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1 UNITÀ 2 Esperienze di guerra e letteratura in Inghilterra e in Germania F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO B Cimiteri di guerra e monumenti ai caduti La prima guerra mondiale fu una catastrofe di dimensioni gigantesche. Forse, più del sem- plice dato assoluto (i morti furono almeno 14 milioni), la tragedia emerge in tutta la sua grandezza non appena forniamo qualche altro parametro, di ordine comparativo: nel corso del conflitto, solo nelle file degli eserciti inglese, francese e tedesco, moriro- no più di quattro milioni di soldati: grosso modo, un arruolato ogni sei; nei 1500 giorni di guerra compresi tra l’invasione del Belgio e la resa della Germania, perì un numero più che doppio rispetto al totale dei caduti di tutti i conflitti verifica- tisi tra il 1790 e il 1914; la campagna di Russia, la più cruenta delle numerose guerre napoleoniche, provocò la perdita di 400 000 uomini; il più grande conflitto europeo dell’Ottocento, la guerra fran- co-prusiana del 1870-1871, vide 280 000 caduti francesi e 44 780 morti tedeschi. In- vece, solo nelle due più grandi offensive del 1916 (le battaglie di Verdun e della Som- me) morirono più di 960 000 persone. In sintesi, la prima guerra mondiale significò per l’Europa un incontro inedito con l’esperienza della morte di massa: un trauma senza precedenti che tutti i Paesi coinvolti furono co- stretti a neutralizzare, dando un senso a quell’immensa carneficina. Esperienze di guerra e letteratura in Inghilterra e in Germania Soldati morti in una trincea, probabilmente centrati da una granata. Dopo la prima guerra mondiale si diffuse in alcuni Paesi europei la pratica di celebrare il milite ignoto, cioè un soldato che rappresentava tutti coloro che, morti durante il conflitto, non furono mai identificati. CULTURA E IDEOLOGIE

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Cimiteri di guerra e monumenti ai cadutiLa prima guerra mondiale fu una catastrofe di dimensioni gigantesche. Forse, più del sem-plice dato assoluto (i morti furono almeno 14 milioni), la tragedia emerge in tutta la suagrandezza non appena forniamo qualche altro parametro, di ordine comparativo: • nel corso del conflitto, solo nelle file degli eserciti inglese, francese e tedesco, moriro-

no più di quattro milioni di soldati: grosso modo, un arruolato ogni sei;• nei 1500 giorni di guerra compresi tra l’invasione del Belgio e la resa della Germania,

perì un numero più che doppio rispetto al totale dei caduti di tutti i conflitti verifica-tisi tra il 1790 e il 1914;

• la campagna di Russia, la più cruenta delle numerose guerre napoleoniche, provocò laperdita di 400 000 uomini; il più grande conflitto europeo dell’Ottocento, la guerra fran-co-prusiana del 1870-1871, vide 280 000 caduti francesi e 44 780 morti tedeschi. In-vece, solo nelle due più grandi offensive del 1916 (le battaglie di Verdun e della Som-me) morirono più di 960 000 persone.

In sintesi, la prima guerra mondiale significò per l’Europa un incontro inedito con l’esperienzadella morte di massa: un trauma senza precedenti che tutti i Paesi coinvolti furono co-stretti a neutralizzare, dando un senso a quell’immensa carneficina.

Esperienze di guerrae letteratura in Inghilterra e in Germania

Soldati morti in unatrincea, probabilmentecentrati da una granata.Dopo la prima guerramondiale si diffuse inalcuni Paesi europei la pratica di celebrare il milite ignoto, cioè un soldato cherappresentava tutticoloro che, mortidurante il conflitto, nonfurono mai identificati.

CULTURAE IDEOLOGIE

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In Germania, per celebrare la memoria dei caduti, furono creati i «boschi degli eroi». Intali monumenti, un gruppo di querce simboleggiava il fatto che i soldati morti continuavanoa vivere, rappresentando un perenne esempio, che le nuove generazioni avrebbero dovu-to seguire. Di solito, nei monumenti e nei cimiteri tedeschi, non si fece ampio ricorso asimboli cristiani; questi, invece, furono frequentemente usati in Inghilterra, ove si elaboròun modello standardizzato di cimitero di guerra, riprodotto numerose volte. In questo tipodi sacrario militare, due erano gli elementi fondamentali, posti di solito uno di fronteall’altro: una grande croce del sacrificio (in cui l’immagine di una croce si fondeva conquella di una spada medievale) e la pietra della rimembranza, una pietra solida e massic-cia, tagliata in forma di altare.Il simbolismo è eloquente: come Cristo si è immolato per la redenzione dell’umanità, cosìi caduti inglesi si sono sacrificati in battaglia per la salvezza della patria. Si noti, però, chela presenza della spada medievale vuole evocare l’immagine dell’eroico e leale duello caval-leresco: cioè mascherare la componente meccanica e industriale della guerra moderna,in cui la maggior parte dei soldati venne falciata a distanza da un’artiglieria potentissima,oppure da proiettili di mitragliatrice, sfornati in serie da industrie preoccupate costantementedi aumentare i propri ritmi di produzione.Un posto speciale occupò poi, sia in Francia che in Italia e in Inghilterra, il culto del mi-lite ignoto, istituito quasi simultaneamente, in tutti e tre questi paesi, nel 1920. Il datopiù interessante da osservare è che, a Parigi, la salma del soldato senza nome fu sepoltanell’Arco di Trionfo, sulle cui pareti erano incisi i nomi dei generali di Napoleone.In passato, dunque, solo i comandanti erano parsi degni di memoria e di celebrazio-ne. Nel Novecento, dopo una terribile guerra di massa, parve doveroso omaggiare an-che i sodati comuni, presentati ovunque come eroi disposti a sacrificare se stessi e lapropria vita per la patria. In Germania, il culto del milite ignoto non fu mai molto po-polare. Tuttavia, anche là si diffuse l’idea secondo cui i veri eroi della guerra non era-no più solo i generali, bensì i soldati comuni.

Simbolismocristiano nei

cimiteri inglesi

Un fante inglese cadesotto il fuoco delle

mitragliatrici e dei fucilinemici mentre avanza

con i compagni.

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La morte industrialeNel 1914, i primi cittadini inglesi che si arruolarono volontari per andare a combatte-re in Europa furono gli operai e i disoccupati, attratti dalla buona paga militare. Ma inun paese senza coscrizione obbligatoria, ben presto si rese necessario ricorrere ai ceti medie a quelli superiori, se non altro per inquadrarli nel ruolo di ufficiali. Per tutta la duratadel conflitto, nell’esercito britannico, questi ultimi furono praticamente disarmati: al mas-simo, disponevano di una pistola, per sedare eventuali am-mutinamenti della truppa. L’operazione vera dell’uccide-re era lasciata ai soldati semplici, di bassa estrazione so-ciale, mentre la classe dirigente provava ad agire in modo spor-tivo e cavalleresco, degno di un gentiluomo, che sul campodi battaglia cercava di comportarsi alla stessa maniera in cuiavrebbe condotto una partita di rugby o di cricket.Anche migliaia di giovani studenti inglesi si arruolaronovolontari. Nel loro immaginario, pensavano alla guerracome a una prova di coraggio e di virilità; lo scontro chesognavano era quello omerico tra Achille ed Ettore, unduello leale che li avrebbe trasformati in eroi vittoriosi o,nella peggiore delle ipotesi, in figure eccezionali, ammirate per il loro splendido sa-crificio. La realtà fu per tutti molto diversa da questa visione idealizzata, influen-zata in maniera diretta dalla classicità greca e romana. Sotto il fuoco dell’artiglie-ria, falciati dalle raffiche nemiche o impantanati nelle trincee, si accorsero in breveche la morte per la patria non aveva nulla di glorioso e di eroico. In genere, si trat-tava di una morte industriale, di massa: capace di coinvolgere migliaia di soldati allavolta. La violenza omicida colpiva in modo anonimo e arrivava da lontano, da un ne-mico che non aveva volto e non era visto praticamente mai.

Cittadini inglesi di tuttele età si arruolano comevolontari in un ufficio direclutamento a Londranel dicembre del 1914.

Ufficiali disarmati

Reclute inglesi sisottopongono alla visita medica prima dipartire come volontariper il fronte. Fotografia del 1914.

Morte industriale

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Morire sventrati da una granata, oppure avvelenati da un’esalazione di gas, e poi esseresepolti insieme a mille altri in una fossa comune, non aveva nulla di memorabile o di di-gnitoso: i soldati, compresi i giovani che si erano offerti volontari e originariamenteerano più disponibili al sacrificio di sé per un grande ideale, furono sottoposti a una provaformidabile, che modificò profondamente la loro personalità e la loro mentalità. Su queste basi, alcuni poeti-soldati (come Siegfried Sassoon e Wilfred Owen) mentre eranoin trincea o in ospedale militare diedero inizio a quella che è stata definita la letteratura deldisincanto, nella quale era sfidata apertamente la propaganda ufficiale. L’espressione disin-canto (o disillusione) stava a indicare che i soldati non si lasciavano più incantare dalla reto-rica che celebrava la grandezza morale o la necessità della guerra, ma anzi la respingevano,dichiarando che nulla giustificava il sacrificio di un così elevato numero di vite.

L’esperienza militare di Tolkien In Inghilterra, la letteratura del disincanto trovò una seconda importante fioritura tra il1926 e il 1934. Fin dal titolo del suo racconto, Addio a tutto questo, il poeta inglese Ro-bert Graves metteva in chiaro nel 1929 (un anno dopo la pubblicazione, in Germania,di Niente di nuovo sul fronte occidentale dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque) chel’esperienza della prima guerra mondiale era stata solo un insensato macello di massa, eche il ricordo doveva concentrarsi sulle sofferenze dei soldati, non sui gesti d’eroismo. Posizioni decisamente diverse assunse John Ronald Reuel Tolkien, che prestò servizio per al-cuni mesi al fronte come sottotenente, nell’estate 1916, durante la battaglia della Somme, pri-ma di contrarre una violenta febbre da trincea. Trasmessa, forse, dai pidocchi, questa malat-tia spossava gli uomini, ne distruggeva il fisico e li obbligava al ricovero in ospedale militare. Tolkien era nato il 3 gennaio 1882 e rimase ben presto orfano di padre. Nel 1904, morìanche sua madre, che da poco si era convertita al cattolicesimo e aveva convinto il fi-glio a seguirne l’esempio. Nei primi anni del Novecento, grazie a una borsa di studio,Tolkien poté studiare a Oxford, ove si dedicò allo studio delle antiche lingue germa-niche e delle saghe nordiche. Scoppiata la guerra, Tolkien non mostrò un eccessivo en-tusiasmo nell’arruolarsi; i suoi studi e i suoi interessi culturali lo spingevano a consi-derare i tedeschi non dei barbari da fermare a qualunque costo, bensì una popolazio-

DOCUMENT ITolkien e il trauma della guerra Il signore degli anelli fu pubblicato nel 1954-1955. A quell’epoca, alcuni critici pro-

posero di interpretarlo come una potente allegoria della lotta dell’Inghilterra contro laGermania nazista. Ad essi, nella prefazione alla seconda edizione del romanzo, Tolkienricordò che, per la sua generazione, la vera esperienza traumatica era stata la Gran-de Guerra.

Certo, è necessario essere vissuti sotto l’ombra della guerra per sentirnepienamente l’oppressione; ma con il passare degli anni sembra che sitenda a dimenticare che essere stati sorpresi in gioventù dal 1914 non ècerto stata un’esperienza meno terribile che essere stati coinvolti nel 1939e negli anni seguenti. Entro il 1918 tutti i miei migliori amici tranne uno eranomorti.

J. GARTH, Tolkien e la Grande guerra. La soglia della Terra di Mezzo, Marietti, Genova-Milano 2007, p. 402, trad. it. R. ARDUINI, G. CANZONIERI, L. GAMMARELLI,

A. LADAVAS

Secondo te, quale tra gli eventi del passato è rimasto maggiormente impresso nella memoriacollettiva di oggi?

È esistito, nella tua esperienza personale, un evento da cui sei stato «sorpreso in gioventù», cioè che ti ha fatto maturare o assumere atteggiamenti nuovi, nei confronti della vita?

Un giovane JohnRonald Reuel Tolkien(1892-1973) in unafotografia degli inizidel Novecento.

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Un insensatomacello di massa

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ne nobile e forte, dotata di spirito e intelletto eccezionali. Tolkien mantenne questasua visione anche negli anni seguenti, mentre la propaganda di guerra inglese chiamavai tedeschi unni e denunciava che essi compivano ogni sorta di atrocità, mescolando vio-lenze reali (come la fucilazione degli ostaggi in Belgio e l’uso dei gas) con altre inventatedi sana pianta. Per quanto relativamente breve, la partecipazione diretta alla guerra segnò profondamen-te il giovane scrittore, che nel 1916 compose un racconto intitolato La caduta di Gondo-lin, direttamente ispirato alla sua esperienza di combattente. Per la prima volta, incontriamoil mondo mitologico che Tolkien avrebbe descritto in forma sempre più ampia e dettagliatanello Hobbit (uscito nel 1937) e nel suo capolavoro (Il signore degli anelli, pubblicato nel1954-1955). In tutti questi libri, l’armonia del cosmo e la serenità del vivere sono minac-ciate da figure mostruose (gli orchi), comandate da terribili demoni che aspirano al po-tere supremo. A più riprese, Tolkien tenne a precisare che questi personaggi malvagi nonerano allegorie del nemico reale che l’Inghilterra aveva affrontato negli anni 1914-1918.Orchi ed eroi disposti a combatterli potevano essercene, al fronte, da entrambe le parti: lamalvagità e la virtù non erano monopolio di una parte sola. Anche Tolkien, insomma, ri-fiutò categoricamente alcuni dei pilastri della retorica e della propaganda di guerra: primifra tutti, la celebrazione acritica del proprio agire e la demonizzazione del nemico.

Tolkien e il mantello della mitologia Pur essendo lontana (come lo è la letteratura del disincanto) dalla retorica nazionalista deltempo, l’arte di Tolkien è molto diversa anche dall’amara polemica di Owen, Graves e (inGermania) Remarque. Infatti, quest’ultima tendeva a essere realistica, a descrivere l’esperienzabellica in tutti i suoi dettagli e a cancellare il concetto stesso di eroismo. Tolkien, al con-trario, recupera la figura dell’eroe, che a tratti è personaggio disperatamente tragico, maper questo non meno grandioso; inoltre, la specificità della sua scelta artistica fu – comelui stesso disse – di nascondere la presentazione dei drammi dell’esistenza umana sot-to un mantello di mitologia e di leggenda. A volte, questa linea assunta dall’erudito ro-manziere britannico è stata aspramente contestata; Tolkien, cioè, è stato accusato di scri-vere romanzi d’evasione, di usare il fantastico come una specie di oppiaceo. Chi ha mos-so tali critiche non ha colto che la realtà del XX secolo, nei suoi racconti, non è affatto as-sente o cancellata, bensì espressa in forme diverse da quelle naturalistiche adottate da Gra-ves o da altri scrittori di guerra.Per ammissione dello stesso Tolkien, numerosi dei paesaggi stravolti e desertificati dal-la violenza distruttrice delle forze malefiche, descritti con profonda angoscia nel Si-gnore degli anelli, «devono qualcosa alla Francia settentrionale dopo la battaglia dellaSomme». Di quest’ultima, poi, Tolkien ha conservato un’impressione in-cancellabile: la comparsa dei primi tanks, che nel racconto del 1916 (Lacaduta di Gondolin) sono raffigurati come dei mostruosi draghi di bron-zo, di ferro e di fuoco, capaci di superare qualsiasi ostacolo e infine di apri-re vaste brecce nelle mura della città aggredita dalle forze del Male.Il demone più feroce e pericoloso, nella Caduta di Gondolin, è chiamatoMelko. Coloro che cadono nelle sue mani lavorano come schiavi, senza tre-gua, nelle sue miniere, e vivono immersi nel terrore. Si tratta di una metaforadell’industria pesante, che può essere gestita da avidi capitalisti inglesi o ef-ficienti imprenditori tedeschi. Per Tolkien, il risultato non cambia: essa haprodotto la Grande Guerra e l’orrore della Somme. Al di là del manto mitologico che tutto ricopre, il giudizio di Tolkien sulsuo tempo non è dunque meno severo di quello della letteratura del di-sincanto; semmai, la critica dello scrittore cattolico è ancora più radica-le e investe, in fondo, l’intero mondo moderno, che distrugge la naturae sfrutta l’essere umano, trasformandolo in uno schiavo, di volta in vol-ta sacrificabile al demone della produzione industriale, dell’orgoglio na-zionale o del potere assoluto.

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L’uso della mitologia perrappresentare alcuniaspetti drammatici dellarealtà è un elementofortementeidentificativo delleopere di Tolkien. Un esempio è costituitodai terribili draghidescritti ne La caduta diGondolin (qui raffiguratidall’illustratore canadeseJohn Howe mentreassaltano le mura di unacittà), chesimboleggiano la forzadistruttrice dei tanks(cioè i carri armati)inglesi comparsi per laprima volta durante labattaglia della Somme.

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DOCUMENT IIl mito di Langemarck nella letteraturanazionalista

Dopo la guerra, il romanzo La battaglia di Langemarck, di Hermann Thimmermann, circolò in mi-gliaia di copie. In esso, si raccontava l’iniziazione alla guerra dei ragazzi del movimento giovanile, fie-ri di morire eroicamente per la patria. Secondo la versione divulgata da Thimmermann, dopo essere sta-ti colpiti dalla mitraglia nemica, udendo risuonare la celebre canzone nazionalista Deutschland über al-les, persino i feriti gravi si sarebbero rialzati, per compiere un ulteriore gesto di omaggio alla nazionee cadere gloriosamente.

Ed un canto si levò dalla terra mortale e maledetta, salì dai campi e dai pascoli, la can-zone, la canzone, la canzone!!! Ufficiali e soldati, volontari e militari dell’esercito (... Deut-schland... Deutschland... über... alles... in... der... Welt ). Ed i sopravvissuti, i non ancora in-validi, coloro a cui fino allora non era accaduto nulla, stringevano le mani impastate di terraattorno al loro fucile, alzavano il capo senza paura e cantavano le sacre parole. Alcuni ave-vano lacrime di rabbia ed un’amarezza senza nome negli occhi, ma essi lasciavano scor-rere le lacrime sulle guance e cantavano. E chi fra loro non era più in grado di muoversi, can-tava con le labbra pallide sospinte a baciare il suolo, la terra. [...]

Ed accadde un prodigio, un prodigio inimmaginabile. Già si leva, nel mezzo del vulcanonuovamente erompente di rottami di ferro e di pioggia d’acciaio, si leva uno ancora in piedi,e poi un altro, un quinto, un decimo, e ancora e ancor, alcuni senza elmo, coi capelli al ventoe la fronte libera, alcuni con le fasce insanguinate intorno alla mano, intorno al braccio, in-torno alla testa – e ora sono diventati una sottile, sottilissima schiera d’assalto votata allamorte – un ufficiale, la cui divisa è stracciata a brandelli, si strappa dalle spalle la benda chelo ostacola, balza in avanti e con lui tutti gli altri – la canzone, la canzone. [...]

Una volta caldissima di nuvole di shrapnel [proiettile che si frantuma, n.d.r.], di eruzionidi terra, di denti d’acciaio e colonne di fuoco viene contro gli assalitori e li avvolge. Il cantomuore. Muore come coloro che l’hanno cantato e che lo tengono ancora sulle labbra. Levoci si affievoliscono, arrochiscono, tacciono. Le bocche restano spalancate, le fronti affon-dano nella terra.

C. VON KROCKOW, Il dramma di una nazione. Germania 1890-1990, il Mulino, Bologna 1994, p. 135

Quale effetto si proponeva di raggiungere lo scrittore di questa pagina?Perché le parole dell’inno sono chiamate «sacre»?Quale effetto ottiene l’introduzione del particolare dei «capelli al vento»

e della «fronte libera»?

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Il mito di LangemarckAl momento della dichiarazione di guerra, i ragazzi che, negli anni precedenti, avevanoaderito al movimento giovanile si arruolarono in massa, convinti che finalmente fosse giun-to il momento di offrire se stessi alla patria. Migliaia di questi volontari caddero nella bat-taglia di Langemarck (nelle Fiandre), nel novembre del 1914, falciati dalle mitragliatriciinglesi. La propaganda di guerra tedesca si appropriò subito della tragedia di Langemarck e dif-fuse una versione leggendaria della battaglia: una disfatta umiliante fu trasformata inmito, in epopea che doveva permettere di continuare la lotta, a un Paese perplesso di fron-te al fallimento di tutti i piani e di tutte le promesse dei generali. Il mito di Langemarckproseguì anche dopo la fine della guerra e fu tramandato da numerosissimi scrittori (tracui lo stesso Adolf Hitler).Secondo questa versione, dopo essere stati fermati dal fuoco nemico, i giovani tede-schi feriti si sarebbero rialzati cantando in coro l’inno Deutschland über alles, prima diessere di nuovo abbattuti dagli inglesi. In tal modo, la morte meccanica, di massa, peropera di una macchina, riacquistava dimensioni e caratteri eroici; nella realtà, invece,pare che il canto sia nato da esigenze pratiche, come sforzo di sfuggire ai colpi dei pro-pri compagni tedeschi, durante il disperato tentativo di ripiegamento verso le trincee,dopo la cocente disfatta.

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Rabbia e delusione dei soldatiCostretti a confrontarsi con macchine, ben più che con un nemico in carne e ossa, igiovani volontari tedeschi di ceto borghese si trovarono ben presto frastornati e con-fusi. Inoltre, si accorsero di non essere graditi alla maggioranza della truppa, di estra-zione operaia o contadina; per questi soldati, concetti come eroismo e sacrificio per lapatria erano poco più che parole vuote: anche se, allo scoppio delle ostilità, per un istan-te avevano partecipato alla generale illusoria euforia, e risposto senza ribellarsi alla chia-mata dell’esercito (come per altro aveva loro chiesto anche il Partito socialdemocrati-co tedesco), ben presto avevano anteposto la sopravvivenza a ogni altro valore. «Per que-sta “gente del popolo” che noi desideravamo ardentemente conoscere e comprendere– scrive lo scrittore tedesco Carl Zuckmayer – la vita era il massimo bene. Chiunqueavesse gratuitamente scelto di metterla a repentaglio, nel senso di essersi “volontaria-mente” tuffato nel pericolo, anziché esservi costretto, appariva loro, come minimo, allastregua di un giocatore d’azzardo, un irresponsabile, una personalità dubbia».I giovani volontari borghesi si trovarono sempre più isolati e disprezzati dagli altri sol-dati, di cui non condividevano per nulla le aspirazioni e i valori di riferimento; tem-poraneamente sopita dall’entusiasmo dell’agosto 1914, la realtà sociale effettiva riap-parve in tutta la propria lacerante radicalità non appena la guerra si rivelò non una ra-pida ed eroica campagna, bensì un micidiale meccanismo capace di schiacciare in modoindustriale milioni di individui e di vite.In certi casi, furono gli stessi volontari a cambiare opinione e gridare con furia che mae-stri ed educatori li avevano ingannati, offrendo ai giovani un’immagine falsa e defor-mata dalla guerra. In Germania, tale sentimento di rabbia e di disperazione fu espres-sa dal romanziere Erich Maria Remarque, il cui celebre romanzo Niente di nuovo sulfronte occidentale fu pubblicato nel 1928. Dalla prima all’ultima pagina, il racconto co-stituisce un durissimo atto di accusa contro il mondo degli adulti, che avevano spin-to un’intera generazione alla guerra, senza avere la minima idea della drammatica mo-dernità del conflitto che i giovani avrebbero dovuto sopportare.

Meccanismoindustriale

Rabbia e disperazione

Truppe tedesche al fronte in un momentodi pausa, fotografia del 1914.

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DOCUMENT ILa denuncia dell’assurdità della guerra Erich Maria Remarque, scrittore-soldato tedesco, pubblicò la prima edizione di Niente di nuovo sul

fronte occidentale nel 1928. Alcuni anni più tardi, nel 1933, il libro fu inserito dai nazisti nell’elenco deivolumi da eliminare dalle biblioteche tedesche e da bruciare sulla pubblica piazza.

Al piano inferiore sono i feriti al ventre, alla spina dorsale, alla testa, e gli amputati delle duegambe. Nell’ala destra i feriti alle mascelle, gli avvelenati dai gas, i colpiti al naso, alle orecchie,al collo. Nell’ala sinistra i ciechi, i feriti ai polmoni, al bacino, alle articolazioni, alle reni, ai genitali,allo stomaco. Bisogna venir qui per vedere in quante parti un uomo può esser ferito. Due muoionodi tetano. La pelle diventa livida, le membra si irrigidiscono, ultimi vivono – e a lungo – gli occhi.Alcuni tengono l’arto ferito sospeso a una carrucola, esposto in aria; sotto la piaga è posto unbacile in cui cola a goccia a goccia il pus; il bacile viene vuotato ogni due o tre ore. Altri hannoun apparecchio di trazione, fissato al letto, con grossi pesi. Vedo delle ferite d’intestino, che sonsempre piene di lordura. Lo scritturale [assistente, per i lavori d’ufficio, n.d.r.] del medico mi mo-stra delle radiografie, in cui si vedono ginocchi, anche, spalle, completamente fracassate.

Non si può comprendere come sopra corpi così orrendamente lacerati siano ancora voltiumani, sui quali la vita continua nel suo ritmo giornaliero. E pensare che questo è un ospe-dale solo: e ve ne sono centinaia, migliaia uguali, in Germania, in Francia, in Russia! Come ap-pare assurdo tutto quanto è stato in ogni tempo scritto, fatto, pensato, se una cosa simile èancora possibile! Dev’essere tutto menzognero e inconsistente, se migliaia d’anni di civiltà nonsono nemmeno riusciti ad impedire che questi fiumi di sangue scorrano, che queste prigionidi tortura [gli ospedali per i feriti in guerra, n.d.r.] esistano a migliaia. Soltanto l’ospedale mo-stra che cosa è la guerra.

Io sono giovane, ho vent’anni: ma della vita non conosco altro che la disperazione, lamorte, il terrore, e la insensata superficialità congiunta con un abisso di sofferenze. Io vedodei popoli spinti l’uno contro l’altro, e che senza una parola, inconsciamente, stupidamente,in una incolpevole obbedienza si uccidono a vicenda. Io vedo i più acuti intelletti del mondoinventare armi e parole perché tutto questo si perfezioni e duri più a lungo. E con me lo ve-dono tutti gli uomini della mia età, da questa parte e da quell’altra del fronte, in tutto il mondo;lo vede e lo vive la mia generazione. Che faranno i nostri padri, quando un giorno sorge-remo e andremo davanti a loro a chieder conto? Che aspettano essi da noi, quando verràil tempo in cui non vi sarà guerra? Per anni e anni la nostra occupazione è stata di uccidere,è stata la nostra prima professione nella vita. Il nostro sapere della vita si limita alla morte.Che accadrà, dopo? Che sarà di noi?

E.M. REMARQUE, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Mondadori, Milano 1988, pp. 223-224

Che giudizio vienedato sulla culturaeuropea, presa nelsuo complesso?

Che cosa significal’espressione«incolpevoleobbedienza»? Chi sono i vericolpevoli?

Spiega l’espressione«Soltanto l’ospedalemostra che cosa è la guerra».

Henry Tonks, Un avamposto medicoin Francia (particolare,1918). L’autore deldipinto raffigura conestremo realismo un ospedale da campodopo un duro scontrosul campo di battaglia.

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Ernst Jünger: la guerra come festaSu un versante opposto a quello di Remarque si pose il pluridecorato ufficiale tedesco Ernst Jünger, che nel 1920, pubblicò le sue memorie nel libro Nelle tempeste d’acciaio,che può essere considerato uno dei più influenti testi diffusi in Germania nel primo do-poguerra. Infatti, come ha scritto lo storico inglese E.J. Leed, esso divenne il punto di ri-ferimento morale per chiunque «per qualsiasi ragione, non fosse disposto ad accettare ilfatto di essere stato strumentalizzato, sfruttato, mutilato, e sacrificato in guerra senza al-cun fine nazionale o personale». Strutturato in forma di diario di guerra, il libro di Jünger non nascondeva assolutamen-te nulla della drammaticità del conflitto; eppure, respingeva l’idea che la guerra fosse sta-ta esclusivamente o principalmente un’orgia di distruzione priva di significato. Così, la ter-ribile durezza di Nelle tempeste d’acciaio trasmetteva messaggi molto diversi rispetto a quel-li della letteratura del disincanto inglese o tedesca.La guerra era celebrata come un’esperienza straordinaria e irripetibile, che aveva raf-finato e potenziato tutti i sensi di chi vi aveva preso parte. L’assalto contro le trincee ne-miche non era ricordato come un assurdo e inutile macello di massa, ma come un mo-mento eccitante, che trasmetteva all’individuo un’emozione e un’ebbrezza simili all’orgasmo.Del resto, talvolta, Jünger non esita a parlare dell’assalto alla baionetta in termini espli-citamente sessuali e della conquista della trincea nemica come di uno stupro, di un’esal-tante scarica liberatoria dell’aggressività e della libido.In genere, si tratta solo di fantasie e di paragoni provocatori: l’assalto effettivo avvenivain un turbinio di esplosioni, sotto il fuoco di copertura dell’artiglieria di grosso calibro,e aveva nel lancio delle granate il proprio strumento più efficace. I soldati feriti o uccisidurante il conflitto da colpi di baionetta furono pochissimi, e i più onesti riconoscevanoche essa serviva più come attrezzo da campo che come arma. Eppure, la maggioranza deisoldati che rifiutarono di sentirsi solo dei giocattoli nelle mani d’altri e cercarono di dareun senso alla propria esperienza bellica, continuarono a presentare l’assalto alla baionet-ta come il condensato del proprio vissuto di guerrieri.Tutte queste fantasie ci aiutano a comprendere la ragione ultima per cui Jünger e tanti al-tri uomini non condannarono affatto la guerra, né si sentirono schiacciati da essa. Lo scon-tro, infatti, poteva essere vissuto come una straordinaria festa, cioè un’interruzione di va-

Studenti tedeschi sidirigono entusiasti adarruolarsi nell’agosto1914. Lo spirito con cuiquesti ragazziaffrontavano la guerraera lo stesso cheanimava lo scrittoretedesco Ernst Jüngernelle sue opere. Infatti,pur non nascondendo ladrammaticità delconflitto, egliconsiderava l’esperienzabellica straordinaria eirripetibile.

Eccitazione e orgasmo

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lidità delle regole imposte all’individuo da secoli di civiltà delle buone maniere. Graziealla guerra, il processo di civilizzazione – che imponeva un rigido controllo su ogni aspettodell’animalità umana – era stato temporaneamente sospeso; la natura più profonda e istin-tuale dell’essere umano – non escluse le dimensioni aggressive, predatorie e ferine – pote-va provvisoriamente essere liberata, senza timore di censure e di punizioni. Dunque, occorrevaapprofittarne, prima che le barriere venissero di nuovo erette e ricostruite.Per certi versi, approfittarono di tale inedita libertà d’azione anche poeti pacifisti comeOwen e Sassoon; il principio borghese della rispettabilità, infatti, negava al vero uomo ildiritto a urlare il proprio dolore, e anzi lo costringeva a un severo autocontrollo anche aquesto livello. Nella temporanea sospensione delle regole dettata dalla guerra, e di fronte auno spettacolo estremo come il massacro di massa, non si poteva più negare che anchegli uomini più virili gridassero la loro rabbia, esprimessero la propria sofferenza, mettes-sero a nudo l’affetto che li legava ai compagni caduti.

Il combattente come uomo nuovoNelle opere di Jünger, la guerra non è un gioco, ma un’e-sperienza drammatica e pericolosa. Alla fine del conflitto, loscrittore era stato ferito 14 volte: cinque da pallottole, dueda schegge di granata, una da shrapnel, quattro da bombe amano e due da frammenti di proiettile. Proprio per questo,Jünger finì per sostenere che gli ex combattenti erano figu-re straordinarie per audacia, coraggio, purezza di intenti e di-sponibilità a sacrificarsi totalmente per la patria. Come scrive lo stesso Jünger, «lo spirito della battaglia ma-teriale e della lotta all’ultimo sangue, che viene combattu-ta senza speranza di ritirata, brutalmente, selvaggiamente,produceva come nessun altro uomini quali il mondo nonne aveva mai conosciuti. Si trattava di una razza del tut-to nuova, incorporava energia, portava una grande violen-za... Vincitori, nature d’acciaio, connaturati alla lotta nel-la sua forma più orrenda... Se li osservo... sono irraggiato dal-

la scoperta: questo è l’uomo nuovo... Saranno gli architetti del mondo su un fondamen-to di macerie». La sconfitta del 1918 mise a dura prova la leadership prussiana tradizionale, che dovettedi fatto cedere il potere ai liberali e ai socialdemocratici: i grandi emarginati dell’epocaguglielmina. Sull’altro versante politico, tutti coloro che avevano vissuto l’esperienza del-le trincee (come Jünger e come Hitler), si sentirono investiti della missione di rigene-rare la patria su nuove fondamenta. Da un lato, si consideravano gli unici degni eredidei compagni caduti, di cui avrebbero continuato la lotta; dall’altro, si ritenevano esserinuovi, individui eccezionali, temprati dalla prova della guerra, di cui avevano sperimen-tato fino in fondo la tempesta d’acciaio.Crollato l’impero bismarckiano molti reduci pensarono che sarebbe toccato a questi uo-mini nuovi risollevare in alto il destino della Germania, a fronte di una repubblica capa-ce solo di piegarsi alle esorbitanti pretese degli Alleati. Si faccia attenzione al fatto che,già in Jünger, il concetto di democrazia non aveva alcun valore: i diritti dell’uomo eil regime parlamentare andavano senz’altro sacrificati alla grandezza della Germania. Delresto, nel primo dopoguerra, i più tipici cimiteri di guerra tedeschi furono le cosiddetteTotenburgen, le fortezze dei morti. Si trattava di edifici imponenti e massicci, all’interno dei quali i caduti erano sepolti inuna tomba comune. Certo, i nomi dei soldati morti erano iscritti su targhe fissate alle pa-reti della fortezza: tuttavia, i soldati non avevano una sepoltura individuale, a simboleg-giare la necessità di sottomettere gli interessi privati del singolo alle esigenze e alla volontàsuperiore della Nazione.

Manifesto dipropaganda tedescoche raffigura alcuni

soldati in trincea prontiper un assalto.

Supremazia della comunità

sull’individuo

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BDOCUMENT IIn attesa dell’assaltoLa guerra moderna è descritta da Ernst Jünger in tutta la sua violenza estrema. Tuttavia, mentre E.

M. Remarque, nel suo Niente di nuovo sul fronte occidentale (1928), avrebbe tratto da quella tragediaun messaggio morale di rifiuto della violenza, Jünger pose l’accento sul fatto che il conflitto aveva crea-to una stirpe di esseri nuovi, di individui eccezionali, temprati dalla prova della guerra, di cui avevanosperimentato fino in fondo la tempesta d’acciaio.

Mi sedetti su una scala del rifugio, accanto ai miei due ufficiali. Attendemmo le cinquee cinque, l’ora stabilita, quando avrebbe dovuto incominciare la preparazione di artiglieria.Il morale era un po’ più sollevato; la pioggia era infatti cessata e la notte piena di stelle pro-metteva un mattino asciutto. Passammo il tempo a fumare e a chiacchierare. Mangiammoalle tre; la borraccia fece il solito giro da una mano all’altra. Alle prime luci dell’alba l’attivitàdell’artiglieria nemica prese un ritmo tale da farci temere che, continuando, gli inglesi sa-rebbero forse riusciti a sventare la nostra minaccia. Qualcuna delle tante pile di munizionisparse sul campo saltò in aria. Poco prima dell’ora X, fu diffuso questo radiogramma: «S.M.l’Imperatore e Hindenburg sono presenti sul teatro delle operazioni!» Vivi applausi salutaronoquell’annuncio. La lancetta avanzava sempre più; contammo gli ultimi minuti. Infine furonole cinque e cinque. L’uragano scoppiò.

Una cortina fiammeggiante, seguita da un improvviso boato, si levò verso il cielo. Un fra-gore indescrivibile, che inghiottiva persino i colpi di partenza dei grossi calibri, fece tremareil suolo. Il mortale ruggito degli innumerevoli cannoni posti dietro di noi era così spaventosoche anche le più dure battaglie da noi combattute ci sembravano, al confronto, giochi dabambini. Ciò che non avevamo osato sperare avvenne: l’artiglieria nemica tacque; era stataannientata da un solo gigantesco colpo. Non sopportavamo di restare più a lungo nella gal-leria, e in piedi sulle difese contemplammo il muro di fuoco alto come una torre, gravantesulle trincee inglesi e velato di nubi ondeggianti del colore del sangue.

Lo spettacolo fu disturbato da un bruciore agli occhi e alle mucose. I vapori dei nostriproiettili lanciagas, spinti dal vento contrario, ci avvolsero spandendo un fortissimo odoredi mandorle amare. Notai con preoccupazione che molti dei miei uomini cominciavano a tos-sire, a dar segni di soffocamento. Finalmente decisero di adoperare la maschera. Cercai direprimere i primi colpi di tosse e di trattenere le lacrime. A poco a poco, però, i vapori si di-spersero e un’ora dopo potevamo toglierci la maschera.

Il giorno si era ormai levato. Dietro di noi il frastuono immane non faceva che crescere,benché la cosa sembrasse impossibile. Davanti a noi si alzava, impenetrabile allo sguardo,una muraglia di fumo, di polvere e di gas. Militari sconosciuti correvano lungo la trincea lan-ciando urli di gioia. Fanti e artiglieri, genieri e telefonisti, prussiani e bavaresi, ufficiali e sol-dati, tutti erano soggiogati dalla violenza di quell’uragano di fuoco e ardevano dal deside-rio di buttarsi all’assalto previsto per le nove e quaranta. Alle otto e venticinque entraronoin azione i nostri lanciabombe pesanti: li avevamo vicinissimi, disposti a brevi intervalli, die-tro la trincea di prima linea. Vedemmo le enormi bombe volare descrivendo lunghi archi nelcielo e cadere poi dall’altro lato provocando esplosioni paragonabili a boati vulcanici. Gliscoppi di quei proiettili si succedevano fittissimi, provocando sul terreno una catena di cra-teri in eruzione.

Le leggi stesse della natura sembravano non aver più valore. L’aria tremolava come neigiorni afosi dell’estate e la sua varia densità faceva ballare di qua e di là oggetti assoluta-mente immobili. Strisce di ombra nera filtravano attraverso le nuvole di fumo. Il fragore eradivenuto assoluto: non lo si sentiva più. Si notava soltanto, confusamente, che migliaia dimitragliatrici dietro di noi lanciavano verso il cielo le loro raffiche di piombo. [...]

Guardai a destra e a sinistra. La linea di divisione di due popoli che si fronteggiavano of-friva uno spettacolo singolare. Davanti alla trincea nemica, nelle buche che la tormenta difuoco scavava sempre più, su un fronte che si allungava a perdita d’occhio, divisi in due com-pagnie, attendevamo i battaglioni d’assalto. Alla vista di quella massa di uomini, lo sfonda-mento mi sembrava cosa fatta. Ma avremmo trovato la forza di disperdere le riserve avver-sarie, di isolarle e annientarle? Io ne ero convinto. La battaglia finale, l’ultimo assaltosembravano ormai arrivati. Lì si gettava sulla bilancia il destino di due interi popoli; si deci-deva l’avvenire del mondo. Soltanto per intuizione avevo coscienza della gravità di quell’orae credo che ognuno, in quel momento, sentisse sparire dentro di sé qualunque sentimentopersonale, compresa la paura.

E. JÜNGER, Nelle tempeste d’acciaio, Studio Tesi, Pordedone 1990, pp. 233-236, trad. it. G. JAAGER-GRASSI

Che emozioni proval’autore, guardandole esplosionidell’artiglieria?

Quale atteggiamentotrapela nei confrontidelle autorità,responsabili di averprovocato la guerra?

Quale ruolo giocal’individuo, nelmeccanismo bellicodescritto da Jünger?

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Adolf Hitler in una fotodegli anni Venti del

Novecento. L’esperienzadella prima guerra

mondiale fece capire a Hitler, fondatore e leader del Partito

nazionalsocialista in Germania, l’enorme

importanza dellamobilitazione delle

masse.

L’individuo e le masseSiamo a un passo – è evidente – dal nazionalsocialismo, che tuttavia è molto diverso dal-l’orientamento nazionalista e autoritario che si incarna in Jünger. E infatti lo stesso Jün-ger, nel 1939, scrivendo il breve romanzo Sulle scogliere di marmo, prese le distanze dalregime che pure – senz’altro – aveva contribuito a fondare, con le sue idee di sottomis-sione totale dell’individuo allo Stato, in nome del destino supremo della Germania. In questo racconto, anche Jünger (come Tolkien) riveste la sua critica della realtà modernadi un mantello di leggenda e di allegorie. Hitler, ad esempio, viene chiamato il Forestaro(Oberförster), un barbaro feroce e assetato di potere che vuole a ogni costo conquistare laMarina. Mentre questa splendida terra è abitata da nobili cavalieri e da sapienti, deditiallo studio dei segreti della Natura, il Forestaro è a capo di un’ignobile masnada di cac-ciatori selvaggi, che ignorano l’agricoltura e la vita urbana. La Marina, di cui il narratore preannuncia la devastazione, è chiaramente la civile Ger-mania, con la sua straordinaria cultura: senza mezzi termini, nel suo Sulle scogliere dimarmo, Jünger invitava la vecchia élite prussiana (che controllava ancora gran partedel potere militare) a prendere le distanze dal regime. Di quest’ultimo, il tratto che vie-ne criticato con maggiore severità è la volgarità, il trionfo vittorioso della plebe, del-l’uomo comune. In effetti, l’originalità più notevole del nazionalsocialismo consisté nella mobilitazione del-le masse: «Una Weltanschaung può essere mille volte giusta, – scrive Hitler in Mein Kampf– ma non avrà alcun significato per la lotta del Volk finché non si combini con gli obiet-tivi di un movimento fatto per la lotta, di un partito politico». Figlio della Germania tradizionale, Jünger voleva le masse obbedienti e rispettose neiconfronti della nuova élite sorta dalla guerra, esattamente come in passato le aveva volu-

te la vecchia aristocrazia prussiana. Sotto questo profilo, ilnazismo introdusse realmente, in Germania, una rivolu-zione, non a caso sprezzantemente rifiutata sia da Jüngersia dalla classe dirigente tradizionale. Era del tutto impensabile che, dopo un’esperienza come laGrande Guerra, le masse potessero essere escluse dalla di-namica politica. Il principio della guida autoritaria (comelo intendeva Jünger, che rifiutava a priori una democraziaautentica e insisteva comunque sulla sottomissione del-l’individuo alla Nazione) doveva essere ripensato radical-mente, cioè associato alla costante ricerca e promozione delconsenso delle masse, in nome di un’utopia messianica. Hitler seppe cogliere assai più e meglio di Jünger la lezio-ne del primo conflitto mondiale: guerra di massa, assai piùche guerra di eroi, essa aveva portato alla ribalta folle enor-mi di persone, desiderose di continuare a occupare il cen-tro della scena. Nel nazismo, il culto dei caduti (che esortavano i vivi a ri-scattare l’onore tedesco, seguendo il loro esempio e imitandoil loro sacrificio) e l’esaltazione dell’uomo nuovo, forgiatodall’esperienza bellica, si univano alla consapevolezza cheil Novecento era il secolo delle masse, desiderose di spe-rimentare un millenario futuro di prosperità, proprio per-ché schiacciate dalla tragica esperienza della sconfitta e datutte le sue umilianti conseguenze.

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Soldati inglesi al riparoin una trincea sul fronteoccidentale.

R i fe r i me n t i s t o r i o g r af i c iLa guerra di trincea e la personalità del soldato

Il soldato della prima guerra mondiale fu costretto a sostituire la tradizionale mentalità aggressi-va, tipica dell’eroe, con una personalità difensiva che smorzava ogni ardore guerriero e spingeva ad-dirittura a fraternizzare con il nemico. A livello letterario, la letteratura del disincanto è il frutto più evi-dente di questo nuovo tipo di personalità.

La guerra di trincea, forse più di qualsiasi altro tipo di guerra prima e dopo, erose le con-cezioni universalmente diffuse del soldato come aggressore: piuttosto, essa produsse untipo di personalità, la personalità difensiva, modellata sull’identificazione con le vittime di unaguerra dominata da aggressori impersonali come l’acciaio e i gas. Chiunque soggiornasseun certo periodo di tempo in trincea riconosceva immediatamente la differenza fra la sua at-titudine nei confronti del nemico e la stessa che caratterizzava coloro che rimanevano a casa.Jean Norton Cru è in grado di distinguere, sulla base di questa diversa attitudine verso il ne-mico, i testi di chi abbia realmente fatto esperienza di guerra da quelli di gente che si limitòa visitare le trincee o, peggio, scrisse della guerra direttamente dalle retrovie. [...] In una guerrain cui tutti i combattenti erano vittime indiscriminate della violenza dei materiali, in cui la tec-nologia industriale era l’autentico aggressore, l’identificazione con il nemico e la sua moti-vazione dominante – la sopravvivenza – erano logiche, addirittura necessarie. Basti solo ci-tare i tanti casi di fraternizzazione, il tacito accordo fra nemici, ufficialmente tali, chestabilivano e mantenevano settori tranquilli lungo il fronte, per capire come questa fu unaguerra che alterò drammaticamente l’identità e la personalità dei combattenti. E soventequesta alterazione fu portata all’attenzione delle autorità, soprattutto quando assumevaforme patologiche: infatti, per quanto ammirevole e umana fosse l’identificazione con il ne-mico, era anche fonte di un conflitto radi-cale, profondamente sentito, attraverso ilquale il combattente arrivava a ripudiare laconcezione di sé esaltata dalla società espesso da egli stesso condivisa. Sicura-mente la rottura della personalità offensivanella realtà della guerra difensiva fu unadelle maggiori cause delle nevrosi di guerra:non a caso per le forme estreme di disso-ciazione dalle norme ufficiali era stata co-niata una definizione patologica: simpatianevrotica con il nemico. [...]

Il ritorno in patria era sovente come l’ar-rivo in una terra straniera, mentre il ritorno alfronte poteva anche risultare un sollievo.Come molti altri, Robert Graves ammiseche «l’Inghilterra appariva estranea a noiprovenienti dal fronte. Non riuscivamo a ca-pire la follia bellicistica che correva ovunque,cercando sfoghi para-militari. I civili parla-vano una lingua straniera, il linguaggio deigiornali».

Ma l’estraneazione del militare dal ruoloe dall’immagine del soldato guerriero sortìun effetto importantissimo soprattutto sullostato psicologico delle truppe al fronte; in-fatti, con questa estraneazione il soldatosmarrì gran parte delle fonti di legittima-zione della propria attività , e soprattuttodella propria morte in battaglia. Coraggio,onore, sacrificio di sé, eroismo, apparte-nevano ormai al mondo delle illusioni, di-stante, esterno al sistema di trincea. [...]

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Fu smarita tutta la sgargiante messinscena che nei tempi passati aveva accompagnatoil soldato in guerra. Anche Henri Massis si trovò a riflettere sul fatto che fossero ormai scom-parse le esteriorità gratificanti, tradizionali in tutti gli eserciti; tutto ciò che aveva a che farecon la guerra di trincea era dimesso, riguardava «l’interiorità della terra, del soldato». La ri-mozione di tutti i simboli esteriori del carattere offensivo, con il rintanarsi nella terra, com-portò una trasformazione di base del soldato-tipo. [...]

«Soldati privi del piacere di combattere, essi aspettano. Aspettano cosa? Tutto e niente,poiché la morte può seppellirli in qualsiasi momento senza che essi possano dar provadel loro valore contro di essa. Una morte casuale e stolida, che non pretende il loro co-raggio... infatti, questa guerra richiede una virtù diversa: vuole che si impari ad attenderla,a qualsiasi ora, con pazienza. Non è affatto l’avventura di un solo eroico momento, l’e-saltante passaggio dell’eroe di qui all’eternità, la sublime vocazione del guerriero. È moltomeno solenne: coglie chi vuole, quando vuole, nelle più umili pose, però sempre impo-nendosi con la sua presenza continua, richiedendoci di essere sempre pronti». Qui Mas-sis vede, in termini cristiani, la stessa figura che Zuckmayer aveva definito uno qualsiasi,cioè l’uomo che aveva raggiunto la consapevolezza della propria assoluta sostituibilità al-l’interno di un processo industriale.

E.J. LEED, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, il Mulino,Bologna 1985, pp. 143-149, trad. it. R. FALCIONI

Che cosa significa l’espressione: «rottura della personalità offensiva»? Che cosa era la «simpatianevrotica» con il nemico?

Spiega l’affermazione: «Il soldato smarrì gran parte delle fonti di legittimazione della propriaattività, e soprattutto della propria morte in battaglia».

Che cosa distingue il soldato della prima guerra mondiale dal soldato dell’epoca napoleonica? Che cosa è venuto a mancare, di rassicurante e gratificante?

La narrativa di Tolkien dopo la battaglia della Somme

Tolkien comprese appieno la potenza distruttiva dell’industria moderna, messa al servizio della guer-ra. Nei racconti che scrisse nel 1916, fa la sua prima comparsa un terribile demone, Melko, che creadei mostruosi animali meccanici, capaci di travolgere ogni difesa umana, e che distrugge la natura inquanto ha di più bello e di più armonico. Le creature che cadono nelle sue mani si trasformano in schia-vi, perennemente in preda al terrore.

La caduta di Gondolin è uno dei più dettagliati resoconti di una battaglia scritti da Tolkien,ma Gondolin sotto attacco non è la Somme, malgrado le sue acque colme di cadaveri e lasua claustrofobia. Soprattutto, il racconto non descrive gli inglesi come Gnomi e i tedeschi

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Fotogramma del filmIl signore degli anelli,tratto dall’omonimoromanzo di Tolkien.

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come goblin [mostri, n.d.r.]. Tolkien insisté che non esisteva un parallelo tra i goblin che avevainventato e i tedeschi che aveva combattuto, dichiarando: «Non ho mai avuto questo tipo disentimenti verso i tedeschi. Sono molto contrario a questo tipo di cose».

La caduta di Gondolin non è propaganda di guerra, ma mito e dramma morale. Cosìcome Robert Louis Stevenson nello Strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde, Tolkien colseil confuso panorama morale del mondo reale e cercò di raffinarlo in due polarità, bene e male,applicando però il principio su scala epica. Egli spiegò questo approccio assai più tardi, inuna lettera a suo figlio Christopher: «Sì, penso che gli orchi siano una creazione tanto veraquanto altre cose del romanzo realistico», scrisse «...solo che nella vita reale stanno da en-trambi i lati, naturalmente. Perché il romanzo [il racconto fantastico, n.d.r.] nasce dalla alle-goria, e le sue guerre derivano tuttora dalla guerra interiore dell’allegoria, in cui il bene è tuttoda una parte e varie forme di male tutte dall’altra. Nella vita vera (esteriore) gli uomini sonosia buoni che cattivi: il che significa un’alleanza eterogenea fra orchi, bestie, demoni, uominionesti e del tutto normali e angeli». È quindi possibile affermare che i goblin incarnino «tuttoil male che esiste dalla nostra parte» nella guerra reale, oltre a tutto il male della parte deitedeschi: essi distruggono, saccheggiano, uccidono i prigionieri. Gli Gnomi di Gondolin, in-vece, incarnano le virtù delle quali nessuna nazione ha il monopolio: essi rappresentano(come scrisse Tolkien parlando in generale dei suoi Elfi) «la bellezza e la grazia nella vita enell’arte». [...]

«Con l’enorme tesoro di metalli e con i suoi poteri di fuoco», Melko costruisce un’armatadi «bestie simili a serpenti e a draghi di forza irresistibile, che possano strisciare su per i ColliCerchianti e avvolgere la pianura e la bella città in fiamme e morte». Frutto del lavoro di «fab-bri e stregoni», queste creature (in tre diverse varietà) superano il confine tra mostri mitici emacchine, tra magia e tecnologia: nell’assalto, i draghi di bronzo si muovono pesantementee aprono brecce nelle mura della città; una loro versione di fuoco è ostacolata dai lisci e sco-scesi pendii del colle di Gondolin, mentre i draghi di ferro, che al loro interno trasportano Or-chi e che si muovono su «ferro saldato con tanta maestria che potevano scivolare... intornoe sopra ogni ostacolo si parasse loro dinanzi», abbattono le porte della città «grazie al pesoenorme di quei corpi» e, sotto un bombardamento difensivo proveniente dalla città, «i loroventri cavi risuonanorono sotto i colpi, che però nulla ottennero, perché i mostri non pote-vano essere spezzati e i fuochi rotolavano su di loro».

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I terribili orchi descrittida Tolkien sono cosìrappresentati in undisegno dell’illustratorecanadese John Howe.

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Quanto più questi mostri differiscono dai draghidella mitologia, tanto più assomigliano ai carri armatidella Somme. Un diarista del tempo di guerra os-servò con divertimento come i giornali paragonas-sero questi nuovi veicoli corazzati a «ittiosauri, jab-berwock, mastodonti, leviatani, boojum, snark e altrimostri mitici e antidiluviani. Max Ernst [pittoreespressionista tedesco, n.d.r.], che nel 1916 eranell’artiglieria da campo tedesca, cesellò questi pa-ralleli sulla tela nel suo quadro surrealista e iconicoCelebes (1921), in cui è raffigurata una minacciosacorazzata elefantina con occhi vacui e bestiali. Il Ti-mes diffuse un rapporto tedesco sull’invenzione bri-tannica: «Il mostro si approssimava lentamente, pro-cedendo a fatica, muovendosi da una parte all’altra,dondolando e beccheggiando, ma si avvicinava.Niente riusciva ad ostacolarlo, sembrava spinto dauna forza soprannaturale. Nelle trincee qualcuno

gridò: “Arriva il Diavolo!”, e queste parole percorsero la linea del fronte come un fulmine.Lingue di fuoco sbucarono improvvisamente dalla lucente corazza del bruco di ferro... leondate di fanteria inglese sciamavano dietro al carro del demonio». [...]

Melko, il tiranno che muove guerra a Gondolin, è il Diavolo in persona, ma [...] non sem-bra esistere nella mitologia di Tolkien prima della Somme. [...] I prigionieri che in qualchemodo fuggono dagli Inferni di Ferro sono afflitti da «una paura che incatena» in modo che,anche quando sono lontani dal dominio di Melko, «egli sembrava sempre vicino a loro... per-ciò tremavano nel cuore e non fuggivano neppure se lo potevano». Meglio, liberato da Melkodopo aver tradito i segreti di Gondolin, ritorna alla sua vita pubblica in città come se nullafosse successo, ma non lavora più e cerca di «affondare... la paura e l’inquietudine» in unafalsa gaiezza: anch’egli è ora sotto il «sortilegio del terrore senza fine» di Melko.

Melko. Meglio conosciuto con i suoi nomi successivi Melkor e Morgoth, rappresenta latirannia della macchina sulla vita e sulla natura, sfruttando la terra e la sua gente nella co-struzione di un vasto arsenale. [...] Come creazione letteraria, Melko è ben più di un sim-bolo dell’inverno o un’astrazione della distruzione e dell’avarizia. Egli apparve nel 1916 connotevole tempismo: con i suoi sogni di dominio del mondo, le sue spie, i suoi vasti eserciti,i suoi schiavi industriali e il suo «sortilegio del terrore senza fine», egli anticipava i totalitari-smi che attendevano dietro l’angolo. Nel giro di un anno, infatti, la Rivoluzione Russaavrebbe instaurato la prima dittatura totalitaria, il cui scopo era annientare la volontà indivi-duale a favore dell’economia e del potere bolscevico. Lenin divenne un modello per Hitler,Stalin, Mao e gli altri mostri della politica del XX secolo, ma tutto ciò che i dittatori fecero fusolamente portare a un estremo logico il processo di disumanizzazione già osservato nel-l’industria pesante e sfruttare la rottura col passato che la Grande Guerra aveva innescato.Con questa capacità di mettere in guardia da quegli estremi, la narrativa fantastica era invantaggio rispetto a quello che è chiamato realismo. Il realismo infatti ha un riflesso condi-zionato a evitare gli estremi reputandoli poco credibili, mentre al contrario il fantastico li ab-braccia attivamente; esso, inoltre, amplifica e raffina la condizione umana e può addiritturatenere il passo con le disastrose fantasie dei dittatori in erba. Senza dubbio Tolkien non avevaintenzioni di fare previsioni politiche, tuttavia le sue opere presagirono gli avvenimenti futuri.C’è sicuramente una parentela spirituale tra l’infelice Meglio e Winston Smith [protagonistadel romanzo 1984, di George Orwell, n.d.r.] che tracanna il suo gin della Vittoria sotto gli oc-chi del Grande Fratello.

J. GARTH, Tolkien e la Grande guerra. La soglia della Terra di Mezzo, Marietti, Genova-Milano 2007, pp. 288-296, trad. it. R. ARDUINI, G. CANZONIERI, L. GAMMARELLI, A. LADAVAS

Per quale motivo il racconto La caduta di Gondolin (scritto nel 1916, dopo la traumaticaesperienza della Somme) non è propaganda di guerra?

Che cosa ha in comune Tolkien con R.L. Stevenson? Che cosa ha in comune il mondo creato daTolkien, con quello creato da G. Orwell?

In che cosa consiste il vantaggio della narrativa fantastica, rispetto a quella realistica? In qualeevento recente la realtà ha superato la fantasia, al punto che i filmati parevano finzionicinematografiche create con sofisticati effetti speciali?

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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012

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Un orco in unfotogramma del filmIl signore degli anelli.

Page 17: e letteratura in Inghilterra e in Germania B · Tolkien poté studiare a Oxford, ove si dedicò allo studio delle antiche lingue germa-niche e delle saghe nordiche. Scoppiata la guerra,

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BGuerra, individualità e virilità La guerra fu vissuta da molti soggetti come una festa, cioè come una temporanea trasgressio-

ne delle norme sociali, fissate da un secolare processo di civilizzazione. Nel caso di Jünger, l’af-fermazione della libertà individuale prese la direzione dell’ebbrezza che si prova nel bel mezzo del-lo scontro; poeti come Sassoon e Owen, invece, si sentirono liberi di dar sfogo alle proprie emozioni:di fronte a un evento estremo come la guerra, la regola fondamentale della rispettabilità borghese– che imponeva il più assoluto autocontrollo – non poteva più essere valida. Le lacrime di dolore,insieme allo sdegno, potevano finalmente prorompere in assoluta libertà e scorrere anche sul vol-to maschile.

La Grande guerra rese più stretto che mai il legame tra il nazionalismo e la mascolinità,di cui enfatizzò gli aspetti rimasti sino ad allora allo stato latente: nella foga dell’assalto allatrincea nemica l’aggressività poteva esprimersi senza ritegno né freni. Un passo famoso neldiario di guerra di Ernst Jünger, In Stahlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio, 1920) riassumeefficacemente quello spirito combattentistico: la guerra di trincea, scrive, è la forma di con-flitto più sanguinosa, selvaggia e brutale, «eppure anch’essa ha i suoi estimatori, uomini chesi rivelano nell’emergenza del momento, anonimi arditi». Quei soldati erano i «principi delletrincee», gente che non arretrava di un passo e non conosceva la pietà. Quella di Jünger èla glorificazione estrema di un certo tipo di guerra, ma dichiarazioni del medesimo tenore civengono anche da altri paesi – pur se nessuna di esse si guadagnò altrettanta popolaritàdopo il conflitto.

Jünger vedeva la guerra come una lotta per la sopravvivenza in cui l’uomo dà liberosfogo ai suoi istinti animaleschi, esercitando però anche tutta la forza di volontà di cui ècapace, e mettendo alla prova il suo coraggio. Der Krieg als inneres Erlebnis (La guerracome esperienza interiore, 1922) è un inno alla sbalorditiva energia che si sprigiona nellabattaglia, un’energia cui l’odio per il nemico è del tutto estraneo: nonostante la sua re-putazione, in Jünger c’è ben poco dello sciovinista. Nella sua concezione, la guerra riducel’uomo agli istinti primordiali, consentendo ai migliori di combattere non tanto per un idealesuperiore quanto per scoprire la propria autentica natura di guerrieri. In linea generale, isuoi acclamatissimi scritti di guerra attribuivano un significato più nobile all’idea della vi-rilità, individuando nella ritrovata gioia della lotta senza quartiere un fattore di maturazionedell’individuo. Certo, la stragrande maggioranza dei soldati combatteva per senso del do-vere, per non tirarsi indietro, ma anche per molti di loro il contenuto dell’autentica ma-scolinità – non tanto durante la prova del fuoco, quando non c’era tempo per l’introspe-zione; fu piuttosto col senno di poi, dopo la guerra – assunse una nuova, più brutale,dimensione. [...]

Lo scatenarsi di quei sentimenti aggressivi non fu legato soltanto alla realtà del conflitto,ma anche all’aspirazione alla libertà dell’individuo dagli imperativi sociali, una libertà che,come abbiamo visto, da tempo veniva identificata con la guerra moderna. La poesia di Frie-drich Schiller che abbiamo già citato, Reierlied (Canto della cavalleria), affermava per esem-pio che solo il soldato può dirsi libero, perché egli guarda la morte negli occhi, distinguen-dosi così dalla viltà e dall’ipocrisia del resto degli uomini, che non conoscono libertà, ma solopadroni e schiavi. È un contrasto significativo, questo, non troppo diverso dall’elogio dei veriuomini pronunciato da Ernst Jünger: gli arditi al fronte contrapposti ai vigliacchi imboscatinelle retrovie. Quelli erano uomini liberi, secondo Jünger, perché erano stati capaci, con leproprie sole forze, di riconquistare l’individualità. [...]

Il senso della conquista della libertà di essere uomo attraverso la guerra era assai dif-fuso. Non portava necessariamente alla brutalità di uno Jünger, ma poteva contribuire a ri-solvere altri dilemmi insiti nella mascolinità: l’essere ad un tempo poeta e vero uomo, peresempio. Le ansie di Sassoon e Owen dimostrano quanto fosse ormai radicato lo stereo-tipo normativo: non c’era spazio per la sensibilità artistica in un’estetica fondata, come ab-biamo visto, sulla durezza, sullo stoicismo, sulla risolutezza. Le passioni dovevano esseretenute sotto controllo; il vero uomo non grida di dolore, né sparge una sola lacrima, nem-meno di fronte a un camerata caduto.

G.L. MOSSE, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Einaudi, Torino 1997, pp. 146-148, trad. it. E. BASAGLIA

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Dopo aver spiegatol’affermazione «inJünger c’è ben pocodello sciovinista»,illustra i motivi piùveri che, secondo loscrittore, spingonol’uomo ad amare lalotta e la battaglia.

Per quale motivoalcuni uomini visserola guerra comeesperienzagratificante? Quale valore parevaloro di riuscire arecuperare?

Quali convenzionisociali poteronoinfrangere uominicome Sassoon eOwen, in un contestoestremo come laguerra?

Page 18: e letteratura in Inghilterra e in Germania B · Tolkien poté studiare a Oxford, ove si dedicò allo studio delle antiche lingue germa-niche e delle saghe nordiche. Scoppiata la guerra,

La baionetta e i miti del guerrieroNelle guerre del Novecento, la baionetta è stata quasi sempre inutile. Eppure, il mito dell’assalto alla

baionetta è uno dei più amati dai soldati, prima del combattimento reale. Nelle loro menti, quel modosuperato di combattere richiama la concezione eroica della guerra, che la modernità ha invece del tut-to cancellato.

Freddo acciaio, cavalleria aerea e caccia all’uomo sono espressioni che sintetizzano l’e-tica guerriera. Non aveva importanza che queste tre forme di combattimento fossero piut-tosto rare. La carica alla baionetta, per esempio, non era rappresentativa dell’esperienza dellamaggior parte dei combattenti: anche nella prima guerra mondiale, il cannoneggiamento adistanza uccise due terzi di tutti i soldati, mentre meno dello 0,5% delle ferite fu inferto dallebaionette. Come lamentano i versi zoppicanti di My Bay’nit (1916):

«Per riscaldare una galletta la mia baionetta è eccellente;L’ho usata per aprire una scatoletta di carne;Per attizzare il fuoco è di grande utilità;Per qualsiasi vecchia cosa, tranne per infilzare un uomo».

Neppure il pilota di caccia e il tiratore scelto erano rappresentativi. Il combattimento ae-reo personale non si sviluppò prima della metà del primo conflitto mondiale (quando si co-minciò a montare sulle ali le mitragliatrici), e anche allora gli aeroplani erano impiegati piùspesso a scopi di ricognizione e di osservazione dell’artiglieria e per sganciare bombe suobiettivi non combattenti, che per abbattere altri aviatori. Anche i tiratori scelti non erano cheun piccolo gruppo d’élite. Nella guerra di trincea sul fronte occidentale del 1914-18,quando, in molti casi, non esistevano obiettivi di massa contro i quali dirigere il rapido fuocodelle mitragliatrici, a ogni battaglione erano assegnati, in media, non più di sedici tiratori scelti.[...]

Cosa più importante, tuttavia, era che questi modi di uccidere mettevano in luce il va-lore individuale in una guerra condotta con anonimi mezzi tecnologici. Molti combattenti ago-gnavano lo spargimento di sangue personale, contro il deprimente anonimato del canno-neggiamento. Così si esprime il capitano M.D. Kennedy:

«Nella guerra aperta, vedevi almeno il frutto dei tuoi sforzi. Nella guerra di trincea che sistava sperimentando per la prima volta, ciò succedeva appena o per nulla. Era un’esperienzascoraggiante, per truppe allevate alla tradizione della guerra aperta, in cui tutti avevano l’op-portunità di rispondere ai colpi, e rimanere uccisi o feriti o uccidere o ferire il nemico facevaparte di un confronto aperto e leale. Quello che ufficiali e soldati volevano era l’opportunitàdi una buona zuffa».

Questo era ciò che rendeva la baionetta attraente per tanti combattenti. Charles CecilMiller dei Royal Inniskilling Fusiliers, per esempio, definisce «immensamente eccitante» il com-battimento faccia a faccia, commentando francamente che era «meno eccitante essere fattoa brandelli da un pezzo di metallo urlante lanciato da molte miglia di distanza». Analoga-mente, in una lettera scritta alla sorella il 4 maggio 1915, Guy Warneford Nightingale dei RoyalMunster Fusiliers descrive l’esaltazione del duello alla baionetta: «Ci siamo divertiti immen-samente», scrive, «vedevamo il nemico, e questa era la cosa principale, e tutti gli uomini gri-davano e se la sono spassata enormemente. Un vero sollievo, dopo tutti quegli snervantiappostamenti».

L’avversione di Nightingale per gli appostamenti esprime la ripugnanza per la possibilitàdi essere colpito da un avversario senza volto. Da parte sua, invece, il tiratore scelto traevapiacere dalla sua attività proprio perché era in grado di identificare l’avversario. Anche l’ap-postamento era un modo di uccidere personale: richiedeva, infatti, che il tiratore guardassenegli occhi la sua vittima; dava modo agli uomini di manifestare la propria abilità personalein una guerra che offriva ben pochi sbocchi alternativi. [...]

Ciò era in stridente contrasto con i bombardamenti aerei, che i piloti consideravano menolegittimi perché non richiedevano alcuna abilità: sganciare bombe su civili inermi non ispi-rava nessuna fantasia di prodezza sportiva. Nelle parole di un uomo con venticinque annidi servizio ufficiale nella RAF [acronimo di Royal Air Force, l’aeronautica militare inglese, n.d.r.]:«Io pilotavo caccia, mai bombardieri, e ringrazio Dio per questo. Se avessi fatto il pilota dibombardiere, credo che non sarei mai stato capace di obbedire agli ordini: sganciarebombe sulle città tedesche non mi avrebbe dato alcun senso di conquista».

J. BOURKE, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia,Carocci, Roma 2003, pp. 55-66, trad. it. M.C. COLDAGELLI

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Quale pericolorendeva gli uominiparticolarmentedepressi?

Guerra area e servizio cometiratore scelto furonoesperienze dimassa?

Perché il pilota dacaccia disprezza chi opera su unbombardiere?

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012

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