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1 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018 in questo numero Comunità audaci e creative Editoriale di Michele Gianola Audaci e creativi, allora! Spinti dal coraggio di credere che il braccio del Signore non si è rattrappito e che se è capace di cavare figli di Abramo dalle pietre saprà rendere anche le nostre comunità luoghi rinnovati di Vangelo. Con la nostra risposta più o meno ge- nerosa, perché ‘vocazione’ non riguarda soltanto il suo sorgere, ma tutta la vita. “È il Signore” (Gv 21,1-25) di Giuseppe De Virgilio Il contributo sulla figura del «discepolo amato» rilegge in chiave vocazionale le due unità che compongono Gv 21,1-23, a cui segue la seconda conclusione del Vangelo (21,23-25). Il primo raccon- to riguarda la pesca straordinaria (Gv 21,1-14) il secondo racconto (21,15-22) si pone in evidenza la conferma della missione di Simon Pietro e la permanenza del discepolo amato nella vita della Chiesa nascente. Imparare dai giovani di Dario Vivian Siamo sicuri che vogliamo imparare? Non si tratta solo di veri- ficare l’atteggiamento profondo, con il quale ci si pone in ascolto dei giovani. Come succede anche in altri ambiti e con altre persone, troppo spesso diciamo di ascoltare e invece lasciamo parlare. Incontrare i giovani dove sono di Alberto Gastaldi “Accompagnare i giovani richiede di uscire dai propri schemi pre- confezionati, incontrandoli lì dove sono, adeguandosi ai loro tempi e ai loro ritmi”: questa affermazione del Documento Preparatorio (DP III.1) al Sinodo ci presenta con chiarezza la vera sfida di una pa- storale che desidera accompagnare i giovani a una pienezza di vita, leggendo con profezia i “segni dei tempi”, senza temere di mettersi in discussione. I linguaggi della pastorale di Elio Santaniello Una chiesa audace non può non essere anche creativa! Se la Chiesa, infatti, vuole ringiovanire il proprio volto, deve riscoprire la creatività nel dire Dio, riscoprire l’audacia dell’annuncio dell’amore di Dio Questo numero della Rivista è a cura di Maria Mascheretti

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Editorialedi Michele Gianola

Audaci e creativi, allora! Spinti dal coraggio di credere che il braccio del Signore non si è rattrappito e che se è capace di cavare figli di Abramo dalle pietre saprà rendere anche le nostre comunità luoghi rinnovati di Vangelo. Con la nostra risposta più o meno ge-nerosa, perché ‘vocazione’ non riguarda soltanto il suo sorgere, ma tutta la vita.

“È il Signore” (Gv 21,1-25)di Giuseppe De Virgilio

Il contributo sulla figura del «discepolo amato» rilegge in chiave vocazionale le due unità che compongono Gv 21,1-23, a cui segue la seconda conclusione del Vangelo (21,23-25). Il primo raccon-to riguarda la pesca straordinaria (Gv 21,1-14) il secondo racconto (21,15-22) si pone in evidenza la conferma della missione di Simon Pietro e la permanenza del discepolo amato nella vita della Chiesa nascente.

Imparare dai giovanidi Dario Vivian

Siamo sicuri che vogliamo imparare? Non si tratta solo di veri-ficare l’atteggiamento profondo, con il quale ci si pone in ascolto dei giovani. Come succede anche in altri ambiti e con altre persone, troppo spesso diciamo di ascoltare e invece lasciamo parlare.

Incontrare i giovani dove sonodi Alberto Gastaldi

“Accompagnare i giovani richiede di uscire dai propri schemi pre-confezionati, incontrandoli lì dove sono, adeguandosi ai loro tempi e ai loro ritmi”: questa affermazione del Documento Preparatorio (DP III.1) al Sinodo ci presenta con chiarezza la vera sfida di una pa-storale che desidera accompagnare i giovani a una pienezza di vita, leggendo con profezia i “segni dei tempi”, senza temere di mettersi in discussione.

I linguaggi della pastoraledi Elio Santaniello

Una chiesa audace non può non essere anche creativa! Se la Chiesa, infatti, vuole ringiovanire il proprio volto, deve riscoprire la creatività nel dire Dio, riscoprire l’audacia dell’annuncio dell’amore di Dio

Questo numero della Rivista è a cura di Maria Mascheretti

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Rivista bimestrale a cura dell’Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni

N. 6 ANNO XXXV NOVEMBRE/DICEMBRE 2018

Pubblicazione a carattere scientifico - proprietà e edizione Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da SienaCirconvallazione Aurelia, 50 - 00165 Roma

Redazione:Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioniVia Aurelia, 468 - 00165 Roma Tel. 06.66398410-411 - Fax 06.66398414e-mail: [email protected] www.vocazioni.chiesacattolica.it

Direttore responsabileMichele Gianola

Coordinatore editorialeMaura Trolese

Coordinatore del Gruppo redazionaleGiuseppe De Virgilio

Gruppo redazionaleMarina Beretti, Roberto Donadoni, Carmine Fischetti, Donatella Forlani, Alessandro Frati, Antonio Genziani, Maria Mascheretti, Francesca Palamà, Cristiano Passoni, Giuseppe Roggia, Pietro Sulkowski

Segreteria di RedazioneMaria Teresa Romanelli, Salvatore Urzì, Ferdinando Pierantoni

Realizzazione graficaMediagraf Lab - Noventa Padovana (PD)

StampaMediagraf spa - Viale della Navigazione Interna, 8935027 Noventa Padovana (PD)Tel. 049.8991563 - Fax 049.8991501

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editor ia le

Una CHIESA audace e creativa Michele Gianola, Direttore UNPV-CEI

Audentes fortuna iuvat. Una de-clinazione decisamente più biblica dell’espressione di Virgilio mi sembra di poter riconoscere nell’esortazione paolina che invita ad annunciare la Parola, ad insistere al momento op-portuno o meno opportuno, ad esor-tare con larghezza d’animo (cf. 2Tim 4,2) perché mossi da quel coraggio di chi è mosso da quella sicurezza di sé – l’audacia, appunto – che nel no-stro caso non viene da noi, ma dalla Parola stessa che abbiamo da annun-ciare. Sembra di sentire l’invito di Gesù rivolto a Pietro: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca» (Lc 5,4). È la parola risuonata a conclusio-ne del grande giubileo del Duemila «che ci invita a fare memoria grata del passato, a vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al futuro: “Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8)» (Giovanni Paolo II, Novo Millenno Ineunte, 1).

È interessante questo imperativo che si coniuga prima al singolare e poi al plurale. C’è il compito di Pie-tro e la collaborazione degli apostoli: è lui a prendere il largo, ad andare dove l’acqua è profonda, ad allon-tanarsi dalla riva ma sono anche gli altri che devono calare le reti perché

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editor ia leUna chiesa aUdace e creativa

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la salvezza, l’opera di Dio è da compiersi insieme. «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastora-le del ‘si è sempre fatto così’. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità […]. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui fratelli e specialmen-te sulla guida dei Vescovi, in un saggio e realistico discernimento pastorale» (Francesco, Evangelii Gaudium, 33). Audacia e creativi-tà sono disposizioni da coltivare personalmente e si infiammano soltanto nel rimanere a contatto con il tizzone incandescente della Parola di vita e nel fuoco della carità; acquistano fecondità duratura purificandosi nel crogiuolo della comunione, in quel processo tal-volta lento e sempre faticoso della vera condivisione della vita.

«Purtroppo, in alcune parti del mondo i giovani stanno lascian-do la Chiesa in gran numero. Capire i motivi di questo fenomeno è cruciale per andare avanti. […] I giovani desiderano vedere una Chiesa che sia una prova vivente di ciò che insegna e testimoni l’autenticità della strada verso la santità; sapere che i modelli di fede sono sia autentici che vulnerabili fa sentire anche i giovani liberi di essere tali» (Assemblea Presinodale, 18-24 marzo 2018). Audaci e creativi, allora! Spinti dal coraggio di credere che il braccio del Si-gnore non si è rattrappito e che se è capace di cavare figli di Abramo dalle pietre saprà rendere anche le nostre comunità luoghi rinno-vati di Vangelo. Con la nostra risposta più o meno generosa, perché ‘vocazione’ non riguarda soltanto il suo sorgere, ma tutta la vita.

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“È il Signore” (Gv 21,1-25)

il DISCEPOLO AMATO e la testimonianza che resta

Giuseppe De Virgilio

Docente di Sacra Scrittura alla Pontificia Università della Santa Croce e Coordinatore del Gruppo redazionale di «Vocazioni» - Roma.

doss ier

La quinta e ultima tappa del nostro itinerario giovanneo ci porta sulle rive del lago di Genezaret, nel periodo successivo alla set-timana pasquale degli avvenimenti pasquali. La nostra atten-

zione si ferma su Gv 21,1-25, ritenuto un «prezioso supplemento»

del quarto Vangelo1. Come il solenne prologo inaugura il racconto

giovanneo (1,1-18) così l’appendice di Gv 21 conclude la narrazio-

ne e allo stesso tempo introduce la missione post-pasquale della

comunità ecclesiale. In quest’ultimo capitolo spicca con maggiore

evidenza la figura del «discepolo amato» e il suo ruolo testimoniale

dopo la risurrezione di Cristo.

Lo scenario che caratterizza questo capitolo è il lago di Ga-

lilea, luogo geografico e insieme teologico, da cui ha avuto inizio

la predicazione del Signore e la chiamata dei primi discepoli nei

racconti sinottici (cf. Mc 1,16-20). La dimensione vocazionale si co-

1 Quest’ultimo capitolo del Vangelo giovanneo (Gv 21) fu probabilmente ag-giunto dopo la morte del «discepolo amato». Secondo diversi commentatori il quarto Vangelo ha conosciuto una doppia edizione nel giro di pochi anni. In un primo momento è circolata un’edizione più breve durante la vita del testimone Giovanni. Dopo la sua morte il racconto è stato ampliato, con l’aggiunta di altri elementi della sua testimo-nianza divenuti particolarmente importanti per la comunità, rimasta orfana della figura che l’aveva generata. A ben vedere, molte tematiche che caratterizzano la narrazione giovannea sono riprese in Gv 21 secondo prospettive parzialmente nuove. La ragione è data dalle mutate circostanze in cui si è trovata la comunità verso la fine del I secolo d.C.; cf. R. E. Brown, Giovanni, Cittadella, Assisi 1979, 1341-1434; R. FaBris, Giovanni, Borla, Roma 2002, 1045-1065.

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niuga con quella testimoniale, ponendo in evidenza Simon Pietro e il «discepolo amato» come due figure principali della tradizione ecclesiale delle origini.

Ricominciare

Il capitolo 21 è composto di due unità caratterizzate dal raccon-to del pasto sulla riva del lago e dal successivo dialogo con Simon Pietro2. In queste due scene si riprendono alcuni temi fondamentali della predicazione di Gesù. La prima scena mostra i discepoli nella loro missione, con la presenza del Signore in mezzo a loro, e cul-mina nell’Eucaristia (vv. 1-14). La seconda scena riabilita Pietro e il suo ministero pastorale, fondato sull’amore e sulla sequela (vv. 15-19), armonizzandolo con il ruolo del discepolo amato, testimone dell’amore (vv. 20-23). La finale (vv. 24-25) riprende Gv 20,30-31 e identifica il discepolo amato con l’autore del Vangelo3. L’intenzionalità teologica e spirituale dei due racconti va compresa nell’orizzonte della comunità giovannea, chiamata a declinare il messaggio evangelico nelle nuove frontiere dell’evangelizzazione.

• Infruttuosità

L’appendice del Vangelo giovanneo si apre con il motivo della pesca infruttuosa nello scenario del lago di Tiberiade (Gv 21,1; cf. Lc 5,1-11) affermando che Gesù risorto «si manifestò» ai suoi di-scepoli4. I commentatori hanno interpretato questa singolare scena, densa di simbolismi, come una delle più suggestive rivelazioni cri-stologiche del Vangelo5. Gesù si rivela come Signore risorto, che ac-compagna la prima comunità nella faticosa «pesca», le dà coraggio, apre prospettive feconde di evangelizzazione e la unifica mediante

2 Circa le problematiche letterarie delle fonti di Gv 21, cf. Brown, Giovanni, 1367-1371.

3 Cf. G. segalla, Il «discepolo che Gesù amava» e la tradizione giovannea, «Teolo-gia» XIV (1989) 217-244; V. Mannucci, Giovanni. Il vangelo narrante, Dehoniane, Bologna 1997, 229-232.

4 Il verbo phaneoô (= manifestare) fa da cornice all’intera pericope (cf. vv. 1.14).

5 Tra i veri simboli segnaliamo: il gruppo di sette discepoli, l’azione del pescare, la barca, il mare, la rete, il pane, il pesce, il pasto; cf. M. Marcheselli, I pasti di Giovanni luoghi di rivelazione: il messia a Cana e il risorto sul lago, «Parola Spirito e Vita» 1 (2006) 133-148; id., «Avete qualcosa da mangiare». Un pasto, la comunità, il Risorto, EDB, Bologna 2006.

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il pasto eucaristico. Il racconto si apre nel segno di una pesca in-fruttuosa, sterile, deludente. Anche dopo la Pasqua i discepoli spe-rimentano le difficoltà del quotidiano e devono imparare il coraggio di ascoltare e di riconoscere il Cristo in ogni situazione della vita. In primo piano si colloca la figura di Simone Pietro e il suo coraggio di ricominciare con la forza dello Spirito ricevuto nel Cenacolo (Gv 20,19-23).

Egli prende l’iniziativa di andare a pescare (21,3) e coin-volge i suoi compagni nel lavoro notturno, che però non por-ta frutto (cf. Lc 5,5: «abbiamo faticato tutta la notte e non ab-biamo preso nulla»). Mentre sta sorgendo l’alba, che segna il limite tra la notte e il giorno, Gesù si fa presente (il verbo indica «stare in piedi»; cf. Gv 20,19.26) sul litorale del lago e rivol-ge loro la parola: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?» (v. 5). Alla risposta negativa dei discepoli, che non ancora conoscono l’i-dentità dell’interlocutore, il Risorto suggerisce: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (v. 6). I sette discepoli ascoltano, eseguono il comando e rivivono la prima obbedienza vocazionale di Pietro (cf. Lc 5,5). Quell’obbedienza porta un frutto straordinario, impensabile. L’evangelista descrive l’incapacità dei pescatori di tirare su la rete per la grande quantità di pesci che erano stati presi. Infrut-

tuosità, sterilità, incapacità segnano i li-miti dell’esperienza umana dei discepoli, confermando che quello che sta accaden-do non dipende dalle loro possibilità ma dalla potenza operante del Cristo risorto.

• E’ il Signore!

Possiamo immaginare cosa dev’essere balenato nel cuore del gruppo di pescatori nell’ammirare l’abbondanza del loro lavoro al sorgere del nuovo giorno. Lo stupore interiore trova risposta nell’e-sclamazione del «discepolo che Gesù amava», il quale dice a Pietro: «E’ il Signore» (v. 7). E’ il punto di arrivo del cammino della fede pasquale. Quel «discepolo amato» che ha appoggiato amabilmente il suo capo sul petto di Gesù (Gv 13,25) e, qualche ora dopo, l’ha vi-sto illividire sulla croce con il cuore trafitto dalla lancia (19,25-37), è lo stesso discepolo che nel sepolcro vuoto «vide e credette» (20,8)

Infruttuosità, sterilità, incapacità segnano i limiti

dell’esperienza umana dei discepoli

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e che nel nostro racconto diventa il primo testimone della «presen-

za» del Risorto nel quotidiano impegno della comunità cristiana.

Nella dinamica del dono inatteso, il disce-

polo amato annuncia la presenza del «do-

natore» che attende di incontrare i suoi

amici. Il Signore non li abbandona nella

sterilità. Egli si rivolge a Simon Pietro e gli

affida una testimonianza che sgorga dal suo

cuore «contemplativo». Il narratore pone

in evidenza le due figure principali: il giovane contemplativo che dà

testimonianza e l’adulto che ascolta e risponde con il coinvolgimen-

to della sua vita. Alla testimonianza del discepolo amato risponde

prontamente l’azione di Simon Pietro che «si strinse la veste attor-

no ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare» (v. 7), mentre

gli altri discepoli vennero con la barca trascinando la rete piena di

pesci (v. 8).

• Venite a mangiare

La narrazione culmina nel doppio invito del Risorto: prendere un

po’ del pesce pescato e partecipare al pasto preparato da Gesù e condi-

viso sul litorale (vv. 10-11). Unitamente alla figura del discepolo amato,

spicca il ruolo di «Simon Pietro»: egli ha voluto raggiungere il Cristo a

nuoto, gettandosi in acqua e ora sale sulla barca e «da solo» trae a terra

la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. Annota l’evangelista: «E

benché fossero tanti, la rete non si squarciò» (v. 11). La scena è densa

di simbolismi che hanno dato adito a numerose ipotesi interpretative 6.

Occorre notare la «compresenza» di due diversi cibi che compongono

il pasto sulla riva: il cibo preparato dal Risorto e il pesce appena pesca-

to, offerto da Pietro (cf. lo stesso schema narrativo è attestato in Gv 6)7.

Con un pranzo nuziale Gesù manifesta la sua gloria e dà inizio ai segni

miracolosi (Gv 2,11) e con un pasto finale il Signore chiude la rivela-

6 Cf. Brown, Giovanni, 1355-1359; 1369-1371; R. schnackenBurg, Il vangelo secon-do Giovanni, III, Paideia, Brescia 1981, 597-598; Marcheselli, I pasti di Giovanni luoghi di rivelazione: il messia a Cana e il risorto sul lago, 136-138.

7 Cf. Marcheselli, I pasti di Giovanni luoghi di rivelazione: il messia a Cana e il risorto sul lago, 138-143.

Nella dinamica del dono inatteso, il discepolo amato

annuncia la presenza del “donatore” che attende di

incontrare i suoi amici

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zione pasquale, donando ai suoi discepoli l’ultimo segno8.

Tra i motivi emergenti dal racconto va annoverato il profondo messaggio eucaristico, nel quale culmina il cammino di fede nel Signore che si manifesta ai suoi discepoli9. La condivisione del cibo porta a compimento la testimonianza pasquale della presenza del Risorto nella comunità10. Pietro e il «discepolo amato» svolgono un ruolo complementare e rappresentativo della Chiesa delle origini. La pesca incarna il simbolo dell’evangelizzazione, mentre i discepoli nella barca rappresentano i credenti che condividono le fatiche e le speranze della missione salvifica rivolta a «tutti i popoli»11. La pericope si conclude con la chiara consapevolezza che Cristo risorto si stava rivelando al loro cospetto (v. 13) ed era già la terza volta che questo accadeva (v. 14). Le peculiarità di tale scena consta della prefigurazione eucaristica, che sigilla la presenza del Risorto nella vita e nella missione della Chiesa12.

Mi ami di più?

• Il momento della verità

Dalla pesca e dalla successiva scena eucaristica, l’evangelista in-serisce un secondo episodio centrato sul dialogo personalissimo tra Gesù e Simon Pietro (vv. 15-19). L’episodio ha come finalità narra-tiva la riabilitazione della figura petrina, dopo l’esperienza del rin-negamento (Gv 18,15-18.25-27). Anche in quel contesto era pre-sente il «discepolo amato», che aveva aiutato Simone ad entrare nel cortile del sommo sacerdote (18,15-16). Ora però il discepolo amato rimane sullo sfondo del racconto e l’attenzione si concentra

8 Ibidem, 146-147.

9 «La testimonianza del discepolo amato (v. 7a) per quanto chiaramente recepi-ta dal gruppo, non basta da sola: perché il riconoscimento di Gesù Signore sia completo (v. 13) resa ancora un tratto da percorrere nell’itinerario del gruppo in quanto tale» (Marcheselli, 139).

10 Un analogo motivo della presenza del Risorto e del cibo da condividere è atte-stato in Lc 24, 36-49.

11 E’ questo uno dei significati da conferire al simbolismo numerico dei pesci.

12 Cfr. X. léon duFour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, I, San Paolo, Cinisel-lo Balsamo (MI) 1990, 331.

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sul dialogo struggente tra il Risorto e Simon Pietro. E’ il Signore che

lo «chiama» a rispondere al suo amore senza ritardi13.

Nel racconto della passione Simon Pietro si era già tirato

indietro durante la lavanda dei piedi (Gv 13,8), come nel contesto

dell’arresto egli aveva rinnegato il suo maestro. Ora è arrivato il

momento della verità, la domanda centrale della sua vocazione e

missione: «mi ami tu più di costoro?»14.

• Amare e voler bene

Alle tre domande di Gesù seguono tre risposte di Simon Pietro,

il quale viene confermato nella sua missione pastorale. La doman-

da verte sull’amore (agápē) e la risposta contiene un impegno non

ancora pieno (philéō: «voler bene»). Alcuni studiosi fanno notare la

funzione dialettica dell’intreccio tra due verbi: per due volte Gesù

domanda un amore con il verbo agapáō (= amare in modo oblativo)

e Simon Pietro dà il suo assenso di sola ami-

cizia, mediante il verbo philéō (= amare in

modo amichevole). In realtà Gesù chiede a

Pietro un amore totale, il dono intero della

vita. Nel suo sguardo c’è tutta l’attesa di una nuova esistenza che

diventa testimonianza di amore infinito. Nella terza volta è Gesù

a utilizzare per prima il verbo philéō e la risposta di Simon Pietro,

amareggiato dalla terza insistente richiesta, è insieme riconoscimen-

to della propria debolezza e desiderio di un «si» pieno. La pienezza

dell’amore di Cristo riempie anche la debolezza del fragile «voler

bene» di Pietro. Amare è dare la vita (Gv 15,13) e vivere fino in fon-

do la propria vocazione, che è il frutto dell’elezione di Dio (15,16).

13 Cf. E. Bianchi, Il ritorno di Pietro, «Parola Spirito e Vita» 2 (1990) 195-197.

14 La domanda «mi ami tu più di costoro» (v. 15: agapâs me pléon toúton) gram-maticalmente può essere intesa in tre sensi: al neutro, con valore dimostrativo («mi ami più di queste cose?»); al maschile, con valore soggettivo («mi ami più di quanto tu ami i discepoli»); al maschile, con valore soggettivo («mi ami più di quanto questi discepoli mi amano?»).

Gesù chiede a Pietro un amore totale, il dono intero della vita

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• Seguimi

La metafora del pastore e del gregge già annunciata in Gv 10,1-17 e ripresa nella passione (cf. Mt 26,31; Gv 13,36) ora viene ap-plicata a Pietro. Egli deve pascere il gregge senza paura di donare se stesso a Dio e ai fratelli. Il suo passato è completamente perdonato: dall’evento della risurrezione inizia una nuova esistenza, segna-ta dal passaggio dalla morte alla vita. Gesù rivela al suo discepolo come dovrà donare la sua vita: lasciandosi guidare dalla volontà di Dio ed imitando «fino alla fine» (Gv 13,1) il suo Signore. Il Risorto chiede a Simon Pietro di essere servo di tutti, fino al giorno in cui «altri lo condurranno dove lui non vuole» per rendere gloria a Dio nel martirio. In tal modo Gesù annuncia a Pietro il suo destino, assi-curandogli il sostegno. Il «Seguimi» finale sigilla la conferma di una vocazione che ricomincia dalle rive dello stesso lago che lo aveva visto iniziare la sequela!

• Il discepolo che rimane

I vv. 20-23 ritraggono la figura di Simon Pietro in relazione a quella del «discepolo che Gesù amava». Il riferimento al ricordo della cena e al gesto del capo chinato sul petto (v. 20) permette di collegare

il racconto della passione all’esperienza della Chiesa post-pasquale. Il «discepolo che rimane» rappresenta il modello della fede e dell’attesa della venuta del Risorto. Egli rimane non come personaggio stori-co, ma come figura esemplare e attuale,

che testimonia la fede autentica, ricca di speranza e carica di attese. Dopo il martirio di Pietro, la comunità giovannea mantiene la memo-ria del discepolo amato e soprattutto ne valorizza la sua testimonian-za, precisando il senso del suo destino (v. 23).

Testimoni…fino alla fine

I vv. 24-25 chiudono il capitolo con il motivo della «testimo-nianza» (martyría). Il discepolo che Gesù amava è presentato come il garante dell’autentica testimonianza del Vangelo. Si tratta di una figura che fa da ponte tra la storia di Gesù e il cammino della prima

Il «discepolo che rimane» rappresenta il modello della fede e dell’attesa

della venuta del Risorto.

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Chiesa che vive l’uscita da se stessa e la missione universale. La sua

attualità oggi interpella le nostre comunità15. Si possono evidenzia-

re tre aspetti conclusivi che riassumono l’intero percorso proposto

sulla figura giovanile del «discepolo amato».

• Il giovane e il discernimento vocazionale

La parabola narrativa del discepolo amato va dall’iniziale incon-

tro vocazionale alla testimonianza di fede in Cristo crocifisso e ri-

sorto. L’esperienza del giovane consiste nel seguire Gesù, aprire un

dialogo con lui, fare tesoro della «sua dimora» e decidere di lasciare

tutto per avventurarsi con Cristo sulle strade dell’evangelizzazione

fino al compimento del progetto di Dio nella Pasqua. L’approfondi-

mento de testi biblici evidenzia un cammino pedagogico che sostie-

ne il processo di maturazione di fede dei giovani e del discernimen-

to vocazionale. Alla luce dei segni compiuti da Gesù e soprattutto

degli insegnamenti ricevuti, il giovane discepolo interiorizza non

solo il contenuto del messaggio rivelato, ma impara a condividere

l’amicizia profonda con Cristo e il suo stile oblativo, che lo porta a

scoprire il suo progetto di amore.

• Il giovane e la condivisione della fede

Il percorso interiore del giovane discepolo è centrato sulla pro-

gressiva rivelazione del Figlio e sulla scoperta del volto amorevole

e misericordioso di Cristo. Uno dei temi nodali del Quarto Vange-

lo è rappresentato dal processo dinamico del credere. La fede au-

toreferenziale e precettistica è incarnata da quel gruppo di Giudei

che si oppone a Cristo e alla missione di salvezza (cf. Gv 5,10-18;

8,12-50). Rifuggendo ogni forma di chiusura e di rigidità, il gio-

vane si apre all’ascolto della Parola nella consapevolezza che solo

l’amore di Cristo può trasformare il cuore umano e guarirlo dal

di dentro. In tale prospettiva si coglie l’importanza della trasmis-

sione della fede, che deve coinvolgere l’intera comunità cristiana.

15 Cf. sinodo dei VescoVi - XV asseMBlea generale ordinaria, I gio-vani la fede e il discernimento vocazionale, Instrumentum laboris (15.06.2018), nn. 175-177.

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12 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

Giuseppe De VirGiliodoss ier

• Il giovane e la testimonianza di una nuova vita

Un ultimo aspetto emergente dalla lettura evangelica è costituito dal ruolo della testimonianza, svolto all’inizio da Giovanni Battista (Gv 1,7.15) e al termine del racconto dal «discepolo che Gesù ama-va» (21,24). Egli attesta la verità di quanto ha visto e sperimentato, affidando ai lettori l’impegno di interiorizzare e condividere la stessa missione che conduce a una nuova vita16. Simon Pietro, i discepoli e tutti i personaggi che abbiamo incontrato nel racconto evangeli-co sono coinvolti nel dinamismo spirituale che rinnova l’esistenza di ogni uomo. Tale dinamismo implica l’accoglienza della fede pasquale e il discernimento vocazionale.

Conclusione

Si diventa testimoni solo se si vive in pienezza questo incontro con Cristo. La consegna che ci viene dall’esempio del «discepolo amato» non consiste in un messaggio teorico o consolatorio, ma in un’espe-rienza viva e attuale. Essa interpella ogni singolo battezzato e l’intera comunità ecclesiale, soprattutto in questo tempo in cui si fa urgente una «nuova» proposta generativa del Vangelo. In una Chiesa che di-venta per ogni giovane sempre di più «luogo di comunione e di missio-ne», è necessario far germogliare un’autentica «cultura vocazionale» che favorisca il discernimento e l’accompagnamento di ogni persona che cerca Dio e si apre alla sua Parola di salvezza. Annota a proposito l’Instrumentum Laboris del Sinodo:

«Non è poi possibile intendere in pienezza il significato della vo-cazione battesimale se non si considera che essa è intrinsecamente connessa alla missionarietà della Chiesa, che ha come finalità fon-damentale la comunione con Dio e tra tutte le persone. Le diverse vocazioni ecclesiali sono, infatti, espressioni molteplici e articolate attraverso cui essa realizza la sua chiamata a essere segno reale del Vangelo accolto in una comunità fraterna. La pluralità delle forme di sequela di Cristo articolano, ciascuna a modo proprio, la missio-ne di testimoniare l’evento di Gesù, nel quale ogni uomo e ogni donna trovano la salvezza»17.

16 Ibidem, n. 80.

17 Ibidem, n. 97.

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13VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

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IMPARARE dai giovani Dario Vivian

Teologo e parroco, Vicenza

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Non è mia intenzione affrontare la questione giovanile, nella sua complessità, anche perché altri autori l’hanno fatto egre-giamente. Il cammino verso il sinodo dei vescovi sui giovani

ha ancor più incrementato e motivato le ricerche socio-religiose e

le varie ipotesi interpretative della realtà giovanile odierna. Io mi

limito ad alcune provocazioni, che possono venire alla chiesa da

un ascolto libero e attento di ciascun giovane e dei giovani pre-

si nell’insieme delle loro esperienze, da una parte differenti e non

omologabili, dall’altra con alcuni denominatori comuni. Sono pro-

vocazioni che interrogano la chiesa, più che i giovani. Ci si accorge

sempre più, del resto, che prendere sul serio il vissuto dei giovani

significa rivedere la credibilità del mondo adulto. Nel nostro caso,

la significatività di una chiesa chiamata a rimettersi alla scuola del

vangelo, imparando anche dai giovani.

Imparare?

A premessa di tutto, mi permetto di porre un punto di domanda

sul verbo usato nel titolo. Siamo sicuri che vogliamo imparare? Non

si tratta solo di verificare l’atteggiamento profondo, con il quale ci si

pone in ascolto dei giovani. Come succede anche in altri ambiti e con

altre persone, troppo spesso diciamo di ascoltare e invece lasciamo

parlare, nella convinzione di avere già le idee giuste e quindi di non

dover sostanzialmente nulla ai nostri interlocutori. Quando addirit-

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14 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

doss ier Dario ViVian

tura non c’è il retropensiero di catturare in qualche modo l’interlocu-tore, tirandolo dalla nostra parte. I giovani hanno un sesto senso per accorgersene, oltre al fatto che – ci ricorda spesso papa Francesco – il vangelo di Gesù Cristo non tollera il proselitismo. Nel caso della chiesa, c’è di più. La questione è di recepire fino in fondo il cambiamento av-venuto con l’impostazione conciliare, naturalmente ritenendola azio-ne dello Spirito non ancora compiuta e non, come vorrebbe qualcuno, riforma da riformare con ritorni all’indietro. Chi ha qualche anno sulle spalle e può riferirsi a quanto veniva detto a proposito dell’istituzione ecclesiastica, ricorderà la distinzione netta tra chiesa docente e chiesa discente, che metteva sulla cattedra ad insegnare la gerarchia e i mi-nistri ordinati, mentre sui banchi ad imparare ci stava la maggioranza del popolo di Dio nella componente laicale. In quest’ottica, che non sempre sembra superata soprattutto a livello di prassi, non ha senso dire che la chiesa deve imparare dai giovani. Dovrà loro insegnare, piuttosto. Il fatto che siano giovani giustifica maggiormente questo at-teggiamento, sia quando lo si assuma con modalità cattedratiche (io so le cose, tu che sei giovane no), sia che lo si declini con atteggiamenti paternalistici (lo so io che cos’è il tuo bene, tu no, ci penso io per te). Eppure, già in riferimento a Timoteo, viene ricordato nella parola di Dio: “Nessuno disprezzi la tua giovane età” (1Tm 4,12). La disponi-

bilità ad imparare comporta un cambio di prospettiva, come appare da un passaggio assai significativo della Gaudium et spes, là dove si afferma che “la chiesa non igno-ra quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano” (GS 44). Si delinea così il volto di una chiesa discente, anche nella sua componente ge-rarchica, che si pone in ascolto di quanti la possono aiutare a comprendere ed espri-mere meglio l’annuncio di fede. Il testo di Gaudium et spes specifica che può trat-

tarsi di credenti o non credenti, come aveva ben capito ad esempio il cardinale Martini, istituendo la “cattedra dei non credenti”: loro in cattedra, lui seduto sul banco ad apprendere e confrontarsi. Riferire questo alla realtà giovanile significa aprirsi ad una condivisione e un ascolto di tutti i giovani, non solo quelli che bazzicano i nostri am-

La disponibilità ad imparare comporta un cambio di

prospettiva, come appare da un passaggio assai significativo

della Gaudium et spes, là dove si afferma che “la chiesa

non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evolutzione del genere

umano” (GS 44).

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bienti, ritenendo che si può imparare da chi non crede e anche da chi è critico o contrario alla chiesa: “La chiesa confessa che molto giova-mento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano” (GS 44). In questo stesso numero della costituzione conciliare si afferma che è dovere di tutta la chiesa “ascol-tare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo”, perché “la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta” (GS 44). Il rimando ai linguaggi del nostro tempo è quanto mai pertinente alla realtà giovanile, dalla quale imparare. Sempre più ci accorgiamo di non riuscire a comunicare con un mondo, quello dei giovani, distante anni luce dai nostri discorsi e soprattutto dal linguaggio che usiamo nell’ambito ecclesiale. Certo, la fede ha bisogno di un suo linguaggio per dirsi, al quale i credenti vanno iniziati. Ma se il Verbo si è fatto carne, non è mai definitivamente compiuto il processo, che vede il vangelo risuonare nella lingua di chi ne sente l’annuncio: “Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?” (At 2,8). La necessità di imparare dai giovani ci rimanda in questo senso all’indi-cazione, che la chiesa italiana si era data già al convegno di Verona, poi confluita negli orientamenti pastorali “Educare alla vita buona del vangelo”. L’indicazione, assai preziosa, viene sintetizzata in una sorta di slogan (che tuttavia non deve rimanere tale): la vita quotidiana è l’alfabeto per dire il vangelo. Da ciò ne deriva che il vangelo rimane impronunciabile, se non si ascoltano e si fanno proprie le parole, con le quali i giovani esprimono i loro vissuti. Il vangelo è Gesù Cristo e la chiesa lo riceve come dono da condividere. Ma le parole per dire Gesù Cristo nell’esistenza dei giovani d’oggi le dobbiamo imparare dai gio-vani stessi, sono loro che le donano alla chiesa. Altrimenti ci si illude di comunicare l’evangelo, mentre sostanzialmente lo si lascia muto, mancando dell’alfabeto che può renderlo vivo e attuale.

Piccoli atei crescono

Prendo a prestito il titolo di un’indagine del sociologo Garelli, non per presentare il suo lavoro, ma per porre un interrogativo nodale in questo apprendimento dai giovani, che la chiesa è invitata a fare. Si è ricordato che Martini, ritenendo che anche i non credenti potessero dire qualcosa alla fede della chiesa, li ha messi in cattedra, facendosi discente nei loro confronti. Con ironica sufficienza, un suo confratello

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16 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

doss ier Dario ViVian

cardinale commentò: chiedere ai non credenti di dire qualcosa alla no-stra fede è come chiedere ad un sordo di parlare di musica. Imparare dai giovani, in particolare per riuscire ad annunciare in modo più si-gnificativo il vangelo di Gesù? Ma se abbiamo di fronte piccoli atei che crescono, la prima generazione incredula, che segna il passaggio dalla “dimenticanza” (l’abbandono della tradizione religiosa) alla “ignoran-za” (la non conoscenza di questa tradizione e quindi l’estraneità)! In questi anni le ricerche sociologiche sul mondo giovanile si sono inter-rogate sulla questione religiosa, con interpretazioni dei dati ricondu-cibile sostanzialmente a due prospettive. C’è chi ha sottolineato con forza la presa di distanza dei giovani non solo dalla pratica religiosa, ma dal mondo di significati che viene offerto dalla fede cristiana. Si è

come interrotta la cinghia di trasmissione tra generazioni e pertanto non solo i gio-vani si trovano a non avere più antenne per percepire ciò che riguarda Dio, la fede, la chiesa, ma quando devono decidere di se stessi il riferimento al vangelo è quasi assente (al di là dei passaggi sacramentali richiesti dalle famiglie e dell’insegnamen-to religioso a scuola ancora preponderan-te). C’è del vero, inutile nasconderlo. Ma una lettura diversa, che poggia soprattutto su ricerche di tipo qualitativo con intervi-ste personali ai giovani, ritiene invece che

ancora “c’è campo” per la questione religiosa. Nella terra di mezzo tra credere e non credere, si manifesta una ricerca spirituale interessante, che avviene fuori del recinto. Anche al di là del contesto italiano, alcu-ne inchieste confermerebbero questa ricerca di senso in chiave spiri-tuale, che non si trova a proprio agio negli ambiti istituzionali e quindi si smarca da essi. L’istituzione, con il suo sistema dottrinale e morale, i linguaggi lontani dagli universi simbolici propri dei mondi giovanili, un apparato visto come rigido, sfarzoso, incoerente con il vangelo, non riesce ad intercettare e dare espressione a quanto invece i giovani nel profondo manifestano, anche se con modalità fluide. C’è da imparare da tutto questo? Penso di sì. La chiesa in uscita di papa Francesco non è forse invito ad andare fuori dal recinto, in modo che l’istituzione ec-clesiastica non sia autocentrata? Nella preghiera che ci ha consegnato

I giovani si trovano a non avere più antenne per percepire

ciò che riguarda Dio, la fede, la chiesa, ma quando

devono decidere di se stessi il riferimento al vangelo è quasi

assente (al di là dei passaggi sacramentali richiesti dalle

famiglie e dell’insegnamento religioso a scuola ancora

preponderante).

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Gesù non chiediamo che venga la chiesa, ma il regno di Dio, di cui la chiesa è sacramento e che va oltre la chiesa stessa. Possiamo imparare dai giovani ad allargare lo sguardo e a relativizzare quell’apparato isti-tuzionale, che appesantisce la leggerezza del vangelo e ne appanna la gratuità. Certo, la sequela di Gesù è custodita e proposta dalla chiesa, perché c’è un “noi” della fede imprescindibile. Ma a starci a cuore non dovrebbe essere primariamente di riportare i giovani in parrocchia, semmai che le loro esistenze si aprano all’incontro con la buona no-tizia di Gesù Cristo, acqua viva per la sete di ciascuno. In quest’ottica, ci si potrebbe chiedere se la chiesa non debba imparare dai giovani ad essere davvero luogo di condivisione di ricerca e di esperienza spiri-tuale, al di là di tutte le proposte di “animazione” che vengono fatte. Veniamo da stagioni nelle quali le comunità parrocchiali hanno offerto ai giovani anzitutto momenti e spazi per l’aggregazione, il gioco, l’ami-cizia, la convivialità. Il “gruppo giovani”, si è detto e si continua a dire spesso, non è catechismo, meglio coinvolgerli in cose che non siano troppo “religiose”. Non che le proposte di animazione siano negative, tuttavia ci deve interrogare il fatto che a livello giovanile (e non solo, a dire il vero) si sia dissociato sempre più l’appartenere all’istituzione chiesa e il vivere un’esperienza di ricerca spirituale, che infatti molte volte trova altre strade. Si approda pertanto ad una sorta di paradosso: da piccoli atei che crescono, la chiesa è invitata a reimparare ad essere condivisione di esperienze affidate ai liberi sentieri dello Spirito, ac-compagnando e sostenendo i passi di ciascuno, senza catture funzio-nali all’apparato istituzionale. Una suggestione evangelica significativa al riguardo è quella indicata dalle parole di Gesù: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9). Porta come soglia, che rimane aperta all’andare e venire in quella libertà, a cui i giovani tengono tanto anche se a rischio di incostanza, frammentarietà, spesso indecisione. La chiesa potrebbe imparare da questi giovani collocati nella “terra di mezzo” ad essere soglia, anche nel suo volto parrocchiale. Oggi si discute, a livello pasto-rale, sul modello di parrocchia attuato finora, quello tridentino. Una parrocchia “solida”, con un territorio ben circoscritto nei suoi confi-ni, un parroco residente, chiesa, canonica, opere parrocchiali, messe e proposte religiose a orario fisso, standardizzato. Difficile che un’isti-tuzione così strutturata (che comunque è in crisi nell’attuale conte-sto profondamente cambiato) possa intercettare la ricerca spirituale

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18 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

doss ier Dario ViVian

espressa nel nomadismo attuale, dei giovani ma non solo. Qualcuno ha cominciato a parlare di parrocchie “liquide”, che non hanno come primo riferimento i confini geografici, ma i cammini delle persone, le

loro esigenze, i ritmi e i tempi della vita nella complessità e nella mobilità odierna. A livello giovanile, si percepisce sempre più che la strutturazione rigida di certa pa-storale parrocchiale non regge alla prova

dei fatti.

Appartenenze molteplici

Come chiedere di coinvolgersi in modo costante nella vita della comunità cristiana, a giovani che vivono appartenenze molteplici, si muovono da un ambiente all’altro assumendo di volta in volta iden-tità plurime, sono a loro agio nella frammentarietà delle esperienze? Immaginandoli seduti (qualcuno direbbe anzi sdraiati, secondo il titolo di un fortunato libro divenuto anche un film) sul divano, li vediamo continuamente fare zapping da un programma all’altro, senza un ap-parente filo conduttore. Naturalmente non sullo schermo televisivo, ma sul loro smartphone. Noi solitamente diamo a tutto questo un giu-dizio negativo, ritenendo che ci sia incoerenza e camaleontismo. Per i giovani non è così, per loro si tratta dell’acqua nella quale nuotano, senza percepire le incongruenze ritenute tali dal mondo adulto. Siamo noi che abbiamo nostalgia di ciò che unifica, del senso compiuto, della coerenza e della stabilità, non certo un giovane immerso nelle modali-tà di esprimersi tipiche del suo tempo. Significa forse che va bene così e basta? No, perché anche i giovani d’oggi sono chiamati a delineare una loro identità, a fare delle scelte, a costruire nel tempo qualcosa che tiene e non sia effimero. Pensiamo al mondo degli affetti, alle relazioni che richiedono cura, ad una progettualità che non può emergere dove c’è eterna precarietà. I rischi, pertanto, ci sono insieme alle derive. Il

mondo adulto, anche in ambito ecclesiale, non può abdicare all’impegno educativo. Oggi, a meno che non si tratti dei propri figli, la tentazione dell’adulto è di girarsi dall’altra parte pur di non intervenire nei confronti di un giovane, in una latitanza che è di fatto diseducativa. Tuttavia ogni

A livello giovanile, si percepisce sempre più che la strutturazione rigida di certa

pastorale parrocchiale non regge alla prova dei fatti.

Ogni processo educativo non è mai a senso unico, pertanto

chi educa si dispone ad essere educato, chi ha qualcosa

da insegnare ha sempre e comunque da imparare.

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processo educativo non è mai a senso unico, pertanto chi educa si di-spone ad essere educato, chi ha qualcosa da insegnare ha sempre e comunque da imparare. E dunque, che c’è da imparare, come chie-sa, da giovani con la caratteristiche ricordate? Una frase di Paolo mi pare illuminante: “Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22). L’apostolo non sta confessando di essere stato una banderuola, che cambia direzione ad ogni soffio di vento, né si può dire di lui che sia stato tiepido e incoerente nel suo annuncio del vangelo. Ma, appunto perché dichiara: “tutto io faccio per il vangelo” (1Cor 9,23), non teme di mettersi in gioco a partire dalla differenti situazioni in cui si trova e con le persone e le comunità che di volta in volta ha di fronte. Siamo sicuri che una chiesa monolitica, dal profilo identitario chiaro e distinto, che dispensa certezze, sappia comunicare il vangelo in modo efficace aiutando chi ascolta ad accoglierlo? E se invece la buona notizia di Gesù Cristo chiedesse proprio di stare su confini aperti e non chiaramente definiti, di accettare il meticciato di culture, di idee, di persone, proponendo non dottrine entro cui chiu-dere la ricerca bensì orizzonti verso i quali aprirsi alla verità tutta inte-ra? Qualcuno è preoccupato che in questo modo si vada verso un’e-stenuazione dell’esperienza cristiana e che la chiesa rinunci a proporre decisamente ciò di cui è custode. Paolo però ci ricorda che in ballo non è primariamente una coerenza mantenuta costi quel che costi, ma che qualcuno arrivi ad aprirsi al dono di salvezza. Nel vangelo, del resto, si racconta di un giovane che aveva fatto dell’osservanza il criterio delle sue azioni: “Tutte queste cose le ho osservate”; ma lui stesso si sente di aggiungere: “Che altro mi manca?” (Mt 19,20). Evidentemente non basta stare dentro i confini giusti, se questo non apre allo sguardo d’a-more che salva: “Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò” (Mc 10,21). Molto meglio sconfinare, addirittura lasciare la casa del padre, per poi sentirsi abbracciati e riconciliati. C’è pertanto da imparare, dalla flui-dità giovanile, che può aiutare la chiesa a rischiare di più nell’amore, a non aver paura di contaminarsi immersa nella molteplicità e nella pluralità, a raggiungere i giovani là dove sono di volta in volta. Il pane del vangelo, ha detto un giorno una donna straniera dalla quale Gesù ha imparato, può prendere la forma delle briciole che cadono dalla ta-vola. E se qualcuno assapora anche solo una briciola, non si sentirà più cagnolino, ma figlio. Sempre a proposito di pane, dopo averlo molti-plicato, Gesù avverte di raccogliere i pezzi avanzati. Nella versione

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doss ier Dario ViVian

latina l’invito è a colligere fagmenta, perché oltre alle briciole anche i frammenti non vanno dispersi e possono ridonare il gusto di un pane che sfama. E se dalla frammentazione delle esperienze giovanili la chiesa imparasse a mettere in pratica quello che il vangelo chiede, cioè di curvarsi su ogni frammento, affinché nulla vada perduto?

Gettare le reti più al largo

I giovani sono sempre connessi, il loro mondo è la rete, non pos-sono stare a lungo senza messaggiare, twittare, smanettare sullo

smartphon, sul pc o sul tablet. Una dimen-sione virtuale della vita e delle relazioni, che a noi adulti sembra sostitutiva di quel-la reale. Anche in questo caso prevale una

nota preoccupata, che non è senza motivo. Inutile fare l’elenco dei ri-schi che si corrono, delle dipendenze che si creano, delle sfasature che avvengono. Ragazzi e giovani, che pure si muovono con naturalezza dentro queste realtà, finiscono talvolta per non accorgersi di quanto si-ano fragili e manipolabili, soprattutto se lasciati a se stessi. La sfida tut-tavia è di guardare a questa caratteristica del mondo giovanile in chia-ve anche positiva, sentendo che c’è da imparare da loro. Banalmente, potremmo dire che noi adulti abbiamo bisogno di imparare in quanto non siamo nativi digitali e quindi i giovani hanno da insegnarci, se non altro a usare i mezzi tecnologici ed essere un po’ meno imbranati nella comunicazione in rete. Penso peraltro che, come adulti e come chiesa, da loro possiamo apprendere non solo l’uso, ma anche la provocazione che ci viene per scoprire la positività di stare in rete. Si tratta infatti non solo di adoperare degli strumenti, ma di entrare in una forma mentis, che allarga le prospettive e apre a relazioni tendenzialmente univer-sali (con linguaggio ecclesiale diremmo “cattoliche”). Probabilmente rischio di strumentalizzare un po’ il vangelo, ma mi affascina leggere entro questo quadro l’invito di Gesù a Simone deluso per la nottata di pesca infruttuosa: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca” (Lc 5,4). Una traduzione più precisa del testo sarebbe: Conduci fuori verso il profondo. Espressione interessante, che mette insieme il “lar-go” da prendere e il “profondo” verso il quale andare. Forse largo e profondo si corrispondono? Di solito noi diciamo che i giovani sono superficiali, non approfondiscono le relazioni, vivono in esteriorità. La parola di Gesù potrebbe darci una chiave diversa per leggere le mo-

I giovani sono sempre connessi, il loro mondo è la rete

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dalità, con le quali si connettono in una rete tendenzialmente portata ad allargarsi sempre più. In certo senso per loro la profondità viene vissuta nella logica dell’estensione. Non si collocano in una verticalità dove c’è la superficie e la profondità, ma in un’orizzontalità dentro la quale ci si gioca sull’allargare la rete, in modo inclusivo e senza filtri preconcetti, che escludono. Sempre riferendoci a suggestioni evangeli-che, possiamo dire che dai giovani la chiesa può imparare a farsi testi-mone della rete del regno di Dio, inclusiva di tutto e di tutti: “Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci” (Mt 13,47). Verrà il tempo di fare la cernita tra quelli buoni e quelli cattivi, ma il primo annuncio della parabola in bocca a Gesù è proprio quello di non operare discriminazioni previe. Similmente al seminatore, che esce a seminare e il seme lo sparge su ogni tipo di terreno. Dobbiamo riconoscere ai giovani, pur dentro chiusure e par-ticolarismi a rischio di razzismo spesso indotti in loro da adulti e for-mazioni politiche che li strumentalizzano, una libertà di approccio con le differenze di qualsiasi tipo. Papa Francesco, con il suo “Chi sono io per giudicare?”, li ha interpretati alla perfezione. Eppure si tratta di un papa che ha come parola d’ordine il discernimento, quindi l’accogliere senza giudizi e pregiudizi non è qualunquismo. Non lo è nemmeno nei giovani, a ben guardare, sempre che il nostro occhio sia ben disposto e non abbiamo indossato le lenti del moralismo. Imparare dai giovani a fare rete, a stare in rete, ad allargare la rete, può essere una provocazio-ne forte alla dinamica missionaria costitutiva della comunità cristiana: “La chiesa è per sua natura missionaria” (AG 2). Ritengo che accogliere la sfida della rete può diventare anche una spinta a rivedere un certo

modello di ricerca vocazionale, che pensa di aiutare i giovani nella scelta chiedendo loro di “guardarsi dentro”. Le vocazioni bibliche ci mostrano invece che Dio chiama invitan-do a “guardare fuori”, facendosi stanare dai propri intimismi e mettendosi in rete con il grido della storia, il volto degli altri, i bisogni della comunità. Con questo dire non voglio

dire che il Signore chiama … mandando un tweet, ma certo è neces-sario essere connessi con le persone e la realtà più ampia per sentirsi interpellati.

Le vocazioni bibliche ci mostrano invece che Dio chiama

invitando a “guardare fuori”, facendosi stanare dai propri

intimismi e mettendosi in rete con il grido della storia.

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doss ier Dario ViVian

Venite alla festa

Altro tratto della realtà giovanile è il desiderio e la capacità di fare festa, nonostante tutto. Non voglio minimizzare i problemi, che por-tano troppi giovani a chiudersi, a mancare di speranza, a non gustare più la vita fino ad arrivare a togliersela. Tuttavia basta stare un po’ con i giovani e ci si accorge che amano tutto quanto rende l’esistenza più bella e gioiosa: dal gioco alla danza, dallo sport alla musica, dalla chiacchiera tra amici al raduno di massa. Non per niente, ad esempio, chiedono liturgie meno noiose e ambienti di chiesa più attraenti e fe-stosi. Potrebbero far propria la denuncia più volte citata di Nietzsche ai cristiani, ai quali rimprovera di non avere scritta in faccia la buona notizia del vangelo: “Se la vostra fede vi rende beati, datevi da co-noscere come beati!”. La chiesa, in realtà, dovrebbe essere specialista della festa. E’ nata dalla pasqua, la morte vinta dall’amore, che sfocia nella risurrezione. Viene convocata ogni domenica, giorno del Signore risorto, il giorno ottavo, che già fa pregustare il banchetto escatologi-co definitivo, dove “non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (Ap 21,4). Eppure ci troviamo a vivere l’esperienza cristiana in comunità invecchiate nell’età e nello spirito, ripiegate su se stesse, impaurite da come va il mondo pur amato da Dio e talvolta più respin-genti che accoglienti. Abbiamo davvero bisogno di imparare la festa da chi è giovane, non per cadere in giovanilismi ridicoli e controprodu-centi, ma recuperando attraverso i giovani l’evangelii gaudium conse-gnatosi da un vescovo di Roma, che a ottant’anni chiede alla chiesa di mettersi alla loro scuola. Certo, non siamo tutti come papa Francesco e il peso degli anni spesso rende problematica l’apertura alla vita, che rende belli i giorni. Ma allora ancor più dobbiamo fare tesoro della grazia, che è costituita dalla giovane età e che attraverso i giovani può essere riversata su tutti. Talvolta invece smorziamo i sogni, freniamo gli entusiasmi, irreggimentiamo entro confini stabiliti espressioni che andrebbero invece valorizzate. Sempre Francesco, una volta è arrivato a dire che i giovani nella chiesa devono necessariamente “fare casino”. Termine improprio per un papa, ma espressivo del senso di festa, che possiamo imparare da chi ha la grazia di essere giovane e di aiutare così anche la comunità adulta e anziana a gustare la giovinezza del vange-lo. Un grande capitolo di questa propensione a fare festa riguarda an-che il corpo, la sessualità, l’affettività: tutto quello che ci è stato donato fin dalla creazione proprio per esprimere bellezza e bontà, in modo che

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siano gioiose le relazioni e si possa godere di esse. Sappiamo quanta lontananza ci sia, ma a dire il vero non solo nei giovani, tra le classiche indicazioni della morale sessuale e come concretamente si vive corpo-reità e sessualità. Anche in questa caso, problemi ci sono ed è inutile nasconderli. Una sessuologa belga, T. Hargot, ha significativamente in-titolato una sua ricerca su questi temi: Una gioventù sessualmente liberata (o quasi). Tuttavia penso che le modalità con le quali i giovani vivono il loro corpo, sperimentano la sessualità, gestiscono l’affettività, possono e debbono essere per la chiesa terreno di un ascolto che impara, per riuscire a trovare parole per annunciare in modo gioioso e liberante l’Amoris laetitia.

AscoltoLa constatazione che abbiamo due orecchi e una sola bocca dovrebbe indicarci che siamo chiamati ad ascoltare il doppio di quanto parliamo. E le guarigioni evangeliche dei sordo-muti, rievocate dal rito dell’Effatà, contenuto nel battesimo,

sono altrettanto istruttive. Si è muti perché si è sordi, pertanto solamente un orecchio che ascolta permette alla bocca di parlare. Il servo di Dio, nel pro-feta Isaia, riconosce: “Il Signore mi ha aperto l’orecchio e io non ho oppo-sto resistenza, non mi sono tirato indietro” (Is 50,5). Il testo ebraico parla addirittura di orecchio forato, per cui essere servi del Signore significa appartenere … alla tribù degli orecchi forati! Il primo comandamento del popolo di Dio non è forse: “Ascolta, Israe-le” (Dt 6,4)? Probabilmente abbiamo sentito ancora la storia del mae-stro zen, che versa il tè al discepolo, venuto per imparare da lui, e colma la tazza fino a farla traboccare. Alle rimostranze del discepolo, risponde: Come questa tazza, tu sei ricolmo delle tue opinioni. Come posso inse-

gnarti qualcosa se prima non vuoti la tua tazza? Non basta materialmen-te ascoltare, è necessario fare posto a ciò che si ascolta.

E si fa posto non tanto, o non solamente, alle parole dette dall’altro, ma alla sua persona. Se non ti accolgo davvero, nemmeno ti ascolto, anche se

materialmente do retta alle tue parole. All’inizio della costituzione conciliare Dei Verbum, si dice che la chiesa può proclamare con fiducia la parola di Dio,

se l’ascolta con fede. E questo vale anche per coloro ai quali va annunciato il vangelo, i giovani per primi. La comunità cristiana potrà farlo, se prima li ha ascoltati con fede, cioè nella consapevolezza che continua a parlare in loro lo stesso Spirito che anima le pagine evangeliche.

di Dario Vivian

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24 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

INCONTRARE I GIOVANI dove sono

Alberto Gastaldi

Direttore Regionale per la pastorale delle vocazioni della Liguria e Insegnante di religione presso un liceo di Chiavari.

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“Accompagnare i giovani richiede di uscire dai propri schemi preconfezionati, incontrandoli lì dove sono, adeguandosi ai loro tempi e ai loro ritmi”: questa affermazione del Docu-

mento Preparatorio (DP III.1)1 al Sinodo ci presenta con chiarezza la vera sfida di una pastorale che desidera accompagnare i giovani a una pienezza di vita, leggendo con profezia i “segni dei tempi”, senza teme-re di mettersi in discussione. E’ un richiamo che ci invita a ritornare alla “sorgente” sempre nuova del nostro annuncio: le parole e i gesti di Gesù che “percorreva tutte le città e i villaggi”, “predicando il Vangelo del Regno” e che “vedendo le folle ne sentì compassione perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” 2. Gesù, la “Via”, abita la strada per incontrare le persone “lì dove sono”, con le loro attese e le loro domande, insegnandoci a non sequestrare in “tempi” e “ritmi” già definiti, la gioia di una notizia buona che riguarda la vita di ogni persona. E’ fondamentale saper custodire uno sguardo che sa vedere davvero. Se siamo guidati dai nostri “schemi preconfezionati” passere-mo oltre, non fermeremo i nostri occhi su chi incrociamo nel nostro cammino: “le folle” ci sembreranno solo un intralcio, preoccupati so-prattutto di occupare dei luoghi, attendendo per lo più solo l’arrivo

1 Sinodo dei Vescovi – XV Assemblea Generale Ordinaria, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Documento preparatorio e questionario (DP).

2 Cf Mt 9,35 – 38

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dei “nostri”. Gesù non teme di fermarsi nelle città e nei villaggi perché

è abitato dalla compassione. Vive l’amore che è dono di Dio per ogni

persona. L’evangelizzazione è così raccolta attorno alla proclamazione

del Vangelo del Regno che si concretizza nel prendersi cura della vita

delle persone, della loro condizione umana (“stanche e sfinite”).

In questa direzione, i discepoli di Gesù sono chiamati “quelli della

via”. Negli Atti degli Apostoli viene descritto l’incontro di Saulo col

Risorto, lungo la via di Damasco, mentre vi si recava per arrestare e

portare legati a Gerusalemme “i seguaci della via, uomini e donne”3.

Qui, come anche in seguito4 , i discepoli di Gesù sono definiti, appunto,

“quelli della via”. Luca ci suggerisce che la “strada” è essenziale, che

non può essere smarrita. Lungo la via, Gesù, “l’uomo che cammina”,

ci viene incontro. E, allo stesso tempo, sulla via i suoi discepoli sono

chiamati a riconoscere i volti da guardare e amare. “Quale compito più

grande che avere tanta pietà per gli uomini che si incontrano per la

strada da far di tutto perché conoscano- attraverso quella povertà che

noi siamo- Cristo? Altrimenti la nostra vita com’è? Impotente, non

creativa, siamo soltanto concime per disegni altrui, strumento dei di-

segni dei potenti e non funzione del nostro cammino alla felicità e al

nostro Destino”5.

Non possono esistere visioni pregiudiziali perché si assumono con

coraggio “le sfide e le opportunità che emergono nei vari contesti alla

luce della fede, lasciando che ci tocchino in profondità in modo da

fornire una base di concretezza a tutto il percorso successivo”6. (IL 4).

Saper coltivare per ogni giovane quell’atteggiamento che suggeriva il

Concilio Vaticano II: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce de-

gli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono,

sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli

di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel

loro cuore”7 (GS 1).

3 At 9,2

4 At 16,17; 18,25-26; 19,9.23; 22,4; 24,14.22

5 L. Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, Rizzoli, Milano 2018. P. 53

6 SINODO DEI VESCOVI – XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Instrumentum Laboris (IL).

7 Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contempo-raneo Gaudium et Spes (GS)

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doss ier Alberto GAstAldi

Incontrare tutti i giovani, nessuno escluso

Il Sinodo, nella riunione preparatoria, ha cercato proprio di invitare

a incontrare tutti i giovani, “nessuno escluso” (DP II) con il desiderio di

“prenderli sul serio nella loro fatica a decifrare la realtà in cui vivono e

a trasformare un annuncio ricevuto in gesti e parole, nello sforzo quo-

tidiano di costruire la propria storia e nella ricerca più o meno consape-

vole di un senso per le loro vite” (DP III.1). Una prospettiva già indicata

dall’allora cardinal Bergoglio nel suo Mes-

saggio alle comunità educative del 2004:

“La sfida più grande: richiede profondità,

richiede attenzione alla vita, richiede di

guarire e di liberare dagli idoli”8. Perché

non è sempre facile saper indicare con

chiarezza una direzione: il nostro tempo ci

nasconde gli aspetti più essenziali; il nostro

mondo vive di apparenze che spesso dissi-

mulano ciò che è decisivo e fondamentale.

Il verbo fondamentale che determina l’inizio di ogni percorso è

ascoltare: “E’ sempre disporsi a lasciarsi modificare da una parola, da

una domanda, un’istanza che si accoglie dentro di sé. Ascoltare non

per mostrare di aver subito la risposta pronta, ma per mettersi insieme

in ricerca di una verità che nessuno ha a portata di mano e che deve

vedere tutti insieme, umili, in ricerca”9. In questa direzione, la pasto-

rale è “senza schemi preconfezionati” perché parte dalla relazione per-

sonale, non rimane ingessata nelle programmazioni, accoglie le istanze

che nascono nel confronto di gruppo e rimane flessibile nella definizio-

ne di iniziative. “L’ascolto è la prima forma di linguaggio vero e audace

che i giovani chiedono a gran voce alla Chiesa” (IL 65), lamentando

indifferenza, mancanza di attenzione, oltre al fatto che molte volte la

Chiesa appare come troppo severa ed è spesso associata a un eccessivo

moralismo”10 (RP 1).

8 J.M. Bergoglio, Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires 1999- 2013, Rizzoli, Milano 2016, p. 269

9 P. Bignardi, Conclusioni: Dio a modo mio, in Dio a modo mio, a cura di R.Bichi e P. Bignardi, Vita e Pensiero, Milano 2015, p. 185.

10 SINODO DEI VESCOVI – XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, I giova-ni, la fede e il discernimento vocazionale. Riunione presinodale (RP).

Una prospettiva già indicata

dall’allora cardinal Bergoglio

nel suo Messaggio alle

comunità educative del 2004:

“La sfida più grande: richiede

profondità, richiede attenzione

alla vita, richiede di guarire e di

liberare dagli idoli”

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Occorre senza dubbio avere il desiderio e la volontà di “perdere

del tempo” con i giovani. Solo così potremo riconoscere quelle istanze

meno apparenti ma mai sopite espresse con chiarezza cinquant’anni fa

da un gruppo di ventenni americani. “Che cosa è realmente importan-

te? E’ possibile vivere in modo diverso e migliore?”11. Non siamo chia-

mati a proporre una contrapposizione fra visioni del mondo e dell’uo-

mo, bensì offrire una testimonianza che prenda sostanza con parole

sincere e gesti autentici. “Noi oggi abbiamo bisogno di questa cultura

dell’incontro per conoscerci, per amarci, per camminare insieme”12. Un

cammino segnato inevitabilmente da una pastorale dinamica che per-

metta ai cristiani di «essere audaci e creativi»13 (EG 33). Rivedere gli

spazi, i tempi e le strutture per “rendere evidente lo scarto che il pro-

getto umano del Vangelo determina rispetto alla convenzione ‘monda-

na’ del vivere”, con la concretezza di “far vedere come si fa. Nelle scelte

e nello stile. Nelle parole e nelle opere. Nei modi e nelle pratiche”14.

Le nuove generazioni chiedono di non rinviare questa conversione: “I

giovani di oggi desiderano una Chiesa autentica. Con questo vogliamo

esprimere, in particolar modo alla gerarchia ecclesiastica, la nostra ri-

chiesta per una comunità trasparente, accogliente, onesta, attraente,

comunicativa, accessibile, gioiosa e interattiva” (RP 11).

La profezia della lettura del quotidiano

Una bellezza di prospettiva che, contando su una pastorale più

flessibile, si radica davvero nella situazione sociale, culturale ed eccle-

siale. Dentro alla profezia di una lettura del quotidiano si aprono op-

portunità inedite per indicare delle strade di “vita buona”. In questa

chiave non si può rinunciare a progettare, dando a questo verbo una

definizione che supera l’idea di limitarsi a dare forma “a tavolino” ad

idee già prestabilite o semplicemente nel ripetere quanto già acca-

duto. “Progettare è verbo di speranza – scientificamente intesa, non

come vaga attitudine ma come spinta all’impresa – e insieme, verbo

11 Manifesto di Port Huron 1962, in P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 232-233.

12 Papa Francesco, Discorso al mondo della scuola italiana, 10 maggio 2014.

13 Papa Francesco, Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale Evangelii Gaudium (EG)

14 G. Zanchi, L’arte di accendere la luce, Vita e Pensiero, Milano 2015, pag. 82.

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di comunione. E, soprattutto: progettare è verbo. Ovvero: movimen-to, smottamento, innamoramento. Non già definizione romantica ma assolutamente… etimologica: poiché Eros – figlio di Poros e Pe-nia, ovvero: figlio di Strada e di Mancanza - coincide col movimento verso un punto di perdita. Innamorarsi della realtà coincide allora, insieme, col rischio e con la creazione. Col desiderio di ingravidare, col proprio slancio, il reale”15. Creare comunione, caratteristica del

verbo progettare, ci mette di fronte a una sfida alla quale non è possibile sottrarsi. “L’esperienza comunitaria rimane essen-ziale per i giovani: se da una parte hanno ‘allergia alle istituzioni’, è altrettanto vero che sono alla ricerca di relazioni significa-tive ‘in comunità autentiche’ e di contatti personali con testimoni luminosi e coe-renti” (IL 175). Non è questo il tempo, ma forse non lo è mai stato, per presen-tarsi come “battitori liberi”. Dietro l’an-

nuncio di iniziative o di percorsi che nascerebbero da una pastorale si rinnovata si trovano a volte persone magari molto “carismatiche” che affascinano, che spesso vengono seguite da gruppi numerosi, ma che non mostrano l’essenza della Chiesa, cioè vivere la comunione delle persone. Il rischio di agire da “solitari”, senza un confronto ecclesiale, apre il campo ad un protagonismo autocentrato e autoreferenziale. Il soggetto dell’evangelizzazione è la comunione ecclesiale. Al posto del “solista” che raduna tutti intorno a sé occorre promuovere una realtà “di casa” con “stili relazionali, dove la famiglia fa da matrice all’esperienza stessa della Chiesa” (IL 178). E’ un richiamo ad armarsi di umiltà per lavorare ancora di più insieme nella linea della “pasto-rale integrata”. Si tratta di una vera e propria “profezia di fraternità”. Preoccuparsi dei destinatari dell’annuncio, superando la tentazione di autoconservare i propri ambiti, espressa dalla presenza di nume-rosi “uffici”, che porta talvolta a una “frammentazione progettuale e operativa, difficoltà di chiarificazione delle diverse competenze e fatica a gestire i diversi livelli relazionali” (IL 209). Con un criterio di

15 A.C. Scardicchio, Breviario per (i) don Chisciotte, Mimesis, Milano 2015, p. 59.

“L’esperienza comunitaria

rimane essenziale per i giovani:

se da una parte hanno ‘allergia

alle istituzioni’, è altrettanto

vero che sono alla ricerca

di relazioni significative ‘in

comunità autentiche’ e di

contatti personali con testimoni

luminosi e coerenti”

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unità espresso dall’orizzonte vocazionale dell’esistenza: “La dimen-

sione vocazionale della pastorale giovanile non è qualcosa che si deve

proporre solo alla fine di tutto il processo o a un gruppo particolar-

mente sensibile a una chiamata vocazionale specifica, ma che si deve

proporre costantemente nel corso di tutto il processo di evangeliz-

zazione e di educazione nella fede degli adolescenti e dei giovani”16.

Per poter affrontare questa “chiamata” alla comunione è indi-

spensabile poter contare su adulti, sacerdoti ed educatori, che non si

lamentino, più o meno esplicitamente, della loro età e delle relative

responsabilità. La domanda sulla qualità degli adulti rappresenta oggi

una questione centrale, sia dal punto di vista sociale che ecclesiale.

“Servono credenti autorevoli, con una chiara identità umana, una

solida appartenenza ecclesiale, una visibile qualità spirituale, una vi-

gorosa passione educativa e una profonda capacità di discernimen-

to”. (DP III.2).

Che “l’età di mezzo” sia in sofferenza emerge dall’ampia e ap-

profondita letteratura sul tema che mette in risalto quanto lavoro di

rifondazione della condizione adulta vada portato avanti. “Nell’at-

tuale società ‘liquida’ la fase adulta rischia così di ridursi a un’espres-

sione anagrafica, senza più compiti specifici che la caratterizzino e

soprattutto la differenzino dalle fasi precedenti della vita, conferen-

dole un’identità: essere adulti era sinonimo di essere maturi, appunto

non più bambini, capaci di assumersi responsabilità. Queste carat-

teristiche appaiono sempre più rare”17. In questo quadro ai giova-

ni non viene consegnata la “promessa” che crescere e scegliere è la

vera avventura da compiere nella vita. Le comunità cristiane sono

“audaci” se scelgono di ripartire dalla formazione. «Perché ci siano

figure credibili, occorre formarle e sostenerle, fornendo loro anche

maggiori competenze pedagogiche» (DP III.2). Educatori che siano

accanto ai giovani nella vita quotidiana che si intreccia al percorso

di fede. “Solo educatori appassionati, presenti nei luoghi della vita,

potranno sostenere una vera ricerca e far scoprire la bellezza e la

logica del discepolato. Si tratta allora, per le comunità cristiane, di

16 Papa Francesco, Messaggio ai partecipanti al convegno internazionale sul tema “Pastorale vocazionale e vita consacrata. Orizzonti e speranze”, 25 novembre 2017.

17 G. Cucci, La scomparsa degli adulti, in Giovani, Collana Accenti de La Civiltà Cattolica, 2018, pag. 173.

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allargare gli orizzonti: al di là dei propri confini, al di là delle proprie abitudini e dei percorsi istituzionalizzati. Occorre una grande chia-mata alla responsabilità educativa e all’accompagnamento a vivere la dimensione religiosa della vita”18. Uno spazio privilegiato “fuo-ri dalle mura ecclesiastiche” è senz’altro rappresentato dall’ambito scolastico, in cui i giovani, tutti senza distinzioni di appartenenze o di credo, possono trovare spazi preziosi di dialogo per interrogarsi sul significato della vita, in rapporto alla cultura. “Una cultura che non deve necessariamente essere religiosa, purché sia veramente umana, ossia in grado di far emergere quelle domande e quelle in-quietudini che rendono i giovani di oggi persone capaci di libertà e di responsabilità. Che poi potrebbe anche rivelarsi una via verso la Verità tutta intera”19. L’aula è uno luogo di quotidianità, i ragazzi vi passano buona parte della loro giornata ed incontrare un insegnan-te significativo fa la differenza. “Si torna all’idea che gli educatori cattolici debbano essere testimoni; essi devono porre domande non soltanto con le parole, ma soprattutto con la loro vita”. Un professo-re preparato e appassionato apre alla ricerca personale e, allo stesso tempo, favorisce il cammino di gruppo, “creare comunità in cui gli studenti sentano di essere parti integranti, di essere rispettati, assi-stiti e accolti”20. Lo spirito di servizio di un insegnante verso i giova-ni si gioca tanto in questa dimensione. Ricordarsi che bisogna “fare sul serio”. “E’ necessaria la fatica della preparazione, l’educazione delle doti personali, la conquista della abilità tecnica e professiona-le, e soprattutto la partecipazione viva al travaglio della umanità nel momento storico in cui ci si trova a vivere ad a operare”21.

Occorrono cristiani creativi nella scuola per creare “ponti” sul territorio: un esempio bello di pastorale “integrata” può coinvol-gere la realtà della parrocchia, partendo semplicemente da una co-noscenza e una stima tra sacerdoti, educatori e insegnanti che si

18 P. Bignardi, Conclusioni: Dio a modo mio, in Dio a modo mio, a cura di R.Bichi e P. Bignardi, Vita e Pensiero, Milano 2015, p. 183.

19 E. Cattaneo, Giovani, cultura e discernimento, in Giovani, Collana Accenti de La Civiltà Cattolica, 2018, pag. 126.

20 J. Mesa Educazione cattolica e discernimento vocazionale, in Giovani, Collana Accenti de La Civiltà Cattolica, 2018, pag. 135.

21 V. Bachelet, Presenza dei cattolici nella vita sociale, 1968, ora in Id., Scritti civili, a cura di M. Truffelli, Ave, Roma, 2005, p. 794

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trovano sullo stesso territorio. Un passaggio che molto spesso viene trascurato, ma che è alla base di possibili progetti o iniziative da condividere. L’auspicio è che possano davvero realizzarsi “alleanze educative” che non restino solo sui documenti, coinvolgendo vir-tuosamente le associazioni e i movimenti dentro alla Chiesa e, con la stessa intensità, i referenti delle istituzioni pubbliche e di altri soggetti interessati.

Intuiamo tutti la bellezza di utilizzare un linguaggio com-prensibile. Usiamo le parole, ma anche il nostro corpo. Tra-smettiamo concetti ed informazioni, ma anche emozioni e sentimenti. Non solo vedendoci di persona. Da anni esiste

l’ambiente digitale. Avvertiamo che è una sfida per ognuno di noi quan-to lo è per la comunità cristiana sempre desiderosa di portare ad altri una “buona notizia”. “Una comunicazione efficace, come le parabole di Gesù - scriveva Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata della Comunicazioni Sociali, nel 2013 - richiede il coinvolgimento dell’imma-ginazione e della sensibilità affettiva di coloro che vogliamo invitare ad un incontro col mistero dell’amore di Dio”. Un invito a tornare ad un linguaggio che sappia incontrare l’uomo nella sua integrità. Evidenza che nel corso della storia ha rischiato di essere smarrita, con il risultato che la stessa esperienza cristiana è spesso evaporata in un vago spiri-

tualismo o si è fossilizzata in un astratto razionalismo. Bisogna imparare ad usare un linguaggio che incontra perché è vero, semplice e profondo,

che, in questa dinamica, incrocia gli “snodi” fondamentali della vita. “E’ palese la distanza comunicativa tra una Chiesa che parla da testa a testa e

dei ragazzi che invece comunicano da pancia a pancia, più che da cuore a cuore - scriveva Gilberto Borghi, insegnante - c’è la fatica a capire e sentire

che gli uomini e le donne di oggi hanno un modo di organizzare il senso di ciò che sono e del mondo che li circonda profondamente diverso da quello che potevano avere 30- 40 anni fa”.

di Alberto Gastaldi

Linguaggi

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Giovani protagonisti ed artefici

Senza dubbio la dimensione di fondo da tenere in continua con-siderazione è quella indicata già da San Giovanni Paolo II, sulla scia

del documento conciliare Apostolicam Actuositatem. Il Papa affermava che i giovani “non devono essere considerati semplicemente come l’oggetto della sol-lecitudine pastorale della Chiesa: sono, di fatto, e devono venire incoraggiati ad esserlo, soggetti attivi, protagonisti dell’evangelizzazione e artefici del rin-novamento ecclesiale”22 (ChL 46). A questo riguardo sono significativi due passaggi del documento preparatorio al Sinodo dove si scrive che «la Chiesa

stessa è chiamata ad imparare dai giovani» (DP III.2) e che intende «chiedere ai giovani stessi di aiutarla a identificare le modalità oggi più efficaci per annunciare la Buona Notizia» (DP introduzione). Una pastorale audace realizzata con i giovani, prima che per i gio-vani. Un’azione pastorale desiderata e condivisa con loro, vissuta e attuata insieme, che possa far crescere una gioia contagiosa. Ri-prendendo un’altra felice affermazione di Giovanni Paolo II, conse-gnata ai giovani nella Giornata mondiale della gioventù del 2000, si potrebbe dare slancio a una stagione che veda la Chiesa come “un grande laboratorio della fede”. Adulti e giovani insieme con reci-proca fiducia. “Una Chiesa laboratorio è una bottega che trasmette sapere, un saper essere e un saper fare (di vita e di fede) e lo affida alla creatività di chi lo riceve, in modo che l’allievo superi possibil-mente il maestro. E’ questa d’altronde, da sempre, la dinamica della fede, che nel tempo si tramanda attraverso un processo di traditio (trasmissione), receptio (accoglienza), redditio (rielaborazione). Vo-gliono ‘con-prendere’ quello che viene loro trasmesso, il che signi-fica un processo condiviso (con) e attivo”23. Così i giovani possono

22 Papa Giovanni Paolo II, Esortazione post- sinodale su vocazione e missione dei laici nella chiesa e nel mondo Christifideles Laici (ChL).

23 A. Castegnaro con G. Dal Piaz, E. Biemmi, Fuori dal recinto, Ancora, Milano 2013, pag. 199.

Il Papa affermava che i

giovani “non devono essere

considerati semplicemente come

l’oggetto della sollecitudine

pastorale della Chiesa: sono,

di fatto, e devono venire

incoraggiati ad esserlo,

soggetti attivi, protagonisti

dell’evangelizzazione e artefici

del rinnovamento ecclesiale”

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essere soggetti impegnati responsabilmente nell’esercizio della vita cristiana. La Bibbia ci insegna questa particolare predilezione di Dio per i più giovani nell’affidare loro “missioni” per scuotere le co-munità di appartenenza. Gli adulti non devono dimenticare questa “preferenza” e devono saper dare spazio alle intuizioni che oggi il Signore suggerisce alla Chiesa attraverso i più “piccoli”.

In questo tempo, nel quale l’esperienza del Sinodo è tornata in primo piano, è da sostenere ogni ogni tentativo di sinodo, nel sento più etimologico del termine: cioè del camminare insieme. “Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che re-almente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifi-ca, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa” (EG 35).

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I LINGUAGGI della PASTORALE

Don Elio Santaniello

Direttore dell’Ufficio diocesano della pastorale delle vocazioni di Pozzuoli, Parroco, insegnante di religione, Pozzuoli NA

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Audaces fortuna iuvat (La fortuna aiuta gli audaci) recita un vec-chio proverbio popolare, poiché costoro sono sicuri di sé, non indietreggiano di fronte ai rischi e non temono di esporsi. Sono

capaci da azzardare e questo li mette in risalto. Non c’è forza più

grande.

Sinonimi di audace, a seconda dei diversi contesti, possono essere

considerati: ardito, coraggioso, intrepido, valoroso, avventato, ri-

schioso, imprudente, sconsiderato, spericolato, temerario, insolen-

te, irriverente, provocante, sfrontato, spudorato e perfino innova-

tivo e originale.

Potrebbe sembrare strano al lettore, dopo aver letto il significato

della parola audacia, associare questa parola alla Chiesa o ad un

sacerdote, ad una consacrata, alla gerarchia ecclesiastica, o ad una

comunità parrocchiale che agli occhi dei più, passerebbe non tanto

come audace, ma, al massimo, creativa, riflessiva, attenta, pruden-

te, cauta, previdente; non certo lanciata oltre l’ostacolo con teme-

rarietà e senza fermarsi davanti ai rischi in cui si può imbattere. La

chiesa, chi la governa e i suoi fedeli, potrebbero essere visti come

più vicini alla ponderazione che alla scommessa; al risultato certo,

più che al fascino dell’imprevedibilità dello Spirito.

Vorrei però ribaltare questa ipotesi - come diversi hanno provato

a fare, in alcuni casi anche con buoni risultati - a partire dal Concilio

Vaticano II fino agli anni di Papa Francesco e della sua prima esor-

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tazione apostolica Evangelii Gaudium. L’audacia è stata reintegrata tra le caratteristiche del popolo di Dio, a volte, anche con disappun-to di molti cristiani o di una parte della gerarchia ecclesiastica, che pensano più allo spirito di conservazione, ad una fede da custodire più che da riscoprire.

Una chiesa audace non può non essere anche creativa! Se la Chiesa, infatti, vuole ringiovanire il proprio volto, deve riscoprire la creatività nel dire Dio, riscoprire l’audacia dell’annuncio dell’amore di Dio, rivisitando e mettendo in discussione i modi di fare abitua-li, partendo dall’ascolto del Vangelo, discernendo con creatività le strade su cui il Signore chiama la comunità a vivere nuovi orizzonti, a gettare nuovamente le reti in quei mari dove a volte ci sembra di aver pescato solo fallimenti, delusione, scoraggiamenti.

“Il primo passo di una pastorale creativa”, afferma il vescovo Fa-bene, segretario del Sinodo dei giovani, “non può che essere da par-te degli adulti rispettare la novità e la diversità delle nuove genera-zioni, prendendole sul serio e senza giudicarle a priori”.

Don Tonino Bello, Vescovo di Molfetta affermava: Ecco perché io vi auguro di essere audaci (…). Non siate i depo-

sitari dello status quo, non dovete essere i notai della realtà…dovete essere i profeti del cambiamento1.

Una comunità audace e creativa, dovrebbe essere in grado di chiedersi: cosa ci domanda il Signore in questo momento? Come favorire una rigenerazione e una rinascita della fede? E’ questo il tempo che dobbiamo vivere e abitare, un tempo di travaglio e di do-glie del parto che porterà a un modo nuovo di essere credenti. Ma il cristiano audace e creativo dovrà guardare a questo tempo e alla sua comunità con fiducia e speranza, è questo il tempo favorevole in cui il Signore continua a visitare il suo popolo, è questa la stagione dell’amore in cui il Signore ci chiama a vivere con lo stile che Papa Francesco suggerisce parlando all’Azione Cattolica Italiana, ma che vale per tutta la chiesa e le comunità cristiane che, a volte, più di vivere il presente, coltivano la nostalgia di un passato che non c’è più e non tornerà più.

Avere una bella storia alle spalle non serve per camminare con gli occhi all’indietro, non serve per guardarsi allo specchio, non

1 Antonio Bello, Diari e Scritti Pastorali, Mezzina, Molfetta 1993.

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doss ier Don Elio SantaniEllo

Sant’Ireneo affermava che Cristo, nella sua venuta, ha portato con sé ogni novità.

Una chiesa che testimonia deve essere inevitabilmente

oggi una “chiesa in uscita”

serve per mettersi comodi in poltrona! Camminare con gli occhi all’indietro, provocherà solo uno schianto! Fare memoria di un lungo itinerario di vita aiuta a rendersi consapevoli di essere popolo che cammina prendendosi cura di tutti, aiutando ognuno a crescere umanamente e nella fede, condividendo la misericordia con cui il Signore ci accarezza. Vi incoraggio a continuare ad essere un popolo di discepoli-missionari che vivono e testimoniano la gioia di sapere che il Signore ci ama di un amore infinito, e che insieme a Lui amano profondamente la storia in cui abitiamo2.

Già, discepoli-missionari che abitano una storia, un passato e un futuro carico di aspettative, anche da parte di quei tanti giovani, tanti volti nuovi, tanti portatori di nuove idee. L’annuncio della fede è in-ventivo all’infinito. Inventivo, creativo, audace: la trasmissione della fede non può, se annuncia Cristo, che portare novità.

Sant’Ireneo affermava che Cristo, nel-la sua venuta, ha portato con sé ogni no-vità. Egli sempre può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comu-nità e anche se attraversa epoche oscure

e debolezze ecclesiali, la proposta cristiana non invecchia mai. Gesù Cristo può anche rompere gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua costante creatività divina. Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la fre-schezza originale del Vangelo, spuntano nuove strade, metodi crea-tivi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale. In realtà, ogni autentica

azione evangelizzatrice è sempre nuova3.

L’audacia e la creatività di una comunità che testimonia

Una chiesa che testimonia deve essere inevitabilmente oggi una “chiesa in uscita”:

Voi uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chia-mateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto

2 Francesco PP., Discorso all’Azione Cattolica Italiana, Roma, 30.04. 2017

3 Francesco PP., Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, Paoline, n° 11

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Testimoniare, oggi, vuol dire lasciarsi attirare dal

Regno che viene, ponendo gesti, parole e opere che

anticipino e percorrano la signoria dell’Amore.

al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Do-vunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo4.

In queste parole del Vangelo e di Papa Francesco c’è l’indicazio-ne ai cristiani del grande compito della testimonianza, segnato dalla creatività e dal travaglio tipici di ogni cambiamento d’epoca. Quan-do si presentano nuove sfide, addirittura difficili da comprendere, la reazione istintiva è di chiudersi, difendersi, alzare muri e stabilire confini invalicabili. È una reazione umana, troppo umana. Tuttavia i cristiani, sono audaci nella misura in cui diventano davvero con-sapevoli che il Signore è attivo e opera nel mondo: non solo nella Chiesa, ma proprio nel mondo, proprio dentro e attraverso quel cambiamento e quelle sfide. Allora si apre una prospettiva nuova: si può uscire con fiducia; si trova l’audacia di percorrere le strade di tutti; si sprigiona la forza per costruire piazze di incontro e per offrire la compagnia della cura e della misericordia a chi è rimasto ai bordi.

Umiltà, disinteresse e beatitudine i tre sentimenti di Gesù che diventano i nostri. Lo stato di grazia, il discernimento sulla realtà che ci circonda, la gioia del Vangelo alla base di una chiesa in uscita. 

Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere se stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare5. 

C’è il rischio che tanti cristiani siano buoni, onesti, incredibil-mente legati alle leggi della chiesa e dello stato, irreprensibili, tut-tavia non abbiano lo scatto, quella passione in più, quei tratti che sanno veramente di audacia profetica, né un linguaggio che sappia

dire con coraggio la parola del Signore e la sappia rendere presente e concreta.

Testimoniare, oggi, vuol dire lasciarsi at-tirare dal Regno che viene, ponendo gesti, parole e opere che anticipino e percorrano la signoria dell’Amore. Non può esistere un “dover dare testimonianza”: là dove s’intra-

4 Francesco PP., Incontro con i rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa Italiana, Firenze, 10.11. 2015

5 Francesco PP., Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, Paoline, n° 273

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38 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

doss ier Don Elio SantaniEllo

vede il futuro, esiste l’audacia di testimoniare ciò che ancora non si

è realizzato pienamente.6

L’audacia e la creatività di una comunità di poveri per i poveri

Non è la ricchezza di luoghi, di spazi, di risorse economiche, non è la ricchezza umana punto essenziale per una chiesa audace, ma è sapere che è beato chi si fa povero tra i poveri. Don Tonino Bello dà alcune indicazioni utili in tal senso. Per una comunità che è chiama-ta a vedere nei poveri la Carne di Cristo e a camminare speditamente verso la costruzione del Regno ed essere creativa nel considerare i poveri come protagonisti della salvezza, ecco le due dotazioni indi-spensabili perché si possa incidere cristianamente nella storia:

Buon cervello: Ciò significa che bisogna trovare nelle nostre co-munità una simpatia nuova per l’analisi lucida, scientifica, articola-ta. Conoscere i meccanismi perversi che generano le sofferenze è il primo atto di solidarietà con i poveri. Il volontarismo emotivo non è sufficiente. Occorrono la competenza e lo studio. Si comprenderà allora che le cause di tante situazioni disumane non sono fatalità, ma hanno un nome preciso. Occorre convincersi che l’analisi strut-turale delle situazioni di sofferenza e la ricerca delle cause che le producono sono divenute, oggi più che mai, il luogo teologico nuo-vo sul quale il Signore interpella la nostra chiesa.

Coraggio: Il coraggio di collaborare con le istituzioni pubbliche e con i servizi sociali, di stimolarli alla ricerca e alla tenacia e di precederli sulla battuta, intuendo risposte nuove a bisogni nuovi. Il coraggio di schierarsi con chi s’impegna lealmente a rimuove-re situazioni di violenza e di ingiustizia, e di denunciare profetica-mente le gravi forme di sopraffazione presenti nel nostro territorio. Il coraggio di quella violenza ermeneutica della parola di Dio, che senza darci le smanie del guerrigliero ci abilita a non aver paura dei potenti della terra. Il coraggio di creare continuamente spine nel fianco della buona coscienza pubblica, rilevando con caparbietà i bisogni scoperti e quelli emergenti7.

6 S. Zerbini, Una Chiesa audace in Alla ricerca dei Valori 4-2014

7 Antonio Bello, Scritti Mariani, Lettere ai Catechisti, Visite pastorali, Preghiere, Mezzina, Molfetta 1995.

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I lInguaggI della pastorale

Una comunità audace e creativa va a cercare i poveri anche prima

che essi bussino alla porta.

Sogno una Chiesa nella quale i calcoli umani e le strategie

opportunistiche cedano il passo alla fede in un Dio fedele

Una comunità audace e creativa va a cercare i poveri anche prima che essi bussi-no alla porta.

L’audacia e la creatività di una comunità che sogna

Non si può essere segno credibile, audace e creativo, se non con-tinuiamo a sognare.

I have a dream… lo affermava Martin Luther King, ma anche Don Luigi Saccone, un prete della mia diocesi rimasto ucciso in un tragico incidente in mare:

“Sogno una Chiesa nella quale il primato della Parola venga non solo proclamato, ma sperimentato nell’organizzare l’esistenza dei singoli e delle comunità. Sogno una Chiesa nella quale ogni suo figlio venga accolto e riconosciuto per quello che è e non per quello che ha.” Sogno una Chiesa che appaia immediatamente come famiglia dove l’essere padre e l’essere figli dipenda dalla relazione che, nello Spirito, si ha con il Padre e colui che Egli ha mandato, Gesù Cristo. Sogno una Chiesa nella quale i suoi pastori siano veri anziani nella fede e maestri autentici di umanità. Sogno una Chiesa nella quale venga riconosciuto il primato del mistero: la realtà più vera che Dio

ha consegnato alla fragilità dell’uomo. So-gno una Chiesa nella quale i calcoli umani e le strategie opportunistiche cedano il passo alla fede in un Dio fedele che, nonostante gli uomini, realizzerà le promesse che ha fatto. Sogno una Chiesa nella quale la pre-

ghiera liturgica sia sempre immersione nel divino per assumere e contagiare le realtà terrene. Voglio sognare, so di poterlo fare, per-ché Gesù ha detto “i cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”8.

La comunità dovrebbe ascoltare i sogni dei giovani: sono questi sogni, come affermano loro stessi al campo nazionale 2018 di Azio-ne cattolica, a fare la realtà.

Quante persone, soprattutto quanti giovani, oggi, vivono sotto la cappa di piombo di uno scetticismo fatalistico e rassegnato…

È la mancanza di un orizzonte attraente di desiderio e di sogno

8 L. Saccone, intervento al Convegno Ecclesiale della Diocesi di Pozzuoli, 2009

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doss ier Don Elio SantaniEllo

che ci consegna alla legge della omologazione e della mediocrità. Coltivare il cuore per scegliere la propria via di beatitudine, signi-fica tornare a volare alto, per dare spazio ai nostri sogni più belli e appassionati. Fai bei sogni. Anzi, fateli insieme. Insieme valgono di più. Non è questa una chiesa audace e creativa? Penso proprio di sì! Una chiesa che sogna ancora: una chiesa inquieta, una chiesa lieta, col volto di mamma che comprende accompagna, accarezza9.

Sognate anche voi questa chiesa, credete in essa, innovatela con

libertà10!

L’audacia e la creatività della comunione di una “parroc-chia” che abita il mondo

Il lettore forse si chiederà perché ho sostituito il termine comunità con quello di parrocchia. Sono parroco di una realtà di circa 16.000 anime, in periferia di Pozzuoli, e non potevo che osare questo acco-stamento e parlare dell’audacia di Papa Francesco quando afferma:

La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie». Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La par-rocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a cammi-nare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo ricono-scere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie

9 N. Dal Molin, Intervento al Convegno Nazionale sull’accompagnamento spi-rituale, 2017

10 Francesco PP., Incontro con i rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa Italiana, Firenze, 10.11. 2015

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I lInguaggI della pastorale

Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una

spiritualità della comunione

non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione11.

Ritengo che la parrocchia, se realizza quanto afferma papa Fran-cesco, possa avvalorare la mia tesi che accosta audacia e creatività. Si tratta di una Chiesa più inclusiva, una Chiesa che apprezza, più che in passato, i doni unici di ognuno, sia i laici sia le persone ordi-nate, tutti coloro che sognano ancora un mondo migliore, radicati in quella spiritualità di comunione che San Giovanni Paolo II ha evocato nella  Novo millennio ineunte. In un’epoca in cui tutti sono contro tutti in cui si cerca sempre motivi per gridare allo scandalo in cui ogni pretesto è buono per dividerci e contrapporci all’altro in cui spesso vige la legge del sospetto, faremmo bene a scolpire queste sagge parole di Papa Francesco nelle nostre menti e nei nostri cuori:

Prima di programmare iniziative con-crete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educa-

no i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione signifi-ca inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”, per sa-per condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un “dono per me”, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comu-nione è infine saper “fare spazio” al fratello, portando “i pesi gli uni degli altri” (Galati, 6, 2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammi-

11 Francesco PP., Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, Paoline, n° 28

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42 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

doss ier Don Elio SantaniEllo

La Chiesa è santa ovvero la chiesa è santificata dallo Spirito

di Cristo per essere strumento di santificazione dell’umanità

nella lode di Dio.

no spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di co-

munione più che sue vie di espressione e di crescita12.

Una chiesa santa

Una comunità creativa e audace è una chiesa che aspira alla san-tità senza se e senza ma, che si lascia santificare dallo Spirito, che è capace di essere strumento di santificazione. I santi sono stati uomi-ni creativi e audaci perché hanno saputo coniugare il verbo amare, il verbo sognare il verbo unire e hanno dato vita ad una comunità e ad una chiesa che nell’essere audace, oltre che carica di utopia, quindi anche di profezia, è stata carica di prassi13.

La Chiesa è santa ovvero la chiesa è santificata dallo Spirito di Cristo per es-sere strumento di santificazione dell’u-manità nella lode di Dio.

Nella sua unità e in tutti i suoi mem-bri, la chiesa è santa, non in se stessa, ma in Cristo (..). L’apostolo nella prima

lettera ai Corinti si rivolge alla comunità come ‘a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù’(..). Dio santifica la sua comunità chiamando per mezzo di Cristo gli empi, giustificando i peccatori e accogliendo coloro che sono perduti. La comunità dei santi è dun-que sempre anche la comunità dei peccatori e la chiesa santificata è sempre anche la chiesa peccatrice. La santità non separa i cristiani e la chiesa dall’umanità peccatrice (..), ma si può confessare sen-za camuffamenti quella miseria del genere umano che va sotto il nome di peccato, soltanto dove si rendono storicamente manifeste la remissione, la giustificazione e la santificazione divine14.

L’audacia, che porta Dio ad amare per sempre la sua chiesa, con-tinui ad investire e sostenere le nostre gambe perché possiamo usci-re dalle mura! Con l’audacia e la creatività di chi ha fatto esperienza

12 Francesco PP., Discorso ai Vescovi amici del Movimento dei Focolari, 27 feb-braio 2014

13 Antonio Bello, Diari e Scritti Pastorali, Mezzina, Molfetta 1993

14 J. Moltmann, Spiritualità Trinitaria, BTC, pp. 452-3

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AudaciaQuando Gesù chiama, trasforma quello che facciamo e questa trasformazione richiede un lasciare ciò che eravamo e una no-vità di vita, nel futuro che si apre davanti a noi. Richiede avere il coraggio, la forza, l’audacia di non volere rimanere nel por-

to, attraccati al sicuro delle nostre umane certezze, al sicuro dai turbamenti e scombussolamenti del rapporto/relazione con l’altro, ma richiede di prendere il largo verso orizzonti sconosciuti, verso il mare aperto per scandagliare il cuore del fratello, verso l’infinito oceano che è il cuore di un Dio-uomo, che parla al cuore che ascolta ed è fiducioso dell’annuncio di salvezza, della vita trasfigurata. “Getta le reti e pesca”. Non ipotetici acquirenti di dottrina, non sudditi di una legge che non salva, ma uomini veri, con una storia, con un cuore capace di andare oltre, inseguendo un sogno segnato da un segno: l’audacia nasce dalla Parola! Da Orazio a Kant, l’imperativo aude risuona nella vita della Chiesa. Il senso più bello dell’audacia è proprio osare. Rompere gli schemi di una

pastorale ordinaria è pensare che Cristo oggi può essere annunciato solo se si va dove sono i suoi figli: nel mondo, nelle “periferie esistenziali”.

Ma come? La pastorale dell’audacia, inevitabilmente, porta ad invertire l’ordine degli addendi, non più campane = Messa, chiesa = preghiera, ma

nuove idee per far sì che la fede entri nei luoghi abitati dalle persone. L’auda-cia di chi, stanco, scoraggiato, pieno di domande, sente risuonare forte in sé

la frase: Duc in altum. Continua a gettare le reti senza stancarti, senza lasciare che la pesantezza della notte infruttuosa infici la voglia di ricominciare, fidandoti

di Lui; continua a costruire ponti, a fare tutto per pescare a tutti i costi qualcuno, sia pur uno.

di Lorenzo Manca

di Cristo nella sua storia ed è pronto ad an-nunciarlo ad altri con la sua vita, continuia-mo a costruire ponti, altari e strade.

Con l’audacia e la creatività di chi ha fatto esperienza di Cristo

nella sua storia ed è pronto ad annunciarlo ad altri con la sua

vita, continuiamo a costruire

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del la vocaz ione presb i tera le

Un cammino che non finisceLa formazione permanente

Cristiano Passoni

Assistente generale di Azione Cattolica Ambrosiana, membro del Gruppo redazionale di “Vocazioni”, Milano.

i l dono

L’ideale della formazione permanente

All’inizio del Vangelo di Giovanni si narra della vicenda di due giovani che, affascinati dall’invito del loro maestro, Giovanni Bat-tista («ecco l’Agnello di Dio!», Gv 1,36), si mettono sulle tracce di Gesù. Certo, da lui si aspettavano dei discorsi, delle risposte alla loro ricerca, l’indicazione di un programma da seguire, di cose da fare. Non è difficile, pertanto, immaginare la loro sorpresa ascoltan-do le sue prime parole, una domanda, più che una risposta: «Che cosa cercate?» (Gv 1, 37). Una domanda che, a sua volta, ne suscita subito un’altra: «Dove dimori?». E, infine, una replica che vale il viaggio di una vita, assai lontano da una semplice consegna intellet-tuale: «venite e vedrete!» (Gv 1,39).

Vi ritrovo una bella immagine di quanto possiamo intendere come formazione permanente, anche perché ritrae da vicino il modo con il quale Gesù stesso ha educato i suoi discepoli. Si tratta di un cammino continuo che sorge dall’ascolto delle domande che spor-gono dalla vita, genera, a sua volta, domande, facendo entrare sem-pre di più nell’esperienza discepolare che la chiamata ha messo in moto, affidandosi al suo dinamismo guidato dallo Spirito. E il tutto non senza gusto, senza attesa e desiderio. Sapienza e saggezza del vivere, infatti, significano questo: gusto, sapore, esperienza nell’in-

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i l dono Un cammino che non finisce

timo. Un viaggio appassionante che non è in solitaria, ma da con-dividere insieme ad altri. È il viaggio che continua nei discepoli di tutti i tempi.

È in questo modo, del resto, che la nuova Ratio illustra il sen-so della formazione permanente: «l’espressione richiama l’idea che l’unica esperienza discepolare di coloro che sono chiamati al sacer-dozio non si interrompe mai. Il sacerdote non solo «impara a cono-scere Cristo», ma, sotto l’azione dello Spirito Santo, è all’interno di un processo di graduale e continua configurazione a Lui, nell’essere e nell’agire, che costituisce una permanente sfida alla crescita in-teriore delle persona»1. Si tratta, come più avanti si precisa della «prosecuzione naturale di quel processo di costruzione dell’identità presbiterale, iniziato in Seminario e sacramentalmente compiuto nell’ordinazione sacerdotale, in vista di un servizio pastorale che fa maturare nel tempo»2.

Ambiti, situazioni e pratiche

Una volta esplicitato il senso complessivo, il testo non intende evidenziarne le tappe, come invece nella parte dedicata alla forma-zione iniziale, essendo effettivamente difficile descrivere in modo precostituito le diverse età della vita presbiterale. Piuttosto si soffer-ma sull’indicazione di ambiti, situazioni e strumenti, utili alla sua realizzazione. Quanto agli ambiti, è la fraternità presbiterale il luogo essenziale da promuovere e vivere, pur senza esplicitarne, purtrop-po, i contorni. In essa, però, mi pare di trovare il filo rosso che lega la considerazione delle situazioni come delle pratiche suggerite. Cir-ca le situazioni, che di fatto assumono anche il volto concreto di alcune imprescindibili sfide da affrontare nella formazione stessa, è molto interessante la descrizione, colta con particolare acutezza e verità da quanto può emergere dalla vita stessa. In tal modo, «l’e-sperienza della debolezza, il rischio di sentirsi funzionari del sacro, la sfida della cultura contemporanea, l’attrattiva del potere, la sfide del celibato» e, infine, «la dedizione totale al proprio ministero»3 sono effettivamente snodi cruciali che attraversano l’intera esisten-za presbiterale e assumono nel tempo forme e sviluppi variegati. O

1 congregazione per il clero, Il dono della vocazione presbiterale, Paoline, Milano 2016, 80.

2 ID. 81.

3 Cf ID. 84.

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Cristiano Passonii l dono

anche battute di arresto che chiedono una ripresa. Quanto alle pratiche, si tratta dell’indicazione di modalità con-

crete per dare forma alla fraternità presbiterale. Non si trovano nel testo vere e proprie novità, ma l’essenziale di sempre, che può esse-re opportunamente promosso e rilanciato. Esso riguarda gli aspetti complessivi della vita di un presbiterio (gli incontri di formazione veri e propri nella loro varietà di registri e proposte), l’ambito de-cisivo della propria vita spirituale (la direzione spirituale, la con-fessione, gli esercizi spirituali) e quello della opportuna ricerca di forme di vita comune e fraternità presbiterale, ritrovate all’interno di associazioni sacerdotali, movimenti ecclesiali e Istituti secolari, quali risorse particolarmente promettenti in questa stagione fram-mentata.

Molte riflessioni ed esperienze sono state compiute in questi anni alla ricerca di una migliore formulazione del cammino di for-mazione permanente dei singoli presbiteri diocesani. Condividere questi cammini, conoscerli e confrontarli mi pare una risorsa im-portante per operare un discernimento più fine circa le proposte e le modalità. Anche questa volta proviamo a recensire la concreta esperienza della diocesi di Milano.

Una riflessione che accompagna da lontano

Ci sarebbe molto da illustrare circa la storia della riflessione e delle pratiche introdotte, ma l’impulso particolarmente vivo, in or-dine sia al pensiero che all’immaginazione di cammini, è avvenuto alla fine degli anni ottanta, precisamente nel 1986, quando, di fatto, per iniziativa del card. Martini, ha preso avvio, con la figura di don Franco Brovelli, un primo cammino di accompagnamento dei primi cinque anni di ordinazione, denominato Ismi (Istituto Sacerdotale Maria Immacolata)4. Più tardi, nel 1999, l’Ismi con le varie attività e figure nate nel tempo, sono confluite nella creazione di un apposito Vicariato per la formazione permanente del clero, che ancora oggi è attivo e in fase di riorganizzazione. In ogni caso è in questo ambito che sono nati e continuano a precisarsi la ricerca di luoghi riservati

4 Una descrizione dal vivo della nascita e dell’intuizione del percorso si trova in F. Brovelli, Preti giovani oggi. Per aiutare un dialogo, in «La Rivista del Clero italiano» 72 (1991) 724-753. I numerosi temi affrontati e i materiali predisposti sono stati pubblicati nella collana Strumenti per il lavoro pastorale presso Ancora editrice.

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i l dono Un cammino che non finisce

alla formazione, di persone dedicate ad essa a tempo pieno, di mo-dalità di accompagnamento, di percorsi e momenti, in cui offrire a ciascun presbitero l’opportunità di rielaborare la propria fede e il proprio vissuto, alla luce della vocazione ricevuta, in un contesto di fraternità presbiterale.

Un cammino per l’inserimento nel ministero

Prestando soprattutto attenzione all’inserimento nel ministero, la proposta ormai consolidata è strutturata su due cicli di cinque anni ciascuno. Come spiega don Andrea Regolani, responsabile del cammino Ismi, insieme col vicario per la formazione permanente del clero, i principi che ispirano e sostengono la proposta sono i seguenti:

– «Il prete si forma nel presbiterio e grazie al presbiterio con il suo Vescovo». L’Ismi altro non è che una espressione di questo stesso presbiterio. Non è dunque una realtà che nasce a parte o in margine ad esso. Mi pare una scelta assai importante nella fram-mentazione dei riferimenti attuali.

– «Il rapporto unificante rimane sempre il Vescovo e il suo vicario nel territorio», mentre gli ambiti concreti di vita sono, con denominazione tipicamente ambrosiana, il decanato, la diaconia (nel caso di comunità pastorali), il presbiterio parrocchiale. In que-sta articolata espressione territoriale «la figura del vicario per la formazione permanente del clero e del responsabile dell’ismi sono espressione della cura per la persona, un’occasione di ascolto e di sostegno del singolo prete. Il responsabile dell’ismi incontra alme-no una volta all’anno tutti i sacerdoti giovani, visitandoli nella loro parrocchia».

– «Il prete si forma nell’esercizio del ministero», come del resto appare stabilmente nel magistero conciliare fino alla Pastores dabo vobis e oltre. In tal senso, l’ismi è pensato come un’occasione per rileggere il ministero e condividere i frutti e le sfide del suo eser-cizio, non come una partentesi formativa al di fuori della vita.

– «Le dinamiche di classe di ordinazione, che si avviano in Seminario, sono un contesto prezioso di fraternità e di condivisione per assimilare proposte e vivere passaggi significativi». Talora, però, sono anche un contesto segnato da fatiche, risentimenti e divisioni accumulate nel tempo della formazione iniziale, non facili da scio-

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Cristiano Passonii l dono

gliere e armonizzare. In tal modo, gli inizi del ministero divengono anni importanti di coltivazione di diverse forme di fraternità, per guarire le ferite pregresse, per allargare la cerchia ad altre età, per favorire altre amicizie, altre forme di cura per la vita personale e ministeriale dei preti. Per questo motivo l’ismi è organizzato nor-malmente per classi di ordinazione, ma anche per insiemi di esse e altre forme di incontro di più ampio respiro.

Organizzazione concretaL’organizzazione concreta degli incontri prevede l’offerta regola-

re di tempi distesi di preghiera, di fraternità, di approfondimento e di condivisione. «Una cura del tutto particolare è riservata per i pre-ti del primo anno di ordinazione, con la proposta di appuntamen-ti più frequenti e più prolungati (dal mercoledì mattina al giovedì a pranzo)». I temi affrontati sono legati alle “azioni fondamentali del ministero”, che i giovani preti iniziano a vivere, nell’intento di istruire e insieme dare ampiezza di sguardo all’esperienza ministe-riale che si vive (il senso del celebrare e presiedere l’Eucaristia, la confessione, l’impegno, oggi assai gravoso, di immaginare i cammi-ni per la pastorale giovanile, il tema più ampio dell’annuncio della parola di Dio nella chiesa, la visita alle famiglie...). «Uno spazio è lasciato anche al corso di didattica, per sé già attivato durante il Seminario, volto all’abilitazione all’insegnamento della religione».

Il secondo anno mantiene ancora una scadenza quasi mensi-le, dal mercoledì a pranzo al giovedì a pranzo. I contenuti, invece, prendono in considerazione le condizioni fondamentali del mini-stero: la carità pastorale, il celibato, l’obbedienza, la povertà. Per i preti degli ultimi tre anni, invece, la proposta formativa si alleggeri-sce. Sono previsti, infatti, quattro incontri di una giornata con le tre classi in contemporanea, mentre «i temi affrontati sono concordati con le classi stesse e si muovono tra aspetti più pastorali (pastorale familiare, la cura degli adolescenti) a quelli più personali (la crisi nel ministero, la verifica personale della vita)».

Ci sono anche, per tutti, appuntamenti comuni: un incontro in-troduttivo a settembre con l’Arcivescovo, la proposta degli esercizi spirituali e il pellegrinaggio annuale. Quest’ultimo «si configura, da qualche anno, come un’occasione di incontro con un’altra Chiesa», nell’intento di offrire una possibilità di rilettura del proprio mini-

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i l dono Un cammino che non finisce

stero come delle dinamiche più ampie del presbiterio dentro inediti

punti di vista e orizzonti più ampi.

La premura di una Chiesa locale

Rimane da raccogliere a margine, se pur brevemente, l’inten-to complessivo di un percorso così indicato. Si tratta dell’effettiva premura di una chiesa locale che non si impegna semplicemente in una lodevole proposta di iniziative di formazione. Piuttosto si appassiona all’intuizione di un progetto di chiesa, suscitato dallo Spirito, che nel proprio cammino pastorale, con stili e modalità di-verse, provenienti per un verso dalla sua tradizione, per un altro dall’attenta lettura dei «segni dei tempi», si impegna ad aiutare a dare un volto concreto al ministero qui ed ora. La formazione per-manente non diviene, allora, qualcosa da fare, un peso da sostenere o una tassa da pagare, ma un modo originale per sentirsi parte di una comunione da cui è bello sempre partire e verso cui sempre convergere.

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l inguaggi

Carmine Fischetti

Direttore dell’Ufficio di pastorale vocazionale e giovanile della diocesi di S. Angelo dei Lom-bardi (AV).

Lars e una ragazza tutta sua(Titolo originale Lars and the real girl)

Regia: Craig GillespieInterpreti: Ryan Gosling, Emily Mortimer, Kelli Garner, Paul Schneider, Patricia ClarksonDistribuzione: DNC EntertaimentDurata: 106Origine: USA, 2017Genere: commedia

Film: Lars and the real girl

Lars e una ragazza tutta sua

Trama

Lars vive in un freddo paesino del Wisconsin. Ritirato nella sua casa, fa fatica a relazionarsi ed esce solo per andare a lavoro e in chiesa, nonostante i vari tentativi di fargli avere una vita sociale da parte della famiglia e della sua comunità ecclesiale.

Ben presto la famiglia scopre che Lars ha un disturbo di perce-zione alterata della realtà e questo grazie a Bianca, una bambola di dimensione umane acquistata su internet che Lars presenta al fratello e alla cognata come la sua ragazza.

Bianca diventa il tentativo di Lars per uscire dalla sua condizione di solitudine e di paura nel relazionarsi e, grazie alla mediazione della dottoressa Dagmar, prima la famiglia e poi l’intera comunità capiscono che è l’unico modo per aiutarlo e finiscono per assecon-darlo nella sua follia, trattando Bianca come una ragazza reale.

Regia

Lars è una ragazza tutta sua è un film raffinato e alternativo,

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l inguaggiLars e una ragazza tutta sua

molto giocato sui dialoghi, sui silenzi e sulla descrizione delle evo-luzioni interiori dei personaggi… Il disturbo sociofobico di Lars e la sua illusione di essersi fidanzato con una donna vera sono esplorati con molta delicatezza, resi divertenti da un sapiente uso dell’ironia e dal marcare le situazioni surreali, analizzati da un approccio inti-mista che mostra molto bene le ragioni e le evoluzioni interiori dei personaggi.

Il cambiamento del protagonista parte dall’utilizzo di una “me-diazione di plastica” e giunge alla riappropriazione di sé e delle sue capacità relazionali base. Inoltre, il suo cercare di farsi capire anche dallo spettatore è rinchiuso in piccole scelte di regia: l’aiutare l’an-ziana signora in chiesa, l’usare Bianca per cercare il dialogo con la dottoressa, gli sguardi fugaci fatti alla collega di lavoro da dietro un pannello di cartongesso, il dito posato su di un braccio capace di provocargli un brivido, la stretta di mano in serata a Margot, le camice via via più colorate e dai quadrati più larghi, il filtro foto-grafico che accentua i colori bianco e rosa e che evoca il passaggio dall’inverno alla primavera… relazionale.

PERCORSO

TEMATICO

PASSI BIBLICI DI

RIFERIMENTO

LINGUAGGIO

DEL FILM

RILETTURA

COMPARATA

Lo stile di una

Comunità audace e creativa

2 Cor 12, 9-10Mc 2, 13-17

L’arrivo di Bianca

Accogliere Lars è accogliere Bianca

2 Re 5, 2-4.9-14Cosa avrebbe fatto Gesù?

Regole fondamen-tali per un buon discernimento comunitario

1 Cor 13, 8-13 bambino”riappropriazione

di sé

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Carmine FisChettil inguaggi

Quella di Lars è una storia di un uomo in relazione ad una fa-miglia, a degli amici, a dei fratelli, ad una comunità… La vicenda di una persona che può essere di oggi come di ieri, un ventisettenne che ha avuto paura per molti anni della vita come tanti l’hanno avuta per tutta la propria esistenza.

Quella raccontata qui è la storia di una comunità cristiana, di un gruppo di fratelli che vive pienamente le relazioni/l’amore: una comunità che nonostante le resistenze più o meno forti nell’affron-tare una situazione difficile e assurda, decide di lasciarsi guidare da un qualcosa di più grande: l’amore che Cristo insegna e l’amore per Lars... Nella situazione contingente, accogliere Lars significa acco-gliere Bianca (oggetto materiale/limite che però gli permette di usci-re dalla chiusura in se stesso) ed è a partire da questa “accoglienza della persona” che la comunità riesce a farsi percepire come gruppo di persone che “provano ad amare”. Tale atteggiamento comunita-rio permette - gradualmente e a piccoli passi - a Lars di integrare/superare il suo limite e vivere le relazioni in maniera più matura e reale.

Valutazione pastorale Infine, una differente prospettiva di lettura pastorale del film

può vedere Lars e la sua difficoltà relazionale in parallelo con la società contemporanea, col nostro mondo sempre più ricco di con-nessioni virtuali, ma avaro di abbracci e baci che siano reali. In tale lettura, emerge il duplice desiderio insito nell’uomo di uscire dalla condizione di irrealtà relazionale e, dall’altro lato, di recuperare un senso positivo di società/comunità pronta a spendere se stessa per l’edificazione del bene comune e per la realizzazione di ogni singolo componente della comunità stessa…

Accogliere Lars è accogliere Bianca“Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché

dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12, 9-10).

Il progressivo giungere a maturità di ogni individuo prevede l’ac-

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l inguaggiLars e una ragazza tutta sua

quisire una sorta di equilibrio, padronanza ed armonia delle energie emotive, psichiche e spirituali proprie della personalità, arrivando ad buona conoscenza di sé, alla valorizzazione della propria perso-na in qualità e limiti, all’accettazione della propria storia in succes-si e fallimenti, alla riconciliazione con questi ultimi tenendo salda un’immagine sostanzialmente positiva di sé.

In questo processo evolutivo, il limite lungi dall’essere l’emble-ma dell’impossibilità relazionale è il luogo dove la relazione para-dossalmente si svolge nel modo più vero possibile perché è il luogo dove io avverto la necessità di essere aiutato dall’altro: grazie alle mie qualità sono sufficiente a me stesso ma è nel limite che mi trovo ad affrontare l’esigenza di chiedere aiuto!

Nel film, il disturbo di percezione alterata della realtà di Lars da malattia diventa modo di comunicare grazie alla “mediazione” di Bianca. L’incomunicabilità di Bianca, per il suo essere di plastica inanimata, è una esplicitazione della difficoltà relazionale di Lars ed una estensione della sua identità.

Il limite di Lars diventa visibile in Bianca ed è occasione per il protagonista di prendere consapevolezza sempre più chiara di se stesso, uscendo dalla sua condizione disagiata ed iniziando a chie-dere aiuto. Inoltre, per la famiglia e per la comunità Bianca diventa occasione per relazionarsi per la prima volta in modo pieno con Lars, aiutandolo e favorendo in lui il cammino di guarigione che lo porterà a diventare pienamente se stesso e adulto.

Accogliere una persona è accoglierla in primis per i suoi limiti.

Pastore: “Dalla sua sedia a rotelle, Bianca ha raggiunto e toccato il cuore di tutti noi in modi che non avremmo mai immaginato.”

Lars e Bianca ci insegnano lo stile dell’accoglienza… Accogliere l’altro costringe ad uscire dagli schemi precostituiti, da se stessi e dalle proprie attese, da quanto è solo espressione di affinità elettiva e compiacimento dell’io per andare davvero incontro all’altro met-tendo da parte se stessi… Accogliere l’altro è imparare ad usare il suo linguaggio per allargare il proprio ambiente relazionale… Acco-gliere l’altro è accogliere la sua diversità, vincendo la tentazione di

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Carmine FisChettil inguaggi

appiattirlo totalmente al proprio orizzonte di essere e di pensiero… Accogliere l’altro è imparare ad amare la persona che si ha di fronte per quello che è e non per quello che fa o che può dare!

Allargando ulteriormente il discorso, il limite di Lars, “Bianca”, accolto e assunto pienamente da parte della comunità diventa ri-scoperta e novità relazionale per i membri del gruppo stesso: tutte le “attività” di Bianca, dal lavoro al volontariato, diventano esten-sione, riscoperta, possibilità nuova ed efficace di vivere il proprio servizio da parte dei vari membri della comunità.

Imparare ad amare apre all’accoglienza dell’Infinito.

“Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” [Mc 2, 17 (//Mt 9, 12; //Lc 5, 31)].

Parafrasando Leopardi nella sua poesia L’Infinito, l’orizzonte è il limite della mia capacità visiva ma è al contempo il punto di con-tatto con l’infinito.

In altri termini, estendendo il discorso precedente dal piano umano a quello spirituale, nella vita credente è il limite riconosciu-to ed il peccato offerto che diventa orizzonte di senso ed offre la possibilità di chiedere aiuto, di sentirsi bisognosi della Grazia. Nel credente il suo limite umano e la sua storia di peccato permettono l’aprirsi alla vita di fede, permettono al Cristo di essere riconosciuto quale Medico/Salvatore della propria esistenza, permettono di vi-vere una relazione con Dio e di vincere l’illusione/tentazione della umana onnipotenza…

Ordine ontologico e ordine fenomenologico dell’essere comunità cristiana.

Signore della comunità: “Questa è la vita Lars! Noi stiamo qui con te… E’ normale si usa così quando c’è una disgrazia: si viene e si resta!”

Nell’ordine ontologico l’esperienza spirituale cristiana dei singo-li e quella della comunità pone la dottrina quale chiave di lettura

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l inguaggiLars e una ragazza tutta sua

prioritaria del proprio modello comportamentale. Nella vita di ogni persona religiosa, questa impostazione dà garanzia di poco margine di errore ma al contempo non contempla l’imprevisto.

Nell’ordine fenomenologico, invece, l’esperienza spirituale cri-stiana è il risultato di un cammino umano, che porta l’individuo ad una graduale appropriazione di sé e della propria capacità spirituale di porsi in relazione con Dio. Tale capacità scoperta gradualmente da parte del singolo, a partire dalla personale esperienza di salvez-za, vede un coinvolgimento totale del suo io nella relazione con il Divino. Tuttavia è ancora “grossolana”, ossia ha bisogno di essere orientata ed esplicitata sempre più nel suo contenuto oggettivo di verità rivelata attraverso l’aiuto della Chiesa e della comunità stessa che forte del principio della volontà salvifica universale si adopera per rendere sempre più esplicita tale salvezza nella persona singola.

Le regole fondamentali del discernimento comunitarioNella decisione da prendere circa l’aiuto da offrire a Lars, la co-

munità ecclesiale si raduna ed inizia a valutare la situazione, a porsi in atteggiamento di preghiera e a far i conti con le “proprie forze”, mettendo in campo slanci e paure proprie dei singoli componenti.

Si parte da un assunto che il pastore enuncia: “Cosa avrebbe fat-to Gesù?” e si arriva ad una decisione collettiva frutto non di una democratica maggioranza, ma di un unanime e condiviso sentire comunitario acquisito.

Il discernimento comunitario presuppone un discernimento spi-rituale personale, non è qualche preghiera da fare ma è una vita che si sforza di trovare unità tra ciò che si afferma di credere e ciò che si fa. In altri termini, il muoversi per alcune decisioni non parte mai dal gruppo ma è frutto del coraggio dei singoli che decidono di an-dare verso una determinata direzione: nel film è l’anziana signora che si fa coraggio, orienta il sentire di tutti e permette al gruppo di portare avanti una decisione secondo lo Spirito.

Esortare le comunità a studiare e dar voce ai segni dei tempi, interpretare le movimenti del cuore interiori e scegliere quelli che vengono dallo Spirito buono (cf Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali n. 51), sono i passi previ ad un discernimento che porta a consape-volezza, interpretazione e poi scelta progettuale di azione concre-

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Carmine FisChettil inguaggi

ta… Non è solo un sapere ma è anche un decidere!

Il film ci offre degli elementi di metodo per un buon discernimento comunitario:

1. Alimentare il clima di ascolto, enunciando la questione da affrontare e facendo memoria dei principi di fondo.

2. Allenarsi nella conversazione spirituale a partire dalla pre-ghiera sulla Parola di Dio e quindi dall’ascolto.

3. Richiamare l’“indifferenza”, ossia alimentare una certa li-bertà da paure, pregiudizi personali, “affetti disordinati” (cf Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali nn. 1.23.169-189)… tutto ciò che bloc-ca e rende difficile l’essere libero da parte dei singoli (quando non si è liberi, l’obiettivo non è aiutare l’altro affrontando il suo problema, ma è far valere il mio principio, arrivando anche a strumentalizzare i valori di fondo).

4. Far uscire il gruppo dal “cosa pensate” e orientarlo verso il “cosa sentite”.

5. Vivere la condivisione ponendola sempre davanti al Signore e al suo modo di essere e di agire.

6. Intendersi sulla domanda e man mano riformularla per ren-derla sempre più affine e rispettosa della sensibilità di tutti.

7. Guardare insieme verso la stessa direzione ed evitare il di-battito e il confronto delle opinioni: non si vuole far prevalere l’o-pinione dell’uno o dell’altro ma camminare insieme verso ciò che si profila come espressione del sentire comune che viene dallo Spirito.

Il processo di riappropriazione di sé Il film inizia con la preghiera liturgica sulla Parola di Dio e si

conclude allo stesso modo: Romani 12, 9-21 - Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda…; Prima Corinzi 13, 8-13 - Quand’ero bambino, parlavo da bambi-no, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino…

In questo spazio “sacro”, tra la citazione di Romani all’inizio e quella della 1 Corinzi alla fine del film, si gioca il processo di riap-propriazione di sé da parte di Lars.

La preghiera iniziale si incarna grazie alle scelte di alcuni membri

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l inguaggiLars e una ragazza tutta sua

della comunità cristiana che trascinano gli altri e iniziano ad adope-rarsi per Lars, vincendo la tentazione dell’indifferenza, del giudizio e dello scoraggiamento: “Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda” - prima citazione di Romani.

Al termine della pellicola, la citazione finale della Prima Corinzi diventa espressione concreta della nuova vita di Lars che da bam-bino, di cui tutti si prendono cura assecondandolo nel “gioco” del-la sua amica immaginaria, diventa adulto rendendosi responsabile dell’amore ricevuto e vincendo le paure per giocarsi in un modo nuovo nelle relazioni.

Nel linguaggio del film, il dialogo tra Lars e suo fratello è evoca-tivo di questa svolta interiore:

Lars: “Tu come hai scoperto di essere diventato un uomo?”Guss: “Non è così netto il passaggio. Una parte di te continua a

sentirsi un bambino, ma cominci a decidere su quello che è giusto o sbagliato, ma non quello che è giusto per te quello che è giusto per tutti… Anche se a volte fa male.”

A conclusione, anche noi possiamo assumere come massima di vita l’insegnamento semplice ed efficace di Guss. Insegnamento che sintetizza la storia di Lars, come la storia di ciascuno di noi, ossia storie di persone (credenti e non) aiutate a divenire pienamente loro stesse da famiglie e da comunità audaci e creative che si lascia-no guidare dallo Spirito.

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58 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

suoni

Maria Mascheretti

Insegnante presso un liceo scientifico di Roma, membro del Gruppo redazionale di «Vocazioni», Roma.

Steven Cutts

Are You Lost In The World Like Me

Il video cartoon è ispirato alle illustrazioni vecchia scuola di Max Fleischer, colui che ha animato Betty Boop, Popeye e Superman.

Steve Cutts è un artista eclettico, diventato famoso per i video con i quali cerca di svegliare la società di massa dallo stato di narcosi intellettuale indotto dalle nuove tecnologie. In video come Man o come Wake up call, la critica alla società dei consumi è strettamente connessa al discorso sulla tutela dell’ambiente e sul rispetto della natura. 

In Are You Lost, il protagonista del video, un alter ego del can-tante, si chiede se ci sia qualcun altro perso nel mondo come lui. La visione di Cutts è estremamente pessimistica. Gli individui cammi-nano per le strade delle metropoli, guardando il loro smartphone e finendo così per cadere dentro un tombino. 

Nelle sequenze successive tre individui malmenano una persona attorniati da persone che riprendono la scena con il loro smartpho-ne senza intervenire; una famiglia mangia guardando il cellulare (compreso il neonato); una ragazza si fa un selfie sullo sfondo di un palazzo che sta andando in fiamme. Cutts descrive poi lo scarto fra la realtà e la rappresentazione che se ne dà nei social media.

La potenza delle immagini evocate da Cutts raggiunge il culmine con gli smartphone che diventano la porta di una cella carceraria. Nella critica alle ossessioni tecnologiche non poteva mancare un

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59VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

suoniSteven CuttS

SEI PERSO NEL MONDO COME ME?

Sei perso nel mondo, come me?Come me?

E se i sistemi hanno fallito… sei libero?

Guarda bene, la città è andataGiorni neri e sole morente

Sognare sogni di un’aria accesa di buioSolo per un minuto mi troverai lìQuindi guarda bene e mi troverai

Quaranta modi che ci lasciano ciechiHo bisogno di un posto migliore

in cui bruciare di fianco alle linee 

Vieni e fammi provareSei perso nel mondo, come me?

E se i sistemi hanno fallito, sei libero?Tutte le cose perdute, puoi vedere?

Sei perso nel mondo, come me?Come me?

 Nella città è l’alba

Coltelli cadenti e un sole moribondoAmore salato nell’aria illuminata di buio

Solo per un minuto ti troverò lì

testo

folto gruppo di telefonino-dipendenti che arrivano fino a una disca-rica piena di materiale tecnologico per poter catturare un Pokemon. Anche principi e principesse della Disney si adeguano e, invece di guardarsi negli occhi, comunicano attraverso lo smartphone.

L’epilogo è una caduta di massa nel baratro. Sempre con gli occhi sullo schermo, naturalmente.

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60 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

Maria Mascherettisuoni

https://www.youtube.com/watch?v=VASywEuqFd8

Quindi guarda bene e mi troveraiLe quaranta vie che li lasciano ciechi

Ho bisogno di un luogo migliore in cui bruciare di fianco alle linee 

Vieni e fammi provare Sei perso nel mondo, come me?

E sei i sistemi hanno fallito, sei libero?Tutte le cose perdute, puoi vedere?

Sei perso nel mondo, come me?Come me

 Sei perso nel mondo, come me?

E sei i sistemi hanno fallito, sei libero?Tutte le cose perdute, puoi vedere?

Sei perso nel mondo, come me?Come me?

 E se i sistemi hanno fallito… sei libero?

Sei perso nel mondo, come me?

Lo stile è quello dei primi cortometraggi animati, dei Mickey Mouse degli anni ’30: sono tre minuti di viaggio in una società pa-ranoica e schizoide, dove nel grigiore di uno mondo impoverito brillano solamente i colori delle emoticon e della virtualità. Uno spietato ritratto della deriva che sta inesorabilmente contagian-do un po’ tutti, un’epidemia tecnologica  che porta all’astrazione e all’alienazione e che chiede la ridefinizione delle dinamiche che regolano rapporti e relazioni interpersonali. Una visione distopica! Un’utopia al negativo, dove ci si può prefigurare un assetto rasse-gnato della società 2.0 che interseca in un drammatico quotidiano solitudine e abbandono.

Abbiamo costruito grandi città. Grandi industrie. Grandi sistemi.

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61VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

suoniSteven CuttS

Questi sistemi sono stati pensati per proteggerci, per liberarci, ma di fatto hanno avvelenato la nostra aria, hanno ucciso gli animali, massacrato la terra - e distrutto l’uomo. Pensiamo di aver risolto i problemi della produzione alimentare e della distribuzione della ricchezza, ma siamo più miserabili che mai.

Are You Lost In The World Like Me fa parte di These Systems Are Failing, il nuovo album di Moby, come Moby & The Pacific Void Choir, un insieme di punk e dipost-punk, di new wave, di urla e di rave euforica. Testi e musica che non possono offrire soluzioni, ma certamente possono sollevare questioni.

E’ una sorta di manifesto quello che l’autore adopera per spie-gare il suo nuovo album: “All’inizio, eravamo una specie dispera-ta. Avevamo il bisogno di avere delle cose e, una volta ottenute, eravamo felici, soddisfatti, sazi. Si sopravviveva. Le cose ci hanno salvato: il cibo, le armi, gli scudi. Dopo tanto tempo abbiamo vinto. Ma abbiamo continuato a comportarci così. Continuando a combat-tere senza avere nemici, e mangiando come se stessimo morendo di fame. Stiamo distruggendo l’ambiente anche se, in realtà, stiamo distruggendo noi stessi”.

Un’umanità che chiede accoglienzaL’umanità chiede accoglienza. Non solo nel caso dei migranti, dei

perseguitati, degli sfrattati, ma anzitutto nella relazione che ognuno ha con se stesso.

Dovunque ci sia vita, si tratta sempre di una chiamata all’acco-glienza della vita. Tutto della vita ha bisogno di passare per l’ac-coglienza. Non c’è facoltà in noi che, per potersi sviluppare, non debba essere coltivata con cura e questo coinvolge la nostra respon-sabilità nel prenderci a cuore noi stessi. Tuttavia la capacità di vederci davvero e di volersi bene per trattarsi con riguardo è rara. Si deve passare per un cammino faticoso e doloroso.

Se questo cammino non si mette in atto l’effetto è micidiale: poiché quando l’umanità non vede se stessa diventa distruttiva nei propri confronti, verso la natura e riguardo al senso del proprio es-sere nel mondo. La società è spinta a organizzarsi secondo una logi-ca ostile alla nostra dignità, che comporta squilibri, lesioni e lacera-zioni alle persone e, dunque, a tutto ciò che ci circonda. La capacità di autocoscienza è compromessa da due realtà: la mercatizzazione

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62 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

Maria Mascherettisuoni

della vita e la virtualizzazione della realtà.La tecnologia è stata innalzata allo status di una forza universale,

necessaria, propulsiva, che crea il futuro dettando a tutti gli atteggia-menti da assumere e i comportamenti da adottare. Il mondo virtuale rende marginali le persone concrete, le relazioni e le azioni dirette. Nell’organizzazione della vita, si passa attraverso i canali informatiz-zati e sono dismesse tutte le forme di esperienza che coinvolgono il corpo, il pensiero critico, lo studio, l’incontro interpersonale, il dia-logo, la progettualità condivisa. Si parla, infatti, di un mondo che supera l’umano, un mondo post-umano, appunto.

In questa perdita di noi, in cui ci sembriamo tutti così consenzien-ti, c’è la possibilità di porsi delle domande, di farlo negli spazi in cui il meccanismo in cui siamo aggrovigliati, ci fa sperimentare la solitudi-ne e l’abbandono. Soli rispetto all’altro. Abbandonati rispetto all’al-tro. Perché possiamo accettare di perdere noi stessi, ma non possiamo accettare di perdere l’altro. La solitudine e il dolore che l’accompagna sono l’humus che fa scattare il risveglio. Non possiamo accettare che le persone che amiamo siano distrutti. Quando l’altro è nello sguardo dell’amore, cessa di essere semplicemente l’altro e diventa unico, con il suo volto, con il suo nome, con la sua presenza inconfondibile. Da qui parte il rifiuto, o un’attenzione prudente, a tutto ciò che omologa ed appiattisce, in primis il network.

Una vita da separatiQuando la realtà in cui vogliamo immergerci o che ci ha fagoci-

tato, nostro malgrado, diviene virtuale è immediato essere dei se-parati. Si è intimamente disgregati, scissi da se stessi, estranei alla propria interiorità, ignari delle migliori possibilità e potenzialità che ci appartengono.

La separazione si condensa in una scissione davvero determi-nante: quella tra la solita vita e la vita felice.

Quante persone non credono nella felicità! Quante la credono possibile confinandola in qualche fugace e remota ora della vita. Ci si adatta all’infelicità e alla routine che ci deforma, spesso ci porta ad esprimere il peggio di cui siamo capaci, vanifica gli spiragli di luce che possono aprirsi e che vengono lasciati accadere invano. E’ la conseguenza di un sistema, sociale e familiare, che fa mentalità e ci impone silenziosamente la postura dei separati:

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63VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

suoniSteven CuttS

sono qui, ma vorrei essere là; sto lavorando, ma la vita è un’altra cosa; sono con te, ma vorrei essere con qualcun altro; vivo in co-stante attesa della vacanza, sempre bisognoso di riposo, di esercizi energizzanti, di palestre rinvigorenti.

Spezzati e logorati da una smania di newness che ci fa essere sem-pre altrove rispetto a noi e alla nostra vita!

Il percorso è verso l’integrità che armonizza le molte dimensioni dell’essere, l’unicità di ciascuno e la presenza alla realtà della vita. Il qui e ora che unifica e armonizza, che rigenera e fa felici, che è il luogo della mia passione e della mia fecondità.

Vita che genera vita! Nel rispetto, nella cura, nella benevolenza.

Non mi interessa quali pianeti sono in quadratura con la tua luna, voglio sapere se hai toccato il centro del tuo dispiacere, se sei stato aperto dai tradimenti della vita o ti sei inaridito e chiuso per la paura di soffrire ancora. Voglio sapere se puoi sopportare il dolore, mio o tuo, senza muoverti per nasconderlo, sfumarlo o risolverlo. Voglio sapere se puoi vivere con la gioia, mia o tua; se puoi danzare con la natura elasciare che l’estasi ti pervada dalla testa ai piedi senza chiedere di essere attenti, di essere realistici o di ricordare i limiti dell’essere umani. Non mi interessa se la storia che racconti è vera, voglio sapere se riusciresti a deludere qualcuno per mantenere fede a te stesso; se riesci a sopportare l’accusa di tradimento

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64 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

Maria Mascherettisuoni

senza tradire la tua anima. Voglio sapere se riesci a vedere la bellezza anche quando non è sempre bella; e se puoi ricavare vita dalla Sua presenza. Voglio sapere se riesci a vivere con il fallimento, mio e tuo, e comunque rimanere in riva a un lago e gridare alla luna piena d’argento: “Sì!” Non mi interessa sapere dove vivi o quanti soldi hai, voglio sapere se riesci ad alzarti dopo una notte di dolore e di disperazione, sfinito e profondamente ferito e fare ugualmente quello che devi per i tuoi figli. Non mi interessa chi sei e come sei arrivato qui, voglio sapere se rimani al centro del fuoco con me senza ritirarti. Non mi interessa dove o che cosa o con chi hai studiato, voglio sapere chi ti sostiene all’interno, quando tutto il resto ti abbandona. Voglio sapere se riesci a stare da solo con te stesso e se apprezzi veramente la compagnia che ti sai tenere nei momenti di vuoto. Oriah Mountain Dramer,anziano di una tribù pellerossa

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65VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

color iIl dIscepolo amato sull’Isola dI patmos

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66 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

letturea cura di M. Teresa Romanellisegretaria di Redazione, CEI - Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni

NUNZIO GALANTINOVivere le parole. Per un vocabolario dell’esistenza.Piemme, Mondadori 2018 Milano

Le parole non sono neutre, né lasciano mai le cose come stanno. Non nascono a tavolino, nei salotti buoni di circoli chiusi e autoreferenziali. Danno, piuttosto, voce a valori culturali e spirituali radicati nella memoria collettiva di un popolo, a cui restituiscono nuovo vigore. La loro fecondità è legata a una condivisione della vita; è proporzionata alla disponibilità con cui accettiamo di lasciarci interrogare e coinvolgere dalla realtà, dalle situazioni e dalle storie delle persone.

MATTEO PRODIPer una nuova umanità. L’orizzonte di Papa Francesco.Cittadella Editrice, 2018 Assisi

Il nostro mondo è immerso in una crisi profonda che crea spaesamento nei credenti e negli uomini di buona volontà. Occorre un nuovo paradigma che ci consenta di costruire un mondo e un’umanità nuovi. Papa Francesco ci guida in quest’opera, per riprogettare ogni ambito del nostro vivere sociale: partendo dal suo magistero e dal ripensare l’uomo, il testo indica piste concrete per rinnovare l’economia, la politica e disegnare, così, un nuovo futuro possibile.

DONATELLA FERRARIOSconfinare. Viaggio alla ricerca dell’altro e dell’altrove.Edizioni San Paolo, 2018 Milano

«Questa è la storia di un viaggio. Come tutti i viaggi è nato da un’idea: la voglia di esplorare un luogo in cui si è stati e in cui ci si trova ogni giorno, in cui pare di muoversi a proprio agio, di conoscerne strade e scorciatoie. Un luogo tanto comune a tutti da divenire insignificante, vin senso etimologico. Il confine». Un libro di sguardi e conversazioni sul tema del confine come luogo di incontro/scontro, di attraversamento, in senso non solo geografico ma anche linguistico, ideologico, generazionale e culturale.

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67VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

i l dono

a cura di M. Teresa Romanellisegretaria di Redazione, CEI - Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni

«Vocazioni» 2018: indice degli Autori

ind ice

EDITORIALI

Gianola M., Siate custodi dei doni di Dio, n.1, p. 2; La vocazione è oggi, la missione cristiana è per il presente, n.2, p.2; Discernere, veglia-re, scegliere n.3, p.2; Entriamo nell’arte del discernimento, n. 4, p.2; Accompagnare la vita dello Spirito, n.5, p. 2; Una chiesa audace e creati-va, n.6, p. 2.

DOSSIER

anGelini Maria i .., L’arte di custodire il cuore, n.1, p.13.Bissi a. ., I percorsi del cuore, n.1, p.26; Accompagnamento si, accompa-gnamento no, n. 5, p.13.Bersanelli M., Ascoltate l’universo: il grande spettacolo del cielo, n.2, p. 4.

Ciotti C., Abita la vita. Scegliere da credenti per Cristo n.4, p.36. Dal Molin n., Lo stupore del riconoscere, n.3 p.13.De VirGilio G., Il discepolo amato sul cuore di Cristo, n.1, p.4; Il disce-polo amato nella passione di Cristo, n.3, p. 4; Vide e credette: il discepolo amato testimone della fede pasquale, n. 5 p.4; E’ il Signore. Il discepolo amato e la testimonianza che resta, n.6 p.4.Fares D., Il coraggio di schierarsi dalla parte di Dio e della nostra gente,

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M. Teresa roManelliind ice

n.3, p. 36. GastalDi a., Incontrare i giovani dove sono, n.6, p.24.HernanDez Jan P., Nel cuore del discernimento vocazionale, n.3, p. 40.laMBiasi F.; Fede per dilatare la vita, n. 2, p. 52.luPPi l., Discernimento: un orizzonte e tre movimenti fondamentali, n. 4 p.10.MasCHeretti M., La pazienza dell’interpretare, n.3 p.25.Mete CHiara D., Il corpo che prega riceve molta luce, n. 4, p.48.MiCHieli F., La vocazione di perdersi, n. 2, p. 13.PiCColo G., Scendi nel cuore. Riconoscere emozioni, sentimenti e desideri, n. 4, p.20.raVazzini a., Ago o forbici? La pazienza dell’ascolto nelle diverse tra-dizioni religiose., n. 2, p. 45.roGGia GiusePPe M.; La responsabilità dell’accompagnamento, n. 5, p. 36.santaniello e., I linguaggi della pastorale, n. 6, p.34.sClaVi M., L’arte di ascoltare. Esercizi di concretezza, n.2 p.23.siViGlia i., Il profilo dell’accompagnatore oggi, n.5, p.13.

ViVian D., Imparare dai giovani , n. 6, p.13.

FINESTRE

Bissi a., Cuore, n.1, p.30Dal Molin n., Stupore,n.3, p.20.Fares D., Coraggio, n.3 p.40Frati a., Nascita, n.1, p.15GastalDi a, Linguaggi, n.6 p.31.laMBiasi F., Fede, n.1 p.44.ManCa l., AudAciA, n.6 p.43.MasCHeretti M., Pazienza, n.3 p.27roGGia G., Responsabilità, n.5 p.45.siViGlia i., Profilo, n.5, p.30ViVian D., Ascolto, n.6, p.23.

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69VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

ind iceVocazioni 2018: indice degli autori

Il DONO DELLA VOCAZIONE PRESBITERALE

Passoni C., Introduzione generale al Documento n. 1, p. 47; La tappa propedeutica, n. 2p.67; La tappa discepolare, n. 3 p. 53; La tappa degli

studi teologici, n. 4 p.60; Tappa pastorale o sintesi vocazionale , n. 5 p.

47; Il cammino che non finisce. La formazione permanente, n.6 p.44.

LINGUAGGI

FisCHetti C., Film: Divergent , n. 1, p. 53; Film: The Giver n.2, p. 67; Film: L’altro volto della speranza , n.3, p. 53; Film: Touch n.4, p.60; Film: The secret life of Walter Mitty, n. 5, p. 53; Film: The Lars e una ra-gazza tutta sua, n.6, p.50.

SUONI

MasCHeretti M. Shade Feat & Federica Carta: Irraggiungibile, n. 1, p. 60; Paola Turci: Tu fatti bella per te, n.2, p. 72; Ermal Meta & Fabrizio Moro: Non mi avete fatto niente, n.3, p. 62; Alan Walker: Alane, n.4, p.70; Biagio Antonacci: Mio fratello n.5, p.60; Steve Cuts: Are You Lost In The World Me Like, n.6 p.58.

COLORI

Genziani a., Duccio di Bononsegna: Ultima cena, n.1, p.72; Caravaggio, Cattura di Cristo, n.2,p. 80; Lorenzo Lotto, Crocifissione, n.3, p.72; Caravaggio., La deposizione di Cristo, n.4, p. 80; Jams Tissot., Il discepolo amato sulle rive del lago, n.5, p 70; Hans Memling.,

Il discepolo amato sull’isola di Patmos, n.6, p.76.

LETTURE

roManelli M. t., Bloc-notes vocazioni , n.1, p. 68; Bloc-notes vocazioni n. 2, p.79; Bloc-notes vocazioni; n.3, p.62; Bloc-notes vocazioni; n.4, p. 78;

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70 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

M. Teresa roManelliind ice

Bloc-notes vocazioni, n.5, p. 60; Bloc-notes vocazioni, n. 6, p.66.

INDICE AUTORI

roManelli M. t., “Vocazioni” 2018: indice degli autori, n. 6, p.67.

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71VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

ind iceVocazioni 2018: indice degli autori

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72 VOCAZIONI N. 6 Novembre/Dicembre 2018

Antonio Genziani

Collaboratore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni - CEI, Roma.

color i

Hans Memling

Il discepolo amato sull’isola di Patmos

“Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione,

nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chia-

mata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di

Gesù.  10Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii die-

tro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: 11”Quello

che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese: a Èfeso, a

Smirne, a Pèrgamo, a Tiàtira, a Sardi, a Filadèlfia e a Laodicèa”.12Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena vol-

tato vidi sette candelabri d’oro 13e, in mezzo ai candelabri, uno si-

mile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al

petto con una fascia d’oro.  14I capelli del suo capo erano candidi,

simili a lana candida come neve. I suoi occhi erano come fiamma di

fuoco. 15I piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente, purificato

nel crogiuolo. La sua voce era simile al fragore di grandi acque. 16Te-

neva nella sua destra sette stelle e dalla bocca usciva una spada affi-

lata, a doppio taglio, e il suo volto era come il sole quando splende

in tutta la sua forza”.

Ap 1, 9-16

L’artista

Hans Memling nasce a Selligenstadt, in Germania, intorno al

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color iIl dIscepolo amato sull’Isola dI patmos

1435. Abbiamo poche notizie sulla su di lui prima del 1467, anno in cui si trasferisce a Bruges, dove rimarrà ne per il resto della sua vita. È allievo di Rogier Van Der Weyden e, da artista esperto, di-pinge sia su tela che su tavola di legno. È autore di numerose pale tra cui ricordiamo la “Vergine in trono col bambino” e il ”Trittico del giudizio universale”, conservato a Danzica. Molte altre pale sono attribuite a Memling, hanno il suo stile, ma dobbiamo tenere pre-sente che per i pittori fiamminghi la pala d’altare era un lavoro a più mani, per questo molte opere venivano attribuite al maestro o ai suoi collaboratori.

Membling godeva di grande popolarità anche in Italia, soprattut-to tra i commercianti e i banchieri di Firenze e di Venezia, suoi com-mittenti. La delicatezza delle figure, la raffinata eleganza, la ricchez-za dei dettagli, fanno di Memling uno dei maestri del rinascimento fiammingo. Muore a Bruges l’11 agosto 1494, all’apice della cele-

brità e della prosperità economica, con diversi figli e tanti discepoli.

“Come se vedesse-ro l’invisibile”

L’opera1

L’opera fa parte di un trittico titolato il Matrimonio di Santa Ca-terina. Prendiamo in considerazione lo scomparto laterale destro che rappresenta l’apostolo Giovanni sull’isola di Patmos.

Hans Memling ha portato su questa tavola la visione dell’Apoca-lisse; in questo libro è già difficile interpretare la parola, ancora più difficile rappresentarla, ma il risultato è ben riuscito.

L’Apocalisse ha lo scopo di infondere forza, di indurre i cristiani e la Chiesa a resistere alle ingiustizie e ai soprusi che subiscono per la Parola di Dio.

L’opera mostra, in primo piano, Giovanni che ha la visione dell’Apocalisse sull’isola di Patmos. L’evangelista può contemplare, in alto a sinistra, la visione nel nimbo ad arcobaleno del Paradiso: seduto sul trono c’è Dio, ai suoi piedi il Cristo rappresentato dall’A-gnello che sta dritto in piedi. Dio ha sulle ginocchia il libro dai sette

1 L’opera fu commissionata dai due frati e dalle due suore che presiedevano l’ospedale di San Giovanni di Bruges verso il 1474 ed è firmato e datato 1479.

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Antonio GenziAnicolor i

sigilli, in attesa di essere aperto da Cristo; ai piedi del trono ci sono i 4 esseri e attorno 24 vegliardi.

Tra Giovanni e il nimbo, sul mare, sono rappresentate visioni che annunciano combattimenti tra le schiere del bene e del male, esseri soprannaturali, angeli, demoni, mostri e avvenimenti straordinari.

Cerchiamo di interpretare queste visioni soprattutto in relazione a ciò che significano per la nostra esperienza di fede. Perché Gio-vanni ha usato immagini, simboli, un linguaggio a volte enigmatico e che ci spaventa un po’?

Egli ha usato il linguaggio simbolico per mantenere forte la spe-ranza dei cristiani perseguitati, perché solo loro comprendessero il significato evitando così che i persecutori considerassero lo scritto pericoloso e inasprissero ancor di più l’oppressione.

Giovanni2

Giovanni è rappresentato molto giovane nonostante abbia scrit-to il suo Vangelo e l’Apocalisse intorno agli anni 94 d.C., quando era già molto anziano. Questo contrasto rappresenta l’eterna giovi-nezza che vive il discepolo amato.

È vestito con una tunica rossa porpora e tiene sul grembo un libro aperto su due pagine. Ha due pennini, con uno scrive, con l’altro fa il gesto di intingere al calamaio; è come se non volesse perdere nulla della visione. Le sue mani incrociate dicono l’abilità nell’intingere e nello scrivere.

Giovanni non ha bisogno di seguire con lo sguardo la scrittura, i suoi occhi sono rivolti verso l’alto dove avviene la visione dell’a-pocalisse.

Il suo volto è pacificato, sereno, tranquillo, non è sconvolto dalla visione anche se narra della lotta tra il bene e il male, di segni gran-diosi nel cielo. Giovanni è concentrato nella sua visione, totalmente assorto. Si può dire che Giovanni ci guida a contemplare ciò che

2 Narra la leggenda che Giovanni, dopo essere stato torturato con olio bollente, fosse stato esiliato durante le persecuzioni dei Cristiani, ordinate dall’imperatore Domi-ziano negli anni 94 e95, nell’isola greca di Patmos. In questa isola, inospitale, priva di alberi e di uccelli, Giovanni ebbe la Rivelazione, la cui storia nei tratti tipici fondamentali, è rappresentata da Memling. L’artista dimostra di conoscere l’esegesi biblica dell’Apoca-lisse, infatti non è facile rappresentare ciò che è frutto di una visione.

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color iIl dIscepolo amato sull’Isola dI patmos

vede. Con queste visioni Dio manifesta a Giovanni la propria volontà,

il suo progetto di salvezza, perché egli lo possa conoscere e annun-ciare. È significativo che Giovanni per conoscere il senso della storia debba quasi estraniarsi dal mondo. Così deve essere per ciascuno di noi, per ciascun chiamato; per capire davvero il disegno di Dio bisogna salire verso di Lui e guardare le cose dal suo punto di vista. È come ricevere un dono, così come lo ha ricevuto Giovanni.

La visione (Ap 4, 1-11)

La visione di Giovanni rappresentata da Memling sembra un quadro nel quadro, tanto è complessa e piena di particolari: Dio al centro, seduto su un trono con il libro dai sette sigilli, al suo fianco l’Agnello che sta ritto in piedi, sotto i 4 esseri e, intorno al trono, i 24 vegliardi. Che cosa rappresentano questi ultimi?

Sono simbolo di coloro che hanno fatto esperienza della salvez-za, che hanno camminato secondo la volontà di Dio e sono stati guidati dal suo progetto. Siedono su un trono, hanno delle corone d’oro e sono avvolti in vesti candide, segno della loro partecipazio-ne alla vita divina; sono davanti al trono di Dio e lo adorano.

Sotto al trono di Dio ci sono i quattro esseri viventi3, simbolo di universalità. Raffigurano i 4 punti cardinali, il mondo e la creazio-ne, la loro funzione è quella di rappresentare quanto nel creato c’è di più forte e di più nobile: il leone, il più forte degli animali selvag-gi; il vitello, il più forte degli animali domestici; l’aquila, il più forte degli uccelli; e l’uomo, l’essere più nobile del creato.

Sono tutti attorno a Dio perché è Lui l’origine della creazione, è Lui che indica all’uomo la via da percorrere. Ecco il senso della centralità del trono, se si vuole comprendere la storia bisogna par-tire da Dio.

Nella vita ogni uomo fa esperienza della sofferenza, dell’oppres-sione, della malvagità e difficilmente riesce ad interpretarle e dargli un significato.

3 I 4 esseri riprendono la visione di Ez 1, 10 o i serafini di Is 6 a partire da Ireneo di Lione sono visti come simbolo degli evangelisti, ma probabilmente essi sono archetipi celesti dell’intera creazione vivente.

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Antonio GenziAnicolor i

La risposta è in quel libro, perché lì c’è il testamento di Dio, il suo progetto, il segreto della vita. E chi riesce ad aprire quel libro, a sciogliere quei sigilli? Solo Gesù, l’Agnello di Dio, colui che sulla terra, indifeso, ferito, è morto con violenza. Ora è in piedi davanti al trono di Dio, partecipe del suo potere, e ha tra le mani la storia del mondo.

È come se Giovanni volesse dire: “abbiate fede in Gesù, non abbiate paura del potere e della persecuzione. Seguite l’Agnello, affidatevi a lui, anche se appare debole, inerme… è lui il vincitore!”.

Ma qui Giovanni ci vuole comunicare qualcosa di più profondo e altamente vocazionale: nel fare ogni cosa, nel vivere, dobbiamo assumere il criterio dell’Agnello, un potere che è servizio e che dà libertà, che spezza i sigilli, che fa scoprire il senso della vita. Un po-tere che dice la verità dell’essere.

La visione è racchiusa da un arcobaleno che è simbolo dell’alle-anza tra Dio e l’uomo, che ci ricorda che il Signore è il creatore, è fedele alla sua creazione e promette di non distruggere più nulla.

Con questa visione Giovanni desidera esortare le Chiese dell’A-sia che vivevano le persecuzioni a cui erano esposte, ma possiamo riconoscerci tutte le incomprensioni, le ostilità che ancora oggi la Chiesa soffre in varie parti del mondo.

I 4 cavalieri (Ap 6, 1-8)

La visione di Giovanni continua e quando l’Agnello rompe i si-gilli del libro, sul mare, sotto il nimbo, appaiono quattro cavalieri, ognuno su un’isoletta, e uno di questi è seguito dal drago.

Sul primo cavallo bianco e sul cavaliere ci sono diverse inter-pretazioni: alcuni esegeti danno una lettura negativa, dicono che sia simbolo dell’esercito dei Parti con le sue conquiste e vittorie e rappresenterebbe la guerra; altri sostengono che il cavaliere bianco è riferito a Cristo, chiara allusione al Risorto che vince il male con il bene.

Il secondo cavallo è rosso, montato da un cavaliere a cui è stato dato il potere di togliere la pace; è l’immagine della violenza che nasce dal desiderio di possedere e prevalere sugli altri.

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color iIl dIscepolo amato sull’Isola dI patmos

Il terzo cavallo è nero e il suo cavaliere che ha in mano una bilancia che rappresenta l’ingiustizia, un chiaro riferimento alla ca-restia, alla fame.

Il quarto cavaliere è verdastro e chi lo monta rappresenta la morte che con la sua forza si propaga nel mondo.

Davanti al dilagare del male, rappresentato dalla violenza, dalla fame e dalla morte, ogni uomo è chiamato a non perdere mai la speranza e a credere che nulla è più forte di Dio.

Questa visione indica che Dio è presente con la sua forza nella storia, è la vittoria di Dio sul male.

La donna e il drago (Ap 12,1-6)

In alto a destra, in cielo, Memling ha raffigurato una donna ve-stita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle (che rievocano le 12 tribù d’Israele e i 12 apostoli). Sulla destra è rappresentato il drago in procinto di divorare il bam-bino che la donna sta per partorire (il drago rappresenta il male che agisce entrando nella vita degli uomini).

Chi è questa donna vestita di sole di cui scrive Giovanni? Nel nostro immaginario c’è un’allusione a Maria, la Madre di Gesù. In realtà il riferimento è multiplo. Giovanni infatti si riferisce a Israele, a Gerusalemme, al popolo di Dio, ma ancor di più alla Chiesa, sposa di Cristo.

Come interpretare questa visione? È il Cristo che nel tempo na-

sce dalla Chiesa4 la quale, attraverso gli occhi di Giovanni, com-prende bene quali siano i dolori e le fatiche nel generare il Cristo a cui vanno incontro le generazioni future. Ci ricorda che l’uomo è in continua lotta tra il bene e il male, tra la grazia e il peccato; il rischio è che tutto l’impegno e le fatiche siano divorate dal male, rappresentato dal drago, ma nel contempo rivela la nostra più pro-fonda vocazione, quella di donare vita e vincere il male con il bene.

4 Paolo scrive ai Galati: “io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi! “(4,19).

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Antonio GenziAnicolor i

Approccio vocazionale

Lo sguardo della speranza

Il nostro itinerario in compagnia di Giovanni, il discepolo amato, ci ha condotto su un’isola sperduta del mar Egeo dove Giovanni è stato esiliato. A differenza degli altri Apostoli egli ha vissuto una lunga vita e ora, su quest’isola, è chiamato a donare speranza alle Chiese attraverso la stesura dell’Apocalisse. Questo Libro, l’ultimo della Bibbia, è affascinante perché non è un libro catastrofico, non vi è descritta la “fine” del mondo, ma siamo posti davanti al “fine” della vita.

Le immagini dell’Apocalisse sono da decodificare, da ben inter-pretare, altrimenti anche il lettore più interessato è scoraggiato a tal punto da interromperne la lettura. Apocalisse è rivelazione, è togliere il velo per vedere più in profondità le cose, le persone, la realtà, il cosmo, Dio nella vera essenza.

Quest’isola, dove Giovanni è stato esiliato, è un posto incante-vole dove la terra, il mare e il cielo a volte si confondono e fanno sognare, fanno vivere in un’altra dimensione. Bisogna veramente visitarla per comprendere pienamente lo scritto giovanneo; nella stesura del testo Giovanni è stato certamente aiutato dalle bellezze naturali dell’isola. Sembra molto appropriato, allora, questo afori-sma di Khalil Gibran:

“Se vuoi vedere le valli, Sali in vetta a una montagna; se vuoi vedere la vetta di una montagna, Sali su di una nuvola; se invece aspiri a comprendere la nuvola, chiudi gli occhi, pensa e sogna.”5

Così mi immagino Giovanni davanti a quel paesaggio, con gli occhi chiusi, capace con il pensiero e il sogno di vedere l’invisibile e permettere anche a noi, suoi lettori, di sperimentarlo. È grazie a Giovanni che noi riusciamo a vedere l’invisibile e a non soccombere davanti alle prove della vita perché l’invisibile è sempre rivestito di speranza.

5 Khalil Gibran, L’arte di conoscere se stessi. Massime spirituali, Newton Compton Editori, 2014.

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color iIl dIscepolo amato sull’Isola dI patmos

Su quell’isola Giovanni ha desiderio di comprendere sempre di più i misteri di Dio, non come conoscenza intellettuale ma come esperienza d’amore; di essere più simile a lui, al suo essere. E alla fine della sua lunga vita Giovanni, ancor di più, ha capacità di inte-riorizzare, di ricomporre i frammenti della propria esistenza e sco-prire il disegno generale.

Quando si vive un momento di difficoltà in un itinerario di for-mazione, tra incomprensioni, delusioni e abbandoni - come Gio-vanni al termine della sua vita - siamo chiamati a non soccombere, a fermarci, a ricomporre i tasselli della vita, come le tante tessere disordinate di un grande puzzle.

Lo sguardo dell’apostolo è verso l’alto, è capace di scrutare l’infi-nito, di vedere oltre quel cielo. È uno sguardo non terrorizzato, ma pacificato; i suoi occhi, non dimentichiamolo, hanno contemplato il creatore della vita e ora possono vederlo, ancora, nella Gerusa-lemme del cielo.

“La speranza cristiana si basa sulla fede in Dio che sempre crea novità nella vita dell’uomo, crea novità nella storia, crea novità nel cosmo. Il nostro Dio è il Dio che crea novità, perché è il Dio delle sorprese.

Non è cristiano camminare con lo sguardo rivolto verso il basso (…) senza alzare gli occhi all’orizzonte. Come se tutto il nostro cammino si spegnesse qui, nel palmo di po-chi metri di viaggio; come se nella nostra vita non ci fosse nessuna meta e nessun approdo, e noi fossimo costretti ad un eterno girovagare, senza alcuna ragione per tante no-stre fatiche. Questo non è cristiano.

Le pagine finali della Bibbia ci mostrano l’orizzonte ultimo del cammino del credente: la Gerusalemme del Cie-lo, la Gerusalemme celeste. Essa è immaginata anzitutto come una immensa tenda, dove Dio accoglierà tutti gli uo-mini per abitare definitivamente con loro (Ap 21,3).

E questa è la nostra speranza”6.

6 Papa Francesco, Udienza generale mercoledì, 23 agosto 2017.

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Antonio GenziAnicolor i

Papa Francesco ci invita ancora ad alzare gli occhi, come Giovan-ni sull’isola di Patmos. Alzare gli occhi è terapeutico perché ci co-stringe a guardare oltre, non più a noi stessi, ai nostri problemi, alle nostre fatiche. Per guardare oltre, bisogna saper sognare e insieme scorgere ciò che è invisibile.

Preghiera

Signore Gesùgrazie perché ti sei rivelatonella visione di Giovanni come l’Agnellosei apparso glorioso ai nostri occhi per darci la certezza che tu sei l’artefice della storia.Ti mostro le situazioni quotidiane che mi fanno paura e le difficoltà che affronto per vivere la mia fede con i suoi valori.

Signore, Gesù rafforza la mia fede e rinnova la mia speranzacon la rivelazione del tuo amorequando mi allontano da te, vienimi incontro e concedimi di ascoltare la tua voce, mi dice che la storia sta nelle tue mani e che la mia stessa storia è importante per te!