programmazione. C’è chi dedica tanto di quel tempo a programmare il lavoro da non avere più tempo per farlo. C’è chi continua a compilare liste infinite di compiti da fare, senza poi trovare il tempo per svolgerne alcuno. È fondamentale, quindi, saper trovare un giusto equilibrio tra un investimento scarso e uno eccessivo. La programmazione è uno strumento in vista di uno scopo e non uno scopo in sé.

Uno sgUardo alla pratica 2.1

Tommaso era orgoglioso di tutto il lavoro che era capace di fare. Si sentiva veramente soddisfatto quando considerava quanti impegni aveva. Gli piaceva essere visto dagli altri come una persona «impegnata»: si sentiva importante. Quello che non gli riusciva, però, era ritagliarsi un po’ di tempo per programmare meglio il lavoro, per darsi delle priorità, per farsi una «visione globale» delle cose che faceva. Benché fosse costantemente impegnato, non si poteva dire che impiegasse il tempo in modo ottimale; molta della sua energia, anzi, andava sprecata. Questo divenne evidente quando se ne andò il suo vecchio capoufficio e fu sostituito da una persona che cominciò a preoccuparsi seriamente per il suo modo di lavorare. Tommaso si sentì profondamente a disagio nel sentirsi dire, da un giorno all’altro, che doveva imparare a gestire meglio il tempo e gli ci volle un bel po’ per cogliere a fondo l’importanza di un time management accurato ed efficace.

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Fissare delle priorità

Quando ci troviamo davanti un lungo elenco di cose da fare, può essere utile stabilire quali siano le più importanti e quali vadano fatte per prime. Si tratta, in altri termini, di fissare delle priorità. Il che può risultare difficile, per tre ordini di ragioni: – Non ci sono molti criteri che ci permettano di stabilire un ordine di importanza nelle cose.

– Le cose importanti sulla lista potrebbero essere così nume-rose che risulterebbe impossibile, in ogni caso, farle tutte. È necessario prendere qualche decisione drastica, per togliere dall’elenco i compiti di troppo.

– Ci può anche essere un conflitto di interessi. Ci possono essere delle voci sulla lista, ad esempio, che ai vostri occhi hanno un’estrema importanza, ma dal punto di vista di altre persone influenti — ad esempio il vostro capo — sono decisamente meno importanti.

Non è detto, quindi, che fissare delle priorità sia una cosa semplice. Con un po’ di esperienza, comunque, scoprirete voi stessi che i benefici che ne derivano sono ben superiori ai risvolti negativi. Il punto, semmai, è guardarsi dal rischio di fissare le pri-orità in modo eccessivamente rigido. Se non si mantiene una certa flessibilità, le priorità possono rivelarsi più d’ostacolo che d’aiuto.

Ad esempio, un tattica utile potrebbe essere quella di pen-sare alle conseguenze a cui si va incontro se non si completa un particolare lavoro. Se non portassimo a termine un incarico, quanto sarebbe grave? Naturalmente, questa non è una regola ferrea: ma può essere utile per aiutarci a valutare l’importanza relativa da attribuire a priorità in conflitto tra loro.

Non perdere di vista l’obiettivo

Ciascuno di noi rischia di sprecare molto tempo, ogni volta che perde di vista l’obiettivo che si era prefissato, o che

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lo scopo delle sue azioni diventa incerto e confuso. Non è raro, in effetti, scivolare in una sorta di circolo vizioso. Un carico di impegni eccessivo può farci perdere di vista completamente gli obiettivi, rendendoci ancora più tesi per «il tempo che non c’è»; cosa che ci rende ancora più confusi rispetto agli obiettivi, e il circolo continua.

Quindi, la capacità di mantenere ben chiari gli obiettivi anche quando siamo sotto pressione è un aspetto basilare per un time management efficace. Il principio del «non perdere di vista l’obiettivo» è strettamente legato alla capacità di lavorare in modo metodico e ordinato, come vedremo più a fondo nel capitolo ventiduesimo.

Evitare di perdere tempo

Che sia importante evitare di perdere tempo, in sé, è un’affermazione abbastanza ovvia. Nonostante questa ovvietà, è facile constatare che molte volte non si prende alcuna inizia-tiva, nemmeno delle più semplici ed elementari, per evitare gli sprechi di tempo. Pensiamo, ad esempio, a tutte le volte che ci rivolgiamo di persona a qualcuno per avere informazioni che si potevano ottenere per telefono; o alle situazioni in cui due membri della stessa équipe partecipano a una riunione in cui era sufficiente la presenza di uno solo di loro; o ai resoconti eccessivamente lunghi e dettagliati, laddove bastava una breve ricostruzione dei punti essenziali; o al fatto di sbrigare man-sioni che avrebbero potuto benissimo essere affidate ad altri; o ai continui tentativi a vuoto di telefonare a qualcuno, quando una breve lettera sarebbe più che sufficiente.

Questo non vuol dire, beninteso, che tutti gli incontri vadano rimpiazzati da comunicazioni telefoniche. Questo, evidentemente, sarebbe assurdo. Certe volte, nondimeno, le visite «in carne e ossa» non sono necessarie e rappresentano una

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perdita di tempo. È necessaria, semmai, la capacità di identi-ficare le circostanze in cui si rischia di perdere del tempo, per poi utilizzare quel tempo in modo più costruttivo. Si tratta di sviluppare un buon livello di sensibilità e di autoconsapevolez-za, come abbiamo visto nel corso del capitolo precedente. La capacità di cogliere le situazioni in cui si potrebbe risparmiare del tempo è qualche cosa che si può sviluppare con la pratica e con l’esperienza; qualche cosa, comunque, che non mancherà di ripagare dell’investimento fatto.

Usare un’agenda

L’agenda è uno degli strumenti principali del time mana-gement. La si può utilizzare nell’ambito della programmazione, del monitoraggio, del coordinamento delle proprie attività. Non si tratta solo di un posto dove annotare appuntamenti con altre persone. Ad esempio, se dobbiamo scrivere una relazione, potremo fare uso dell’agenda per organizzare il tempo dedicato a questa attività. In questo modo, l’agenda diviene un tassello importante di ogni strategia di gestione del tempo. Anche rispetto all’utilizzo dell’agenda è possibile sviluppare meglio alcune tecniche e abilità ad hoc.

L’agenda vi aiuta a controllare meglio il vostro tempo e vi mette al riparo da situazioni imbarazzanti come quella di dimenticarsi un appuntamento o di fissarne due alla stessa ora. Una buona tecnica per usare l’agenda, pur nella sua semplicità, è la seguente: si traccia una linea verticale nel mezzo di ogni pagina, si annotano sulla parte sinistra gli impegni o gli appun-tamenti, e sulla parte destra le cose ancora da fare. All’inizio di ogni giorno potrete dare un’occhiata alla lista della pagina precedente, depennando le cose che sono state fatte, o che non c’è più bisogno di fare. Rimarranno soltanto le cose ancora da fare, che potrete riportare nella parte destra della pagina di oggi.

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La regola dei tre minuti

È facile che, nel corso della settimana, si accumulino tante piccole cose da fare. Ciascuna, presa di per sé, non richiede grandi sforzi; quando cominciano ad accumularsi, però, l’im-pegno si fa decisamente maggiore. E visto che districarsi tra tante «cosette» da fare può risultare sgradevole, non sorprende la tendenza a procrastinare. Una volta che si comincia a rinviare, però, il «mucchio» delle cose in arretrato è destinato a crescere; il che, a sua volta, aumenta l’indisponibilità a farsene carico. Ed ecco che si è innescato un circolo vizioso.

Una buona soluzione, accessibile a tutti, è la «regola dei tre minuti». Se la cosa che dovete fare richiede meno di tre minuti — compilare un modulo, dare una breve risposta via e-mail, e così via — allora occupatevene subito. Oltre a prevenire gli arretrati di lavoro, eviterete anche, più avanti, ritardi dovuti all’adempimento di queste cose di poco conto.

Lavorare insieme

Lavorare in modo collaborativo, anche nella forma di un vero e proprio lavoro in équipe, permette di valorizzare i punti di forza di ciascuno, riducendo gli effetti dei rispettivi punti di debolezza. Una strategia di tipo cooperativo, di conseguenza, può senz’altro contribuire a una buona gestione dei tempi di lavoro. Si tratta, comunque, soltanto di una possibilità: non sta scritto da nessuna parte che la cooperazione, di per sé, garanti-sca necessariamente un migliore utilizzo del tempo. I tentativi di collaborare possono anche dare luogo a sovrapposizioni (o a compiti che rimangono scoperti), incongruenze, dibattiti vuoti e interminabili, incapacità di decidere; in definitiva, a un cattivo utilizzo delle risorse disponibili (tempo compreso). «Il lavorare insieme», pertanto, non si può ridurre a uno slogan: richiede un adeguato investimento di tempi e di energie. Per

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riuscire a collaborare bene dobbiamo saper fissare dei «paletti» e chiarire le aspettative reciproche, onde evitare confusione e l’insorgere di conflitti.

Gestire i livelli di energia

La capacità di organizzare e coordinare i propri impegni in funzione del tempo disponibile ha una parte importante per un buon utilizzo di una risorsa scarsa, quale è il tempo. Occorre anche approfondire, però, il modo migliore per gestire i livelli di energia e per mantenere le motivazioni sul lavoro.

La programmazione dei tempi di lavoro (timing)

Alcuni di noi si possono definire persone «mattinie-re», mentre altri non lo sono affatto. Certe persone, in altri termini, sono particolarmente lucide nelle prime ore del mattino, mentre altre si «risvegliano» in momenti successivi della giornata, o magari verso sera. È importante capire quali siano, per ciascuno di noi, gli «orari ottimali»: sarà possibi-le, in tal modo, programmare meglio le cose che abbiamo da fare. Potrebbe non essere una buona idea, ad esempio, fissare un impegno oneroso e difficile in una fascia oraria in cui, abitualmente, non diamo il meglio di noi stessi. Anche questo aspetto del time management rimanda direttamente al tema dell’autoconsapevolezza, trattato nel capitolo primo. È importante, infatti, riconoscere non soltanto i nostri punti di forza e di debolezza, ma anche — per così dire — i nostri momenti di forza e di debolezza. Una buona programmazione dei tempi ci potrà aiutare ad «abbinare» l’andamento delle nostre energie con i vari compiti che dobbiamo affrontare, in modo da riservare i compiti più impegnativi per i momenti di maggiore lucidità.

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La persona giusta nel posto giusto

Si tende spesso, nel lavoro di gruppo o di équipe, a dividere il lavoro senza considerare più di tanto quali siano, per ciascuna delle mansioni previste, le persone più idonee. Ciò, in termini di time management, è controproducente, giacché si traduce in un impiego non ottimale delle risorse disponibili. Ciascuno di noi ha i suoi punti di forza e di debolezza; aspetti del lavoro che gradisce e aspetti che non gli sono congeniali. Valorizzan-do le cose che sappiamo fare meglio e che ci piacciono di più si manterranno livelli di motivazione più elevati e, a parità di tempo disponibile, si otterranno risultati migliori. Vale quindi la pena, in un contesto di lavoro di gruppo o di staff, mettere a fuoco le preferenze individuali di ogni lavoratore, in modo che ciascuno — per quanto possibile — abbia l’opportunità di dare il meglio di sé.

Uno sgUardo alla pratica 2.2

Patrizia era abbastanza soddisfatta, nell’insieme, del proprio lavoro. Alcuni aspetti, però, non le piacevano affatto e non di rado la rendevano spossata e demotivata. Un giorno, tuttavia, scoprì che una delle mansioni che le pia-cevano meno — seguire la formazione dei nuovi membri dello staff — era estremamente gradita alla sua collega Gianna. Dopo aver discusso insieme delle rispettive mansioni, Patrizia e Gianna provarono a «scambiarsi» una parte del lavoro. La cosa ebbe grande successo. Grazie alla collaborazione, entrambe avevano potuto migliorare la qualità del proprio lavoro.

La regola «via il dente, via il dolore»

Quando dobbiamo svolgere delle mansioni che non ci fanno «impazzire» di gioia, o che non sopportiamo proprio, è meglio affrontarle il prima possibile. Se riusciamo a «levarcele di torno», avremo di che essere soddisfatti e sollevati. Gli effetti saranno positivi sia per il morale, sia per le energie lavorative.

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Se sappiamo — ad esempio — che domani dovremo fare una telefonata sgradevole, è meglio che ci impegniamo a farla non appena arrivati in ufficio.

Se non prendiamo di petto queste mansioni sgradevoli e continuiamo a procrastinarle, possono tormentarci, demotivarci e condizionare negativamente il nostro rendimento sul lavoro. È importante, quindi, seguire la semplice regola del «via il dente, via il dolore»: si tratta di identificare le cose verso cui siamo più riluttanti, per poi metterci a farle prima di tutte le altre.

Fare una pausa

Chi dice sempre di essere «troppo impegnato per fare una pausa» si espone a una situazione pericolosa. Non si rende contro, oltretutto, di un dato elementare: a parità di mansione da svolgere, un lavoratore riposato è più produttivo di uno spossato dalla fatica.

Quando il tempo è tiranno, e il lavoro da fare è tanto, è facile scivolare nella trappola del «proseguire a oltran-za», senza un attimo di pausa. Il risparmio di tempo, così facendo, è soltanto apparente. Tanto per dire, è probabile che una persona che lavora un’ora e mezza, fa una pausa di un quarto d’ora e poi continua a lavorare per un’altra ora e un quarto, produca di più — in termini sia quantitativi, sia qualitativi — di una che lavora ininterrottamente per tre ore, senza fare il minimo «stacco». Lavorare a oltranza, senza pause, può avere effetti logoranti, aumenta le pro-babilità di commettere errori, o comunque di «produrre» assai meno del solito. (Thompson, 1993, pp. 131-132)

L’aumento del carico di lavoro

Un lavoro fatto male, o senza la necessaria attenzione, porta via molto più tempo del necessario. Se non calibriamo bene i tempi di lavoro, rischieremo di dedicare alle singole mansioni

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un tempo ben superiore a quello che esse richiederebbero. Que-sto, sul versante delle motivazioni, è un aspetto importante: se siamo poco motivati finiremo per allungare inutilmente i tempi di lavoro, cosa che, a sua volta, avrà ripercussioni negative sulle nostre motivazioni.

Se invece ci sforziamo di completare in tempi ragionevoli le mansioni che ci vengono assegnate, ne usciremo rafforzati nel nostro senso di fiducia, di padronanza, di autorealizzazione. L’impegno a evitare ogni allungamento superfluo dei tempi di lavoro sarà ampiamente ripagato, sul piano delle nostre moti-vazioni al lavoro.

Essere ottimisti

Per mantenere, se non rafforzare, i livelli di energia e di motivazione, è fondamentale l’ottimismo. Un atteggiamento pessimista, infatti, contribuisce di per sé ad abbassare il morale e la soddisfazione sul lavoro. Ne può derivare un circolo vizioso, in cui pessimismo e morale sotto i tacchi si rinforzano — e quindi si peggiorano — a vicenda.

Essere ottimisti può generare un circolo virtuoso che dà luogo a un miglioramento della soddisfazione e del morale sul lavoro, il che contribuirà a un atteggiamento più improntato all’ottimismo. Vedremo più in dettaglio nel capitolo decimo quanto sia importante non perdere mai di vista gli aspetti positivi.

Lavorare insieme

Oltre che a una migliore organizzazione dei tempi di lavo-ro, lavorare insieme può giovare alle energie e alle motivazioni lavorative. Il lavoro in équipe, la collaborazione e il sostegno reciproco possono rivelarsi strategie vincenti, nella misura in cui generano un senso positivo:

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– di sicurezza e di fiducia («l’unione fa la forza»); – di impegno a favore degli altri; – di cameratismo, di identità di gruppo, di senso d’apparte-nenza;

– di orgoglio e di soddisfazione per i risultati positivi ottenuti insieme.

Conclusione

Essere ben organizzati, nell’impiego dei tempi di lavoro, non è una qualità «naturale». È, piuttosto, il prodotto di un insieme di abilità che possono essere apprese e potenziate, grazie alla pratica e all’esperienza. I suggerimenti di questo capitolo possono aiutarvi a migliorare nella capacità di gestire i tempi, purché vi impegniate effettivamente ad applicarle. Se non ne siete convinti più di tanto, o le praticate così, «tanto per fare», non vi gioveranno granché.

L’ingrediente essenziale è quindi la fiducia, in una duplice accezione. Tanto per cominciare, dobbiamo confidare nella nostra capacità di apprendere cose nuove, di acquisire delle nuove abilità. In secondo luogo, dobbiamo avere fiducia nelle tecniche di cui facciamo uso. Se si riesce ad attivare questa fiducia, l’autoefficacia di ciascuno di noi ha davanti a sé degli enormi margini di miglioramento.

ESERCIZIO 2Riuscire a organizzarsi

In questo capitolo abbiamo fornito molti suggerimenti per gestire meglio il tuo tempo. Ora, per aiutarti a metterli in pratica, abbiamo pensato a questo esercizio.Innanzitutto, prendi un foglio di carta, di formato A4, e tienilo vicino a te, scorrendo velocemente l’intero capitolo. Segna sul foglio tutte le

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indicazioni concrete che secondo te potresti mettere a buon frutto nel tuo lavoro (ad esempio, la regola «via il dente, via il dolore»). Quando avrai finito, avrai una lista di azioni e potrai quindi pianificare un per-corso per mettere in atto la tua nuova strategia di gestione del tempo.

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Capitolo terzo

Gestire lo stress

Introduzione

Ogni attività lavorativa comporta un certo livello di tensione e ci espone a una buona misura di stress, tanto più in un campo come quello dei servizi alla persona. In questo capitolo ci occuperemo delle tre componenti essenziali dello stress management: – i fattori di stress (stressors), ossia le cause di stress più comuni e diffuse;

– i metodi di coping, cioè i modi in cui possiamo cercare di affrontare la pressione dello stress;

– le modalità di aiuto, e quindi i modi in cui è possibile facilitare i processi di coping.

Una volta esaminati questi tre aspetti, guarderemo alle abilità e alle strategie necessarie per mantenere la tensione sotto controllo, evitando di essere danneggiati dallo stress.

Stress e tensione

Anzitutto è importante definire con precisione quello che intendiamo per «stress». Arroba e James (1992) definiscono lo

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stress come «risposta a livelli inappropriati di tensione». Sono due gli elementi più significativi di questa definizione:1. Il termine «risposta» indica che lo stress scaturisce dal modo in

cui reagiamo alla tensione; dunque «gestire lo stress» vuol dire anche saper controllare le nostre reazioni, oltre che la tensione che le provoca. Ritorneremo su questo aspetto più avanti.

2. L’aggettivo «inappropriato» suggerisce che lo stress può deri-vare non solo da un livello eccessivo di tensione, ma anche da un livello insufficiente, come quando ci annoiamo, o siamo privi di stimoli.

Possiamo quindi distinguere, come proponiamo nella figura 3.1, fra la tensione — che può essere, a seconda delle circostanze, positiva (una fonte di stimoli e di motivazione) o negativa (una fonte di preoccupazioni e di conflitto) — e lo stress, che è sempre qualche cosa di negativo e dannoso.

Fig. 3.1 I diversi livelli di tensione.

Stress

Livello di tensione eccessivo Stress

Livello di tensione appropriato Assenza di stress

Livello di tensione insufficiente

Ricapitolando: – lo stress non equivale alla tensione: quest’ultima è un fatto inevitabile, mentre lo stress può anche essere evitato;

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– lo stress si verifica più facilmente laddove la tensione è ec-cessiva, o insufficiente;

– lo stress dipende non solo dal livello di tensione che avver-tiamo, ma anche dal modo in cui reagiamo.

È importante che la distinzione tra questi due concetti chiave sia ben chiara. Se non siete sicuri di averla compresa bene, vi suggeriamo una rilettura di questo paragrafo, prima di procedere oltre.

Gli effetti dello stress

Lo stress può essere all’origine di molteplici eventi negativi. Basti soltanto pensare ad alcuni dei più frequenti, esposti qui di seguito. – Patologie correlate allo stress. È risaputo che lo stress contri-buisce in modo determinante a malattie cardiache, coliti, ulcere, e così via.

– Vulnerabilità alle malattie. Lo stress indebolisce i nostri livelli di resistenza alle malattie in generale.

– Cali motivazionali. Lo stress ci fa perdere entusiasmo fino a farci sentire, come si suol dire, «con il morale sotto i tacchi».

– Insoddisfazione sul lavoro. Nel nostro ambiente di lavoro, quando siamo sotto stress, tendiamo a considerare solo gli aspetti negativi, perdendo di vista quelli positivi.

– Tensione e irritabilità. Lo stress può anche essere motivo di disaccordi o di conflitti.

– Tendenza a commettere errori. Lo stress ci espone al rischio di commettere molti più errori del solito, cosa che — nel lavoro con le persone — può avere conseguenze pesanti.

Non si tratta certo di un elenco esaustivo, ma ci pare suffi-ciente a mostrare che il tempo e gli sforzi dedicati a prevenire lo stress, o a contrastarlo, rappresentano un ottimo investimento.

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Uno sgUardo alla pratica 3.1

Un’équipe di cinque persone riusciva a gestire abbastanza bene, senza particolari difficoltà, il carico di lavoro che le era stato assegnato. Un gior-no, però, Pietro — uno di loro — si sentì intimare, con tono estremamente aggressivo, di «mettersi a fare la sua parte». Il dirigente seppe dell’incidente, ma non lo prese sul serio; si limitò a definirlo «una storia come tante». Da parte sua, Pietro si sentiva male, poco aiutato e ancor meno considerato. Pochi giorni più tardi, un certificato medico comunicava che Pietro doveva prendersi due settimane di assenza per malattia, a causa di un «esaurimento nervoso». Nelle due settimane successive, gli altri componenti dell’équipe si trovarono con un carico di lavoro aggiuntivo del 25%, che riuscirono — sia pure con difficoltà — a smaltire. Terminato quel periodo, però, arrivò un nuovo certificato: l’assenza di Pietro si sarebbe prolungata per altre quattro settimane. I suoi colleghi cominciarono a preoccuparsi e a domandarsi se Pietro sarebbe mai ritornato. Per Patrizia, che stava attraversando un pe-riodo difficile con il marito, questa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Lo stress, per lei, era troppo. Si prese a sua volta un permesso per malattia, cosa che costrinse i suoi colleghi a farsi carico, da soli, di un lavoro che era aumentato addirittura del 40%. Per i tre operatori rimasti, la tensione si era fatta fortissima. Erano giunti a domandarsi se avrebbero mai visto la luce, alla fine di quel tunnel. La situazione era veramente snervante. Sarebbe bastato un piccolo imprevisto a far saltare tutto per aria.

Comprendere il proprio stress

Giacché lo stress è legato al modo in cui ciascuno reagisce alle tensioni che avverte, si tratta di un problema che ha molti risvolti sul piano personale e varia considerevolmente da indi-viduo a individuo. È importante, quindi, che ciascuno sia in grado di comprendere l’impatto dello stress e della tensione sulla propria esperienza di vita. L’esercizio 3, alla fine di questo capito-lo, è pensato proprio per aiutarti a disegnare il quadro della tua situazione, con un occhio di riguardo alla gestione dello stress.

Avere un quadro chiaro delle pressioni a cui si è sottopo-sti, ma anche delle risorse di fronteggiamento e di sostegno di

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cui si dispone, è importante per gestire lo stress. Senza questo quadro, si lavora alla cieca. Per quanto importante, però, questa consapevolezza non è sufficiente: comprendere lo stress è sol-tanto il primo passo dello stress management. Occorre anche potenziare le proprie abilità e strategie di gestione dello stress, come vedremo nel corso delle prossime pagine.

Abilità e strategie di stress management

L’esperienza dello stress, come abbiamo visto, è estrema-mente variabile, e dipende non poco dalla situazione personale di ciascuno di noi. Ciò detto, è comunque possibile individuare alcuni principi e linee guida, di carattere generale.1. Conoscere se stessi. Sembrerà un luogo comune, ma avere un

buon livello di consapevolezza di sé è fondamentale, giacché aiuta a riconoscere i propri punti di forza e di debolezza: le risorse personali da cui possiamo attingere nei momenti di bisogno, ma anche gli aspetti che ci rendono più vulnerabili. Come abbiamo osservato nel capitolo primo, l’autoconsa-pevolezza è un requisito essenziale per lavorare bene con le persone. Tale requisito è altrettanto importante per quanto riguarda la gestione dello stress. Laddove manca una suffi-ciente consapevolezza di sé, infatti, gestire lo stress si può rivelare assai più impegnativo del necessario.

2. Fissare degli obiettivi. È utile darsi degli obiettivi precisi, per avere un traguardo ben definito a cui puntare, in modo da non sentirsi «alla deriva» o privi di uno scopo. Definire degli obiettivi può servire anche a rafforzare le nostre motivazioni e a ottenere — una volta che gli obiettivi siano stati raggiunti — una legittima soddisfazione dal lavoro che facciamo. Come si suol dire, infatti, «se non sappiamo dove vogliamo andare, nessuna strada potrà condurci a destinazione». Individuare degli obiettivi e avere le idee ben chiare su quel che ci occor-

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re per realizzarli ci aiuta a identificare la strada che stiamo percorrendo. Ci aiuta a tenere lontano quel senso di disorien-tamento che si accompagna, il più delle volte, all’esperienza dello stress. Si tratta di una questione di grande importanza, su cui ritorneremo nei capitoli ventunesimo e ventiduesimo.

3. Cambiare atteggiamenti. Cambiare il proprio atteggiamento nei confronti di qualche cosa può cambiare il modo in cui quel «qualche cosa» ci condiziona. Se l’obiettivo che ci sia-mo dati è diventare i più grandi lavoratori del mondo, ad esempio, ben presto ci troveremo sopraffatti dalla tensione! Per metterci al riparo da uno stress inutile, in casi come que-sto, occorre cambiare il nostro atteggiamento. Una buona soluzione può essere accontentarsi, almeno all’inizio, di un obiettivo più modesto. Puntare all’eccellenza può rivelarsi una fonte di stimoli e di motivazione (e quindi di tensione positiva); ma puntare a essere i migliori può far sì che la ten-sione sconfini nello stress. Se è vero che lo stress è la reazione a un livello di tensione inappropriato, cambiare il proprio modo di reagire alle circostanze esterne può costruire una soluzione efficace per gestire meglio la tensione. Per dirla con il linguaggio degli specialisti, si tratta di mettere in atto una «ristrutturazione cognitiva».

4. Essere assertivi. La questione dell’assertività sarà oggetto del capitolo quinto, sicché non ci dilungheremo, in questa sede, sull’argomento. Va comunque ricordato che l’essere assertivi — trovare, cioè, un ragionevole punto di equilibrio tra gli estremi della sottomissione e dell’aggressività — è un aspetto importante dello stress management. L’assertività ci aiuta a impedire agli altri di disporre di noi a loro piacimento, ma serve anche a prevenire i conflitti; o, quantomeno, a ridurne gli effetti negativi, come vedremo nel corso del capitolo quinto.

5. Mantenere il controllo. Questo principio non si riduce al classico messaggio del «non farsi prendere dal panico», che

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pure è importante. La verità è che, quando siamo sottoposti a una forte tensione, è facile che perdiamo la padronanza di noi stessi e delle cose che facciamo. Da una ricerca di qualche anno fa sui casi di abuso minorile (DoH, 1991), ad esempio, emergeva che gli assistenti sociali dei servizi di tutela minorile tendevano a fare molti errori a causa della tensione a cui erano sottoposti. Era come se le loro capacità di giudizio si offuscassero, con tutte le conseguenze negative che ne derivavano. Un buon consiglio, in casi come questi, è quello di stare calmi e di tenere in mano la situazione. Questo non vuol dire, peraltro, assumere atteggiamenti autoritari o impositivi; si tratta soltanto di non lasciarsi sfuggire quello che sta succedendo attorno a noi, non permettere a noi stessi di diventare degli osservatori impotenti, vittime delle circostanze. Molte cose, comunque, vanno ben al di là delle nostre capacità di controllo; non possiamo che prenderne serenamente atto (Thompson, 2012a). D’altra parte, occorre guardarsi dal rischio del disfattismo, tipico di chi sottovaluta la propria capacità di controllare il corso degli eventi (come nell’esempio sul time management, presentato nel capitolo secondo).

6. Tracciare dei confini. Gli equivoci e le ambiguità ci accom-pagnano nella vita di tutti i giorni, ma quando siamo sotto pressione possono assumere dimensioni incontrollabili. È per questo che è importante acquisire una buona capacità di «tracciare confini». Sono confini che hanno a che vede-re, prima di tutto, con le responsabilità: occorre avere ben chiaro ciò di cui siamo e ciò di cui non siamo responsabili. Ci sono due ottime ragioni per farlo: primo, se abbiamo la responsabilità di qualche cosa e non ne siamo ben consape-voli, rischiamo di trovarci seriamente in difficoltà, qualora le cose si mettano male; secondo, se ci assumiamo l’onere di impegni che esulano dalle nostre responsabilità (perché

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di competenza di altri), ci ritroveremo con un «carico» del tutto gratuito ed evitabile; o, per dirla diversamente, con un ulteriore fattore di stress. È importante, quindi, saper riconoscere i confini delle responsabilità nostre e altrui (Thompson, 2015a).

7. Gestire bene il tempo. Ritorniamo su questo aspetto, trattato nel capitolo precedente, perché il time management è un tassello importante per qualsiasi professionista che lavora con le persone. Come si è visto, occorre gestire non solo il tempo, ma anche le energie di cui disponiamo; mantenere livelli di motivazione e di impegno adeguati è essenziale per affrontare attivamente la tensione, anziché farsene travol-gere. Gestire bene il tempo di cui si dispone serve anche a mantenere un buon controllo su di sé e sulla situazione (si veda il punto 5) e quindi di tenere a bada lo stress. Se invece perdiamo tempo e non manteniamo un livello di impegno costante, difficilmente riusciremo ad affrontare le difficoltà tipiche del lavoro con le persone.

8. Farsi aiutare dagli altri. C’è chi, stoicamente, vorrebbe sempre affrontare da solo qualsiasi situazione difficile, senza farsi aiutare da nessuno. È come se chiedere aiuto fosse un segno di debolezza, qualche cosa da evitare a tutti i costi. Una strategia di questo tipo è carica di insidie, perché ci colloca ai margini di quella rete di sostegno e di aiuto reciproco che, in certi casi, può fare la differenza. Per evitare questo rischio, l’atteggiamento di chi si crede «duro e puro», autonomo dagli altri in tutto e per tutto, andrà senz’altro respinto (Cranwell-Ward e Abbey, 2005). Un passo importante che va fatto, in questa direzione, è riconoscere che chiedere aiuto è un segnale di forza, non di debolezza; un segnale della nostra capacità di gestire lo stress in modo realistico, nella consapevolezza dei nostri limiti.

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Uno sgUardo alla pratica 3.2

Sandra sapeva che il suo nuovo impiego sarebbe stato impegnativo, ma non pensava così tanto. Si sentiva sommersa dal lavoro, senza nessuno che le desse una mano. All’inizio, decise che in fondo andava bene così: se la sarebbe cavata da sola, impegnandosi più che poteva. Bastava che lasciasse da parte i suoi problemi personali, per concentrarsi il più possibile, anima e corpo, sul lavoro. Un giorno, però, commise un errore che avrebbe potuto avere conseguenze gravi. Cominciò a rendersi conto che non serviva a nulla fare finta che i problemi non ci fossero. Decise di parlare con i colle-ghi di tutte queste sue difficoltà. Di fronte alle risposte che ricevette, cariche di comprensione nei suoi confronti, rimase veramente stupita. I colleghi si dissero senz’altro disponibili a venirle incontro e a darle una mano. Uno di loro, in particolare, fece un’osservazione che aiutò Sandra a capire che aveva sbagliato a non chiedere aiuto sin dall’inizio: «Avevamo l’impressione che tu fossi una di quelle persone che vogliono fare sempre tutto da sole, e detestano il lavoro di équipe».

9. Evitare modi inadeguati di affrontare lo stress. Ci sono dei modi di affrontare lo stress che sono utili, efficaci e costruttivi. Ce ne sono altri, però, che si possono rivelare dannosi e distruttivi; in casi di questo tipo, «il gioco non vale la candela». Se ad esempio tentiamo di affrontare una difficoltà mettendoci a bere, reagendo in modo violento, o negando completamente l’esistenza del problema, rischieremo soltanto di aumentare la tensione, o addirittura di aggravare la situazione; la «me-dicina», in altri termini, risulterà peggiore della malattia. C’è molto da guadagnare a evitare reazioni di questo tipo, sforzan-dosi di sostituirle con atteggiamenti più propositivi. La cosa migliore, in linea di principio, è puntare sul fronteggiamento attivo, prendendo di petto il problema che abbiamo davanti, senza nutrire eccessiva fiducia nel fronteggiamento passivo (cioè nel tentativo di fuggire dalla pressione o dal problema).

10. Avere cura di sé. Lo stress tende spesso a renderci sin troppo duri ed esigenti nei confronti di noi stessi. Ci poniamo degli

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obiettivi irrealistici (vedi al punto 3), svalutiamo quel che sappiamo fare, ci rendiamo la vita — in un modo o nell’al-tro — ben più difficile del necessario. E quanto più stress incontriamo, tanto più tendiamo ad assumere un atteggia-mento di questo tipo. Di conseguenza, una buona gestione dello stress ci richiede anche di prenderci cura di noi stessi; di non trascurare le nostre capacità, come pure i nostri limiti; di non pretendere troppo da noi stessi, e di non giudicarci con severità eccessiva. È importante essere consapevoli di questo rischio, in modo da cogliere i momenti in cui si verifica; po-tremo così rivolgerci a una persona di cui abbiamo fiducia, che ci aiuterà a guardare le cose nella giusta prospettiva.

Conclusione

In queste pagine abbiamo passato in rassegna le principali «pietre miliari» dello stress management. Seguire queste linee guida non basterà a garantirvi il successo, ma vi aiuterà a orien-tarvi nella direzione corretta per gestire al meglio le situazioni di tensione, minimizzando lo stress. Mi auguro che le idee e i suggerimenti qui presentati vi incoraggino a proseguire sulla strada di una migliore gestione dello stress.

Lo stress, come si è visto, è un problema che porta molte conseguenze negative: – può indurre, in primo luogo, un deterioramento delle con-dizioni di salute;

– può ridurre il senso di autoefficacia; – può mettere in crisi le relazioni con gli altri; – può creare un clima negativo, dominato dalla tensione, sul luogo di lavoro.

E l’elenco potrebbe proseguire; di qui l’importanza di acquisire delle buone abilità di gestione dello stress.

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Ma conviene ricordare anche che molte delle altre capacità di cui parliamo in questo libro hanno a che vedere con una buona gestione dello stress. Lo stress management, in altri termini, dipende dal potenziamento di abilità correlate come time management, assertività, efficacia comunicativa, capacità di essere sistematici e di concludere. Si tratta, in definitiva, di saper combinare gli «ingredienti» di abilità diverse, che si intrecciano e si sostengono a vicenda.

ESERCIZIO 3Stress, fronteggiamento e sostegno

Per questo esercizio, prendi un foglio di carta e dividilo in tre colonne. In cima a ogni colonna scrivi: «Fattori di stress»; «Metodi di coping»; «Fonti di aiuto». Sotto ogni etichetta elenca tutti gli esempi che ti vengono in mente. Cioè, sotto «Fattori di stress» scrivi tutte le possibili fonti di stress; sotto «Metodi di coping» elenca i diversi modi con cui puoi fronteggiare lo stress; sotto «Fonti di aiuto» scrivi le fonti di aiuto su cui puoi fare leva.Un esercizio di questo tipo può aiutarti a definire una panoramica dei problemi legati allo stress che ti trovi a dover affrontare, e può perciò aiutarti a elaborare un piano per affrontarli. Ad esempio, può aiutarti a capire che devi rafforzare la tua rete di aiuti; oppure, se ti rendi conto di avere già un buon sostegno, può aiutarti ad acquisire fiducia. Non è un esame: se hai finito le idee, sentiti libero di chiedere un parere a colleghi e ad amici.

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Capitolo quindicesimo

I colloqui

Introduzione

Prima di tutto, è necessario chiarire che il termine «collo-quio», in questa sede, si riferisce a qualsiasi discussione formale, o semi-formale, tra un operatore e uno o più utenti o tra un insegnante e uno studente o, ancora, tra un infermiere e un paziente e così via. Parliamo di «colloquio», cioè, in senso ampio, e non nell’accezione di un «colloquio di lavoro».

Un colloquio è ben altra cosa che una chiacchierata. Molte volte è lo strumento attraverso cui è possibile avviare un cambiamento nella situazione. Un buon colloquio deve essere orientato a uno scopo preciso, al raggiungimento di obiettivi specifici. Gestire bene i colloqui, pertanto, è un compito che richiede abilità elevate e che non andrebbe lasciato al caso. In questo capitolo ci occuperemo proprio delle abilità necessarie per una buona conduzione dei colloqui ed evidenzieremo al-cuni degli errori che si tendono più spesso a commettere nella pratica professionale.

Anzitutto, però, è importante soffermarsi su quello che andrebbe fatto prima del colloquio stesso.

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Prima del colloquio

Un buon colloquio si basa su un’accurata progettazione e preparazione preliminare. Prima di iniziare un colloquio, in altri termini, è meglio prendere in considerazione tutta una serie di elementi chiave.

Il tempo e il luogo

La scelta del momento giusto per fare un colloquio può rivelarsi fondamentale. In molti casi, per la verità, la tempistica di un colloquio non è poi così importante. In altri casi, però, la programmazione dei tempi può essere davvero cruciale. Nel caso di un colloquio con un minore, ad esempio, è meglio non fissare l’appuntamento all’ora del suo ritorno a casa, da scuola. Può darsi che il ragazzo abbia bisogno di riposare un po’ o non abbia ancora avuto il tempo di risistemarsi.

Il fattore tempo può essere importante anche rispetto alla durata del colloquio. Sia i colloqui brevi e affrettati, sia quelli eccessivamente lunghi possono rivelarsi inefficaci o addirittura controproducenti.

Anche l’ambiente, come abbiamo già visto, rappresenta un aspetto importante per qualsiasi forma di comunicazione. Il luogo in cui si svolge il colloquio, pertanto, può essere un elemento determinante. Quale sia il posto migliore, peraltro, dipende molto da un caso all’altro; l’importante è verificare sempre, di volta in volta, che l’ambiente in cui ci si trova sia realmente appropriato, specie nel caso di colloqui su argomenti delicati, o potenzialmente problematici.

Lo scopo

Un colloquio è, per definizione, una discussione con uno scopo preciso. È utile tenere sempre ben presente questo aspetto,

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in fase di preparazione. La chiarezza rispetto agli scopi aiuta a evitare divagazioni inutili e facilita i progressi nella direzione dei risultati auspicati.

Esplicitare gli obiettivi aiuta anche i nostri interlocutori a sentirsi maggiormente a proprio agio rispetto a quanto sta avvenendo e meno sospettosi o diffidenti nei confronti dell’o-peratore e delle sue motivazioni.

Siete le persone giuste?

Per certi tipi di colloquio è importante, se non essenziale, che ci sia un’adeguata «corrispondenza» tra chi conduce il col-loquio e il suo interlocutore, in termini di genere, o di cultura. Una donna vittima di violenza sessuale, ad esempio, potrebbe avere enormi difficoltà a sostenere un colloquio con un uomo. Un operatore può anche essere esperto nel condurre colloqui, ma se non è adatto per uno specifico colloquio è meglio sopras-sedere, onde evitare che il colloquio produca risultati negativi.

La sensibilità linguistica

In certi casi, inoltre, può essere necessario fare ricorso a interpreti. Laddove emerga un’esigenza di questo tipo, occorre considerare la situazione con attenzione. È meglio non ricorrere a un familiare, ad esempio, in un caso caratterizzato da tensioni all’interno del nucleo familiare; il rischio, in caso contrario, è di ottenere una rappresentazione deformata (in modo volontario o involontario) di quanto viene detto. Non è nemmeno il caso di ricorrere a minori, se non si vuole correre il rischio di esporli a informazioni inappropriate per loro.

Chi dovrebbe essere coinvolto?

I colloqui, di solito, si svolgono tra due persone soltanto, ma talvolta possono anche essere presenti più persone al me-

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desimo tempo. In questi casi, è importante stabilire chi debba essere coinvolto e chi no. Ancora una volta, non esiste nessuna regola «pronta per l’uso», che valga sempre. Se non si affronta la questione, d’altra parte, il rischio è che il colloquio si riveli inefficace, o che non faccia altro che peggiorare le cose. Può essere utile fare riferimento alle finalità del colloquio, per de-cidere, di volta in volta, chi sia opportuno partecipi.

I piani di emergenza

Sarebbe irrealistico predisporre un «piano d’emergenza» per ogni singolo colloquio, ma è buona norma farlo almeno in alcune situazioni. Per i colloqui più importanti, ad esempio, sarebbe un peccato non disporre di una strategia alternativa, nel caso risulti inefficace l’approccio che si aveva in mente. È quello che avviene, ad esempio, quando si presentano dei problemi imprevisti, o delle situazioni di potenziale emergenza.

Le abilità essenziali

Per condurre bene un colloquio è necessario saper appli-care, da parte degli operatori, almeno alcune abilità essenziali. Le descriviamo brevemente, una a una.

L’ascolto

Sull’importanza dell’ascolto attivo ci siamo già soffermati nel capitolo dodicesimo. Il contesto del colloquio è senz’altro uno di quelli in cui questa abilità si fa apprezzare di più. È im-probabile, infatti, che un colloquio risulti efficace se non si è in grado di ascoltare attentamente le persone che si hanno di fronte.

«Saper ascoltare» significa anche saper riconoscere i vissuti emotivi in gioco. Se una persona prova una rabbia intensa, ad

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esempio, è improbabile che riesca a fare grandi progressi, sino a che non avrà riconosciuto, o comunque affrontato, la propria emozione negativa. Altrettanto importante, per un buon anda-mento del colloquio, è la capacità di decifrare la comunicazione non verbale, ossia di saper interpretare quello che ci dice l’altra persona con il linguaggio corporeo.

L’assertività

Se vogliamo che il colloquio sia orientato a un obiettivo preciso, e che non lo perda di vista, non possiamo fare a meno di essere, in una certa misura, «direttivi». Questo non significa che dobbiamo impartire degli ordini ai nostri interlocutori. Vuol dire però che dobbiamo sempre mantenere un certo margine di controllo rispetto all’andamento del colloquio.

Dobbiamo essere, in altre parole, assertivi, per usare un’e-spressione ampiamente trattata nel capitolo quinto. Dobbiamo riuscire a realizzare una situazione in cui non c’è nessuno che perde, perché tutti hanno qualcosa da guadagnare. Si tratta di as-sumere un atteggiamento che non sia né arrogante nei confronti degli utenti, né remissivo, al punto da perdere di vista i motivi del colloquio, o gli obiettivi che perseguiamo per suo tramite.

Saper «condurre», pertanto, è un’abilità sottile. Occorre tenere sempre le redini del colloquio, senza risultare intrusivi, né prepotenti. Dobbiamo saper rispondere ai desideri, alle esigenze e ai sentimenti delle persone; senza dimenticare, però, che quel colloquio si inserisce in genere in un processo più ampio, di cui deve rispettare le finalità.

La partnership

Per riuscire a lavorare efficacemente con le persone, dob-biamo costruire un rapporto di partnership con loro. Un cam-

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biamento imposto in modo unilaterale, infatti, ha ben poche probabilità di durare a lungo, rispetto a un cambiamento con-diviso, e anzi «fatto proprio», dai diretti interessati. L’approccio cooperativo, in altre parole, è il più efficace, anche se dipende dalla nostra capacità di conquistarci la fiducia della gente e di continuare a meritarcela.

Lavorare in questo modo richiede delle abilità che non vanno sottovalutate. Benché si tratti di abilità che si svilup-pano più che altro con l’esperienza, si possono fornire alcune indicazioni di tipo operativo:

– Non bisogna mai «monopolizzare» la conversazione, che dovrebbe essere sempre un processo bilaterale.

– Occorre evitare di far dire agli altri delle cose che non han-no detto. Nel dubbio, è meglio fare loro una domanda, per sincerarsi di aver capito bene.

– Bisogna aiutare le persone a sentirsi sempre a proprio agio, in modo che siano nelle condizioni di parlare liberamente di sé.

– Dovremmo chiarire fin dall’inizio che ci teniamo molto a cooperare con la persona che abbiamo davanti e che il collo-quio non sarà mai «a senso unico».

Quello di partnership è un concetto molto importante, e sarà al centro di alcune osservazioni che svolgeremo nella terza parte del libro.

L’empowerment

C’è anche un altro concetto — già toccato nei capitoli precedenti — di cui chi è impegnato a tu per tu in un collo-quio con un’altra persona dovrebbe sempre tenere conto. È il concetto di empowerment, ovvero quella serie di modalità che mettono le persone nelle condizioni di recuperare un certo controllo della propria vita. Attraverso l’empowerment pos-

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siamo diventare meglio «equipaggiati» per affrontare i nostri problemi e realizzare gli obiettivi che ci stanno a cuore. Anche i colloqui, se ben condotti, possono contribuire a questo pro-cesso, rispetto al quale peraltro un colloquio mal gestito può provocare danni considerevoli. Nel bene e nel male, la capacità di conduzione del colloquio da parte nostra può influire non poco sull’empowerment di chi ci sta di fronte.

Al fine di promuovere l’empowerment, è importante cercare sempre di:

– non pregiudicare, e anzi — laddove possibile — rafforzare l’autostima degli utenti;

– individuare i fattori che ne ostacolano i progressi, e intra-prendere azioni dirette a superarli;

– riconoscere l’esistenza di forme di discriminazione e di oppressione, che rientrano nell’esperienza di vita di tutti noi, specie nel campo delle dinamiche interpersonali (vedi i capitoli undicesimo e ventunesimo).

I colloqui orientati all’empowerment, dunque, sono quelli che contribuiscono a valorizzare le risorse degli utenti e a su-perarne le debolezze; o, meglio ancora, a trasformare queste ultime in nuove risorse.

Uno sgUardo alla pratica 15.1

Nell’ambito del suo corso di formazione, Gianna partecipò a un gioco di ruolo, in cui doveva vestire i panni di un’operatrice che teneva un colloquio con un ipotetico utente. Il risultato non fu positivo. I supervisori le spiegarono che trovavano il suo stile di conduzione del colloquio arrogante, quasi privo di sensibilità; uno stile, insomma, che non avrebbe certo contribuito all’empo-werment dell’utente. Da parte sua, Gianna aveva sempre ritenuto di avere uno stile autorevole, da persona sicura di sé. Riguardando il filmato del colloquio, però, si rese conto che aveva quasi «monopolizzato» la conversazione, senza permettere all’altra persona di contribuire attivamente al suo svolgimento.

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L’uso della propria soggettività

I colloqui non si riducono mai al semplice esercizio di una tecnica. Al contrario, sono sensibilmente condizionati dalla personalità, dall’esperienza, dalle competenze di chi li conduce. Dipendono molto, cioè, da quanto — e da come — l’operatore investe della propria dimensione soggettiva. Potremmo scegliere, tra le altre cose, di fare degli esempi che nascono dalla nostra esperienza personale, per aiutare gli altri a comprendere una particolare situazione, o per indicare loro degli scenari alter-nativi. Questa operazione, però, presta sempre il fianco a due rischi che andrebbero assolutamente evitati:1. Il tentativo di imporre le proprie idee, o i propri valori, alla

situazione vissuta dall’altra persona, senza tenere conto delle differenze tra le rispettive esperienze di vita;

2. Il tentativo di ridimensionare i problemi degli altri, una volta messi a confronto con i nostri. Così facendo, rischiamo di trasmettere il messaggio che non prendiamo quella situazione sul serio, o che la banalizziamo.

Ciascuno di noi ha degli aspetti della propria personalità, o della propria esperienza di vita, che possono tornare utili agli altri. Riconoscere questo dato di fatto può servire a darci la fiducia in noi stessi che è indispensabile per fare buon uso di questi aspetti.

Sopportare i momenti di silenzio

Certi colloqui, specie quando affrontano questioni di grande rilevanza emotiva, possono anche richiedere dei mo-menti prolungati di silenzio. È quello che avviene, ad esempio, quando il nostro interlocutore è troppo sconvolto per parlare, o ha bisogno di una pausa di riflessione. Capita spesso, in questi momenti, che ci sentiamo profondamente a disagio. Sentiamo, magari, che spetta a noi riempire il prima possibile quel «vuoto»

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improvviso; che è compito nostro dire qualcosa — al limite qualsiasi cosa — per interrompere quel fastidioso silenzio. Nonostante la tensione che proviamo, però, è fondamentale che sappiamo resistere alla tentazione di «riempire il silenzio». Dovremmo imparare a sopportare anche i momenti di silenzio, per più di una buona ragione: – come segno di rispetto per la persona, e di sensibilità nei confronti dei suoi vissuti emotivi;

– perché, in caso contrario, rischiamo di compromettere la relazione di fiducia con il nostro interlocutore, che tenderà ad allontanarsi da noi;

– perché, infine, la capacità di sopportare i momenti di silenzio è percepita dalla persona come un segnale di sostegno nei suoi confronti.

Per quanto sia difficile da tradurre in realtà, la capacità di reggere i momenti di silenzio e di usarli a beneficio di chi ab-biamo di fronte è una competenza preziosa, che vale senz’altro la pena sviluppare.

Mantenere i confini

Le interazioni interpersonali possono avvenire su vari livelli e in «sfere di vita» diverse. Ci sono sempre, a seconda delle circostanze, delle regole sociali che definiscono i compor-tamenti più appropriati a ogni situazione. Esiste però il rischio che il colloquio, se non viene condotto con attenzione, possa trasgredire queste regole. È una «trasgressione» che può assumere tante forme diverse, tra le quali: – La violazione della riservatezza, che rappresenta — come si è visto nel capitolo precedente — una questione di grande importanza. È necessario riconoscere, però, i «confini» entro i quali essa può essere effettivamente rispettata.

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– Un aspetto importante del lavoro con le persone è dato dalla qualità dei rapporti con i nostri interlocutori. Un «buon rap-porto», però, è cosa diversa dall’amicizia, la quale può anche pregiudicare, a volte, il buon esito di un intervento professio-nale. È importante, quindi, non perdere di vista la distinzione tra semplici rapporti interpersonali e rapporti professionali.

– Gli operatori si inscrivono, generalmente, in una rete più ampia, che comprende altre figure professionali e/o volontari. C’è sempre il rischio latente che, nell’ansia di renderci utili a tutti i costi, ci facciamo carico di mansioni che spetterebbero ad altri. Il che può avere effetti negativi, sotto quattro punti di vista:1. È probabile che l’operatore a cui «togliamo il lavoro» sia

più esperto di noi nello specifico compito di cui si occupa.2. Queste «invasioni di campo» possono generare risentimenti

e ostacolare lo sviluppo delle partnership.3. Dedicare del tempo al lavoro altrui sottrae del tempo, ine-

vitabilmente, alle attività di nostra specifica competenza.4. Se svolgiamo mansioni che non siamo ufficialmente tenuti

a svolgere, non è detto che il nostro datore di lavoro o la nostra assicurazione ci possano coprire nel caso in cui qualcosa andasse storto.

La struttura del colloquio

Così come per le forme di comunicazione scritta, anche per i colloqui è bene disporre di una struttura definita. Si tratta di seguire, in linea di massima, lo stesso modello tripartito che è stato presentato a proposito delle relazioni scritte (si veda il capitolo quattordicesimo):1. La tappa introduttiva. È questa la fase iniziale del colloquio,

che spesso comprende alcune espressioni di cortesia, con l’obiettivo di aiutare le persone a rilassarsi e a calarsi nel

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proprio ruolo. È anche importante, in questa fase, esplicitare le finalità e l’oggetto specifico del colloquio. Se questi aspetti non vengono chiariti fin dall’inizio, si rischia che l’intero svolgimento del colloquio ne risulti condizionato e che si crei un clima di diffidenza tra le parti coinvolte.

2. La parte centrale. La fase intermedia è quella in cui si deve svolgere gran parte del colloquio. Nel corso di questa fase si scambiano le informazioni rilevanti e si sviluppa l’attività di problem solving. È questo lo snodo in cui si assumono decisioni, si prendono accordi, si affrontano i conflitti e si realizzano — o si interrompono — eventuali progressi.

3. La conclusione. Trarre le fila di un colloquio, quando ormai ci si avvicina alla conclusione, è un compito che richiede competenze elevate: si tratta di fare sintesi dei contenuti trattati, di stabilire che cosa potrebbe accadere nel futuro immediato (ad esempio la data e l’orario di un nuovo collo-quio), di verificare che la persona abbia compreso bene gli accordi presi, e via discorrendo. In questa fase può anche essere utile qualche frase con tono informale, da chiacchie-rata, per chiudere l’interazione.

Organizzare i colloqui in questo modo ci aiuta a non perdere di vista gli obiettivi perseguiti e contribuisce a dare professionalità al nostro operato. È importante, però, non confondere l’idea di «struttura» con quella di «rigidità». I due concetti, infatti, non coincidono. Occorre sempre un certo grado di flessibilità. Su come costruire un buon equilibrio, via via, tra struttura e flessibilità, si ritornerà nel corso del capitolo ventiduesimo.

Riassunti e feedback

Come ho già ricordato, saper fare un buon riassunto è un aspetto importante nella conclusione di un colloquio. Questa

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stessa capacità, però, può rivelarsi utile anche nelle fasi prece-denti. Saper riassumere alla persona con cui si parla gli aspetti essenziali di quello che si è detto può risultare utile per molti motivi: – per confermare all’altra persona che la stiamo ascoltando; – per far emergere le eventuali incomprensioni, o i frainten-dimenti che potrebbero essersi realizzati precedentemente;

– per chiarire meglio i punti d’accordo e di disaccordo; – per riepilogare l’andamento del colloquio nel suo insieme, evidenziando i vari fili tematici che si sono intrecciati in esso;

– per lasciare all’altra persona un po’ di tempo e di spazio per riflettere, o per rielaborare quanto le è stato detto;

– per incoraggiare la collaborazione, esplicitando un punto di vista condiviso dall’altra persona;

– per contribuire a fare sì che il colloquio non «esca dal semi-nato», sino ad andare completamente fuori tema.

Gli errori da evitare

Se è importante acquisire le abilità appena descritte, per gestire bene un colloquio, occorre anche evitare tutta una serie di errori. La stessa capacità di aggirarli rappresenta, di per sé, qualcosa di prezioso da imparare. È assai utile, quindi, com-prendere bene quali siano i rischi che si possono correre più di frequente. A tale scopo, ci accingiamo a descrivere alcuni dei classici «tranelli» in cui si può incorrere nella conduzione di un colloquio (vedi anche la figura 15.1).

Le dinamiche collusive

Berne (1968) ha descritto tutta una serie di «giochi» che si possono innescare nelle relazioni interpersonali. Tali dina-

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miche possono impedire uno svolgimento sereno e costruttivo del colloquio. In altri termini, possono ostacolare il normale svolgimento dei processi di comunicazione.

Non di rado, queste dinamiche fanno leva su un elemento «collusivo». È quello che avviene, ad esempio, quando si crea un tacito accordo tra le parti, del tipo: «Io non ho intenzione di provocarti, se tu non mi provochi». Accordi di questo genere, quasi mai esplicitati ma per nulla infrequenti, si traducono in una complessa «ragnatela» di sottili accorgimenti, basati sulla complicità di entrambi gli interlocutori. Quando questo avviene, le possibilità di realizzare un buon colloquio — in termini di collaborazione e di empowerment — si riducono notevolmente.

Fig. 15.1 Gli errori da evitare.

Dinamichecollusive

ERRORIDA EVITARE

Gergo specialistico

False rassicurazioni

Incapacità di cogliere le

implicazioni della struttura sociale

Chiacchiere a vuoto

Promesse

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L’incapacità di cogliere i risvolti della struttura sociale

Con questa espressione ci riferiamo alla tendenza a non notare, o a evitare deliberatamente, tutte le questioni legate allo «status quo» della struttura sociale. Si parla ad esempio, nel mondo anglosassone, di colour blindness — cioè di «cecità al colore» (della pelle) — per indicare l’incapacità di tenere conto delle differenze culturali e degli effetti del razzismo. Si parla altresì di gender blindness, o di «cecità di genere», quando si vuole alludere a una visione del mondo unilaterale, che pone gli uomini e il genere maschile come «unità di riferimento» della normalità, senza rivolgere attenzione ai problemi, o ai punti di vista, delle donne.

Quanti lavorano con le persone dovrebbero sempre fare attenzione a tutti i fattori strutturali che possono alimentare processi di discriminazione e di oppressione: appartenenza etnica, genere, età, disabilità, e così via. Anche in sede di collo-quio, se non si tiene adeguatamente conto di questo, si rischia di perpetuare le forme di disuguaglianza preesistenti.

Il gergo specialistico

Si è già detto più volte dell’esigenza di esprimersi sempre in modo chiaro. Un aspetto che va ancora messo in risalto, però, è rappresentato dai problemi che possono derivare dall’impiego di espressioni gergali nel corso di un colloquio. Le espressioni gergali possono senz’altro essere utili per indicare distinzioni e sfumature di tipo tecnico, che sarebbero difficili da formulare con il linguaggio colloquiale. Usate in modo inappropriato, però, tali espressioni possono ostacolare non poco la comuni-cazione tra le parti.

Occorre inoltre riconoscere che non sempre, quando fac-ciamo uso di espressioni gergali, ce ne rendiamo conto. Bastano una parola che a noi sembra semplice, o una sigla non spiegata,

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per generare confusione e diffidenza nei nostri interlocutori, se non facciamo attenzione alla differenza tra il linguaggio specialistico e quello della vita di tutti i giorni.

Le promesse

È facile cadere nella tentazione di fare delle promesse, nel corso di un colloquio. È una tentazione, però, a cui occorre assolutamente resistere. Raramente, infatti, si può avere la cer-tezza di mantenerle; d’altro canto, una promessa insoddisfatta può mettere gravemente a rischio la fiducia nei confronti di chi l’aveva fatta.

Anche le promesse più semplici non sempre possono essere mantenute, sia pure per i motivi più banali, come, ad esempio, una malattia o cause di forza maggiore. Oltretutto, molti si trovano a lavorare in un contesto di aspettative sempre più elevate e difficili da soddisfare; è senz’altro possibile che certe promesse, per quanto formulate in buona fede, debba-no poi cedere il passo a priorità di altra natura. La massima «non fare delle promesse che non potrai mantenere» è sempre d’attualità; e nel campo dell’insegnamento, del lavoro sociale, dell’assistenza sanitaria, le promesse che possiamo avere la cer-tezza di mantenere sono davvero assai poche. Di qui l’esigenza di usare grande cautela.

Le false rassicurazioni

Questo aspetto è una diretta conseguenza di quello che abbiamo appena trattato. È pericoloso dare alle persone del-le false rassicurazioni, se non vogliamo correre il rischio di comprometterne la fiducia e il rispetto nei nostri confronti. Di fronte a una persona in difficoltà, è facile cadere nella tentazione di uscirsene con una frase del tipo: «Vedrai, tutto andrà bene». Occorre che riflettiamo, però, su quello che po-

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trebbe accadere qualora le cose non andassero tanto «bene». In un momento di crisi, è comprensibile che una persona faccia profondo affidamento sulle cose che le diciamo. È importante, quindi, evitare di darle rassicurazioni infondate. Si tratta, semmai, di rassicurarla entro i limiti di ciò che è realistico (cosa che è perfettamente possibile), evitando di raccontarle falsità.

Le chiacchiere a vuoto

Del fatto che occorre essere chiari e precisi nel definire lo scopo del colloquio abbiamo già detto più volte in queste pagine. Non andrebbe mai sottovalutato, pertanto, il rischio di scivolare da un colloquio a un insieme di chiacchiere senza capo né coda. Questo non significa che non ci sia alcuno spazio, in un buon colloquio, per convenevoli o per chiacchierate informali. Significa piuttosto che questi elementi dovrebbero rimanere marginali, rispetto ai contenuti che andranno affrontati nel corso del colloquio.

Uno sgUardo alla pratica 15.2

Barbara era una studentessa in tirocinio che, tra gli altri suoi compiti, do-veva accompagnare un assistente sociale nelle sue mansioni quotidiane. Dopo la visita a una famiglia, Barbara era confusa, poiché non capiva che senso avesse il colloquio a cui aveva appena assistito. Le sembrava che tutto si fosse ridotto a una discussione generale rispetto alla situazione della famiglia, senza nessuna precisa finalità. Facendosi coraggio, Bar-bara fece presente questa sua perplessità. La risposta che ottenne, però, fu scoraggiante: «Non mi piace essere sempre irreggimentato nelle cose che faccio; preferisco prendere le cose così come vengono». Agli occhi di Barbara, quella risposta fu un’ulteriore conferma della confusione di idee e della scarsa capacità di progettare le cose dell’operatore con cui stava facendo il tirocinio.

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Conclusione

Saper condurre bene un colloquio, per chi lavora con le persone, è un’abilità fondamentale. Si tratta di un’attività che richiede, come abbiamo visto, notevoli competenze, e che presta il fianco a molteplici difficoltà. Con la pratica — tanto più se questa è orientata da principi adeguati — è possibile sviluppare e affinare le abilità che di volta in volta si rendono necessarie. Così facendo riusciremo anzitutto a evitare gli errori più gravi. Con l’esperienza, poi, potremo anche acquisire le abilità adatte a fronteggiare particolari situazioni, o compiti specifici, come tenere colloqui con adolescenti difficili, o trasmettere all’altra persona la sicurezza necessaria per convincerla ad «aprirsi».

Condurre i colloqui è uno degli aspetti della pratica pro-fessionale che racchiude le maggiori potenzialità sulla strada di un continuo miglioramento — fino a raggiungere livelli di eccellenza — e che consente, quindi, di trarre soddisfazione dal proprio lavoro.

ESERCIZIO 15Pianificare un colloquio

Quello che ti chiedo è di preparare il piano dettagliato di un colloquio, reale (che intendi effettivamente condurre) o immaginario (che serve soltanto per fare esercizio). Puoi fare riferimento al paragrafo Prima del colloquio di questo capitolo. Usa lo spazio sottostante per prendere appunti.

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€ 21,00

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GMucchielli

Apprendereil counseling

Roger Mucchielli

Manuale di autoformazioneal colloquio di aiuto

Apprendere il counseling

La relazione di aiuto, in particolare quando assume la forma più strutturata del colloquio faccia a faccia, costituisce un essenziale strumento di lavoro (l’unico a volte) per molte professioni. Quali competenze e abilità deve esercitare un operatore per ricreare, nella situazione di colloquio, dinamiche psicologiche favorevoli all’apertura emozionale, alla fiducia, alla chiarificazione? Come può evitare di introdurre distorsioni, blocchi o regressioni? Il presente volume, testo di riferimento a livello internazionale sul counseling, illustra e presenta in dettaglio queste abilità e con-sente di esercitarle in modo diretto, tramite una serie di esercizi appositamente predisposti. Unanimemente considerato il manuale pratico più completo e approfondito per la formazione al colloquio di aiuto, offre un testo ricco di esempi di colloquio aggiornati e sempre attuali e di schede operative per esercizi individuali e di gruppo.Apprendere il counseling è un’opera destinata in modo particolare agli operatori delle professioni di aiuto (psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, educatori, counselor) e agli studenti in formazio-ne in questi specifici campi disciplinari, ma per la sua chiarezza nell’esposizione e il suo taglio operativo può costituire un valido supporto anche per molti altri professionisti (medici, insegnanti, magistrati, avvocati, sacerdoti, amministratori, operatori assisten-ziali, ecc.): una migliore abilità di comprensione e di relazione interpersonale può rappresentare un essenziale arricchimento del loro modo di essere e di operare.

Manuale di autoformazioneal colloquio di aiuto

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Primo esercizio

Ricerca delle cause di fallimentoo di insoddisfazione di un colloquio

A. Rievoca qui sotto le circostanze nelle quali tu, personalmente, hai chiesto un colloquio a qualcuno per poterti spiegare a proposito di qualcosa (un fatto personale o professionale, i risultati scolastici di un figlio, una richiesta di consulenza d’orienta-mento, una consulenza giuridica, un colloquio preliminare per concludere un accordo, ecc.) e in cui, avendo ottenuto il colloquio, te ne sei ripartito con la sensazione di non essere riuscito a farti comprendere, a farti «intendere». Annota tutti i casi di questo tipo di cui ti ricordi e descrivi in poche parole come è avvenuto.

Spazio per annotazioni

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114 Apprendere il counseling

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B. Riprendendo adesso questi casi uno alla volta, cerca i motivi del fallimento del colloquio.

Spazio per annotazioni

C. Prendendo in esame l’esperienza derivata dalla partecipazione a colloqui in cui hai sostenuto il ruolo di intervistato:

– Sistema in ordine di importanza reale (quindi di maggior frequenza) le 20 cause di fallimento di un colloquio enumerate alla pagina seguente (dove compaiono in ordine alfabetico).

– Spiega quello che avviene, a tuo avviso, in ciascun caso tra i due partner (psicologia della loro relazione interpersonale).

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Primo esercizio 115

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Dapprima leggi tutta la lista, poi utilizza, per rispondere, la tabella delle pagine seguenti. 1. Antipatia (sia immediata, sia provata successivamente nel corso del colloquio)

nei confronti di colui o di colei che ti riceve.

2. A priori, preconcetti o pregiudizi, da parte tua, nei confronti dell’altro e «delle persone di quel tipo».

3. Arredamento generale e mobilio insolito, scomodo, che non favorisce il rilassa-mento.

4. Aspetto fisico scioccante, che impressiona negativamente.

5. Differenza d’età imbarazzante (in qualsiasi senso).

6. Difficoltà da parte dell’intervistato a «situare» esattamente il ruolo, le responsabilità o il potere di colui che lo riceve.

7. Diversità di sesso imbarazzante.

8. Idee preconcette (derivate anche da esperienze precedenti) sul colloquio come «avrebbe dovuto» svolgersi e sconcerto davanti alla realtà.

9. Impressione sgradevole di un preconcetto o di un pregiudizio dell’interlocutore verso di te e «le persone come te».

10. Interruzione e disturbo provenienti dall’esterno.

11. L’interlocutore è distratto, non ascolta.

12. L’interlocutore sostiene di non essere competente, ti indirizza a un altro oppure resta nel vago, rimanda a più tardi, desiste pur mostrandosi cortese.

13. L’interlocutore ti fa dire ciò che non hai detto e questo si ripete nel corso del colloquio.

14. L’interlocutore ti interrompe, non ti lascia spiegare completamente il tuo punto di vista o si mette a parlare d’altro, racconta cose personali o fa delle digressioni.

15. L’interlocutore ti muove dei rimproveri, ti biasima, ti giudica, contesta ciò che hai appena incominciato a dire.

16. Locale rumoroso, angusto, o al contrario molto grande, che mette a disagio per la sua disposizione e l’impressione che dà.

17. Mancanza di tempo. L’interlocutore ha fretta; lo dice o ce ne si accorge.

18. Momento mal scelto, sia per te che per l’interlocutore.

19. Posizione spaziale rispettiva molto fastidiosa (scrivania che separa, poltrone morbide in cui ti senti come sprofondato, interlocutore poco visibile, ecc.).

20. Status sociale elevato dell’interlocutore (o grande differenza di status sociale tra i due partner, a vantaggio di colui che ti riceve), il che non ti mette a tuo agio o disturba l’esposizione del tuo punto di vista personale.

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116 Apprendere il counseling

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Ordine di importanza secondo te

Numero d’ordine della listaprecedente o richiamo della

«causa di disturbo»

Descrizionedegli effetti psicologici

sul colloquio

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Primo esercizio 117

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Ordine di importanza secondo te

Numero d’ordine della listaprecedente o richiamo della

«causa di disturbo»

Descrizionedegli effetti psicologici

sul colloquio

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Terzo esercizio

Dieci frammenti di colloquio:test degli atteggiamenti spontanei

Troverai qui di seguito dieci frammenti di colloquio. A ciascun frammento corri-spondono, nelle pagine che seguono, sei risposte differenti. Leggi attentamente ciò che dice il soggetto del primo frammento, immaginando il personaggio e la situazione descritta come se fosse la tua.

Supponiamo poi che questa persona sia da te conosciuta a un livello sufficiente perché essa possa dire ciò che dice come lo dice, e che tu debba risponderle. Leggi allora tutte e sei le risposte proposte per ciascun frammento considerato. Lasciandoti portare dalla tua spontaneità (vale a dire senza cercare di capire se la risposta è ogget-tivamente buona oppure no), cerchia il numero della risposta che più si avvicina (o è meno distante) a quella che tu avresti dato a questa persona nelle stesse circostanze.

In seguito fai lo stesso per tutti gli altri frammenti.

Frammenti di colloquio

CASO 1. Donna di 37 anni (voce stanca)

Non so proprio che cosa fare. Ah! Non so proprio se devo riprendere il mio posto di centralinista… mi dà talmente ai nervi, riesco a sopportarlo a malapena… ma è un posto sicuro e con un buono stipendio; quindi, allora, o piantare lì tutto e fare solo quello che mi interessa davvero, in ogni caso un lavoro meno monotono, ma questo vorrebbe dire ricominciare daccapo con una retribuzione molto bassa… Non so se riuscirei a farlo o no…

Dopo la lettura di questo frammento, vai alla sezione «Risposte» per indicare quale risposta sceglieresti fra le sei proposte. Lo stesso vale per gli altri frammenti.

CASO 2. Uomo di 30 anni (voce strana, ingenua, rozza)

Ho proprio uno strano sentimento: quando mi capita qualcosa di bello, ecco, non sono capace di crederci, faccio come se non fosse successo, mi dà un fastidio!

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126 Apprendere il counseling

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Volevo un appuntamento con Laura, le ho girato attorno per delle settimane prima di avere abbastanza coraggio da chiederle un appuntamento… e lei ha detto di sì. Non potevo crederci. Non riuscivo talmente a crederci che non sono nemmeno andato all’appuntamento.

CASO 3. Uomo di 35 anni (voce forte, scandita, aggressiva)

Sono deciso a fare qualcosa; non ho paura di lavorare sodo, non ho paura di ricevere dei colpi pesanti a patto di avere ben chiaro in che direzione sto andando! Non ho per niente paura di passare sopra agli altri se li trovo sul mio cammino poiché voglio tutto per me! Non posso accontentarmi di un lavoro mediocre! Voglio diventare qualcuno!

CASO 4. Donna di 30 anni (voce scoraggiata)

Sono dieci anni che abito in questa città e sette anni che vivo nello stesso ap-partamento, ma non conosco nessuno. In ufficio mi sembra di non potermi fare degli amici, è come se fossi paralizzata. Mi sforzo di essere gentile con gli altri colleghi ma mi sento come contratta e a disagio; allora mi dico che non me ne importa niente. Non si può fare affidamento sulle persone. Ognuno pensa per sé. Non voglio amici e qualche volta finisco per esserne veramente convinta.

CASO 5. Ex militare di 30 anni (furore e amarezza contemporaneamente)

A che serve! Nessuno è corretto con me. Quelli che sono rimasti a casa hanno avuto le cose migliori, hanno approfittato di noi mentre eravamo in missione a rischiare la pelle. Vadano al diavolo tutti quanti! Fanno il doppio gioco. Quanto a mia moglie… [silenzio] ah sì!…

CASO 6. Uomo di 35 anni (voce chiara e decisa)

Io so che potrei farcela in questa faccenda; tutto ciò che occorre è una visione complessiva del problema, un po’ di buon senso e il coraggio di tentare. Io queste cose ce le ho tutte. Se riuscissi anche ad avere un aiuto per il denaro non esiterei un attimo a lanciarmi.

CASO 7. Uomo di 46 anni (voce amara e tesa)

Ecco, è uno che è appena arrivato in azienda ma è uno furbo, ha sempre la risposta pronta, crede di essere un genio. Ma Buon Dio!… non sa con chi ha a che fare! Sarei capace di fare meglio di lui se volessi!

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Terzo esercizio 127

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CASO 8. Donna di 28 anni (voce tesa, arrabbiata, contenuta)

Quando la guardo! … Non è carina quanto me, è anche meno intelligente, non ha stile e io mi chiedo come farà a incantare così tante persone. Come fanno a non accorgersene con tutte quelle smancerie? Riesce sempre a fare qualunque cosa e tutti rimangono ammirati per come c’è riuscita. Non la posso soffrire! Mi fa impazzire! Riesce ad avere tutto ciò che vuole! Ha avuto il mio posto, ha avuto Stefano, me l’ha letteralmente rubato e poi ha osato negare! Quando l’ho messa davanti all’evidenza, quando le ho detto ciò che pensavo ha risposto: «Mi dispiace!». Ma… Bene! Gliela farò vedere io!

CASO 9. Dialogo tra il medico del lavoro e Martino, impiegato neoassunto

– Allora, Martino, come va con i colleghi d’ufficio?– Ah, che vadano al diavolo! Io ho cercato di fare del mio meglio, ma quando il

direttore e il suo vice si sono arrabbiati con me perché avevo fatto un errore nel compilare una fattura complicata questo mi ha… cerco di fare meglio che posso… cerco veramente di fare meglio che posso, ma quando arrivano a dirmi che non è abbastanza… questo mi dimostra sempre più chiaramente che sono un buono a nulla.

CASO 10. Frammento di dialogo tra uno studente e il responsabile del suo piano di studio

– Avanti! Cosa posso fare per te?– Professore, vorrei che mi aiutasse per quanto riguarda il programma del prossimo

trimestre invernale. Ho chiesto a diverse persone un consiglio su quello che devo scegliere, ma mi dicono tutti una cosa diversa dall’altra ed è difficile per me decidere che cosa fare. Lei ritiene… Sono soltanto al primo anno e non so proprio che cosa sia meglio…

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128 Apprendere il counseling

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rIsposte

Caso 1 Scelta

1. Puoi dirmi prima di tutto che cos’è che ti interessa attualmente? È importante che ci riflettiamo sopra.

2. Attenzione, prima di lanciarti in qualcosa di nuovo, dovresti essere sicura che questo sia effettivamente più vantaggioso e che non rischi di lasciare il certo per l’incerto.

3. Beh, via, non c’è da disperarsi! Si tratta di sapere a quale altra mansione potresti essere assegnata. Posso farti avere un colloquio con il capo del personale.

4. Il tuo imbarazzo ha una doppia spiegazione: da un lato sei titu-bante nell’abbandonare il posto che occupi attualmente; dall’altro, soprattutto, non sai quale altro impiego ti convenga.

5. Ti trovi in una situazione di conflitto: o correre i rischi legati all’inizio di un lavoro completamente nuovo oppure scegliere la sicurezza di un posto di lavoro che però non ti piace.

6. Ti stai preoccupando troppo: non è certo logorando i tuoi nervi che risolverai le tue difficoltà. Non bisogna ridursi in questo stato. Tutto finirà per sistemarsi.

Caso 2 Scelta

1. Bisogna maturare, ragazzo mio, ed essere un po’ più realisti per quanto riguarda le donne. Sono esseri umani anche loro; desiderano degli incontri tanto quanto te.

2. Così ti sembra sempre irreale quando ti capita qualcosa di bello.3. Ti sei talmente convinto che non ti possa succedere niente di

bello, che quando avviene ti sembra impossibile che possa essere vero.

4. Mi chiedo se questa sensazione di irrealtà non possa essere collegata a un momento particolare della tua esistenza. Potresti spiegarmi un po’ meglio cosa volevi dire con «quando mi capita qualcosa di bello»?

5. Ma ti sembra il caso di prendersela tanto? Tutti noi abbiamo superato sensazioni o desideri strani. Sono convinto che riuscirai a superare questa situazione.

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Terzo esercizio 129

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Caso 3 Scelta

1. Insomma, ti comporti da ambizioso perché devi provare a te stesso il tuo valore.

2. Tu credi che occorra comunque essere il primo, indipendentemente dagli sforzi e dai mezzi che si devono impiegare per riuscirci?

3. Cos’è, secondo te, che ti spinge con così grande decisione a cercare di diventare qualcuno?

4. Ti interesserebbe sottoporti a qualche test per determinare in quale settore potresti avere miglior successo? Potrebbe essere molto vantaggioso per te, anche se è senz’altro possibile che con la tua determinazione tu possa farcela in molte situazioni.

5. Una grande ambizione può essere veramente una situazione di vantaggio per qualcuno. Tuttavia, sei certo di pensare veramente quel che dici, cioè che non ti importerebbe nulla di passare sopra chiunque ti ostruisca il cammino? Non pensi che questo potrebbe rivelarsi più negativo che positivo per te?

6 Le tue opinioni sono senza dubbio decise, ma devi calmarti, pensarci sopra e vedrai che riuscirai a trovare il tuo sangue freddo senza perdere l’entusiasmo.

Caso 4 Scelta

1. Sei troppo pessimista. Non può mica andare sempre così. Vedrai che per forza di cose prima o poi qualcuno si avvicinerà a te.

2. Conosco altre persone nella tua situazione. Però loro sono riu-scite a costruirsi delle relazioni piacevoli frequentando qualche associazione. L’importante è non convincersi che si deve restare soli per forza.

Caso 2 Scelta

6. Penso che questa esperienza ti possa servire di insegnamento. La prossima volta, dovrai sforzarti di accettare la buona sorte.

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130 Apprendere il counseling

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Caso 4 Scelta

3. Forse, se mi racconti qualcosa di più sul modo con cui cerchi di farti degli amici, potremmo avere un’idea più chiara di quello che non va.

4. Questa situazione dura da così tanto tempo che hai finito per convincerti che non ci sono alternative. È questo che volevi dire?

5. Forse non vuoi farti degli amici unicamente per proteggerti da qualcos’altro.

6. È spiacevole non avere amici ed è veramente il caso di affron-tare le situazione. C’è un certo numero di cose che potresti fare per imparare a farti degli amici, e più presto comincerai, meglio sarà.

Caso 5 Scelta

1. Avevi cominciato a dirmi qualcosa a proposito di tua moglie…2. La sensazione di essere sfruttati fa diventare sospettosi…3. Non ti senti rispettato e questo ti fa arrabbiare perché ritieni di

aver diritto a dei riguardi più di altri.4. Capisco le tue sensazioni attuali, ma questo ti impedisce di andare

avanti se non cerchi di superarle.5. Non sei l’unico a essere arrabbiato. E con validi motivi, anche.

Tuttavia con il tempo riuscirai a dimenticare e a rimetterti in corsa.

6. Sei attirato dall’idea di vendicarti, ma ciò complica sempre le cose, o no?

Caso 6 Scelta

1. Forse desideri l’indirizzo di un consulente finanziario; in questi casi occorrono sempre delle informazioni prima di accedere a dei prestiti.

2. Perfetto. Bisogna essere sicuri di sé se si vuole ottenere qualco-sa. Cominciare esitando può veramente rovinare tutto. Sei sulla buona strada e ti auguro di farcela.

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Terzo esercizio 131

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Caso 6 Scelta

3. Se tu potessi avere i fondi per iniziare, saresti certo di ricavarne un guadagno.

4. Ti senti sicuro di poter riuscire poiché ti rendi effettivamente conto di quello che serve perché l’affare vada a buon fine. Quando si vedono le cose così chiaramente, la sicurezza viene da sé.

5. Hai già analizzato i rischi che dovrai correre?6. Ti poni molti problemi per ciò che riguarda il denaro, il modo di

procurartelo e l’arte di servirtene.

Caso 7 Scelta

1. Tu pensi di dover essere il primo. È veramente importante per te restare sempre il migliore.

2. Assumendo fin dall’inizio un simile atteggiamento nei confronti di questo nuovo venuto, le cose si possono complicare.

3. Ciò richiederà, senza dubbio, di agire con molto metodo e rifles-sione, cosa che tu puoi benissimo fare.

4. Questo nuovo venuto che sembra così arrogante ti fa venir voglia di superarlo!

5. Via! Bisogna saper stare al gioco! Pensi davvero che sia così importante riuscire a superarlo?

6. Ti sei informato accuratamente sui precedenti e sulle funzioni attuali di questo tuo collega in azienda? Che cosa sai a questo proposito?

Caso 8 Scelta

1. Questa tipa assomiglia a qualche altra ragazza con cui hai avuto a che fare?

2. Pensi che lei riesca ad avere ciò che, in realtà, dovrebbe spettare a te.

3. Si direbbe che tu abbia assunto un atteggiamento un po’ violento nei suoi confronti. Tutti abbiamo dei pregiudizi nei confronti di qualcuno, tuttavia è molto raro che ne ricaviamo qualcosa di positivo.

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132 Apprendere il counseling

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Caso 9 Scelta

1. Via, Martino, cerca di fare il punto! È proprio così grave questa faccenda? Basta non drammatizzare!

2. In altri termini, appena ricevi una critica, hai la tendenza a mostrarti colpevole?

3. Avevi fatto del tuo meglio, ma ti hanno fatto rilevare che avevi commesso uno sbaglio, così di colpo ti sei messo a pensare di non valere nulla.

4. Dai, amico, se ti lasci smontare da una cosa simile, allora sì che dimostrerai di essere un buono a nulla!

5. Dimmi, Martino, è solamente a causa di questo episodio che hai iniziato a dubitare di te stesso?

6. A questo punto devi prendere in considerazione tutto ciò che sei riuscito a fare cercando di non farti confondere dalle tue imperfezioni. Fai un bilancio dei tuoi successi.

Caso 10 Scelta

1. Se ho ben compreso, ritieni di non essere in grado di decidere autonomamente.

2. Se ho ben capito, desideri parlare di quali insegnamenti opzionali metterai nel tuo piano di studi.

3. Andiamo! Se tu pensassi con la tua testa, per decidere cosa devi fare e vuoi fare, invece che stare ad ascoltare ciò che dicono gli altri, forse ne avresti un maggior vantaggio!

Caso 8 Scelta

4. È un tipico caso di gelosia provocato dalla presenza di una per-sona che è forse un po’ più capace o più accorta di noi.

5. Perché non provi a osservarla e a batterla sul suo terreno? Se è tutto un bluff, dovresti riuscire ad averla te l’ultima parola.

6. Alla tua età si è naturalmente molto sensibili a ogni delusione, ma si ha il vantaggio di essere più ragionevoli e di avere maggiore esperienza della vita.

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Terzo esercizio 133

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Caso 10 Scelta

4. Ecco, io mi chiedo se la soluzione dei tuoi problemi non dipenda maggiormente dall’avere più fiducia in te stesso piuttosto che nel fare una determinata scelta nell’ambito dei corsi.

5. Certo, adesso ci pensiamo. Talvolta è abbastanza difficile trovare la propria collocazione nella struttura universitaria.

6. Hai già fatto il calcolo delle ore richieste per frequentare i corsi da seguire e quello del tempo che hai a disposizione?

Caso 1

Caso 2

Caso 3

Caso 4

Caso 5

Caso 6

Caso 7

Caso 8

Caso 9

Caso 10

A 2 1 5 6 6 2 5 3 4 3

B 4 2 1 5 2 6 1 4 2 2

C 6 5 6 1 5 4 3 6 1 5

D 1 4 3 3 1 5 6 1 5 6

E 3 6 4 2 4 1 2 5 6 4

F 5 3 2 4 3 3 4 2 3 1

Registrazione delle risposte

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134 Apprendere il counseling

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Utilizzazione dell’esercizio a livello individuale

Comincia con il riportare il numero della risposta scelta per ogni frammento nella tabella della pagina precedente, ad esempio colorando in rosso (o tratteggiando) la casella che, per ognuno dei dieci casi, contiene il numero della tua risposta spontanea, senza preoccuparti delle lettere che si trovano nella prima colonna a sinistra.

Dovresti poter evidenziare alcune cose:

– innanzitutto una certa riga dominante, quella che, in orizzontale, contiene il maggior numero di caselle colorate o tratteggiate (5 o più);

– in seguito, una sottodominante, vale a dire la riga che, dopo la dominante, contiene il maggior numero di caselle colorate o tratteggiate (3 o 4) (si può avere più di una sottodominante);

– infine, delle caselle isolate, vale a dire soltanto una o due risposte per riga.

Puoi valutare autonomamente l’importanza della tua tendenza dominante e sottodominante osservando il numero di caselle colorate o tratteggiate sulle dieci di-sponibili, dato che ti è stato richiesto di rispondere a dieci frammenti. Una dominante di nove caselle su dieci, ad esempio, denota un atteggiamento rigido e sistematico, mentre un massimo di quattro caselle per riga indica solamente una tendenza. Può succedere che non vengano individuate né dominanti né sottodominanti (ossia nessuna riga contiene più di due caselle colorate o tratteggiate). Il senso di questo fenomeno viene descritto in seguito.

Significato delle dominanti

La lettera che, nella tabella, nella prima colonna a sinistra, corrisponde alla tua riga dominante, indica la tendenza abituale o cronica della tua personalità nei rapporti con gli altri in situazione di colloquio o quando si raccolgono delle confidenze. In altre parole, I’esercizio denota (o ti permette di rilevare) il tuo atteggiamento cronico così come emerge dalle tue risposte spontanee. Questo atteggiamento è uno dei sei descritti nella tabella seguente.

Ti invitiamo a riflettere sul tuo atteggiamento cronico e a ricercare in buona fede tutti i modi in cui ti esprimi con i tuoi vicini, con le tue amiche e amici, con i tuoi collaboratori.

Annota i tipi di reazione che hai frequentemente fatto scattare senza saperlo e che ora puoi far risalire al tuo atteggiamento come induttore di queste reazioni.

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Terzo esercizio 135

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Lettere di riferimento Significato (tipo di atteggiamento abituale nel rapporto duale)

AValutazione

Le tue risposte sono valutative, vale a dire che esse implicano un’opinione etica personale e comportano un giudizio (di critica o di approvazione) nei confronti degli altri. Ti atteggi a censore morale.

BInterpretazione

Le tue risposte sono delle interpretazioni di ciò che ti viene detto. Non comprendi che ciò che vuoi comprendere, cerchi ciò che sembra essenziale a te e nella tua mente cerchi una spiegazione. Infatti operi una distorsione in rapporto a ciò che l’altro voleva dire; deformi il suo pensiero.

CSostegno

Le tue risposte sono delle risposte di sostegno, che mirano ad apportare incoraggiamento, consolazione o compensazione. Sei molto conciliante e ritieni che si debba evitare che gli altri drammatizzino.

DInvestigazione

Le tue risposte sono indagatrici. Sei smanioso di sa-perne di più e orienti il colloquio verso ciò che sembra importante a te, come se accusassi l’altro di non voler dire l’essenziale o di perdere il tempo. Sei senza dub-bio sbrigativo e incalzi il cliente chiedendogli ciò che ti sembra essenziale.

ESoluzione

Le tue risposte tendono a giungere a una soluzione im-mediata del problema. Reagisci con l’azione e incitando all’azione. Vedi subito la soluzione che tu sceglieresti per te stesso in una simile situazione; non aspetti di saperne di più. Con questo sistema ti sbarazzi velocemente del cliente e delle sue lamentazioni.

FComprensione

Le tue risposte sono comprensive e riflettono il tentativo di entrare sinceramente nel problema così come esso viene vissuto dall’altro. Vuoi assicurarti di avere ben capito ciò che è stato detto. Questo atteggiamento dà fiducia all’interlocutore e fa sì che egli si esprima più compiutamente, poiché in questo modo ha la prova che ascolti senza pregiudizi.

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€ 18,50

La maggior parte di noi si trova, prima o poi, davanti ai problemi degli altri: persone che ci sono vicine nella vita privata, come amici o parenti, o persone con cui abbiamo a che fare per lavoro, come pazienti, alunni o colleghi. In una situazione di questo tipo, può succedere di sentirsi a disagio oppure inutili, perché mancano gli strumenti per affrontarla al meglio.Questo libro, scritto in modo semplice ed efficace, accompagna il lettore a conoscere le principali abilità necessarie per saper ascol-tare gli altri e aiutarli nella vita di tutti i giorni. Il volume spiega le varie fasi del colloquio di aiuto (counseling), dal momento in cui si invita l’altra persona a parlare con noi fino al momento in cui si tenta di individuare una soluzione al problema. Attraverso numerosi esempi concreti, esercitazioni e conversazioni-campione, vengono analizzate le diverse fasi dell’incontro e gli atteggiamenti da assumere per ottenere i migliori risultati. Per la sua chiarezza e il taglio pratico, questo libro risulta prezioso sia per chi desidera essere di sostegno a familiari e amici, sia per gli «addetti ai lavori», come operatori sociosanitari, educatori, assistenti sociali, insegnanti, medici e infermieri.

Kathryn e David Geldard

Lavorano insieme come counselor liberi professio-nisti e gestiscono training avanzati di counseling per professionisti. Kathryn Geldard è una psicologa specializzata dell’età infantile e della famiglia e una terapista occupazionale.Hanno pubblicato numerosi libri sul counseling, concentrandosi soprattutto sulle problematiche dei bambini e degli adolescenti.

Immaginate che qualcuno si rivolga a voi, per via di un problema che continua a preoccuparlo. Come pensate che potreste fare, per aiutarlo a sentirsi meglio? Potreste forse ripensare a un momento in cui avete avuto un problema voi, e qualcun altro vi ha aiutato a superarlo. Vi ricordate che cosa avesse fatto quella persona? Perché una persona a disagio cominci a sentirsi un po’ meglio occorre, in generale, che si svolga un determinato processo. Il passaggio chiave è che la persona interessata avverta, da parte vostra, un atteggiamento empatico, rispettoso e disinteressato. Tra voi e il vostro interlocutore si dovrebbe creare una relazione che rappresenta, a nostro giudizio, il vero elemento distintivo del processo d’aiuto. È dalla qualità di questa relazione, infatti, che dipende la reazione di quella persona nei vostri confronti: se si sentirà effettivamente valorizzata, invece che giudicata. A partire da qui, si potrà quindi sviluppare un clima positivo, fatto di reciproca accettazione. Aiutare qualcuno a stare meglio con se stesso, comunque, è un’azione processuale: non si potrà mai esaurire in un unico evento. È un processo che inizia nel momento in cui qualcuno si rende conto che ci sono altre persone (come noi) disponibili ad ascoltare i suoi problemi, o a condividere i suoi vissuti emotivi. Quel «qualcuno» avrà così un’opportunità per riconoscere, rivivere, espri-mere e sfogare le sue emozioni. Così facendo, potrà anche comprendere meglio i suoi motivi di turbamento, o di preoccupazione. A questo punto, si troverà nella posizione giusta per affrontare il «nocciolo del problema».

Kathryn Geldard e David Geldard

PARLAMI, TI ASCOLTO

Le abilità di counseling nella vita quotidiana

CollanaCAPIRE CON IL CUORE

I PsicologiaEducazioneDisabilitàCultureNarrativa

CollanaCAPIRE CON IL CUORE

I Psicologia I Educazione I Disabilità I Culture I Narrativa

Le abilità di counseling nella vita quotidiana

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Esempi pratici

Vi proponiamo alcuni esempi, tra gli infi niti possibili, delle cose che vi potrebbe dire qualcuno che sta vivendo una situazione di disagio. Per ogni esempio, potreste forse pensare alle risposte che vi paiono più appropriate:

– per rispecchiare i vissuti emotivi;– per rispecchiare i contenuti;– per rispecchiare gli uni e gli altri.

Alla fi ne del capitolo, proveremo a suggerirvi le risposte che avremmo probabilmente messo in campo noi.

L’importante, nelle risposte, è che vi sforziate di non ripetere alla lettera le parole del vostro interlocutore. Dovreste cercare, inoltre, di essere quanto più brevi possibili. Non è necessario che rispecchiate tutte le cose che vi vengono dette; basteranno quelle che ritenete più importanti.

Va da sé che le vostre risposte potranno senz’altro essere diverse da quelle che vi suggeriamo noi; ciascuno di noi è diverso da tutti gli altri, e tenderà a reagire a modo suo. È probabile, del resto, che le affermazioni del vostro interlocutore siano suscettibili di interpreta-zioni ben diverse, specie se sono espresse in forma scritta. Se si tratta di un colloquio, basta fare caso al tono di voce, in molti casi, per capire se la persona che vi parla sia triste, allegra, o magari frustrata; il che è impossibile quando le parole sono solo lette.

Esempio 1«Mia madre è una signora ormai anziana. Ieri sera mi ha

telefonato per dirmi che era scivolata per terra. Da quello che ho capito, deve essersi rotta un ginocchio, cadendo mentre faceva le scale. Magari non vivessi così lontano da lei!».

Esempio 2«Mia fi glia è davvero disobbediente, continua a comportarsi

in malo modo. È una continua fonte di tensioni, perché si mette sempre a litigare con suo fratello e con il padre».

Esempio 3«Questo contratto, per me, è fondamentale. È veramente

strano: ho mandato un fax all’azienda la settimana scorsa,

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e non mi è arrivata nessuna risposta. E sì che, fi no adesso, sembrava che ci tenessero molto anche loro a mettersi d’ac-cordo con me, sui contenuti del contratto».

Esempio 4«Mio fi glio si sposerà a Birmingham. La sua futura mo-

glie è proprio una bella persona, non vedo l’ora di andare al matrimonio».

Esempio 5«Il mio capo ha veramente delle grandi idee. Un progetto come

questo andrà bene di sicuro. Dovrebbe andare bene anche per me, visto che mi ha affi dato l’incarico di coordinare il lavoro».

Esempio 6«Il mio professore mi ha dato questa tesina da fare. È tutto

il giorno che cerco materiali e informazioni, per avere qualche idea, ma non ho trovato proprio niente».

In conclusione

Quando fate uso della riformulazione, non è il caso che vi preoccupiate troppo, se non sempre riuscite a essere precisi come vorreste. Se il vostro modo di riformulare è inaccurato, infatti, è probabile che il diretto interessato vi corregga, e così facendo riesca anche ad esplicitare meglio il suo vissuto emotivo.

Ci siamo interrogati, in questo capitolo, sui modi possibili per coinvolgersi con qualcuno e mostrargli un atteggiamento di rispetto e di autentico interesse, ascoltandolo in modo da fargli capire che quel che ci dice, per noi, è importante. Una volta che qualcuno abbia cominciato a narrare la sua storia, potreste scoprire che questa è motivo, per il diretto interessato, di confusione e di disorienta-mento. Avrete quindi bisogno di districarvi in mezzo alle cose che vi ha raccontato, così da aiutare anche lui a «vederci meglio dentro». Facendo questo, gli sarà possibile mettere a fuoco, poco alla volta, i problemi essenziali, quelli da cui dipendono tutti gli altri. Come tutto questo, in concreto, sia possibile, sarà l’argomento a cui è dedicato il prossimo capitolo.

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Di fronte agli esempi pratici: le nostre risposte

Di fronte agli esempi che vi abbiamo proposto, vi riportiamo i modi in cui, se li vivessimo in concreto, ci comporteremmo noi.

Esempio 1«Sembri preoccupato» [Riformulazione del vissuto emo-

tivo]«Sei preoccupato» [Riformulazione del vissuto emotivo]«Tua madre si è fatta male» [Riformulazione del conte-

nuto]«Sei preoccupato per via di tua madre» [Riformulazione del

vissuto emotivo e del contenuto]«Sembra che tu sia preoccupato per via di tua madre, e

vorresti abitare in un posto più vicino a dove sta lei» [Rifor-mulazione del vissuto emotivo e del contenuto]

Esempio 2«Sembri arrabbiata» [Riformulazione del vissuto emotivo]«Sei arrabbiata» [Riformulazione del vissuto emotivo]«Tua fi glia ti fa parecchio preoccupare» [Riformulazione

del contenuto]«Sei arrabbiata, perché tua fi glia ti fa preoccupare» [Rifor-

mulazione del vissuto emotivo e del contenuto]

Esempio 3«Sei perplesso» [Riformulazione del vissuto emotivo]«Sei preoccupato» [Riformulazione del vissuto emotivo]«Sembri perplesso e preoccupato» [Riformulazione del

vissuto emotivo; facendo riferimento, in questo caso, a due sensazioni distinte]

«Questa azienda ti aveva dato l’impressione di essere interessata a trattare con te, ma poi non si sono più fatti vivi» [Riformulazione del contenuto]

«Sei perplesso, e anche preoccupato, perché non hai più ricevuto nessuna risposta dall’azienda» [Riformulazione del vissuto emotivo e del contenuto]

Esempio 4«Sembri felice» [Riformulazione del vissuto emotivo]«Ho l’impressione che tu sia proprio felice» [Riformulazione

del vissuto emotivo]

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«Chissà come sarai contenta» [Riformulazione del vissuto emotivo]

«Andrai presto al matrimonio di tuo fi glio, a Birmingham» [Riformulazione del contenuto]

«Sembri proprio felice, all’idea di andare al matrimonio di tuo fi glio» [Riformulazione del contenuto e del vissuto emotivo]

Esempio 5«Sembri contento» [Riformulazione del vissuto emotivo]«Insomma, sei proprio contento» [Riformulazione del

vissuto emotivo]«Il tuo capo ti ha assegnato un ruolo di responsabilità per

un progetto importante» [Riformulazione del contenuto]«Sembri davvero contento, da quando ti hanno assegnato il

coordinamento di quel progetto» [Riformulazione del contenuto e del vissuto emotivo]

Esempio 6«Sembri proprio insoddisfatta» [Riformulazione del vissuto

emotivo]«Sembra che tu sia insoddisfatta» [Riformulazione del

vissuto emotivo]«Insomma, sei insoddisfatta» [Riformulazione del vissuto

emotivo]«Anche se hai cercato, non riesci a trovare quello che ti

servirebbe» [Riformulazione del contenuto] «Sei insoddisfatta, perché non riesci a trovare le informa-

zioni che ti servirebbero» [Riformulazione del contenuto e del vissuto emotivo]

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RIASSUNTO DEL CAPITOLO

• Per aiutare gli altri, occorre essere in grado di ascoltarli, anziché parlare in continuazione.

• Quando ci mettiamo ad ascoltare gli altri, per avviare un colloquio d’aiuto effi cace, dovremo tenere conto di tanti fattori: contatto visivo, espressione facciale, prossimità fi sica, posizione del corpo, tono della voce, pause e dovremo fare uso di feedback e risposte brevi, di tipo sia verbale, sia non verbale.

• I vissuti emotivi non sono la stessa cosa dei pensieri e possono essere espressi con parole specifi che.

• «Rispecchiare» un vissuto emotivo vuol dire far sapere all’altra persona che riusciamo a comprendere, in qualche modo, il suo stato d’animo.

• «Rispecchiare» il contenuto di una conversazione signifi ca ribadire gli aspetti più importanti di ciò che l’altra persona ci ha confi dato, in modo sintetico, e impiegando parole diverse dalle sue.

• Un appropriato utilizzo della riformulazione:

– trasmette all’altra persona un messaggio ben preciso: che la ascoltate e la comprendete;

– la aiuta a comprendere meglio, a sua volta, le proprie espe-rienze emotive;

– la incoraggia a continuare a raccontarvi le sue esperienze che ha deciso di condividere con voi.

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In certi casi, è meglio aiutare il nostro interlocutore a terminare la conversazione, una volta raccontata la sua storia, o una volta messo a fuoco il problema principale, anziché proseguire nelle fasi successive del processo. È importante ricordare che un obiettivo soddisfacente può anche essere semplicemente il fatto che l’altra persona riesca a raccontare la sua esperienza e, per questo, si senta meglio. Molte volte, tuttavia, si può essere motivati ad andare avanti, per trovare delle soluzioni per i propri problemi.

Fig. 5.1 Il processo che si crea nell’utilizzo delle abilità elementari di counseling, in una conversazione.

Dare un invito iniziale a par-lare

Dare un ulte-riore invito

Reagire in modo adeguato al declino dell’invito

Ascoltare at-tivamente la persona, e la sua storia

Aiutare la perso-na a riconoscere i vissuti emotivi, a riappropriarsene, a esprimerli verso l’esterno

Dare conferma

Porre fi ne alla conversazione

Mettere a fuoco il «noc-ciolo del problema»

Aiutare la persona a trovare delle soluzioni

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La conferma

La conferma è quel passaggio attraverso cui facciamo sapere al nostro interlocutore che abbiamo ascoltato, e compreso, ciò che ci ha raccontato di sé e della situazione che vive. Si tratta di mostrargli che riusciamo a guardare a quella situazione da un punto di vista vicinissimo al suo. È un’operazione che può essere realizzata in tanti modi diversi.

Come prima cosa, possiamo fare uso delle abilità di cui abbiamo già discusso nel capitolo precedente. Pensiamo in particolare alla capacità di ascolto attivo, grazie alla quale possiamo trasmettere a quella persona tutta la nostra attenzione e comprensione.

Dare la conferma è un po’ come dire: vedo anch’io quello che vedi tu

Mano a mano che la persona ci parla, in effetti, ci descriverà quella situazione nel modo in cui la vede lei. Se ci sforziamo di guardare le cose dal suo angolo visivo, potremo vedere anche noi il ritratto che sta dipingendo di se stessa e della sua situazione. Naturalmente, questo ritratto può non coincidere con quello che faremmo noi. I nostri punti di vista possono anche essere molto diversi. Nondimeno, se vogliamo aiutarla a sentirsi meglio, dovremo anzitutto confermare il suo ritratto, in modo che si renda conto che la comprendiamo veramente. Cercare di convincerla che il suo ritratto è «sbagliato» non servirà a nulla; ciò di cui ha bisogno, semmai, è essere ascoltata e capita per quello che è. Per aiutarla a superare il suo disagio, pertanto, dovrete convincerla che capite e rispettate il suo punto di vista. È proprio a questo che ci riferiamo, quando parliamo di «dare conferma».

Ed ecco alcuni modi, tra i tanti possibili, per sostenere il ritratto tracciato dal vostro interlocutore.

Sì, mi rendo conto che è così.Capisco quello che mi dici.Comprendo quello che ti succede.Penso di riuscire a capire come ti senti.

Vale la pena rileggere quest’ultima frase: non abbiamo detto, semplicemente: «So come ti senti». È impossibile, infatti, sapere come

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le proprie preoccupazioni, e formulare un primo «invito a parlare», secondo il modello che abbiamo descritto nel capitolo terzo. Se Katia avesse dato una risposta positiva, la conversazione poteva senz’altro proseguire. Maddalena avrebbe potuto utilizzare le abilità descritte nel capitolo quarto, per dare al collega l’opportunità di parlarle un po’ dei suoi problemi. Più precisamente, Maddalena avrebbe potuto fare una riformulazione dei suoi vissuti emotivi, con qualche frase come quelle che seguono:

Sembri proprio triste, quando parli di tua moglie che sta perdendo la vista.

Ti senti davvero sconvolto, per via di questa situazione.Sei preoccupato per tua moglie.Sei infuriato perché pensi che i dottori non siano stati

capaci di aiutarla.

A seconda di quel che aveva detto Katia in precedenza, l’una o l’altra di queste risposte avrebbe potuto aiutarlo a entrare in contatto con i suoi sentimenti. Avrebbe quindi potuto andare avanti a par-lare di sé, o — comunque — avrebbe potuto trovare un modo per esprimere meglio ciò che provava. Se ad esempio Maddalena avesse notato che era triste, e gli avesse rispecchiato questo stato emotivo, Katia avrebbe potuto anche cominciare a piangere.

La tendenza a evitare di esprimere i propri vissuti emotivi

Molti di noi, nelle relazioni sociali della vita di tutti i giorni, sono abituati a evitare di esprimere, per quanto possibile, i propri vissuti emotivi. Cerchiamo per lo più di nasconderli, e ci aspettiamo che gli altri, quando ci parlano, facciano altrettanto. Se ciò non avviene, ci sforziamo di cambiare argomento, o mandiamo loro dei messaggi che vorrebbero essere rassicuranti: non è il caso che si preoccupino, dovrebbero essere più ottimisti, e così via. Come mai ci comportia-mo in questo modo? Probabilmente perché affrontare direttamente certi nostri vissuti emotivi — e a maggior ragione quelli degli altri — può essere spiacevole, o addirittura doloroso. Il problema è inoltre che, se qualcuno di racconta delle sue emozioni negative (tristezza, delusione, frustrazione, rabbia, ecc.), è probabile che inneschi in noi il ricordo di emozioni dello stesso tipo; il che ha molte probabilità di

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calma, lasciando che si sfoghi, senza interruzioni; oppure se non sia meglio interrompere la vostra conversazione. La domanda che dovreste farvi è pressappoco la seguente: «Se continua a piangere, sarò in grado di gestire la situazione?». Se la vostra risposta è affermativa, potrete senz’altro lasciare che quella persona pianga, sfoghi tutta la sua tristezza, e poi — magari — si senta un po’ meglio di prima. In alternativa, si tratterà di riconoscere che, date le circostanze, potrete aiutarla soltanto fi no a un certo punto; oltre quel punto, dovrete pensare a voi stessi.

Nella prima ipotesi, oltre a lasciare che l’altra persona si sfoghi con le lacrime, potreste persino incoraggiarla, con qualche frase del tipo: «Non mi dà nessun fastidio se piangi»; «Non c’è nessun problema, per me: piangi pure tranquillamente» (ammesso che la cosa sia vera). Dovrete trasmettere a quella persona, cioè, un esplicito messaggio: non deve aver paura o vergognarsi di piangere, quando si trova lì insieme con voi.

Rimanere al vostro posto senza dire nulla, mentre l’altra persona scoppia in lacrime, può effettivamente contribuire a migliorare il suo stato d’animo. L’importante è che non perdiate la calma, in modo che l’altra persona percepisca in voi una presenza empatica, collaborativa, ma non intrusiva. Qualche volta, peraltro, può essere utile assumere un ruolo un po’ più incisivo, ad esempio chiedendole di descrivere con le sue parole i motivi per cui piange. Molte volte, chi comincia a piangere non riuscirà a dirvi assolutamente nulla. Dopo un po’, comunque, è possibile che si creino le condizioni per riprendere la conversazione. A quel punto, potreste fare una o più domande di questo tipo:

Mi puoi dire con che cosa hanno a che fare le tue lacrime?Mi puoi dire che messaggio trasmettono le tue lacrime?Se le tue lacrime potessero parlare, che cosa direbbero?

Con simili domande, la persona sarà invitata a rifl ettere sul perché stia piangendo. A quel punto, potrebbe anche trovare una risposta esplicita, che le consentirà di affrontare direttamente il problema da cui dipende, in ultima analisi, la sua angoscia.

Dovremmo cercare di consolarle?

Molti di noi tendono a credere che il modo «migliore» per aiutare qualcuno in diffi coltà sia abbracciarlo, dargli una pacca sulla

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spalla, e magari rassicurarlo: «Vedrai che andrà tutto bene». Che cosa ne pensate voi?

Non tutti sono d’accordo, in effetti, sul fatto che «la soluzione», di fronte a una persona provata dalla sofferenza, stia nel contatto fi sico, o magari nel passarle un fazzoletto, mentre piange.

È una questione che va affrontata nel rispetto dei «paletti» interpersonali, professionali e morali. Le persone in stato di disagio emotivo sono molto vulnerabili, e possono scoprirsi — per via della situazione che vivono — addirittura bisognose. Sarebbe profonda-mente immorale approfi ttare della loro condizione di debolezza, con il pretesto di «consolarle». La relazione andrà sempre mantenuta all’in-terno dei confi ni appropriati. Oltrepassarli, per qualunque ragione, non aiuterebbe la persona che abbiamo davanti; semmai, la farebbe sentire ancora più impotente e manipolata. Il rischio, anzi, è che si verifi chino situazioni di abuso, con il risultato che quella persona, in futuro, sarà portata a non accettare più aiuto da nessuno (e tanto meno a chiederlo), anche quando ne avrà bisogno.

In generale, siamo convinti che non sia utile sforzarsi di consolare l’altra persona, ma piuttosto rimanere in silenzio, attenti e rispettosi, accanto a lei. Cercare di consolarla — poniamo — con qualche tipo di contatto fi sico rischierebbe di ostacolarla nello sforzo di raccontare il suo problema, e quindi di sfogarsi un po’. Correremmo il rischio, oltretutto, di oltrepassare i confi ni della «sfera personale» di quella persona. Una regola di questo tipo, naturalmente, conosce tantissime eccezioni: pensiamo ad esempio alle relazioni di intimità, come quelle di coppia, o tra genitori e fi gli.

Se volete camminare accanto a una persona, non dovete interrompere il suo cammino

Se cercate di aiutare quella persona a smettere di piangere, oltretutto, le trasmetterete un messaggio negativo: la sua storia, e la sua sofferenza, hanno travolto anche voi. Se passa un messaggio di questo tipo, è probabile che l’altra persona la smetta di parlare dei suoi problemi, e magari cominci a interessarsi dei vostri.

Riteniamo sia fondamentale, invece, che la persona che aiutate non perda fi ducia nella sua possibilità di gestire la situazione. Anche

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nei momenti di sfi ducia, se si lascia che pianga e non la si interrompe, è probabile che poco alla volta smetta da sola, e si renda conto di avere recuperato il proprio autocontrollo. Quando questo non avviene, sarà il caso di suggerirle di contattare un counselor professionista.

Proteggersi dal rischio di subire violenze

Dobbiamo tutti stare particolarmente attenti, quando ci troviamo ad aiutare qualcuno a riconoscere, ed esprimere verso l’esterno, emozioni forti come la rabbia. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che non tutti sanno gestire la collera in modo appropriato; non è da escludere che qualcuno si comporti in modo violento. È un rischio che va valutato con l’esperienza, caso per caso. Se avete il sospetto che il vostro interlocutore possa avere scatti di collera incontrollati, sarà meglio non incoraggiarlo a esprimere questa sua emozione negativa. Occorre che usiate grande cautela, perché gli attacchi di collera possono essere davvero terrifi canti, e chi non è capace di controllarli può anche risultare pericoloso. Non è ovviamente opportuno né ragionevole, in casi del genere, stimolare un’approfondita esplorazione dei vissuti emotivi di quella persona. Come prima tappa, dovrà imparare lei stessa a controllare i suoi scatti di collera; da parte vostra, dovrete cercare di evitare che questi abbiano luogo, e segnalare la persona a un professionista dell’aiuto.

Una volta detto dell’esigenza di proteggerci da eventuali violenze, dobbiamo anche riconoscere un’altra cosa: che la maggior parte delle persone con cui interagiamo diffi cilmente scivolerà in comportamenti di questo tipo. Se confi date nel fatto che chi avete davanti appartenga a questo secondo gruppo, potrete anche rispecchiare i suoi vissuti di collera, aiutando la persona a esprimerli in modo appropriato. Quando ci sono di mezzo emozioni come la rabbia o la collera, comunque, è sempre meglio essere prudenti.

Riconoscere i vostri vissuti emotivi

Ogni espressione di un forte vissuto emotivo, da parte della persona che aiutate, tenderà inevitabilmente a infl uenzare anche voi.

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Come pensate che vi potreste sentire, in questi casi? Come reagireste, ad esempio, se un vostro amico (o collega) scoppiasse in lacrime, men-tre vi racconta qualche cosa di triste? Sarete forse tentati di aiutarlo a smettere di piangere; magari vi sforzerete di distrarlo, cambiando l’argomento della conversazione. Una reazione di questo tipo, benin-teso, sarebbe perfettamente naturale. È proprio quello che ci hanno sempre insegnato a fare, sin da bambini: quando c’è qualcuno che piange, bisogna consolarlo! Ditegli che non pianga più, e tutto andrà bene. Purtroppo, una soluzione di questo tipo aiuterà forse voi, ma non — con ogni probabilità — il diretto interessato.

Quando diciamo a qualcuno: «Non piangere», gli offriamo un po’ di consolazione nell’immediato, ma non lo aiutiamo certo ad affrontare i problemi da cui dipendono le sue emozioni negative. Di fatto, lo incoraggiamo a mettere i problemi da parte, almeno sino alla prossima volta che torneranno a galla. È evidente che questa non è una soluzione appropriata, per una relazione d’aiuto effi cace. Dovremmo piuttosto aiutare quella persona a sfogare liberamente certi suoi vissuti emotivi, in modo da lasciarli alle proprie spalle, e andare oltre. Dobbiamo essere pronti, quindi, a fronteggiare — e non ad aggirare — tutte le situazioni in cui chi ci sta davanti si mette a piangere, o si mostra disperato, disilluso, infuriato, e via discorrendo. È innegabile che in certi casi, di fronte a emozioni «forti» di questo tipo, diventa diffi cile gestire anche le nostre reazioni emotive.

Quando invitiamo una persona a esprimere liberamente i suoi vissuti emotivi, è probabile che questa riesca ad acquisire maggiore consapevolezza della propria sfera emotiva. Quando questo avviene, le sue emozioni si possono fare più intense, e risulta più facile anche esprimerle in forma esplicita. Se notassimo che qualcuno, come nel-l’esempio di Katia, ha un’aria molto triste, e rispecchiassimo la sua tristezza dicendo: «Sembri triste», quella persona potrebbe mettersi a piangere. Se invece dicessimo a qualcuno: «Sembri arrabbiato», questi potrebbe senz’altro risponderci con un tono incollerito. Potrebbe addirittura ribattere, con lo stesso tono di voce: «Non sono affatto arrabbiato!». Eppure, una risposta adirata come questa potrebbe già bastargli per sfogare, almeno in parte, la sua rabbia.

Come ormai sappiamo, se vogliamo aiutare qualcuno a sen-tirsi meglio dovremo dargli l’opportunità — attraverso un esplicito

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invito — di esprimere liberamente i suoi vissuti emotivi, compresi quelli negativi, nella misura in cui se la sente. Il problema, però, è che rischieremo anche noi di «esporci» a emozioni forti, talvolta dolorose. Può essere questo, infatti, l’effetto dello «scaricamento emotivo» dell’altra persona. La nostra presenza dovrebbe aiutarla proprio ad alleggerirsi, o a «scaricarsi le spalle», di determinati suoi vissuti emotivi. Alcuni di questi, cadendo dalle sue spalle, scivoleranno per terra; altri, inevitabilmente, potranno cadere anche sulle nostre spalle, innescando ulteriori reazioni emotive da parte nostra. Per la persona che aiutiamo, si tratterà di un processo catartico, o addirittura terapeutico; quanto a noi, per quanto esperti o ben attrezzati, dovre-mo essere pronti — almeno in taluni casi — al possibile «impatto emotivo» di quel che l’altra persona ci va raccontando. Sotto questo profi lo, vale senz’altro la pena che leggiate il capitolo decimo, che vi aiuterà a prendervi meglio cura delle vostre esigenze (oltre che di quelle dell’altra persona).

Come gestire le vostre reazioni emotive, in un colloquio d’aiuto?

Se avete imparato a «mettervi nei panni» della persona che aiu-tate, e a vedere il mondo dal suo punto di vista, vi sarete anche resi vulnerabili — in una certa misura — alle sue reazioni emotive.

Le emozioni sono contagiose!

Di qui nasce un’ovvia domanda: se aiutate qualcuno che, triste com’è, scoppia in lacrime, vi dovrete forse mettere a piangere anche voi? Come sarà meglio gestire le vostre reazioni emotive, in una situazione del genere? Una soluzione potrebbe essere quella di far capire alla persona che condividete, in qualche modo, la sua tristezza. Diversamente da lei, però, dovrete mostrare di non sentirvi sopraffatti da quello che vi sta raccontando. Non è da escludere, specie in certi casi, che vi sentiate così coinvolti da cominciare a piangere anche voi; ognuno di noi, dopo tutto, è un essere umano con le sue emo-zioni e i suoi sentimenti. È meglio, comunque, che riusciate a dare l’impressione di saper affrontare la situazione, e di sapere reggere il

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«peso emotivo» di quel che vi viene detto. Se non riuscite a farlo, il vostro interlocutore potrebbe anche pensare, tra sé e sé: «Accidenti, è veramente sconvolto da quello che gli sto dicendo. Forse è meglio che mi fermi qui, per non far stare male anche lui». Invece di riuscire a concentrarsi sui suoi problemi, quella persona potrebbe addirittura sentirsi in colpa nei vostri confronti!

Non dobbiamo perdere di vista, in ogni caso, la nostra au-tenticità. Più che cercare di reprimere tout court le nostre reazioni emotive, quindi, potremmo cercare di esprimerle nel modo più empatico possibile:

Mi sento triste anch’io, per le cose che mi hai appena raccontato.

O magari:

Sono colpito anch’io dalle cose che mi dici.

L’importante, comunque, è dare la chiara impressione che vi va bene ascoltare la storia di quella persona, per quanto sia «carica» dei suoi vissuti emotivi. Dopo che avrete aiutato qualcuno a sfogare le sue emozioni più intense, è utile che vi prendiate cura anche di voi stessi, secondo le indicazioni che presenteremo nel capitolo decimo.

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RIASSUNTO DEL CAPITOLO

• Per avviare un processo di cambiamento, dobbiamo essere in grado di:– ascoltare in modo attivo;– dare conferma;– aiutare la persona a riconoscere i suoi vissuti emotivi, a riap-

propriarsene, a esprimerli in modo esplicito.

• Per dare seguito al processo di cambiamento, dovremo aiutare la persona a:– concentrare l’attenzione sul «nocciolo del problema»;– trovare delle soluzioni adatte al suo caso.

• Il processo di conferma richiede di trasmettere alla persona un preciso messaggio: la stiamo ascoltando, la comprendiamo, riusciamo a guardare le cose dal suo punto di vista.

• Esprimere apertamente i propri vissuti emotivi è motivo di sol-lievo, e aiuta la persona a sentirsi meglio.

• Può essere utile aiutarla a identifi care i suoi vissuti emotivi, fi no a dare loro un nome.

• Le parole che si possono impiegare, a tale scopo, sono diverse per intensità e per sfumatura di signifi cato.

• In linea di principio, è più utile lasciare che la persona pianga, anziché interromperla nel tentativo di consolarla.

• Siate consapevoli del fatto che ci sono persone incapaci di controllare le loro reazioni di collera; è necessario che usiate cautela e prendiate le necessarie precauzioni.

• Dovete anche saper riconoscere le vostre reazioni emotive, per poi riuscire a gestirle in modo appropriato (come vedremo nel capitolo decimo).

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Giunti a questo punto, possiamo anche fare una breve pausa per riepilogare ciò di cui abbiamo discusso sino a ora. Come prima cosa, abbiamo presentato i modi in cui è possibile «mettersi nei panni» di qualcun altro, ascoltando con attenzione quel che ci racconta. Abbiamo parlato dei modi in cui possiamo utilizzare certe brevi in-teriezioni — «Uhm», «Ah ah», «Sì», e così via — per fare percepire all’altra persona il nostro ascolto attivo nei suoi confronti. Abbiamo quindi visto come sia possibile, attraverso la riformulazione, far sapere a quella persona che la ascoltiamo e la comprendiamo. Come ricorderete, si tratta di riuscire a identifi care i suoi vissuti emotivi, per poi rispecchiarli nel modo più accurato possibile, aiutandola a rico-noscere meglio le proprie emozioni, e ad affrontarle come tali. Tutte le abilità che abbiamo descritto servono a dare vita a una relazione empatica, al cui interno incoraggiare l’altra persona a continuare a parlarci dei suoi problemi.

Se vi trovate ad aiutare qualcuno, facendo uso di queste abilità pratiche, provate per un attimo a immaginare che quel «qualcuno» siate voi: con gli stessi problemi, nella stessa situazione, dal medesi-mo punto di vista. Se ci riuscite, potrete capire, almeno in una certa misura, come realmente si senta il vostro interlocutore.

Mano a mano che ascoltate la sua storia, potreste avvertire la sua fatica a descrivere il problema nei giusti termini, magari perché è confusa da tutte le idee e le sensazioni diverse che le ronzano in testa. Il più delle volte, le cose vanno proprio così. In questi casi, ascoltare la persona con attenzione è un passaggio importante, ma non risolutivo: per esserle davvero d’aiuto, dovrete incoraggiarla,

CAPITOLO 6

Puntare al «nocciolo» del problema

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Che si tratti di prendersi cura degli altri e dei loro problemi, di gestire collaboratori o di lavorare in team, tutto dipende dalla propria abilità di rapportarsi efficacemente con gli altri. Occorre quindi sviluppare una più matura consapevolezza delle dinamiche che intervengono quando si lavora con le persone e arricchire il proprio bagaglio di competenze nelle relazioni interpersonali. Nel volume viene spiegato come potenziare la propria efficacia personale, gestendo al meglio il tempo lavorativo, valorizzando doti personali e creatività e contrastando lo stress. Vengono poi presentate le varie modalità di interazione con gli altri, che devono essere conosciute e potenziate per generare rapporti di lavoro effi-caci. Infine ci si occupa dei processi di lavoro e, quindi, delle abilità e dei metodi necessari — soprattutto agli operatori sociali — per affrontare i problemi individuati.In questa nuova edizione, l’autore propone dunque una guida am-pliata e aggiornata sulle conoscenze e le competenze essenziali per lavorare con successo con e per gli altri. Scritto in maniera accessibile e ricco di esempi, consigli ed esercizi pratici, il libro è una risorsa indispensabile per operatori sociali e sanitari, studenti, coordinatori, manager e in generale per chiunque lavori con le persone.

Neil Thompson

Scrittore, educatore e consu-lente indipendente, vanta una pluridecennale esperienza di lavoro nell’ambito dei servizi alla persona. Nella sua carrie-ra è stato docente in quattro università inglesi e ha pubbli-

cato oltre 200 lavori, tra cui alcuni manuali di grande successo. Tra la sua produzione si contano anche numerose risorse per la formazione: e-book, DVD, manuali, corsi online. Ha ideato e condotto l’Avenue Professional Development Programme, una comunità di formazione online innovativa, basata sui principi del-la pratica riflessiva e dell’apprendimento autodiretto.

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«Essere “creativi” significa uscire dai binari dei modi di lavorare abituali e convenzionali. Tra i maggiori ostacoli allo sviluppo della creatività vi è l’atteggiamento di chi dice: “Non ci riesco. Non sono assolutamente una persona creativa!”. È questo un tipico atteggiamento disfattista, proprio di chi confonde abilità che si possono imparare e qualità personali intrinseche. Il tema della creatività è uno di quelli su cui c’è maggiore confusione: c’è chi la vede come una sorta di qualità magica, quasi si trattasse di un dono di natura. La creatività invece può essere appresa: può essere affinata, come qualità, con l’impegno e con l’esperienza. La creatività è un insieme di abilità.»

Neil Thompson

LAVORARE CON LE PERSONE

Far emergere il meglio dalle relazioni

NuovaEdizione

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Capitolo secondo

Gestire bene il tempo

Introduzione

La capacità di gestire bene il tempo, o time management, è qualche cosa che si tende ad associare ai professionisti, ai manager o ai dirigenti delle grandi imprese, più che ai lavora-tori «normali». Circolano molti pregiudizi e fraintendimenti, in effetti, a proposito del time management: su ciò che è, su come funziona, sul perché sia così importante e via discorren-do. In questo capitolo ci proponiamo di sgombrare il campo dai dubbi più frequenti, presentando un’introduzione chiara e comprensibile al time management.

Che cos’è il time management?

Si tende spesso a distinguere, nel linguaggio comune, tra efficacia (fare le cose giuste) ed efficienza (fare le cose bene). Benché l’efficacia sia un aspetto di indubbia importanza, ri-spetto al time management ci interessa soprattutto l’aspetto dell’efficienza. Il tempo è una risorsa scarsa, che richiede di essere utilizzata nel modo migliore possibile, e non va certo sprecata, né impiegata male.

Si usa dire spesso, nel mondo del lavoro, che «il tempo è denaro». Se lavoriamo con le persone, il tempo può essere davvero

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la risorsa più preziosa di cui disponiamo. Molte volte, anzi, il tempo è la cosa più importante che possiamo offrire agli altri; un motivo in più per non sprecarlo, o per non impiegarlo malamente.

Il time management, però, non ha a che vedere soltanto con l’organizzazione del nostro tempo e con il tentativo di non sprecarlo. Uno dei suoi aspetti principali — anzi, essenziali — sta infatti nella capacità di calibrare l’energia e di mantenere su livelli ottimali la motivazione e l’impegno personale. In altri termini, è qualche cosa che riguarda non solo la quantità di tempo, ma anche la sua qualità.

La questione dell’energia, della motivazione e dell’impegno assume particolare importanza per chi lavora a stretto contat-to con le persone. I problemi e le esperienze di vita in cui ci imbattiamo, in questo campo, possono farci sentire esauriti, demoralizzati, talvolta addolorati o carichi di rabbia. Altre volte, il lavoro con le persone può risultare noioso, poco stimolan-te, ripetitivo: può comportare, ad esempio, tutta una serie di adempimenti burocratici da sbrigare in ufficio. Nell’uno come nell’altro caso, è evidente che la motivazione è un elemento di grande rilevanza. Di qui una domanda di importanza vitale: in che modo è possibile mantenere l’impegno e la motivazione, nei momenti più difficili del lavoro?

Per rispondere a questa domanda, nelle pagine seguenti ci occuperemo principalmente di due aspetti: come organizzare il proprio tempo in modo ottimale e come mantenere alte le proprie energie. Come prima cosa, però, dobbiamo spendere qualche riflessione sul funzionamento dei processi di time management, e sugli effetti che ne derivano.

Come funziona il time management

Il modo più comune di guardare al time management è quello della cosiddetta «cronotecnica»: si tratta di analizzare

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in dettaglio il modo in cui si trascorre abitualmente il proprio tempo sul luogo di lavoro. È possibile utilizzare, a questo scopo, strumenti ormai ben noti, come registri o «diari del tempo». Questo approccio al time management ha i suoi lati positivi, come quello di mettere a fuoco un’immagine esauriente del modo in cui si impiega il proprio tempo; accanto a questo, però, c’è anche l’altro lato della medaglia. Il problema più evidente è che un’attenzione eccessiva alle «modalità d’uso» del tempo si rivela assai dispendiosa e quindi risulta controproducente. Se guardiamo troppo ai dettagli, inoltre, rischiamo di perdere di vista le nostre energie e motivazioni.

L’approccio che presentiamo in queste pagine è sensibil-mente diverso. Il suo obiettivo di fondo è aiutarvi a capire (e in-coraggiarvi ad applicare) i principi di base del time management, sul piano dell’organizzazione del tempo e del mantenimento di adeguati livelli di energia. In questa prospettiva, il time ma-nagement richiede la sensibilità di saper cogliere l’importanza del tempo e dell’energia di cui si dispone, per svolgere bene un determinato lavoro. Conoscere i principi che stanno alla base del time management serve proprio a sviluppare questo tipo di sensibilità.

Può essere utile, per comprendere il funzionamento del time management, cogliere alcuni dati di fondo: – Non esistono risposte giuste, valide per tutti. Ciò che va bene per voi potrebbe risultare inadatto per qualcun altro, e viceversa. È importante, nell’imparare il time management, tenere conto della personalità, delle esigenze, della situazione in cui si trova ciascuno di noi.

– In un giorno ci sono solamente ventiquattro ore. Per quanto possiate diventare bravi a gestire il tempo, ci sono dei limiti oltre i quali non si può andare. Una buona gestione del tempo vi può aiutare a non sovraccaricarvi, ma non è sufficiente a «proteggervi» dagli eccessi di lavoro.

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– Il time management è qualche cosa che si può imparare. Come abbiamo detto all’inizio di questo libro, ci sono delle abilità che si tende spesso a scambiare per «qualità». Si tende a credere che vi siano persone che, a differenza delle altre, sarebbero «tagliate» per organizzare bene il proprio tempo. L’esperienza ci insegna che non è il caso di essere così fatalisti: ciascuno di noi ha in sé le potenzialità per rafforzare le proprie abilità di time management.

Organizzare il proprio tempo

La capacità di organizzare il proprio tempo nel modo mi-gliore è un aspetto importante per chi lavora con le persone. Il lavoro con le persone, infatti, è ben poco compatibile con una scansione rigida e inflessibile dei tempi di lavoro. Di solito, i singoli lavoratori hanno dalla loro un certo margine di mano-vra, per decidere come impiegare il tempo di cui dispongono. Spesso, però, si stenta a comprendere l’importanza di una buona gestione del tempo e non le si riconosce l’attenzione che meriterebbe. Non è raro, quindi, imbattersi in operatori di grande esperienza e competenza che pure hanno serie difficoltà a gestire bene il tempo di lavoro. Ciò ha ripercussioni negative sull’efficacia delle loro iniziative a favore degli altri. È per questo che è senz’altro utile dedicare un po’ di tempo a comprendere i fondamenti del time management. L’idea di un buon «investi-mento del tempo», del resto, sta alla base del primo principio di time management che ci accingiamo a trattare.

Investire tempo per risparmiare tempo

C’è chi commette l’errore di diventare «troppo impegnato» per potersi permettere di organizzare o di pianificare il proprio tempo. Quando ciò si verifica, la persona direttamente interes-

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sata ha ormai perso il controllo del proprio tempo e faticherà non poco per recuperarlo. Un buon time management richie-de di saper mettere da parte una certa quantità di tempo, per programmare le modalità di impiego del tempo restante, fissare delle priorità, prevedere i problemi che potrebbero emergere, riconoscere le potenziali opportunità, e così via. Occorre, in altri termini, investire del tempo in attività di programmazione e di organizzazione, che serviranno poi a risparmiare del tempo. Chi non riesce a fare questo «investimento» potrebbe anche risparmiare un po’ di tempo nell’immediato, ma sul lungo periodo rischierà di perderne assai di più.

Detto questo, va anche riconosciuto il rischio opposto: quello di investire troppo tempo nella programmazione. C’è chi dedica tanto di quel tempo a programmare il lavoro da non avere più tempo per farlo. C’è chi continua a compilare liste infinite di compiti da fare, senza poi trovare il tempo per svolgerne alcuno. È fondamentale, quindi, saper trovare un giusto equilibrio tra un investimento scarso e uno eccessivo. La programmazione è uno strumento in vista di uno scopo e non uno scopo in sé.

Uno sgUardo alla pratica 2.1

Tommaso era orgoglioso di tutto il lavoro che era capace di fare. Si sentiva veramente soddisfatto quando considerava quanti impegni aveva. Gli piaceva essere visto dagli altri come una persona «impegnata»: si sentiva importante. Quello che non gli riusciva, però, era ritagliarsi un po’ di tempo per programmare meglio il lavoro, per darsi delle priorità, per farsi una «visione globale» delle cose che faceva. Benché fosse costantemente impegnato, non si poteva dire che impiegasse il tempo in modo ottimale; molta della sua energia, anzi, andava sprecata. Questo divenne evidente quando se ne andò il suo vecchio capoufficio e fu sostituito da una persona che cominciò a preoccuparsi seriamente per il suo modo di lavorare. Tommaso si sentì profondamente a disagio nel sentirsi dire, da un giorno all’altro, che doveva imparare a gestire meglio il tempo e gli ci volle un bel po’ per cogliere a fondo l’importanza di un time management accurato ed efficace.

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Fissare delle priorità

Quando ci troviamo davanti un lungo elenco di cose da fare, può essere utile stabilire quali siano le più importanti e quali vadano fatte per prime. Si tratta, in altri termini, di fissare delle priorità. Il che può risultare difficile, per tre ordini di ragioni: – Non ci sono molti criteri che ci permettano di stabilire un ordine di importanza nelle cose.

– Le cose importanti sulla lista potrebbero essere così nume-rose che risulterebbe impossibile, in ogni caso, farle tutte. È necessario prendere qualche decisione drastica, per togliere dall’elenco i compiti di troppo.

– Ci può anche essere un conflitto di interessi. Ci possono essere delle voci sulla lista, ad esempio, che ai vostri occhi hanno un’estrema importanza, ma dal punto di vista di altre persone influenti — ad esempio il vostro capo — sono decisamente meno importanti.

Non è detto, quindi, che fissare delle priorità sia una cosa semplice. Con un po’ di esperienza, comunque, scoprirete voi stessi che i benefici che ne derivano sono ben superiori ai risvolti negativi. Il punto, semmai, è guardarsi dal rischio di fissare le pri-orità in modo eccessivamente rigido. Se non si mantiene una certa flessibilità, le priorità possono rivelarsi più d’ostacolo che d’aiuto.

Ad esempio, un tattica utile potrebbe essere quella di pen-sare alle conseguenze a cui si va incontro se non si completa un particolare lavoro. Se non portassimo a termine un incarico, quanto sarebbe grave? Naturalmente, questa non è una regola ferrea: ma può essere utile per aiutarci a valutare l’importanza relativa da attribuire a priorità in conflitto tra loro.

Non perdere di vista l’obiettivo

Ciascuno di noi rischia di sprecare molto tempo, ogni volta che perde di vista l’obiettivo che si era prefissato, o che

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lo scopo delle sue azioni diventa incerto e confuso. Non è raro, in effetti, scivolare in una sorta di circolo vizioso. Un carico di impegni eccessivo può farci perdere di vista completamente gli obiettivi, rendendoci ancora più tesi per «il tempo che non c’è»; cosa che ci rende ancora più confusi rispetto agli obiettivi, e il circolo continua.

Quindi, la capacità di mantenere ben chiari gli obiettivi anche quando siamo sotto pressione è un aspetto basilare per un time management efficace. Il principio del «non perdere di vista l’obiettivo» è strettamente legato alla capacità di lavorare in modo metodico e ordinato, come vedremo più a fondo nel capitolo ventiduesimo.

Evitare di perdere tempo

Che sia importante evitare di perdere tempo, in sé, è un’affermazione abbastanza ovvia. Nonostante questa ovvietà, è facile constatare che molte volte non si prende alcuna inizia-tiva, nemmeno delle più semplici ed elementari, per evitare gli sprechi di tempo. Pensiamo, ad esempio, a tutte le volte che ci rivolgiamo di persona a qualcuno per avere informazioni che si potevano ottenere per telefono; o alle situazioni in cui due membri della stessa équipe partecipano a una riunione in cui era sufficiente la presenza di uno solo di loro; o ai resoconti eccessivamente lunghi e dettagliati, laddove bastava una breve ricostruzione dei punti essenziali; o al fatto di sbrigare man-sioni che avrebbero potuto benissimo essere affidate ad altri; o ai continui tentativi a vuoto di telefonare a qualcuno, quando una breve lettera sarebbe più che sufficiente.

Questo non vuol dire, beninteso, che tutti gli incontri vadano rimpiazzati da comunicazioni telefoniche. Questo, evidentemente, sarebbe assurdo. Certe volte, nondimeno, le visite «in carne e ossa» non sono necessarie e rappresentano una

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perdita di tempo. È necessaria, semmai, la capacità di identi-ficare le circostanze in cui si rischia di perdere del tempo, per poi utilizzare quel tempo in modo più costruttivo. Si tratta di sviluppare un buon livello di sensibilità e di autoconsapevolez-za, come abbiamo visto nel corso del capitolo precedente. La capacità di cogliere le situazioni in cui si potrebbe risparmiare del tempo è qualche cosa che si può sviluppare con la pratica e con l’esperienza; qualche cosa, comunque, che non mancherà di ripagare dell’investimento fatto.

Usare un’agenda

L’agenda è uno degli strumenti principali del time mana-gement. La si può utilizzare nell’ambito della programmazione, del monitoraggio, del coordinamento delle proprie attività. Non si tratta solo di un posto dove annotare appuntamenti con altre persone. Ad esempio, se dobbiamo scrivere una relazione, potremo fare uso dell’agenda per organizzare il tempo dedicato a questa attività. In questo modo, l’agenda diviene un tassello importante di ogni strategia di gestione del tempo. Anche rispetto all’utilizzo dell’agenda è possibile sviluppare meglio alcune tecniche e abilità ad hoc.

L’agenda vi aiuta a controllare meglio il vostro tempo e vi mette al riparo da situazioni imbarazzanti come quella di dimenticarsi un appuntamento o di fissarne due alla stessa ora. Una buona tecnica per usare l’agenda, pur nella sua semplicità, è la seguente: si traccia una linea verticale nel mezzo di ogni pagina, si annotano sulla parte sinistra gli impegni o gli appun-tamenti, e sulla parte destra le cose ancora da fare. All’inizio di ogni giorno potrete dare un’occhiata alla lista della pagina precedente, depennando le cose che sono state fatte, o che non c’è più bisogno di fare. Rimarranno soltanto le cose ancora da fare, che potrete riportare nella parte destra della pagina di oggi.

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La regola dei tre minuti

È facile che, nel corso della settimana, si accumulino tante piccole cose da fare. Ciascuna, presa di per sé, non richiede grandi sforzi; quando cominciano ad accumularsi, però, l’im-pegno si fa decisamente maggiore. E visto che districarsi tra tante «cosette» da fare può risultare sgradevole, non sorprende la tendenza a procrastinare. Una volta che si comincia a rinviare, però, il «mucchio» delle cose in arretrato è destinato a crescere; il che, a sua volta, aumenta l’indisponibilità a farsene carico. Ed ecco che si è innescato un circolo vizioso.

Una buona soluzione, accessibile a tutti, è la «regola dei tre minuti». Se la cosa che dovete fare richiede meno di tre minuti — compilare un modulo, dare una breve risposta via e-mail, e così via — allora occupatevene subito. Oltre a prevenire gli arretrati di lavoro, eviterete anche, più avanti, ritardi dovuti all’adempimento di queste cose di poco conto.

Lavorare insieme

Lavorare in modo collaborativo, anche nella forma di un vero e proprio lavoro in équipe, permette di valorizzare i punti di forza di ciascuno, riducendo gli effetti dei rispettivi punti di debolezza. Una strategia di tipo cooperativo, di conseguenza, può senz’altro contribuire a una buona gestione dei tempi di lavoro. Si tratta, comunque, soltanto di una possibilità: non sta scritto da nessuna parte che la cooperazione, di per sé, garanti-sca necessariamente un migliore utilizzo del tempo. I tentativi di collaborare possono anche dare luogo a sovrapposizioni (o a compiti che rimangono scoperti), incongruenze, dibattiti vuoti e interminabili, incapacità di decidere; in definitiva, a un cattivo utilizzo delle risorse disponibili (tempo compreso). «Il lavorare insieme», pertanto, non si può ridurre a uno slogan: richiede un adeguato investimento di tempi e di energie. Per

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riuscire a collaborare bene dobbiamo saper fissare dei «paletti» e chiarire le aspettative reciproche, onde evitare confusione e l’insorgere di conflitti.

Gestire i livelli di energia

La capacità di organizzare e coordinare i propri impegni in funzione del tempo disponibile ha una parte importante per un buon utilizzo di una risorsa scarsa, quale è il tempo. Occorre anche approfondire, però, il modo migliore per gestire i livelli di energia e per mantenere le motivazioni sul lavoro.

La programmazione dei tempi di lavoro (timing)

Alcuni di noi si possono definire persone «mattinie-re», mentre altri non lo sono affatto. Certe persone, in altri termini, sono particolarmente lucide nelle prime ore del mattino, mentre altre si «risvegliano» in momenti successivi della giornata, o magari verso sera. È importante capire quali siano, per ciascuno di noi, gli «orari ottimali»: sarà possibi-le, in tal modo, programmare meglio le cose che abbiamo da fare. Potrebbe non essere una buona idea, ad esempio, fissare un impegno oneroso e difficile in una fascia oraria in cui, abitualmente, non diamo il meglio di noi stessi. Anche questo aspetto del time management rimanda direttamente al tema dell’autoconsapevolezza, trattato nel capitolo primo. È importante, infatti, riconoscere non soltanto i nostri punti di forza e di debolezza, ma anche — per così dire — i nostri momenti di forza e di debolezza. Una buona programmazione dei tempi ci potrà aiutare ad «abbinare» l’andamento delle nostre energie con i vari compiti che dobbiamo affrontare, in modo da riservare i compiti più impegnativi per i momenti di maggiore lucidità.

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La persona giusta nel posto giusto

Si tende spesso, nel lavoro di gruppo o di équipe, a dividere il lavoro senza considerare più di tanto quali siano, per ciascuna delle mansioni previste, le persone più idonee. Ciò, in termini di time management, è controproducente, giacché si traduce in un impiego non ottimale delle risorse disponibili. Ciascuno di noi ha i suoi punti di forza e di debolezza; aspetti del lavoro che gradisce e aspetti che non gli sono congeniali. Valorizzan-do le cose che sappiamo fare meglio e che ci piacciono di più si manterranno livelli di motivazione più elevati e, a parità di tempo disponibile, si otterranno risultati migliori. Vale quindi la pena, in un contesto di lavoro di gruppo o di staff, mettere a fuoco le preferenze individuali di ogni lavoratore, in modo che ciascuno — per quanto possibile — abbia l’opportunità di dare il meglio di sé.

Uno sgUardo alla pratica 2.2

Patrizia era abbastanza soddisfatta, nell’insieme, del proprio lavoro. Alcuni aspetti, però, non le piacevano affatto e non di rado la rendevano spossata e demotivata. Un giorno, tuttavia, scoprì che una delle mansioni che le pia-cevano meno — seguire la formazione dei nuovi membri dello staff — era estremamente gradita alla sua collega Gianna. Dopo aver discusso insieme delle rispettive mansioni, Patrizia e Gianna provarono a «scambiarsi» una parte del lavoro. La cosa ebbe grande successo. Grazie alla collaborazione, entrambe avevano potuto migliorare la qualità del proprio lavoro.

La regola «via il dente, via il dolore»

Quando dobbiamo svolgere delle mansioni che non ci fanno «impazzire» di gioia, o che non sopportiamo proprio, è meglio affrontarle il prima possibile. Se riusciamo a «levarcele di torno», avremo di che essere soddisfatti e sollevati. Gli effetti saranno positivi sia per il morale, sia per le energie lavorative.

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Se sappiamo — ad esempio — che domani dovremo fare una telefonata sgradevole, è meglio che ci impegniamo a farla non appena arrivati in ufficio.

Se non prendiamo di petto queste mansioni sgradevoli e continuiamo a procrastinarle, possono tormentarci, demotivarci e condizionare negativamente il nostro rendimento sul lavoro. È importante, quindi, seguire la semplice regola del «via il dente, via il dolore»: si tratta di identificare le cose verso cui siamo più riluttanti, per poi metterci a farle prima di tutte le altre.

Fare una pausa

Chi dice sempre di essere «troppo impegnato per fare una pausa» si espone a una situazione pericolosa. Non si rende contro, oltretutto, di un dato elementare: a parità di mansione da svolgere, un lavoratore riposato è più produttivo di uno spossato dalla fatica.

Quando il tempo è tiranno, e il lavoro da fare è tanto, è facile scivolare nella trappola del «proseguire a oltran-za», senza un attimo di pausa. Il risparmio di tempo, così facendo, è soltanto apparente. Tanto per dire, è probabile che una persona che lavora un’ora e mezza, fa una pausa di un quarto d’ora e poi continua a lavorare per un’altra ora e un quarto, produca di più — in termini sia quantitativi, sia qualitativi — di una che lavora ininterrottamente per tre ore, senza fare il minimo «stacco». Lavorare a oltranza, senza pause, può avere effetti logoranti, aumenta le pro-babilità di commettere errori, o comunque di «produrre» assai meno del solito. (Thompson, 1993, pp. 131-132)

L’aumento del carico di lavoro

Un lavoro fatto male, o senza la necessaria attenzione, porta via molto più tempo del necessario. Se non calibriamo bene i tempi di lavoro, rischieremo di dedicare alle singole mansioni

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un tempo ben superiore a quello che esse richiederebbero. Que-sto, sul versante delle motivazioni, è un aspetto importante: se siamo poco motivati finiremo per allungare inutilmente i tempi di lavoro, cosa che, a sua volta, avrà ripercussioni negative sulle nostre motivazioni.

Se invece ci sforziamo di completare in tempi ragionevoli le mansioni che ci vengono assegnate, ne usciremo rafforzati nel nostro senso di fiducia, di padronanza, di autorealizzazione. L’impegno a evitare ogni allungamento superfluo dei tempi di lavoro sarà ampiamente ripagato, sul piano delle nostre moti-vazioni al lavoro.

Essere ottimisti

Per mantenere, se non rafforzare, i livelli di energia e di motivazione, è fondamentale l’ottimismo. Un atteggiamento pessimista, infatti, contribuisce di per sé ad abbassare il morale e la soddisfazione sul lavoro. Ne può derivare un circolo vizioso, in cui pessimismo e morale sotto i tacchi si rinforzano — e quindi si peggiorano — a vicenda.

Essere ottimisti può generare un circolo virtuoso che dà luogo a un miglioramento della soddisfazione e del morale sul lavoro, il che contribuirà a un atteggiamento più improntato all’ottimismo. Vedremo più in dettaglio nel capitolo decimo quanto sia importante non perdere mai di vista gli aspetti positivi.

Lavorare insieme

Oltre che a una migliore organizzazione dei tempi di lavo-ro, lavorare insieme può giovare alle energie e alle motivazioni lavorative. Il lavoro in équipe, la collaborazione e il sostegno reciproco possono rivelarsi strategie vincenti, nella misura in cui generano un senso positivo:

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– di sicurezza e di fiducia («l’unione fa la forza»); – di impegno a favore degli altri; – di cameratismo, di identità di gruppo, di senso d’apparte-nenza;

– di orgoglio e di soddisfazione per i risultati positivi ottenuti insieme.

Conclusione

Essere ben organizzati, nell’impiego dei tempi di lavoro, non è una qualità «naturale». È, piuttosto, il prodotto di un insieme di abilità che possono essere apprese e potenziate, grazie alla pratica e all’esperienza. I suggerimenti di questo capitolo possono aiutarvi a migliorare nella capacità di gestire i tempi, purché vi impegniate effettivamente ad applicarle. Se non ne siete convinti più di tanto, o le praticate così, «tanto per fare», non vi gioveranno granché.

L’ingrediente essenziale è quindi la fiducia, in una duplice accezione. Tanto per cominciare, dobbiamo confidare nella nostra capacità di apprendere cose nuove, di acquisire delle nuove abilità. In secondo luogo, dobbiamo avere fiducia nelle tecniche di cui facciamo uso. Se si riesce ad attivare questa fiducia, l’autoefficacia di ciascuno di noi ha davanti a sé degli enormi margini di miglioramento.

ESERCIZIO 2Riuscire a organizzarsi

In questo capitolo abbiamo fornito molti suggerimenti per gestire meglio il tuo tempo. Ora, per aiutarti a metterli in pratica, abbiamo pensato a questo esercizio.Innanzitutto, prendi un foglio di carta, di formato A4, e tienilo vicino a te, scorrendo velocemente l’intero capitolo. Segna sul foglio tutte le

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indicazioni concrete che secondo te potresti mettere a buon frutto nel tuo lavoro (ad esempio, la regola «via il dente, via il dolore»). Quando avrai finito, avrai una lista di azioni e potrai quindi pianificare un per-corso per mettere in atto la tua nuova strategia di gestione del tempo.

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Capitolo terzo

Gestire lo stress

Introduzione

Ogni attività lavorativa comporta un certo livello di tensione e ci espone a una buona misura di stress, tanto più in un campo come quello dei servizi alla persona. In questo capitolo ci occuperemo delle tre componenti essenziali dello stress management: – i fattori di stress (stressors), ossia le cause di stress più comuni e diffuse;

– i metodi di coping, cioè i modi in cui possiamo cercare di affrontare la pressione dello stress;

– le modalità di aiuto, e quindi i modi in cui è possibile facilitare i processi di coping.

Una volta esaminati questi tre aspetti, guarderemo alle abilità e alle strategie necessarie per mantenere la tensione sotto controllo, evitando di essere danneggiati dallo stress.

Stress e tensione

Anzitutto è importante definire con precisione quello che intendiamo per «stress». Arroba e James (1992) definiscono lo

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stress come «risposta a livelli inappropriati di tensione». Sono due gli elementi più significativi di questa definizione:1. Il termine «risposta» indica che lo stress scaturisce dal modo in

cui reagiamo alla tensione; dunque «gestire lo stress» vuol dire anche saper controllare le nostre reazioni, oltre che la tensione che le provoca. Ritorneremo su questo aspetto più avanti.

2. L’aggettivo «inappropriato» suggerisce che lo stress può deri-vare non solo da un livello eccessivo di tensione, ma anche da un livello insufficiente, come quando ci annoiamo, o siamo privi di stimoli.

Possiamo quindi distinguere, come proponiamo nella figura 3.1, fra la tensione — che può essere, a seconda delle circostanze, positiva (una fonte di stimoli e di motivazione) o negativa (una fonte di preoccupazioni e di conflitto) — e lo stress, che è sempre qualche cosa di negativo e dannoso.

Fig. 3.1 I diversi livelli di tensione.

Stress

Livello di tensione eccessivo Stress

Livello di tensione appropriato Assenza di stress

Livello di tensione insufficiente

Ricapitolando: – lo stress non equivale alla tensione: quest’ultima è un fatto inevitabile, mentre lo stress può anche essere evitato;

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– lo stress si verifica più facilmente laddove la tensione è ec-cessiva, o insufficiente;

– lo stress dipende non solo dal livello di tensione che avver-tiamo, ma anche dal modo in cui reagiamo.

È importante che la distinzione tra questi due concetti chiave sia ben chiara. Se non siete sicuri di averla compresa bene, vi suggeriamo una rilettura di questo paragrafo, prima di procedere oltre.

Gli effetti dello stress

Lo stress può essere all’origine di molteplici eventi negativi. Basti soltanto pensare ad alcuni dei più frequenti, esposti qui di seguito. – Patologie correlate allo stress. È risaputo che lo stress contri-buisce in modo determinante a malattie cardiache, coliti, ulcere, e così via.

– Vulnerabilità alle malattie. Lo stress indebolisce i nostri livelli di resistenza alle malattie in generale.

– Cali motivazionali. Lo stress ci fa perdere entusiasmo fino a farci sentire, come si suol dire, «con il morale sotto i tacchi».

– Insoddisfazione sul lavoro. Nel nostro ambiente di lavoro, quando siamo sotto stress, tendiamo a considerare solo gli aspetti negativi, perdendo di vista quelli positivi.

– Tensione e irritabilità. Lo stress può anche essere motivo di disaccordi o di conflitti.

– Tendenza a commettere errori. Lo stress ci espone al rischio di commettere molti più errori del solito, cosa che — nel lavoro con le persone — può avere conseguenze pesanti.

Non si tratta certo di un elenco esaustivo, ma ci pare suffi-ciente a mostrare che il tempo e gli sforzi dedicati a prevenire lo stress, o a contrastarlo, rappresentano un ottimo investimento.

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Uno sgUardo alla pratica 3.1

Un’équipe di cinque persone riusciva a gestire abbastanza bene, senza particolari difficoltà, il carico di lavoro che le era stato assegnato. Un gior-no, però, Pietro — uno di loro — si sentì intimare, con tono estremamente aggressivo, di «mettersi a fare la sua parte». Il dirigente seppe dell’incidente, ma non lo prese sul serio; si limitò a definirlo «una storia come tante». Da parte sua, Pietro si sentiva male, poco aiutato e ancor meno considerato. Pochi giorni più tardi, un certificato medico comunicava che Pietro doveva prendersi due settimane di assenza per malattia, a causa di un «esaurimento nervoso». Nelle due settimane successive, gli altri componenti dell’équipe si trovarono con un carico di lavoro aggiuntivo del 25%, che riuscirono — sia pure con difficoltà — a smaltire. Terminato quel periodo, però, arrivò un nuovo certificato: l’assenza di Pietro si sarebbe prolungata per altre quattro settimane. I suoi colleghi cominciarono a preoccuparsi e a domandarsi se Pietro sarebbe mai ritornato. Per Patrizia, che stava attraversando un pe-riodo difficile con il marito, questa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Lo stress, per lei, era troppo. Si prese a sua volta un permesso per malattia, cosa che costrinse i suoi colleghi a farsi carico, da soli, di un lavoro che era aumentato addirittura del 40%. Per i tre operatori rimasti, la tensione si era fatta fortissima. Erano giunti a domandarsi se avrebbero mai visto la luce, alla fine di quel tunnel. La situazione era veramente snervante. Sarebbe bastato un piccolo imprevisto a far saltare tutto per aria.

Comprendere il proprio stress

Giacché lo stress è legato al modo in cui ciascuno reagisce alle tensioni che avverte, si tratta di un problema che ha molti risvolti sul piano personale e varia considerevolmente da indi-viduo a individuo. È importante, quindi, che ciascuno sia in grado di comprendere l’impatto dello stress e della tensione sulla propria esperienza di vita. L’esercizio 3, alla fine di questo capito-lo, è pensato proprio per aiutarti a disegnare il quadro della tua situazione, con un occhio di riguardo alla gestione dello stress.

Avere un quadro chiaro delle pressioni a cui si è sottopo-sti, ma anche delle risorse di fronteggiamento e di sostegno di

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cui si dispone, è importante per gestire lo stress. Senza questo quadro, si lavora alla cieca. Per quanto importante, però, questa consapevolezza non è sufficiente: comprendere lo stress è sol-tanto il primo passo dello stress management. Occorre anche potenziare le proprie abilità e strategie di gestione dello stress, come vedremo nel corso delle prossime pagine.

Abilità e strategie di stress management

L’esperienza dello stress, come abbiamo visto, è estrema-mente variabile, e dipende non poco dalla situazione personale di ciascuno di noi. Ciò detto, è comunque possibile individuare alcuni principi e linee guida, di carattere generale.1. Conoscere se stessi. Sembrerà un luogo comune, ma avere un

buon livello di consapevolezza di sé è fondamentale, giacché aiuta a riconoscere i propri punti di forza e di debolezza: le risorse personali da cui possiamo attingere nei momenti di bisogno, ma anche gli aspetti che ci rendono più vulnerabili. Come abbiamo osservato nel capitolo primo, l’autoconsa-pevolezza è un requisito essenziale per lavorare bene con le persone. Tale requisito è altrettanto importante per quanto riguarda la gestione dello stress. Laddove manca una suffi-ciente consapevolezza di sé, infatti, gestire lo stress si può rivelare assai più impegnativo del necessario.

2. Fissare degli obiettivi. È utile darsi degli obiettivi precisi, per avere un traguardo ben definito a cui puntare, in modo da non sentirsi «alla deriva» o privi di uno scopo. Definire degli obiettivi può servire anche a rafforzare le nostre motivazioni e a ottenere — una volta che gli obiettivi siano stati raggiunti — una legittima soddisfazione dal lavoro che facciamo. Come si suol dire, infatti, «se non sappiamo dove vogliamo andare, nessuna strada potrà condurci a destinazione». Individuare degli obiettivi e avere le idee ben chiare su quel che ci occor-

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re per realizzarli ci aiuta a identificare la strada che stiamo percorrendo. Ci aiuta a tenere lontano quel senso di disorien-tamento che si accompagna, il più delle volte, all’esperienza dello stress. Si tratta di una questione di grande importanza, su cui ritorneremo nei capitoli ventunesimo e ventiduesimo.

3. Cambiare atteggiamenti. Cambiare il proprio atteggiamento nei confronti di qualche cosa può cambiare il modo in cui quel «qualche cosa» ci condiziona. Se l’obiettivo che ci sia-mo dati è diventare i più grandi lavoratori del mondo, ad esempio, ben presto ci troveremo sopraffatti dalla tensione! Per metterci al riparo da uno stress inutile, in casi come que-sto, occorre cambiare il nostro atteggiamento. Una buona soluzione può essere accontentarsi, almeno all’inizio, di un obiettivo più modesto. Puntare all’eccellenza può rivelarsi una fonte di stimoli e di motivazione (e quindi di tensione positiva); ma puntare a essere i migliori può far sì che la ten-sione sconfini nello stress. Se è vero che lo stress è la reazione a un livello di tensione inappropriato, cambiare il proprio modo di reagire alle circostanze esterne può costruire una soluzione efficace per gestire meglio la tensione. Per dirla con il linguaggio degli specialisti, si tratta di mettere in atto una «ristrutturazione cognitiva».

4. Essere assertivi. La questione dell’assertività sarà oggetto del capitolo quinto, sicché non ci dilungheremo, in questa sede, sull’argomento. Va comunque ricordato che l’essere assertivi — trovare, cioè, un ragionevole punto di equilibrio tra gli estremi della sottomissione e dell’aggressività — è un aspetto importante dello stress management. L’assertività ci aiuta a impedire agli altri di disporre di noi a loro piacimento, ma serve anche a prevenire i conflitti; o, quantomeno, a ridurne gli effetti negativi, come vedremo nel corso del capitolo quinto.

5. Mantenere il controllo. Questo principio non si riduce al classico messaggio del «non farsi prendere dal panico», che

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pure è importante. La verità è che, quando siamo sottoposti a una forte tensione, è facile che perdiamo la padronanza di noi stessi e delle cose che facciamo. Da una ricerca di qualche anno fa sui casi di abuso minorile (DoH, 1991), ad esempio, emergeva che gli assistenti sociali dei servizi di tutela minorile tendevano a fare molti errori a causa della tensione a cui erano sottoposti. Era come se le loro capacità di giudizio si offuscassero, con tutte le conseguenze negative che ne derivavano. Un buon consiglio, in casi come questi, è quello di stare calmi e di tenere in mano la situazione. Questo non vuol dire, peraltro, assumere atteggiamenti autoritari o impositivi; si tratta soltanto di non lasciarsi sfuggire quello che sta succedendo attorno a noi, non permettere a noi stessi di diventare degli osservatori impotenti, vittime delle circostanze. Molte cose, comunque, vanno ben al di là delle nostre capacità di controllo; non possiamo che prenderne serenamente atto (Thompson, 2012a). D’altra parte, occorre guardarsi dal rischio del disfattismo, tipico di chi sottovaluta la propria capacità di controllare il corso degli eventi (come nell’esempio sul time management, presentato nel capitolo secondo).

6. Tracciare dei confini. Gli equivoci e le ambiguità ci accom-pagnano nella vita di tutti i giorni, ma quando siamo sotto pressione possono assumere dimensioni incontrollabili. È per questo che è importante acquisire una buona capacità di «tracciare confini». Sono confini che hanno a che vede-re, prima di tutto, con le responsabilità: occorre avere ben chiaro ciò di cui siamo e ciò di cui non siamo responsabili. Ci sono due ottime ragioni per farlo: primo, se abbiamo la responsabilità di qualche cosa e non ne siamo ben consape-voli, rischiamo di trovarci seriamente in difficoltà, qualora le cose si mettano male; secondo, se ci assumiamo l’onere di impegni che esulano dalle nostre responsabilità (perché

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di competenza di altri), ci ritroveremo con un «carico» del tutto gratuito ed evitabile; o, per dirla diversamente, con un ulteriore fattore di stress. È importante, quindi, saper riconoscere i confini delle responsabilità nostre e altrui (Thompson, 2015a).

7. Gestire bene il tempo. Ritorniamo su questo aspetto, trattato nel capitolo precedente, perché il time management è un tassello importante per qualsiasi professionista che lavora con le persone. Come si è visto, occorre gestire non solo il tempo, ma anche le energie di cui disponiamo; mantenere livelli di motivazione e di impegno adeguati è essenziale per affrontare attivamente la tensione, anziché farsene travol-gere. Gestire bene il tempo di cui si dispone serve anche a mantenere un buon controllo su di sé e sulla situazione (si veda il punto 5) e quindi di tenere a bada lo stress. Se invece perdiamo tempo e non manteniamo un livello di impegno costante, difficilmente riusciremo ad affrontare le difficoltà tipiche del lavoro con le persone.

8. Farsi aiutare dagli altri. C’è chi, stoicamente, vorrebbe sempre affrontare da solo qualsiasi situazione difficile, senza farsi aiutare da nessuno. È come se chiedere aiuto fosse un segno di debolezza, qualche cosa da evitare a tutti i costi. Una strategia di questo tipo è carica di insidie, perché ci colloca ai margini di quella rete di sostegno e di aiuto reciproco che, in certi casi, può fare la differenza. Per evitare questo rischio, l’atteggiamento di chi si crede «duro e puro», autonomo dagli altri in tutto e per tutto, andrà senz’altro respinto (Cranwell-Ward e Abbey, 2005). Un passo importante che va fatto, in questa direzione, è riconoscere che chiedere aiuto è un segnale di forza, non di debolezza; un segnale della nostra capacità di gestire lo stress in modo realistico, nella consapevolezza dei nostri limiti.

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Uno sgUardo alla pratica 3.2

Sandra sapeva che il suo nuovo impiego sarebbe stato impegnativo, ma non pensava così tanto. Si sentiva sommersa dal lavoro, senza nessuno che le desse una mano. All’inizio, decise che in fondo andava bene così: se la sarebbe cavata da sola, impegnandosi più che poteva. Bastava che lasciasse da parte i suoi problemi personali, per concentrarsi il più possibile, anima e corpo, sul lavoro. Un giorno, però, commise un errore che avrebbe potuto avere conseguenze gravi. Cominciò a rendersi conto che non serviva a nulla fare finta che i problemi non ci fossero. Decise di parlare con i colle-ghi di tutte queste sue difficoltà. Di fronte alle risposte che ricevette, cariche di comprensione nei suoi confronti, rimase veramente stupita. I colleghi si dissero senz’altro disponibili a venirle incontro e a darle una mano. Uno di loro, in particolare, fece un’osservazione che aiutò Sandra a capire che aveva sbagliato a non chiedere aiuto sin dall’inizio: «Avevamo l’impressione che tu fossi una di quelle persone che vogliono fare sempre tutto da sole, e detestano il lavoro di équipe».

9. Evitare modi inadeguati di affrontare lo stress. Ci sono dei modi di affrontare lo stress che sono utili, efficaci e costruttivi. Ce ne sono altri, però, che si possono rivelare dannosi e distruttivi; in casi di questo tipo, «il gioco non vale la candela». Se ad esempio tentiamo di affrontare una difficoltà mettendoci a bere, reagendo in modo violento, o negando completamente l’esistenza del problema, rischieremo soltanto di aumentare la tensione, o addirittura di aggravare la situazione; la «me-dicina», in altri termini, risulterà peggiore della malattia. C’è molto da guadagnare a evitare reazioni di questo tipo, sforzan-dosi di sostituirle con atteggiamenti più propositivi. La cosa migliore, in linea di principio, è puntare sul fronteggiamento attivo, prendendo di petto il problema che abbiamo davanti, senza nutrire eccessiva fiducia nel fronteggiamento passivo (cioè nel tentativo di fuggire dalla pressione o dal problema).

10. Avere cura di sé. Lo stress tende spesso a renderci sin troppo duri ed esigenti nei confronti di noi stessi. Ci poniamo degli

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obiettivi irrealistici (vedi al punto 3), svalutiamo quel che sappiamo fare, ci rendiamo la vita — in un modo o nell’al-tro — ben più difficile del necessario. E quanto più stress incontriamo, tanto più tendiamo ad assumere un atteggia-mento di questo tipo. Di conseguenza, una buona gestione dello stress ci richiede anche di prenderci cura di noi stessi; di non trascurare le nostre capacità, come pure i nostri limiti; di non pretendere troppo da noi stessi, e di non giudicarci con severità eccessiva. È importante essere consapevoli di questo rischio, in modo da cogliere i momenti in cui si verifica; po-tremo così rivolgerci a una persona di cui abbiamo fiducia, che ci aiuterà a guardare le cose nella giusta prospettiva.

Conclusione

In queste pagine abbiamo passato in rassegna le principali «pietre miliari» dello stress management. Seguire queste linee guida non basterà a garantirvi il successo, ma vi aiuterà a orien-tarvi nella direzione corretta per gestire al meglio le situazioni di tensione, minimizzando lo stress. Mi auguro che le idee e i suggerimenti qui presentati vi incoraggino a proseguire sulla strada di una migliore gestione dello stress.

Lo stress, come si è visto, è un problema che porta molte conseguenze negative: – può indurre, in primo luogo, un deterioramento delle con-dizioni di salute;

– può ridurre il senso di autoefficacia; – può mettere in crisi le relazioni con gli altri; – può creare un clima negativo, dominato dalla tensione, sul luogo di lavoro.

E l’elenco potrebbe proseguire; di qui l’importanza di acquisire delle buone abilità di gestione dello stress.

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Ma conviene ricordare anche che molte delle altre capacità di cui parliamo in questo libro hanno a che vedere con una buona gestione dello stress. Lo stress management, in altri termini, dipende dal potenziamento di abilità correlate come time management, assertività, efficacia comunicativa, capacità di essere sistematici e di concludere. Si tratta, in definitiva, di saper combinare gli «ingredienti» di abilità diverse, che si intrecciano e si sostengono a vicenda.

ESERCIZIO 3Stress, fronteggiamento e sostegno

Per questo esercizio, prendi un foglio di carta e dividilo in tre colonne. In cima a ogni colonna scrivi: «Fattori di stress»; «Metodi di coping»; «Fonti di aiuto». Sotto ogni etichetta elenca tutti gli esempi che ti vengono in mente. Cioè, sotto «Fattori di stress» scrivi tutte le possibili fonti di stress; sotto «Metodi di coping» elenca i diversi modi con cui puoi fronteggiare lo stress; sotto «Fonti di aiuto» scrivi le fonti di aiuto su cui puoi fare leva.Un esercizio di questo tipo può aiutarti a definire una panoramica dei problemi legati allo stress che ti trovi a dover affrontare, e può perciò aiutarti a elaborare un piano per affrontarli. Ad esempio, può aiutarti a capire che devi rafforzare la tua rete di aiuti; oppure, se ti rendi conto di avere già un buon sostegno, può aiutarti ad acquisire fiducia. Non è un esame: se hai finito le idee, sentiti libero di chiedere un parere a colleghi e ad amici.

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Capitolo quindicesimo

I colloqui

Introduzione

Prima di tutto, è necessario chiarire che il termine «collo-quio», in questa sede, si riferisce a qualsiasi discussione formale, o semi-formale, tra un operatore e uno o più utenti o tra un insegnante e uno studente o, ancora, tra un infermiere e un paziente e così via. Parliamo di «colloquio», cioè, in senso ampio, e non nell’accezione di un «colloquio di lavoro».

Un colloquio è ben altra cosa che una chiacchierata. Molte volte è lo strumento attraverso cui è possibile avviare un cambiamento nella situazione. Un buon colloquio deve essere orientato a uno scopo preciso, al raggiungimento di obiettivi specifici. Gestire bene i colloqui, pertanto, è un compito che richiede abilità elevate e che non andrebbe lasciato al caso. In questo capitolo ci occuperemo proprio delle abilità necessarie per una buona conduzione dei colloqui ed evidenzieremo al-cuni degli errori che si tendono più spesso a commettere nella pratica professionale.

Anzitutto, però, è importante soffermarsi su quello che andrebbe fatto prima del colloquio stesso.

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Prima del colloquio

Un buon colloquio si basa su un’accurata progettazione e preparazione preliminare. Prima di iniziare un colloquio, in altri termini, è meglio prendere in considerazione tutta una serie di elementi chiave.

Il tempo e il luogo

La scelta del momento giusto per fare un colloquio può rivelarsi fondamentale. In molti casi, per la verità, la tempistica di un colloquio non è poi così importante. In altri casi, però, la programmazione dei tempi può essere davvero cruciale. Nel caso di un colloquio con un minore, ad esempio, è meglio non fissare l’appuntamento all’ora del suo ritorno a casa, da scuola. Può darsi che il ragazzo abbia bisogno di riposare un po’ o non abbia ancora avuto il tempo di risistemarsi.

Il fattore tempo può essere importante anche rispetto alla durata del colloquio. Sia i colloqui brevi e affrettati, sia quelli eccessivamente lunghi possono rivelarsi inefficaci o addirittura controproducenti.

Anche l’ambiente, come abbiamo già visto, rappresenta un aspetto importante per qualsiasi forma di comunicazione. Il luogo in cui si svolge il colloquio, pertanto, può essere un elemento determinante. Quale sia il posto migliore, peraltro, dipende molto da un caso all’altro; l’importante è verificare sempre, di volta in volta, che l’ambiente in cui ci si trova sia realmente appropriato, specie nel caso di colloqui su argomenti delicati, o potenzialmente problematici.

Lo scopo

Un colloquio è, per definizione, una discussione con uno scopo preciso. È utile tenere sempre ben presente questo aspetto,

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in fase di preparazione. La chiarezza rispetto agli scopi aiuta a evitare divagazioni inutili e facilita i progressi nella direzione dei risultati auspicati.

Esplicitare gli obiettivi aiuta anche i nostri interlocutori a sentirsi maggiormente a proprio agio rispetto a quanto sta avvenendo e meno sospettosi o diffidenti nei confronti dell’o-peratore e delle sue motivazioni.

Siete le persone giuste?

Per certi tipi di colloquio è importante, se non essenziale, che ci sia un’adeguata «corrispondenza» tra chi conduce il col-loquio e il suo interlocutore, in termini di genere, o di cultura. Una donna vittima di violenza sessuale, ad esempio, potrebbe avere enormi difficoltà a sostenere un colloquio con un uomo. Un operatore può anche essere esperto nel condurre colloqui, ma se non è adatto per uno specifico colloquio è meglio sopras-sedere, onde evitare che il colloquio produca risultati negativi.

La sensibilità linguistica

In certi casi, inoltre, può essere necessario fare ricorso a interpreti. Laddove emerga un’esigenza di questo tipo, occorre considerare la situazione con attenzione. È meglio non ricorrere a un familiare, ad esempio, in un caso caratterizzato da tensioni all’interno del nucleo familiare; il rischio, in caso contrario, è di ottenere una rappresentazione deformata (in modo volontario o involontario) di quanto viene detto. Non è nemmeno il caso di ricorrere a minori, se non si vuole correre il rischio di esporli a informazioni inappropriate per loro.

Chi dovrebbe essere coinvolto?

I colloqui, di solito, si svolgono tra due persone soltanto, ma talvolta possono anche essere presenti più persone al me-

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desimo tempo. In questi casi, è importante stabilire chi debba essere coinvolto e chi no. Ancora una volta, non esiste nessuna regola «pronta per l’uso», che valga sempre. Se non si affronta la questione, d’altra parte, il rischio è che il colloquio si riveli inefficace, o che non faccia altro che peggiorare le cose. Può essere utile fare riferimento alle finalità del colloquio, per de-cidere, di volta in volta, chi sia opportuno partecipi.

I piani di emergenza

Sarebbe irrealistico predisporre un «piano d’emergenza» per ogni singolo colloquio, ma è buona norma farlo almeno in alcune situazioni. Per i colloqui più importanti, ad esempio, sarebbe un peccato non disporre di una strategia alternativa, nel caso risulti inefficace l’approccio che si aveva in mente. È quello che avviene, ad esempio, quando si presentano dei problemi imprevisti, o delle situazioni di potenziale emergenza.

Le abilità essenziali

Per condurre bene un colloquio è necessario saper appli-care, da parte degli operatori, almeno alcune abilità essenziali. Le descriviamo brevemente, una a una.

L’ascolto

Sull’importanza dell’ascolto attivo ci siamo già soffermati nel capitolo dodicesimo. Il contesto del colloquio è senz’altro uno di quelli in cui questa abilità si fa apprezzare di più. È im-probabile, infatti, che un colloquio risulti efficace se non si è in grado di ascoltare attentamente le persone che si hanno di fronte.

«Saper ascoltare» significa anche saper riconoscere i vissuti emotivi in gioco. Se una persona prova una rabbia intensa, ad

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esempio, è improbabile che riesca a fare grandi progressi, sino a che non avrà riconosciuto, o comunque affrontato, la propria emozione negativa. Altrettanto importante, per un buon anda-mento del colloquio, è la capacità di decifrare la comunicazione non verbale, ossia di saper interpretare quello che ci dice l’altra persona con il linguaggio corporeo.

L’assertività

Se vogliamo che il colloquio sia orientato a un obiettivo preciso, e che non lo perda di vista, non possiamo fare a meno di essere, in una certa misura, «direttivi». Questo non significa che dobbiamo impartire degli ordini ai nostri interlocutori. Vuol dire però che dobbiamo sempre mantenere un certo margine di controllo rispetto all’andamento del colloquio.

Dobbiamo essere, in altre parole, assertivi, per usare un’e-spressione ampiamente trattata nel capitolo quinto. Dobbiamo riuscire a realizzare una situazione in cui non c’è nessuno che perde, perché tutti hanno qualcosa da guadagnare. Si tratta di as-sumere un atteggiamento che non sia né arrogante nei confronti degli utenti, né remissivo, al punto da perdere di vista i motivi del colloquio, o gli obiettivi che perseguiamo per suo tramite.

Saper «condurre», pertanto, è un’abilità sottile. Occorre tenere sempre le redini del colloquio, senza risultare intrusivi, né prepotenti. Dobbiamo saper rispondere ai desideri, alle esigenze e ai sentimenti delle persone; senza dimenticare, però, che quel colloquio si inserisce in genere in un processo più ampio, di cui deve rispettare le finalità.

La partnership

Per riuscire a lavorare efficacemente con le persone, dob-biamo costruire un rapporto di partnership con loro. Un cam-

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biamento imposto in modo unilaterale, infatti, ha ben poche probabilità di durare a lungo, rispetto a un cambiamento con-diviso, e anzi «fatto proprio», dai diretti interessati. L’approccio cooperativo, in altre parole, è il più efficace, anche se dipende dalla nostra capacità di conquistarci la fiducia della gente e di continuare a meritarcela.

Lavorare in questo modo richiede delle abilità che non vanno sottovalutate. Benché si tratti di abilità che si svilup-pano più che altro con l’esperienza, si possono fornire alcune indicazioni di tipo operativo:

– Non bisogna mai «monopolizzare» la conversazione, che dovrebbe essere sempre un processo bilaterale.

– Occorre evitare di far dire agli altri delle cose che non han-no detto. Nel dubbio, è meglio fare loro una domanda, per sincerarsi di aver capito bene.

– Bisogna aiutare le persone a sentirsi sempre a proprio agio, in modo che siano nelle condizioni di parlare liberamente di sé.

– Dovremmo chiarire fin dall’inizio che ci teniamo molto a cooperare con la persona che abbiamo davanti e che il collo-quio non sarà mai «a senso unico».

Quello di partnership è un concetto molto importante, e sarà al centro di alcune osservazioni che svolgeremo nella terza parte del libro.

L’empowerment

C’è anche un altro concetto — già toccato nei capitoli precedenti — di cui chi è impegnato a tu per tu in un collo-quio con un’altra persona dovrebbe sempre tenere conto. È il concetto di empowerment, ovvero quella serie di modalità che mettono le persone nelle condizioni di recuperare un certo controllo della propria vita. Attraverso l’empowerment pos-

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siamo diventare meglio «equipaggiati» per affrontare i nostri problemi e realizzare gli obiettivi che ci stanno a cuore. Anche i colloqui, se ben condotti, possono contribuire a questo pro-cesso, rispetto al quale peraltro un colloquio mal gestito può provocare danni considerevoli. Nel bene e nel male, la capacità di conduzione del colloquio da parte nostra può influire non poco sull’empowerment di chi ci sta di fronte.

Al fine di promuovere l’empowerment, è importante cercare sempre di:

– non pregiudicare, e anzi — laddove possibile — rafforzare l’autostima degli utenti;

– individuare i fattori che ne ostacolano i progressi, e intra-prendere azioni dirette a superarli;

– riconoscere l’esistenza di forme di discriminazione e di oppressione, che rientrano nell’esperienza di vita di tutti noi, specie nel campo delle dinamiche interpersonali (vedi i capitoli undicesimo e ventunesimo).

I colloqui orientati all’empowerment, dunque, sono quelli che contribuiscono a valorizzare le risorse degli utenti e a su-perarne le debolezze; o, meglio ancora, a trasformare queste ultime in nuove risorse.

Uno sgUardo alla pratica 15.1

Nell’ambito del suo corso di formazione, Gianna partecipò a un gioco di ruolo, in cui doveva vestire i panni di un’operatrice che teneva un colloquio con un ipotetico utente. Il risultato non fu positivo. I supervisori le spiegarono che trovavano il suo stile di conduzione del colloquio arrogante, quasi privo di sensibilità; uno stile, insomma, che non avrebbe certo contribuito all’empo-werment dell’utente. Da parte sua, Gianna aveva sempre ritenuto di avere uno stile autorevole, da persona sicura di sé. Riguardando il filmato del colloquio, però, si rese conto che aveva quasi «monopolizzato» la conversazione, senza permettere all’altra persona di contribuire attivamente al suo svolgimento.

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L’uso della propria soggettività

I colloqui non si riducono mai al semplice esercizio di una tecnica. Al contrario, sono sensibilmente condizionati dalla personalità, dall’esperienza, dalle competenze di chi li conduce. Dipendono molto, cioè, da quanto — e da come — l’operatore investe della propria dimensione soggettiva. Potremmo scegliere, tra le altre cose, di fare degli esempi che nascono dalla nostra esperienza personale, per aiutare gli altri a comprendere una particolare situazione, o per indicare loro degli scenari alter-nativi. Questa operazione, però, presta sempre il fianco a due rischi che andrebbero assolutamente evitati:1. Il tentativo di imporre le proprie idee, o i propri valori, alla

situazione vissuta dall’altra persona, senza tenere conto delle differenze tra le rispettive esperienze di vita;

2. Il tentativo di ridimensionare i problemi degli altri, una volta messi a confronto con i nostri. Così facendo, rischiamo di trasmettere il messaggio che non prendiamo quella situazione sul serio, o che la banalizziamo.

Ciascuno di noi ha degli aspetti della propria personalità, o della propria esperienza di vita, che possono tornare utili agli altri. Riconoscere questo dato di fatto può servire a darci la fiducia in noi stessi che è indispensabile per fare buon uso di questi aspetti.

Sopportare i momenti di silenzio

Certi colloqui, specie quando affrontano questioni di grande rilevanza emotiva, possono anche richiedere dei mo-menti prolungati di silenzio. È quello che avviene, ad esempio, quando il nostro interlocutore è troppo sconvolto per parlare, o ha bisogno di una pausa di riflessione. Capita spesso, in questi momenti, che ci sentiamo profondamente a disagio. Sentiamo, magari, che spetta a noi riempire il prima possibile quel «vuoto»

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improvviso; che è compito nostro dire qualcosa — al limite qualsiasi cosa — per interrompere quel fastidioso silenzio. Nonostante la tensione che proviamo, però, è fondamentale che sappiamo resistere alla tentazione di «riempire il silenzio». Dovremmo imparare a sopportare anche i momenti di silenzio, per più di una buona ragione: – come segno di rispetto per la persona, e di sensibilità nei confronti dei suoi vissuti emotivi;

– perché, in caso contrario, rischiamo di compromettere la relazione di fiducia con il nostro interlocutore, che tenderà ad allontanarsi da noi;

– perché, infine, la capacità di sopportare i momenti di silenzio è percepita dalla persona come un segnale di sostegno nei suoi confronti.

Per quanto sia difficile da tradurre in realtà, la capacità di reggere i momenti di silenzio e di usarli a beneficio di chi ab-biamo di fronte è una competenza preziosa, che vale senz’altro la pena sviluppare.

Mantenere i confini

Le interazioni interpersonali possono avvenire su vari livelli e in «sfere di vita» diverse. Ci sono sempre, a seconda delle circostanze, delle regole sociali che definiscono i compor-tamenti più appropriati a ogni situazione. Esiste però il rischio che il colloquio, se non viene condotto con attenzione, possa trasgredire queste regole. È una «trasgressione» che può assumere tante forme diverse, tra le quali: – La violazione della riservatezza, che rappresenta — come si è visto nel capitolo precedente — una questione di grande importanza. È necessario riconoscere, però, i «confini» entro i quali essa può essere effettivamente rispettata.

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– Un aspetto importante del lavoro con le persone è dato dalla qualità dei rapporti con i nostri interlocutori. Un «buon rap-porto», però, è cosa diversa dall’amicizia, la quale può anche pregiudicare, a volte, il buon esito di un intervento professio-nale. È importante, quindi, non perdere di vista la distinzione tra semplici rapporti interpersonali e rapporti professionali.

– Gli operatori si inscrivono, generalmente, in una rete più ampia, che comprende altre figure professionali e/o volontari. C’è sempre il rischio latente che, nell’ansia di renderci utili a tutti i costi, ci facciamo carico di mansioni che spetterebbero ad altri. Il che può avere effetti negativi, sotto quattro punti di vista:1. È probabile che l’operatore a cui «togliamo il lavoro» sia

più esperto di noi nello specifico compito di cui si occupa.2. Queste «invasioni di campo» possono generare risentimenti

e ostacolare lo sviluppo delle partnership.3. Dedicare del tempo al lavoro altrui sottrae del tempo, ine-

vitabilmente, alle attività di nostra specifica competenza.4. Se svolgiamo mansioni che non siamo ufficialmente tenuti

a svolgere, non è detto che il nostro datore di lavoro o la nostra assicurazione ci possano coprire nel caso in cui qualcosa andasse storto.

La struttura del colloquio

Così come per le forme di comunicazione scritta, anche per i colloqui è bene disporre di una struttura definita. Si tratta di seguire, in linea di massima, lo stesso modello tripartito che è stato presentato a proposito delle relazioni scritte (si veda il capitolo quattordicesimo):1. La tappa introduttiva. È questa la fase iniziale del colloquio,

che spesso comprende alcune espressioni di cortesia, con l’obiettivo di aiutare le persone a rilassarsi e a calarsi nel

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proprio ruolo. È anche importante, in questa fase, esplicitare le finalità e l’oggetto specifico del colloquio. Se questi aspetti non vengono chiariti fin dall’inizio, si rischia che l’intero svolgimento del colloquio ne risulti condizionato e che si crei un clima di diffidenza tra le parti coinvolte.

2. La parte centrale. La fase intermedia è quella in cui si deve svolgere gran parte del colloquio. Nel corso di questa fase si scambiano le informazioni rilevanti e si sviluppa l’attività di problem solving. È questo lo snodo in cui si assumono decisioni, si prendono accordi, si affrontano i conflitti e si realizzano — o si interrompono — eventuali progressi.

3. La conclusione. Trarre le fila di un colloquio, quando ormai ci si avvicina alla conclusione, è un compito che richiede competenze elevate: si tratta di fare sintesi dei contenuti trattati, di stabilire che cosa potrebbe accadere nel futuro immediato (ad esempio la data e l’orario di un nuovo collo-quio), di verificare che la persona abbia compreso bene gli accordi presi, e via discorrendo. In questa fase può anche essere utile qualche frase con tono informale, da chiacchie-rata, per chiudere l’interazione.

Organizzare i colloqui in questo modo ci aiuta a non perdere di vista gli obiettivi perseguiti e contribuisce a dare professionalità al nostro operato. È importante, però, non confondere l’idea di «struttura» con quella di «rigidità». I due concetti, infatti, non coincidono. Occorre sempre un certo grado di flessibilità. Su come costruire un buon equilibrio, via via, tra struttura e flessibilità, si ritornerà nel corso del capitolo ventiduesimo.

Riassunti e feedback

Come ho già ricordato, saper fare un buon riassunto è un aspetto importante nella conclusione di un colloquio. Questa

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stessa capacità, però, può rivelarsi utile anche nelle fasi prece-denti. Saper riassumere alla persona con cui si parla gli aspetti essenziali di quello che si è detto può risultare utile per molti motivi: – per confermare all’altra persona che la stiamo ascoltando; – per far emergere le eventuali incomprensioni, o i frainten-dimenti che potrebbero essersi realizzati precedentemente;

– per chiarire meglio i punti d’accordo e di disaccordo; – per riepilogare l’andamento del colloquio nel suo insieme, evidenziando i vari fili tematici che si sono intrecciati in esso;

– per lasciare all’altra persona un po’ di tempo e di spazio per riflettere, o per rielaborare quanto le è stato detto;

– per incoraggiare la collaborazione, esplicitando un punto di vista condiviso dall’altra persona;

– per contribuire a fare sì che il colloquio non «esca dal semi-nato», sino ad andare completamente fuori tema.

Gli errori da evitare

Se è importante acquisire le abilità appena descritte, per gestire bene un colloquio, occorre anche evitare tutta una serie di errori. La stessa capacità di aggirarli rappresenta, di per sé, qualcosa di prezioso da imparare. È assai utile, quindi, com-prendere bene quali siano i rischi che si possono correre più di frequente. A tale scopo, ci accingiamo a descrivere alcuni dei classici «tranelli» in cui si può incorrere nella conduzione di un colloquio (vedi anche la figura 15.1).

Le dinamiche collusive

Berne (1968) ha descritto tutta una serie di «giochi» che si possono innescare nelle relazioni interpersonali. Tali dina-

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miche possono impedire uno svolgimento sereno e costruttivo del colloquio. In altri termini, possono ostacolare il normale svolgimento dei processi di comunicazione.

Non di rado, queste dinamiche fanno leva su un elemento «collusivo». È quello che avviene, ad esempio, quando si crea un tacito accordo tra le parti, del tipo: «Io non ho intenzione di provocarti, se tu non mi provochi». Accordi di questo genere, quasi mai esplicitati ma per nulla infrequenti, si traducono in una complessa «ragnatela» di sottili accorgimenti, basati sulla complicità di entrambi gli interlocutori. Quando questo avviene, le possibilità di realizzare un buon colloquio — in termini di collaborazione e di empowerment — si riducono notevolmente.

Fig. 15.1 Gli errori da evitare.

Dinamichecollusive

ERRORIDA EVITARE

Gergo specialistico

False rassicurazioni

Incapacità di cogliere le

implicazioni della struttura sociale

Chiacchiere a vuoto

Promesse

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L’incapacità di cogliere i risvolti della struttura sociale

Con questa espressione ci riferiamo alla tendenza a non notare, o a evitare deliberatamente, tutte le questioni legate allo «status quo» della struttura sociale. Si parla ad esempio, nel mondo anglosassone, di colour blindness — cioè di «cecità al colore» (della pelle) — per indicare l’incapacità di tenere conto delle differenze culturali e degli effetti del razzismo. Si parla altresì di gender blindness, o di «cecità di genere», quando si vuole alludere a una visione del mondo unilaterale, che pone gli uomini e il genere maschile come «unità di riferimento» della normalità, senza rivolgere attenzione ai problemi, o ai punti di vista, delle donne.

Quanti lavorano con le persone dovrebbero sempre fare attenzione a tutti i fattori strutturali che possono alimentare processi di discriminazione e di oppressione: appartenenza etnica, genere, età, disabilità, e così via. Anche in sede di collo-quio, se non si tiene adeguatamente conto di questo, si rischia di perpetuare le forme di disuguaglianza preesistenti.

Il gergo specialistico

Si è già detto più volte dell’esigenza di esprimersi sempre in modo chiaro. Un aspetto che va ancora messo in risalto, però, è rappresentato dai problemi che possono derivare dall’impiego di espressioni gergali nel corso di un colloquio. Le espressioni gergali possono senz’altro essere utili per indicare distinzioni e sfumature di tipo tecnico, che sarebbero difficili da formulare con il linguaggio colloquiale. Usate in modo inappropriato, però, tali espressioni possono ostacolare non poco la comuni-cazione tra le parti.

Occorre inoltre riconoscere che non sempre, quando fac-ciamo uso di espressioni gergali, ce ne rendiamo conto. Bastano una parola che a noi sembra semplice, o una sigla non spiegata,

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per generare confusione e diffidenza nei nostri interlocutori, se non facciamo attenzione alla differenza tra il linguaggio specialistico e quello della vita di tutti i giorni.

Le promesse

È facile cadere nella tentazione di fare delle promesse, nel corso di un colloquio. È una tentazione, però, a cui occorre assolutamente resistere. Raramente, infatti, si può avere la cer-tezza di mantenerle; d’altro canto, una promessa insoddisfatta può mettere gravemente a rischio la fiducia nei confronti di chi l’aveva fatta.

Anche le promesse più semplici non sempre possono essere mantenute, sia pure per i motivi più banali, come, ad esempio, una malattia o cause di forza maggiore. Oltretutto, molti si trovano a lavorare in un contesto di aspettative sempre più elevate e difficili da soddisfare; è senz’altro possibile che certe promesse, per quanto formulate in buona fede, debba-no poi cedere il passo a priorità di altra natura. La massima «non fare delle promesse che non potrai mantenere» è sempre d’attualità; e nel campo dell’insegnamento, del lavoro sociale, dell’assistenza sanitaria, le promesse che possiamo avere la cer-tezza di mantenere sono davvero assai poche. Di qui l’esigenza di usare grande cautela.

Le false rassicurazioni

Questo aspetto è una diretta conseguenza di quello che abbiamo appena trattato. È pericoloso dare alle persone del-le false rassicurazioni, se non vogliamo correre il rischio di comprometterne la fiducia e il rispetto nei nostri confronti. Di fronte a una persona in difficoltà, è facile cadere nella tentazione di uscirsene con una frase del tipo: «Vedrai, tutto andrà bene». Occorre che riflettiamo, però, su quello che po-

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trebbe accadere qualora le cose non andassero tanto «bene». In un momento di crisi, è comprensibile che una persona faccia profondo affidamento sulle cose che le diciamo. È importante, quindi, evitare di darle rassicurazioni infondate. Si tratta, semmai, di rassicurarla entro i limiti di ciò che è realistico (cosa che è perfettamente possibile), evitando di raccontarle falsità.

Le chiacchiere a vuoto

Del fatto che occorre essere chiari e precisi nel definire lo scopo del colloquio abbiamo già detto più volte in queste pagine. Non andrebbe mai sottovalutato, pertanto, il rischio di scivolare da un colloquio a un insieme di chiacchiere senza capo né coda. Questo non significa che non ci sia alcuno spazio, in un buon colloquio, per convenevoli o per chiacchierate informali. Significa piuttosto che questi elementi dovrebbero rimanere marginali, rispetto ai contenuti che andranno affrontati nel corso del colloquio.

Uno sgUardo alla pratica 15.2

Barbara era una studentessa in tirocinio che, tra gli altri suoi compiti, do-veva accompagnare un assistente sociale nelle sue mansioni quotidiane. Dopo la visita a una famiglia, Barbara era confusa, poiché non capiva che senso avesse il colloquio a cui aveva appena assistito. Le sembrava che tutto si fosse ridotto a una discussione generale rispetto alla situazione della famiglia, senza nessuna precisa finalità. Facendosi coraggio, Bar-bara fece presente questa sua perplessità. La risposta che ottenne, però, fu scoraggiante: «Non mi piace essere sempre irreggimentato nelle cose che faccio; preferisco prendere le cose così come vengono». Agli occhi di Barbara, quella risposta fu un’ulteriore conferma della confusione di idee e della scarsa capacità di progettare le cose dell’operatore con cui stava facendo il tirocinio.

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Conclusione

Saper condurre bene un colloquio, per chi lavora con le persone, è un’abilità fondamentale. Si tratta di un’attività che richiede, come abbiamo visto, notevoli competenze, e che presta il fianco a molteplici difficoltà. Con la pratica — tanto più se questa è orientata da principi adeguati — è possibile sviluppare e affinare le abilità che di volta in volta si rendono necessarie. Così facendo riusciremo anzitutto a evitare gli errori più gravi. Con l’esperienza, poi, potremo anche acquisire le abilità adatte a fronteggiare particolari situazioni, o compiti specifici, come tenere colloqui con adolescenti difficili, o trasmettere all’altra persona la sicurezza necessaria per convincerla ad «aprirsi».

Condurre i colloqui è uno degli aspetti della pratica pro-fessionale che racchiude le maggiori potenzialità sulla strada di un continuo miglioramento — fino a raggiungere livelli di eccellenza — e che consente, quindi, di trarre soddisfazione dal proprio lavoro.

ESERCIZIO 15Pianificare un colloquio

Quello che ti chiedo è di preparare il piano dettagliato di un colloquio, reale (che intendi effettivamente condurre) o immaginario (che serve soltanto per fare esercizio). Puoi fare riferimento al paragrafo Prima del colloquio di questo capitolo. Usa lo spazio sottostante per prendere appunti.

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