Eccezione di difetto di giurisdizione e abuso del processo. · 2 La giurisdizione rientra, infatti,...

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1 Eccezione di difetto di giurisdizione e abuso del processo. di Mattia Caputo Nota a Cass. Civ., SS.UU., Sentenza n. 21260 del 20/10/2016, Pres. G.Canzio, Rel. A. Giusti. Sommario 1. La giurisdizione tra giudice naturale precostituito per legge e abuso del processo. 2. La quaestio iuris...dictionis al vaglio delle Sezioni Unite. 3. La risposta delle Sezioni Unite con la sentenza n. 21260/16. 4.1. Osservazioni a margine: le Sezioni Unite mettono il sigillo sul declino del tradizionale modo di intendere la giurisdizione. 4.2. Osservazioni a margine: la strada per l’Adunanza Plenaria è segnata? 1. La giurisdizione tra giudice naturale precostituito per legge e abuso del processo. La giurisdizione costituisce espressione del potere giurisdizionale dello Stato, che si affianca a quello legislativo ed esecutivo secondo l’ormai consolidato principio di separazione dei poteri 1 . La giurisdizione è l’applicazione della norma astratta e generale al caso concreto da parte di un soggetto terzo ed imparziale, e rappresenta la parte di potere affidata ad un giudice nei rapporti con un giudice diverso. In virtù della sua centralità nell’ordinamento, la giurisdizione è pacificamente considerata quale “presupposto processuale di esistenza del processo” la cui sussistenza, pertanto, va accertata per prima dal giudice 2 , anche d’ufficio. La Costituzione riserva alla giurisdizione molteplici norme, che rivelano la necessità di osservarla sotto un doppio angolo visuale. Da una parte, infatti, la giurisdizione viene intesa quale manifestazione di sovranità dello Stato sui cittadini 3 cui, dunque, spetta il monopolio esclusivo nella definizione delle controversie 4 . 1 L’origine del principio di separazione dei poteri si deve al MONTESQUIEU, che ne “L'esprit des lois” del 1748, onda la sua teoria sull'idea che "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti (...). Perché non si possa abusare del potere occorre che (...) il potere arresti il potere". 2 La giurisdizione rientra, infatti, tra le questioni pregiudiziali di rito. 3 Così V.CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, UTET, Torino, 2003, p. 80. 4 Tuttavia questa concezione della giurisdizione quale appannaggio esclusivo dello Stato è stata negli ultimi anni messa in crisi per la scarsezza della risorsa giustizia, portando il legislatore ad implementare gli

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Eccezione di difetto di giurisdizione e abuso

del processo.

di Mattia Caputo

Nota a Cass. Civ., SS.UU., Sentenza n. 21260 del 20/10/2016, Pres.

G.Canzio, Rel. A. Giusti.

Sommario 1. La giurisdizione tra giudice naturale precostituito per

legge e abuso del processo. 2. La quaestio iuris...dictionis al vaglio

delle Sezioni Unite. 3. La risposta delle Sezioni Unite con la sentenza

n. 21260/16. 4.1. Osservazioni a margine: le Sezioni Unite mettono il

sigillo sul declino del tradizionale modo di intendere la giurisdizione.

4.2. Osservazioni a margine: la strada per l’Adunanza Plenaria è

segnata?

1. La giurisdizione tra giudice naturale precostituito per

legge e abuso del processo. La giurisdizione costituisce espressione del potere giurisdizionale dello

Stato, che si affianca a quello legislativo ed esecutivo secondo l’ormai

consolidato principio di separazione dei poteri1.

La giurisdizione è l’applicazione della norma astratta e generale al caso

concreto da parte di un soggetto terzo ed imparziale, e rappresenta la

parte di potere affidata ad un giudice nei rapporti con un giudice diverso.

In virtù della sua centralità nell’ordinamento, la giurisdizione è

pacificamente considerata quale “presupposto processuale di esistenza del

processo” la cui sussistenza, pertanto, va accertata per prima dal giudice2,

anche d’ufficio.

La Costituzione riserva alla giurisdizione molteplici norme, che rivelano

la necessità di osservarla sotto un doppio angolo visuale.

Da una parte, infatti, la giurisdizione viene intesa quale manifestazione di

sovranità dello Stato sui cittadini 3 cui, dunque, spetta il monopolio

esclusivo nella definizione delle controversie4.

1 L’origine del principio di separazione dei poteri si deve al MONTESQUIEU, che ne “L'esprit des lois” del 1748, onda la sua teoria sull'idea che "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti (...). Perché non si possa abusare del potere occorre che (...) il potere arresti il potere". 2 La giurisdizione rientra, infatti, tra le questioni pregiudiziali di rito. 3 Così V.CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, UTET, Torino, 2003, p. 80. 4 Tuttavia questa concezione della giurisdizione quale appannaggio esclusivo dello Stato è stata negli ultimi anni messa in crisi per la scarsezza della risorsa giustizia, portando il legislatore ad implementare gli

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Dall’altra parte, invece, la giurisdizione va qualificata come porzione di

potere giurisdizionale attribuito ad un determinato plesso giurisdizionale

nei confronti di un altro5 e, dunque, rileva in termini di limiti esterni alla

potestas iudicandi dei giudici appartenenti ad un certo ordine.

Costituiscono espressione del primo modo d’intendere la giurisdizione gli

articoli 24, 25, comma 1, e 111 della Costituzione.

Il monopolio statuale della funzione giurisdizionale, infatti, consente ai

cittadini di esercitare il loro diritto inviolabile di difesa e, come tale, è

strumentale alla tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.

In questo senso, dunque, la giurisdizione rappresenta il luogo naturale in

cui viene azionato il fondamentale diritto di difesa, che si concretizza

nella possibilità di adire il giudice munito di giurisdizione perché questi

somministri le tutele richieste, risolvendo al contempo la controversia e,

così, riaffermando anche la forza della legge sui cittadini che l’abbiano

violata.

Naturale corollario della giurisdizione quale prerogativa esclusiva dello

Stato e, dunque, garanzia irrinunciabile per i consociati, sta nella

guarentigia del giudice naturale precostituito per legge.

Vale a dire che affinché il giudice sia realmente terzo ed imparziale

rispetto alle cause che dovrà decidere, egli non solo non può essere scelto

dalle parti, ma va individuato in base a criteri predeterminati in modo

rigido e rigoroso dalla legge, come tali inviolabili.

In questo modo il principio costituzionale del giudice naturale

precostituito per legge si salda in un’ideale linea di continuità con i

principi sanciti dall’articolo 111 della Costituzione, assicurandone la

realizzazione, ed in particolare con quello della terzietà ed imparzialità

dell’organo giudicante. La suddetta norma, inoltre, sancisce anche i

fondamentali principi processuali del “giusto processo” 6 , della parità

delle armi7, della terzietà ed imparzialità dell’organo giudicante, nonché

della ragionevole durata del processo.

strumenti deflattivi del contenzioso e gli ADR (“aAternative Dispute Resolution”), volti a favorire la definizione stragiudiziale delle controversie. Si pensi, ad esempio, alla mediazione obbligatoria di cui alla l. 98/13 che si atteggia quale condizione di procedibilità per una serie di controversie, nonché alla negoziazione assistita, introdotta con il d.l. 132/14, poi convertita con l. 162/14. 5 C.MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Vol. I, Giappichelli Editore, Torino, 2011, pp. 195 e ss. 6 Il suddetto principio ha assunto ormai portata sovranazionale grazie all’articolo 6 della CEDU ed è in continua espansione, tant’è che oggi ci si interroga circa la possibilità che esso possa essere applicato anche all’interno del procedimento amministrativo, sub specie di “giusto procedimento”. 7 In relazione al principio di parità delle armi l’Adunanza Plenaria del C.d.S., n. 9 del 25/2/14 sui rapporti tra ricorso incidentale paralizzante e ricorso principale ha così stabilito: “l’Adunanza Plenaria non intende discostarsi dalla nozione (e dai presupposti giustificativi), del principio di “parità delle armi” che si è andata affermando nella giurisprudenza costituzionale ed europea relativamente all’applicazione dei principi del giusto processo enucleabili dall’art. 6 della Cedu, secondo cui <<l’esigenza della parità delle armi comporta l’obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte>> (cfr. da ultimo Corte cost., 26 gennaio 2012, n. 15)Del resto a risultati analoghi è pervenuta la giurisprudenza costituzionale quando ha affrontato il tema del principio della parità delle parti – sancito dall’art. 111, co. 2, Cost. e richiamato dall’art. 2 c.p.a. – nel

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Il secondo significato di giurisdizione, invece, pur muovendo dall’idea

che quest’ultima spetti esclusivamente allo Stato, guarda a tale funzione

nella prospettiva della distribuzione del potere di conoscere e decidere le

controversie tra i diversi plessi giurisdizionali presenti nel nostro paese.

Infatti, la Costituzione del 1948, come si desume dal combinato disposto

degli articoli 103 e 113 della Carta Costituzionale, non ha optato per un

sistema di giurisdizione monista, affidata ad un solo ordine di giudici.

La scelta dei padri costituenti è stata invece quella di un sistema dualista,

in cui le controversie sono distribuite tra giudice ordinario e giudice

amministrativo, a seconda che si azionino in giudizio diritti soggettivi o

interessi legittimi, fatte salve le ipotesi di giurisdizione esclusiva del g.a.8.

Anzi, a ben vedere, il sistema di giustizia italiano può essere definito

pluralista, atteso che l’articolo 103 della Costituzione prevede anche la

giurisdizione di giudici speciali quali Corte dei Conti ed i Tribunali

Militari, nelle specifiche materie ad essi assegnate.

L’esistenza di una pluralità di giudici o, meglio, di giurisdizioni,

comporta la necessità di individuare in modo chiaro, netto e preciso i

limiti che ognuna di queste incontra nei confronti delle altre: in altri

termini, occorre perimetrare quale sia la porzione di potere

giurisdizionale che spetta ad ogni ordine di giudici.

In questo modo la giurisdizione intesa come limite esterno che incontra

ogni plesso giurisdizionale finisce per saldarsi con la garanzia

fondamentale del giudice naturale precostituito per legge.

Con maggiore impegno esplicativo, può dirsi che la legge, ed in

particolare la Costituzione in primis e la legge ordinaria poi, individuano

i criteri di assegnazione delle controversie ai diversi ordini di giudici

presenti nel panorama italiano, di talché il giudice naturale precostituito

per legge non è solo quello predeterminato, ma anche quello munito di

giurisdizione.

Il limite esterno, dunque, assicura che a decidere la causa instaurata sia il

giudice naturale precostituito in base alla legge e, dunque, che le parti

non possano in alcun modo derogare o violare tali regole fondamentali.

Tuttavia individuare quale sia il giudice munito di giurisdizione è

questione tutt’altro che semplice, specie per chi intenda instaurare una

processo amministrativo: si è ammessa la presenza di “legittime dissimmetrie” fra le parti del processo purché sorrette da una ragionevole giustificazione (cfr. Corte cost., 9 aprile 2009, n. 109)”. 8 Come rilevato dalle storiche sentenze 204/04 e 191/06 della Corte Costituzionale il legislatore non ha però una libertà incondizionata nel devolvere le controversie alla giurisdizione esclusiva del g.a., , dal momento che l’art. 103, co. 1, Cost., si riferisce a “particolari materie”. Pertanto è illegittimo il criterio massivo e generico di devoluzione al g.a. di “blocchi di materie”, dal momento che la legge può si devolvere controversie in via esclusiva al g.a., purché però vi siano due condizioni: la prima è che venga coinvolta una p.a. che agisca in veste di autorità, tale che, in assenza della giurisdizione esclusiva, vi sarebbe comunque la giurisdizione generale di legittimità. La seconda, invece, è che vi sia un inestricabile intreccio tra diritti soggettivi ed interessi legittimi.

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controversia. In questo senso, allora, si coglie la sentenza n. 77 del 20079

con cui il Giudice delle leggi ha evidenziato che il riparto di giurisdizione

deve assicurare una tutela maggiore per i cittadini, non potendo mai

costituire un vulnus per gli stessi, dando ingresso così alla translatio

iudicii, poi prontamente recepita dal neonato c.p.a. all’articolo 11.

Le enormi difficoltà connesse alla corretta individuazione del giudice

munito di giurisdizione sono scongiurate, però, da una disciplina

normativa particolarmente minuziosa.

Ed in particolare, l’articolo 111, comma 7, della Costituzione, sancisce il

principio generale per cui è sempre ammesso il ricorso per Cassazione

(solo) per motivi di giurisdizione avverso le decisioni del Consiglio di

Stato e della Corte dei Conti.

Il ricorso straordinario per Cassazione, dunque, costituisce il rimedio

successivo e postumo affinché la controversia venga decisa dal giudice

effettivamente fornito del presupposto processuale della giurisdizione,

allorché la controversia sia stata decisa da un giudice che ne è sfornito.

In questo caso la decisione in merito alla giurisdizione spetta alle Sezioni

Unite della Corte di Cassazione Civile, che svolgono così la funzione di

“giudice regolatore della giurisdizione”, conferendo al contempo certezza

ai cittadini che intendano intraprendere le vie giudiziarie.

L’importanza nevralgica della giurisdizione è poi confermata anche dal

c.d. “regolamento preventivo di giurisdizione” di cui all’articolo 41 del

cpc.

Si tratta di uno strumento, appunto, preventivo, volto ad evitare che si

proceda davanti ad un giudice sfornito di giurisdizione e si debba poi

procedere alla cassazione della sentenza da parte della Suprema Corte.

Il regolamento preventivo ha dunque una prevalente funzione di

economia processuale, e non costituisce un mezzo di impugnazione,

perché non interviene su una decisione resa da altro giudice, ma

semplicemente rimette il potere di decidere sulla questione di

giurisdizione alla Corte suprema.

In questo senso il regolamento preventivo risolve conflitti “virtuali” tra

giudici appartenenti ad ordini diversi, mentre il ricorso per Cassazione

compone conflitti “reali”, laddove vi sia stata cioè già una pronuncia,

appunto, sulla giurisdizione.

La preoccupazione sottesa al rispetto dei limiti esterni della giurisdizione

e, dunque, del principio del giudice naturale precostituito per legge, si

evince del resto anche dagli articoli 37 del cpc e 9 del cpa.

9 Sulla base di queste argomentazioni la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione.

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La prima norma, infatti, letteralmente attribuisce al giudice civile il

potere di rilevare d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, il difetto

della propria giurisdizione.

L’art. 9 del c.p.a., invece, prevede testualmente il potere di rilievo

officioso della carenza di giurisdizione del g.a. solo in primo grado.

Il legislatore, dunque, cerca in ogni modo, sia in via preventiva che

postuma, di assicurare che la controversia venga decisa dal giudice che è

per legge titolare della potestas udicandi, predisponendo dei rimedi ad

hoc.

Occorre però dare atto di una recente tendenza degli ultimi anni, che

svilisce il ruolo della giurisdizione, sacrificandola sull’altare in nome del

principio di giustizia superiore della buona fede oggettiva e della

solidarietà sociale ex art. 2 della Costituzione10.

Ed in particolare, l’avvento della buona fede oggettiva in aura di

solidarietà sociale, unita alla necessità di assicurare il principio della

ragionevole durata del processo, hanno portato la giurisprudenza a svilire

progressivamente il tradizionale modo di intendere il concetto di

“giurisdizione”.

Attraverso il controverso strumento dell’abuso del processo11, dunque,

viene meno la centralità della giurisdizione quale potere di decidere la

controversia da parte del giudice cui effettivamente spetta tale potere.

L’abuso del processo, naturale precipitato dell’abuso del diritto in capo

processuale, costituisce l’esercizio alterato o deviante del diritto d’azione

processuale rispetto alle ragioni per cui esso è stato attribuito dalla legge.

In nome dell’abuso del processo, dapprima i giudici amministrativi, e poi

quelli ordinari, hanno cominciato a ritenere inammissibile l’appello per

difetto di giurisdizione del giudice amministrativo proposto dal

ricorrente, soccombente nel merito, che abbia radicato in primo grado la

giurisdizione del g.a. mediante la proposizione del ricorso.

Ciò perché un siffatto comportamento si porrebbe in contrasto col canone

fondamentale della buona fede oggettiva, nonché del principio di

autoresponsabilità, fotografato nel brocardo “venire contra factum

proprium”.

10 Tale principio è stato valorizzato da Cass. Civ., Sez. III, n. 20106 del 18/9/09 relativamente al noto “caso Renault” ed all’esercizio abusivo del diritto potestativo del recesso ad nutum. In tempi più recenti, poi, la buona fede oggettiva ha assunto un’importanza tale da portare la giurisprudenza - dapprima con l’ordinanza 77 del 2014 della Corte Costituzionale e poi con la pronuncia 9140/16 delle SS.UU. Civili – a ritenere che esso sia in grado di manipolare finanche il contenuto del regolamento contrattuale, onde realizzare irrinunciabili esigenze solidaristiche. L’abuso del processo fa il suo ingresso nel processo civile con l'epocale sentenza n. 23726/0711 delle Sezioni Unite, con qui queste, ritornando sui propri passi, ripudiarono la tesi della frazionabilità del credito unitario vantato dal creditore in una pluralità di giudizi, per accogliere la soluzione dell'impossibilità della parcellizzazione del credito. Nel processo amministrativo, invece, l’abuso del processo ha acquisito diritto di cittadinanza con la sentenza 3/11 dell’Adunanza Plenaria che, plasmando la pregiudiziale amministrativa circa i rapporti tra azione di annullamento e risarcitoria, ha ammesso il sindacato del g.a. sulle scelte processuali del ricorrente.

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Attraverso l’interpretazione, propugnata specie in giustizia

amministrativa12, dell’inammissibilità dell’auto-eccezione del difetto di

giurisdizione, ovvero dell’inesistenza del “diritto ad avere torto”, la

controversia può finire, di fatto, per essere decisa da un giudice privo di

giurisdizione.

In una rinnovata concezione della giurisdizione, dunque, questa non viene

più intesa solo come una funzione dello Stato moderno diretta

all'attuazione del diritto nel caso concreto, ma anche, e soprattutto, come

servizio pubblico diretto alla composizione delle controversie secondo

giustizia.

Naturale conseguenza di quest’approccio ermeneutico è che la risposta di

giustizia al bisogno di tutela diventa una variabile dipendente dalla

necessità di assicurare l'efficienza del sistema giudiziario nel suo

complesso, così attuando il principio di proporzionalità anche in ambito

processuale.

L’abuso del processo, quindi, assurge a rango di strumento in grado di

consentire una lettura sinergica del singolo e quella dell'insieme dei

processi: in un’ottica di “governance giudiziaria” sempre più dilagante,

allora, censurando singole iniziative a livello “microgiudiziario”, i giudici

finiscono per rimediare, sul piano “macrogiudiziario”, alle disfunzioni di

un sistema ormai sempre più inefficiente per molteplici fattori.

È stato osservato acutamente13, allora, che attraverso il prisma dell’abuso

del processo la Magistratura fronteggia una crisi emergenziale del sistema

della giustizia – ordinaria ed amministrativa -, con “un sistema di

“legittima difesa” contro l'esorbitanza della domanda di giustizia”.

Una tale soluzione pretoria, però, se certifica inequivocabilmente

l’ingresso del “diritto giurisprudenziale” tra le fonti del diritto14, palesa

anche in modo inequivocabile i precari e difficili rapporti tra legge e

giudice.

I giudici, infatti, attraverso l’abuso del processo e la clausola generale

della buona fede, finiscono di fatto per dichiarare inammissibili gravami

proposti per motivi di giurisdizione15, sanzionando sul piano della validità

12 In questa scia si collocano, tra le tante, C.d.S., Sez. VI, n. 1537 del 10/3/11; C.d.S., Sez. V, n. 656 del 7/6/12; C.d.S., Sez. IV, n. 5484 del 7/11/15, C.d.S., Sez. VI, n. 856 del 29/2/16). 13 Così S.BECCARINI, “Giudizio amministrativo e abuso del processo” in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 4, 2015, pp. 1203 e ss. 14 Di “giurisprudenza normativa” parla a chiare lettere Cass. Civ., SS.UU., n. 25767 del 22/12/15 in relazione alla legittimazione del concepito a domandare il risarcimento del danno da malformazioni congenite. Più di recente, poi, si pensi ai due protocolli, si ispirano ai principi della massima sinteticità e chiarezza degli atti difensivi e ad una effettiva comprensione del loro contenuto essenziale predisposti dai gruppi di lavoro paritetici, composti da consiglieri della Suprema Corte e del CNF. 15 In questo modo l’abuso del processo si risolve in un controllo di meritevolezza della domanda da parte del giudice attraverso il viatico della clausola generale della buona fede oggettiva. Il controllo sull’interesse ad agire si carica così di un vaglio di meritevolezza sull’iniziativa processuale intrapresa, con un sindacato del giudice sugli atti processuali analogo a quello che l’art. 1322, co. 2, c.c. prevede per gli atti negoziali. In questo senso di veda C.d.S., Sez. V, l’ordinanza n. 5255 del 23/10/14, secondo cui le condizioni dell'azione

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la violazione di regole comportamentali, con un’interpretazione praeter

legem16.

Infatti, l’articolo 88 del cpc, nel prevedere che le parti e i loro difensori

hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità fissa una

regola di condotta, la cui violazione dovrebbe comportare conseguenze

soltanto in punto di spese ai sensi degli artt. 91, 92, e 96 cpc.

Considerare inammissibile un appello perché espressione di una condotta

abusiva, vuol dire intaccare la validità di un atto, potenzialmente

vulnerando il diritto inviolabile di difesa ex art. 24 della Costituzione, in

assenza di una norma che lo preveda.

Questo recente trend giurisprudenziale pare allora espressione di

un’autentica “politica” giurisprudenziale della Cassazione che, seppure

non sempre percepita nella sua portata rivoluzionaria, finisce per

impoverire il contenuto precettivo dell'art. 25 Cost., nella parte in cui

prevede la garanzia del giudice naturale, sostanzialmente facendo

diventare tale garanzia parte del principio secondo il quale il giudice deve

essere “terzo ed imparziale”, poiché l'idea di fondo è che una decisione,

quanto più rapida possibile, ci sia, a prescindere dal giudice che la rende .

Ciò che conta, allora, non è più quale giudice decida, ma che decida un

giudice terzo ed imparziale17.

2. La quaestio iuris...dictionis al vaglio delle Sezioni Unite. La complessità della tematica relativa alle conseguenze derivanti dalla

proposizione dell’appello per motivi di giurisdizione da parte del

ricorrente che, avendo proposto in primo grado ricorso innanzi al giudice

amministrativo, sia risultato poi soccombente, ha portato di recente ad

una rimessione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Ciò si è reso necessario per l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali

di segno diverso, specie in giustizia ordinaria ed amministrativa, nonché

per assicurare le indefettibili esigenze di certezza legate a doppio filo

all’esatta individuazione del giudice che i cittadini devono adire, nonché

delle implicazioni derivanti dalle loro strategie processuali.

assolvono una funzione di filtro in chiave deflattiva delle domande proposte al giudice, fino ad assumere l'aspetto di un controllo di meritevolezza dell'interesse sostanziale in gioco, alla luce dei valori costituzionali e internazionali rilevanti, veicolati dalle clausole generali fondamentali sancite dagli articoli 24 e 111 della Costituzione. 16 Di questo avviso sono, tra i tanti, G.TROPEA, “Spigolature in tema di abuso del processo” in Diritto processuale Amministrativo, fasc. 4, 2015, pp. 1262 e ss. e G.VERDE “Abuso del processo e giurisdizione” in Diritto processuale Amministrativo, fasc. 3, 2015, pp. 1138 e ss. 17 Tale soluzione è alla base anche di Cass. Civ., SS.UU., n. 24824 del 9 Dicembre 2015, secondo cui in caso di compresenza in un unico rapporto di profili appartenenti alla giurisdizione del g.o. e del g.a., occorre adottare il criterio della prevalenza e riconoscere la giurisdizione al giudice che, nel caso specifico, ha la giurisdizione sulla parte prevalente delle controversie. In questo modo si dà ingresso ad una deroga alla giurisdizione per motivi di connessione, con conseguente attribuzione della controversia ad un giudice che è privo di giurisdizione.

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A conferma della difficoltà del tema su cui le SS.UU. sono state chiamate

a pronunciarsi, queste con ordinanza del 29/2/16 hanno chiesto al proprio

Massimario una relazione di approfondimento sulla questione, nonché

una relazione sullo stato dell’arte sulla problematica al Consiglio di Stato,

che ha prontamente predisposto un’articolata ed analitica relazione18.

È interessante innanzitutto notare come le Sezioni Unite si siano

pronunciate non su una semplice quaestio iuris, come di solito accade,

bensì su una vera e propria quaestio iurisdictionis, che le ha chiamate in

causa nella duplice veste di Giudice regolatore della giurisdizione e di

Giudice della nomofilachia, come tale preposto ad assicurare

l’applicazione certa ed uniforme del diritto nel nostro ordinamento.

Ed in particolare, questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite è la

seguente: “se la parte che abbia incardinato la causa presso un plesso

giurisdizionale (nella specie, dinanzi al giudice amministrativo),

risultando poi soccombente nel merito, possa appellare sostenendo che il

giudice avrebbe dovuto rilevare il proprio difetto di giurisdizione, e

ricercare così, attraverso la sostituzione di una sentenza sfavorevole nel

merito con una sentenza sfavorevole in punto di rito”.

Sul punto un primo orientamento, accolto per lo più in giustizia

amministrativa 19 dopo il varo del c.p.a., ritiene che non può trovare

accoglimento il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente abbia

messo in discussione la giurisdizione del TAR da essa stessa adito, per

ribaltare l’esito negativo nel merito del giudizio.

Ciò perché l’auto-eccezione del difetto di giurisdizione si pone in

contrasto col divieto di venire contra factum proprium, cioè di tenere un

comportamento contraddittorio rispetto alla propria precedente condotta

processuale, in spregio del principio di autoresponsabilità e con la regola

di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c.

Di talché l’impugnativa proposta dal ricorrente che abbia adito il g.a. in

primo grado e sia poi risultato soccombente nel merito, si risolverebbe in

un autentico abuso del processo, “arreca un irragionevole sacrificio alla

controparte, costretta a difendersi nell’ambito di un giudizio da

incardinare innanzi al nuovo giudice in ipotesi provvisto di giurisdizione,

adito secondo le regole in tema di translatio iudicii dettate dall’art. 11

c.p.a.”.

Un siffatto sacrificio non trova adeguata giustificazione nell’interesse

della parte: questa, infatti, potrebbe ben difendersi nel merito in sede di

appello, al fine di ribaltare la statuizione gravata piuttosto che ripudiare

detto giudice in un’ottica opportunistica e strumentale circa le maggiori o

18 È possibile leggere la relazione su https://www.giustiziaamministrativa.it/cdsintra/cdsintra/index.html 19 Così C.d.S., Sez. VI, n. 1537 del 10/3/11; C.d.S., Sez. V, n. 656 del 7/6/12; C.d.S., Sez. IV, n. 5484 del 7/11/15, C.d.S., Sez. VI, n. 856 del 29/2/16.

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minori chances di esito favorevole a seconda del giudice chiamato a

definire la controversia.

L’abiura della giurisdizione adita ab origine si tradurrebbe, secondo

l’orientamento negativo, in un prolungamento dei tempi della definizione

del giudizio per ragioni meramente opportunistiche e strumentali.

Peraltro ammettere l’auto-eccezione in appello vorrebbe dire riconoscere

alla parte soccombente nel merito la possibilità per questi di ricusare ex

post il giudice – rectius: la giurisdizione - in base all’esito della

controversia.

Di opposto avviso si presenta invece la giurisprudenza delle Sezioni

Unite Civili 20 quale organo regolatore della giurisdizione, favorevole

all’ammissibilità dell’impugnazione per motivi di giurisdizione anche da

parte di chi, avendo adito il g.a., contesti poi la giurisdizione in secondo

grado.

Secondo quest’impostazione pretoria l’unico limite all’auto-eccezione del

difetto di giurisdizione in sede di gravame consiste nella formazione del

giudicato, implicito o esplicito, sul punto.

La soluzione favorevole poggia su una serie di argomenti.

Il primo è che il ricorrente che abbia radicato la giurisdizione del g.a. in

primo grado mediante la proposizione del ricorso ben può in linea

generale rinnegarla mediante appello e in Cassazione, purché ciò avvenga

“in funzione di un interesse correlato alla posizione di merito”.

Il pentimento del ricorrente in ordine alla giurisdizione adita, dunque, è

giustificato allorché sia funzionale ad ottenere una statuizione favorevole

nel merito.

L’idea di fondo che anima la soluzione possibilista delle SS.UU. sta nel

fatto che l’impugnazione per motivi di rito può comportare una

diminuzione della soccombenza dell’appellante: l’eventuale accoglimento

dell’appello, infatti, comporta il significativo risultato di permettere

all’istante di proporre nuovamente la domanda ad un giudice di un altro

plesso giurisdizionale.

In altri termini, l’appellante che proponga l’auto-eccezione del difetto di

giurisdizione non agirebbe in maniera strumentale e distorta, bensì

sorretto da un autentico interesse ad impugnare, consistente nella

translatio iudicii.

In secondo luogo l’esercizio del “diritto ad avere torto” 21 è stato

dichiarato ammissibile perché esiste un interesse, di natura oggettiva,

20 In questo senso Cass. Civ., SS.UU., n. 26129 del 27/12/10; Cass. Civ., SS.UU., m. 8097 del 29/3/11; Cass. Civ., SS.UU., n. 16391 del 27/7/11; Cass. Civ., SS.UU., n. 1006 del 20/1/14; Cass. Civ., SS.UU., n. 11022 del 20/5/14; Cass. Civ., SS.UU., n. 11916 del 28/5/14. 21 L’autoimpugnativa sul capo relativo alla giurisdizione è stata definita come “diritto ad avere torto” perché attraverso essa l’appellante mira a vedersi riconosciuto di aver errato nella scelta del giudice adito in primo grado.

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sottostante all’universalità della legittimazione a proporre ricorso per

regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 cpc.

Vale a dire che poiché normalmente non esistono limiti soggettivi in

ordine alla possibilità di proporre regolamento preventivo di

giurisdizione, che ha una funzione analoga alle impugnazioni per motivi

di giurisdizione, allora nessuna preclusione di sorta può essere ravvisata

per l’auto-eccezione del difetto di giurisdizione.

Si è altresì rilevato che la disciplina della giurisdizione rientra

nell’”ordine pubblico processuale”, come tale indisponibile per i privati.

Tuttavia la natura oscillante ed incoerente del comportamento

processuale serbato dalla parte che, dopo aver adito il g.a., e soccombente

nel merito, ne contesti la giurisdizione in appello, può comunque

integrare abuso del processo ex art. 111 Cost.

La sanzione da comminare per un siffatto tipo di condotta, però, secondo

la giurisprudenza delle SS.UU., non è la pronuncia di rito

d’inammissibilità del gravame, bensì la condanna alle spese per

violazione del dovere dii lealtà e probità ex art. 88 c.p.c.

In tempi più recenti, però, in seno alle Sezioni Unite22 è emerso un altro

orientamento, secondo cui l’ammissibilità dell’autoimpugnativa per

difetto di giurisdizione in appello è ammissibile, ma condizionata alla

giustificazione da parte dell’appellante.

In altri termini si tratta di una soluzione più rigorosa, che considera

ammissibile l’appello solo qualora l’istante motivi il perché dell’esercizio

dello jus poenitendi: ciò, ad esempio, può avvenire laddove

l’impugnazione derivi da eventuali eccezioni sollevate dalla parte

resistente, oppure per la complessità della materia del contendere, o

ancora per l'incertezza giurisprudenziale in ordine al giudice munito di

giurisdizione23.

L’indirizzo ermeneutico in esame, dunque, mediano, propugna una

valutazione casistica, in concreto, circa le ragioni giustificative del

ripensamento dell’appellante sulla giurisdizione: se il ripensamento è

giustificato, il ricorso è ammissibile, se non è giustificato, è

inammissibile.

Tre, dunque, erano le tesi sul campo con cui le SS.UU. del 2016 si sono

dovute confrontare.

La prima, prevalente in giustizia amministrativa, che sanziona con

l’inammissibilità. l’appello proposto per motivi di giurisdizione sollevato

dal ricorrente che in primo grado abbia adito il g.a.

22 Di questo avviso è Cass. Civ., SS.UU., n. 13940 del 19/6/14. 23 La rilevanza dei mutamenti giurisprudenziali e dell’incertezza interpretativa giustifica secondo Cass. Civ., SS.UU., n. 15144 dell’11/7/11, l’inoperatività delle preclusioni rispetto all’esercizio del diritto di azione e difesa in caso di overruling interpretativo repentino ed imprevedibile circa le norme processuali.

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La seconda, largamente condivisa dalle Sezioni Unite, che considera

ammissibile detto appello, ma considera un siffatto comportamento

processuale, connotato da incoerenza e contraddittorietà, stigmatizzabile

mediante il governo delle spese.

La terza, intermedia e minoritaria presso il Giudice regolatore della

giurisdizione, che distingue a seconda dei casi, senza apriorismi di sorta.

3. La risposta delle Sezioni Unite con la sentenza n.

21260/16. Le Sezioni Unite Civili sono state così chiamate a pronunciarsi sulla

questione, quanto mai attuale e controversa, della sorte del gravame

proposto per motivi di giurisdizione da parte del ricorrente che in primo

grado abbia “scelto” il giudice di cui poi intende disconoscere la

giurisdizione.

Le Sezioni Unite hanno dato vita ad un ripensamento dei loro

orientamenti tradizionali, accogliendo la tesi più rigorosa

dell’inammissibilità.

Punto di partenza di un révirement giurisprudenziale che è probabilmente

destinato a costituire un precedente decisivo, è la sentenza resa dalle

Sezioni Unite Civili, n. 24883 del 9/10/08, con cui queste hanno

sostanzialmente riscritto l’articolo 37 del c.p.c.

In quell’occasione, infatti, le Sezioni Unite interpretarono la suddetta

norma, che sancisce letteralmente che il g.o. può rilevare d’ufficio il

difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del processo, nel senso che il

rilievo officioso non è ammesso oltre il primo grado di giudizio.

In assenza di un apposito gravame proposto da una delle parti avverso il

capo della sentenza che ha deciso sulla giurisdizione, infatti, si forma il

giudicato implicito sulla giurisdizione, che cristallizza e rende

irretrattabile la statuizione sul punto.

Tale soluzione, fortemente avversata dalla dottrina poiché comporta un

sovvertimento dei rapporti tra giudice e legge24, si spiega perché, quando

il giudice decide la controversia nel merito, si è implicitamente

pronunciato anche sulla giurisdizione, che precede logicamente lo

scrutinio della fondatezza o infondatezza della domanda.

Peraltro, secondo le SS.UU. Civili del 2008 quest’interpretazione dell’art.

37 del c.p.c. si rende necessaria per assicurare la ragionevole durata del

processo, altrimenti frustrata dalla possibilità che venga disconosciuta la

giurisdizione anche dopo il secondo grado di giudizio.

In assenza di appello sul capo inerente alla giurisdizione, che è dotato di

una propria autonomia, si forma dunque il giudicato implicito, che

24 L’articolo 101 della Costituzione stabilisce che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.

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impedisce al giudice di rilevare ex officio la carenza del proprio potere

giurisdizionale rispetto alla controversia decisa.

L’interpretazione offerta dalle Sezioni Unite n. 24883/08 in ordine all’art.

37 del c.p.c. è poi diventata “diritto vivente”, per cui questa norma vive

oggi nel mondo giuridico così come interpretata dalla Suprema Corte e

non per quello che è il suo tenore letterale.

Il principio ipostatizzato dalle SS.UU. Civili del 2008 è stato poi recepito

anche dal legislatore delegato che, nell’adottare il c.p.a. (d.lgs. 104/10)

all’articolo 9 ammette il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione da

parte del g.a. solo in primo grado. Diversamente, in appello il difetto di

giurisdizione del g.a. non é più suscettibile di essere rilevato

officiosamente, ma solo per effetto uno specifico motivo di gravame

avverso il capo della sentenza impugnata che, implicitamente o

esplicitamente, abbia deciso sulla giurisdizione.

Disciplina identica a quella contenuta nell'art. 9 del c.p.a. è stata poi di

recente recepita dall’articolo 15 del d.lgs. 174/16, “Codice della giustizia

contabile”.

Le Sezioni Unite hanno quindi evidenziato come la giurisprudenza

sull’art. 37 c.p.c. e la littera legis degli art. 9 c.p.a. e 15 c.g.c. qualifichino

come “capo” la statuizione sulla giurisdizione contenuta nella sentenza di

primo grado che decide la causa.

Il “capo”, quale parte autonoma della sentenza, anche laddove riguardi la

giurisdizione, è suscettibile di passare in giudicato, interno ed esterno,

implicito ed esplicito.

Poiché anche quello sulla giurisdizione costituisce tecnicamente un

“capo” della sentenza, allora anch’esso può comportare la soccombenza

nel rito di una parte rispetto alla questione di giurisdizione, del tutto

autonoma e diversa rispetto alla soccombenza sul merito.

Alla luce di questo iter cronologico ed argomentativo, le SS.UU. Civili

con la sentenza n. 21260 del 2016 hanno stabilito che in caso di sentenza

di rigetto nel merito della domanda attorea non è ravvisabile una

soccombenza dell’attore anche sul capo che abbia statuito sulla

giurisdizione.

L’autonomia tra “capi” della sentenza relativi al rito (giurisdizione) ed al

merito, comporta che il ricorrente che in primo grado abbia adito il

giudice appartenente ad una certa giurisdizione, ancorché soccombente

nel merito, é però vittorioso relativamente al capo sulla giurisdizione.

Vale a dire che il ricorrente ha avuto ragione, soddisfazione sul “capo”

relativo alla giurisdizione, mentre ha avuto torto su quello attinente al

merito della sua pretesa.

Pertanto l’attore non è legittimato a contestare il capo sulla giurisdizione

e la potestas iudicandi, dal momento che la statuizione sul plesso

giurisdizionale adito è per lui di segno positivo, favorevole.

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Quindi l'appellante voleva che la controversia fosse decisa dal giudice

appartenente ad un certo plesso giurisdizionale, ed é stato proprio quel

giudice a deciderla.

Per le SS.UU. Civili la soccombenza nel merito, quindi, non può essere

trasferita sul (e utilizzata per censurare il) diverso capo costituito dalla

definizione endoprocessuale della questione di giurisdizione, trattandosi

di aspetto non destinato, per sua natura, a differenza di ciò che avviene

con riguardo ad altre questioni pregiudiziali di rito, a condizionare

l’efficacia e l’utilità della decisione adottata.

La sentenza n. 21260 del 2016 della Suprema Corte nella sua funzione di

giudice regolatore della giurisdizione, valorizza la soccombenza

dell’appellante quale presupposto processuale indefettibile25 per proporre

appello avverso un capo della sentenza, compreso quello sulla

giurisdizione.

In base alle logiche della soccombenza, allora, l'attore/ricorrente che

abbia avuto una pronuncia sfavorevole nel merito da parte del giudice che

aveva adito in primo grado, è soccombente rispetto al capo della sentenza

che decide merito, ma non rispetto a quello che decide sulla giurisdizione.

Dunque questi potrà impugnare il capo attinente al merito, che gli è

sfavorevole, ma non quello sulla giurisdizione, che gli è favorevole.

Diversamente, invece, il convenuto/resistente che sia vittorioso nel

merito, potrà impugnare il capo inerente alla giurisdizione, rispetto al

quale risulta soccombente,

Come rilevato dalle SS.UU. Civili con la pronuncia del 20 Ottobre del

2016, normalmente il vincitore pratico della controversia – attore o

convenuto che sia - non avrà interesse ad impugnare per primo il capo

sulla giurisdizione.

Per la parte che risulti vittoriosa nel merito, infatti, é più utile la

conservazione della pronuncia, piuttosto che il trasferimento della

controversia ad altro plesso giurisdizionale.

Può però accadere che, per effetto dell’impugnativa principale sul merito

da parte del soccombente pratico, il vincitore pratico abbia interesse a

proporre appello incidentale 26 sul capo relativo alla giurisdizione,

condizionato27 all’accoglimento dell’appello principale.

25 È soccombente colui che ha ottenuto dalla sentenza una tutela inferiore rispetto alle richieste formulate nelle conclusioni. Secondo la giurisprudenza dominante la soccombenza condiziona la sussistenza dell’interesse ad impugnare. 26 L’art. 343 c.p.c. stabilisce: “l'appello incidentale [si propone, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, all'atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell'articolo 166. Se l'interesse a proporre l'appello incidentale sorge dalla impugnazione proposta da altra parte che non sia l'appellante principale, tale appello si propone nella prima udienza successiva alla proposizione dell'impugnazione stessa 27 L’appello condizionato si caratterizza per il fatto che l’appellante subordina i propri motivi di gravame all’accoglimento di quelli proposti dall’appellante in via principale, cioè per il caso in cui dovesse sostanzialmente risultare soccombente in appello.

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Le Sezioni Unite si sono poi preoccupate di sgombrare il campo da

possibili contestazioni derivanti dalla soluzione accolta.

Esse hanno infatti precisato che la soluzione dell’inammissibilità

dell’appello proposto dall’attore soccombente nel merito, ma non nel rito,

per il caso in cui la sentenza di primo grado sia stata pronunciata da un

giudice privo di giurisdizione, non si pone in frizione con la garanzia del

giudice naturale precostituito per legge ex art. 25, co. 1, Cost., né

tantomeno in contrasto con il principio di ordine pubblico processuale

che vieta deroghe al riparto di giurisdizione.

Secondo le SS.UU., infatti, il valore costituzionale del giudice

precostituito per legge è presidiato è garantito dall’obbligo del giudice di

procedere d’ufficio in primo grado alla verifica della potestas iudicandi.

Il principio di cui all'art. 25, co. 1, Cost., va però bilanciato con quello

dell’ordine e della speditezza del processo.

Inoltre, le Sezioni Unite richiamano quanto osservato dalla dottrina,

ovvero che il corretto riparto di giurisdizione, ancorché espressione di

interesse superindividuale, “non esprime più un valore processuale

assolutamente imperativo, da garantire...a pena di veder nascere una

sentenza inutiliter data...”.

Né coglie nel segno, per le Sezioni Unite, l’obiezione circa la disarmonia

sistematica che deriverebbe tra la preclusione all’auto-eccezione del

difetto di giurisdizione, censurata con l’inammissibilità per il caso in cui

sia stata proposta dal ricorrente/attore che abbia incardinato in primo

grado la giurisdizione di cui poi si duole appello, e disciplina del

regolamento preventivo di giurisdizione.

Rispetto a quest’ultimo, infatti, in base all’art. 41 c.p.c. – cui rinviano gli

art. 10 c.p.a. e 16 c.g.c. - “ciascuna parte” può adire le Sezioni Unite della

Corte di Cassazione.

La diversità di disciplina tra appello per motivi di giurisdizione e

regolamento preventivo di giurisdizione è giustificata secondo le Sezioni

Unite dalla diversità funzionale dei suddetti rimedi.

Da un lato sta l’appello per difetto di giurisdizione, che è proposto

dall’attore dopo la decisione del giudice sul merito, che costituisce un

rimedio impugnatorio, successivo ed a carattere endoprocessuale.

Dall'altro lato vi é invece il regolamento preventivo di giurisdizione, che

precede ogni statuizione sul merito, che non è un rimedio impugnatorio e

dà vita ad una pronuncia di portata panprocessuale.

Il regolamento preventivo rinviene la sua ratio nella posizione

istituzionale della Corte di Cassazione, nella forza esterna e vincolante

della sua pronuncia e sui significativi effetti che essa genera sul principio

della ragionevole durata del processo, poiché consente di evitare di adire

giudici privi di giurisdizione e, dunque, di incorrere in inutili lungaggini

processuali.

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L’auto-eccezione del difetto di giurisdizione in appello da parte del

ricorrente vittorioso sul capo della giurisdizione, invece, dev’essere

preclusa perché l’ordinamento processuale non consente all’attore, una

volta che la causa sia stata definita nel merito, la contraddittorietà rispetto

all’originaria scelta di giurisdizione e gli impedisce, attraverso

l’inammissibilità del motivo di giurisdizione sollevato col gravame, di

conseguire l’utilità discendente dal ripensamento secundum litis.

Questa nuova soluzione, preclusiva, secondo le Sezioni Unite è quella

maggiormente in linea “con la considerazione della giurisdizione come

risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione

dev’essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità

di consentirne l’utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli

utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione

del giudice statale”.

4.1. Osservazioni a margine: le Sezioni Unite mettono il sigillo sul

declino del tradizionale modo di intendere la giurisdizione.

La sentenza 21260 del 2016 è destinata a rappresentare, con ogni

probabilità, un precedente dal peso specifico enorme per i giudici ordinari

e speciali (amministrativi e contabili) che dovranno confrontarsi da ora in

poi con appelli proposti per motivi di giurisdizione dall’attore/ricorrente

che abbia proposto la sua domanda davanti al giudice di cui contesta la

giurisdizione successivamente ad una pronuncia per lui sfavorevole nel

merito.

E ciò non solo perché si tratta di un pronunciamento delle Sezioni Unite,

ovvero del giudice che svolge le funzioni nomofilattica e di regolazione

del riparto di giurisdizione, ma anche e soprattutto perché la sentenza che

si annota costituisce un altro tassello di un mosaico più ampio, di una big

picture, cominciata con la sentenza n. 24883/08 delle Sezioni Unite

Civili, che si rivela ormai in tutta la sua portata dirompente.

Il sistema giurisdizionale, infatti, attraverso l’interpretazione delle norme

offerta dalla giurisprudenza, sia amministrativa ma, soprattutto, delle

Sezioni Unite per il ruolo peculiare che istituzionalmente esse ricoprono

nel sistema della giustizia italiana, ha ormai intrapreso definitivamente

una nuova direzione, il cui percorso pare ormai inesorabile.

L’assunto di fondo di questo rinnovato modo di intendere la giurisdizione

da parte dei giudici, neppure troppo taciuto, è che ciò che conta è che vi

sia una decisione resa da un soggetto terzo ed imparziale, nel minor

tempo possibile, anche se questo non è quello deputato a decidere in base

a quanto disposto dalla Costituzione (artt. 24-103) e dalla legge.

L’importante è che vi sia un giudice.

Non importa, invece, quale sia questo giudice.

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In questo modo sembra ormai sbiadire fino a scomparire il tradizionale

modo di intendere la giurisdizione, di cui restano soltanto i caratteri della

statualità, di terzietà ed imparzialità dell’organo giudicante, nonché il

principio della ragionevole durata del processo.

Le attuali tendenze giurisprudenziali in tema di giurisdizione hanno così

progressivamente impoverito di contenuto precettivo l’art. 25, co. 1,

Cost., riducendolo, nella parte in cui prevede la garanzia del giudice

naturale, ad un esangue significato, per cui il giudice deve essere solo

terzo ed imparziale.

Infatti, sembra ormai tramontata definitivamente l’idea della

giurisdizione intesa come limite esterno che ogni plesso giurisdizionale

incontra nei rapporti con gli altri plessi, e del giudice naturale

precostituito per legge come quello effettivamente titolare della potestats

iudicandi su determinate controversie.

L’attività interpretativa della giurisprudenza, infatti, prima mediante la

ragionevole durata del processo, poi con l’abuso del processo e, oggi con

il criterio della soccombenza, ha di fatto rimodellato il concetto di

“giurisdizione”, che viene così significativamente ridimensionato sotto il

profilo qualitativo.

In nome della rinnovata concezione della giustizia quale “risorsa scarsa”

o “non inesauribile” 28 , infatti, viene così sacrificata quella che è la

peculiare preparazione tecnica e competenza del giudice cui la

Costituzione, ancor prima della legge, devolve determinate controversie.

Con maggiore impegno esplicativo, non pare privo di rilievo che a

decidere una causa rientrante nella giurisdizione del giudice

amministrativo sia il giudice ordinario e viceversa, attesa la diversità di

formazione e competenze dei giudici appartenenti ai due ordini

giurisdizionali.

In questo modo, allora, smarrisce ulteriormente di senso l’esistenza di

una pluralità di giurisdizioni nel nostro ordinamento, atteso che è la

giurisprudenza stessa a considerarle, nei fatti, tra loro fungibili.

Peraltro con la soluzione accolta dalle SS.UU. appare vulnerato anche il

principio del giudice naturale precostituito per legge che, in quanto

inviolabile, non dovrebbe mai essere disponibile per le parti.

Infatti, escludendo che il ricorrente/attore che abbia incardinato la causa

innanzi ad un certo plesso giurisdizionale possa poi contestare in appello

il difetto di giurisdizione del giudice adito, si finisce di fatto per rimettere

alle parti, e non già alla legge, l'individuazione del giudice munito di

giurisdizione. 28 Le due sentenze gemelle della Cass. Civ., SS.UU., nn. 26242 e 26243 del12/12/14 hanno sancito la rilevabilità d’ufficio della nullità da parte del giudice anche in caso di impugnative negoziali anche, tra gli altri, sulla base dell’argomento della necessità di addivenire ad una definizione definitiva, una volta per tutte, della controversia, specie tenuto conto della “non inesauribilità della risorsa giustizia”.

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Una giurisdizione, si potrebbe dire allora, “convenzionale” e basata sulla

fiducia delle parti.

Come rilevato da acuta dottrina29, infatti, se l’attore o il ricorrente ha

scelto un giudice e l’altra parte non si è opposta tempestivamente, si

realizza una situazione di “comune fiducia” nell’imparzialità e terzietà

del giudice, tale che successivi ripensamenti dell’una o dell’altra parte

sarebbero automaticamente irrilevanti ed inammissibili, in quanto frutto

di tattiche dilatorie e, per ciò solo, abusive.

Esemplificando: il ricorrente ricorre ad un giudice per una controversia

che spetta invece al giudice appartenente ad un altro plesso

giurisdizionale, il giudice non rileva d'ufficio la carenza della

giurisdizione e la parte resistente non la eccepisce.

Il giudice privo di giurisdizione decide la controversia nel merito,

rigettando la domanda del ricorrente che, in quanto vittorioso sul capo

relativo alla giurisdizione, non può proporre appello, che verrebbe

dichiarato inammissibile. Il resistente, per contro, non avrà alcun

interesse a contestare il difetto di giurisdizione che, dunque, si radica

definitivamente col passaggio in giudicato del capo ad essa relativo, col

risultato che la giurisdizione, pur assente, é stata di fatto individuata dal

comportamento processuale delle parti.

Ma la pronuncia che si commenta presenta ulteriori criticità, che meritano

di essere vagliate, seppur brevemente.

Nell’impianto argomentativo, infatti, si rinvengono altri aspetti poco

convincenti.

Infatti, se certamente la sentenza n. 21260/16 è da salutare con favore

nell’aver evitato di richiamare la figura controversa dell’abuso del

processo, non sembra comunque esente da critiche rispetto al criterio

della soccombenza.

Proprio in base alla condizione dell'impugnazione della soccombenza,

infatti, la pronuncia de qua giunge alla conclusione che va considerata

inammissibile l’auto-eccezione del difetto di giurisdizione sollevata

dall’attore che abbia adito in primo grado il giudice di cui in seguito

deduce la carenza di giurisdizione, dal momento che, rispetto al relativo

capo della sentenza, egli sarebbe vittorioso.

La soluzione, che appare formalmente e tecnicamente ineccepibile, cela

in realtà una confusione concettuale, allorquando sovrappone l’interesse

all’impugnazione con la legittimazione all'impugnazione, così di fatto

facendoli coincidere.

Al contrario, come rilevato dalla più attenta dottrina, l'interesse

all'impugnazione è requisito dotato di piena autonomia rispetto alla

29 G.VERDE “Abuso del processo e giurisdizione” in Diritto processuale Amministrativo, fasc. 3, 2015, pp. 1138 e ss.

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legittimazione ad impugnare 30 : mentre l'interesse all'impugnazione è,

difatti, lo svolgimento dell'interesse ad agire, la legittimazione ad

impugnare inerisce, invece, al diverso tema delle parti processuali in

appello.

Di talché non è assolutamente da escludere che, in concreto, l’appellante

che sollevi l’auto-eccezione del difetto di giurisdizione abbia non solo un

interesse ad impugnare, ma sia anche a ciò legittimato, atteso che

l’eventuale accoglimento del suo gravame potrebbe consentirgli di poter

proporre nuovamente la domanda davanti ad un giudice appartenente ad

un plesso giurisdizionale diverso, cancellando così la precedente

pronuncia sfavorevole nel merito.

Ritenere inammissibile a priori tale appello, come hanno stabilito le

Sezioni Unite con la pronuncia n. 21260/16, potrebbe risultare una

soluzione oltremodo rigida, che non tiene conto delle possibili dinamiche

e sviluppi che in concreto possono verificarsi.

È ben possibile, infatti, che ad esempio il ricorrente abbia errato

nell’adire un determinato plesso giurisdizionale – anche tenuto conto

della frequente incertezza, anche giurisprudenziale, che caratterizza

l'esatta perimetrazione dei rapporti tra le varie giurisdizioni – e,

successivamente, intenda impugnare il capo sulla giurisdizione, anche

perché soccombente nel merito.

In questo caso, dunque, potrebbe apparire più corretta una valutazione

caso per caso, che tenga nel debito conto l’eventuale sussistenza di una

giustificazione che legittimi la parte processuale che abbia adito in primo

grado un certo plesso giurisdizionale ad esercitare il jus poenitendi circa

la giurisdizione in secondo grado.

Ma vi e di più.

A ben vedere, infatti, la soluzione accolta dalle SS.UU. potrebbe porsi in

frizione col principio di parità delle armi, sancito dall’articolo 111 della

Costituzione e, a livello sovranazionale, dall’articolo 6 della CEDU.

Sia la parte resistente, cioè la p.a., sia il controinteressato, si trovano a

beneficiare di una ben più comoda posizione processuale rispetto

all’attore/ricorrente: essi, infatti, possono scegliere fra eccepire in primo

grado il difetto di giurisdizione, ovvero riservarsi l'esercizio di tale

facoltà, ai sensi dell'art. 9 c.p.a., nell'ambito del giudizio d'appello,

impugnando per questo motivo la sentenza di primo grado che abbia

definito il giudizio, in tutto o in parte, in modo ad essi sfavorevole31.

Ne consegue una evidente alterazione del principio della parità delle parti

nel processo, poiché si permette così alla parte che non abbia eccepito il 30 Così E.LO PRESTI, La contestazione in appello della giurisdizione incardinata in primo grado integra abuso del processo? In Foro Amm., CDS, fasc. 7-8, pp. 2011 e ss. 31 Di questo avviso è F.DINELLI, La questione di giurisdizione fra il divieto di abuso del diritto e il principio della parità delle parti nel processo, in Foro Amm., CDS, fasc. 7-8, 2012, pp. 1998.

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difetto di giurisdizione in primo grado, e che così abbia implicitamente

accettato la scelta operata dal ricorrente, di porre tale eccezione ad

oggetto di uno specifico motivo di appello.

Al contrario tale potere di impugnare per i profili attinenti alla

giurisdizione é totalmente precluso al ricorrente/attore, a prescindere da

quali siano le ragioni per cui abbia ab initio adito un certo plesso

giurisdizionale, con evidente sperequazione tra i poteri di iniziativa

processuale delle varie parti processuali.

La vittima sacrificale di una decisione dalla portata applicativa

potenzialmente enorme, e destinata ad ogni modo a far discutere, non può

che essere la giurisdizione come tradizionalmente conosciuta, in nome

della “considerazione della giurisdizione come risorsa a disposizione

della collettività, che proprio per tale ragione dev’essere impiegata in

maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l’utilizzo

anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro

indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale”.

Ancorché non destituita di fondamento, l’argomentazione della scarsità

della risorsa della giustizia non convince.

Le Sezioni Unite, infatti, trattano la risorsa-giustizia come un bene

esauribile, da salvaguardare per gli altri utenti e per le generazioni future,

quasi come l’ambiente che, però, è realmente suscettibile di essere

danneggiato e pregiudicato in modo irreversibile, di talchè altri individui,

oggi o in futuro, non possano più fruirne.

Ad ogni modo la scarsità della risorsa giustizia o la sua “non

inesauribilità” non sembra un argomento in grado di giustificare il

superamento e l’obliterazione dei limiti esterni della giurisdizione, dei

criteri di riparto sanciti dalla Costituzione e dalla legge e, per converso, la

guarentigia per i cittadini del giudice naturale precostituito per legge.

La soluzione preferibile, che le Sezioni Unite Civili avrebbero potuto

agevolmente seguire, sarebbe stata allora quella di accogliere la tesi

tradizionale invalsa nella loro precedente giurisprudenza, ovvero quella

dell'ammissibilità dell'auto-eccezione del difetto di giurisdizione.

Secondo l'orientamento consolidato delle SS.UU. fino ad oggi, ancorché

l’autoeccezione del difetto di giurisdizione integri abuso del processo per

la condotta processuale contraddittoria e incoerente dell'appellante, la

sanzione non deve però essere quella dell’inammissibilità dell’appello sul

capo relativo alla giurisdizione, bensì la condanna alle spese per

violazione dell’articolo 88 del c.p.c., anche sub specie di lite temeraria ex

art. 96, co. 3, c.p.c.32

32 La Corte Costituzionale, con sentenza n. 152 del 29/6/16 ha avallato la tesi della natura non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive, rispetto all’articolo 96, comma 3, cpc per l’offesa arrecata alla giurisdizione, che deve manifestare e garantire la

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La pronuncia 21260 del 2016, invece, pare a chi scrive eccessivamente

punitiva nei confronti dell’appellante che, dopo aver incardinato la

controversia davanti ad un determinato giudice, ne contesti la

giurisdizione in sede di gravame.

Anche in virtù del principio di proporzionalità33, che costituisce ormai

pacificamente un caposaldo del nostro ordinamento, la sanzione

dell’inammissibilità pare eccessiva rispetto alla gravità della condotta

dell’appellante che, peraltro, potrebbe anche non integrare in alcun modo

un uso deviante o distorto dello strumento processuale.

È indubbio, però, che dall’altra parte si colloca il valore, di non scarso

speso specifico, del corretto funzionamento della giustizia, a fronte di un

uso spesso smodato e disinvolto da parte dei cittadini, che adiscono

l’autorità giudiziaria senza freni di sorta, che è proprio la giurisprudenza

a dover frenare, nel silenzio del legislatore.

Le Sezioni Unite, in conclusione, sembrano aver privilegiato esigenze di

funzionamento della macchina giudiziaria, che da tempo versa in una

situazione di forte difficoltà, a discapito del pur fondamentale diritto

inviolabile di difesa dei singoli (art. 24 Cost.), nonché del principio di

parità delle armi (art. 111 Cost.) e del giudice naturale precostituito per

legge (art. 25, co. 1, Cost.).

Se si guardano i piatti della bilancia, però, i valori sacrificati sembrano

avere quantitativamente e qualitativamente un peso maggiore rispetto a

quello salvaguardato.

4.2. Osservazioni a margine: la strada per l’Adunanza

Plenaria è segnata? Il disagio della giurisprudenza rispetto a soluzioni troppo rigide e

rigorose per l'attore o il ricorrente che abbia utilizzato in modo abusivo il

diritto di azione processuale, si riscontra anche in giustizia

amministrativa.

ragionevole durata di un giusto processo, in attuazione di un interesse di rango costituzionale intestato allo Stato. 33 C.d.S., Sez. IV, n. 964 del 26/2/15 ha stabilito che il principio di proporzionalità impone all’amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato. Alla luce di tale principio, nel caso in cui l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi, è doverosa un’adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso, il principio in esame rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi. Date tali premesse, la proporzionalità non deve essere considerata come un canone rigido ed immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa ed, in ultima analisi, la rispondenza della stessa alla razionalità ed alla legalità. La giurisprudenza amministrativa afferma che il principio di proporzionalità preclude all’amministrazione l’adozione di atti restrittivi della sfera giuridica dei privati in modo non proporzionato all’interesse pubblico.

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Ed in particolare, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione

Sicilia con l’ordinanza di rimessione n. 634 del 22 Ottobre 2015, ha

rimesso ai sensi dell’art. 99 del c.p.a. all’Adunanza Plenaria la quaestio

iuris relativa alla sorte dell’appello proposto per motivi di giurisdizione

avverso la sentenza rispetto al quale il ricorrente risulti soccombente nel

merito, ancorché sia stato proprio questi ad adire in primo grado il g.a.

Il C.G.A. per la Regione Sicilia, facendosi portatore di un orientamento

assolutamente isolato in giurisprudenza amministrativa, ritiene che nel

caso dell’auto-eccezione del difetto di giurisdizione l’appello sul capo

relativo alla giurisdizione non possa essere considerato inammissibile.

Le argomentazioni su cui poggia l’ordinanza di rimessione in esame sono

essenzialmente due.

La prima risiede nella circostanza che, secondo il C.G.A. per la Regione

Sicilia la buona fede oggettiva avrebbe un rilievo ed una portata soltanto

sostanziale, non trovando riscontro nelle norme di rito.

La seconda ragione ostativa all’inammissibilità dell’appello proposto in

via di auto-eccezione rispetto al difetto di giurisdizione sta nella netta

distinzione tra regole di condotta e validità, identificata dalla storica

sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 26724 del 19 Dicembre 2007.

Orbene, poiché tale condotta può integrare abuso del processo per

violazione degli obblighi di cui all’articolo 88 c.p.c., 34 , che sancisce

regole comportamentali, non può in alcun condurre ad alcuna vicenda che

intacchi la validità dell’atto processuale di appello.

In altri termini l’appellante che, soccombente nel merito, impugni la

sentenza relativamente al capo sulla giurisdizione che egli stesso ha

radicato in primo grado, va sanzionato sul terreno delle spese,

eventualmente anche sub specie la condanna per lite temeraria ex art. 96

c.p.c.35.

Secondo il C.G.A. per la Regione Sicilia nessuna norma del c.p.a., né

tantomeno il principio generale della buona fede oggettiva, possono

legittimare il giudice amministrativo a disapplicare le norme processuali

che gli imporrebbero invece di vagliare la fondatezza dell'appello con cui

si solleva l'auto-eccezione del difetto di giurisdizione.

La soluzione prospettata dal C.G.A. per la Regione Sicilia sembra

condivisibile, specialmente perché maggiormente ossequiosa del

principio costituzionale di parità delle armi, non privando il ricorrente che

intenda appellare per motivi di giurisdizione della possibilità di vedere

34 Tale norma è applicabile anche al processo amministrativo in forza del rinvio esterno contenuto nell’art. 39 del c.p.a. alle disposizioni del codice di procedura civile. 35 In questi termini si pone anche Cass. Civ., Sez. Lavoro, Ord. n. 1251 del 25/1/16, che ha rimesso alle Sezioni Unite Civili la questione relativa alla sorte delle domande proposte in caso di parcellizzazione del credito, facendosi portatrice della tesi secondo cui queste sarebbero ammissibili, ma l’attore andrebbe condannato in base al regime delle spese per la sua condotta abusiva.

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scrutinato il suo gravame da un altro giudice.

Inoltre, una siffatta interpretazione è più armonica con il principio di

proporzionalità, evitando sanzioni eccessive rispetto a condotte

processuali che oggettivamente non paiono meritevoli di una declaratoria

di inammissibilità, nonché perché evita il c.d. “abuso dell’abuso del

processo”, ovvero un uso troppo disinvolto della figura dell’abuso del

processo.

In attesa che l’Adunanza Plenaria si pronunci sul punto, sembra però

possibile già prevedere l’esito della decisione del Supremo Consesso di

Giustizia Amministrativa nella sua composizione allargata.

Infatti, dopo la sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 21290 del 2016, con

cui queste hanno accolto la tesi rigorosa dell’inammissibilità dell’auto-

eccezione del difetto di giurisdizione, sposando l’orientamento già

prevalente in giustizia amministrativa, la strada per la Plenaria sembra

segnata.