EINSTEIN S I DIXIT EPLICA AD UN INGEGNERE NUCLEARE · una mia conferenza tenuta a Roma nel 2010...

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7 EINSTEINS IPSE DIXIT. REPLICA AD UN INGEGNERE NUCLEARE «Premetto che sono un ingegnere nucleare ed ho studiato la fisica atomica e nucleare». Con queste parole iniziali l’esimio ing. Attilio Pianese mi inviava una nota di obiezione a pochi giorni di distanza da una mia conferenza tenuta a Roma nel 2010 intitolata Relativismo e pensiero debole: la perdita del fondamento. Persona colta e distinta, di grande onestà intellettuale e finezza d’animo, operativo professio- nalmente su importanti incarichi da parte dello Stato, l’ingegnere mi invitava alla prudenza: non è neanche pensabile criticare Einstein, «l’uomo del secolo» – come lo proclamò il settimanale americano Time – è fuori da ogni discussione. Da ingegnere nucleare di alto livello egli aveva toccato con mano la corrispondenza delle formule relativistiche con la sua esperienza quotidiana: tutto sembra combaciare alla perfezione. Di una cosa che funziona è forse lecito recriminare qualcosa in merito? Perché intestardirsi sulle sterili questioni di principio se le formule in mano alle menti fisico- matematiche nella pratica funzionano? Sono in fondo le stesse parole che il grande Enrico Fermi rivolse alle preoccupazioni filosofiche di Ettore Majorana: «non è il caso che due osservatori si mettano a litigare per risultati strani e paradossali» scaturenti dalla relatività di Einstein: il fatto è che funziona! Così, per spiegare all’ingegnere che la «funziolatria» – come la chiama il sottoscritto – non ha una corrispondenza biunivoca con la verità, ho fornito una mia replica toccando più di un punto epistemico scottante. «Verum sequitur ad quodlibet», dettava la logica antica e medioevale: il vero può conseguire dal falso e dal contraddittorio. Una verità lapalissiana secoli fa, diventata invece nella nostra epoca una perla perduta. Persino un

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EINSTEIN’S IPSE DIXIT.

REPLICA AD UN INGEGNERE NUCLEARE

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«Premetto che sono un ingegnere nucleare ed ho studiato la fisica atomica e nucleare». Con queste parole iniziali l’esimio ing. Attilio Pianese mi inviava una nota di obiezione a pochi giorni di distanza da una mia conferenza tenuta a Roma nel 2010 intitolata Relativismo e pensiero debole: la perdita del fondamento. Persona colta e distinta, di grande onestà intellettuale e finezza d’animo, operativo professio-nalmente su importanti incarichi da parte dello Stato, l’ingegnere mi invitava alla prudenza: non è neanche pensabile criticare Einstein, «l’uomo del secolo» – come lo proclamò il settimanale americano Time – è fuori da ogni discussione. Da ingegnere nucleare di alto livello egli aveva toccato con mano la corrispondenza delle formule relativistiche con la sua esperienza quotidiana: tutto sembra combaciare alla perfezione. Di una cosa che funziona è forse lecito recriminare qualcosa in merito? Perché intestardirsi sulle sterili questioni di principio se le formule in mano alle menti fisico-matematiche nella pratica funzionano? Sono in fondo le stesse parole che il grande Enrico Fermi rivolse alle preoccupazioni filosofiche di Ettore Majorana: «non è il caso che due osservatori si mettano a litigare per risultati strani e paradossali» scaturenti dalla relatività di Einstein: il fatto è che funziona! Così, per spiegare all’ingegnere che la «funziolatria» – come la chiama il sottoscritto – non ha una corrispondenza biunivoca con la verità, ho fornito una mia replica toccando più di un punto epistemico scottante. «Verum sequitur ad quodlibet», dettava la logica antica e medioevale: il vero può conseguire dal falso e dal contraddittorio. Una verità lapalissiana secoli fa, diventata invece nella nostra epoca una perla perduta. Persino un

L'articolo è stato pubblicato in "R.V. Macrì (a cura di), I fondamenti della Relatività. I punti critici del pensiero di Einstein", YCP, Lecce 2016, pp. 17-37
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orologio guasto e fermo – si diceva una volta – segnala per ben due volte al giorno l’ora giusta. «Ma in virtù di un duplice mancamento – ammoniva il vescovo e filosofo irlandese George Berkeley (1685–1753) – voi arrivate, sebbene non alla scienza, alla verità». Dinanzi alla mia replica la reazione dell’ingegnere fu meravigliosa: ammise con grande umiltà e nobiltà d’animo di non aver mai pensato che le “variazioni sul tema” potessero essere così tante e così grandi. Si vide di fronte un panorama molto più ampio di quanto potesse immaginare. Ma la sua grandezza d’animo si manifestò appieno quando mi esortò a rendere pubblico questo nostro carteggio, al fine di poter essere utilizzato con profitto da altri: «Le sue opinioni possono essere certamente utili e costruttive per una scienza più consapevole: sarà mia cura cercare di approfondirle anche attraverso i suoi libri». Ringrazio di cuore l’ingegner Pianese, il quale ci lascia un insegnamento socratico importante: la conoscenza non ha mai fine. Questo volume è il frutto della ricerca socratica incessante e della consapevolezza che, come Socrate stesso affermò nella sua Apologia scritta da Platone, «una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta».

Nota del 7 novembre 2010 dell’Ing. Attilio Pianese:

«Le scrivo qualche riga perché non ritengo che sia sostenibile affermare che la teoria della relatività non è vera. Vi sono fenomeni del mondo particellare che possono essere spiegati solo assumendo le correlazioni derivate dalla teoria di Einstein, ed inoltre una gran quantità di risultati sperimentali può essere interpretata, in modo sufficientemente esaustivo solo facendo uso della teoria della relatività. Ad esempio si consideri la radiazione beta, (come esemplificazione un fascio di elettroni accelerati all'interno di un tubo a raggi x), che interagendo con la materia (il bersaglio di tungsteno dell'apparecchio) perde energia (e produce i raggi x inviati al paziente). Gli elettroni perdono energia, come noto, per due fenomeni: perdita per collisioni con gli atomi e perdita di energia per irraggiamento. I coefficienti che descrivono i fenomeni, sono chiamati

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rispettivamente potere frenante lineare da collisione, e potere frenante lineare per irraggiamento, e rappresentano l'energia perduta dalla radiazione per unità di percorso. I valori di tali coefficienti possono essere ricavati sperimentalmente, o giustificati da modelli teorici in funzione dell'energia dell'elettrone. Un modello chiamato “semiclassico” ma che contiene la correzione relativistica, consente di interpretare abbastanza bene ed in modo relativamente semplice i suddetti dati sperimentali. La teoria matematica completa, si può trovare sul libro di Ugo Amaldi “Fisica delle Radiazioni” al capitolo 8, ed è evidente la presenza delle correzioni relativistiche per le lunghezze ed i tempi che si riflettono nel fattore relativistico, che compare nelle relative formule matematiche (ad esempio formule VIII-17 ed VIII-22 del libro di Amaldi).

Un altro fenomeno che le cito riguarda l'interazione della radiazione elettromagnetica gamma con la materia. Potrei far riferimento anche qui ai coefficienti di trasferimento di energia di massa (simbolo �tr /�) o all'analogo coefficiente di assorbimento di energia di massa (indicato con �en /�), la cui conoscenza è fondamentale ad esempio per gli schermaggi, in quanto anche per giustificare l'andamento con l'energia di tali coefficienti si ricorre o alla meccanica quantistica o a modelli classici con correzioni relativistiche. Sarei però in definitiva ripetitivo. È interessante invece osservare che uno dei fenomeni principali delle interazioni dei raggi gamma con la materia è l'effetto di materializzazione di coppie ossia la formazione, in presenza di un campo elettrico nucleare, di due elettroni, uno positivo e uno negativo, equivale dire la formazione di due masse che prima non esistevano, a spese dell'energia del quanto gamma. Tale effetto, tipicamente relativistico ci spinge a riflettere sul concetto di massa, che la teoria della relatività modifica integrandolo con quello di energia, e conducendo più esattamente ad una perfetta equivalenza delle due grandezze secondo la famosa equazione: E=mc2 .

Anche qui i fenomeni del mondo particellare confermano la teoria relativistica, inoltre le esperienze sulla fissione e sulla fusione controllata hanno dimostrato che vi è una differenza tra le masse dei composti iniziali e quelle dei prodotti finali della reazione nucleare, e che la differenza tra

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le suddette masse coincide con l'energia sviluppata dalla reazione secondo la surrichiamata equazione di Einstein. In definitiva una gran quantità di fenomeni e di dati confermano la validità della teoria della relatività. Si consideri inoltre che secondo il metodo galileiano la “bontà” di una teoria sta proprio nella sua capacità di interpretare i fenomeni fisici ed i dati sperimentali, più che in una sua perfetta consequenzialità logica, che non manca peraltro nella teoria della relatività, almeno per quanto a me noto e riportato sui libri. In conclusione ritengo che le sue affermazioni, sulla teoria della relatività, almeno come le ha rivolte in assemblea nella passata conferenza, siano state quanto meno affrettate ed azzardate».

Replica del 19 novembre 2010 del presente autore:

Egregio Ingegnere, ho letto con attenzione la Sua nota riguardo alle mie considerazioni critiche sulla teoria della relatività di Einstein espresse durante la mia conferenza sul tema del Relativismo, nota che mi è stata inoltrata tramite e-mail dal gent.mo e coltissimo Don Mario Pio. Le Sue perplessità non solo sono giustificate, ma non suscitano in me alcuna sorpresa o meraviglia: anzi, erano in un certo senso attese. Si ripete ormai da anni questo rituale di chiarificazione allo scandalo suscitato dall’«Einstein è in errore» che lo studioso accademico accusa di primo acchito in interventi critici sulla Relatività come il mio: non ci hanno insegnato a scuola e all’università che Einstein è l’autorità più indiscussa e intoccabile nel campo della fisica? Non ci hanno forse fatto “toccare con mano” la quantità smisurata di esperimenti che confermano le sue formule? Lei nella Sua nota ha toccato, da ingegnere nucleare, i noti fenomeni di Stopping Power e Bremsstrahlung, dove all’interno di alcune espressioni matematiche compare il familiare fattore relativistico, per poi ribadire la centralità nella fisica nucleare della famosa equazione E=mc2, equazione che ha reso Einstein leggendario, e che viene confermata quotidianamente in tutti i centri di sperimentazione particellare, dal Fermilab di Chicago al Cern di Ginevra – dove si ottiene tra l’altro, come Lei giustamente sottolinea, la formazione di coppie elettrone -

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antielettrone (e addirittura protone - antiprotone) a partire dalla radiazione gamma (cioè massa a spese dell’energia) – oltre che dai ben noti effetti delle Bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki. L’amico Silvio Bergia, insigne professore di Relatività e Epistemologia e Storia della Fisica all’Università di Bologna, suole far sentire, a questo riguardo, l’entità della sperimentazione relativistica in una frase lapidaria e “cruenta”: «Un milione di conferme sperimentali all’anno»! Non si dovrebbe, allora, restare intimoriti dalla mole, dalla precisione dei risultati, dalla raffinatezza della sperimentazione adottata? E non si dovrebbe, dunque, ammettere con il noto fisico Clifford Will che la Relatività è fuori discussione – «beyond a shadow of a doubt» – e con il premio nobel Wolfgang Pauli che «la cosiddetta relatività ristretta è oggi un capitolo chiuso»? Non dovremmo forse essere compatti con scienziati del calibro di Paul Davies e John Gribbin quando scrivono che «ci sono persone che credono che sia solo una teoria… ma sono in errore», che in realtà la Relatività – similmente alla teoria di Darwin – non è una teoria ma «è un fatto»? E seguendo il grande Isaac Asimov non dovremmo ammettere che «nessun fisico che sia sano di mente potrebbe mai dubitare della validità della Relatività», cioè che in fondo dubitare della teoria di Einstein – come scrive Gribbin – sarebbe come credere che «la terra possa essere piatta» o meglio ancora, come scrive il fisico Tullio Regge, che «la probabilità che un dubbio su tale teoria possa essere accolto è la stessa che avrebbe un dubbio sul sistema copernicano»?

Anzi, e qui viene il bello, rigirando la frase appena citata di Regge si dovrebbe ammettere per onestà intellettuale che se un giorno, per assurdo, la Relatività dovesse crollare, allora sarebbe ragionevole dubitare persino della assolutezza della teoria copernicana! Quel giorno potrebbe essere l’inizio di una nuova rivoluzione scientifico-filosofica, all’interno della quale potrebbero nascere nuovi dubbi su gran parte delle teorie fisiche e matematiche che sono state “tronizzate” a Regine nella nostra epoca: dai numeri immaginari ai transfiniti di Cantor, dalle geometrie non euclidee agli iperspazi cronotopici, dalla meccanica quantistica all’elettrodinamica e

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cromodinamica, dalla cosmologia contemporanea alla teoria delle stringhe. Naturalmente Lei mi dirà, caro ingegnere, che un tale fantomatico giorno rimane nei versi di una possibile fiaba, in una favola stile Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, in uno degli infiniti universi paralleli ritenuti possibili dalla scienza ufficiale dei nostri giorni.

Eppure, se volesse accettare la mia “provocazione”, potrebbe levare il camice da ingegnere per un istante, per percepire la scena da un piano differente attraverso la “pupilla del filosofo”: scorgerebbe allora le molteplici possibilità che la mente ha di parametrizzare il reale, di “appiccicare” formule ad ogni angolo fenomenico, di come sia possibile creare teorie «intellettualmente poco soddisfacenti cercando l’accordo alla settima cifra decimale con i dati sperimentali!» (René Thom), di come «un accordo numerico può non bastare se non è corretto il significato della predizione teorica con cui gli esperimenti concordano» (Franco Selleri) o, per dirla con le parole del premio nobel Richard Feynman, di come «MANY PHYSICAL PICTURES CAN GIVE THE SAME EQUATIONS»!

Significherebbe liberarsi dal collare di Matrix per un attimo lungo un’eternità, per usare la metafora del celebre film fantascientifico del 1999, per potersi guardare intorno senza condizionamenti, per scrollarsi di dosso la perfida logica del «funziona!» e – con le parole di Benedetto XVI – «andare oltre il positivismo e l’esperimento».

È, in fondo, quanto mi è accaduto una trentina di anni fa durante la lettura di un libro scritto da un meraviglioso scienziato italiano: da accanito sostenitore di Einstein, completamente affascinato dalla tematica fino ad aver divorato intere collane di libri già prima della maggior età, mi ritrovai con la salvifica “pulce nell’orecchio”; il dubbio si impossessò di me in modo lento e inesorabile e, goccia dopo goccia, lungo lustri di ricerche e combattimenti – proprio come la scena del “risveglio” di Neo dalla condizione di larva nel film appena citato – potei “risvegliarmi” dal sonno dogmatico di kantiana memoria, cioè dal condizionamento subito dal pensiero scientifico imposto

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dall’establishment della nostra epoca, dalla Weltanschauung dominante che ci si trova a «succhiare con il latte materno» (frase di Einstein) già dal primo stadio piagetiano, quello sensomotorio. Mi accorsi allora della profondità delle parole di Cartesio e di come fosse vera la riflessione di Benedetto Croce.

Cartesio, in effetti, era convinto che la maggior parte delle persone, studenti e docenti compresi, «spesso si astengono dall’esaminar molte cose [...] poiché stimano che possano esser comprese da altri forniti di maggior intelligenza, abbraccian[d]o il parere di coloro sulla cui autorità maggiormente confidano» (Regulae ad directionem ingenii). Così, come al tempo di Pitagora, la selezionata classe degli “esperti” della nostra epoca – dei mathematicoi – viene innalzata sull’Olimpo di coloro che “sanno ma non si esprimono”, mentre l’ammassato gruppo degli acousmaticoi – cioè coloro che ascoltano – si accascia ai bordi delle corsie preferenziali del pensiero scientifico, affidandosi ciecamente ai cosiddetti “esperti”: una sorta di filosofia del rimando «di cui sono preda non solo tanti studenti, ma anche tanti docenti» (U. Bartocci - R.V. Macrì, Il linguaggio della matematica). Ed ecco il richiamo a Benedetto Croce: «La maggior parte dei professori hanno definitivamente corredato il loro cervello come una casa nella quale si conti di passare comodamente tutto il resto della vita. Da ogni minimo accenno di dubbio vi diventano nemici velenosissimi, presi da una folle paura di dover ripensare il già pensato e doversi rimettere al lavoro. Per salvare dalla morte le loro idee preferiscono consacrarsi, essi, alla morte dell’intelletto».

Come sarebbe possibile per un docente universitario di Relatività entrare nella spirale del dubbio mettendo a rischio la sua carriera? Prendiamo come esempio paradigmatico la vicenda di Herbert Dingle, esperto riconosciuto di spettroscopia e professore di Storia e Filosofia della Scienza a Londra, il quale combatté fin dagli anni ‘50 un’epica battaglia contro più di un aspetto della teoria della relatività. La sua eredità è conservata in quel prezioso testo del ’72 (Science at the Crossroads) che non finiremo mai di apprezzare, dove, tra critiche argute

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alla teoria di Einstein e descrizioni minuziose di comportamenti socio-accademici alquanto sleali della stessa collettività scientifica, racconta l’ostracismo di cui fu fatto oggetto quando si decise a rendere pubbliche le proprie obiezioni. «In particolare egli trovò che illustri fisici aventi posizioni di responsabilità nella comunità scientifica si rifiutarono di appoggiare la sua campagna di ‘smascheramento’ della relatività, pur ammettendo di non aver mai capito molto della teoria» (Marco Mamone Capria). Insomma, Dingle riuscì a far uscire allo scoperto le crepe di un pensiero basato su un’apparente erudizione scientifica dietro l’involucro del formalismo matematico, realizzando così la conferma che “il re è nudo”. Da qui il passo è breve per una reale comprensione del perché «gli studenti sono stati educati, consciamente o inconsciamente, a credere che criticare la relatività ristretta sia un sicuro segno di ignoranza, per non dire di stupidità, da parte del critico» (Herbert Dingle). «La difficoltà è una moneta che i sapienti usano, come i giocolieri di passamano, per non scoprire la vanità della loro arte, e con la quale l’umana stoltezza si lascia appagare facilmente» (Michel De Montaigne).

A questo punto, volendo, potrei terminare qui questa mia replica alle Sue obiezioni e rimandarLa alla lettura dei miei seguenti lavori, dove troverebbe ogni risposta alle questioni trattate: 1) Cent’anni di Relatività. Un punto di vista filosofico, «Sapienza», LIX, 4, 2006; 2) Che cos’è il tempo? Bergson, Maritain, Dingle a confronto con Einstein, «Sapienza», LXI, I, 2008; 3) I FLOP nella trattazione relativistica del tempo, in La natura del tempo, a cura di Franco Selleri, Ed. Dedalo 2002; 4) Da Duhem a Feyerabend - Il messaggio che l’epistemologia lancia alla scienza, «Vertigo Fil Rouge», Anno 1, N. 2, 2009. Ma così facendo rischierei di fare la fine dell’accademico che non ha tempo e voglia di “rimboccarsi le maniche”, che teme di scendere nei particolari per poter restare più “oscuro” e, quindi, più trincerato nelle sue posizioni. Scendiamo dunque volentieri nei particolari, sapendo di fare cosa gradita anche ad altri possibili lettori meno esperti, anche se certo non potremo esaurire tutta la problematica in qualche paginetta. Si tratta allora di selezionare gli argomenti per importanza

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ed elencare qui almeno i punti cruciali ineludibili.

[1] La perfida logica del «funziona!». Credo che non si possa anteporre nulla, in ordine di importanza, a questo punto capitale. Mi capita a volte di invidiare la forma mentis dell’ingegnere: egli non ha bisogno di vagliare la veridicità della teoria che sta dietro le formule. Per impiegare la sua genialità ha bisogno in effetti solo di queste ultime, insieme alla loro applicabilità al reale-concreto, al piano dell’empiria, come usava denominarlo Jacques Maritain. «Datemi un’equazione e vi ricostruirò il mondo!» potrebbe esclamare l’ingegnere, parafrasando la famosa frase di Archimede. Il successo della formula non deve però indurlo nell’errore di credere di poter invertire il ragionamento. «Visto che la formula funziona allora significa che la teoria che le sta dietro è corretta»: questa è un’inferenza tanto diffusa quanto fallace, che la logica medioevale aveva saputo tuttavia arginare. Le errate applicazioni del modus ponens e del modus tollens, così denominate da secoli, sono alla base degli errori della scienza moderna, come dimostra il famoso esperimento di Wason (1966). In un articolo di Owen Gingerich (L’affare Galileo, «Le Scienze», n. 170, ottobre 1982), professore emerito di Astronomia e Storia della Scienza all’università di Harvard, troviamo riportata un’osservazione di questo tipo sul ragionamento che Galileo avrebbe usato a conferma della natura eliocentrica del sistema planetario: 1) se il sistema planetario è eliocentrico Venere presenta le fasi; 2) Venere presenta le fasi; 3) perciò il sistema planetario è eliocentrico. La struttura sillogistica di questo ragionamento è la seguente: [se p allora q], � [q quindi p] : niente di più errato! Ma è un fatto che ci cadano tutti, scienziati compresi. L’inferenza giusta, chiamata in termini medioevali Modus tollens, è la seguente: [se p allora q], � [‘non q’ quindi ‘non p’]. Esiste una serie di esperimenti ormai classici ideati da Wason che dimostrano come “l’errore di Galileo” sia comunissimo nelle inferenze di persone di ogni tipo e cultura. Ma il problema della “funziolatria” epistemologica è ancora più esteso. Si chiedeva il nostro Maritain già nel ’23: «Saprà

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essa [l’intelligenza comune] comprendere, che una teoria e delle formule possono perfettamente combaciare o coincidere coi fatti, senza darci, per ciò, il reale fisico in se stesso?» Oggi sappiamo che Maritain aveva ragione. Dopo gli studi di pensatori e filosofi come Duhem, Poincaré, Hanson, Popper, Kuhn, Lakatos, Quine, Feyerabend, sappiamo che una teoria scientifica può essere falsa e funzionare “perfettamente”! A questo punto non posso fare altro, ingegnere, che invitarLa a leggere un mio piccolo lavoro: Da Duhem a Feyerabend - Il messaggio che l’epistemologia lancia alla scienza, «Vertigo Fil Rouge», Anno 1, N. 2, 2009, e a tenere presente che l’acclamato successo della teoria di Einstein per via del funzionamento delle sue formule, dopo quanto abbiamo detto, è ingiustificato, visto che le stesse vengono alla luce non solo da altre teorie alternative (ad esempio, quella di Lorentz-Poincaré, come è dimostrato dai numerosi e meritevoli lavori dell’amico Franco Selleri), ma anche da innumerevoli altre mai formulate.

[2] La “funziolatria” dirachiana. Fa parte ormai della mentalità scientifica comune che, «le grandi teorie raramente sono semplici» (Michael Polanyi) e per comprenderle, ci assicura il premio nobel Paul Adrien Maurice Dirac, «c’è bisogno di un livello davvero elevato nella conoscenza della matematica». «La scienza moderna si fonda quasi per intero sulla matematica» (John Barrow). Raffinati modelli matematici hanno assunto la guida non solo durante la creazione dei modelli fisici, ma addirittura durante il relativo processo ermeneutico, ridando splendore a Pitagora e all'affermazione del suo discepolo Filolao: «Senza il numero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché». «La cultura occidentale è caratterizzata da una sorta di mito della matematica, dalla fede, forse dovuta a Pitagora, in una sua virtù esplicativa e quasi trascendente. A molte persone, descrivere in termini matematici una struttura sintattica o delle relazioni di parentela sembra già una “spiegazione” sufficiente» (J.P. Changeux - A. Connes, Pensiero e materia). In effetti, c’è un motivo potente sotto la

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“divinizzazione” della la matematica nella nostra epoca: usando le parole del premio nobel Eugene Wigner, esiste una «irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali». In altri termini, funziona! Non sappiamo perché, ma funziona. Diventa un problema invece chi deve assumere la guida nella fisica: la matematica o la teoria/modello? Dirac non ha alcun dubbio: «Il più potente metodo di avanzamento che può essere suggerito oggi è quello di impiegare tutte le risorse della matematica pura, nel tentativo di perfezionare e generalizzare il formalismo matematico che costituisce la base esistente della fisica teorica, e, dopo ogni successo in questa direzione, di tentare di interpretare le nuove forme matematiche in termini di entità fisiche». Ecco come si consuma, in conclusione, il più importante dei «Four Outstanding Errors» analizzati da Dingle: il «mastery, instead of the servitude, of mathematics in relation to physics». Appare, cioè, sottovalutato nella nostra epoca il pericolo di una matematica “cabalistica” che – usando i termini di Bacone – «generi» e «procrei» la scienza stessa. Dirac è stato il promotore, più di ogni altro, di questa tendenza contemporanea nella scienza. Le sue parole appaiono paradigmatiche: bisogna «scoprire prima le equazioni e poi, dopo averle esaminate, gradualmente imparare ad applicarle». Non è quello che sta succedendo, ad esempio, nella Teoria delle stringhe? Non stiamo forse costruendo una «Physics in the shadow of Mathematics», come sottolinea Pyenson? D’altra parte, come armonizzare queste affermazioni con quella autorevole di un matematico come Bertrand Russell?: «La matematica può essere definita come la materia nella quale non sappiamo mai di che cosa stiamo parlando, né se ciò che stiamo dicendo è vero».

[3] La tecnologia come test di verifica della teoria. L’aspetto strumentalistico-previsionale delle teorie scientifiche nell’orizzonte efficientista e pragmatista dell’epoca contemporanea porta al risultato di convogliare le invenzioni e le scoperte tecnologiche sotto il vincolo di inconfutabilità parentale con le teorie madri, cioè come prova

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evidente della bontà del modello scientifico in vigore. Qui, spesso, la forma mentis dell’ingegnere – come quella del fisico in generale – cade in errore. Scrive un noto fisico italiano in una corrispondenza privata del 27.11.2001: «Che la meccanica quantistica funzioni è dimostrato dal fatto che Lei riceve questo messaggio in posta elettronica (come pensa che si sarebbero potuti costruire i circuiti integrati senza una quasi completa comprensione della struttura della materia?). Che la relatività funzioni è dimostrato dai malati curati con la TAC, PET e altre simili meravigliosi strumenti (come pensa che si sarebbe potuto farlo senza una buona comprensione della fisica nucleare?)». Qui il termine “funziona” è visto come prova evidente della bontà (veridicità) delle due teorie fisiche (MQ e Relatività). Si tratta di un errore grossolano ed estremamente diffuso. Spesso è dovuto ad un vero e proprio analfabetismo nel campo della storia del pensiero scientifico. All’interno del Credo dello scienziato, così come dell’uomo di strada, esiste una stretta relazione tra teoria e scoperta tecnologica. Ad esempio, la maggior parte delle persone – scienziati compresi – credono che esista un rapporto di causa ed effetto tra la teoria di Dirac e la scoperta delle antiparticelle, la teoria di Einstein e la scoperta e costruzione della bomba atomica, la teoria di Heisenberg e la scoperta e costruzione del laser, e così via… Niente di più falso! La tecnologia e le teorie scientifiche viaggiano su due binari paralleli. L’una non traina l’altra. È vero, però, che esistono momenti di “interazione” tra i due binari, dove l’una fa da “coadiuvante” all’altra e viceversa. Su questo punto sarebbe opportuno (e urgente) scrivere un intero libro (in effetti ci sto pensando da parecchio…); tuttavia, nell’attesa, non sarebbe male sfogliare quello di un grande storico, Federico di Trocchio, Le bugie della scienza. Come e perché gli scienziati imbrogliano, Milano 1993.

[4] L’analfabetismo filosofico. A mio modesto avviso, una parte considerevole della problematica che abbiamo toccato va imputata, al progressivo impoverimento filosofico della classe degli scienziati (dove

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sta il corso di filosofia nel piano di studi di fisica?), ad un analfabetismo così “sferico” da far pensare a «un indebolimento e un generale decadimento della ragione» (J. Maritain, Antimoderno. Maritain ha denunciato con enfasi e in più passaggi il dramma di come si sia oramai arrivati al punto di non saper «più tirar la conclusione di un sillogismo». Scrive il grande pensatore francese: «Il mondo moderno produce e consuma una straordinaria quantità di derrate intellettuali. Non ci sono mai stati tanti autori, tanti professori, tanti ricercatori, tanti laboratori e strumenti, tanto talento, tanta carta. Ma se vogliamo stimare le cose dalla qualità, e non dal peso, si vedrà ciò che esso in realtà è, e si rimarrà spaventati dalla diminuzione dell’intelligenza. L’Intelligenza in senso comune, l’agilità nell’agitar parole, è ben presente, e regna; ma l’intelligenza vera è soltanto una mendicante scacciata da ogni luogo». Tant’è che secondo la profonda analisi di Maritain bisogna addirittura difendere la stessa ragione dal contagio dominante della scienza: «Qualche anno fa ci si divertiva a dire: Difendi la tua pelle contro il tuo medico. Il mondo moderno è costretto ora di dire a se stesso, e con maggior ragione: Difendi la tua ragione contro gli scienziati»). In altri termini, quello che manca negli attuali curricola scientifici è – per dirla con le parole di Jacques Maritain – la «mancanza di solida base filosofica», che a sua volta avvelena quel «clima di interesse reciproco fra fisici e filosofi che oggi sicuramente non c’è – almeno dei primi verso i secondi» (Marco Mamone Capria). È chiaro che per un ingegnere ciò non è essenziale. Lo stesso Richard Feynman afferma: «La ricchezza filosofica, la facilità, la ragionevolezza di una teoria sono tutte cose che non interessano». Ma, d’altra parte, non si può pensare di avere il quadro completo della situazione guardandolo dal solo punto di vista funzionale. Il grande Ettore Majorana aveva già analizzato con profondità la questione, scrivendo con amarezza: «Intanto le scienze, specializzatissime, ritengono di non aver da preoccuparsi minimamente di tali questioni [le basi concettuali, i fondamenti] che con disprezzo dichiarano psicologiche. Né hanno da preoccuparsi di questioni logiche e di problematiche filosofiche». E ancora: «Quel ch’è certo è che i nostri docenti non colgono mai l’essenziale delle questioni e infilzano un teorema dietro l’altro, senza minimamente preoccuparsi di chiarire criticamente quel che di mutante sta avvenendo nella concezione della scienza moderna. Ma se andassi a esporre queste cose all’Università,

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potrei solo fare, se ne avessi il coraggio, la fine di Boltzmann: suicidarmi». «C’è nella filosofia della scienza d’oggi quasi un’immensa diffidenza della natura. Forse, direbbe Federico Nietzsche, un nuovo spirito apollineo che ha paura della verità naturale, e vuole costruire qualcosa di puro, di razionale, di immateriale, per cui il rigore logico, la dimostrazione matematica, il calcolo sublime darebbero la misura del vero. In questo modo si riduce il problema della scienza a mera costruzione ipotetico-deduttiva, la quale conduce a conclusioni necessarie e forzose sulla base di asserzioni ipotetiche ritenute sicure e incontestabili». Diceva Platone che «chi vede l’intero è filosofo, chi no, no», contrariamente al sentire contemporaneo, il quale sembra voler spezzare in modo tanto deciso quanto irresponsabile il nesso storico ed epistemologico tra scienza e filosofia, dimenticando che la prima è figlia della seconda: «La filosofia e la scienza sono assai più intimamente legate che non credano gli scienziati che disprezzano la prima e i filosofi che ignorano la seconda», scrive uno dei rari fisici non deprivato delle conoscenze filosofiche (A. Garbasso, Scienza realistica).

[5] La presunta monoliticità della scienza. Generalmente i manuali scientifici presentano la Scienza come lineare e monolitica. Ma chi studia storia e filosofia della scienza sa bene che una tale visione della realtà assomiglia più ad una favoletta per bambini che non ad una verità indiscussa. Il noto epistemologo Thomas Kuhn si è sforzato di spiegare (ma gli scienziati sembrano essere sordi da questo lato) che una siffatta rappresentazione è solo l’immagine “volgare” di una Scienza monolitica e solida nella sua marcia, quando invece – basta una occhiata alla Storia – non lo è. Basterebbe leggere il suo capolavoro, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, per comprendere che le cose non possono essere dispiegate in modo semplicistico su un fazzoletto, come pretenderebbe – nell’ammaestrarci – la comunità scientifica. E si noti che Kuhn non era “semplicemente” un filosofo: ha iniziato la sua carriera come fisico (ottenne la laurea in fisica nella prestigiosa università di Harvard con lode nel 1943, la specializzazione

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nel 1946 e il Ph.D. nel 1949), motivo d’orgoglio per il padre ingegnere, per poi allargare il suo angolo di visuale e di analisi indagatrice, finendo col diventare insigne professore di filosofia all’università di Princeton prima e al MIT di Boston successivamente. La storia della Scienza è molto più articolata e “sfrangiata” rispetto alle semplificazioni dei manuali. Prendiamo, ad esempio, la favola-mito della rivoluzione copernicana riportata in tutti i manuali: si legge che c’era una volta un orco cattivo – ma ingenuo, superficiale e cadente – chiamato “Sistema Tolemaico”, castigato dai tre cavalieri Copernico-Keplero-Galileo – non ingenui, non superficiali – i quali diedero all’orco una lezione di precisione e “scientificità sperimentale”, confinandolo nel popperiano Mondo 3 delle teorie malconce e decadute. Questo è quanto l’inconscio collettivo ha recepito durante i secoli. Adesso mi permetta ingegnere, per contrasto, indirizzarLa alla lettura del lodevole lavoro dell’amico Umberto Bartocci, docente di Geometria II e Storia delle Matematiche all’università di Perugia, dove riuscirà a toccare con mano l’asimmetria “ufficiale – non ufficiale” di quanto stiamo dicendo: Una rotta templare alle origini del mondo moderno, Capitolo XV: Dove si discute del “caso Galileo”, e si cerca di comprendere se, date le conoscenze dell’epoca, le differenze tra il sistema tolemaico e quello copernicano fossero tali da giustificare, sotto il profilo esclusivamente scientifico, tanta accesa polemica, (pure U. Bartocci - L. Rossi, La scienza come strumento ideologico - Il caso Galilei e la falsificazione della cosmologia tolemaica, «Episteme», 4, 2001), oppure alla magistrale lezione di Owen Gingerich, autorità indiscussa in questo campo: Four Myths of the Copernican Revolution, 3 Nov. 2007, University of Michigan, dove Gingerich riesce ad evincere di come il quadro imposto di una scienza che procede per esperimenti, prove e confutazioni sia un inganno: la Scienza avanza attraverso una ricercata coerenza sul piano delle teorie, coerenza che può sempre essere smontata o superata dalla successiva. Di esempi “contrastanti” come questi si potrebbero cercare in ogni angolo e campo della scienza; per stare all’interno del nostro tema di partenza consiglierei il seguente, sempre del prof. Bartocci: Albert Einstein e Olinto De Pretto - La vera storia della formula più famosa del

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mondo. A tutto questo c’è da aggiungere una nota di capitale importanza: nonostante la comunità scientifica appaia come omogenea e compatta, è solo un involucro di facciata. All’interno dell’alveare costituito dai cervelli dal camice bianco si hanno contrasti, scontri e battaglie incessanti, opinioni divergenti, modi di vedere incommensurabili. Ecco perché il premio nobel Max Planck, stanco di sentirsi spinto qua e là dal vento vorticoso all’interno della comunità, ad un certo punto “sbuffa” con queste parole: «Una nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori e facendo loro vedere la luce, ma piuttosto perché i suoi oppositori alla fine muoiono, e cresce una nuova generazione che è abituata ad essa». Riguardo alla teoria di Einstein potrei aggiungere una lista interminabile di scienziati che si sono opposti o che non la hanno digerita: Lorentz, Poincaré, Michelson, Larmor, Silberstein, Dingle, Severi, Enriques, Giorgi, Ettore e Quirino Majorana, … se volessimo soffermarci solo su alcune figure gigantesche. Solo che i loro pensieri sono stati “resettati” dalla comunità. Cerchiamo, per fare un esempio, di ridare voce al “file cancellato” di Ettore Majorana: «Il mio giudizio sulla coerenza dei ragionamenti di Einstein in fatto di cinematica relativistica è piuttosto negativo…»; «Io so che dovrò rivedere radicalmente le false idee esposte da Einstein a fondamento della Relatività Ristretta…». D’altra parte era consapevole del rischio che comportava avere una tale opinione: «Certe cose, oggi, non si possono dire esplicitamente! […] Einstein gode di un tale sicuro prestigio che nessun dubbio può essere sollevato circa la giustezza delle sue impostazioni concettuali, senza correre il rischio di dover essere considerato un improvvisatore». Ecco perché molti scienziati contemporanei che avrebbero qualcosa da insegnare ad Einstein devono procedere mascheratamente, come Cartesio (il cui motto era «larvatus prodeo»). Fra i tanti, mi piace ricordare qui il maestro indiscusso dei fisici italiani, l’amico Gianfranco Cavalleri, insigne docente di Relatività all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. Non potendo ufficialmente opporsi alla concezione einsteiniana dominante, è riuscito ad “assemblare” la sua teoria con

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quella di Einstein, come se la prima fosse un semplice perfezionamento della seconda. Altri hanno pagato a loro spese l’opposizione all’“ipse dixit”, come capitò a Louis Essen (1908-1997), l’inventore dell’orologio atomico, che perse il Nobel per aver fatto due lavori antirelativistici. E che dire dell’amico Roberto Monti, fisico e ricercatore di alte capacità, uno dei cervelli più indipendenti che esistano sul pianeta, costretto a lasciare la Ricerca della fisica italiana per aver osato opporsi alle idee di Einstein?

[6] La mancata consapevolezza della nostra miseria. Più che ad ogni altra cosa, nella mia vita devo essere grato alla lunga esperienza come programmatore informatico. Chi, come me, scrive programmi utilizzando un linguaggio di programmazione sa bene quanto sia fallace la mente umana e come venga continuamente “bacchettata” dalla macchina, in modo inesorabile e impietoso. Non c’è alcun modo di vincere con il computer: si può essere sicuri quanto si vuole, ma dopo un centinaio di linee di programma – diciamo dopo aver progettato e costruito una subroutine o procedura – la macchina ti segnala l’ineluttabile errore alla riga xyz del codice. E anche dopo anni, lustri, decenni di programmazione, dopo che hai fatto decine e centinaia di programmi, l’errore è ancora lì, dietro l’ultimo enter, al click del comando RUN! Eppure ci sono momenti in cui ti senti sicuro, sicurissimo: scommetteresti qualunque cosa che questa volta il programma funzionerà al primo colpo! Ma l’elaboratore pare fatto apposta per smentirti, per farti rientrare nella tua miseria di essere umano non-onnipotente: come se ti volesse ricordare che sei affetto dal peccato originale, che sei prigioniero dell’“errore vagante”. Errare humanum est dicevano i Latini, una proprietà che risulta più ontologica che epistemologica dopo quanto detto. Lo storico della scienza George Dyson, figlio del grande fisico Freeman Dyson, riporta la significativa testimonianza di uno dei pionieri del computer, Maurice Wilkes, durante la verifica di un programma a Cambridge: «Fu in uno dei miei tragitti fra la stanza dell’EDSAC e i dispositivi per

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la perforazione, mentre indugiavo all’angolo delle scale, che mi resi conto improvvisamente e appieno che avrei passato buona parte del resto della mia vita a trovare errori nei programmi che io stesso scrivevo». Lo stesso Dyson ammette: «Da tempo i programmatori hanno abbandonato la speranza di prevedere se una certa porzione di codice funzionerà effettivamente come previsto». Questa è la “lezione di vita” che un programmatore impara dall’interazione con la macchina. Lezione, ahimè, sconosciuta dallo scienziato. E quanto ne avrebbe bisogno! Ecco da dove viene, allora, l’apparente sicurezza e spavalderia dell’uomo di scienza che si fa garante della correttezza della teoria di Einstein o della teoria di Darwin o di altre ancora. Gli innumerevoli errori di previsione che abbiamo pagato a caro prezzo, dalla vicenda del Titanic fino al disastro ambientale dei nostri giorni attraverso lo sversamento massivo di petrolio nelle acque del Golfo del Messico dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon non sono serviti a molto. Nella sua mente lo scienziato sente di essere una sorta di divinità, il suo potere baconiano lo rende ubriaco: «L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono», ci ricorda il salmo 49. Eppure, sotto il suo camice sovente si nasconde un bambino. Il celebre fisico Erwin Schrödinger, in un brillante saggio del 1948 dal titolo La natura e i Greci, porta alla luce «il grottesco fenomeno di menti allenate scientificamente, di gran competenza, che hanno vedute filosofiche incredibilmente infantili, non sviluppate o atrofizzate». Ma già nel 1768 il grande matematico Eulero aveva messo in guardia l’opinione pubblica, scrivendo che «in generale la grandezza dell’ingegno non garantisce mai dall’assurdità delle opinioni abbracciate». Ecco i “cocci” che rimangono una volta tolto il camice, come ci fa vedere un grande ammiratore di Einstein: «Verso la fine della sua vita confessò che i suoi legami personali più forti, compresi quelli con la moglie e i figli, erano stati altrettanti fallimenti. Quando la figlia che la sua seconda moglie Elsa aveva avuto da un precedente matrimonio – quella stessa Ilse che un tempo aveva pensato di sposare – morì di cancro a Parigi nel 1934, alla verde età di trentasette anni, si rifiutò di accompagnare la moglie a Parigi per

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assisterla. La giovane prima moglie, Mileva Maric, morì da sola a Zurigo, disperatamente infelice, senza essersi riconciliata con l’uomo che l’aveva abbandonata. La figlia che Einstein aveva avuto da lei, Lieserl, nata prima del matrimonio, sparì nelle brume del tempo. Il suo primo figlio, Eduard, un bambino dotato, fu colpito da schizofrenia e fu rinchiuso in una clinica psichiatrica, dove rimase per il resto della sua vita, senza che il padre gli facesse mai visita. Il suo secondo figlio, Hans Albert, rimasto sempre lontano dal padre, non ebbe rapporti col genitore nemmeno dopo essere emigrato anche lui in America. Infine, anche il secondo matrimonio di Einstein, come il primo, fu un fallimento, anche se gli fornì almeno un esile radice in un’esistenza del tutto sradicata» (Palle Yourgrau, Un mondo senza tempo). Se lo scienziato potesse riconoscere la propria umana miserabilità, la parzialità della sua mente, allora potrebbe esclamare con Pascal: «L’uomo è grande poiché si riconosce miserabile». Lo strascico di tale vulnerabilità e debolezza non può non contagiare ogni parte della nostra esistenza, compresa la scienza. Abbiamo davanti un caso paradigmatico: John von Neumann, «uno dei più grandi matematici del nostro secolo». Il nobel Eugene Wigner lo ha descritto come «la mente più brillante mai conosciuta su questa Terra»! Nel suo libro I fondamenti matematici della meccanica quantistica del 1932 egli presenta una lucida formulazione della teoria che diventerà un fermo punto di riferimento «per tutti coloro che ritengono il rigore logico e matematico un ingrediente irrinunciabile di ogni schema che aspiri ad avere dignità scientifica» (Gian Carlo Ghirardi, Un’occhiata alle carte di Dio). Sulla scia delle ricerche di Bohr, Heisenberg, Pauli, Born, Jordan e Dirac che permettevano di edificare un imponente edificio teorico basato su una concezione positivistica e pragmatistica della fisica, von Neumann esibisce la dimostrazione matematica che il programma delle teorie a variabili nascoste è condannato a fallire, vale a dire che nessuna teoria predittivamente equivalente alla meccanica quantistica può assegnare a tutte le osservabili valori precisi (anche se non conosciuti . La “impossibility proof” «assunse ben presto (grazie all’immenso prestigio del suo autore) il ruolo di un dogma che venne

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usato dai paladini dell’ortodossia contro gli “eretici”: risulta perfettamente inutile che vi affanniate a cercare qualcosa che “ipse (von Neumann) dixit (cioè dimostrò)” non essere possibile». Per più di trent’anni, il teorema di impossibilità di von Neumann, venne considerato come esempio emblematico di teoria matematicamente formalizzata, perfettamente scientifico e coerente. Ne era garante il matematico celebre per «la sua velocità di pensiero e la sua memoria… tanto leggendarie che Hans Bethe (premio Nobel per la fisica nel 1967) si chiese se esse non fossero la prova di appartenenza ad una specie superiore»: «Von Neumann fu un bambino prodigio: a sei anni conversava con il padre in greco antico; a otto conosceva l’analisi; a dieci aveva letto un’intera enciclopedia storica; quando vedeva la madre assorta le chiedeva che cosa stesse calcolando; in bagno si portava due libri, per paura di finire di leggerne uno prima di aver terminato» (P. Odifreddi). Poi qualcuno aprì gli occhi, come ci racconta il prof. Franco Selleri: «Il FLOP più famoso è quello del teorema di J. von Neumann che “dimostrava” l’impossibilità di una riformulazione causale della meccanica quantistica. Formulato nel 1932, il teorema era matematicamente rigoroso, ma aveva una fondamentale debolezza di impostazione (insufficiente generalità degli assiomi) che ha dovuto aspettare le ricerche di Bohm e Bell (1966) per essere smascherata. Per più di trent’anni c’era una buca logica, ma nessuno se n’era accorto! E tuttavia il grande prestigio di von Neumann, aiutato dalle esplicite dichiarazioni di altri grandi personaggi, ottenne in pratica, per molto tempo, il risultato di proibire l’attività scientifica nella direzione della causalità e del realismo. Ecco dunque dei fattori extralogici al lavoro, in accordo con la tesi di Macrì. Quando Bohr, Heisenberg, Born e Pauli dichiaravano che il teorema di von Neumann rendeva impossibile un completamento causale della teoria dei quanti, andavano al di là di ciò che comprendevano razionalmente, altrimenti avrebbero visto i gravi limiti del teorema. Le loro affermazioni nascevano dalla convenienza e non da un processo logico ineccepibile. Oggi il teorema è superato e il re è nudo…» (Franco Selleri, La natura del tempo). Non possono mancare, a questo punto, le parole di un grande

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filosofo dei nostri tempi, il compianto Carmelo Ottaviano: «Non dispiacerà al candido lettore che io cominci questo articolo con una confessione di carattere personale, e vorrei aggiungere umano, con l’espressione cioè di una delusione, una delle più singolari della mia vita. [...] Ora la delusione di cui dicevo mi è stata causata da quella categoria di persone che nella nostra lingua sono chiamati “scienziati”, cioè cultori della matematica e della fisica. [...] Per quanti ne abbia conosciuti e frequentati, salvo pochissime eccezioni, quante asserzioni infondate, quanto dogmatismo nei punti di partenza, quanta pertina-cia nell’affermare, quante conclusioni arbitrarie e ingiustificate, quanti salti di deduzione, quante contraddizioni tra l’uno e l’altro settore di idee! Pare proprio che l’abito deduttivo procuri una specie di cecità mentale, di meccanicità del pensare, per cui i suoi cultori finiscono con l’acquistare la duplice deformazione professionale di non riuscire a sottoporre a critica i postulati da cui partono e di non riuscire a sistemare tutte le loro idee in un quadro armonico. Per questo li ho veduti sempre abbandonarsi ad affermazioni di cui non danno la dimostrazione, e ad asserzioni in un settore che fanno a pugni con le asserzioni di un altro settore. Né a questo quadro fa eccezione Alberto Einstein [...] Con ogni rispetto parlando, par di sentire parlare un bambino...».

Sarò lieto di incontrarLa alla mia prossima conferenza, ingegnere, dove potrò rispondere in modo “più tecnico” ad ogni Sua domanda o perplessità.

Cordiali saluti Rocco Vittorio Macrì