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2013

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Foto in copertina:

I primi Dottori della Chiesa in una pala d'altare databile intorno al 1516 di Pier Francesco Sacchi detto il Pavese conservata al Museo del Louvre di Parigi. Da sinistra a destra, in primo piano: Sant'Agostino, San Gregorio, San Girolamo e Sant’Ambrogio.

Titolo originale dell’opera:

I Padri della Chiesa, testimoni della giovinezza della Chiesa

Scuola di formazione teologica e pastorale

Rielaborazione e adattamenti

del prof. Giovanni Santini

PRESENTAZIONE

Sin dall’antichità sono comparsi sulla terra uomini grandi e magnifici, che non hanno tentato di conquistarsi la gloria con singole azioni entusiasmanti, ma hanno esercitato un’influenza così forte su popolazioni ed epoche intere anche attraverso libri ed opere poetiche che tutti conoscevano e ne parlavano con ardore desiderando saperne di più.

Infatti queste persone oltre ad aver esercitato la loro influenza con opere o discorsi e anche con una vita che pareva generata da un unico spirito, grande e unitario, ed erano davanti agli occhi di tutti come esempi luminosi, immagine di Dio. Forse non proprio tutti.

Erano poeti, santi, saggi o artisti, forse anche taumaturghi, ciascuno secondo la sua natura e il suo talento, ma che tutti vedevano nella brevità e caducità dell’esistenza terrena una parabola dell’eternità e tentarono con struggente desiderio e passione intrepida di coniugare, nel loro cuore, cielo e terra.

Questi erano i Padri della Chiesa.

Costoro fanno parte di quelle straordinarie creature che hanno avvicinato gli uomini a Dio e restituito valore e pregio al mistero della creazione. Hanno sempre riscoperto l’essenza e la legge dell’uomo interiore, poiché si ponevano spogli davanti alla terra come al cielo, quasi come fossero stati i primi uomini, mentre noi altri pensiamo di poter vivere nel guscio di sicure idee preconcette e abitudini ereditate.

Il tempo non ha scalfito affatto la grandezza del loro messaggio, potente e coinvolgente anche nei nostri giorni.

In questo lavoro, che non vuole sostituire altri più grandi e più degni, si tenterà di dare una linea continuativa delle letteratura cristiana dagli inizi fino all’anno 500 circa. Si è messo in risalto, per ogni epoca uno o due scrittori, dai Padri apostolici ai Padri dell’età aurea, passando per gli Apologeti e per gli Antieretici.

Il perché si è voluto indicare proprio questi Padri e non altri è stata solo una scelta soggettiva legata al tipo di lavoro, ma nello svolgimento dello stesso si forniranno indicazioni e riferimenti per coloro che volessero “curiosare” nel vasto mondo della Patrologia.

Ogni Padre viene presentato con un proprio testo e successivamente viene tracciata sobriamente una sintesi biografica con un pensiero di Papa Benedetto XVI. Nel lavoro sono anche tracciate delle schede riguardanti il periodo, eresie e concili. Per non appesantire il lavoro in Appendice viene presentato un brevissimo spaccato del Monachesimo e dei Padri del deserto.

SOMMARIO

Introduzione allo studio dei Padri.

Caratteristiche

I Padri “Apostolici”:

Clemente Romano

Ignazio di Antiochia

I Padri “Apologeti”:

S. Giustino

Lettera a Diogneto

Gosticismo, Marcionismo, Montanismo

I Padri “Antieretici”

Ireneo di Lione

I Padri del III secolo:

Greci: Origene

Latini: Tertulliano, Cipriano di Cartagine

Il Concilio di Nicea

Arianesimo

I Padri dell’età aurea:

In Oriente: Atanasio di Alessandria

In Occidente: Agostino d’Ippona

Appendice

INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEI PADRI DELLA CHIESA

Nozione di Padre della Chiesa

Il nome di Padre della Chiesa è di origine orientale. Gli antichi popoli d'Oriente, infatti, onoravano con questo appellativo i maestri, considerati come autori della vita intellettuale, originata dal loro insegnamento. In tale senso i discepoli delle scuole profetiche furono denominati “filii prophetarum”, e il loro maestro fu detto Pater (1 Sam. 40, 35); Paolo si dice "padre" dei nuovi convertiti (1Cor. 4, 15).

Nella Chiesa primitiva, con questo nome vennero designati i vescovi, i quali, appunto perché ministri dei Sacramenti e depositari del patrimonio dottrinale della Chiesa, erano ritenuti generatori di quella vita in Cristo di cui parla Paolo.

I Padri della Chiesa sono uomini che, dotati spesso (ma non necessariamente) di una

responsabilità pastorale, influirono con gli scritti, con la predicazione e con la vita in modo significativo sul cammino - dottrina o prassi - della Chiesa antica.

Perché un personaggio possa essere riconosciuto a pieno titolo come Padre della Chiesa deve avere tre requisiti:

sapienza (ortodossia) - santità - approvazione della Chiesa - antichità

a) dottrina ortodossa: quali custodi infatti della tradizione ricevuta debbono trasmetterla inalterata alle generazioni successive; tale ortodossia si intende nel senso di una fedele comunione di dottrina con la Chiesa, non già come immunità totale da errori anche materiali;

b) santità di vita: come maestri, occorre che i Padri della Chiesa presentino in grado elevato le virtù cristiane, non solo predicate, ma praticate; tale nota costituisce una garanzia e una sublimazione della ortodossia stessa;

c) approvazione della Chiesa: solo la Chiesa, come può definire il canone delle Scritture, così può determinare i testimoni autentici della Tradizione; non occorre tuttavia un'approvazione esplicita, è sufficiente l'implicita, quale potrebbe aversi, ad es., nella citazione di un Padre fatta da un concilio ecumenico;

d) antichità: su questo punto si è alquanto oscillato e, per vario tempo, vennero classificati tra i P. della C. anche scrittori medievali dell'epoca precedente alla scolastica. Poi prevalse una maggiore severità, ed ora l'evo patristico si fa comunemente concludere, in Occidente, con la morte di Isidoro di Siviglia (636), in Oriente con quella di Giovanni Damasceno (ca. 750).

Autorità

L'importanza dei Padri della Chiesa non è soltanto di ordine letterario o storico, ma

soprattutto si fonda sulla loro dottrina, desunta dalla Tradizione come fonte di fede. Ciò deriva dalla connessione strettissima che essi ebbero con il magistero infallibile della Chiesa. Furono in gran parte vescovi e la loro azione intellettuale fu come il respiro della Chiesa stessa. Ai loro tempi costituivano di fatto il magistero o almeno la parte principale di esso, in quanto tutta la Chiesa docente e discente mirava ad essi, delegava loro la propria difesa, ne accoglieva gli scritti e li circondava di approvazione e di lode. Questo complesso di circostanze li costituiva voce autorevole nella Chiesa e legava il loro operato alla responsabilità del suo magistero. Se avessero errato, l'organo stesso dell'infallibilità sarebbe stato compromesso. Da ciò si deduce che i Padri della Chiesa hanno tutti i requisiti per essere considerati testimoni garantiti e qualificati della inalterata tradizione divina.

La divisione cronologica dell’epoca patristica

Secolo I

II cristianesimo comincia a diffondersi nell'ambito dell'Impero romano. Appaiono gli scritti dei più antichi testimoni cristiani, iniziando dalla prima Lettera ai Tessalonicesi, scritta da Paolo intorno al 50, nasce anche la letteratura dei cosiddetti «Padri Apostolici», come la lettera di Papa Clemente ai Corinzi, dell'anno 96. E’ l'epoca in cui domina la mentalità «giudeo-cristiana».

Padri apostolici

L’espressione “Padri Apostolici” è stata applicata ad autori di scritti religiosi che a quanto pare avevano conosciuto uno degli apostoli di Gesù o erano stati istruiti da discepoli i quali, a loro volta, erano stati a contatto con gli apostoli. Generalmente questi uomini vissero tra la fine del I e la metà del II secolo. Tra loro figuravano Clemente Romano, Ignazio di Antiochia, Papia di Ierapoli e Policarpo di Smirne. Oggi è difficile stabilire fino a che punto gli insegnamenti dei Padri Apostolici aderissero a quelli di Gesù. Indubbiamente questi uomini si prefiggevano di preservare, se non di promuovere, un certo tipo di cristianesimo. Condannavano l’idolatria e i costumi dissoluti. Credevano che Gesù fosse il Figlio di Dio e che fosse risorto.

Secolo II

II cristianesimo si va consolidando nonostante le prime persecuzioni. Continuano ad apparire le opere dei «Padri Apostolici» (come Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne), ma comincia anche l'apologetica cristiana, soprattutto con l'opera di Giustino. Verso la fine del secolo, per il sorgere delle eresie gnostiche, si fanno avanti gli antieretici come Ireneo di Lione.

Inizia il passaggio alla mentalità classica. La lingua usata è quasi solo quella greca.

Padri Apologeti

Gli apologeti prendono il nome dalla parola greca “apologhia” che significa “difesa”; essi hanno scritto per difendere la nuova religione cristiana dalle accuse, mosse contro di essa, dalla società pagana.

Gli scrittori convertiti, con le loro opere apologetiche, hanno offerto le motivazioni della loro conversione e le ragioni delle loro scelte morali.

Ma perché fu necessario difendere il cristianesimo? E da quali accuse?

Le accuse contro i cristiani e la polemica contro i pagani

Il pregiudizio popolare diffondeva calunnie volgari e superficiali contro i fedeli; veniva insultata la dottrina eucaristica e alimentato il disprezzo perché i cristiani rifiutavano le divinità tradizionali pagane. Erano visti come turbatori dell’opinione pubblica e considerati una presenza di disturbo nella politica e nell’economia.

Gli apologisti, per contrastare questo ambiente così avverso alla presenza cristiana, fanno sentire i propri argomenti portati a difesa della verità del cristianesimo, della sua validità umana e sociale. Tra loro figuravano Sant’Aristide Marciano, San Giustino, Atenagora, Militone, Teofilo e l’Autore dell’apologia “Lettera a Diogneto”.

Padri antieretici

Le dottrine cristologiche dei primi secoli erano insegnamenti teologici e movimenti dei primi secoli dell'era cristiana. Una volta raggiunto un certo grado di consolidamento e istituzionalizzazione, alcune di queste dottrine vennero giudicate eterodosse e considerati eresie[footnoteRef:1] dalla maggior parte delle Chiese cristiane e negli scritti dei Padri della Chiesa. Tali discordie erano assai radicate nella comunità cristiana e il Concilio di Nicea del 325 rappresentò un momento importante di questo confronto, essendo stato il primo concilio della cristianità, nato dalla constatazione che il tema cristologico aveva ormai assunto un rilievo politico. [1: ereṡìa (pop. tosc. reṡìa) s. f. [dal lat. haerĕsis (nel sign. eccles.), gr. αἵρεσις, propr. «scelta», der. di αἱρέω «scegliere»]. Dottrina che si oppone a una verità rivelata e proposta come tale dalla Chiesa cattolica e, per estens., alla teologia di qualsiasi chiesa o sistema religioso, considerati come ortodossi.]

Ma prima del Concilio di Nicea si levarono forti le voci dei Padri, come quella di Sant’Ireneo, per esempio.

Secolo III

È il secolo in cui il cristianesimo, affermatesi definitivamente, dà origine alle prime vere correnti e scuole teologiche e letterarie: a Roma, con Ippolito e Novaziano; a Cartagine, con Tertulliano e Cipriano; ad Alessandria d'Egitto, con Clemente e Origene. La letteratura cristiana aderisce sempre maggiormente alla classicità, sia in lingua greca che in lingua latina. Nasce l'arte cristiana nelle catacombe e nelle «domus ecclesiae».

I Padri del III secolo

Una delle caratteristiche principali della Chiesa del terzo secolo è lo sviluppo della scienza teologica, in altre parole del pensiero sulla fede. Prima la fede era vissuta in maniera più immediata: si partiva dalle parole di Gesù e si andava avanti su quelle. Lo sviluppo della teologia è invece l'approfondimento, la riflessione; in sintesi il discorso su Dio.

Lo sviluppo che, in questo secolo, porterà ad un cambiamento dei paradigmi del pensiero cristiano è dovuto principalmente ad Origene (185-252), uno dei protagonisti; Ricordiamo Tertulliano, anche se è a cavallo dei due secoli (160-220). Scrittore latino, di Cartagine, temperamento focoso, scivolerà pian piano verso l'eresia montanista. Altro scrittore latino, vescovo di Cartagine, è Cipriano, morto nel 258.

Secolo IV

Inizia l'èra costantiniana: il cristianesimo ottiene la pace e il riconoscimento ufficiale da parte dell'Impero. Questo momento di passaggio è rappresentato soprattutto dalle opere di Lattanzio e di Eusebio di Cesarea. Nel frattempo, scoppiano le eresie donatista e ariana, e si raduna il primo concilio ecumenico a Nicea (325). La polemica teologica stimola l'attività letteraria sia in Oriente (Atanasio, Giovanni Crisostomo) che in Occidente (Ilario, Ambrogio, Girolamo, ecc.).

Sorgono le prime grandi basiliche, si sviluppano tutte le arti figurative, gli ambienti cittadini acquistano fisionomia cristiana, nasce il fenomeno del monachesimo.

Secolo V

Anche questo secolo, travagliato dalle invasioni barbariche, è dominato dalle controversie teologiche: prima con il donatismo e l'arianesimo, poi con il pelagianesimo, il nestorianesimo, il monofisismo. Si radunano i concilii di Efeso (431) e Calcedonia (451). In Occidente spiccano Agostino e papa Leone I; in Oriente, Cirillo di Alessandria, Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro. Siamo nell’epoca d’oro dei Padri.

L'epoca d'oro dei Padri della Chiesa

L'età che va dal secolo quarto al secolo settimo è stata definita la grande epoca patristica. Sono in atto situazioni nuove: le persecuzioni sono terminate, la Chiesa può agire con libertà; di contro dilaga l'eresia ariana che genera apostasia[footnoteRef:2] e scismi[footnoteRef:3] ovunque. [2: Apostasia. Secondo il Codice di diritto canonico, ripudio totale della fede cristiana.] [3: scisma Nelle Chiese cristiane (e per analogia in altre religioni), separazione volontaria di un gruppo di fedeli dalla comunità ecclesiale di appartenenza per motivi in prevalenza disciplinari. ]

È questo il periodo nel quale sorgono figure eminenti in dottrina e santità che sanno chiarire, difendere e diffondere la verità. Sono all'origine della cultura cristiana e della civiltà occidentale.

Emergono tra essi le figure di Atanasio, Basilio, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo, considerati come i Dottori massimi della Chiesa Orientale; mentre in Occidente dominano incontrastati Girolamo, il Dottore delle Scritture, Ambrogio, il Dottore dell'indipendenza della Chiesa, Agostino, che non è soltanto il Dottore della Grazia, ma il Dottore universale, colui che per vari secoli fu il principale, se non l'unico ispiratore del pensiero cristiano occidentale.

Secolo VI

E il secolo dell'imperatore Giustiniano I e di papa Gregorio I. Le controversie teologiche si vanno spegnendo in Occidente, mentre rimangono assai vivaci in Oriente, dove si tiene il II concilio di Costantinopoli (553). Boezio, Cassiodoro, Cesario di Arles, Gregorio di Tours fanno da mediatori tra i romano-cristiani e i barbari. In Siria appare l'opera del cosiddetto Dionigi l'Areopagita. Si consolidano le prime letterature nazionali cristiane (armena, siriaca, ecc.).

Secolo VII

II monofisismo rinasce sotto forma di monotelismo, ma viene condannato al III concilio di Costantinopoli (680-681), mentre si verifica la prima espansione dell'Islam. In Oriente, l'attività teologica ha due punti di riferimento illustri come Sofronio di Gerusalemme e Massimo «il Confessore». In Occidente, mentre si realizza la fusione tra gli elementi romani e quelli barbarici, è l'epoca di compilatori come Isidoro di Siviglia.

Secolo VIII

In Oriente imperversa la lotta contro le icone, difese da Germano di Costantinopoli e da Giovanni di Damasco. Il II concilio di Nicea (787) dà loro ragione. In Occidente è in atto un rinascimento culturale e letterario nell'ambiente anglosassone, rappresentato da Beda «il Venerabile». Esso sta alla radice della rinascita carolingia, sia letteraria che artistica, stimolata dall'attività di Alcuino di York.

Secolo IX

È il secolo dei due umanesimi e delle due rinascite letterarie e artistiche dell'alto medioevo: «carolingio» in Occidente, perché legato alla persona e all'ambiente di Carlo Magno; «foziano» in Oriente, perché in rapporto con Fozio, patriarca di Costantinopoli. Gli autori principali sono, da una parte, Rabano Mauro e Giovanni Scoto Eriugena; dall'altra, Teodoro di Studio e lo stesso Fozio.

L'attività dei missionari Cirillo e Metodio pone le basi della cultura slava; quella di Alfredo «il Grande» avvia le espressioni più antiche della cultura anglosassone.

Secolo X

In Occidente è il secolo della cosiddetta «rinascita ottomana», perché collegata all'attività politica, culturale e artistica degli imperatori Ottone I, II e III. I personaggi principali sono Liutprando di Cremona, Raterio di Verona, Gerberto di Aurillac (diventato poi papa Silvestro II). Si convertono la Prussia, l'Ungheria, la Polonia. Gli imperatori bizantini sottomettono la Bulgaria e stimolano la conversione della Russia. Un po' dovunque appaiono i primi documenti in lingua volgare.

Secolo XI

In Oriente, con Simeone «il Nuovo Teologo», e in Occidente, con Pier Damiani (poi con Bernardo di Clairvaux), monaci, mistici e riformatori, arriva a compimento l'epoca della mentalità patristica, mentre si fanno avanti i precursori della «scolastica» Anselmo d'Aosta e Pietro Abelardo. Intanto, le nuove culture, letterature e arti nazionali vanno emergendo dalle rovine del mondo feudale.

La lingua dei Padri

Fino a quasi tutto il sec. II la lingua dei Padri fu il greco. Ciò non fa meraviglia, se si pensa che il cristianesimo reclutò i suoi primi seguaci fra elementi di origine prevalentemente orientale. Il greco inoltre era in quel tempo la lingua internazionale per eccellenza, compresa non solo in Oriente, ma ancora in tutte le regioni bagnate dal Mediterraneo, almeno per quanto riguarda il ceto colto. Era del resto la lingua che, per l'alto grado del suo sviluppo, meglio si prestava ad esprimere la ricchezza del pensiero cristiano.

I più recenti studi sulla lingua di Cipriano, Ambrogio, Girolamo, Agostino e altri hanno dimostrato che i Padri non hanno scritto in maniera indegna dei migliori rappresentanti della latinità classica, pur avendo fatto uso di termini e costruzioni inedite.

Perché si studiano i Padri?

Di queste figure di scrittori e pensatori si occupano due scienze importanti, che comunemente sogliono considerarsi come distinte:

la patrologia, che studia il momento storico letterario dei Padri, cioè direttamente gli scritti e, in relazione ad essi, la vita dei singoli autori;

la patristica, che riguarda l'aspetto dottrinale, e si considera come l'esposizione sistematica delle prove dedotte dagli scritti patristici in dimostrazione dei dogma.

Inoltre i Padri sono testimoni privilegiati della Tradizione, essi ci hanno tramandato un metodo teologico luminoso e sicuro e sono testimoni di una ricchezza culturale, spirituale e pastorale.

1) I Padri sono testimoni privilegiati della Tradizione

La Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II° Dei Verbum illustra il posto della Tradizione nella vita ecclesiale e il suo rapporto con la Bibbia:

“La rivelazione apostolica, espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva essere conservata con successione continua fino alla fine dei tempi … Ciò che fu trasmesso agli apostoli, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa e all'incremento della fede del popolo di Dio, e così la Chiesa - nella sua vita, nella sua dottrina e nel suo culto - perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede.

Questa tradizione, che trae origine dagli apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo. Infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, sia con la profonda intelligenza delle realtà spirituali che essi sperimentano, sia con la predicazione di coloro che - con la successione episcopale - hanno ricevuto un carisma certo di verità …

Le asserzioni dei santi padri attestano la vivificante presenza di questa tradizione le cui ricchezze sono trasfuse nella prassi e nella vita della chiesa credente e orante. La stessa tradizione fa conoscere alla chiesa il canone integrale dei libri sacri, e in essa le stesse sacre lettere sono più profondamente comprese e continuamente messe in pratica. (8).

La sacra tradizione e la sacra scrittura sono dunque tra loro strettamente congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra scrittura è parola di Dio in quanto messa per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito Santo; la sacra tradizione trasmette integralmente la parola di Dio - affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli - ai successori di questi ultimi perché la conservino fedelmente, la espongano e la diffondano. Per questo la Chiesa attinge la sua certezza circa le cose rivelate non dalla sola Scrittura. E quindi l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari pietà e rispetto” (9).

- Testimoni privilegiati della Tradizione: i Padri hanno insegnato alla chiesa ciò che hanno imparato nella chiesa, secondo quanto espresso nel documento della Congregazione per l’Educazione Cattolica “Lo studio dei Padri della chiesa nella formazione sacerdotale”, 1989, nn.17-47.

"Essi sono più vicini alla freschezza delle origini; alcuni di loro sono stati testimoni della Tradizione apostolica, fonte da cui la Tradizione stessa trae origine; specialmente quelli dei primi secoli possono considerarsi autori ed esponenti di una tradizione 'costitutiva', della quale nei tempi posteriori si avrà la conservazione e la continua esplicazione." (n.19)

"La Tradizione di cui i padri sono testimoni, è una Tradizione viva, che dimostra l'unità nella varietà e la continuità nel progresso. Ciò si vede nella pluralità delle famiglie liturgiche, di tradizioni spirituali, disciplinari ed esegetico-teologiche esistenti nei primi secoli (ad es. Le scuole di Alessandria e di Antiochia); tradizioni diverse ma unite e radicate nel fermo e immutabile fondamento comune della fede”(n.21).

La Tradizione, dunque qual è stata conosciuta e vissuta dai Padri non è come un masso monolitico, immobile e sclerotizzato, ma come un organismo pluriforme e pulsante di vita. E' una prassi di vita e di dottrina che conosce, da una parte, anche incertezze, tensioni, ricerche fatte a tentoni, e dall'altra decisioni tempestive e coraggiose, rivelatesi di grande originalità e di importanza decisiva.

Seguire la Tradizione viva dei Padri non significa aggrapparsi al passato come tale, ma aderire con senso di sicurezza e libertà di slancio alla linea della fede mantenendo un orientamento costante verso il fondamento: ciò che è essenziale, ciò che dura e non cambia. Si tratta di una fedeltà assoluta, in tanti casi portata e provata “usque ad sanguinis effusionem”, verso il dogma e quei principi morali e disciplinari che dimostrano la loro funzione insostituibile e la loro fecondità proprio nei momenti in cui si stanno facendo strada cose nuove.

Riassumendo, in questa tradizione viva i Padri della Chiesa occupano un posto peculiare:

a) Più o meno vicini alla freschezza delle origini, sono depositari di una tradizione costitutiva della quale in tempi successivi si avrà la conservazione e l'esplicazione (sviluppo del dogma).

b) Il periodo dei Padri è il periodo di importanti "primizie" della vita ecclesiale, in molteplici ambiti, quali la definizione del canone biblico; la precisazione del depositum fidei; le basi della disciplina canonica; le prime forme di liturgia, l’inizio della teologia come scienza.

c) I Padri sono testimoni e garanti di una tradizione autenticamente cattolica.

2) I Padri ci hanno tramandato un metodo teologico luminoso e sicuro:

Continua il documento della Congregazione per l’educazione cattolica: "Il delicato processo di innesto del cristianesimo nel mondo della cultura antica, e la necessità di definire i contenuti del mistero cristiano nei confronti della cultura pagana e delle eresie, stimolarono i padri ad approfondire e ad illustrare razionalmente la fede con l'aiuto delle categorie di pensiero meglio elaborate nelle filosofie del loro tempo, specialmente nella raffinata filosofia ellenistica. Uno dei loro compiti storici più importanti fu di dare vita alla scienza teologica, e di stabilire al suo servizio alcune coordinate norme di procedimento rivelatesi valevoli e fruttuose anche per i secoli futuri..." (n.25)

3) Il metodo teologico dei Padri è fondato su:

a) il ricorso continuo alla Scrittura e il senso della Tradizione: "La teologia è nata dall'attività esegetica dei Padri, in medio Ecclesiae, e specialmente nelle assemblee liturgiche, a contatto con le necessità spirituali del popolo di Dio. Quella esegesi, nella quale la vita spirituale si fonde con la riflessione razionale teologica, mira sempre all'essenziale pur nella fedeltà a tutto il sacro deposito della fede. Essa è incentrata interamente nel mistero di Cristo, al quale riporta tutte le verità particolari in una mirabile sintesi. Anziché disperdersi in numerose problematiche marginali, i padri cercano di abbracciare la totalità del mistero cristiano, seguendo il movimento fondamentale della rivelazione e dell'economia della salvezza, che va da Dio, attraverso il Cristo, alla chiesa, sacramento dell'unione con Dio e dispensatrice della grazia divina, per ritornare a Dio" (n.27)

b) la consapevolezza dell'originalità cristiana pur nel riconoscimento delle verità contenute nella cultura pagana: opera di incontro tra originalità cristiana e culture (inculturazione cristiana): approfondimento continuo del contenuto della Rivelazione: "(I Padri) sono diventati l'esempio di un incontro fecondo tra fede e cultura, tra fede e ragione, rimanendo una guida per la chiesa di tutti i tempi, impegnata a predicare il vangelo a uomini di culture tanto diverse e ad operare in mezzo ad esse. Come si vede, grazie a tali atteggiamenti dei padri, la chiesa si rivela sin dai suoi inizi 'per sua natura missionaria', anche a livello del pensiero e della cultura, e perciò il concilio Vaticano II prescrive che 'tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione'." (n.32)

c) la difesa della fede come bene supremo e l'approfondimento continuo del contenuto della rivelazione. Difesa della fede (apologia/difesa dagli eretici) ma anche ripensamento della fede nel contesto culturale greco romano = progresso dogmatico: "All'interno della chiesa, l'incontro della ragione con la fede ha dato occasione a molte e lunghe controversie che hanno interessato i grandi temi del dogma trinitario, cristologico, antropologico, escatologico. In tali occasioni i Padri, nel difendere le verità che toccano la stessa essenza della fede, furono gli autori di un grande avanzamento nell'intelligenza dei contenuti dogmatici, rendendo un valido servizio al progresso della teologia".(n.33)

"Il progresso dogmatico, che è stato realizzato dai padri non come progetto astratto

puramente intellettuale, ma il più delle volte nelle omelie, in mezzo alle attività liturgiche e pastorali, costituisce un ottimo esempio di rinnovamento nella continuità della Tradizione. " (n.35)

d) il senso del mistero e l'esperienza del divino

"Nei loro atteggiamenti di teologi e di pastori si manifestava in grado altissimo il senso profondo del mistero e l'esperienza del divino, che li proteggeva contro le tentazioni sia del razionalismo troppo spinto sia di un fideismo piatto e rassegnato" (n.37)

"Nel loro modo di esprimersi è spesso percepibile il saporoso accento dei mistici, che lascia trasparire una grande familiarità con Dio, un'esperienza vissuta del mistero di Cristo e della chiesa e un contatto costante con tutte le genuine fonti della vita teologale considerato da essi come situazione fondamentale della vita cristiana. Si può dire che nella linea dell'agostiniano 'intellectum valde ama' (S. Ag., Ep 120,3,13) i padri certamente apprezzano l'utilità della speculazione, ma sanno che essa non basta. Nello stesso sforzo intellettuale per capire la propria fede, essi praticano l'amore, che rendendo amico il conoscente al conosciuto (Clem. Al., Strom. 2,9), diventa per la sua stessa natura fonte di nuova intelligenza. Infatti 'nessun bene è perfettamente conosciuto se non è perfettamente amato' (S. Ag., De div quaest 83, q.35,2)." (n.40)

4) i Padri sono testimoni di una ricchezza:

* culturale: per la capacità di far incontrare vangelo e cultura, imprimendo il sigillo cristiano;

* spirituale: La ricchezza e novità degli spunti teologici, morali, spirituali, ecc... è un prezioso fattore di irrobustimento per la vita spirituale del cristiano di ogni tempo.

Non a caso la Liturgia delle ore prevede una lettura patristica per l'ufficio delle letture.

"Molti dei Padri erano dei 'convertiti': il senso della novità della vita cristiana si univa in essi alla certezza della fede. Da ciò si sprigionava nelle comunità cristiane del loro tempo una 'vitalità esplosiva', un fervore missionario, un clima di amore che ispirava le anime all'eroismo della vita quotidiana personale e sociale, specialmente con la pratica delle opere di misericordia, elemosina, cura degli infermi, delle vedove, degli orfani, stima della donna e di ogni persona umana, educazione dei figli, rispetto della vita nascente, fedeltà coniugale, rispetto e generosità nel trattamento degli schiavi, libertà e responsabilità di fronte ai poteri pubblici, difesa e sostegno dei poveri e degli oppressi, e con tutte le forme di testimonianza evangelica richieste dalle circostanze di luogo e di tempo, spinta talvolta fino al sacrificio supremo del martirio." (n.44)

* pastorale: Le opere dei Padri nascono quasi sempre da un interesse pastorale, e quindi ci fanno conoscere sia le situazioni e i problemi delle chiese, sia i criteri seguiti dai pastori nella loro conduzione: "Un'altra ragione del fascino e dell'interesse delle opere dei padri è che esse sono nettamente pastorali: composte cioè per scopi di apostolato. I loro scritti sono o catechesi e omelie, o confutazioni di eresie, o risposte a consultazioni, o esortazioni spirituali o manuali destinati all'istruzione dei fedeli. Da ciò si vede come i padri si sentivano coinvolti nei problemi pastorali dei loro tempi..." (n.45)

"Tutto nella loro azione pastorale e nel loro insegnamento è ricondotto alla carità e la carità a Cristo, via universale di salvezza. Essi tutto riferiscono a Cristo, ricapitolazione di tutte le cose (Ireneo), deificatore degli uomini (Atanasio), fondatore e re della città di Dio, che è la società degli eletti (Agostino). Nella loro prospettiva storica, teologica ed escatologica, la chiesa è il Christus totus, che 'corre e, correndo compie il suo pellegrinaggio, tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, dal tempo di Abele, il primo giusto ucciso dall'empio fratello, fino alla consumazione dei secoli' (S. Ag., De Civ.Dei 18,51,2; cfr LG 2)" (n.46)

Alcuni Padri della Chiesa, e non solo, hanno ricevuto il titolo di Dottore della Chiesa: esso è il titolo che la Chiesa cattolica attribuisce a personalità religiose che hanno mostrato nella loro vita e nelle loro opere particolari doti di illuminazione della dottrina cattolica sia per fedeltà sia per divulgazione o per riflessione teologica.

Questo titolo è concesso o dal Papa stesso o da un Concilio. Si tratta di un riconoscimento attribuito eccezionalmente (attualmente si contano 33 persone che coprono circa duemila anni di storia della chiesa ca. nel 1980) ed è dato solo postumo e dopo un opportuno e preventivo processo di canonizzazione.

Padri del deserto

Col nome di Padri del deserto si indicano quei monaci, eremiti e anacoreti che nel IV secolo, dopo la pace costantiniana, abbandonarono le città per vivere in solitudine nei deserti d'Egitto, di Palestina, di Siria. Sono padri spirituali del Cristianesimo. Oggi piuttosto dimenticati.

Uomini che si facevano chiamare monaci e che fin dalle origini della fede si allontanavano dai centri urbani per rifugiarsi in luoghi isolati e periferici, dove poter rivivere gli ideali evangelici delle prime comunità cristiane. 

Una delle figure più emblematiche dei Padri del Deserto, è Antonio, fondatore del monachesimo cristiano, che visse tra il 251 e il 356.  A parte due viaggi ad Alessandria, del 311 e 335, trascorse la sua vita in isolamento nelle regioni desertiche dell'Egitto, comprese tra il Nilo e il Mar Rosso, su un monte dal quale si poteva vedere il Sinai. 

I Padri Apostolici

Sono detti Padri apostolici gli scrittori cristiani del I secolo e dell’inizio del II, il cui insegnamento è quasi l’eco diretta della predicazione degli apostoli (sia che li abbiano conosciuti personalmente, sia che abbiano ascoltato i loro discepoli). Con questa denominazione “Padri apostolici” si è soliti raggruppare questi scrittori: Barnaba, Clemente Romano, Ignazio d’Antiochia, Policarpo di Smirne, Erma, Pàpia di Gerapoli, l’autore della Lettera a Diogneto, la Didachè.

Gli scritti dei Padri apostolici hanno un carattere pastorale, il loro contenuto, come lo stile, li accosta ai libri del Nuovo Testamento, specialmente alle epistole. Sono opere di congiunzione tra l’epoca della rivelazione e quella della tradizione, appartengono a regioni diverse dell’Impero romano: Asia minore, Siria, Roma. Sono scritti dettati da circostanze particolari, anche se possiamo rilevare tratti comuni di pensiero: il carattere escatologico e l’attesa per la imminente venuta di Cristo (parusia); il ricordo ancora vivo della persona di Cristo, una dottrina cristologia uniforme intorno al concetto di “logos”.

Clemente Romano

Dalla Lettera ai Corinti di Clemente Romano

È il primo testo di quella che sarà la grande Letteratura Cristiana, scritto intorno al 97 dal Vescovo di Roma. Il motivo della Lettera è dettato da un episodio accaduto nella comunità di Corinto, fervente e generosa, ma sempre inquieta. Accadde che alcuni giovani ribelli avevano deposto gli “anziani” di quella comunità. L’intervento del Vescovo di Roma sta a significare del prestigio che godeva la chiesa di Roma. Nello specifico Clemente prende l’iniziativa e, consapevole di adempiere ad un suo dovere, parla con autorità, esige l’obbedienza e minaccia i disobbedienti.

La grande preghiera

«LIX, 1. Quelli che disubbidiscono alle parole di Dio, ripetute per mezzo nostro, sappiano che incorrono in una colpa e in un pericolo non lievi. 2. Noi saremo innocenti di questo peccato e chiederemo, con preghiera assidua e supplica, che il creatore dell'universo conservi intatto il numero dei suoi eletti che si conta in tutto il mondo per mezzo dell'amatissimo suo figlio Gesù Cristo Signore nostro, col quale ci chiamò dalle tenebre alla luce, dall'ignoranza alla conoscenza del suo nome glorioso, 3. a sperare nel tuo nome, principio di ogni creatura: Tu apristi gli occhi del nostro cuore perché conoscessimo te, il solo altissimo nell'altissimo dei cieli, il santo che riposi tra i santi, che umilii la violenza dei superbi, che sciogli i disegni dei popoli, che esalti gli umili e abbassi i superbi. […] 4. Ti preghiamo, Signore, sii il nostro soccorso e sostegno. Salva i nostri che sono in tribolazione, rialza i caduti, mostrati ai bisognosi, guarisci gli infermi, riconduci quelli che dal tuo popolo si sono allontanati, sazia gli affamati, libera i nostri prigionieri, solleva i deboli, consola i vili. Conoscano tutte le genti che tu sei l'unico Dio e che Gesù Cristo è tuo figlio e "noi tuo popolo e pecore del tuo pascolo".

LX, 1. […] 3. Sì, o Signore, fa' splendere il tuo volto su di noi per il bene, nella pace, per proteggerci con la tua mano potente e scamparci da ogni peccato col tuo braccio altissimo, e salvarci da coloro che ci odiano ingiustamente. 4. Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra, come la desti ai padri nostri quando ti invocavano santamente nella fede e nella verità; rendici sottomessi al tuo nome onnipotente e pieno di virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra.

LXI, 1. Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza, perché noi, conoscendo la gloria e l'onore loro dati, ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua volontà. Dona ad essi, Signore, sanità, pace, concordia e costanza, per esercitare al sicuro la sovranità data da te. 2. Tu, Signore, re celeste dei secoli, concedi ai figli degli uomini gloria, onore e potere sulle cose della terra. Signore, porta a buon fine il loro volere, secondo ciò che è buono e gradito alla tua presenza, per esercitare con pietà, nella pace e nella dolcezza, il potere che tu hai loro dato e ti trovino misericordioso. 3. Te, il solo capace di compiere questi beni ed altri più grandi per noi, ringraziamo per mezzo del gran Sacerdote e protettore delle anime nostre Gesù Cristo, per il quale ora a te sia la gloria e la magnificenza e di generazione in generazione e nei secoli dei secoli.

Amen.»

Clemente è uno dei primissimi anelli: l’elenco dei vescovi di Roma, dopo Pietro pone Lino, Cleto o Anacleto e, subito dopo, Clemente. La fede cristiana ci raggiunge insomma tramite la Tradizione apostolica nella quale ognuno ridona tutto quello che ha ricevuto dalle generazioni precedenti a quelle generazioni successive. Dentro questa Tradizione nella quale si trasmette vitalmente l’opera di Cristo, noi abbiamo la prima generazione, poi gli Evangelisti, poi Clemente, poi Ignazio, gli apologisti, fino ad arrivare a noi, tramite una serie di anelli tutti collegati tra loro.

La storia di Cristo, Clemente, da solo non avrebbe mai potuto inventarla; serviva invece un altro che gliela trasmettesse, senza nulla togliere poi all’appropriazione personale. Fino a che tu non incontri una generazione, una comunità, un sacerdote, un papà, un amico, un collega che ti dona la fede cristiana, tu non puoi averla. L’impossibilità di giungere alla fede da soli è semplicemente il segno che la fede non è un’idea, non è un pensiero, non è una elaborazione filosofica alla quale si potrebbe giungere indipendentemente dalla storia che nasce dal Cristo. Nessuno si inventa questa storia, bensì tutti sono chiamati a riconoscersi in quella realtà che già pre-esiste.

Questi autori, come Clemente ed Ignazio, si chiamano Padri della Chiesa, proprio perché noi riceviamo la fede da loro che l’hanno trasmessa, come avviene per la vita, alle generazioni successive. In particolare Clemente ed Ignazio appartengono a quel gruppo di autori cristiani che è detto dei Padri Apostolici; essi sono autori di scritti così antichi, da essere quasi contemporanei agli scritti degli apostoli, agli scritti neotestamentari. La lettera di Clemente potrebbe essere stata scritta prima degli ultimi scritti neotestamentari. Alcuni dei Padri Apostolici hanno vissuto mentre qualcuno degli Apostoli era ancora in vita.

La data che oggi ci interessa per inquadrare gli avvenimenti inerenti a Clemente è quella del 95 d.C. In quell’anno si verifica una seconda grande persecuzione dei cristiani ad opera dell’imperatore Domiziano (fu imperatore dall’81 al 96 d.C.), dopo quella avvenuta nel 64 sotto Nerone. Ne siamo certi perché tanti testi ne parlano. L’Apocalisse parla di questa persecuzione, a causa della quale Giovanni si trova a Patmos, “mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù”, Ap 1,9; la maggior parte degli studiosi collegano ormai l’Apocalisse con il periodo di Domiziano, ma ne parlano anche la I lettera di Clemente, il Pastore di Erma, Melitone, Egesippo e Tertulliano.

Riguardo alla sua vita, la testimonianza più importante è quella di Ireneo, vescovo di Lione fino al 202. Egli attesta che Clemente “aveva visto gli Apostoli”, “si era incontrato con loro”, e “aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione, e davanti agli occhi la loro tradizione” (Adv. haer. 3,3,3). Testimonianze tardive, fra il quarto e il sesto secolo, attribuiscono a Clemente il titolo di martire.

L'autorità e il prestigio di questo vescovo di Roma erano tali, che a lui furono attribuiti diversi scritti, ma l'unica sua opera sicura è la Lettera ai Corinti. Eusebio di Cesarea, il grande “archivista” delle origini cristiane, la presenta in questi termini: “E’ tramandata una lettera di Clemente riconosciuta autentica, grande e mirabile. Fu scritta da lui, da parte della Chiesa di Roma, alla Chiesa di Corinto... Sappiamo che da molto tempo, e ancora ai nostri giorni, essa è letta pubblicamente durante la riunione dei fedeli” (Hist. Eccl. 3,16). A questa lettera era attribuito un carattere quasi canonico. All'inizio di questo testo – scritto in greco – Clemente si rammarica che “le improvvise avversità, capitate una dopo l'altra” (1,1), gli abbiano impedito un intervento più tempestivo; essa ci permette di avere una testimonianza di prima mano sulla situazione della comunità cristiana di Roma in quegli anni.

La lettera parla di un periodo difficile che ha impedito all’autore di scrivere a Corinto, dopo il quale è tornata la pace. Quindi la lettera di Clemente è scritta subito dopo questa persecuzione di Domiziano (81-96), al tempo dell’imperatore che gli succedette, Nerva (fu imperatore dal 96 al 98 d.C.).

La lettera ai Corinzi è il documento su cui ci fermeremo per conoscere la figura di Clemente Romano; è un testo sicuramente storico, mentre, come vedremo, i dati sul suo martirio sono storicamente molto più incerti. Clemente, il quarto nelle liste dei vescovi di Roma dopo Pietro, Lino, Cleto, scrive questa lettera non in prima persona, ma sempre in una forma comunitaria. Lo si direbbe –dicono gli studiosi- circondato da un collegio di presbiteri che, con lui, governano la comunità.

Il motivo della lettera è una lite che si è verificata a Corinto; la comunità romana si sente chiamata ad intervenire tramite questo scritto del suo vescovo Clemente. La lettera vuole richiamare questa comunità cristiana della Grecia all’unità, spiegando che è vergognosissimo che all’interno della comunità ci siano divisioni, ci siano ‘scismi’.La penosa vicenda è ricordata, ancora una volta, da Ireneo di Lione, che scrive: “Sotto Clemente, essendo sorto un contrasto non piccolo tra i fratelli di Corinto, la Chiesa di Roma inviò ai Corinti una lettera importantissima per riconciliarli nella pace, rinnovare la loro fede e annunciare la tradizione, che da poco tempo essa aveva ricevuto dagli Apostoli” (Adv. haer. 3,3,3).

Molti pensano erroneamente che la chiesa antica fosse uno splendore e rifiutano la chiesa presente, in nome di una presunta purezza di quella delle origini. Invece, la chiesa fin dalle origini mostra di avere gli stessi problemi che la attraverseranno nei secoli.

Anche la teologia espressa dalla Lettera di Clemente è molto interessante: nel parlare di Dio si trovano in Clemente sia delle chiare affermazioni binarie che parlano della divinità del Padre e del Figlio -il Padre è il Creatore, il Figlio è il Kyrios- ma anche delle formulazioni trinitarie. Pian piano si chiarisce il dogma perché già dall’inizio, a differenza di tutte le religioni pagane, la Chiesa deve definire quello che crede. È evidente già in questa lettera che il cristianesimo sente l’esigenza di una continua chiarificazione dottrinale, cosa che non era necessaria nel paganesimo. Proprio la rivelazione di Dio in Cristo fa nascere l’esigenza di voler capire in chi si crede.

La lettera di Clemente riprende temi cari a Paolo, che aveva scritto due grandi lettere ai Corinti, in particolare la dialettica teologica, perennemente attuale, tra indicativo della salvezza e imperativo dell’impegno morale. Prima di tutto c'è il lieto annuncio della grazia che salva. Il Signore ci previene e ci dona il perdono, ci dona il suo amore, la grazia di essere cristiani, suoi fratelli e sorelle.

È un annuncio che riempie di gioia la nostra vita e dà sicurezza al nostro agire: il Signore ci previene sempre con la sua bontà e la bontà del Signore è sempre più grande di tutti i nostri peccati. Occorre però che ci impegniamo in maniera coerente con il dono ricevuto e rispondiamo all'annuncio della salvezza con un cammino generoso e coraggioso di conversione. Rispetto al modello paolino, la novità è che Clemente fa seguire alla parte dottrinale e alla parte pratica, che erano costitutive di tutte le lettere paoline, una “grande preghiera” che praticamente conclude la lettera.

L'occasione immediata della lettera schiude al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento sull'identità della Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati degli abusi, osserva Clemente, il motivo va ricercato nell'affievolimento della carità e di altre virtù cristiane indispensabili. Per questo egli richiama i fedeli all'umiltà e all'amore fraterno, due virtù veramente costitutive dell’essere nella Chiesa: “Siamo una porzione santa”, ammonisce, “compiamo dunque tutto quello che la santità esige” (30,1).

In particolare, il Vescovo di Roma ricorda che il Signore stesso “ha stabilito dove e da chi vuole che i servizi liturgici siano compiuti, affinché ogni cosa, fatta santamente e con il suo beneplacito, riesca bene accetta alla sua volontà... Al sommo sacerdote infatti sono state affidate funzioni liturgiche a lui proprie, ai sacerdoti è stato preordinato il posto loro proprio, ai leviti spettano dei servizi propri. L'uomo laico è legato agli ordinamenti laici” (40,1-5: si noti che qui, in questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella letteratura cristiana, compare il termine greco laikoj “laikós”, che significa “membro del laos”, cioè “del popolo di Dio”).

In questo modo, riferendosi alla liturgia dell'antico Israele, Clemente svela il suo ideale di Chiesa. Essa è radunata dall’“unico Spirito di grazia effuso su di noi”, che spira nelle diverse membra del Corpo di Cristo, nel quale tutti, uniti senza alcuna separazione, sono “membra gli uni degli altri” (46,6-7). La netta distinzione tra il “laico” e la gerarchia non significa per nulla una contrapposizione, ma soltanto questa connessione organica di un corpo, di un organismo, con le diverse funzioni. La Chiesa infatti non è luogo di confusione e di anarchia, dove uno può fare quello che vuole in ogni momento: ciascuno in questo organismo, con una struttura articolata, esercita il suo ministero secondo la vocazione ricevuta.

Riguardo ai capi delle comunità, Clemente esplicita chiaramente la dottrina della successione apostolica. Le norme che la regolano derivano in ultima analisi da Dio stesso. Il Padre ha inviato Gesù Cristo, il quale a sua volta ha mandato gli Apostoli. Essi poi hanno mandato i primi capi delle comunità, e hanno stabilito che ad essi succedessero altri uomini degni. Tutto dunque procede “ordinatamente dalla volontà di Dio” (42).

San Clemente sottolinea ancora che la Chiesa ha una struttura sacramentale e non una struttura politica. L’agire di Dio che viene incontro a noi nella liturgia precede le nostre decisioni e le nostre idee. La Chiesa è soprattutto dono di Dio e non creatura nostra, e perciò questa struttura sacramentale non garantisce solo il comune ordinamento, ma anche questa precedenza del dono di Dio, del quale abbiamo tutti bisogno. Finalmente, la “grande preghiera” conferisce un respiro cosmico alle argomentazioni precedenti. Clemente loda e ringrazia Dio per la sua meravigliosa provvidenza d'amore, che ha creato il mondo e continua a salvarlo e a santificarlo.

Infine in Clemente troviamo la preghiera per le autorità dello stato, nonostante che il potere politico, per la seconda volta, avesse perseguitato i cristiani. Il Papa, ad un anno dalla fine della persecuzione di Domiziano, invece di esortare ad odiare l’imperatore e a combatterlo chiede di pregare per lui, perché si possa obbedirgli senza opporsi alla volontà di Dio.

Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza, perché noi, conoscendo la gloria e l'onore loro dati, ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua volontà (LXI, 1).È una straordinaria manifestazione del fatto che i cristiani di allora volevano essere dentro lo stato, non essere un corpo estraneo ad esso, purché questo non richiedesse loro di compiere qualcosa che fosse contro la carità e la verità. Clemente Romano, morì a Roma nel 100-101 dC durante la persecuzione di Traiano.

Così, all'indomani della persecuzione, i cristiani, ben sapendo che sarebbero continuate le persecuzioni, non cessarono di pregare per quelle stesse autorità che li avevano condannati ingiustamente. Il motivo è anzitutto di ordine cristologico: bisogna pregare per i persecutori, come fece Gesù sulla croce. Ma questa preghiera contiene anche un insegnamento che guida, lungo i secoli, l'atteggiamento dei cristiani dinanzi alla politica e allo Stato.

Pregando per le autorità, Clemente riconosce la legittimità delle istituzioni politiche nell'ordine stabilito da Dio; nello stesso tempo, egli manifesta la preoccupazione che le autorità siano docili a Dio e “esercitino il potere che Dio ha dato loro nella pace e la mansuetudine con pietà” (61,2). Cesare non è tutto. Emerge un'altra sovranità, la cui origine ed essenza non sono di questo mondo, ma “di lassù”: è quella della Verità, che vanta anche nei confronti dello Stato il diritto di essere ascoltata.

«Con lo stesso Spirito facciamo nostre le invocazioni della “grande preghiera”, là dove il Vescovo di Roma si fa voce del mondo intero: “Sì, o Signore, fa' risplendere su di noi il tuo volto nel bene della pace; proteggici con la tua mano potente... Noi ti rendiamo grazie, attraverso il sommo Sacerdote e guida delle anime nostre, Gesù Cristo, per mezzo del quale a te la gloria e la lode, adesso, e di generazione in generazione, e nei secoli dei secoli. Amen” (60-61)».

(Benedetto XVI 07/03/2007)

(SCHEDA RIASSUNTIVA(Martirio di S. Clemente)CLEMENTE ROMANOPadre ApostolicoDati anagrafici: ? / 101Causa morte:Martirio (pare gettato, legato ad un’ancora, nel Mar Nero)Biografia essenziale: si hanno scarne notizie. È il 3° Papa in ordine di successione dopo S. PietroScritti/Opere: Lettera ai CorintiCommento: La Lettera ha una specifica importanza sia dal punto di vista disciplinare sia dal punto di vista dottrinale. In essa risulta in modo luminoso il primato della Chiesa di Roma.)

Ignazio d'Antiochia

Dalla «Lettera agli Efesini» di sant’Ignazio di Antiochia, vescovo e martire

“Con Ignazio appare per la prima volta chiaramente quella struttura della chiesa locale che diverrà poi tradizionale, con il ministero del Vescovo, maestro, guida e centro di unità della comunità cristiana e con i ministeri dei presbiteri e dei diaconi. Il Vescovo è consapevole di essere discepolo di Cristo e di parlare ai cristiani come ai condiscepoli; tutti si esortano e si edificano vicendevolmente nella fede e nella carità e trovano l’unità in Gesù Cristo, unico fondamento della Chiesa, segno di questa unità è per i fedeli la concordia e l’armonia con il vescovo”[footnoteRef:4]. [4: Pier Franco BEATRICE, Introduzione ai Padri della Chiesa, ISG-ELLEDICI, 2009, 32.]

La perfetta armonia frutto della concordia

È vostro dovere rendere gloria in tutto a Gesù Cristo, che vi ha glorificati; così uniti in un’unica obbedienza, sottomessi al vescovo e al collegio dei presbiteri, conseguirete una perfetta santità.

Non vi do ordini, come se fossi un personaggio importante. Sono incatenato per il suo nome, ma non sono ancora perfetto in Gesù Cristo. Appena ora incomincio ad essere un suo discepolo e parlo a voi come a miei condiscepoli. Avevo proprio bisogno di essere preparato alla lotta da voi, dalla vostra fede, dalle vostre esortazioni, dalla vostra pazienza e mansuetudine. Ma, poiché la carità non mi permette di tacere con voi, vi ho prevenuti esortandovi a camminare insieme secondo la volontà di Dio. Gesù Cristo, nostra vita inseparabile, opera secondo la volontà del Padre, come i vescovi, costituiti in tutti i luoghi, sino ai confini della terra, agiscono secondo la volontà di Gesù Cristo.

Perciò procurate di operare in perfetta armonia con il volere del vostro vescovo, come già fate. Infatti il vostro venerabile collegio dei presbìteri, degno di Dio, è così armonicamente unito al vescovo, come le corde alla cetra. In tal modo nell’accordo dei vostri sentimenti e nella perfetta armonia del vostro amore fraterno, s’innalzerà un concerto di lodi a Gesù Cristo. Ciascuno di voi si studi di far coro. Nell’armonia della concordia e all’unisono con il tono di Dio per mezzo di Gesù Cristo, ad una voce inneggiate al Padre, ed egli vi ascolterà e vi riconoscerà, dalle vostre buone opere, membra del Figlio suo. Rimanete in un’unità irreprensibile, per essere sempre partecipi di Dio.

Se io in poco tempo ho contratto con il vostro vescovo una così intima familiarità, che non è umana, ma spirituale, quanto più dovrò stimare felici voi che siete a lui strettamente congiunti come la Chiesa a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al Padre nell’armonia di una totale unità! Nessuno s’inganni: chi non è all’interno del santuario, resta privo del pane di Dio. E se la preghiera fatta da due persone insieme ha tanta efficacia, quanto più non ne avrà quella del vescovo e di tutta la Chiesa?

(Capp. 2, 2 – 5, 2)

Sant'Ignazio fu il terzo Vescovo di Antiochia, in Siria, cioè della terza metropoli del mondo antico dopo Roma e Alessandria d'Egitto. Lo stesso San Pietro era stato primo Vescovo di Antiochia, e Ignazio fu suo degno successore: un pilastro della Chiesa primitiva così come Antiochia era uno dei pilastri del mondo antico. Qui, in Antiochia, come sappiamo dagli Atti degli Apostoli, sorse una comunità cristiana fiorente: primo vescovo ne fu l'apostolo Pietro – così ci dice la tradizione -, e lì “per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani” (At 11,26).

Non era cittadino romano, e pare che non fosse nato cristiano, e che anzi si convertisse assai tardi. Ciò non toglie che egli sia stato uomo d'ingegno acutissimo e pastore ardente di zelo. I suoi discepoli dicevano di lui che era " di fuoco ", e non soltanto per il nome, dato che ignis in latino vuol dire fuoco.

Mentre era Vescovo ad Antiochia, l'Imperatore Traiano (98-117) dette inizio alla sua persecuzione, che privò la Chiesa degli uomini più in alto nella scala gerarchica e più chiari nella fama e nella santità. Arrestato e condannato “ad bestias”, Ignazio fu condotto, in catene, con un lunghissimo e penoso viaggio, da Antiochia a Roma dove si allestivano feste in onore dell'Imperatore vittorioso nella Dacia e i Martiri cristiani dovevano servire da spettacolo, nel circo, sbranati e divorati dalle belve.

Durante il suo viaggio, da Antiochia a Roma, il Vescovo Ignazio scrisse sette lettere, che sono considerate non inferiori a quelle di San Paolo: ardenti di misticismo come quelle sono sfolgoranti di carità. In queste lettere, il Vescovo avviato alla morte raccomandava ai fedeli di fuggire il peccato; di guardarsi dagli errori degli Gnostici; soprattutto di mantenere l'unità della Chiesa.

Di Ignazio possiamo sottolineare solo qualche aspetto importante, in particolare dalla lettera che egli rivolse ai Romani. In questa lettera egli chiede ai cristiani di Roma, che probabilmente sono già vicini alla casa imperiale, di non difenderlo, di non salvarlo dalla condanna a morte, di lasciarlo morire perché possa dare l’estrema testimonianza a Cristo.

Eusebio di Cesarea, storico del IV secolo, dedica un intero capitolo della sua Storia Ecclesiastica alla vita e all'opera letteraria di Ignazio (3,36). “Dalla Siria”, egli scrive, “Ignazio fu mandato a Roma per essere gettato in pasto alle belve, a causa della testimonianza da lui resa a Cristo. Compiendo il suo viaggio attraverso l'Asia, sotto la custodia severa delle guardie” (che lui chiama “dieci leopardi” nella sua Lettera ai Romani 5,1), “nelle singole città dove sostava, con prediche e ammonizioni, andava rinsaldando le Chiese; soprattutto esortava, col calore più vivo, di guardarsi dalle eresie, che allora cominciavano a pullulare, e raccomandava di non staccarsi dalla tradizione apostolica”.

La prima tappa del viaggio di Ignazio verso il martirio fu la città di Smirne, dove era vescovo Policarpo, discepolo dell’evangelista Giovanni. Qui Ignazio scrisse quattro lettere, rispettivamente alle Chiese di Efeso, di Magnesia, di Tralli e di Roma. “Partito da Smirne”, prosegue Eusebio, “Ignazio venne a Troade, e di là spedì nuove lettere”: due alle Chiese di Filadelfia e di Smirne, e una al vescovo Policarpo. Eusebio completa così l'elenco delle lettere, che sono venute a noi dalla Chiesa del primo secolo come un prezioso tesoro. Leggendo questi testi si sente la freschezza della fede della generazione che ancora aveva conosciuto gli Apostoli. Si sente anche in queste lettere l'amore ardente di un santo. Finalmente da Troade il martire giunse a Roma, dove, nell'Anfiteatro Flavio, venne dato in pasto alle bestie feroci.

Un tema che ricorre nell’epistolario di Ignazio è quello dell’unità, così come era centrale nella Lettera di Clemente.

Se Ignazio si rivolge ai fedeli per chiedere loro di essere sempre uniti al vescovo per risuonare nell’unità, allo stesso tempo si rivolge al vescovo chiedendogli di essere realmente tale, preoccupandosi di tutti, anche dei fedeli più difficili.

Come la Lettera di Clemente ci dice già la coscienza che aveva la chiesa di Roma che si rivolgeva alla chiesa di Corinto per richiamarla all’unità, così anche nella lettera di Ignazio ai Romani troviamo un’attestazione chiara del ruolo particolare che Roma aveva già nel cristianesimo delle origini:

Ignazio, Teoforo, a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e di Gesù Cristo suo unico figlio, la Chiesa amata e illuminata nella volontà di chi ha voluto tutte le cose che esistono, nella fede e nella carità di Gesù Cristo Dio nostro, che presiede nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità, che porta la legge di Cristo e il nome del Padre.

Nessun Padre della Chiesa ha espresso con l'intensità di Ignazio l’anelito all'unione con Cristo e alla vita in Lui. In realtà, confluiscono in Ignazio due "correnti" spirituali: quella di Paolo, tutta tesa all’unione con Cristo, e quella di Giovanni, concentrata sulla vita in Lui.

A loro volta, queste due correnti sfociano nell’imitazione di Cristo, più volte proclamato da Ignazio come “il mio” o “il nostro Dio”. Così Ignazio supplica i cristiani di Roma di non impedire il suo martirio, perché è impaziente di “congiungersi con Gesù Cristo”. E spiega: “E' bello per me morire andando verso Gesù Cristo, piuttosto che regnare sino ai confini della terra. Cerco lui, che è morto per me, voglio lui, che è risorto per noi... Lasciate che io sia imitatore della Passione del mio Dio!” (Romani 5-6). Si può cogliere in queste espressioni brucianti d'amore lo spiccato “realismo” cristologico tipico della Chiesa di Antiochia, più che mai attento all'incarnazione del Figlio di Dio e alla sua vera e concreta umanità: Gesù Cristo, scrive Ignazio agli Smirnesi, “è realmente dalla stirpe di Davide”, “realmente è nato da una vergine", “realmente fu inchiodato per noi” (1,1).

L'irresistibile tensione di Ignazio verso l'unione con Cristo fonda una vera e propria “mistica dell'unità”. Egli stesso si definisce “un uomo al quale è affidato il compito dell'unità” (Filadelfiesi 8,1). Per Ignazio l'unità è anzitutto una prerogativa di Dio, che esistendo in tre Persone è Uno in assoluta unità. Egli ripete spesso che Dio è unità, e che solo in Dio essa si trova allo stato puro e originario. L'unità da realizzare su questa terra da parte dei cristiani non è altro che un'imitazione, il più possibile conforme all'archétipo divino.

In questo modo Ignazio giunge a elaborare una visione della Chiesa, che richiama da vicino alcune espressioni della Lettera ai Corinti di Clemente Romano. “E' bene per voi”, scrive per esempio ai cristiani di Efeso, "procedere insieme d'accordo col pensiero del vescovo, cosa che già fate. Infatti il vostro collegio dei presbiteri, giustamente famoso, degno di Dio, è così armonicamente unito al vescovo come le corde alla cetra. Per questo nella vostra concordia e nel vostro amore sinfonico Gesù Cristo è cantato. E così voi, ad uno ad uno, diventate coro, affinché nella sinfonia della concordia, dopo aver preso il tono di Dio nell'unità, cantiate a una sola voce” (4,1-2).

E dopo aver raccomandato agli Smirnesi di non “intraprendere nulla di ciò che riguarda la Chiesa senza il vescovo” (8,1), confida a Policarpo: “Io offro la mia vita per quelli che sono sottomessi al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi. Possa io con loro avere parte con Dio. Lavorate insieme gli uni per gli altri, lottate insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e vegliate insieme come amministratori di Dio, suoi assessori e servi. Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete la mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro battesimo rimanga come uno scudo, la fede come un elmo, la carità come una lancia, la pazienza come un'armatura” (6,1-2).

Complessivamente si può cogliere nelle Lettere di Ignazio una sorta di dialettica costante e feconda tra due aspetti caratteristici della vita cristiana: da una parte la struttura gerarchica della comunità ecclesiale, e dall’altra l'unità fondamentale che lega fra loro tutti i fedeli in Cristo. Di conseguenza, i ruoli non si possono contrapporre. Al contrario, l'insistenza sulla comunione dei credenti tra loro e con i propri pastori è continuamente riformulata attraverso eloquenti immagini e analogie: la cetra, le corde, l'intonazione, il concerto, la sinfonia.

È evidente la responsabilità peculiare dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi nell'edificazione della comunità. Vale anzitutto per loro l'invito all'amore e all'unità. “Siate una cosa sola”, scrive Ignazio ai Magnesi, riprendendo la preghiera di Gesù nell'Ultima Cena: “Un'unica supplica, un'unica mente, un'unica speranza nell'amore... Accorrete tutti a Gesù Cristo come all'unico tempio di Dio, come all'unico altare: egli è uno, e procedendo dall'unico Padre, è rimasto a Lui unito, e a Lui è ritornato nell'unità” (7,1-2).

Ignazio, per primo nella letteratura cristiana, attribuisce alla Chiesa l'aggettivo “cattolica”, cioè “universale”: “Dove è Gesù Cristo", egli afferma, “lì è la Chiesa cattolica” (Smirnesi 8,2). E proprio nel servizio di unità alla Chiesa cattolica, la comunità cristiana di Roma esercita una sorta di primato nell’amore: “In Roma essa presiede degna di Dio, venerabile, degna di essere chiamata beata... Presiede alla carità, che ha la legge di Cristo e porta il nome del Padre” (Romani, prologo).

Come si vede, Ignazio è veramente il “dottore dell'unità”: unità di Dio e unità di Cristo (a dispetto delle varie eresie che iniziavano a circolare e dividevano l’uomo e Dio in Cristo), unità della Chiesa, unità dei fedeli “nella fede e nella carità, delle quali non vi è nulla di più eccellente” (Smirnesi 6,1).

In definitiva, il “realismo” di Ignazio invita i fedeli di ieri e di oggi, invita noi tutti a una sintesi progressiva tra configurazione a Cristo (unione con Lui, vita in Lui) e dedizione alla sua Chiesa (unità con il Vescovo, servizio generoso alla comunità e al mondo). Insomma, occorre pervenire a una sintesi tra comunione della Chiesa all’interno di sé e missione della proclamazione del Vangelo per gli altri, fino a che attraverso una dimensione parli l'altra, e i credenti siano sempre più “nel possesso di quello spirito indiviso, che è Gesù Cristo stesso” (Magnesi 15).

«Sant’Ignazio, vescovo di Antiochia scrive infine, nella sua Lettera ai filadelfiesi, rispondendo a degli interlocutori immaginari che non credono nella sufficiente forza di prova di documenti scritti a testimonianza della fede: «Ho ascoltato alcuni che dicevano: “se non lo trovo una cosa negli archivi, non credo nemmeno nel Vangelo”. Io risposi loro che sta scritto ed essi, di rimando, che questo è da provare. Per me l’archivio è Gesù Cristo, i miei archivi inamovibili la sua croce, la sua morte e resurrezione e la fede che viene da lui». In altre parole: non sono i documenti (d’archivio, nel caso) che possono testimoniare la verità divina ma è quest’ultima, al contrario, che è fondante, per virtù carismatica, degli archivi stessi.

Implorando dal Signore questa “grazia di unità”, e nella convinzione di presiedere alla carità di tutta la Chiesa (cfr. Romani, prologo), rivolgo a voi lo stesso augurio che conclude la lettera di Ignazio ai cristiani di Tralli: “Amatevi l'un l'altro con cuore non diviso. Il mio spirito si offre in sacrificio per voi, non solo ora, ma anche quando avrà raggiunto Dio... In Cristo possiate essere trovati senza macchia” (13). E preghiamo affinché il Signore ci aiuti a raggiungere questa unità e ad essere trovati finalmente senza macchia, perché è l'amore che purifica le anime».

(Benedetto XVI 14/03/2007)

(SCHEDA RIASSUNTIVAIGNAZIO di Antiochia Padre Apostolico Dati anagrafici: ? / 110?Causa morte:Martirio (condannato alle fiere ad bestias)Biografia essenziale: poche le notizie a riguardo. Convertito da adulto, divenne il 3° Vescovo di Antiochia di Siria, una delle maggiori metropoli dell’impero dopo Roma e Alessandria d’Egitto.Scritti/Opere: scrisse 7 lettere: alla Chiesa di Efeso, Magnesia, Tralle, Roma, Smirne, Filadelfia e al Vescovo Policarpo.Commento: Ignazio è il primo teologo cristiano che abbia elaborato una dottrina dai contorni molto forti sul ruolo e sul significato del vescovo nella comunità cristiana.)

I PADRI APOLOGETI

Ai Padri apostolici seguirono gli Apologeti, prima greci e poi latini, che con i loro scritti vollero mostrare i fondamenti della dottrina cristiana e difendere le verità cristiane dalle accuse dei pagani. Il periodo in cui vissero, durante le età di Adriano (117-138) e degli Antonini (138-192: Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero e Commodo), fu quello di grande diffusione del cristianesimo, sempre più presente anche nei ceti elevati, causando problemi politici, culturali e religiosi.

Evidenziando i limiti del modello filosofico e culturale pagano e accentuando il messaggio salvifico, i Padri apologisti cercarono di dare risposte chiare sulla diversità tra cristianesimo ed ebraismo, che, sotto l’impero di Adriano, era ancora confusa e portò alla distruzione di Gerusalemme. Inoltre, tesero a dimostrare la moralità delle pratiche di vita cristiana e la lealtà nei confronti dello Stato per arginare le accuse di sovversione e si impegnarono nella creazione di una cultura cristiana e nella definizione di un sistema dottrinale.

Gli Apologeti di lingua greca del II secolo furono Quadrato, Aristide, Melitone, Apollinare, Aristone, Giustino, Taziano il Siro, Atenagora, Milziade e Teofilo, ai quali si deve aggiungere l’autore anonimo della Lettera a Diogneto; nel secolo successivo vi furono Clemente Alessandrino, Ermia e Origene. Alcuni di loro furono martiri (come Aristide e Giustino) e/o santi vescovi (Melitone, Apollinare e Teofilo), altri non assunsero posizioni accettate integralmente dalla Chiesa (Taziano), altri ancora furono solo uomini di lettere (Origene). Per questo, a differenza dei Padri apostolici, non tutti i Padri apologeti greci furono proclamati santi.

Tra gli Apologeti di lingua latina si ricordano Marco Minucio Felice e Tertulliano (II secolo), san Cipriano e Arnobio (III secolo), cui seguì Lattanzio.

La ricerca è incentrata sulla figura di Giustino, uno dei più grandi santi della Chiesa dei primi secoli. Tuttavia la sua biografia non sarebbe stata pienamente comprensibile senza un adeguato inquadramento storico, al fine di mostrare l'evolversi e il definirsi del pensiero cristiano nei primi secoli.

E furono proprio le persecuzioni[footnoteRef:5] la principale causa della nascita della letteratura "apologetica", cioè di quella letteratura volta alla difesa o all'esaltazione della dottrina cristiana. Tutte le apologie, perciò, convergono nel mostrare i vantaggi di un'alleanza tra cristianesimo e impero (aspetto politico) e nello spiegare i principi morali della nuova religione confrontandoli con le più conosciute filosofie dell'epoca per essere intesa essa stessa come "filosofia" (aspetto culturale), in quanto risposta globale e definitiva ai problemi dell'origine e del destino del mondo. [5: 2.La prima persecuzione fu ordinata dal quinto imperatore romano, Nerone (regnante dal 58 al 65), il quale, su istigazione degli ebrei preoccupati di essere accusati, presentò i cristiani come responsabili dell'incendio da lui provocato e nemici del genere umano. Infatti, Svetonio, nella biografia di Nerone, scrisse che «vennero condannati al supplizio i cristiani, genere di individui dediti a una nuova e malefica superstizione» e anche lo storico Tacito affermò che i cristiani erano «invisi per le loro nefande azioni» e «ritenuti accesi d’odio contro il genere umano». Le persecuzioni - tra cui le più feroci nel I secolo furono quelle di Domiziano (imperatore dall'81 al 96) e di Traiano (dal 98 al 117) - si alternarono a periodi di relativa tolleranza.

]

San Giustino è considerato il più importante tra i primi Padri apologisti greci, l’esponente più convinto di una linea di incontro e dialogo con la filosofia, vista come preparazione parziale al Vangelo che è la rivelazione piena del Logos divino.

San Giustino

Giustino insegna che secondo la “tradizione che risale agli Apostoli, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni settimana nel “giorno del Signore”; in esso i cristiani si riuniscono in assemblea per ascoltare la parola di Dio e partecipare all’Eucaristia, rendendo grazie a Dio che li ha rigenerati nella speranza viva per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo”[footnoteRef:6]. [6: Introduzione ai Padri …, 52.]

L’Eucaristia è carne e sangue di quel Gesù incarnato

Tutti quanti insieme ci riuniamo nel giorno del sole, poiché è il primo giorno nel quale Dio creò il mondo, avendo trasformato la tenebra e la materia, e Gesù Cristo, nostro salvatore risuscitò nello stesso giorno dai morti: infatti lo crocifissero prima del giorno di Saturno, e il giorno dopo quello di Saturno, cioè il giorno del sole, apparso ai suoi discepoli e ai suoi apostoli insegnò queste cose che ora mandiamo a voi per un esame. […]

LXVI. - 1. Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato.

2. Infatti noi li prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento, consacrato con la preghiera che contiene la parola di Lui stesso e di cui si nutrono il nostro sangue e la nostra carne per trasformazione, è carne e sangue di quel Gesù incarnato.3. Infatti gli Apostoli, nelle loro memorie chiamate vangeli, tramandarono che fu loro lasciato questo comando da Gesù, il quale prese il pane e rese grazie dicendo: "Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo". E parimenti, preso il calice e rese grazie disse: "Questo è il mio sangue"; e ne distribuì soltanto a loro.

(Dalla Prima Apologia di Giustino)

Giustino nacque, da una famiglia pagana di lingua greca, intorno all’anno 100 a Flavia Neapolis (oggi Nablus), capitale dell’antica Samaria. La città si trova fra due montagne bibliche - l’Ebal e il Garizzim - ed è molto vicina a Sichem, dove Dio apparve ad Abramo (Gn 12,6-7), dove Giosuè convocò le dodici tribù d’Israele per ratificare la Alleanza fra Dio e il suo popolo (Gs 24,1) e dove si conserva il pozzo di Giacobbe (Gv 4,5-6, Sicar e Sichem sono la stessa città), ma questi luoghi carichi di significato non influenzarono Giustino che non imparò l’ebraico.

Il padre di Giustino si chiamava Prisco e suo nonno Bacheio, probabilmente coloni giunti in Palestina dopo la distruzione di Gerusalemme avvenuta nel 70 a opera dell’imperatore Tito.

Giustino studiò a fondo la retorica, la poesia, la storia e, soprattutto, la filosofia in tutte le sue correnti: stoica, peripatetica (o aristotelica), pitagorica e platonica, come raccontò egli stesso nel prologo del Dialogo con Trifone. Credendo di aver trovato nelle opere di Platone la propria strada si fece eremita vicino al mare, ma un misterioso vegliardo, incontrato durante una passeggiata, gli confidò che la perfetta sapienza non si trovava nei libri dei platonici, ma nei testi dei Profeti, ed era Cristo che - come Verbo incarnato - offriva agli uomini salvezza e felicità. Giustino si accostò così ai Profeti e, convintosi, si fece battezzare, forse a Efeso o ad Alessandria, verso il 130.

Negli anni 131 e 132 predicò a Roma, poi visitò altri centri culturali dell’impero alla ricerca delle origini cristiane, continuando lo studio di tutte le dottrine filosofiche, perché, secondo Giustino, esse contenevano tracce della sapienza divina. Infine, dopo il 145, ritornò a Roma e aprì la prima locale scuola di filosofia in casa di un tale Martino, vicino alle terme private di Timoteo al Viminale, dove insegnava a «tutti quelli che vengono», anche se Giustino preferiva rivolgersi alle classi intellettualmente più preparate al fine di combattere i pregiudizi dovuti all’ignoranza.

Giustino fu autore di molte opere, ma solo tre sono giunte fino a noi quasi integralmente: la Prima Apologia, la Seconda Apologia e il Dialogo con Trifone. Delle altre opere si conoscono solo i titoli: Eusebio di Cesarea ne elenca sei (Contro Marcione, Discorso ai Greci, Esortazione contro i Greci, Sull’unità o sovranità di Dio, Sull’anima, Salterio). Giustino stesso cita un Trattato contro tutte le eresie, san Giovanni Damasceno riferisce tre frasi dell’opera Sulla Risurrezione attribuendola a Giustino. Con lo stesso titolo dato da Eusebio ci sono pervenute alcune opere nel manoscritto Parisinum graecum 450 datato 11 settembre 1364, ma non sono ritenute autentiche.

La Prima Apologia fu scritta «150 anni dopo la nascita di Gesù» ed è rivolta all’imperatore Antonino Pio (138-161, di cui è nota la tolleranza mostrata verso i cristiani), mentre la Seconda Apologia fu indirizzata al Senato romano durante l’impero di Marco Aurelio (conosciuto come l’Imperatore-filosofo, governò dal 161 al 180), dopo la persecuzione dei cristiani a Roma. In esse, Giustino critica le condanne emesse sulla professione di fede e non sui reati commessi, chiede all’Imperatore e al Senato di lasciarsi guidare dal senso di giustizia e non dai pregiudizi, perché il cristianesimo è da considerarsi il compimento della tradizione veterotestamentaria dell’antica filosofia pagana. Inoltre, illustra il contenuto dottrinale del cristianesimo, esalta la condotta dei suoi seguaci e spiega alcuni aspetti del culto (Battesimo ed Eucaristia).

Scritto intorno al 161 ma ambientato storicamente intorno al 132-135, al tempo della rivolta giudaica domata dall’imperatore Adriano, è il Dialogo con Trifone, il quale si configura come una difesa - in parte autobiografica - finalizzata a dimostrare che l’ebraismo anticipa il cristianesimo in quanto Gesù Cristo è il Messia annunciato dai Profeti. Il cristianesimo, dunque, non è per Giustino in contrasto con ebraismo e paganesimo, ma ne è la compiuta continuazione ed è «unica affidabile ed utile filosofia».

Nelle Apologie e, soprattutto, nel Dialogo con Trifone sono presenti numerose citazioni testuali tratte sia dall’Antico Testamento che dai Vangeli. I Vangeli sono spesso denominati «memorie degli apostoli», espressione che per lo più indica i tre sinottici (Matteo, Marco e Luca). Si discute ancora se Giustino conoscesse direttamente il quarto Vangelo di Giovanni, perché nei suoi scritti non ci sono citazioni testuali, ma solo allusioni. Giustino fa anche riferimento ad alcune Lettere di san Paolo (ai Romani, ai Corinti, agli Ebrei e ai Galati), senza però assimilarle alle Scritture, ma concependole solo come testimonianze della tradizione cristiana. Come spesso risulta nella letteratura cristiana dei primi secoli, Giustino fa pure riferimento ad alcune opere extra-canoniche o apocrife, quali il Vangelo di Pietro, il Protovangelo di Giacomo, il Vangelo di Tommaso e gli Atti di Ponzio Pilato.

Il Dialogo con Trifone (greco Πρὸς τρυφῶνα Ἰουδαῖον διάλογος, latino Cum Tryphone Judueo Dialogus), è un’opera dedicata a un certo Marco Pompeo. Il tema è il confronto con il giudaismo, con il quale i cristiani avevano in comune l'Antico Testamento, un terreno utile per un dialogo. Si tratta di un dibattito che si svolge ad Efeso nell'arco di due giorni e vede protagonisti Giustino e Trifone, nel quale è stata individuata da alcuni storici la personalità di un rabbino realmente esistito. Lo scopo di questo dialogo è mostrare la verità del cristianesimo, rispondendo alle principali obiezioni mosse dagli ambienti giudaici. In particolare, Giustino vuole dimostrare che il culto di Gesù non mette in discussione il monoteismo e che le profezie descritte nell'Antico Testamento si siano avverate con l'avvento di Cristo. Il dialogo assume toni sempre rispettosi e amichevoli e non si conclude, com'era consuetudine per gli scritti cristiani, con la richiesta da parte del giudeo del battesimo.

Questi sono i principi riassuntivi dell’intera opera di Giustino:

a) in campo cristologico, Giustino è fortemente convinto che Cristo è Dio e che per questo meriti l’adorazione;

b) in campo filosofico sostiene la tesi giovannea del Logos che illumina tutti gli esseri umani (Gv 1,9) per tendere, per la prima volta, un ponte verso la filosofia;

c) in campo mariologico, Giustino fu il primo autore cristiano che tracciò il parallellismo Eva-Maria, simile a quello biblico Adamo-Cristo (Dial. C);

d) in campo sacramentale, Giustino conobbe solo il battesimo degli adulti, presumibilmente per immersione, preceduto da un’istruzione catechetica. L’Eucaristia per Giustino è la carne e il sangue dello stesso Gesù incarnato. Grazie alla preghiera eucaristica, il pane e il vino si trasformano nel Corpo e Sangue di Cristo.

L’Eucaristia, d’altra parte, si celebra la domenica, non essendo lecito per un cristiano rispettare il sabato. Crede nell’inferno come luogo di castigo eterno per i demoni e i condannati. In relazione ai demoni evidenziò che il peccato di questi ultimi fu quello di mantenere relazioni sessuali con le donne, il che è un’eco di Genesi 6. I demoni hanno il potere di traviare gli esseri umani, ma è certo che il nome di Gesù ha sufficiente potere per sottometterli.

Eusebio di Cesarea riferisce che Giustino ebbe accese dispute, a Roma, con il filosofo Crescente in pubblici contraddittori. Quando Crescente denunciò come nemici dello Stato alcuni cristiani, Giustino indirizzò al Senato romano la seconda apologia definendolo un calunniatore. Giustino fu incarcerato e condannato alla decapitazione assieme ad altri sei cristiani suoi seguaci, tra i quali la discepola Carito - per ordine del prefetto Giunio Rustico (163-167). Il martirio - «bisogna che in ogni modo e al di sopra della propria vita, colui che ama la verità, anche se è minacciato di morte, scelga sia di dire sia di fare il giusto», scrisse Giustino - accadde presumibilmente nel 165, sotto l’imperatore Marco Aurelio, ed è descritto negli antichi Acta Martyrium Sancti Iustini et Sociorum. Il luogo del sepolcro è ignoto, anche se qualcuno ritiene che sia all’interno delle catacombe di Santa Priscilla a Roma.

L’opera di Giustino ha sicuramente avuto influenza sui suoi contemporanei. Il merito maggiore di Giustino non va cercato nella sua abile difesa dalle accuse dei pagani, ma nell’aver posto le premesse teologiche per uno sviluppo umanistico del cristianesimo, unificando nel mistero di Cristo la sapienza pagana e la fede giudaica e così mostrando ai cristiani il valore positivo della filosofia e delle verità insegnate dai filosofi, riconoscendo in esse dei semi del Verbo di Dio. In sostanza, Giustino dette un gran contributo alla causa della Chiesa per il modo con cui riuscì a spiegare alcuni misteri del cristianesimo, nonostante alcune imperfezioni e, infatti, il suo innovativo “dialogo” tra filosofia e teologia fu continuato e sviluppato con successo dagli altri Padri della Chiesa.

Giustino fu proclamato santo e la Chiesa bizantina lo celebra, assieme ai compagni di martirio, il Primo giugno. In Occidente, la Chiesa cattolica celebra san Giustino il 14 aprile, giorno che fu stabilito da papa Leone XIII nel 1874 e durante il quale nella basilica romana di Santa Pudenziana si celebra un rito speciale in quanto si crede che la chiesa sorga sul luogo del martirio.

Giustino, e con lui gli altri apologisti, siglarono la presa di posizione netta della fede cristiana per il Dio dei filosofi contro i falsi dèi della religione pagana. Era la scelta per la verità dell'essere contro il mito della consuetudine. Qualche decennio dopo Giustino, Tertulliano definì la medesima opzione dei cristiani con una sentenza lapidaria e sempre valida: “Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem, cognominavit - Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine” (De virgin. vel. 1,1). Si noti in proposito che il termine consuetudo, qui impiegato da Tertulliano in riferimento alla religione pagana, può essere tradotto nelle lingue moderne con le espressioni “moda culturale”, “moda del tempo”.

«In un'età come la nostra, segnata dal relativismo nel dibattito sui valori e sulla religione - come pure nel dialogo interreligioso -, è questa una lezione da non dimenticare. A tale scopo vi ripropongo - e così concludo - le ultime parole del misterioso vegliardo, incontrato dal filosofo Giustino sulla riva del mare: “Tu prega anzitutto che le porte della luce ti siano aperte, perché nessuno può vedere e comprendere, se Dio e il suo Cristo non gli concedono di capire" (Dial. 7,3)».

(Benedetto XVI, 21 marzo 2007)

(SCHEDA RIASSUNTIVASAN GIUSTINOPadre ApologetaDati anagrafici:100 ? / 165?Causa morte:Martirio (condannato alla decapitazione)Biografia essenziale: Approdato da adulto al cristianesimo, insegnò a Roma filosofia e cristianesimo. Scritti/Opere: scrisse 2 Apologie e il Dialogo con il giudeo Trifone. Commento: In Giustino si deve anzitutto il primo dei Padri, inteso a tentare una conciliazione tra filosofia antica e il cristianesimo. Nelle sue Apologie abbiamo notizie sul battesimo, sull’eucaristia e sulla liturgia della domenica. )

A DIOGNETO

“Secondo l’espressione di Gesù, i suoi discepoli sono “nel mondo” ma non “del mondo” Gv 17, 16-18), cioè vivono come tutti gli altri nel contesto dei rapporti umani, familiari, sociali, economici, politici, ma i criteri di scelta e di azione li attingono, come Gesù, dalla logica dell’amore, della solidarietà e del servizio, non dalla logica dell’egoismo, cioè dell’avere, del piacere, del dominio”[footnoteRef:7]. [7: Introduzione ai Padri …, 58.]

I cristiani nel mondo

I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere. Questa dottrina che essi seguono non l’hanno inventata loro in seguito a riflessione e ricerca di uomini che amavano le novità, né essi si appoggiano, come certuni, su un sistema filosofico umano. 

Risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera. Come tutti gli altri uomini si sposano ed hanno figli, ma non ripudiano i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. 

Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa testimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati, e benedicono; sono trattati in modo oltraggioso, e ricambiano con l’onore. Quando fanno dei bene vengono puniti come fossero malfattori; mentre sono puniti gioiscono come se si donasse loro la vita. I Giudei muovono a loro guerra come a gente straniera, e i pagani li perseguitano; ma coloro che li odiano non sanno dire la causa del loro odio. 

(A Diogneto cc. 5-6)

L'opera che qui si presenta, è un testo dalla storia particolarmente avventurosa: mai citato dalle fonti patristiche antiche e medievali, il suo manoscritto venne ritrovato casualmente sul banco di un pescivendolo (destinato alla distruzione), a Costantinopoli, da un chierico latino noto come Tommaso d'Arezzo intorno al 1436. Passato di mano in mano, bruciò il 24 agosto del 1870 insieme alla Biblioteca municipale di Strasburgo, dove era custodito, in seguito al cannoneggiamento prussiano durante la guerra franco-prussiana.

È l'unica testimonianza, come si diceva, che consente a noi di conoscere questo splendido testo antico: si tratta di un trattato-discorso, indirizzato da un anonimo autore ad un certo Diogneto[footnoteRef:8], un pagano che poneva domande relative ai cristiani, alla loro religione e al loro Dio. L'autore risponde, in questo breve scritto, criticando sommariamente e duramente il politeismo e il giudaismo, spiegando la condizione dei cristiani nel mondo tramite una serie di paradossi. [8: Come detto, il manoscritto "originale" è andato distrutto: verso la fine del XVI secolo comunque ne furono fatte tre copie. Una, eseguita nel 1579 da Bernard Haus, si conserva oggi presso la Biblioteca universitaria di Tübingen; un'altra, eseguita nel 1586 da Henri Estienne, si trova oggi a Leida; la terza, opera di J.-J. Beurer tra il 1586 e il 1592, si è perduta. Quindi, possiamo ritenere molto affidabile il testo oggi giunto a noi.]

Misterioso nella sua origine e nel suo destino attraverso l'antichità cristiana, l'A Diogneto resta dunque enigmatico in questa sua capacità di affascinare e di generare riserve.L'analisi di uno studioso come H.-I. Marrou, la cui edizione di questa opera resta assolutamente indispensabile, lo ha portato a ritenere che il manoscritto ritrovato da Tommaso fosse stato redatto nel corso del XIV secolo come copia di un codice molto rovinato la cui composizione doveva risalire ai tempi del VI-VII secolo, quando il testo A Diogneto