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Editorialea cura di Franco Banchi ..................................................pag. 3

«L’antifascismo è una questione di aristocrazia, di nobiltà, di stile». Piero Gobetti e il giovane Gramsci nella Torino degli anni Venti di Elisabetta Amalfitano .................................................pag. 4

Biografia di Piero Gobettidi Giulia Bianchini e Eleonora Merciai, 5BLS ..................pag. 7

La civiltà dell’incertezza di Massimo Bartoli ........................................................pag. 10

L’inaugurazione di Mussolini al Lingotto di Torino. Agnelli: eroe del capitalismo moderno (A. Gramsci) di Lucia Alessio .............................................................pag. 13

I primi anni della F.I.A.T. di Ettore Sani, 5ALS .......................................................pag. 17 Il pasto dell’orsoDagli esperimenti di laboratorio alle avventure in quota. Il sistema periodico di Primo Levi di Maria Celine Pestelli ................................................. pag.18

Architettura allo zabaione. Il barocco sabaudo di Guarini e Juvarra di Fabio Sottili ...............................................................pag. 22

La Grande Mole dell’Antonelli. Una sfida per raggiungere il cielo di Giovanni De Lorenzo .................................................pag. 28

Il museo delle meraviglie di Manuela Taddei ........................................................pag. 33

Viaggio nella Torino “capitale” gastronomica: dalla cucina sabauda al digital gourmet restaurant. Oltre la ricetta: la finanziera, i grissini e lo zabaione di Franco Banchi ...........................................................pag. 36

Il Grande Torino di Federico Pedersoli e Samuele Frosali, 4CLS ..............pag. 41

Gozzano e l’immagine crepuscolare della poesia di Silvio Biagi .................................................................pag. 43

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Numero monografico a diffusione internaHanno collaborato a questo numero:

Istituto Superiore Gobetti-VoltaVia Roma, 75/77 - 50012 Bagno a Ripoli (FI)Tel. 055 630087 / [email protected]

Stampa: Tipografia IL BANDINO s.r.l. Via A. Meucci, 1 - Loc. Ponte a Ema - 50015 Bagno a Ripoli (FI)

Questa pubblicazione è stampata interamente su carta riciclata Ciclus Print.

La realizzazione grafica e l’impaginazione di questo numero sono state curate dagli studenti del Liceo Gobetti che hanno partecipato allo stage di Alternanza Scuola-Lavoro.Coordinatore dello stage: Prof. Giovanni De LorenzoAssistente tecnico: Teresa Santarelli

Gli studenti che con il loro impegno e la loro creatività hanno realizzato questo numero:

Lucia AlessioElisabetta AmalfitanoFranco BanchiMassimo BartoliSilvio Biagi

Bartalucci Matteo 4CLSCovino Clarissa 3ALSCrivellaro Chiara 3CLSDancygier Lilian 3ALSDe Vita Enea 4ALSDel Tredici Maria 4CLSEssalhi Zenap 3ALSGozzini Marco 4CLSPacini Sofia 4CLSRestivo Agnese 3BLSNannelli Lisa 3ALSSensini Daniel 4FSPVannini Tommaso 4ALSVegni Stefano 4CLSZarri Guido 3CLSZoia Niccolò 4ALS

Giovanni De LorenzoCeline PestelliFabio SottiliManuela Taddei

gli studenti:Giulia Bianchini e Eleonora Merciai della 5a BLS con il coordinamento del Prof. Silvio Biagi Samuele Frosali e Federico Pedersoli della 4a CLScon il coordinamento della Prof.ssa Manuela TaddeiEttore Sani della 5a ALScon il coordinamento della Prof.ssa Lucia Alessio

Il disegno in copertina è di Daniel Stiven Sensini della 4F indirizzo sportivo

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Perché, si chiederanno i lettori, dedicare il numero monografico della nostra rivista proprio a Torino?Ci viene in soccorso un’arguto lampo di Umberto Eco: “Senza l’Italia, Torino sarebbe più o meno la stessa cosa. Ma, senza Torino, l’Italia sarebbe molto diversa”.Seguendo questa intelligente suggestione, abbiamo ripercorso l’anima complessa di questa città. Torino sabauda italiana (anzi romana), alpina ed insieme transalpina, che guarda alla Francia ma anche all’Europa tutta.Allo stesso modo, si intersecano, scontrano ed a volte trovano luoghi di composizione dialettica vere e proprie linee di forza culturali e sociali. Ne è un esempio l’articolo sulla poetica e la figura di Gozzano, la cui biogra-fia si intreccia con gli anni della Torino in transizione tra vecchio mondo sabaudo (contadino ed aristocratico insieme) e nascente civiltà urbano-industriale.Diversi articoli colgono poi altri aspetti della mobilità pensosa e piena di sofferti contrasti che accompagna la sua storia: la “marcia su Torino” di Mussolini, che contende la piazza sia a quel “piccolo stato assolutista” rappresentato dalla Fiat che al laboratorio privilegiato del potere operaio; l’eccezionale convivenza di due dei più alti intellettuali italiani del ‘900, Gobetti e Gramsci, incrocio di aristocrazia, nobiltà e stile in nome della critica per la libertà e dell’antifascismo; la specifica peculiarità dello stesso Gobetti, intellettuale purissimo in cui l’ingegno è messo a servizio della politica.Torino, dietro una facciata apparentemente austera, rivela un cuore pulsante e creativo. Come la sorpresa per certa produzione letteraria di Primo Levi, in cui si associa l’interesse per la chimica con l’amore per la montagna, utili tutte e due per comprendere e dominare la materia e la fame di capire le cose, ma (con lettura più politica) entrambe finestre di libertà contro le imposizioni dogmatiche del fascismo.Vitalità che emerge anche in ambito artistico ed architettonico. Ecco allora l’approfondimento sul barocco sabaudo, che dà forza ad un notevole sviluppo urbanistico insieme a sperimentazioni innovative, compren-denti soluzioni italiane e caratteristiche transalpine. Sfida innovativa ed originale anche quella che porta alla costruzione della Grande Mole dell’Antonelli, il più alto edificio in muratura mai realizzato, quasi un modo per raggiungere il cielo.Ed a proposito di cielo, non poteva mancare un ricordo in chiave calcistica del “grande Torino”, che un aereo caduto ci ha tolto a livello temporale, ma che rimarrà per sempre nell’iperuranio dei campioni. Infine Torino si rivela anche come scrigno delle meraviglie. È sufficiente pensare al Museo del Cinema ed ai suoi segreti che ci introducono allo spettacolo più bello del mondo, senza dimenticare il fascino del suo ascensore che ci porta, a cielo aperto, letteralmente sopra la città. Senza ignorare un’altra effervescente dimensione della vita cittadina, quella gastronomica, anch’essa capace di coniugare le radici della cucina sabauda con il futuro rappresentato dal digital gourmet restaurant.

Tra gli articoli ci manca però quello che più avremmo voluto leggere, quello di Angela Fiorenzani, amica prima che collega, colta e sensibile; una delle colonne di questa rivista. A lei dedichiamo questo numero.

Difficile parlare di Angela, difficile perché il dolore per la sua perdita è ancora vivo per tutti noi. Nel parlare di lei non è possibile fare a meno di ricordare un bel rapporto di amicizia, un’amicizia costruttiva, come sono quelle, poche e preziose, che possono nascere nella maturità, incontrando qualcuno che pare aver conosciuto da tempi remoti e scoprendo, con stupore, di condividere memorie e aspirazioni. Ma non si può ricordare solo l’amicizia: la sua straordinaria capacità di mettersi in gioco, di vivere intensamente, con profondo impegno e dedizione l’esperienza di docenza, ne ha fatto un punto di riferimento per quanti l’hanno conosciuta, che ne rimpiangiamo l’entusiasmo, la capacità di dar vita e contribuire in modo propositivo e costruttivo alle migliori iniziative della nostra scuola, tra le quali questa rivista. Il pensiero corre ai suoi studenti, ai quali ha lasciato un importante

insegnamento, non solo per la loro futura preparazione, ma per la vita. Sono loro che custodiscono quel messaggio che permeava il suo modo di essere e il suo lavoro, coniugando in modo mirabile rigore, umanità e bellezza. Quella nostalgia di bellezza, iscritta profondamente nella nostra fragile natura, che rappresenta il rimedio essenziale ai mali della nostra epoca.

Editoriale

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oppositore governo e fascismo».

Così, nel 1925 intimava Benito Mussolini in un telegramma di suo pugno contro Piero Gobetti, fondatore e direttore della rivista di cultura politica «Rivoluzione liberale». E, infatti, il giovane torinese, dopo aver subito l’ennesima aggressione delle squadracce fasciste, di lì a poco sarà costretto a emigrare, insieme alla giovane moglie Ada Prospero, a Parigi dove morirà il 15 febbraio del 1926, all’età di 25 anni, a seguito delle percosse subite.L’impresa di «Rivoluzione Liberale» era cominciata nel 1922, quando Piero ave-va solo 21 anni, dopo aver già diretto la rivista «Energie Nove», aver collaborato per l’«Ordine Nuovo» di Gramsci come critico teatrale e aver fondato la rivista «Baretti» e la «Piero Gobetti editore», che dava alla luce, in quel 1925, Ossi di seppia di Montale. Era stato proprio il poeta a dargli l’ultimo saluto a Genova prima che ripartisse per Parigi. Torino agli inizi del ‘900 era una delle città del triangolo industriale del nord Italia, do-veva apparire moderna, vivace e all’avan-guardia; centro pulsante di un vivere civile

di Elisabetta Amalfitano

«Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a Parigi e oggi sia in Sicilia. Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente difficile la vita a questo insulso Piero Gobetti

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e culturale che attirava giovani, intellettuali e artisti desiderosi di sperimentazioni e innovazioni in un clima di fiducioso otti-mismo che caratterizzava la belle époque italiana. Il giovane Piero rappresentava in tutta la sua forza e vivacità quello spirito che apriva la nostra Penisola alla modernità e all’industrializzazione. Nel 1911 era giunto a Torino dalla Sarde-gna un altro giovane dai pensieri e dalla mente instancabili: Antonio Gramsci che, grazie a una borsa di studio del liceo Carlo Alberto, può iscriversi alla facoltà di Let-tere e filologia. Il 1911 era stato l’anno, oltre che della guerra di Libia, della prima esposizione universale nella ex capitale d’Italia e Gramsci vive in maniera diretta l’industrializzazione e l’apertura al na-zionalismo acceso. Immaginiamo quale impressione dovette fare al giovane isolano il confronto con quella che gli era apparsa una vera e propria metropoli. Alla base del-la sua riflessione c’è dunque fin da subito quell’impatto con la modernità percepita come il precipitare di un processo storico irreversibile di dissoluzione di legami co-munitari, con l’esaurirsi delle concezioni morali e religiose che li cementavano. Gli anni immediatamente dopo la Prima

Torino industriale anni ‘20

Antonio Gramsci

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Guerra Mondiale vedono un’Italia che da un lato deve riparare drammi e ferite inferte dal grande massacro, dall’altro prepararsi a cavalcare quell’onda di modernizzazione e di massificazione che negli altri Paesi era già stata avviata sul finire dell’800. Negli anni Venti si consolidano le analisi dei due giovani intellettuali.Gobetti porta avanti dalle colonne del suo giornale una vera mobilitazione culturale poiché, come sostiene nel manifesto pro-grammatico uscito nel primo numero di «Rivoluzione liberale», uno dei nodi da cui partire è lo «studio sugli uomini e della cultura politica»2 . Se Antonio riflette sul passaggio dalla ci-viltà agraria e contadina a quella industriale moderna, Piero si interroga sull’avvenuto o meno processo di unificazione risorgimen-tale. Il punto di partenza per lui è che la lotta per la libertà non è qualcosa di astratto e trascendente, ma si deve radicare nella coscienza degli uomini, per cui centrali sono l’educazione degli individui e il nesso tra rivoluzione e libertà.

«Una rivoluzione o è liberale o non è una

rivoluzione»3 .

Entrambi i giovani avvertono in maniera vivissima la fase di transizione che sta vivendo il Paese e riflettono sul «nuovo che avanza» facendo i conti su limiti e possibilità degli italiani. Entrambi hanno appena vissuto gli echi e le scosse rivo-luzionarie della Rivoluzione d’ottobre e ora assistono al decadimento liberale di fronte all’avanzata dei nazionalismi e dei fascismi. Le domande da porsi sono molte e assai dirimenti, ma una per tutte incalza: in quale direzione procedono le energie nuove che sprigiona il paese? è proprio adesso che si può costituire secondo Gramsci un «uomo nuovo» da contrapporre all’uomo borghese moralista e qualunquista, un uomo plasmato dal soviet, in grado di svegliare gli operai dalla loro pigrizia, dalla loro ignoranza. Ed è a questo scopo che nel 1919 ha fondato il settimana-le «L’Ordine Nuovo», il cui titolo è già tutto un programma. L’idea gramsciana è che la guerra ha sprigionato energie disordinate e caotiche e che è necessario dare ad esse una forma e un «senso». All’indomani della

Copertina della rivista

“La Rivoluzione Liberale”

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Nato a Torino il 19 giugno 1901, Gobetti fin da ragazzo è animato da una profonda sete di conoscenza che lo induce a perseguire intensissimi programmi di studio. Frequenta il liceo-ginnasio “Gioberti” e lì conosce Ada Prospero, figlia di un commerciante, che diventerà sua moglie nel 1923. Il legame che si instaura tra loro non è solo sentimentale, ma anche di collaborazione culturale e politica. Donna poliedrica per cultura e carattere, antifascista, scrittrice, traduttrice, Ada riceverà la Medaglia d’argento della Resistenza e sarà nel 1945 la prima donna vicesindaco della Torino appena liberata.

Nel novembre 1918, Piero fonda la rivista “Energie Nove”, con l’intento di alimentare il rinnovamento dell’Italia postbellica. Definisce subito il fascismo “movimento plebeo e liberticida” e l’antifascismo “nobiltà dello spirito”.

Nel 1919 rifiuta la direzione de “l’Unità” propostagli da Salvemini e riprende la pubblicazione di “Energie Nove” interrotta poco tempo prima.

Nel luglio dello stesso anno scrive sulla rivoluzione russa proponendone una originalissima interpretazione, egli infatti interpreta la rivoluzione di Lenin e Trotzky come rivoluzione liberale, perché è azione, movimento e tutto quello che si muove va, secondo lui, verso il liberalismo.

Nel febbraio 1922 Gobetti inizia la pubblicazione della sua seconda rivista “La Rivoluzione liberale”, che si propone il compito di preparare una nuova classe politica e che via via diventa centro di impegno antifascista di segno liberale, a cui collaborano la moglie Ada e intellettuali di diversa estrazione tra cui: Amendola, Salvatorelli, Fortunato, Gramsci, Antonicelli e Sturzo; suscitando così le ire dello squadrismo e delle frange più estreme del regime che non mancano occasione di mostrare la loro ostilità facendo ricorso anche alla forza.

Gobetti si impegna inoltre a ricercare le cause remote del fascismo, egli infatti risale al Risorgimento e al suo carattere di movimento elitario borghese, considerando il fascismo il prodotto dello sviluppo storico italiano, del suo ritardo del raggiungimento dell’unificazione e del suo squilibrato sviluppo economico. In Gobetti, infatti, appare per la prima volta il concetto di fascismo come “autobiografia della nazione”:

“Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto di ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più, è stato l’autobiografia della nazione”

Bersaglio ormai da tempo di continui sequestri Gobetti fa uscire un’ultima volta “La Rivoluzione Liberale” l’8 Novembre 1925. Il 3 Febbraio 1926 dopo aver subito l’ennesima violenza fisica decide di trasferirsi a Parigi dove muore la notte del 15 febbraio colpito da una bronchite e per i postumi delle percosse.Ada rimane così sola con il figlio Paolo di pochi mesi. Strazianti le parole sul suo diario:

“Non è vero, non è vero: tu ritornerai. Non so quando, non importa, non importa. Ritornerai e il tuo piccolo ti correrà incontro e tu lo solleverai tra le tue braccia. E io ti stringerò forte forte e non ti lascerò più partire, mai più. È un vano sogno, tutto questo, una prova a cui hai voluto pormi: tu mi vedi, mi senti: e io saprò mostrarmi degna del tuo amore. Quando ti parrà che la prova sia durata abbastanza, tornerai per non più lasciarmi. Saranno passati molti anni ma immutati splenderanno i tuoi occhi e ritroverò le espressioni di tenerezza della tua voce. Mio caro, mio piccolo mio amore, ti aspetterò sempre: ho bisogno di attenderti per vivere”.

BIOGRAFIA DI PIERO GOBETTI

di Giulia Bianchini e Eleonora Merciai, 5BLS

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guerra e della Rivoluzione russa, Gramsci vede nell’esperienza delle fabbriche torine-si la possibilità concreta di una rivoluzione nel nostro Paese, per la fondazione di una società e di un’umanità nuove. Il problema che a ogni socialista si impone adesso è:

«Come dominare le immense forze so-ciali che la guerra ha scatenato? Come disciplinarle e dar loro una forma politica che contenga in sé la virtù di svilupparsi normalmente, di integrarsi continuamente, fino a diventare l’ossatura dello Stato so-cialista, nel quale si incarnerà la dittatura del proletariato?».4

Tra il 1919 e il 1920, in quel «biennio ros-so», Gramsci e gli ordinovisti si pongono alla testa dell’occupazione delle fabbriche torinesi e i consigli di fabbrica divengono la «cellula» da cui partire per instaurare la dittatura del proletariato. La società civile viene ora ad essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto. Quello che un tempo aveva fatto la trincea, adesso lo fa l’organizzazione industriale: insegnare agli operai il senso di comunità e appartenenza in modo da farlo diventare una compagine coesa.

«la classe lavoratrice è andata [...] svi-luppandosi verso un tipo di umanità storicamente originale e nuovo: l’operaio di fabbrica, il proletario che ha perduto ogni residuo psicologico delle sue origine contadinesche o artigiane, il proletario che vive la vita della fabbrica, la vita della produzione intensa e metodica, disordinata e caotica, nei rapporti esterni alla fabbrica […], ma nell’interno della fabbrica, ordi-nata, precisa, disciplinata».5

Anche per Gobetti la trasformazione dello stato italiano può avvenire soltanto per via di un processo rivoluzionario, che dovrà essere guidato dal movimento operaio del nord d’Italia, unica classe in grado di porsi come antagonista alla borghesia, che si sta gettando nelle braccia del fascismo. Gobetti sogna quindi una rivoluzione dal basso capace di forgiare «energie nuove» in grado di guidare il Paese dopo la caduta del fascismo. E su questo punto si incontra

con il pensatore sardo. Nel 1922, l’anno della marcia su Roma, Piero ha solo 21 anni e Antonio 31: sono due giovani con l’entusiasmo, la radicalità e l’intransigenza che caratterizzano la loro età e ai loro occhi il mondo liberale dei Gio-litti, dei Salandra e dei Savoia appare come stantio, passivo e accondiscendente verso l’azionismo e la violenza che sta dilagando nel paese e in Europa. Entrambi simpa-tizzano con il leaderismo di Lenin che è riuscito a far alzare la testa a un popolo intero contro lo zarismo, ma divergono sul comunismo e sul ruolo del partito bolscevi-co e Gobetti verrà sempre più affinando la sua idea di una «rivoluzione liberale» non marxista, non calata dall’alto di un partito. Per Gobetti il nuovo Partito comunista ha sostituito al mito della libertà quello di un egualitarismo astratto, sostituendo all’in-dividualismo la morale della solidarietà, «una specie di calcolata complicità col parassitismo». Ecco perché Gobetti critica il PC di cui invece dal 1921 è segretario Antonio Gramsci. Gobetti ha guardato con favore all’esperimento ordinovista di Gramsci perché gli è parso avvicinarsi alla sua idea di rivoluzione dal basso:

«La fabbrica educa al senso della dipenden-za e della coordinazione sociale, ma non segue le forze di ribellione, anzi le cementa in una volontà organica di libertà. Al centro della costituzione tradizionale sostituisce l’ideale sempre rinnovato di un ordine nuovo. L’individuo trova la sua elevazione nella morale del lavoro».6

Solo il Piemonte mantiene entro di sé dei caratteri autenticamente laici e liberali, in grado di portare avanti una società di «an-ticonformisti e di individui, una comunità di dissidenti». Solo «L’Ordine Nuovo» di Gramsci sembra proporre una speranza, che si colloca sull’onda di quella Rivoluzione russa che, agli occhi dell’autore torinese, appare come un nuovo Risorgimento, la prima rivoluzione laica e democratica.

«Bisogna avere il coraggio di non stare sul sicuro. Qualcosa fuori del calderone può nascere […] Se al fascismo e ai fanatici del combattimento sta il rimestare, a noi

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si conviene il precisare idee e interessi».7

Ma Gramsci e gli ordinovisti saranno la-sciati soli dal Partito socialista di Turati e dalla CGL che non li appoggeranno nelle loro lotte e il movimento torinese fallirà di fronte all’avanzata della violenza squadri-sta. Secondo Gobetti gli operai avevano vi-sto nel socialismo la via rivoluzionaria per la libertà, ma i politici liberali non avevano saputo intercettare i loro interessi e i loro umori. Il Partito liberale si è così ridotto a un partito di governo, ma anche il Partito socialista, nato con velleità rivoluzionarie, si è appiattito negli anni a una prassi rifor-mista dedita alla tattica dei miglioramenti economici e del cooperativismo, condito di un generico filantropismo. I riformisti non hanno né un linguaggio, né un programma chiari per gli elettori, che si disorientano e si offrono «acquiescenti» e «addomesti-cati» ai Giolitti e Salandra del momento. Ci sarebbe stato bisogno di una critica libera e coraggiosa per proporre una netta e intransigente opposizione, un’antitesi di stile, ma di lì a poco il fascismo fece in modo che le menti di questi due giovani dis-sidenti non funzionassero più massacrando di botte l’uno e incarcerando nel 1926 per dieci lunghissimi anni l’altro. E l’ala nera del fascismo avvolgerà l’Italia per vent’an-ni. Gramsci uscirà dalla prigionia nel 1937 pochi giorni dopo, il 27 aprile, morirà.

BIBLIOGRAFIA

G.M. Bravo e C. Malandrino, Socialismo e comunismo, Franco Angeli, Milano 1986.L. Bulferetti, Le ideologie socialistiche nell’età del positivismo evoluzionistico (1870-1892). Le Monnier, Firenze 1951.P. Gobetti, La rivoluzione liberale (1924), a cura di Ersilia Alessandrone Perona, con un saggio di Paolo Flores D’Arcais, Einaudi, Torino 1995.P. Gobetti, Al nostro posto. Scritti politici da «La rivoluzione liberale», a cura di Paolo Costa e Andrea Riscassi, Limina, Arezzo 1996.P. Gobetti, Opera critica – Parte I – Arte religione filosofia, Edizioni del Baretti, Torino 1927.A. Gramsci, L’ordine nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1970.

Manifesto FIAT anni ‘20

NOTE

1. (dal Titolo) P. Gobetti, “Le elezioni”, 12 febbraio 1924, ora in Id., Al nostro posto. Scritti politici da La rivoluzione liberale, a cura di Paolo Costa e Andrea Riscassi, cit., p. 42.2. P. Gobetti, Al nostro posto. Scritti politici da La rivoluzione liberale, a cura di Paolo Costa e Andrea Riscassi, Limina, Arezzo 1996, p. X.3. Ibidem4. Gramsci, “Democrazia operaia”, in L’Ordine Nuovo, 21 giugno 1919, ora in A. Gramsci, La nostra città futura. Scritti torinesi (1911-1922), a cura di Angelo d’Orsi, Carocci, Roma 2004, p. 190.5. A. Gramsci, L’ordine nuovo, Einaudi, Torino 1970, p. 325 “L’operaio di fabbrica”, 21febbraio 1920.6. P. Gobetti, La rivoluzione liberale, cit., p. 45.7. P. Gobetti, “Uomini e idee”, 26 febbraio 1924, ora in Id., Al nostro posto. Scritti politici da «La rivoluzione liberale», cit., p.114. A. Gramsci, La nostra città futura. Scritti torinesi (1911-1922), a cura di Angelo d’Orsi, Carocci, Roma 2004.

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ari Lettori de il Gobetti,“l’editore deve essere fon-damentalmente uomo di biblioteca e di tipografia, artista e commerciante”.Perciò che tali parole, tratte da una riflessione di Piero Gobetti su ciò che secondo lui doveva essere l’editore ideale, direi che prima di

altre ed insieme a molte altre possono me-glio fare intendere chi e cosa era insieme alla città di Torino, il soggetto della tratta-zione del numero di questa storica rivista.Quindi se tali parole fossero portate ad integrare seppure una sommaria lettura della sua di lui vita e produzione intellet-tuale, queste non potrebbero che stabilire un primo punto fermo intorno al quale poi potrebbe risultare più semplice capire e di-segnare il tragitto della sua breve esistenza; e cioè che Piero Gobetti era prima di tutto ed essenzialmente un politico. Un politico invero nel suo senso più alto ma che tuttavia non è scevro di una radicalità etica e quasi ascetica probabilmente figlia della sua giovane età. Memorabile la diatriba con Palmiro Togliatti il quale lo aveva bollato come sì, ragazzo di ingegno, ma atteggiato

a predicatore morale del mondo. Alla base di questo scontro, i cui termini verranno in seguito affievoliti dallo stesso Togliatti, vi era non già una antipatia personale o qual-sivoglia moto personale dell’animo, forse, anche, visto l’attivismo spregiudicato del giovane Gobetti da risultare a tratti persino irriverente, ma la disputa verteva nella so-stanza sulla lettura discorde che comunisti e liberali davano delle sorti del mondo e principalmente sui mezzi che avrebbero consentito di rinnovare lo Stato creando democrazia, libertà e uguaglianza. Il tema del contendere era il materialismo storico, laddove l’ortodossia marxista predicava il credo scientifico secondo il quale il capitalismo sarebbe crollato, necessariamente e quasi meccanicamente ucciso da gli stessi mezzi con i quali si era imposto. Nessun intento riformatore avreb-be impedito perciò che questo accadesse suggerendo la prassi politica dell’attesa, dell’intransigenza morale dinanzi al capi-tale, convinti che alla prossima caduta del sistema capitalista allora, e solo allora, le masse si sarebbero rivoltate dando vita ad uno Stato democratico ed ugualitario.Al determinismo marxista il pensiero libe-rale, ed in particolare il pensiero di Gobetti,

di Massimo Bartoli

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contrappone invece una civiltà dell’atti-vismo che vede nell’individuo il proprio fine e il proprio inizio. Parole importanti queste poiché l’occasione avuta dalla lotta risorgimentale era stata per Gobetti mise-ramente perduta dalla volontà di anteporre la democrazia alla libertà, creando i presup-posti di uno Stato centralista e, a parere di Piero Gobetti, proprio per questo organo legiferante nella sola prospettiva di man-tenere i giusti equilibri e quindi di chiara propensione assistenziale. L’unità d’Italia portava infatti alla ribalta la questione del mezzogiorno così che prima di tutto vi era la necessità della creazione di una robusta rete burocratica che potesse mantenere unito il paese nella legge e d’altro canto, venivano derubricate e tamponate le spinte libertarie che specialmente in campo eco-nomico avrebbero potuto scalfire l’unità appena raggiunta. Una lettura marcatamente liberale questa, che vedeva non nel potere centralizzato ma nel valore delle autonomie locali prima di tutto, l’occasione ad una vera e propria rivoluzione morale del lavoro nella quale il ruolo dello Stato venisse ricondotto alle attività popolari, in un principio volonta-ristico dell’individuo che diviene perciò esso stesso coscienza statale. Una siffatta società rifugge il socialismo statalista ma

vede nell’individualismo la prima base dell’azione politica suffragata dal senso di responsabilità, nella consapevolezza che il vero liberismo non è quello di sentirsi tutti liberali ma tutti posti nella condizione di potere diventare liberi. Evitando altresì di svilire tale concetto nella fumosa concezio-ne democratica. Se non fosse per il fatto che è evidente che Gobetti è essenzialmen-te un politico, liberale e pragmatico. In questo senso la spiegazione che egli dispo-ne della mancanza in Italia di uno spirito capitalista, è che la tendenza dell’animo suggerita dalle chiese riformate, calviniste in particolare, è quella dell’etica del lavoro e del profitto. Il calvinismo è in gran parte ispirato dalla teologia di San Paolo secondo la quale la giustificazione, ossia il processo di accettare e dichiarare come giusto colui che osserva la legge di Dio e per questo ha tutti i privilegi che questo comporta, è un atto esclusivo e di imperio di Dio e della fede in Gesù Cristo quale redentore. Non per opere dunque siamo salvati ma per fede e fede soltanto suggerisce questa lettura della Bibbia che unita al carattere non verticistico della chiesa riformata, ci ricorda che il rapporto tra l’uomo e Dio è una relazione esclusiva e individuale. Tale, che è possibile già in vita avere un riscontro visibile e sicuro di quella che

Il “Quarto Stato”, dipinto a olio su tela del pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo, realizzato nel 1901 e conservato nel Museo del Novecento di Milano

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è una predestinazione dovuta alla grazia divina e questa conferma, possiamo dire, è il profitto, la ricchezza e il benessere rag-giunti. Conseguenza di ciò è che il povero invece è colui che per i peccati commessi è escluso dalla grazia di Dio. L’etica protestante sarebbe insomma la discriminante di rilievo che ha favorito per primi i paesi calvinisti nel giungere al capitalismo rispetto a quelli cattolici, per Gobetti, e come la fede nel protestante ha un valore fine a se stesso e non ha niente a che fare con le opere compiute, fulcro della teologia cattolica, il lavoro per il pensiero protestante ha un valore morale e il profitto deve essere reinvestito poiché non ha niente a che fare con i piaceri che da questo ne potremmo ricavare.Intellettuale purissimo Piero Gobetti a pa-rere di colui che scrive in questo momento, nel suo significato più alto quando l’inge-gno vien messo a servizio della politica, pratica regina tra le attività umane. Tuttavia questo grande pensatore, non ha potuto verificare nel merito le sue analisi data la brevità della sua esistenza. Non ha potuto, non ne ha avuto il tempo, verificare negli anni alla luce poi di quello che avrebbe po-tuto essere il suo possibile vissuto, e quindi considerando gli inevitabili mutamenti psicologici, biologici e quant’altro che av-vengono durante una esistenza compiuta, non ha potuto verificare dicevo, se la storia o lui stesso avrebbero confermato quanto pensato e scritto. Particolarmente interessante potrebbe esse-re il sapere, ad esempio, quel che direbbe

Gobetti della deriva finanziaria e paras-sitaria che avrebbe avuto il capitalismo, rispetto a quello invece industriale di inizio secolo proteso a produrre beni e occupazio-ne. Cosa direbbe ancora lui, del liberismo dei mercati e della globalizzazione che ha di fatto creato enormi potentati economici e concentrazioni di denaro, a fronte della fiducia con la quale egli guardava all’ini-ziativa di impresa e al modello liberale che avrebbe dovuto invece favorire certo una società formata da individui, ma nella qua-le il continuo alternarsi di classi dirigenti avrebbe favorito una normale distribuzione della ricchezza. Infine, avesse avuto più tempo di quanto ne ha avuto, Piero Gobetti, che è morto ricordo a 25 anni, avrebbe an-cora combattuto lo statalismo o si sarebbe reso conto che proprio perché il liberale è divenuto liberista lo Stato rappresenta l’unico vero argine.Ma il ruolo dell’intellettuale è in fondo quello di disegnare orizzonti, umani e so-ciali. Quello del politico invece è capire se questi orizzonti siano possibili e qualora lo fossero, si intende giustificabili attraverso una morale, il politico deve tracciare il percorso e le tappe per giungervi. La breve esistenza di Piero Gobetti non ha consentito la sintesi di questi due momenti importantissimi, sintesi che si attua soltan-to con la crescita e con il compimento in linea di massima delle fasi biologiche di ogni vita.Piero Gobetti è stato troncato dalla barbarie fascista, dalla società infantile e criminale come la definiva lui, restando bloccato al piano teorico, alla fiducia nell’incertezza con la quale vedeva di buon grado un con-tinuo di classi e di uomini che si alternano democraticamente al potere, alla società liberale di uomini liberi.Alla speranza in fondo, suggello dell’età giovanile con la quale si guarda al mondo e alla vita. Piero Gobetti è stato troncato, prima che potesse, con l’età, abbandonarsi finalmente all’attesa, alla fiducia questa volta che tutto si compie dietro una regola che travalica l’uomo e le sue più lusinghiere intenzioni, e forse, prima che avesse potuto sperimentare i profondi legami che univano il suo liberalismo al determinismo delle conclusioni marxiste.

La catena di montaggio

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nno 1920: gli operai delle officine FIAT occupano le fabbri-che. Antonio Gramsci, Bruno Buozzi, Piero Gobetti partecipano e

sostengono l’iniziativa. Giovanni Agnelli, l’uomo delle intuizioni, della mediazione, della filantropia fatta di calcolo e utile reci-proco, propone agli operai la costituzione di una cooperativa, una proposta provocatoria anche per le condizioni economiche da lui imposte, che non verrà mai realizzata. L’esperienza operaia di quegli anni darà un’impronta decisiva al pensiero politico di Gobetti, che si lega di vera amicizia con Antonio Gramsci, assiste alla nascita e alla polemica sui consigli di fabbrica, allo scio-pero dell’aprile 1920, all’occupazione di settembre. Torino è, in quegli anni, il centro propulsore di una modernità che porta con sé tutte le contraddizioni del capitalismo industriale. «Torino fu, negli anni della formazione di Gobetti, tra le città italiane, il solo ambiente favorevole al sorgere di uno stato compiutamente moderno – scrive Carlo Levi – l’unico grande centro indu-striale dove esistevano alcuni imprenditori

coraggiosi, capitani di industrie sane, e una classe operaia che si trasformava da plebe in proletariato».1 In quei mesi a Torino lo slogan è «fare come in Russia»; sono presenti più di 80 consigli di fabbrica, forme di autogoverno operaio che, ispirandosi ai soviet russi, intendono sostituire, a detta di Gramsci, «la persona del capitalista nelle funzioni amministrative e nel potere industriale». La rivoluzione sembra essere alle porte.Intraprendente erede dell’aristocrazia fon-diaria piemontese, profondamente legato a quella borghesia liberale che aveva guidato l’Italia dall’unità in poi, fedele sostenito-re dell’impostazione politica di Giolitti, Giovanni Agnelli tenta tutte le possibili strade del dialogo e della mediazione per risolvere la situazione dell’occupazione delle fabbriche. Tuttavia, messo alle stret-te dagli eventi, sembra non escludere del tutto la possibilità di un intervento che faccia ricorso all’uso della forza per far sloggiare gli occupanti. Significativo, per comprendere il clima di quei giorni, è il divertente dialogo tra Agnelli e Giolitti, riportato dal direttore del quotidiano tori-nese La Stampa:

di Lucia Alessio

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di Mussolini nell’ambito costituzionale sostenendo la sua candidatura al governo ai fini di depotenziare la portata eversiva del movimento. Dopo la formazione del primo governo Mussolini e lo scioglimento delle squadre d’azione, Agnelli crede di poter stabilire un rapporto personale di fiducia col capo del Governo patteggiando il suo spostamento su posizioni più moderate. Mussolini, dal canto suo, conscio dell’im-portanza strategica dell’appoggio di colui che rappresentava il punto di riferimento degli industriali, il 18 marzo del 1923 lo nomina senatore del Regno. Due mesi dopo si inaugura il nuovo com-plesso industriale del Lingotto, descritto nove anni dopo, con toni trionfalistici da una pubblicazione fascista («l’automobile Fiat si fa al Lingotto, un nome questo che oramai in tutto il mondo vuol dire Fiat»).3 Si tratta di un gigante di cemento armato dalle misure grandiose, costruito dall’in-gegner Gracomo Mattè Trucco sulla base di criteri puramente funzionali, con una superficie di circa 150.000 metri quadrati; una struttura avveniristica che le Corbusier definirà «un documento per l’urbanistica». Il fabbricato principale è costituito da due corpi longitudinali lunghi 508 metri uniti tra loro da 5 corpi trasversali che formano quattro cortili interni. Il tutto sormontato da una pista in cemento armato, destinata al collaudo dei veicoli, con pavimentazione in asfalto, costituita da due rettifili di 443 metri ciascuno e da due curve sopraelevate. All’interno della nuova struttura il lavoro viene organizzato in termini strettamente tayloristici, applicando una rigorosa razio-nalizzazione della produzione, come nelle officine Ford di Detroit, che Agnelli aveva avuto modo di visitare e che rappresenta-vano il modello da emulare per competere sul mercato automobilistico internazionale.All’inaugurazione sono presenti Mussolini, il re e i membri della famiglia reale. La situazione è tesa: gli operai, che in altra occasione avevano impedito una visita di Mussolini, ricevono da Agnelli un’ammo-nizione decisamente esplicita: convocati i membri delle Commissioni interne, egli dice loro riferendosi al nuovo capo del governo: «Ci sono tre modi per riceverlo: applaudire, tacere o sabotare. Il terzo modo

Giolitti parlò lungamente della sua politica: soltanto il tempo avrebbe dato il rimedio necessario; non esi-steva, diversamente, altra politica che quella della forza. «Precisa-mente» interruppe l’Agnelli. «Sia» aggiunse Giolitti, «ma intendiamoci, non permetto che la forza pubblica rimanga nelle strade nella certezza che se le guardie rosse sparano la colpiscano dall’alto senza difesa. Per scacciare gli operai occorre l’arti-glieria». Consentì Agnelli, e Giolitti: «Sono in grado di provvedere subito. A Torino c’è il settimo reggimento di artiglieria da montagna: do ordine immediato che domani all’alba sia bombardata la Fiat e sia liberata dagli occupanti» Agnelli: «No, no». Giolitti «E allora?». Nessuna replica di Agnelli.2

L’occupazione è l’ultimo atto del tentativo rivoluzionario che aveva sconvolto l’Italia e l’Europa nel cosiddetto «biennio rosso» (1919-20), sull’onda della rivoluzione russa. Due anni dopo, la marcia su Roma segnerà l’ingresso del fascismo nelle istituzioni di governo. Agnelli è profonda-mente contrario allo squadrismo fascista e alle manifestazioni più rivoluzionarie e radicali della prima fase del movimento.Tuttavia, la sua fiducia in Giolitti lo induce a seguire il tentativo di riassorbire l’azione Il Lingotto, Torino

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lo stroncherò con tutti i mezzi».4 La visita, non troppo gradita neanche ad Agnelli, viene ritenuta necessaria per stabilire gli inevitabili rapporti di colla-borazione col governo in carica, fermo restando che Mussolini avrebbe agito come capo del governo e non come leader del movimento fascista. Il cerimoniale è ridotto all’osso e la visita alle officine è limitata allo stretto necessario. Dal video girato in tale occasione emerge l’estrema sobrietà della cerimonia, soprattutto se confrontato con le immagini delle successive adunate organizzate per le visite di Mussolini alla fabbrica nel 1932 e nel 1939 (che pure a loro volta non rappresentarono un successo per il Duce)5. Scrive Castronovo:

Netta è la sensazione delle distanze che correvano t ra Agnel l i e Mussolini, fra i due mondi così diversi che rappresentavano: l’uno, disteso e sciolto con un austero abito color antracite, perfettamente a suo agio con le regole prescritte in simili rituali; l’altro con un’aria ostentatamente sicura e risoluta, un cappello a cilindro piantato in testa e le mani nelle tasche di un soprabito grigio, ma visibilmente impacciato e nervoso, da uomo ancora poco avvezzo a questo genere di liturgie pubbliche e tanto meno al rigore dell’etichetta sabauda di casa nell’establishment torinese.6

Mussolini ha modo di pronunciare un breve discorso affermando che «è nell’interesse degli industriali che gli operai stiano tranquilli, che conducano una vita tranquilla, che abbiano il necessario nella vita, che non siano assillati dai bisogni insoddisfatti. Ma è anche interesse degli operai che la produzione si svolga con un ritmo ordinato, vorrei dire quasi solenne, perché il lavoro è la cosa più solenne, più nobile e più religiosa della vita». Gli applausi saranno pochi. Agnelli, commenterà Gobetti, aveva consentito la «marcia su Torino» ma evitando «prove di forza». Il rapporto difficile tra Agnelli e il regime sembra essere dovuto a un conflitto di pote-

ri e alla strenua difesa della propria libertà di azione e del proprio ruolo dirigente da parte dell’industriale torinese piuttosto che a una divergenza di carattere ideologico. Anche perché il fascismo si presentava come un movimento politicamente am-biguo e nello squadrismo dei primordi era difficile distinguere l’aspetto anar-chicheggiante e rivoluzionario da quello nazionalista e antibolscevico. Agnelli si era sempre opposto a chi avrebbe voluto ricorrere alla violenza squadrista per tenere sotto controllo gli operai, e i suoi rapporti con Cesare De Vecchi, il candidato fascista torinese eletto nel «Blocco Nazionale» nel 1921, erano estremamente tesi, sia a causa delle proteste che questo aveva messo in scena contro di lui, sia per le ripetute vio-lenze perpetrate dai suoi contro gli operai

La “Balilla”, manifestopubblicitario di Marcello Dudovich

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torinesi. Nel giorno dell’inaugurazione del Lingotto era stato organizzato un ricevi-mento all’Hotel Europa in onore del capo del governo e del re. Nella piazza antistante l’hotel la folla acclama Mussolini. In questa occasione pare che Agnelli abbia pronun-ciato la seguente frase: «Questa folla accla-mante il capo del governo è qui per volontà mia, io sono il padrone di queste masse che comando, inquadro, sfamo e dirigo»7 De Vecchi e Agnelli arrivano quasi alle mani. È ancora Gramsci, nel marzo del 1920, a illuminarci sui tratti del carattere del fondatore della Fiat: «La Fiat è un piccolo Stato assoluto, che ha un autocrate: il commendator Giovanni Agnelli, il più audace e tenace dei capitani d’industria italiani, un eroe del capitalismo moderno». E Gobetti nel 1923 attribuisce alla sua tempra il suo successo come anche la popolarità da lui goduta tra le folle giacché egli era «il capitano d’industria che sa capire e sfruttare (negli altri) il valore del disinteresse, l’uomo che sa conquistarsi le simpatie col sorriso, che dopo aver fatto i calcoli non si perita di giocare con l’imponderabile». Questo perché «capisce il valore delle forme e dei gesti, l’utilità del sapersi mostrare non aridi, proprio quando l’impresa è fondata sull’aridità e sul commisurare i prezzi di un uomo e della

sua vita al prezzo delle macchine».Il rapporto tra Agnelli e il regime resterà sempre controverso e difficile. Nonostan-te le reiterate dichiarazioni di devozione, nonostante avesse battezzato la sua pri-ma utilitaria col nome di «Balilla» e una locomotrice col fascistissimo nome di «Littorina», Agnelli continuerà ad agire perseguendo unicamente ciò che riterrà utile nell’interesse dell’azienda, rifiutando, per quanto possibile, ogni interferenza. Egli si riterrà sempre il vero «padrone» della Fiat e aderirà solo formalmente al populismo di Mussolini il quale, da parte sua, non vedeva l’ora di fare i conti con «i padroni delle ferrovie» nel momento in cui non gli fossero più stati utili. Il Duce attribuiva, non senza ragione, lo scarso suc-cesso del fascismo tra gli operai della Fiat anche all’atteggiamento dei suoi dirigenti. Le ragioni di questo scontro emergono con evidenza da una pagina di diario, scritta alla vigilia della seconda guerra mondia-le, dall’ex presidente della Confindustria Ettore Conti:

In questo periodo, in cui si afferma quotidianamente di voler andare verso il popolo si è venuta forman-do un’oligarchia finanziaria che richiama, in campo industriale,

Una “Littorina”

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l’antico feudalesimo. La produzione è in gran parte controllata da piccoli gruppi, ad ognuno dei quali presiede un uomo. Agnelli, Cini, Volpi, Pi-relli, Donegani, Falck, pochissimi altri, dominano letteralmente i vari mercati della industria. 8

Mussolini detestava personalmente in par-ticolare Agnelli per la sua posizione premi-nente, che ne faceva il rappresentante di un potere monopolistico scarsamente allineato al Regime, un potere che voleva per di più, di essergli superiore. Uno scontro tra due poteri tra loro incompatibili.

Nel Luglio del 1899, dieci anni dopo che i primi autoveicoli a motore avevano fatto la loro comparsa in occasione dell’esposizione universale di Parigi, nasce la F.I.A.T. (Fabbrica Italiana Automobili Torino): la prima impresa italiana che ha come unico scopo la fabbricazione di automobili. Tra i suoi fondatori, un gruppo di facoltosi sportivi torinesi, spicca il nome di Giovanni Agnelli, imprenditore con origini nella borghesia agraria piemontese; inizialmente con la carica di segretario. Successivamente però, quando lo stabilimento entra in produzione, Giovanni Agnelli è sempre presente tra i capannoni, mostrando importanti capacità imprenditoriali e molto interesse alla vita dell’azienda; guadagnandosi in questo modo un ruolo di rilievo tra tecnici ed operai.Così, all’età di 35 anni, Giovanni Agnelli (nonno dell’avvocato Gianni Agnelli) diventa amministratore delegato dell’azienda, e suo maggiore azionista.I veicoli prodotti sono molto costosi ed hanno mercato soltanto tra le classi più abbienti, ma con la politica del primo ministro Giovanni Giolitti, che tende ad avvantaggiare gli imprenditori e le loro aziende; nei primi anni dell’attività industriale gran parte dei profitti dell’impresa sono dovuti ad accordi avuti con lo stesso Giolitti, che acconsente la produzione di nuovi autoveicoli per lo Stato, il quale diventa così il primo acquirente della F.I.A.T. in ordine di importanza, sia per autovetture che per veicoli militari. I motori prodotti dall’azienda saranno infatti utilizzati prima nella guerra di Libia e poi nella prima guerra mondiale, con cospicui benefici finanziari per la propria espansione produttiva.Intanto Agnelli ha adottato una politica di diversificazione delle proprie attività: oltre alle automobili, nel 1903 inizia a produrre autocarri e motori diesel, successivamente, nel 1908, inizia a produrre anche motori di aviazione, sempre con ingenti commissioni statali.Tra queste due date però si colloca il 1906, anno nel quale la società F.I.A.T. viene liquidata per formarne immediatamente una nuova, la FIAT che oggi conosciamo, con la quota azionaria di Agnelli notevolmente aumentata.Nel 1923 infine viene inaugurato lo stabilimento del Lingotto, la nuova sede produttiva della FIAT che vanta di essere la più grande d’Europa; esso permette lo sviluppo della catena di montaggio, appresa anche grazie all’incontro con Henry Ford nel 1912, ed il conseguente quasi dimezzamento del prezzo delle autovetture, raggiungendo così gigantesche porzioni di mercato con le innovative utilitarie Balilla 508 (nel 1932) e Topolino 500 (nel 1936).

I primi anni della F.I.A.T.

di Ettore Sani, 5ALS

1 Carlo Levi, “La Rivoluzione Liberale”, in Il dovere dei tempi, prose politiche e civili, Donzelli, pp. 30-44.2 Valerio Castronovo, FIAT. Una storia del capitalismo italiano,

Rizzoli, Milano 2005, p.102.3 <http://www.istoreto.it/to38-45_industria/schede/fiat_lingotto.

htm>.4 Valerio Castronovo, cit., p. 148.5 Cfr. <https://video.repubblica.it/dossier/lo-scontro-su-pomigliano/

torino-visita-di-mussolini-al-lingotto-1923/81261/79651>. Per le successive visite cfr. <https://www.youtube.com/ watch?v=Xn_TEZDUmG8> e <https://www.youtube.com/ watch?v=J0x9Gv5ke_4>

6 Valerio Castronovo, cit., p. 148.7 Ibidem, p. 149.8 Ibidem, p. 273.

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prima vista, si tratta dell’autobio-grafia di un chimico”1, avverte Ita-lo Calvino nel risvolto di copertina della prima edizione del Sistema periodico di Primo Levi, una

raccolta di ventuno racconti, in cui ogni capitolo è abbinato per affinità metaforica ad uno degli elementi della tavola periodica di Mendeleev. Dopo l’affettuoso ritratto d’apertura dedicato agli antenati ebrei, Levi infatti vi ripercorse la propria storia professionale, dall’attrazione giovanile per gli esperimenti e la pratica in labora-torio ai tempi dell’università, attraverso le drammatiche vicende della guerra cul-minate nella deportazione ad Auschwitz, fino ad arrivare, dopo i tentativi nel primo

dopoguerra di intra-prendere la via della libera professione, all’impiego stabile presso la fabbrica di vernici Siva.Attraverso questa raccolta di racconti la chimica entrò per la prima volta come protagonista nei libri di Primo Levi; a dire il vero, in un’intervi-sta rilasciata ad Enzo Fabiani nel 1963, egli già aveva parlato dell’idea di scrivere un libro dedicato al mestiere di chimico, immaginandolo però in chiave epica, come “una documentazio-

ne fantastica, ma non poi tanto, di ciò che avviene nel chiuso dei laboratori: che sarebbe poi riprodurre sotto veste moderna le emozioni più antiche dell’uomo, le più misteriose, il momento dell’incertezza, ammazzare il bufalo o non ammazzarlo, trovare quel che si cerca o non trovarlo”2. La raccolta poi si trasformò in un’opera autobiografica, conservando tuttavia le tracce del progetto iniziale, quello di un racconto di avventura, “ricco di sconfit-te, di vittorie e di miserie”, vissute tra le esalazioni pestifere del laboratorio e nelle ubriacature di sole in alta quota, di un libro in cui, in poche parole, attraverso la storia di un mestiere si potesse leggere “anche l’avventura di un uomo”3.Non a caso la storia del 1961 intitolata La carne dell’orso4, primo nucleo ideativo dell’opera, poi rifuso in Ferro5, condivi-deva la stessa impostazione narrativa: in questo caso a fare da protagonista era la montagna, con la testimonianza di due scalatori sulla prima impresa della loro carriera alpinistica. La chimica e la montagna, tra autobiografia e avventura, potrebbero dunque rappre-sentare una chiave di lettura del libro. Ma che cosa hanno in comune queste due realtà apparentemente così distanti? La risposta è contenuta nel suddetto racconto intitolato Ferro, in cui lo scrittore descrive il suo amore per l’alpinismo, coltivato fin da adolescente, come un’emozione in cui confluivano il suo “bisogno di libertà, la pienezza delle forze, e la fame di capire le cose” che lo avevano spinto alla chimica. Di queste tre spinte, l’ultima, l’esigenza di comprendere e quindi dominare la materia,

Il sistema periodico di Primo Levidi Maria Celine Pestelli

Primo Levi

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è quella che più immediatamente è facile associare ad entrambe le passioni del gio-vane Primo Levi. Per quel che riguarda la prima, sappiamo che nel 1937 lo scrittore, nato a Torino nel 1919, si iscrisse al corso di chimica presso la facoltà di scienze della sua città. Le leggi razziali del 1938 non gli impedirono, in quanto già iscritto, di completare brillante-mente il proprio corso di studi e di ottenere quattro anni dopo il diploma di laurea, su cui tuttavia compariva la nota “di razza ebraica”. Un duro processo di selezione naturale già al primo anno ridusse drastica-mente gli ottanta studenti iscrittisi insieme a lui: al laboratorio di Analisi Qualitativa del secondo anno furono ammessi solo in trenta. E “qui la faccenda si faceva seria”, racconta Levi in Ferro: alle due del pome-riggio il Professor De Paolini consegnava a ciascun apprendista chimico un grammo di una polverina i cui componenti dovevano essere individuati nel corso delle cinque ore successive. È a proposito di queste este-nuanti ore di laboratorio che egli definisce la Materia-Mater come “la madre nemica” contro cui il chimico inesperto ingaggiava una lotta inevitabilmente impari, avversaria passiva, sorniona, piena di trabocchetti, “solenne e sottile come la Sfinge”. Tuttavia in tedesco materia si dice anche Urstoff, che letteralmente significa sostanza primigenia: è un termine affascinante, che nel prefisso Ur esprime “origine antica, lontananza nello spazio e nel tempo”. Proprio alla confidenza con questa materia, con la pietra e con il ghiaccio delle mon-tagne, l’alpinismo educò il giovane Levi: come dichiarato in un’intervista di Alberto Papuzzi del 1984, egli si emozionava nel “ritrovare in montagna gli elementi del sistema periodico, incastrati tra le rocce, incapsulati tra i ghiacci”6, e così racconta in Ferro dell’amico Sandro Delmastro, che “quando ravvisava nella roccia la vena rossa del ferro, gli pareva di ritrovare un amico”. Dunque sia il giovane chimico che l’av-venturoso alpinista impararono a misurarsi con la materia, madre nemica o sostanza primigenia, in un confronto che in entrambi i casi non ammetteva incertezze: nessun dubbio poteva essere tollerato nei verbali

di laboratorio con cui ogni giorno gli stu-denti di Analisi Qualitativa riferivano della composizione della polverina misteriosa ri-cevuta all’inizio della lezione; d’altro canto le esitazioni non erano ammesse neanche nella scalata delle montagne, dove “un chiodo entra o non entra: la corda tiene o non tiene”, spiega l’autore in Potassio. La morale con cui proprio questo racconto si conclude invita a “diffidare del quasi-ugua-le […], del praticamente identico, del pres-sappoco” ed è invece un elogio dell’attenta osservazione dei caratteri distintivi delle cose. “Il mestiere del chimico”, continua Levi, “consiste in buona parte nel guar-darsi da queste differenze, nel conoscerle da vicino, nel prevederne gli effetti. E non solo il mestiere del chimico”. In quest’ultimo passaggio si ha l’impres-sione che per Primo Levi la chimica e, di Sandro Delmastro

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riflesso, la montagna siano state anche due fondamentali maestre di vita. E dalle pagine di Ferro si deduce che la materia, nella sua duplice forma di elemento della tavola pe-riodica e di pinnacolo di roccia da scalare, fu anche una “scuola politica”, “l’antidoto al fascismo” dei dogmi, delle verità im-poste e non dimostrate, delle menzogne diffuse dai giornali e dalla radio, in altre parole, una scuola di libertà. E allora ecco spiegato l’interesse per la chimica, definita come “una scelta, un deliberare, un’impresa matura e responsabile”, precisa Levi sem-pre in Ferro, che in confronto con il puzzo delle verità fasciste “emanava un buon odore asciutto e pulito”, ma soprattutto ecco spiegata la passione per la montagna, forma di ribellione, finestra di libertà, dove

lo scrittore e l’amico Sandro, rifiutando mode e comodità, portavano la guida del Cai solo per il gusto di coglierla in difetto, percorrevano gli itinerari meno battuti, lontani dalle stazioni sciistiche mondane, o limavano la pelle dei polpastrelli sulle rocce mai toccate dalla mano dell’uomo. Nel racconto di queste spericolate avven-ture, in cui i due amici davano fondo alle proprie riserve di energie, Levi avverte la presenza di un istintivo bisogno di mettersi alla prova, di sperimentare i propri limiti e forse anche di prepararsi agli eventi futuri, ad “un avvenire di ferro, di mese in mese più vicino”. Lo scrittore afferma infatti di sapere con certezza quanto simili imprese potessero essere insensate, ma solo in apparenza, e quanto gli sarebbero invece servite più tardi. Anche al mestiere di chi-mico, che Levi, nonostante le leggi razziali, iniziò a praticare già dopo la laurea, prima nel laboratorio di una miniera vicino a Torino, poi in una fabbrica farmaceutica di Milano, egli attribuì la sua sopravvivenza nel campo di Monowitz-Auschwitz, dove fu deportato nel febbraio del 1944. Venne infatti reclutato come chimico nel labo-ratorio della Buna, la fabbrica di gomma sintetica che sorgeva vicino al campo: poté quindi svolgere mansioni meno faticose e contrabbandare materiale rubato in cambio di cibo. Cerio, l’unico racconto del Sistema periodico legato all’esperienza del Lager,

Laboratorio interno del dipartimento

Tavola periodica degli elementi di

Mendeleev

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è la testimonianza di quei mesi, fatti di speranza e di disperazione, e di una fame radicata che spingeva a rubare per mangia-re. E di cerio erano fatti i cilindretti grigi, duri e insapori, che lo scrittore racconta di aver trovato in un misterioso barattolo sen-za etichetta su uno scaffale del laboratorio: insieme al compagno Alberto Dalla Volta li trasformò in pietrine di accendini e in que-sto modo entrambi si conquistarono il pane che li resse in vita fino all’arrivo dei russi, confortandosi allo stesso tempo “nella fiducia e nell’amicizia” che li univa. Li avrebbe infine liberati il cerio, riflette Levi, un elemento poco conosciuto, così umile da avere un nome che rimanda ad altro, al pianetino Cerere, “essendo stati il metallo e l’astro scoperti nello stesso anno 1801”. Il ritrovamento dei venti ci-lindretti di cerio fu dunque una delle circostanze fortuite cui Levi poté attribuire la sua sopravvivenza, insieme alla conoscenza del tedesco e della chimica, all’incontro con il mu-ratore Lorenzo Perrone, che gli procurò regolarmente del cibo, e al fatto di essersi ammalato una sola volta e al momento giusto, scampando così alla marcia di evacuazione dal campo. La morale di questa e delle altre storie del libro è che a raccontarla la vita è un caos, un labirinto di fallimenti e riuscite imprevedi-bili, cui la letteratura, come la scienza, può cercare di dare un ordine solo a posteriori: un po’ come accade nel racconto di chiu-sura, Carbonio, dove Primo Levi riflette sull’ironia del destino di ogni studente di chimica, il quale “davanti a un qualsiasi trattato, dovrebbe essere consapevole che in una di quelle pagine, forse in una sola riga, o formula o parola, sta scritto il suo

avvenire, in caratteri indecifrabili, ma che diverranno chiari poi”. Pertanto il giovane chimico e scalatore, educandosi a capire le cose, ad essere libero e ad esprimere la pienezza delle proprie energie, allenandosi “al soppor-tare e al decidere”, precisa ancora Levi in Potassio, si preparava ad un futuro oscuro e indecifrabile. Nel finale di Ferro, in una delle pagine più belle del libro, nella

rievocazione del bivacco improvvisato nella notte gelata insieme all’amico San-dro, emerge questa stessa consapevolezza dell’opacità dell’esistenza, per affrontare la quale l’uomo può solo prepararsi, allenarsi appunto, in una scuola di dignità e libertà: “era questa, la carne dell’orso”, spiega lo scrittore alludendo all’avventura sperico-lata vissuta in quota con l’amico, l’impresa insensata solo in apparenza, quel mettersi coscientemente nei guai che però aveva “il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino”.

1 Primo Levi, Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1975.2 Enzo Fabiani, Un tatuaggio rivela il dramma dello scrittore, «Gente», 10 giugno 1963,3 Marco Belpoliti, “Il sistema periodico”, in Primo Levi di fronte e di profilo, Milano, Guanda, 2015, p.258.4 Primo Levi,“La carne dell’orso”, in Tutti i racconti, Torino, Einaudi, 2005.5 Ernesto Ferrero, Primo Levi. La vita, le opere, Torino, Einaudi, 2007, p. 63. 6 Alberto Papuzzi, L’alpinismo? È la libertà di sbagliare, «Rivista della montagna», marzo 1984.

Primo Levi nel labo-ratorio della Siva

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di Fabio Sottili

uando si pensa al barocco, la mente vola subito alla gran-deur della reggia di Versailles o alle immaginifiche soluzioni architettoniche romane, senza considerare il contributo ap-

portato dal regno sabaudo a Torino e dai Borbone a Napoli per la modernizzazione delle loro capitali. In special modo a Tori-no, fra Seicento e Settecento, assistiamo ad un notevole sviluppo urbanistico ed a sperimentazioni costruttive innovative,

tese a coniugare soluzioni artistiche italiane con caratteristiche tipicamente francesi. Ampliata già a partire dalla sua nomina a capitale del ducato di Savoia (1563), la città di Torino fu nuovamente ingrandita nel Seicento con un disegno a scacchiera ad opera dell’architetto Ascanio Vitozzi prima e di Carlo di Castellamonte poi, caratterizzandosi per le lunghe strade ret-tilinee e le grandi piazze (esemplari Piazza Castello e Piazza San Carlo), uniformate razionalmente da sobrie facciate classiciste

Filippo Juvarra, Palazzina di caccia

di Stupinigi, 1729-31, facciata del padiglione principale

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e dalla presenza dei portici, seguendo in questo l’esempio della Piazza Reale di Parigi (attuale Place des Vosges). Torino conobbe in quei due secoli un’espansione che non ebbe uguali in Italia, vedendo crescere la sua popolazione da 5000 a 70000 abitanti. Dalla compattezza del tessuto urbano dovevano emergere gli edifici simbolo del potere, che ven-nero concentrati nell’area attorno a Piazza Castello, e che videro all’opera i più importanti ar-chitetti italiani del momento: il modenese Guarino Guarini e il messinese Filippo Juvarra. Gua-rini (1624-83), padre teatino formatosi a Roma, viaggiò a lungo e progettò molteplici edifici in Ita-

lia (Messina e Modena) e all’estero (Parigi, Lisbona e Praga), a causa degli incarichi ricevuti dal proprio ordine religioso. Dopo

Francesco Borromini fu senza dubbio il più geniale architetto del XVII secolo, e determinò una grande influenza so-prattutto nell’architettura tardo-barocca italiana, boema e tedesca, grazie anche ai suoi famosi trattati di architettura

civile, di matematica e di geometria, che illustrò anche con disegni

delle proprie realizzazioni. Fu il suo trasferimento a

Torino nel 1666, però, a dare l’inizio al periodo

più importante della sua produzione archi-tettonica, a servizio sia per l’ordine dei

Teatini, che per Carlo Emanuele II

Guarino Guarini, Sezione della Cappella della Santa Sindone a Torino (dal trattato Architettura civile di Guarini)

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di Savoia, e per il principe di Carignano. Fin da subito fu incaricato del completa-mento della Cappella della Santa Sindone, che era stata iniziata nel 1657 su progetto di Amedeo di Castellamonte per conservare la più preziosa reliquia della cristianità, vale a dire il sacro sudario che secondo la tradizione aveva avvolto il corpo di Cristo dopo la sua morte. La cappella doveva esse-re annessa al Palazzo Ducale e accessibile dalla cattedrale, per celebrare la grandezza e la moralità della casata dei Savoia, e dare lustro alla nuova capitale. Emerge in que-sto edificio la volontà di spettacolarizzare l’architettura, suscitando stupore con una soluzione strutturale che vede la cupola prendere forma attraverso un sovrapporsi di esagoni concentrici ruotati che la fanno lievitare nella luce. Guarini trasformò il progetto di Castellamonte, che aveva previsto un semplice volume cilindrico concluso da una cupola emisferica, facendo diventare quest’ultima una stupefacente struttura ascensionale, ma ne mantenne la pianta circolare in posizione elevata per permettere l’accesso dal duomo con due rampe curvilinee poste ai fianchi dell’altare maggiore ed un ulteriore ingresso dal piano nobile della residenza ducale. Entrare nella Cappella della Santa Sindone vuol dire

Guarino Guarini, Cappella della Santa

Sindone a Torino, 1667-90, interno

della cupola

Guarino Guari-ni, Chiesa di San

Lorenzo a Torino, 1668-87,

interno della cupola

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immergersi nel buio degno di un sepolcro dalle pareti rivestite di marmo nero, per poi alzare lo sguardo e venire trascinati nel trionfo della luce. Dall’aula circolare infatti si elevano tre grandi arcate che definiscono il tamburo dal profilo ondulato e forato da sei finestroni, sul quale si impostano sei file di sei nervature curvilinee a costituire l’involucro aereo della cupola, conclusa con una lanterna conica. In questo modo si viene a creare una progressione infinita di esagoni che culmina nella colomba dello Spirito Santo. Il punto di riferimento è stato sicuramente Francesco Borromini, che con Sant’Ivo alla Sapienza e San Carlino alle Quattro Fontane ha fatto da prologo a questa soluzione, ma a lui si deve aggiun-gere l’influenza di soluzioni strutturali desunte da architetture arabe, mondo da lui conosciuto anche per la sua importanza in ambito geometrico-matematico. Nella cupola della Cappella della Santa Sindone “quello stesso concetto di ‘infinito’ che ha

determinato la nascita della matematica contemporanea, attraverso

lo sviluppo del metodo analitico, si espri-me nella ripetitività all’infinito della mede-sima forma. Non è l’illusione dell’infinito, ottenuta attraverso un gioco prospettico (come avviene tipicamente in Bernini e Borromini), concetto da lui [Guarini] esplicitamente rifiutato, bensì è l’infinito stesso che si manifesta concretamente nella modulazione ritmica” (Carlo Bertelli, Giuliano Briganti, Storia dell’Arte italia-na, 1986, vol. 3, p. 339). Anche la Chiesa di San Lorenzo venne ideata da Guarini con una stupefacente calotta costolonata, realizzata in contemporanea (1668-87) alla Cappella della Santa Sindone, anche se la sua costruzione era già iniziata nel 1634. Alla pianta a croce latina originariamente concepita, l’architetto sostituì un vano ottagonale, racchiuso da un perimetro qua-drato, e aperto su un presbiterio ellittico. L’architettura si apre qui dinamicamente in cappelle e nicchie, con un movimento alternativamente concavo e convesso, a sorreggere il cornicione sul quale si im-posta una cupola illuminata da

otto finestre Guarino Guarini, Palazzo Carignano a Torino, 1679-85, facciata verso Piazza Carignano

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ellittiche e scandita da costoloni accop-piati che definiscono un disegno a stella e racchiudono al centro un ottagono aperto sulla lanterna. L’opera, maestosa, ha la leggerezza di una tensostruttura e il rigore astratto di un teorema matematico, come si ritrova in alcune cattedrali gotiche in cui forte è l’influenza delle sperimentazioni co-struttive musulmane. Oltre a rivoluzionare le tipologie delle chiese, Guarino Guarini fu un innovatore anche nel campo dell’edilizia civile, come si può vedere chiaramente in Palazzo Carignano. Residenza del prin-cipe di Carignano, fu costruito fra il 1679 e il 1685 seguendo il modello dei palazzi romani barocchi, in particolare citando i movimenti ondulatori della facciata del Collegio di Propaganda Fide e di quella dell’Oratorio dei Filippini, concepite da Francesco Borromini un trentennio prima. Infatti la tradizionale pianta ad U, compo-sta da ali rettilinee, viene qui interrotta al centro da un corpo ellittico, che al piano terra svolge le funzioni di vestibolo, mentre al primo piano diventa la sala principale a doppia altezza, raggiungibile da ampie

rampe che ne seguono la curvatura. Ad uniformare il tutto troviamo l’uso del mat-tone, e la presenza di lesene che creano un doppio ordine gigante a racchiudere finestre dagli elaborati ornati. L’unica parte che si differenzia dalle altre è il marmoreo portale d’ingresso e la soprastante edicola convessa a doppio livello, debitrice anch’essa della borrominiana sede di Propaganda Fide. È bene ricordare che nel 1861 questo palaz-zo diventò sede del primo parlamento del Regno d’Italia. Dopo pochi decenni dalle realizzazioni di Guarini, a Torino si trovò ad operare il siciliano Filippo Juvarra (1678-1736), il più geniale architetto, urbanista e scenografo del primo Settecento, che si era formato a Roma nella bottega di Carlo Fontana, ultimo allievo di Bernini, potendo così as-similare la lezione del barocco papale, ma anche studiare il rinascimento e l’antichità classica, ed entrare in contatto col mondo dell’Arcadia, ed apprendere il gusto del capriccio e del vedutismo. Per Vittorio Amedeo II di Savoia fu all’opera a partire dal 1714 quasi fino alla morte, impegnan-

Filippo Juvarra, Palazzo Madama

a Torino, 1718-21, scalone

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dosi in un’attività poliedrica che spaziava dalla costruzione di nuovi quartieri urbani, all’ammodernamento di strutture cittadine pubbliche e private (palazzi, teatri, chiese), fino alla riorganizzazione del legame fra città e campagna con le grandiose residen-ze suburbane di Venaria Reale, Rivoli e Stupinigi. Protagonista anche nel dibattito architettonico europeo, grazie ai soggiorni a Parigi, Londra, Lisbona e soprattutto Madrid, ne rielaborò le forme in progetti quale lo scalone di Palazzo Madama a Torino, iniziato nel 1718 e mai concluso, dove in facciata sono evidenti i riferimenti al fronte verso il giardino della Reggia di Versailles, e al romano Palazzo Barberini, e anche lo scalone stesso, definito da un duplice sistema di rampe parallele lumi-nose e colme di decori rococò, rimanda al contemporaneo classicismo francese. Ma è fra le regge sabaude che incontriamo il suo capolavoro, testimone del gusto fra Arcadia e Illuminismo: la Palazzina di caccia di Stupinigi, inaugurata nel 1731. Qui il complesso architettonico trova il suo nucleo nel salone ellittico, più alto delle altre strutture, da cui nasce un impianto

a croce di Sant’Andrea dal quale, a sua volta, s’irradia un impianto aperto di edi-fici di servizio, disposti simmetricamente a formare un vasto giardino ottagonale, che rappresenta il punto focale del viale prospettico che dalla città conduce alla Palazzina di Stupinigi. Nonostante la gran-de razionalità che dimostra, l’edificio si integra armoniosamente con il paesaggio, ed è dotato di leggerezza e grazia, anche grazie alle numerose e ampie finestrature alternate da basse lesene, e alla balaustra che conclude i bracci in sommità. E addi-rittura al culmine del complesso la natura sembra prendere il sopravvento: i quattro bracci che si innestano sul salone sono punteggiati da sculture con trofei di caccia a racchiudere la calotta centrale, la quale, come una ideale collina, vede troneggiare in cima la figura di un cervo che guarda verso la città lontana. Gli interni, ricchis-simi, vedono le pareti dilatarsi grazie a quadrature prospettiche e stucchi, dalle quali una moltitudine di divinità sembrano scendere per venire a convitto con i padroni di casa, in un luogo dove realtà e finzione si fondono.

Filippo Juvarra, Palazzina di caccia di Stupinigi, 1729-31, veduta aerea

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re di numerosi progetti (fra l’altro aveva partecipato al concorso per la costruzione della facciata del Duomo di Firenze), è professore di architettura all’Accademia Albertina, e fa parte di quell’eclettismo stilistico ottocentesco che utilizza, anche contemporaneamente e in modo originale, elementi neoclassici e neogotici.Il primo progetto della sinagoga presenta una pianta quadrata, strutturalmente im-postata su un doppio perimetro di colonne e pilastri isolati (che l’architetto chiama fulcri) collegati da nervature in ferro, quasi senza masse murarie continue, che rappresentano i vertici di uno schema com-positivo a maglie quadrate. ‘Una struttura integralmente a scheletro in cui tali fulcri vengono raccordati e contrastati da archi e piattabande ai quali si radicano le vol-te’(da F. Rosso, La mole Antonelliana – un secolo di Storia del Monumento di Torino,

orino, capitale d’Italia fino al 1865, non possiede edifici simbolo che caratterizzino il profilo della città prima della Mole Antonelliana. Né questa avrebbe potuto diventarlo se la Corporazione Israelita non

avesse conferito all’architetto Antonelli l’incarico di progettare la nuova Sinagoga. Nel 1860 la comuni-tà ebraica acquista i terreni necessari per edificarla e così po-ter celebrare le libertà civili conquistate con l’emanazione nel 1848 dello Statuto Albertino che concedeva la liber-tà ufficiale di culto alle religioni non cattoliche.Alessandro Antonelli è un architetto già auto-

di Giovanni De Lorenzo

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1988). La cupola di copertura si configura come una grande volta a padiglione, struttu-ralmente a doppia calotta quasi semisferica, impostata su un tamburo a base quadrata e completata al vertice da un lucernario. L’a-spetto esterno è caratterizzato da elementi dell’architettura classica: un duplice siste-ma di pilastri e colonne di ordine corinzio di differenti altezze con ampie vetrate e vistose cornici marcapiano; l’ingresso su via Montebello è messo in evidenza da un pronao esastilo neoclassico. All’interno vi sono numerosi locali per le attività della corporazione ebraica e un grande spazio vuoto (la Grande Aula) che può ospitare 1500 persone.Sorprendendo committenti e amministra-

zione comunale, durante l’esecuzione dei lavori quando lo stato di avanzamento non consente più di tornare indietro, l’Antonelli, adducendo motivazioni di ordine statico, presenta un nuovo progetto innovativo e assolutamente originale, che ha l’ambizione di diventare il più alto edi-ficio in muratura mai realizzato. Elemento caratterizzante diventa la grande volta piramidale a padiglione, a doppia calotta, con pareti perimetrali di appena 12 cm di spessore, separate tra loro da un’interca-pedine di circa 2 metri, e slanciata verso l’alto da un sesto acuto molto rialzato e di dimensioni eccezionali (l’altezza passa da 47 a 113 metri).Ne deriva una serie infinita di polemi-che e dubbi sulla stabilità dell’edificio e sull’effettiva possibilità di arrivare al com-pletamento dell’opera. La Corporazione Israelita rifiuta di stanziare nuovi fondi e decide di cedere, in cambio di un terreno nel quartiere di San Salvario dove sorge l’attuale sinagoga, la Mole Antonelliana al Comune di Torino che il 26 giugno 1878 stabilisce di utilizzarlo come Museo Nazio-nale del Risorgimento e dell’Indipendenza Italiana.

Progetto della Sinagoga di Torino, 14 agosto 1862. Ricostruzione del prospetto-sezione (da F. Rosso, 1977).

A. Frizzi, particolare del coronamento terminale della cuspide della Mole Antonelliana, con la statua del “Genio Alato”, da “L’Ingegneria Civile e le Arti Industriali”, 1890.

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C.Castelli, metà prospetto e metà sezione della Sinagoga di Torino, da “L’Ingegneria Civile e le Arti Industriali”, 1875.

Il gigantesco edificio in costruzione viene da subito denominato ‘la Grande Mole’, termine che era stato usato durante l’Illu-minismo dal Piranesi per indicare come ‘Mole Adriana’ il Mausoleo dell’imperatore romano più noto come Castel Sant’Angelo.Risolti i problemi di finanziamento, l’archi-tetto presenta un ulteriore nuovo progetto che prevede un sensibile aumento di spesa. La lanterna diventa una sorta di tempietto in granito (che riprende il motivo del pronao all’ingresso) impostato su due ordini di colonne e coronato da quattro frontoni con bassorilievi allegorici delle divinità fluviali del Piemonte. Da questo si innalza una guglia prismatica, d’ispirazione neogotica, conclusa da una cuspide a pianta ottagonale al cui vertice viene collocata una statua raf-figurante un ‘genio alato’. Per raggiungere la piattaforma panoramica viene realizzata una serie di vertiginose scalette esterne, mentre in alto, nella guglia, viene inserito un duplice sistema di scale elicoidali. Tutta la struttura della cupola è rivestita, come delle squame, da lastre in pietra. Con questa variante l’edifico raggiunge i 167,50 metri d’altezza primato assoluto mondiale per un fabbricato in muratura.

Il retro di una moneta da due centesimi di euro

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Alessandro Antonelli muore nel 1888.La direzione dei lavori passa al figlio Costanzo, ingegnere, e le opere per le decorazioni interne si concludono con l’inaugurazione del Museo nel 1908. Ma già nel 1916 viene nominata una Commis-sione di studio sulla stabilità della Mole che evidenzia allarmanti lesioni, fessure e deformazioni nelle strutture. Dopo lunghe polemiche nel 1930 si decide, secondo il progetto dell’ingegnere Alberto Pozzo, un invasivo e molto criticato intervento di consolidamento statico. Questo prevede l’inserimento di un’incastellatura di rin-forzo all’interno dell’edificio costituita da un grandioso telaio strutturale in cemento armato composto da pilastri isolati e indi-pendenti dall’opera Antonelliana.Il 23 maggio 1953 un uragano abbatte 47 metri di cuspide. Il progetto di ricostruzione prevede una nuova guglia uguale a quella originale, ma con una struttura portante in acciaio solida-le con i rinforzi in cemento armato. I lavori, che aggiungono all’interno della cupola lo spettacolare ascensore panoramico, si concludono nel 1961 in concomitanza con il Centenario dell’Unità d’Italia. Per molti anni rimarrà scarsamente utiliz-zata e non sempre pienamente agibile. Un

Una delle colonne antonelliane in mattoni racchiusa nella struttura reticolare in cemento armato realizzata negli anni ’30.

gigante quasi inutile.Solo negli anni novanta viene individuata la definitiva destinazione d’uso a sede mu-seale. La ristrutturazione, ad opera dell’ar-chitetto Gianfranco Gritella, consiste nella realizzazione delle centrali tecnologiche interrate, nelle opere strutturali interne di consolidamento e nell’inserimento degli ascensori e della grande scala elicoidale in acciaio. Lo spazio interno viene ripensato mantenendo il grande vuoto centrale e inserendo un percorso espositivo ascensio-nale (alternativo all’ascensore panoramico centrale), composto da rampe spiraliformi sospese da tiranti in acciaio, che inevita-bilmente ricorda il Guggenheim Museum di Frank Lloyd Wright, ma soprattutto richiama il linguaggio dell’architettura

Copertina della “Domenica del Corriere” del 31 maggio 1953 dedi-cata al crollo della guglia causato da una bufera di vento.

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Bibliografia:Questo breve articolo trae spunto dallo splendido volume a cura di Gianfranco Gritella, LA MOLE ANTONELLIANA – Storia di un edificio simbolo dal progetto al restauro, edito da UTET nel 1999.L’architetto Gianfranco Gritella, titolare dello studio Gritella & Associati, è do-cente di Restauro Architettonico presso il Laboratorio di Costruzioni della facoltà di Architettura di Torino.

barocca, in particolare il borrominiano Sant’Ivo alla Sapienza. Nel 2000, dopo quattro anni di chiusura, la Mole diventa la sede permanente del Museo Nazionale del Cinema, con reperti quali macchine ottiche pre-cinematografiche, lanterne magiche e sce-nografie dai set cinematografici dei primi film.

Antica foto della Mole

Antonelliana in costruzione

Scala elicoidale all’interno dell’Aula centrale; prospetto con vista del sistema di sospensione della scala e delle rampe perimetrali.

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Martino, custode del Museo Nazionale del cinema di Torino, è segretamente in-namorato di Amanda, una ragazza che lavora nel fast food da lui frequentato. Una sera la ragazza ha col padrone del locale una lite violenta, che la porta, in un momento di esasperazione, a ferirlo, versandogli olio bollente sulle gambe. Spaventata, fugge e si rifugia dentro la Mole Antonelliana, dove Martino la accoglie nell’appartamento ricavato in un magazzino dismesso del museo di cui, appunto, è custode.

Questo l’inizio del film “Dopo mezza-notte”, uscito nelle sale nel 2004, per la regia di Davide Ferrario e interpretato da Giorgio Pasotti e Francesca Inaudi, quasi interamente girato all’interno del Museo del cinema.

Interno del Museo Nazionale del Cine-ma di Torino facente parte della struttu-

ra della Mole Antonelliana

di Manuela Taddei

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Per entrare in que-sto Tempio della cultura cinemato-grafica non occor-re però né esserne custodi, né tanto meno rovesciare olio bollente sulle gambe di qualcu-no... basta andare a Torino, alla Mole Antonelliana e fare il biglietto. Prima la fila però, perché moltissimi sono i visitatori quotidia-namente: soltanto

nel 2016, 690.000 persone! Il Museo si trova in questa sede solo dal luglio del 2000, su progetto di un architetto italiano, Gianfranco Gritella e allestimento di un architetto svizzero, François Confino, ma l’idea di dare al Museo questa sede è degli anni ’50, idea sfumata nel 1953 quando un tornado danneggiò gravemente l’edificio. Il primo progetto di costituire un museo italiano del cinema risale al 1941, grazie alla studiosa di storia del cinema, Maria Adriana Prolo. Nel settembre del 1958, posto in un’ala di Palazzo Chiablese, il Museo fu inaugurato e la dottoressa Prolo ne fu nominata direttrice a vita.Subito dopo l’entrata si apre lo scenario

delle macchine ottiche pre-cinematografiche, le così dette “lanterne magiche”, si hanno poi attrezzature via via più moderne e pez-zi provenienti dai set dei primi film italia-ni, costumi e cimeli anche internazionali, come l’enorme squalo del film omonimo di Spielberg o le ma-schere dei protagonisti di “Guerre stellari”. Al termine di questo percorso iniziale, at-

traverso una tenda rossa si entra nella sala principale, al centro della quale un cospicuo numero di poltrone/letto danno la possibi-lità di guardare dal basso la Mole e i 3200 metri quadri del museo che si spiega su cinque piani. Attraverso una iniziale scala a chiocciola, con gradini molto ampi, si sale ai piani superiori, in cui possiamo visitare gli spazi dedicati ai momenti principali che contribuiscono a realizzare un film. Spezzoni di film di epoche diverse vengono proiettati in piccole sale cinematografiche in cui possiamo vedere i grandi attori del passato e gli attuali.Alcuni spazi vengono dedicati a temi, che cambiano nel corso dell’anno, per esempio

Statua del dio Moloch, dal film

“Cabiria” di Giovanni

Pastrone (1914)

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nel dicembre scorso, 2017, uno dei temi era la presenza degli animali nel cinema: dalle poltrone della sala centrale si potevano vedere le splendide immagini di film quali “Vita di Pi” di Ang Lee.Sempre nella sala principale, in cui tro-neggia la statua del dio Moloch, emblema del più grande Kolossal italiano, Cabiria di Giovanni Pastrone, film muto del 1914, una serie di cappelle è dedicata a vari generi cinematografici.Il museo conserva un’interessante e cospi-cua collezione di manifesti cinematografici, una ricca collezione di pellicole e una bi-

Galleria delle locandine all’interno del Museodel Cinema

blioteca in costante ampliamento.Nell’arco dell’anno il museo ospita nu-merosi festival fra cui il più importante, il Torino Film Festival, che si svolge fra fine novembre e inizio dicembre, dedicato soprattutto al cinema indipendente.Quando andrete a visitare questo museo, non tralasciate di salire sull’ascensore panoramico, con pareti di cristallo traspa-rente: in 59 secondi, senza fermate inter-medie, salirete dai 10 metri della quota di partenza agli 85 metri della nicchia a cielo aperto da cui si può ammirare il panorama dell’intera città.

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La cultura gastronomica è uno dei punti di forza di Torino, che recupera e sintetizza un po’ l’intera cultura piemontese: non si può raccontare la città della Mole senza far cenno alla ricette che ne hanno segnato la storia e ne racchiudono la tradizione.I grandi piatti della cucina torinese nasco-no dalla sintesi tra cucina del territorio e cucina di corte, filosofia nata nella Torino capitale del Regno dei Savoia. Molti piatti hanno origini molto antiche. Sono piatti

semplici, tipici delle vallate piemontesi e di quelle limitrofe francesi, che esaltano un territorio comunque rurale anche se citta-dino. La cucina tradizionale fa largo uso di verdure cotte o crude, di carne di vitello/manzo, di riso. Il tartufo è un’eccellenza che fa parte di molte ricette (es. agnolotti del plin o tajarin ecc.). Torino non è refrat-taria al nuovo, ma lo rielabora: ne attenua gli eccessi e lo rende subalpino.

Nel Settecento, in Europa, la Fran-cia è capitale della cultura politica e della gastronomia. Alcuni testi (Menon, Massiolot) sono veri e propri best seller culinari e deli-neano i tratti della nuova cucina “borghese “.L’arte del cuoco, che prima si fondava sull’artificio, sulla “mo-dificazione” dei prodotti naturali, sull’azzardo e stupore cromatico, quasi sullo stravolgimento dei sapori originali, ora, in sintonia con la cultura dei Lumi, ritorna alla centralità di ciò che sul piano gastronomico è “naturale”. Meno forma, più sostanza. L’imperativo nuovo è rispettare l’autonomia dei sapori, che vengono separati. Ciascun prodotto gastronomico

di Franco Banchi

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avrà un suo posto. Non a caso il dessert acquisterà un ambito specifico e la pastic-ceria svilupperà una sua arte indipendente.In questo quadro, non sembri un paradosso che alla centralità indiscussa del modello francese corrisponda l’accentuarsi della dimensione “locale” della cucina.Emblematico un testo pubblicato a Torino nel 1766, Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi.Tra universalismo gastronomico medie-vale e nazionalismo francese spunta la specificità regionale, nel nostro caso la “piemontesità”.Il volume anonimo del cuoco di origine piemontese che ha fatto pratica nella capitale francese, segna appunto questa rivoluzione gastronomica dettata dalla ca-pacità di armonizzare ricette e preparazioni con le materie prime ed i gusti della terra d’origine. Inizia quel periodo di piemon-tesizzazione della cucina che coinciderà, non a caso, con la piemontesizzazione della politica italiana.Le ricette francesi vengono rielaborate eli-

minando quelle troppo lontane dalle usanze locali o semplicemen-te irrealizzabili sul posto.Alcuni esempi: il vino bianco sostituisce lo champagne, le varietà di cipolle di Ivrea o i cardi di Chieri furo-no prediletti. I tartufi del Perigord vennero soppiantati da quelli di Alba.Nel corso dell’Otto-cento Torino, anche a livello gastronomico, accentuerà il ruolo di sintesi tra Francia e Italia diventando anche un rilevante vi-vaio di cuochi celebri, che si affermeranno professionalmente sia alla corte sabauda che nel resto d’Europa.

Un capitolo a parte merita il rap-porto tra Torino e la tradizione del cioccolato e della pasticceria.La lunga storia d’amore tra la città sabauda ed il cioccolato inizia nel lontano 1560. Per fe-steggiare il trasferimento della capitale ducale da Chambéry a Torino, nell’occasione Emanuele Filiberto servì simbolicamente alla città una fumante tazza di cioccolata. Il vero e proprio boom della cioccolata avvenne nel ‘700, in coincidenza con la diffusione in città dei primi caffè, che tanta parte avrebbero avuto nella vita quotidiana, culturale e politica di Torino. Alla fine del secolo ci fu il passaggio verso una vera e propria produzione legata a la-boratori, impianti e stabilimenti. Dai maestri cioccolatieri locali provengono anche storiche inno-vazioni. All’inizio dell’Ottocento la sperimentazione di nuovi stru-menti di lavoro, che riescono a impastare cacao, vaniglia, acqua

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e zucchero, permette la trasformazione della cioccolata in tavolette solide chiamate cioccolatini, in tutte le possibili declina-zioni (bonbon, praline, tartufi…).Poco più tardi nasce il gianduiotto, unione del cacao con le nocciole delle Langhe.Ma sono tantissime le varianti dei maestri cioccolatieri torinesi prodotte nel tempo. Ne citiamo soltanto tre.Il boero (guscio di cioccolato con morbida crema di liquore); il cremino (cioccolatino a tre strati, gianduia, pasta di cioccolato alla nocciola, gianduia); l’alpino (cioccolatino alla gianduia ripieno di crema liquorosa).Storia a parte meriterebbe la Nutella, in-venzione di Pietro Ferrero del 1946. Ma in questo caso la storia ha già lasciato posto alla leggenda.

Un evento fortemente simbolico che fonde eredità storica, identità culturale e vera e propria ricapitolazione culturale della go-losità torinese è la “merenda reale”. Alla corte sabauda, a partire dal Seicento e con prosecuzione nel secolo successivo, si inaugurò infatti quella che verrà chiamata appunto “merenda reale”, che copriva, tra conversazioni ed intermezzi musica-

li, quella lunga parte della giornata che andava dal primo pomeriggio alla tarda serata. L’immancabile cioccolata calda era accompagnata dai “bagnati”, biscotti secchi ed affini realizzati all’inizio dagli stessi pasticceri di corte (paste savoiarde

L’invenzione di questo “panatico’’ è contesa tra Biella, Chivasso, Lanzo e Torino. La versione del capoluogo racconta che Carlo Emanuele chiese al panettiere di corte Antonio Brunero un pane ben cotto per evitare il propagarsi di pestilenze. Nacque cosi il ghersino, ovvero una ghersa (pane lungo e sottile) ancor più piccola. Da li nacque il grissino, ora presente in due varianti: “stirato’’ e “rubata’’, cioè arrotolato a mano.

Oltre la ricetta: i grissini

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Oltre la ricetta: i grissini

alla provenzale, Savoia alla piemontese, canestrelli, torcetti, pazientini, meringhe, amaretti, lingue di suocera ed altre simili prelibatezze).

Dal XIX secolo tale moda si trasferisce anche nei più noti caffè cittadini, ormai luogo di ritrovo ed incontro culturale e politico delle nuove classi emergenti, ma con alcune varianti sostitutive e aggiuntive, frutto di positive “contaminazioni” . Ad esempio, con Caterina d’Austria, moglie del Re Carlo Emanuele I, arrivano in Piemonte lo chifel, derivato dal croissant viennese, il forè,il biciolan (esempio del nuovo gusto per le spezie forti), la brioss di pasta frolla con o senza finocchio.Con il Risorgimento nasce il “garibaldin”, fetta di semplice pane imburrato, ed il più autorevole “Garibaldi”, biscotto di pasta frolla con uvette e confettura di albicoc-ca, nato in Inghilterra in onore dell’eroe dei due mondi. E, via via, si affiancano nel tempo noaset, nocciolini di Chivasso, gianduiotti, cri-cri…

In questa panoramica, tematica e cronolo-gica, non possiamo dimenticare gli ospiti celebri che, fra le altre cose, hanno avuto modo di apprezzare la cucina torinese. Fra questi anche F. Nietzsche, che ha sog-giornato ripetutamente in città dal 1888 al

1889. Qui il celebre filosofo tedesco riesce a realizzare una precisa e benefica formula vitale, poco prima di precipitare verso l’a-bisso della pazzia: camminare per pensare, pensare bene, mangiare come si deve.Nietzsche frequenta assiduamente i più noti caffè cittadini ed alcune trattorie preferite, che, come scrive alla madre, oltre ad essere assai economiche, “gli riservano i bocconi migliori”. In particolare nota con piacere: “Una carne di vitello mai trovata così tene-ra, così come quella delicata di agnello. E che qualità nella preparazione, che cucina sapiente, direi raffinata”.

Ma il rapporto tra grande storia culturale e cucina non finisce con l’Ottocento. Torino fu la prima “capitale” della gastronomia fu-turista, cucina basata sui sensi, la chimica, la necessità di avere un nutrimento aereo e veloce. Secondo lo slogan di Marinetti e dei suoi seguaci, “si pensa, si sogna e si agisce secondo quel che si beve e mangia”. Il primo ristorante futurista nasce proprio a Torino. L’8 marzo 1918 la Taverna del Santopalato ospita i suoi primi commensali, tra cui Marinetti. Il menù è di ben 14 portate ideate dagli stessi ospiti. Tra queste ricet-te, tutte stravaganti, eccentriche ed anche lessicalmente provocatorie, c’è anche il Pollofiat, ideata da Diulgheroff, lo stesso architetto ungherese che progettò il locale, decorato dal pittore Fillia. Si tratta di un

Lo Zabaione e uno dei più classici dolci torinesi che ormai si trova ovunque, magari accompagnato con paste di meliga. La ricetta si deve al francescano Pasquale de Baylon, ospitato nel ‘500 nella chiesa di San Tommaso, che preparò questo dolce con un tuorlo d’uovo, due cucchiai di zucchero, due gusci d’uovo di vino marsalato, uno d’acqua. Il frate divenne poi Santo e il dolce prese il nome di “San Bayon”, pronunciato “sambaiun” e da qui “zabaione”. Dal ‘700 San Pasquale de Baylon è protettore dei cuochi.

Oltre la ricetta: lo zabaione

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pollo lessato e poi arrostito nel cui interno, prima della seconda cottura vengono messe delle sfere di acciaio dolce, che durante la cottura rilasciano il loro aroma ferroso, servito con creste di gallo e panna montata.Come prevedibile, dinanzi a questa o altre ricette, come, ad esempio, il brodo solare, l’antipasto intuitivo, l’aerovivanda con ru-mori ed odori, l’ultravirile, i giudizi si divi-dono clamorosamente: alcuni manifestano esagerato entusiasmo, altri “nostalgici”, all’uscita del locale, rimpiangono tajarin ed agnolotti.

Ma Torino si presenta all’avanguardia an-che per il terzo Millennio. La Fondazione Agnelli ha recentemente patrocinato ed avviato in città un Digital Gourmet Restau-rant. Ecco come funziona: si arriva, si cerca sul monitor il menù (del giorno o alla carta) e via touch screen si procede con l’ordine. Il tempo di pagare, ovviamente con denaro

Oltre la ricetta: la finanzieraLa finanziera è un piatto della tradizione torinese e piemontese di origini molto antiche ed incerte e comune anche ad alcune zone della Francia.Nasce come come piatto povero che utilizzava le parti considerate meno nobili degli animali macellati, ossia le interiora (che venivano lasciate a chi eseguiva la macellazione o come dazio) e subito cotte,

preparate e consumate. Un’altra ipotesi fa risalire il nome ai funzionari d’alto rango dello stato sabaudo che vestivano, per l’appunto, la finanziera e che gradivano molto questa piatto (si dice che fosse anche uno dei piatti preferiti da Cavour). Nel Piemonte dell’800 è un piatto diffuso, raffinato, inserito nei pranzi eleganti e di grandi occasioni, come le nozze, le celebrazioni ufficiali e i pranzi di gala. Oggi è una vera prelibatezza per gli estimatori delle interiora e le frattaglie, Può essere presentata in tavola da sola come piatto di mezzo, oppure, riducendo proporzionalmente le dosi, come accompagnamento di un risotto bianco o uno sformato di verdure. Si accompagna molto bene ad un rosso piemontese come il Nebbiolo d’Alba.

elettronico, e, quando l’ordine è pronto, il monitor grande di sala ci segnala in quale service box (vetrina numerata) è possibile ritirare il piatto. A questo punto si può decidere se pranzare nella sala principale, costituita da un grande cubo di vetro che si affaccia su Via Giacosa, oppure consumarlo fuori. A breve è prevista un’ulteriore evo-luzione: dal totem interattivo centralizzato per le ordinazioni si passerà ad una specifi-ca applicazione su smartphone. Dalle prime autorevoli recensioni, l’impatto sembra positivo. I piatti alla carta, pur semplici (es. plin al burro e salvia) sembrano incontrare un discreto favore. Ancor più favorevoli le impressioni su quelli del giorno, più studiati e creativi, frutto di interessanti elaborazio-ni fusion (es. insalata di cavolo rosso con carote arrostite).Torino non si smentisce, rivelandosi ancora un presidio ed una frontiera che concilia tradizione ed innovazione.

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li eroi sono sempre im-mortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto “in trasferta”.(Indro Montanelli, dal Corriere della Sera del 7 maggio 1949).Eppure quel mercoledì di maggio del ’49 qual-

cosa è cambiato per tutti gli appassionati dello sport e non, quell’aereo di ritorno da Lisbona, decollato alle 9:40, che doveva riportare tutti a casa, alle 17:05 si schiantò contro i muraglioni di sostegno del giardi-no posto sul retro della Basilica di Superga. Su quel maledetto volo c’erano diciotto giocatori, tre dirigenti e tre allenatori del così detto Grande Torino, insieme a tre giornalisti e quattro membri dell’equipag-gio, nessuno sopravvisse a quello schianto. Quel Grande Torino aveva iniziato a pren-dere forma nell’estate del 1939 quando Ferruccio Novo aveva assunto la guida della società e sull’esempio di quanto fatto alla Juventus da Edoardo Agnelli l’ aveva riorganizzata circondandosi di collaboratori capaci (come Antonio Janni e Mario Sperone).Con i primi acquisti arrivarono alla so-cietà: Franco Ossola, Ferraris II, Alfredo Bodoira, Felice Borel, Guglielmo Gabetto, Romeo Menti, giovanissimi e campioni già affermati che portarono ai primi successi nel campionato del ’41-’42 in cui il Toro si classificò secondo, dietro la Roma di Schaffer.La vera svolta arrivò nel 1943 quando furo-no acquistati Mazzola, Loik e Grezar: na-sceva dunque quella formazione destinata ad essere ricordata come ‘Grande Torino’,

che negli anni ’40 del secolo scorso riuscì a vincere cinque campionati consecutivi (considerando il fatto che nella fase finale della seconda guerra mondiale non si ten-nero i campionati ufficiali della serie A). Sembrava che nessuno potesse fermare la corsa del Toro, che tra il 1942 e il 1949, durante i cinque campionati che aveva disputato, ottenne i record di maggior nu-mero di partite casalinghe senza sconfitte (ottantotto tra il 1943 e il 1949), marcature in un campionato (125 nella stagione ’47-’48) e reti realizzate in una partita (10-0 all’Alessandria, nella stagione 1947-1948). Il Grande Torino sembrava invincibile, ma la sua incredibile corsa fu tragicamente fermata da qualcosa che nessuno si sarebbe mai potuto immaginare. In occasione dell’incontro delle nazionali di Portogallo e Italia del 1949, i capitani

delle due squadre, Ferreira e Mazzola, avevano fraternizzato molto e durante l’organizzazione di una festa in omaggio a Ferreira il capitano portoghese aveva pensato di invitare i granata ad una partita amichevole.L’invito fu accettato e il 1° maggio la squa-dra con i collaboratori e i giornalisti si re-

Foto di squadra del Grande Torino

di Federico Pedersoli e Samuele Frosali, 4CLS

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carono a Lisbona dove due giorni dopo affrontarono il Benfica, la partita fu vinta dai portoghesi per 4-3 e le squadre si ritirarono assieme per la cena.Fra quelli che non avevano po-tuto prendere parte all’evento ricordiamo: Sauro Tomà (fermo

a Torino per un infortunio), il secondo portiere Gandolfi, infatti

Aldo Ballarin (terzino destro) aveva convinto il presidente a premiare il

fratello Dino Ballarin (terzo portiere), Novo che era rimasto a Torino con Co-pernico (altro dirigente della squadra), l’ inviato de La Stampa Vittorio Pozzo che per vari dissapori con il presidente non era gradito alla società e il radiocronista Nicolò Carosio che non poté prendere parte all’evento perché in concomitanza con la Cresima del figlio.Il giorno successivo la squadra partì a bordo di un Fiat G.212 che da Lisbona si diresse prima a Barcellona dove atterrò alle 13:00 e poi ripartì alle 14:50 alla volta di Torino, alle 16:55 l’ aereo si trovava sopra Savona e virò in direzione Nord dirigendosi verso Torino: mancava mezzora all’arrivo.

In quel momento l’aeroporto informò i pi-loti della situazione di generale maltempo e scarsa visibilità, i piloti comunicarono la loro posizione alle 16:59 e si allinearono con la pista a 9 km di distanza ,durante l’ avvicinamento sicuri di trovarsi a quota

2000 mt.Alle 17:03 l ‘aereo, eseguito l’ allineamen-to, forse a causa del forte vento, deviò verso dritta, modificando l’ asse di discesa, alline-andosi (anziché con la pista) con la collina di Superga; forse a causa di un problema con l’altimetro il comandante (il tenente colonnello Meroni) si accorse troppo tardi della fatale deviazione e sicuro di tenere la collina sulla destra se la vide sbucare davanti a circa 40 mt senza più possibilità di manovra.Dei trentuno passeggeri non si salvò nes-suno, la squadra (che all’epoca costituiva gran parte della Nazionale Italiana) era scomparsa nel nulla: erano le 17.05.L’evento ebbe risonanza enorme nella stampa mondiale, il giorno dei funerali circa un milione di persone scese in piazza a Torino per la commemorazione, la FIFA in ricordo della tragedia proclamò il 4 maggio la Giornata mondiale del giuoco del calcio, Il Torino fu proclamato vincitore del cam-pionato a tavolino e gli avversari di turno, così come lo stesso Torino, schierarono le formazioni giovanili nelle restanti quattro partite, infine l’anno successivo la nazio-nale Italiana si recò ai mondiali in Brasile con un viaggio in nave lungo 2 settimane in cui la squadra si allenò a bordo. Oggi, i resti dell’aereo, insieme alle valigie di Mazzola, Erbstein e Maroso, sono con-servate in un museo alle porte di Torino. Il museo del Grande Torino è stato inaugurato il 4 maggio del 2008 nella Villa Claretta Assandri di Grugliasco. Otto dei diciotto giocatori del Toro, due dirigenti e il giorna-lista Renato Casalbore sono oggi sepolti nel cimitero monumentale di Torino, mentre le altre vittime dell’incidente sono sepolte nei rispettivi comuni di appartenenza. Attualmente nel luogo della tragedia si può osservare la lapide commemorativa della sciagura area portante i nomi di tutte le persone scomparse. Non mancano mai dei fiori.Un fatto così sconvolgente come quello successo a Superga, difficilmente potrà essere rimosso dalla nostra memoria, insie-me alle giovani vite spezzate dei calciatori che per un decennio avevano fatto sognare Torino e l’Italia..

Scudetto del Torino

Valentino Mazzola, capitano del Grande

Torino, durante un azione di gioco

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L’ambiente torinese.Come la critica in modo unanime ricono-sce, non si può capire l’opera di Guido Gozzano se non la si colloca “in quella città di Torino che svolse una funzione particolare nella formazione della società italiana contemporanea” (2). La rapida crescita industriale ed economica, in cui la FIAT gioca un ruolo importante, di cui sono il segno l’Esposizione generale italia-na del 1898 e poi l’Esposizione industriale internazionale del 1911, fa della città “la prima capitale del-la grande industria nazionale”, proprio negli anni della bre-ve vita di Gozzano (1883-1916). L’af-fiancarsi al vecchio mondo contadino, anche nella sua parte ‘patrizia’ le-gata alla proprietà della terra, così importante nella provincia torinese, del nuovo mondo urbano-industriale crea conflitti econtraddizioni che poi si riproporranno per gran parte del Novecento in altre zone del paese e caratterizzeranno molta letteratura. In questo senso Goz-

Felicità, non ti cercai;ché soltanto cercai me stesso,me stesso e la terra lontana.Ma nell’ora meridianatu venisti a me d’improvviso,coi piedi scalzi e col visovelato d’un velo tessutodi quei fili che talorabrillano impalpabili all’aereopere d’aeree fusa.(G. D’Annunzio)

Questo che a notte baluginaNella calotta del mio pensiero,traccia madreperlacea di lumacao smeriglio di vetro calpestato[…] Solo quest’iride posso Lasciarti a testimonianzaD’una fede che fu combattuta,d’una speranza che bruciò più lentadi un duro ceppo nel focolare.Conservane la cipria nello specchietto[…] una storia non dura che nella ceneree persistenza è solo l’estinzione.(E. Montale)

Signorina Felicita, a quest’oraScende la sera nel giardino anticoDella tua casa. Nel mio cuore amicoScende il ricordo. […]Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi Rideva una blandizie femminina[...]E più di ogni conquista cittadinaMi lusingò quel tuo voler piacermi![…]Giunse il distacco, amaro senza fine,e fu il distacco d’altri tempi […]ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buonosentimentale giovine romantico…Quello che fingo d’essere e non sono!(Guido Gozzano) (1)

Guido Gozzano

di Silvio Biagi

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zano è il poeta che, in questa fase, meglio riflette in sé le conseguenze di questo pas-saggio, che vive e di cui avverte le conse-guenze. Significativo, a questo proposito, l’articolo-reportage intitolato Un vergiliato sotto la neve, scritto dal poeta nel 1911 per l’Esposizione universale di quell’anno, ove attraverso un tono fiabesco, sostan-zialmente distaccato e scettico, presenta le architetture dei padiglioni celebrativi del progresso. A Torino vi è poi un am-biente culturale assai ricco, in vari ambiti, scientifico, filosofico, del diritto, artisti-co-letterario: basti pensare all’ Esposizione internazionale di arte decorativa, nel 1902, che rappresentò il trionfo del liberty, alla presenza di una editoria molto viva (i fra-telli Bocca, che pubblicano importanti testi scientifici e filosofici, Lattes e Streglio) e da numerosi circoli e salotti. (3). L’itinerario poetico di Gozzano.L’esordio poetico di Gozzano - i primi versi sono pubblicati su rivista dal 1903 - si colloca tra Carducci e D’Annunzio (quello vitalistico di Maia, ma, soprattutto, quello decadente caratterizzato dal languore e dalla malinconia del Poema paradisia-co). Ben presto, però, avviene il distacco, almeno dichiarato, fino dal 1905, dall’e-sperienza dannunziana. Indubbiamente nell’esperienza poetica di Gozzano gioca poi un ruolo di primo piano la malattia, che conferma nella sua biografia il senso di de-cadenza proprio di quegli anni. Si respira, infatti, anche a Torino, soprattutto in ambito letterario, un’aria di crisi del positivismo che apre le porte, pur senza una precisa consapevolezza teorica, ad una tendenza misticheggiante, che sarà propria anche di Gozzano, soprattutto nella scrittura delle fiabe. (4). Dopo il 1907, data della pub-blicazione della sua prima raccolta, La via del rifugio, tende a prevalere una poetica decadente-wildiana, in cui la ‘malattia’ della letteratura (quella che lui chiama la tabe letteraria) si sovrappone alla malattia della vita: la letteratura, finzione per eccel-lenza, offre un rifugio e come un’evasione dalla vita, un sogno d’arte, che fa la morte simile alla vita, anticipa e nello stesso tempo esorcizza la morte. In questo senso va sottolineata l’importanza del viaggio in India (1912) alla ricerca della salute, ma

anche di un qualcosa che vada oltre gli angusti limiti della realtà ‘provinciale’: “una sorta di visione aurorale”, l’India vista come “infanzia del mondo”; non a caso gli articoli sul suo viaggio vengono poi raccolti sotto il titolo di Verso la cuna del mondo. (5). Nel ‘pensiero’, non così chiaramente definibile, di Gozzano, in cui certo è importante “il senso della caducità di ogni cosa”, la natura “vive un eterno ciclo di evoluzione in cui nessun essere gode di qualche primato”; al dolore ci si vuol sottrarre desiderando l’annullamento o ritagliandosi un angolo di sogno. (6)Non c’è, dunque, dal punto di vista del pen-siero, e, di conseguenza, nella produzione poetica, una compiuta consapevolezza ed accettazione della malattia (come in Svevo) o del male di vivere (come in Leopardi e Montale) e nemmeno un devastante impatto esistenziale del senso della morte (come in Pascoli). Non c’è neppure, né avrebbe potuto esserci, la consapevolezza della ‘morte’ della poesia, cioè della sua radicale opposizione alla ‘civiltà’ moderna, che sarà propria dell’ultimo Montale. La consape-volezza, cioè, che essere poeti significa essere votati al ‘silenzio’. Il ‘territorio’ di Gozzano sta tra D’Annunzio e Montale, tra il ‘vate’ e l’”iride”, tra la poesia verità e la poesia che si annulla. Il suo ‘merito’ sta nell’affioramento di una percezione di estraneità, ed in una parziale consapevolez-za di essa, tradotta in una poesia che, par-tendo dal rinnovamento linguistico operato da Pascoli ed attraversando D’Annunzio, apre alla più grande poesia del Novecento italiano. Un ‘terreno’ che si colloca tra il ricordo di cose perdute, la “bellezza riposata dei solai / dove il rifiuto secolare dorme”, le “stampe di persone egregie” “tra i materassi logori e le ceste” (7), “le buone cose di pessimo gusto” (8) e l’infanzia, vista come “una specie di mondo mitico senza tempo e senza storia, un’infinita suggestiva lontananza di figure, di paesi, di eventi…” (9), all’interno di una società borghese colta nel passaggio, disorientante, dalla vecchia alla nuova società. Non è un atteggiamento isolato, infatti tale senso di estraneità si ritrova anche nella più auten-tica e ‘silenziosa’ poesia del momento, non solo nei crepuscolari che ‘accompagnano’

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la produzione di Gozzano, ma anche in poeti come Sbarbaro e Rebora. E non è neppure una scelta ‘neutra’: la sua poesia si contrappone, infatti, alla ‘chiassosa’ ed eversiva poesia futurista (contrapposta an-che ideologicamente) ed anche alla sofferta e tragica esperienza del primo Ungaretti (che coi futuristi condivide la radicale ever-sione formale). Anche dal punto di vista della forma, Gozzano, superato il modello di D’Annunzio (anche se ne resterà sem-pre contagiato), non si accosta ai futuristi, percorrendo una linea poetica ‘narrativa’ in cui contrastano elementi alti e bassi, che prelude di fatto alla linea antinovecentista. è quanto dice di Gozzano Eugenio Mon-tale: “Infallibile nella scelta delle parole (il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico col prosaico) […] egli era nato per essere un eccezionale narratore o prosatore in versi” (10). Un testo, tra i molti possibili, che sembra rendere ragione degli aspetti più importanti della poesia di Gozzano e quello di Invernale, tratto da I colloqui.(11).

“I colloqui” nell’EdizioneTreves del 1935 con un disegno di Leonardo Bistolfi.

«.... cri.... i.... i.... i.... icch.... l’incrinaturail ghiaccio rabescò, stridula e viva.«A riva!» Ognuno guadagnò la rivadisertando la crosta malsicura.«A riva! A riva!...» Un soffio di paura 5disperse la brigata fuggitiva.«Resta!» Ella chiuse il mio braccio conserto,le sue dita intrecciò, vivi legami,alle mie dita. «Resta, se tu m’ami!»E sullo specchio subdolo e deserto 10soli restammo, in largo volo aperto,ebbri d’immensità, sordi ai richiami.Fatto lieve così come uno spetro,senza passato più, senza ricordo,m’abbandonai con lei, nel folle accordo, 15di larghe rote disegnando il vetro.Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro....dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo...Rabbrividii così, come chi ascoltilo stridulo sogghigno della Morte, 20e mi chinai, con le pupille assorte,e trasparire vidi i nostri voltigià risupini lividi sepolti....Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più forte....

Oh! Come, come, a quelle dita avvinto, 25rimpiansi il mondo e la mia dolce vita!O voce imperïosa dell’istinto!O voluttà di vivere infinita!

Le dita liberai da quelle dita,e guadagnai la ripa, ansante, vinto.... 30Ella sola restò, sorda al suo nome,rotando a lungo nel suo regno solo.Le piacque, alfine, ritoccare il suolo;e ridendo approdò, sfatta le chiome,e bella ardita palpitante come 35la procellaria che raccoglie il volo.

Non curante l’affanno e le ripresedello stuolo gaietto femminile,mi cercò, mi raggiunse tra le filedegli amici con ridere cortese: 40«Signor mio caro, grazie!» E mi protesela mano breve, sibilando: - Vile! –

Un laghetto ghiacciato, quasi certamente al parco del Valentino, un frettoloso ri-tiro della ‘brigata’ allo scricchiolare del ghiaccio, una coppia che resta, “in largo volo aperto”, fino a quando anche l’uomo, impaurito, si ritira, lasciando a roteare da sola la coraggiosa pattinatrice, che infine a sua volta si appresta a “ritoccare il suolo”,

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“La via del rifugio” Poesie di

Guido Gozzano

ringraziando il suo ‘cavaliere’, ma anche ‘sibilando’: - Vile! – è un testo che si può leggere a diversi livelli. è stato visto come una prova ‘iniziatica’ fallita ed è una lettura giustificabile, se si guarda al significato letterale, ma il testo, ricco di riferimenti, è più complesso di quel che appare, a comin-ciare dall’elemento centrale costituito dalla coppia, che da una parte richiama atmosfere dannunziane (come in La sera fiesolana e ne La pioggia nel pineto) alludendovi con ironia, dall’altra anticipa situazioni tipica-mente montaliane. (12) L’atmosfera è sospesa tra allegria e tra-gedia. Della ‘leggerezza’ ci parlano l’im-mediatezza con cui la donna “le sue dita intrecciò, vivi legami, / alle mie dita”, chiedendo una prova d’amore “Resta, se tu m’ami!”, il suo “ridere cortese”, il suo essere “ardita e palpitante”, i volteggi della coppia prima e della donna sola poi, “lo stuolo gaietto femminile” e persino alcuni elementi in apparenza con essa contrastanti, come “l’incrinatura” che “il ghiaccio rabe-scò, stridula e viva” e il “soffio di paura” che “disperse la brigata fuggitiva”, che di per sé introducono la ‘negatività’, anche se

non riescono a trasmetterne il senso pie-namente tragico, assente qui come in tutto Gozzano. Eppure lo scenario è ‘infernale’: siamo proiettati nel Cocito, il lago ghiac-ciato del IX cerchio dell’Inferno, con “la crosta malsicura”, lo “specchio subdolo e deserto”, “lo stridulo sogghigno della Mor-te” ed il chinarsi per vedere “trasparire […] i nostri volti / già risupini lividi sepolti....” , con richiami danteschi, dannunziani (“i nostri volti”) ed anticipazioni montaliane (Cigola la carrucola del pozzo). La tra-gedia, però, è solo latente, affidata più al gioco dei richiami letterari che ad un sentire reale. è la vita che imita l’arte, la letteratura che foggia la vita, secondo quella poetica decadente wildiana (e un po’ ancora dan-nunziana) che caratterizza Gozzano dopo il 1907. (13)Il poeta sembra subire il fascino di un atteg-giamento dannunziano (“soli restammo, in largo volo aperto, ebbri d’immensità, sordi ai richiami”), evocante una poesia che dà certezze (“di larghe rote disegnando il ve-tro”), ma poi lo abbandona; il ritiro verso sponde quiete che fuggono il rischio della morte, temuta, e che si configurano come la narrazione prosastica di una quotidianità “tra le file / degli amici” è molto meno istin-tuale di quanto possa sembrare ed è accom-pagnato da versi altrettanto dannunziani (“O voce imperïosa dell’istinto! O voluttà di vivere infinita!”), che chiaramente si presentano come un controcanto ironico e dissacratorio e gettano ironia anche sul pre-cedente atteggiamento coraggioso; persino il rimpianto è oggetto di ironia attraverso la probabile citazione della leopardiana A Silvia (“Ahi come, come passata sei, cara compagna dell’età mia nova” di contro a “Oh! Come, come, a quelle dita avvinto, rimpiansi il mondo e la mia dolce vita!”). (14). è questo l’affidarsi ad una poesia che, nonostante le apparenze, è ancora ‘ri-cercata’, è quella ‘tabe’ letteraria di cui si è detto sopra, la malattia della letteratura, in cui il poeta si rifugia consapevole della malattia reale, la tubercolosi, e che diventa la metafora dell’inettitudine al vivere. è la ‘finzione’ che protegge dalla vita, non la poesia ‘ferita’ dalla storia, che affronta davvero il rompersi del ghiaccio. Ben altra sarà, infatti, la sorte della Clizia di Montale,

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ad esempio, nel mottetto del 1940:

Come ha notato A. Marchese Clizia, “nella forma della procellaria che ha percorso uno sfibrante viaggio tra cieli tempestosi”, “ri-torna presso il poeta nella figura di angelo ferito […]; ora nell’intimità domestica è amorevolmente curata e protetta da chi pur si attende da lei protezione e salvezza” (15).Per arrivare a questo ci vorrà il senso della tragedia dato dagli eventi drammatici del Novecento.In Gozzano, invece, si rimane legati ad un giuoco in cui la donna-poesia non sembra sperimentare un rischio reale, ma una sua finzione: è vero che vi è l’abbandono del ‘poeta’, la rottura della coppia, attraverso lo sciogliersi delle dita e la solitudine della donna, ma vi è anche la terra sicura cui ella riapproda sorridente. è un’immagine che parla ancora di vitalità (“bella ardita palpitante”), soprattutto nel paragone con “la procellaria che raccoglie il volo”: una poesia, in fondo, ancora romantica, cui il poeta non sa rinunciare, pur non essendo in grado di assecondarla. è questo il senso di un finale in cui la donna, “non curante” lo “stuolo gaietto femminile”, va incontro al poeta “con ridere cortese”, gli tende a mano, ma gli sibila: “Vile”. Emerge quella coscienza di inautenticità e di inadegua-tezza, personale e generazionale, che è costante in Gozzano e nei crepuscolari. Oltre al verso de La signorina Felicita, sopra citato (“Quello che fingo d’essere e non sono”), si può leggere Il commesso farmacista, in cui le “rime rozze”, “ne-fandità da melodramma”, ma autentiche, del commesso farmacista per la sua sposa morta valgono più delle sue: “Egli è poeta più di tutti noi / […] fatti scaltri, / saputi all’arte come cortigiane”.(16) Traspare un senso di smarrimento, di perdizione: “come uno spetro, / senza passato più, senza ricordo”. è vero che lo strumento usato da Gozzano è un’ironia dissacratoria

derivante dall’accostamento di aulico e prosaico (vedi l’osservazione di Montale sopra riportata), ma è una nota tuttavia importante, perché il poeta ‘disegna’, per se stesso e per la sua generazione, il rapporto con la poesia e con la storia. Ed in questo senso Gozzano è il primo “della razza / di chi rimane a terra” e rappresenta un punto cruciale del passaggio della poesia italiana tra Ottocento e Novecento. (17)Il testo rende bene anche l’atmosfera dei primi anni del nuovo secolo, a loro volta sospesi tra leggerezza e abisso, fiducia e tragedia. Una scena di pattinaggio su ghiaccio nel parco del Valentino sull’orlo di un cerchio dell’Inferno dantesco. Una lastra di ghiaccio che di lì a poco si sarebbe rotta per far precipitare i decenni successivi nell’Inferno vero e proprio. Solo allora si genera una poesia che, tragicamente, fa i conti con la storia. Così alla fine, accanto a quella della scena offerta da Invernale, un’immagine efficace della poesia crepuscolare si può cogliere confrontando i tre testi posti in epigrafe: tra la Felicità che raggiunge il poeta nell’ora meridiana in D’Annunzio, e la cenere-cipria, che, in Montale, unisce a notte il poeta a Clizia nella consapevolezza che permanenza è solo l’estinzione, sta, in Gozzano, la signorina Felicita a cui il poeta racconta, a sera, tra ironia e malinconia, la sua irrimediabile lontananza.

Telemaco Signorini, Sulle colline a Setti-gnano, 1885

Ti libero la fronte dai ghiaccioliche raccogliesti traversando l’altenebulose; hai le penne laceratedai cicloni, ti desti a soprassalti.[…]

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Note

1. G. D’Annunzio, Maia, Laus vitae, 7813-7822. Cfr. G. D’Annunzio, Tutte le poesie, a cura di Gianni Olivi, Newton Compton, Roma, pp.175-176. E. Montale, Piccolo testamento, 1-4.8-13.23-24 in La Bufera e altro. Cfr. E. Montale, L’opera in versi, Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, G. Einaudi, Torino, 1980, p. 267. G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero La Felicità (vv. 1-4.85-86.89.90.423-424.432-434), da I colloqui, in Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, A. Mondadori Editore, Milano, 1968, pp. 104, 107, 118.2. Cfr. Natale Tedesco, “Guido Gozzano” in Storia generale della letteratura italiana a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Federico Motta Editore, vol. XII, p. 695.3. Per il quadro culturale della Torino dell’epoca cfr. Giuseppe Savoca, “I crepuscolari e Guido Gozzano”, in Letteratura italiana Laterza, vol. 59 (Pascoli, Gozzano e i crepuscolari), Bari, Laterza, 1976, p. 107 e ss. ed ancora N. Tedesco, op. cit., pp. 695-700 passim. Cfr. anche Gioia Sebastiani, “Gozzano e le fiabe”, in G. Gozzano, Fiabe e novelline, Palermo, Sellerio, 2003, pp. 213-214. Attraverso le edizioni dei fratelli Bocca Gozzano legge autori come Spencer, Schopenhauer, Kierkegaard, Wilde, Nietzsche e Mach.4. Sul Gozzano autore di fiabe cfr. il breve ma utilissimo saggio contenuto in G. Sebastiani, op. cit. pp. 209-229.5. Cfr. G. Sebastiani, op. cit., pp. 210-211.6. Cfr. G. Sebastiani, op. cit. p. 210, G. Savoca, op. cit., p. 112. A testimonianza dell’interesse per l’Oriente in questo periodo, in Savoca si trova anche l’interessante riferimento al testo pubblicato A. Costa, Buddha e la sua dottrina, pubblicato a Torino dai fratelli Bocca nel 1903 ed usato da Carlo Vallini, uno dei poeti crepuscolari torinesi, assai vicino a Gozzano.7. Cfr. “La signorina Felicita”, vv. in Poeti italiani del Novecento, cit. p. 104-118.8. Cfr. “L’amica di nonna Speranza”, v. 2 in Poeti italiani del Novecento, cit. pp. 118-123.9. Cfr. G. Sebastiani, op. cit., p. 211.10. E. Montale, “Saggio introduttivo” in G. Gozzano, Le poesie, Garzanti, Milano, 1960. La mia citazione è qui tratta da A. Marchese, Letteratura italiana intertestuale. Storia e antologia, D’Anna, Messina-Firenze, 1999, vol. 6, p. 1057.11. G. Gozzano, “Invernale”, da I colloqui, in Poeti italiani del Novecento, cit. pp. 101-103. Cfr. il breve ma efficace profilo di Gozzano di P.V. Mengaldo contenuto in questa antologia.12. Cfr. R.Luperini, P.Cataldi, L.Marchiani, F.Marchese, Perché la letteratura, Palumbo, Palermo, vol 5, p. 871, ove assieme alla riduttiva interpretazione della poesia (forse giustificabile per un testo scolastico), vengono riportati acutamente i riferimenti danteschi nei canti XXXII e XXXIII dell’Inferno.13. Per i richiami danteschi cfr. nota precedente. Il richiamo a La pioggia nel pineto di D’Annunzio (v. 20: “piove sui nostri volti”) sembra preciso e volutamente ironico e dissacratorio, con la sequela successiva di aggettivi che si conclude con la rima baciata “sepolti”. Nella poesia di Montale, appartenente ad Ossi di seppia, si ha un’immagine-ricordo specchiata nell’acqua di un secchio, che subito però sparisce, ridonata “all’atro fondo” del pozzo, a significare l’impossibilità di ritrovare la memoria. Cfr. E. Montale, L’opera in versi, cit. p. 45.14. Cfr. G. Leopardi, A Silvia, vv. 52-54.15. Cfr. A. Marchese, op. cit., vol. 6, pp. 591-592. Per il testo integrale del ‘mottetto’ montaliano, tratto da Le occasioni, cfr. E. Montale, L’opera in versi, cit., p. 144.16. G. Gozzano, “Il commesso farmacista” in I colloqui, vv. 41-42 e 57.61-62. 17. I versi, di Montale, sono quelli conclusivi (50-51) di “Falsetto”, da Ossi di seppia. Per il testo completo cfr. E. Montale, L’opera in versi, cit., pp. 12-13.

Scheda biografica: vita e opere1883: nasce a Torino il 19 dicembre 1883 da una famiglia dell’alta borghesia.1898-1903: studi liceali a Torino.1903: si iscrive alla Facoltà di Legge, ma frequenta più assiduamente i corsi di Arturo Graf alla Facoltà di Lettere. Non si laureerà mai in Legge.1907: Esce la prima raccolta poetica, La via del rifugio, presso l’editore Streglio di Torino, in cui prevale decisamente l’influenza dannunziana. Inizia il suo amore con la poetessa Amalia Guglielminetti. Gli viene diagnosticata la tubercolosi.1911: Esce la seconda raccolta poetica, Colloqui, presso l’editore Treves di Milano, in cui supera il dannunzianesimo, subendo l’influenza dei poeti simbolisti (Verlaine, Samain, Jammes, Verhaeren).1912: febbraio-aprile: compie, per motivi di salute, un viaggio in India. Al ritorno pubblica le note del suo viaggio su La Stampa.1914: Esce Tre talismani, presso l’editore A. Mondadori, Ostiglia, raccolta di fiabe già pubblicate sul Corriere dei Piccoli. Escono anche, su riviste, frammenti del poemetto incompiuto Le farfalle. Epistole entomologiche.1916. Lavora alla sceneggiatura di un film su S. Francesco. Muore a Torino il 9 agosto, di tubercolosi.

Edizioni postume, presso Treves:1917: Verso La cuna del mondo, (raccolta delle note sul viaggio in India); La principessa si sposa;1918: L’altare del passato;1919: L’ultima traccia.

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