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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene Quando Giovanni Gentile nel 1923 divenne ministro dell’istruzione realizzò quella riforma che porta il suo nome, la cui ossatura essenziale è resistita quasi fino ai giorni nostri. Ci rimase solo un anno in quella carica. Ma l’impianto dell’opera era buono ed è resistito ben oltre la stagione del ventennio. In quell’occasione introdusse anche l’Esame di stato. L’Esame di stato è diventato l’appuntamento conclusivo del ciclo di studi secondario, quasi il redde rationem del lavoro svolto nei cinque anni dallo studente. Nel corso di questi novant’anni l’Esame di stato ha conosciuto sostanziali modifiche per la forma, la modalità, la composizione delle commissioni, l’arco delle discipline coinvolte. Di anno in anno l’ordinanza ministeriale che lo promulga conosce sfumature che fanno la gioia di tutti i legulei, intenti a scavare le sottigliezze sottese ad ogni comma. Così per generazioni e generazioni di studenti questo rito di iniziazione –che effettivamente segna l’ingresso dei giovani nell’età adulta- diviene uno spettro e un incubo, oppure un’occasione e un’opportunità di crescita. In tanti anni di insegnamento (sono ormai diciotto) ho visto nei ragazzi che frequentavano l’ultimo anno un atteggiamento di rinuncia, una spasmodica ansia che finisca presto: l’ho chiamata la sindrome del quinto anno. Devo ammettere che anch’io ho esperito sulla mia pelle quando ero giovane studente tutta la sintomatologia caratteristica di questa sindrome. Il lato più acuto di questa sindrome l’ho registrato qualche anno fa quando, dopo solo qualche giorno di scuola, mi vedo comparire, in una classe quinta, appunto, uno strano foglio preparato da un paio di studenti, nel quale venivano segnati a mano i giorni di scuola e in cui era possibile rilevare con un colpo d’occhio statistico, 1

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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene

Quando Giovanni Gentile nel 1923 divenne ministro dell’istruzione realizzò quella riforma

che porta il suo nome, la cui ossatura essenziale è resistita quasi fino ai giorni nostri. Ci rimase solo

un anno in quella carica. Ma l’impianto dell’opera era buono ed è resistito ben oltre la stagione del

ventennio. In quell’occasione introdusse anche l’Esame di stato. L’Esame di stato è diventato

l’appuntamento conclusivo del ciclo di studi secondario, quasi il redde rationem del lavoro svolto

nei cinque anni dallo studente. Nel corso di questi novant’anni l’Esame di stato ha conosciuto

sostanziali modifiche per la forma, la modalità, la composizione delle commissioni, l’arco delle

discipline coinvolte. Di anno in anno l’ordinanza ministeriale che lo promulga conosce sfumature

che fanno la gioia di tutti i legulei, intenti a scavare le sottigliezze sottese ad ogni comma.

Così per generazioni e generazioni di studenti questo rito di iniziazione –che effettivamente

segna l’ingresso dei giovani nell’età adulta- diviene uno spettro e un incubo, oppure un’occasione e

un’opportunità di crescita.

In tanti anni di insegnamento (sono ormai diciotto) ho visto nei ragazzi che frequentavano

l’ultimo anno un atteggiamento di rinuncia, una spasmodica ansia che finisca presto: l’ho chiamata

la sindrome del quinto anno. Devo ammettere che anch’io ho esperito sulla mia pelle quando ero

giovane studente tutta la sintomatologia caratteristica di questa sindrome. Il lato più acuto di questa

sindrome l’ho registrato qualche anno fa quando, dopo solo qualche giorno di scuola, mi vedo

comparire, in una classe quinta, appunto, uno strano foglio preparato da un paio di studenti, nel

quale venivano segnati a mano i giorni di scuola e in cui era possibile rilevare con un colpo

d’occhio statistico, quanti ancora ne mancavano! Questo calendario lo avevo già visto in altre classi,

ma veniva affisso quando mancavano due o tre mesi alla fine dell’anno scolastico. In quel caso si

poteva dire: sessanta giorni, cinquanta giorni, quaranta giorni all’alba…come nel gergo militare. Il

fatto che dopo una settimana si facesse già il conto di quanto mancava alla fine significava

dichiarare fin dall’inizio che eravamo già alla frutta! Significava affermare in termini inequivocabili

la stanchezza, l’impazienza e l’insofferenza a vivere il tempo che ci stava davanti come

un’occasione per imparare, per crescere, come del resto è l’avventura che si apre ogni giorno della

nostra vita, del quale non sappiamo se giungeremo alla fine. Dico questo per realismo, non per un

cedimento al pessimismo qoelettiano.

Per le generazioni che non hanno avuto la possibilità, né il dovere del servizio militare

rimane perciò il carattere iniziatico dell’esame di stato, un rito di passaggio che segnala l’ingresso

nel mondo del lavoro (pochi) e nel mondo universitario (molti). In ogni caso, il momento in cui si

entra nel mondo degli adulti, con tanto di diritti politici, e quindi con una chiara coscienza di

appartenere ad una polis.

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L’aspetto più affascinante, dunque, dunque per chi insegna alle superiori è accompagnare i

giovani in un cammino per cui costoro, ragazzi praticamente imberbi e ragazze appena entrate

superata la soglia della pubertà, li si vede diventare uomini e donne nello splendore della loro

maturità. Siccome neanche le patate crescono automaticamente, è evidente che in questo cammino

si gioca la libertà dei singoli io: quella degli studenti e quella dei docenti.

Comunque sia, ogni anno si fanno bilanci: si indaga qual è la percentuale degli studenti che

hanno raggiunto il massimo (con o senza lode), il tasso dei non ammessi all’esame, la percentuale

dei non promossi e si conclude inevitabilmente con l’esigenza di maggior rigore.

All’inizio di quest’anno scolastico il ministro dell’istruzione si è proposta alla ribalta

dell’opinione pubblica (e non solo, date le conseguenze) con un grande annuncio: niente

ammissione all’esame se si hanno insufficienze. Anche in una sola materia. Più rigore di così…

L’opinione pubblica reagisce a queste autentiche grida manzoniane con accondiscendenza.

Di fronte al degrado disciplinare, la decadenza dei livelli di conoscenze, competenze e capacità, le

indagini OCSE-PISA, di fronte al mondo del lavoro, l’università, sale un grido di dolore: i ragazzi

di oggi non sono più quelli di una volta. E’ stato trovato un antico papiro di epoca babilonese dove

si leggeva la stessa storia. Anche a quell’epoca qualcuno lamentava il fatto che i ragazzi non erano

più come quelli di una volta. Ma al di là della battuta è evidente, per chi insegna (e non solo) lo

svuotamento progressivo dei livelli di accettabilità di quella che con termine desueto è ritenuta la

preparazione di base. Di base rispetto a cosa? E con quale solidità per fungere da base? A chi o a

che cosa imputare tutto ciò? Il (la) ministro ha provato a dare una risposta individuando un

responsabile e una colpa collettiva: il lassismo e il buonismo. Difficile darle torto. Se uno studente

ha un debito deve saldarlo. Finché si è in terza e in quarta superiore il debito si salda tramite

l’esame di riparazione (anche se non si chiamano più così). In classe quinta, eventuali debiti vanno

saldati entro l’anno scolastico, pena la non ammissione. Evidentemente la signora ministro, poco

memore della sua personale esperienza, o forse perché circondata da tecnici, consiglieri e/o da

quella pletora di consulenti che ogni anno ne combina una persino nel formulare i titoli e le prove

dell’esame di stato, poco avvezzi alla pratica quotidiana della didattica, lontani anni-luce da quello

che accade nelle mura delle scuola, ha pensato di stringere le briglia e strigliare quell’enorme

pachiderma che è il sistema scolastico italiano, una struttura elefantiaca che basta governare

centralmente per permettere di ottenere risultati uniformi in tutto il territorio nazionale.

Cosa dunque è accaduto nel corso di quest’anno scolastico a seguito dell’innovazione che

prevede la non ammissione per quanti avevano anche solo un’insufficienza? Non voglio scadere

nella polemica. Porterò soltanto alcuni esempi facendo alcuni nomi. D’invenzione, sia ben chiaro.

Fabio frequenta il liceo scientifico. Si diletta della matematica. Fatto non comune. Un giorno,

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durante un’uscita scolastica a Rovereto (la gita prevedeva la visita del Museo della guerra e del

Mart), nel lungo viaggio in pulman mi ha raccontato che talvolta trascorre interi pomeriggi a

studiare il rapporto che sussiste fra suoni, melodie, ritmi cercando di stabilire le funzioni e le leggi

matematiche. Non so se ho capito bene, ma credo che qualche diavoleria matematica del genere sia

possibile e Fabio, come gli antichi pitagorici esamina i rapporti matematici che sussistono in questa

autentica malia che è la musica. Al di là di queste sue stravaganze e curiosità in campo matematico

è provato che in occasione di verifiche tradizionali Fabio raggiunge risultati eccellenti. Il buon

Fabio tanto è preso dalla matematica, dalle materie scientifiche, tanto si impegna nelle materie

umanistiche per spuntare apprezzabili risultati, tanto in storia non becca una sufficienza piena.

Addirittura nel secondo quadrimestre, uscito per rimediare una precedente impreparazione,

conferma il giudizio di insufficienza. Cosa dovevo fare? Presentarlo allo scrutinio finale con il 5 o

con il 4? Un consiglio che si rispetti avrebbe dovuto accettare il principio dell’autonomia didattica

del singolo insegnante riconoscendo il giudizio di insufficienza palese espresso a sfavore del povero

candidato nella disciplina storia. Fabio non viene ammesso: la formula ministeriale parla chiaro ed è

inequivocabile. Alla faccia della matematica e delle indagini OCSE-PISA che denunciano le

debolezze in campo matematico.

Immaginiamo un numero N° di situazioni analoghe, con una qualche piccola variabile.

Federico non è un genio in matematica, se la cava così così in tutte le materie; in storia e filosofia

proprio non ce la fa. Oppure, supponiamo che non ce la faccia in latino. Come ragiona l’insegnante

di filosofia e storia, oppure quello di latino? Vado ad esporre alla bocciatura un ragazzo per una

insufficienza? Cosa so delle valutazioni che Federico ha nelle altre materie? Devo assumermi da

solo la responsabilità di fermare uno studente?

Ecco svelato l’arcano: dietro il proposito rigorista del ministro, nella prova dei fatti viene

evacuata la possibilità del giudizio collettivo del consiglio di classe. L’insufficienza è sufficiente

per fermare uno studente! Come si sanano queste incongruenze? Con una dichiarazione televisiva a

Porta Porta in concomitanza della fine dell’anno scolastico in cui si riconosce che, sì, in fondo per

una materia si può anche chiudere un occhio?! Ma il ministero non è specialista nelle

comunicazioni tramite atti, ordinanze, circolari? Perché allora non ha chiarito durante l’anno il

modus operandi della comunità docente? Perché dobbiamo saperlo dalla Tv? Siccome la realtà

incalza molto più dei tempi biblici con cui si muove il ministero, i singoli insegnanti avevano già

provveduto preventivamente a operare processi di recupero (veri o presunti) per trasformare le

insufficienze in sufficienze. La metamorfosi delle insufficienze in sufficienze garantite a tutti è

accaduta per una tacita (e inevitabile) necessità: evitare un inutile bagno di sangue. Sì, perchè ci

sono studenti che possono avere delle lacune o delle carenze croniche. D’altronde, la teoria delle

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intelligenze multiple di Gardner, famoso e blasonato psico-pedagogista, lo conferma. L’intelligenza

non è una capacità monolitica. Non è una facoltà che guida i processi conoscitivi dispiegandosi in

tutte le forme del sapere in modo omogeneo. Esiste un’intelligenza musicale, un’intelligenza

linguistica, un’intelligenza interpersonale, un’intelligenza matematica, un’intelligenza cinestetica, e

avanti. Fino a nove.

Con l’incauta iniziativa ministeriale abbiamo avuto una sorta di eterogenesi dei fini, ovvero

il capovolgimento dei fini raggiunti rispetto alle intenzioni, in altre parole, il rimedio si è rivelato

peggiore del male. La prova provata (e macroscopica) del degrado e della degenerazione conseguita

a questa esecrabile grida manzoniana, il processo di inflazionamento massiccio -se non si pone

rimedio in altro modo- cui sarà ulteriormente sottoposto il sistema di valutazione, è data

dall’esperienza fatta in occasione dell’esame di stato alla fine di questo anno scolastico.

Mi è capitato di esaminare due classi in cui metà degli studenti erano stati ammessi con tutti

6 in tutte le materie. Si chiama in gergo scolastico “6 gelminiano”, ovvero quello che classicamente

era il “6 politico”. L’esigenza di rigore di è tradotta in una ulteriore banalizzazione e in un più

radicale svuotamento oltre che della dignità professionale dei docenti, della qualità

dell’apprendimento. Il trucco operato dai miei colleghi docenti era facilmente smascherabile non

appena si andava a vedere quelle che erano le valutazioni alla fine del primo quadrimestre. Non

essendoci a quel punto dell’anno nessuna esigenza di ammissione i voti potevano essere realistici o

quantomeno attendibili. Le zone di insufficienza erano diffuse sia trasversalmente che

longitudinalmente. Capita anche questo nella scuola. Vengono aggregati studenti provenienti da

altri licei, si garantisce loro un porto sicuro sulla base del principio “mal comune mezzo gaudio”,

vengono assemblate classi omogenee quanto a livelli di apprendimento (al ribasso), garantendo nel

contempo le cattedre per i professori e si sfornano titoli di studio privi di ogni valore reale, eccetto il

fatto che hanno un valore legale.

Cosa fare? Siccome per fortuna non si lavora da soli nella scuola e, paradossalmente, il

momento in cui gli insegnanti maggiormente costituiscono una comunità tecnico-professionale è il

momento in cui si costituiscono come commissione esaminatrice (indipendentemente dalla

provenienza, la preparazione, il temperamento dei singoli docenti), a quel punto ci siamo chiesti

come procedere. Soprattutto dopo la correzione delle tre prove scritte. Era evidente che ci

trovavamo di fronte a un numero elevato di casi a rischio di bocciatura. Il vezzo italico di trovare

soluzioni condivise a ogni problema, garantendo la forma (e mai la sostanza) con il minor numero

di grane possibili è quello del colpo di spugna.

Per non perdere il patrimonio prezioso di corbellerie raccolte in quei giorni, per vincere quel

disgusto e quel disagio che ho dovuto attraversare in quella putredine culturale turandomi ogni piè

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sospinto il naso, alla fine di quei giorni me ne sono andato a fare shopping. A differenza di quello

che accade al gentil sesso, fare shopping per me non significa andare in un negozio di

abbigliamento, di scarpe, di profumi e affini. Sono andato in una libreria. Mi piace sentire il

caratteristico profumo dei libri nuovi. Mi mette dentro una strana emozione. In dialetto veneto si

direbbe uno “sbrisegolin”, ma è un termine intraducibile eppure quasi facilmente intuibile perché

quasi onomatopeico. Un movimento intestinale che, pur non conducendo necessariamente alla

defecatio, genera quel senso di piacere simile a quello che Freud identifica nella fase anale del

bambino.

In realtà quel giorno è la prima volta che mi capita di entrare in una libreria e di uscirne a

mani vuote. Do furtivamente uno sguardo agli scaffali, le offerte non mancano. Le novità e i best

sellers neppure. La disposizione dei libri è come sempre invitante. Soldi in tasca non mi mancano.

Ma nulla aguzza la mia curiosità. Spesso i miei occhi si posano su libri che ho già. Mi torna

piuttosto la voglia di rileggere qualcosa anziché avventurarmi in qualcosa di nuovo. Sarà che sono

stanco dopo un anno sociale ad alto voltaggio, sarà che esco dall’incubo degli esami di stato, ma il

desiderio più vivo non è oggi quello di leggere, semmai quello di attivare una sorta di terapia

mentale che purifichi la mente. Ma come? Ho deciso che il modo migliore per operare questa

catarsi è scrivere quello che ho visto e sentito.

Nel momento in cui inforco la penna non so ancora se verrà fuori uno stream of

consciousness, un libello, un saggio, un articolo, un racconto. Ma obbedisco a una strana

inclinazione: vivere la vita degli altri. Il materiale non mi manca.

L’inizio dei colloqui per una curiosa coincidenza quest’anno cade il giorno del mio compleanno: è

il 28 giugno. Il primo giorno si rivelerà qualcosa di avvilente. I giorni successivi, pur con tutta la

buona volontà di valorizzare l’esistente, peggio. Cominciamo con Michela (nome di fantasia).

Piccola di statura e un po’ bruttina. Non ha molta cura del suo corpo. Il giorno degli scritti avevo

chiesto all’insegnante che svolge la funzione di commissaria interna se Michela è maschio o

femmina. Non ha un seno pronunciato. Sul viso compare a livello delle basette un po’ di pelo nero.

Potrebbe essere un ragazzo ancora un po’ imberbe o una ragazza con tratti maschili. Il codino dietro

la nuca non mi aiuta a decifrare, anche perché lo portano ormai molti ragazzi. Il giorno degli orali

scopro dunque che il suo argomento pluridisciplinare è: “la donna nella Resistenza”. Materie

coinvolte? Letteratura italiana e basta. Per essere un percorso pluridisciplinare è un po’ poco. Ma

forse nessuno dei suoi insegnanti deve averglielo fatto notare. Presenta una apprezzabile sintesi de

L’Agnese va a morire, con tendenze alla generalizzazione piuttosto inquietante, per la verità. La

donna nell’esperienza della resistenza si è finalmente emancipata dal ruolo in cui la teneva il

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fascismo. Chiedo alla candidata se ha un’idea dell’ordine di grandezza degli uomini che

parteciparono alla resistenza e di conseguenza, quante donne... La vedo piuttosto imbarazzata.

Cerco di sciogliere l’imbarazzo rispondendole. Anche la prof di italiano si trova un po’ in

imbarazzo e non va ad indagare moltissimo su questo tema, anche perché Renata Viganò non è in

programma. Michela stessa riconosce che la prosa è scarna, lo stile asciutto. Perché dunque l’hai

letto, mi viene da chiederle. Forse per ritrovare nella donna della resistenza la femminilità perduta?

O forse perché aizzata da qualche insegnante tardo o proto femminista che vede nella Resistenza il

nucleo incoativo dell’emancipazione della donna?

Gianluigi (altro nome di fantasia) è un ragazzo che viene presentato con un discreto profilo dalla

scuola, anche in termini di quello che viene chiamato credito scolastico. Si presenta bene. Una

camicia bianca ben stirata. I capelli ordinati, senza quella tipica pettinatura femminilizzata con tanto

di piastra, sono ben pettinati. Mentre espone la commissaria interna mi ricorda che qualche mese

prima ha perso il papà. Qualche anno prima era morta la mamma. Lo guardo con tenerezza e

simpatia umana. Affronta un tema interessante: la paura. Il presidente della commissione lo

accoglie affettuosamente e con la battuta.

- La paura. E di che? Dell’esame?

Forse per esorcizzare le proprie paure ha affrontato la paura. Naturalmente non poteva mancare

Kiekegaard e il concetto dell’angoscia. Forse che l’angoscia e la paura sono lo stesso? No. Però un

nesso si può sempre trovare. Gianluigi ce la fa. In fondo gli mancano soltanto 15 punti per arrivare

alla fatidica soglia del 60. Ne prenderà 65.

E’ la volta di Andrea B. Il ragazzo porta il cognome di un illustre personaggio del Risorgimento. A

tutti è venuta la domanda se è lontano parente del famoso conte. Il suo portamento sembrerebbe

escluderlo, ma tant’è: 150 anni non sono mica pochi. Potrebbe essere un lontano discendente di un

ramo collaterale in declino. Qual è l’argomento che affronta, dunque? La seconda rivoluzione

industriale. E chi poteva non mancare? Marx. D’altronde Marx è l’interprete della prima

rivoluzione, ma senza nessuna forzatura cronologica è coevo anche alla seconda. Anche perché

Marx è divenuto un classico e attraversa le stagioni più diverse dell’industrializzazione, non esclusa

la globalizzazione. D’altronde, il canone del materialismo storico implica il primato della struttura

sulla sovrastruttura, ovvero delle condizioni economiche sui fattori relativi alla vita dello spirito,

arte, religione, diritto. Gli chiedo qualcosa in proposito. Magari un piccolo collegamento con Hegel,

o ancora il senso del rovesciamento della dialettica hegeliana operata da Marx, che vuole rimettere

“sui piedi”.

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- Cosa voleva dire dunque Marx con questa celebre metafora? Cosa sono i piedi fuor di

metafora?

- Ciò con cui si cammina.

Appunto. Non si esce dalla metafora. Ma si può uscire indenni dal colloquio d’esame. Mancano 17

punti alla fatidica soglia. Non uno di più. Quanto basta per portare a casa la pellaccia.

Alla domanda di rito, ma anche di sostanza, su quali sono i progetti e le aspirazioni future, il

candidato risponde, con tranquilla aria di soddisfazione:

- Medicina.

Deve avere avuta la consapevolezza di aver svolto un buon esame. O forse questo colloquio è solo

un accidente. L’interessante è dopo, è quello che lui ha in testa. Forse una luminosa carriera medica,

ispirata dall’idea del guadagno, una delle idee più ricorrenti espresse nella prima prova scritta di

italiano, quello sulla ricerca della felicità. Meno male. Ripensando a quei temi si può dire che non

c’è più quella bolsa retorica dei valori spirituali. L’uomo vive di ciò che è tangibile. E i soldi ti

danno questa opportunità.

Siamo avvertiti dai commissari interni che Gianni P. (non è Pinotto) è ripetente e che

fermarlo un’altra volta sarebbe una tragedia. Nessun trauma, siamo una commissione comprensiva e

mite. Il ragazzo si presenta con un vago sorriso. Forse per vincere la propria non nascondibile

timidezza. L’argomento scelto è il coraggio. Si indovina fin dal titolo che l’argomento scelto è

quello di tentare di esorcizzare le proprie fobie. Per chi ha un po’ di esperienza di scuola e di esami

di stato, percorsi di questo genere offrono l’opportunità di inserire varie materie usando l’espediente

della cosiddetta parola-valigia, ovvero un contenitore dove si può mettere di tutto, anche se non

sempre ben correlato. Il candidato ne ha facoltà d’altronde, anche perché l’ordinanza ministeriale

parla di colloquio pluridisciplinare, non interdisciplinare.

Gianni, dunque, offre una ricostruzione dell’attentato alla vita di Hitler come chiaro esempio di

coraggio. Indubbiamente, ideare all’interno di quel mostruoso sistema di potere che Hitler aveva

architettato un’azione che mettesse fine alla sua vita, poteva accelerare certi processi della storia e

metter fine alla tirannide. E ci voleva dunque molto coraggio. Avrà letto qualcosa di Joachim Fest,

noto studioso di Hitler e del nazismo, penso fra me. No, semplicemente ha visto il film Operazione

Walchiria. Qualche elemento integrativo da Wikipedia e la tesina è pronta. Naturalmente l’uomo

coraggioso in filosofia non può essere che il superuomo di Nietzsche che, più che un oltreuomo, mi

sembra appunto un superman. D’altronde il tema è il coraggio.

Cerco di agganciarmi al suo percorso con qualche domanda, in modo da aprire un colloquio.

- Conosci qualche altro personaggio nella storia del ‘900 che ha avuto coraggio?

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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene

- Beh, -mi risponde- per esempio chi ha realizzato l’attentato alle Twin Tower.

Sich! Il tema si è già spostato dal coraggio alle forme di terrorismo di varia natura. In questo caso,

un attentato al cuore della civiltà occidentale. Ci vuole coraggio a rappresentarlo come un atto di

coraggio! D’altronde non credo neanche si sia reso conto del pasticcio in cui si era cacciato. Giusto

per non schiacciarlo e rimettere il discorso in un binario consono all’esame di stato gli faccio una

domanda su Fichte, giusto per dovere professionale, anche perché ci sono schede da compilare con

tutte le domande poste in tutte le materie. La cosa non mi pesa anche perché lo faccio sempre nelle

interrogazioni ordinarie.

- Vedo nel programma che avete svolto Fichte e in particolare “La scelta fra dogmatismo e

l’idealismo”.

Anche qui, per chi è del mestiere, si tratta di una domanda classica e rappresentativa di quello che è

la cultura, ovvero ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto. D’altronde la domanda c’entra

eccome con il suo percorso. Ma cos’è l’idealismo? E cos’è il dogmatismo?

- L’idea, il pensiero, l’astratto.

Capisco che non ha capito. Lo invito amabilmente a procedere oltre. Compilo la scheda con cui si

verbalizza il colloquio. Una delle esperienze più gratificanti, direi di quei giorni. Almeno lì si

doveva scrivere qualcosa di intelligente: caratteri ideologici del nazismo, del fascismo, del

comunismo, crisi congiunturale o strutturale del ’29, Schopenhauer vs Nietzsche, e avanti…

Si presenta Romeo (nome di fantasia, come sempre) Non ha lo sguardo di un’aquila e questo lo si

capisce al volo. Quando inizia a parlare l’impressione iniziale si carica di un alone di ulteriore

preoccupazione. Questi non sa nemmeno parlare, in italiano, s’intende. Romeo propone come

argomento il Totalitarismo. Parte, come di consueto, dando la rappresentazione di una classica

forma di totalitarismo che è il nazismo. Nulla di sbagliato di per sé.

- Si tratta di un sistema politico basato sul potere personale di uno che è anche capo del partito.

Punto. Appunto. Punto. Non sa dirmi altro. Cerco di mettere in moto il discorso, suggerisco

paragoni. Per esempio che differenza c’è fra dispotismo e totalitarismo? Non l’avessi mai fatto. Non

c’è nessuna differenza. Neanche con l’assolutismo, d’altronde. Perché nell’era del relativismo tutte

le cose si equivalgono et convertuntur. Ovvero, è la notte in cui tutte le vacche sono nere (Grazie

Hegel). Quali siano i caratteri strutturali del totalitarismo, se esistano altre forme di totalitarismo, se

ciò che è proprio del totalitarismo sia l’ideologia, cosa s’intenda per ideologia, tutto si riduce a un

colloquio con me stesso. Riprendo una sua affermazione – “gli ideali del nazismo”- e gli chiedo di

chiarire questa espressione quantomeno equivoca. Gli faccio notare che altro è l’ideologia (la logica

di un’idea, come afferma acutamente Hanna Arendt) altro l’ideale (che esprime in qualche modo un

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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene

orizzonte di valore). Forte di questo chiarimento e di questa imbeccata, il povero Romeo conclude

che fra gli ideali del nazismo vi era dunque lo sterminio degli ebrei.

Hitler sarebbe stato assolutamente d’accordo con lui sul termine ideale. Lo invito cordialmente a

procedere nella sua esposizione (?) interloquendo con altri insegnanti. In compenso mi rifaccio nella

lunga attesa con la lettura della poesia di Montale La primavera nazista che non conoscevo. Questa

sì deve avergliela imbeccata la prof di italiano. Grazie Romeo.

Alla fine del colloquio, alla domanda di rito: cosa farai da grande? Risponde dopo una breve

esitazione e un sorrisino appena accennato, forse un po’ beffardo e certamente un po’ ironico,

rivolgendosi a me con lo sguardo:

- Beh, adesso che ho finito posso dirlo: lettere.

Forse non aveva capito che io insegno storia e filosofia e non lettere. Ma forse anche qui il

relativismo impera, uno e l’altra si equivalgono. La commissaria di lettere che già durante la

correzione della prima prova e nel colloquio aveva avuta la possibilità di apprezzare le sue

indiscutibili doti letterarie, sbianca.

Lorella la ricordo per i suoi capelli biondi, molto curata come può esserlo una ragazza della

sua giovane età, con tanto di piglio scarmigliato e un po’ ribelle. Vista da vicino presenta un profilo

dei denti segnato da quella tipica ombreggiatura che si stampa nelle fumatrici e nei fumatori. Per il

resto appare ben compiuta per attributi fisici. Tema del suo percorso: Il bambino.

Quattro idee ben confuse su Freud. Rapida presentazione delle tre fasi, orale, anale, fallica.

Complesso edipico. La poetica del fanciullino in Pascoli.

Con il senno di poi devo dire che è stato un tema molto gettonato. Mi sembrava di essere tornato

alle magistrali. (O forse avevano sbagliato scuola loro?). Per il resto, non ho niente da scrivere su

quanto ha detto. Perché non ha detto niente. Come non ha detto niente? Che cosa è accaduto,

dunque in quell’interminabile ora? Per fare delle domande occorre del tempo….e il tempo passava.

Per riformularle occorre altro tempo. E il tempo passava. Se si danno cenni di assenso si può

persino pensare che capisca e che sappia. Ci guardiamo imbarazzati. La vorremmo fermare. Mi

oppongo al solo pensiero. Qual è la differenza fra questa situazione e quanto esaminato prima? In

un eccesso di saggezza il consiglio mi segue.

Stefania presenta come tema del suo colloquio “La percezione del tempo e dello spazio”. A

parte l’espressione usata “la scoperta tecnologica dell’orologio da taschino” cerco di non metterla

troppo in difficoltà. In fondo è una ragazza studiosa, almeno così mi dicono. Non ho ragione di

dubitare. La ragazza è tesa. Si vede che è un po’ sciupata. Il caldo e l’umidità disegnano sulla sua

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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene

fronte delle minuscole perle. Mi presenta persino Kant e l’Estetica trascendentale. Non male.

Passiamo a storia.

- Cosa accade il 25 aprile?, domanda formulata male, me ne rendo conto. Preciso subito un po’

meglio:

- Cosa accade il 25 aprile 1945? E’ un giorno in cui tutti gli studenti stanno a casa. Vi sarete pure

fatti una domanda. Anzi, è una festa nazionale, che dico, una festa civile.

L’indizio dell’anno apre una finestra inaspettata, una via di fuga. “Ho la possibilità di rispondere”

pensa fra sé. “Nel 1945 finisce la guerra”.

La incoraggio:

- Sì, è così. Ma perché proprio il 25, un giorno così preciso, in fondo… E’ una pura convenzione,

c’è qualche episodio che ha assunto un valore simbolico? Cerco di darle una mano: si chiama anche

festa della liberazione…

Il suo viso si illumina:

- Dunque è la festa della liberazione dei prigionieri.

Stefania cerca di scrutare il mio viso, ma non posso darle cenni di assenso.

- Non è proprio così, le rispondo. Mi sento un po’ come un carnefice che non ha pietà della sua

preda, ma non la voglio metterla in difficoltà. In fondo sta facendo un esame di stato (per giunta) e

questo implicherebbe farle ripetere l’anno. Non si può bocciare perché uno non sa la data, via. A un

certo punto il suo viso di illumina. Ecco la ragione:

- il 25 aprile sono stati liberati gli ebrei!

A Luca mancano 18 punti. Percorso: la percezione del tempo e dello spazio. Tema già visto, direte

voi. Capita. Ma questa volta l’autore scelto in filosofia è Bergson. Ci sta. Mi dice qualcosa di

accettabile sul tempo spazializzato della fisica e sul tempo come durata. Nulla di trascendentale.

Passiamo a storia. Dopo il precedente meglio non osare troppo. Chiedo al nostro:

- Cosa si festeggia il 4 novembre e in memoria di che cosa?

Suggerimenti del presidente.

- Io abito in via dell’a..a…ar… Lo sguardo di Luca rimane attonito. Il presidente completa:

- Armistizio.

Luca per confermare che c’è sul pezzo:

- ah sì, l’armistizio della guerra.

- Quale? Giusto per verificare…

- La seconda…

18 punti e non se ne parli più!

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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene

Carla esordisce al colloquio con un verso poetico che dà anche il titolo dell’argomento da lei

prescelto “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” Il titolo dovrebbe cogliere un argomento, un

tema, un problema, un nodo che stringa più materie. Dopo la poesia pura di Ungaretti, la sua

partecipazione alla prima guerra mondiale, un breve approfondimento sulla Strafexpedition, cerco

un aggancio con il tema della caducità del vivere in filosofia, l’essere per la morte in Heidegger.

Parlo alcuni minuti con me e un 18 non si nega a nessuno. In fondo tra scritti e credito scolastico

aveva accumulato ben 42 punti!

Lorenzo affronta un tema impegnativo e affascinante: la ricerca della felicità. E’ stato un

buon profeta. La ricerca della felicità, come ho già ricordato, è una delle tracce che il ministero ha

dato nella prima prova! Ma Lorenzo non l’ha svolto. Troppo facile trattare allo scritto un tema che

sarà oggetto di discussione all’orale. Gli autori che porta sono Kierkegaard, Schopenhauer e

Leopardi. Il presidente mi sussurra:

- Come è noto, i campioni della felicità!

Dopo il colloquio, che non sto qui a riassumere, passiamo alla discussione della Terza prova e in

particolare alla seconda domanda che era stata proposta: Quando fu firmato il patto Molotov-

Ribbentrop? Luca aveva scritto qualcosa del tipo “Delle misure a favore della Serbia dopo che la

Russia si era avvicinata ad essa in seguito all’attentato di Sarajevo”. Cosa c’era da chiarire?

Lorenzo mi ribadisce il concetto. Chi può capire capisca!!!

Angela è una ragazza modesta (in senso cognitivo), come molte di quelle che abbiamo visto.

Ma è molto dolce. Il suo sorriso e il suo sguardo ti cercano come per un approdo a un porto sicuro.

Si vede che è un po’ smarrita, svagata, come se avesse camminato tanto tempo, ma senza una

direzione sicura. Come si fa a non guardare con simpatia totale una ragazza così? I suoi bei capelli

sono ricci e curati, la pelle omogeneamente abbronzata e quasi olivastra. Propone un argomento che

è quasi uno dei topoi del Liceo delle scienze sociali e del liceo socio-psico-pedagogico: La donna

nella società di massa. Naturalmente qui siamo in un liceo scientifico e francamente, a parte

Umberto (di cui non abbiamo parlato) che ci ha presentato come tema “La morfologia dei colli

Euganei” e Giulia (indimenticabile!), che ha presentato un lavoro –ben fatto, devo dire- sulla

fusione nucleare, non ricordo altri che si siano cimentati in un argomento di area scientifica. La

bella Angela espone dunque il suo argomento. La breve tesina presenta una discreta bibliografia

(manuale in uso, ma anche il buon testo di Duby e Perrot, La storia delle donne) e tanto di sitografia

(immancabile wikipedia). La ascoltiamo volentieri. Inizia con le suffragette etc etc. Dieci minuti

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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene

scorrono via leggeri Le mancano venti punti all’orale per arrivare a 60. Ovvero una interrogazione

che sia valutabile con la sufficienza. Meglio non metterla troppo in difficoltà. Soprattutto, meglio

non uscire dal percorso. Le chiedo, dunque, qualcosa di attinente al titolo.

- Cos’è la società di massa? Sapresti darmi una definizione o descrivere qualche carattere

strutturale, insomma, le caratteristiche della società di massa, - aggiungo subito per non darle

l’impressione di parlarle in modo difficile?

Mi guarda con stupore, un po’ trasognata. Cerca le parole adeguate

- La società di massa, sì, dunque.. tipo quella…

Ecco, mancava solo l’interiezione “tipo” per chiarire un concetto che meriterebbe ben altro. Ma

tant’è… più in là non si va. In filosofia i sarebbero potuti inserire autori come Le Bon, Freud,

Ortega y Gasset. La povera Angela non ha previsto nulla di tutto questo. Le faccio una domandina

su Freud giusto per avere qualche cosa da scrivere sulla celebre scheda.

- C’è un aspetto caratteristico, messo in evidenza da Freud, sull’individuo moderno, che vive

immerso nella società di massa?

Le do un suggerimento: le nevrosi. Già. Ma cosa sono?

Guardo e ascolto il prosieguo del colloquio con gli altri professori che si svolge come se si trattasse

di soliloqui plurimi. Alla fine anche venti punti di colloquio non si negano a nessuno. Evitiamo il

bagno di sangue, è la parola d’ordine.

Marta presenta come argomento della sua tesina (anche se non si chiama più così): “L’Imperialismo

in Africa”. Originale, non c’è che dire. Si presta a notevoli agganci sia filosofici che letterari. I

colleghi mi guardano e il messaggio in codice è “occupati di questo perché è un argomento storico”.

Infatti è solo storico. La studentessa non ha previsto nient’altro. Le chiedo se conosce un autore in

ambito filosofico e politico che ha riflettuto sull’imperialimo. Naturalmente mi attendo come

risposta Lenin che ha scritto il celebre Imperialismo fase suprema del capitalismo. Giulia mi

risponde :

- Marx.

- E perché?

- Perché Marx denuncia lo sfruttamento del capitalista nei confronti del proletariato.

Certo. L’analogia c’è tutta. I paesi dell’Africa sono i proletari e i paesi capitalisti gli sfruttatori.

Viva Marx!

Federica è una bella ragazza. Mora, questa volta. Presenta un ovale del viso che sembra disegnato

da Leonardo. I capelli neri lisci, taglio moderno, mentre parla li accarezza, li muove sinuosamente.

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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene

Se non fosse che è un esame, si potrebbe pensare che stiamo facendo i preliminari di qualcosa

d’altro. L’angoscia è il tema che ha scelto. Non mi sembra in realtà per niente angosciata. Il suo

parlare è fluido. Finalmente. Discute diversi filosofi con apprezzabile chiarezza. Chissà quali sono

le sue fonti, mi domando. Cerco nella su tesina, ma non sono indicate. A un certo punto mi dice che

- Kierkegaard riconosce nella fede l’unica via di fuga dall’angoscia: nella fede si risolve il nulla

poiché l’uomo delega a Dio la propria possibilità […] Abramo si affida a Dio, delega a Lui la

possibilità, quella di peccare, di sacrificare il figlio Isacco.

Le faccio notare che la libertà non è qualcosa che si possa delegare e questa non è una

comprensione adeguata del pensiero di Kierkegaard. Dove abbia attinto queste osservazioni rimarrà

per me un mistero. O forse, si è limitata a proporre quello che aveva nei suoi appunti, secondo

l’indiscutibile principio: quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur….

Comunque sono stati 10 minuti indimenticabili!

Antonello ci propone come tema: La bomba atomica. Anche questo è un percorso che

potenzialmente aprirebbe molte strade di ricerca e potrebbe coinvolgere le diverse materie in modo

interdisciplinare. Potrebbe. Ma ormai ci siamo rassegnati. Alcune notizie di storia. Meglio non

parlare di ricostruzioni, riletture, approfondimenti. Infatti, dopo i consueti dieci minuti che il

candidato ha a sua disposizione per esporre il suo argomento e che potrebbe essere il luogo del suo

approfondimento faccio ad Antonello questa domanda:

- Quali sono le tue fonti?

- Sono andato in biblioteca e ho trovato un manuale di storia.

- E chi sono gli autori?

- Non lo so.

Cosa ti aspettavi, caro professore, penso fra me, che andasse in libreria o in biblioteca a leggersi

qualche saggio e/o monografia? D’altronde, anche la bistrattata (da me) Wikipedia offre una nutrita

bibliografia su questo tema. Già, ma cos’è la bibliografia? Un elenco di libri di cui altri si sono

occupati.

Richard ci propone come tema: “Le regole. Regole morali e pratiche”. Come gli sia venuto in

mente questo tema avrei voluto chiederglielo. Ma avevo un po’ timore ad essere politicamente poco

corretto. Oggi come oggi, infatti, le regole a scuola vanno molto di moda. Non parliamo poi

dell’educazione alla legalità, noto cavallo di battaglia di certo mondo politico che ha fatto della

scuola il luogo dove veicolare i suoi valori. Quali? Le regole, appunto. Il legalismo come valore in

sé. Il formalismo in perfetta salsa kantiana. Anche Richard prova a sguazzarci un po’, anche se nel

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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene

suo discorso introduttivo, non ho capito bene perché, fa riferimento a un presunto medioevo

dogmatico in cui gli uomini di scienza si trinceravano dietro il dogmatico (appunto) ipse dixit.

- Conosci qualche nome di qualche famoso uomo di scienza del medioevo, lo punzecchio.

Lo vedo un po’ imbarazzato. Non gli viene in mente nessuno anche perché non conosce nessuno.

Ha usato uno dei soliti luoghi comuni al cui interno non corrisponde un solo fatto, un solo nome.

- Dunque- gli rispondo- mi sembra più dogmatica la tua affermazione che non la scienza dei

medievali!

La domanda di storia non poteva non vertere sulla Costituzione italiana, la gran madre di tutte le

leggi. Quando viene elaborata, quando viene promulgata, quali sono i principi che la ispirano, quali

sono le concezioni culturali da cui è attraversata? Richard, stranito da questo incalzare di domande,

si mette a parlare dello Statuto Albertino. Lo invito a lasciar perdere questo tema, anche perché il

tempo a disposizione è molto breve. Ma il bandolo della matassa ormai è perduto. Tolto lo Statuto

Albertino (forse solo sussurrato) non rimane alcunché, alla faccia del novecentismo imperante, alla

retorica dell’educazione alla cittadinanza, alla legalità, alla retorica della testa ben fatta (e vuota).

Quello con Caterina è uno dei colloqui più divertenti se visto nella sua dimensione surreale e

grottesca. Già il titolo sprizza di vibrante originalità: la follia. Classicamente –nell’immaginario

degli studenti, perlomeno, l’autore di riferimento è Freud. Francamente non l’ho mai capito perché.

Forse perché ha abbattuto il confine fra normalità e malattia. Già, quindi, in realtà siamo tutti malati

e un po’ nevrotici e quindi un po’ pazzi. Naturalmente Caterina non entra in questa querelle. Freud

è l’autore che tematizza la follia e non bisogna aggiungere alcunché. Semmai la novità è la teoria

esposta nei Tre saggi sulla teoria sessuale nella sua forma tipicamente manualistica: fase orale,

anale, fallica. Ricordate? Ma il vero colpo di genio si manifesta nel momento in cui Caterina mostra

l’emanciparsi di Freud dalla medicina ottocentesca. Ciò che la caratterizzava -mi spiega la

giovanotta- è l’uso di psicofarmaci. Ora capisco. Le faccio una domandina su uno dei cardini del

freudismo, ovvero quello che viene detto il determinismo psichico. Mi guarda stupefatta. Che cosa

sarà mai? Cerco di orientarla. Cosa significa determinismo? Tenta qualche improbabile risposta

desunta dal senso comune o da un’analisi etimologica improvvisata. Giusto per completare il

quadro su Freud le faccio una domanda veramente difficile. Se il determinismo –e così glielo spiego

in due battute- implica la conoscenza dei fattori antecedenti inconsci che vanno a determinare il

quadro della nostra vita psichica cosciente, si può dire che vi è in lui un retaggio di tipo positivista?

La risposta va da sé. Naturalmente è un quesito che pongo a me stesso, giusto per soddisfare quel

compiacimento narcisistico che alberga in noi insegnanti. D’altronde, alla domanda finale:

- Quali sono le tue fonti?

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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene

- Gli appunti delle lezioni.

Capisco che dovevo star zitto e ascoltarla semplicemente, senza aggiungere alcunché. D’altronde,

appunti o no, quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur…

Non posso lasciarla andar via senza una breve domanda di storia. Le chiedo cosa è accaduto nella

famosa notte dei lunghi coltelli. Tra l’altro, è divenuta un topos del redde rationem. Mi risponde

con scioltezza.

- Nel giugno del 1934…, -sa pure la data penso...-vengono eliminati i Rom.

Forse ho capito male io l’articolo “i”. Forse lo sta usando per definire in senso figurato Rhom e i

suoi scagnozzi delle S.A. Le chiedo quindi di chiarire se si tratta di un singolo individuo (Röhm,

appunto capo delle Sturmabteilungen) o il gruppo etnico dei Rom. Convinta mi risponde questi

ultimi. D’altronde è pur vero che insieme agli ebrei furono eliminati rom, zingari e omosessuali.

Comunque certe decodifiche aberranti attestano che a lezione c’è stata e qualcosa le è pure entrata.

Come quando, di lì a poco sentirò parlare del Paradiso di Dante come locus amenus!!!

Abbiamo trascorso quasi due settimane così, iniziando i colloqui alle 8 del mattino e chiudendo alle

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questa vita è vita-vita, cioè vita con un senso, oppure quella stessa vita subisce una triste

metamorfosi: diviene come l’acqua che passa tra le nostre dita. Al di là degli esiti poco consolanti

che ho cercato di documentare rimane per me un’esperienza fondamentale aver intercettato anche

solo per poco la vita di questi giovani. Non sappiamo cosa farà domani Michela, Richard, Andrea,

Caterina. Se i loro desideri si adempiranno nei termini in cui si sono espressi di fronte alla fatidica

(e liberatoria) domanda finale: “cosa farai da grande”? Certo che, considerando il livello di

superficialità e fragilità dei nostri esaminati, non sarà desiderabile incontrarli in qualche reparto di

ospedale come medici; non sappiamo nemmeno se case, ponti e strade reggeranno alle sollecitazioni

(sulla base dei loro calcoli, data la poca familiarità con la matematica) qualora qualcuno volesse

fare l’ingegnere. Ci auguriamo che l’università, la società, il lavoro costituiscano per tutti il terreno

per una verifica di quello che si è ricevuto e possano altresì costituire un solido terreno per nuove

acquisizioni. Quello che è emerso è stata sicuramente un’opportunità: per noi come insegnanti, per

loro come studenti. Un’opportunità se non altro per chiedersi: quanto sono cresciuto? Cosa ho

imparato di nuovo? Quale coscienza nuova mi ritrovo? Quale coscienza del mio compito come

insegnante? In quale contesto ci troviamo oggi ad operare? Quale energia, passione, impeto,

capacità di riscossa è richiesta a chi vuol svolgere il lavoro di insegnante? Chi o che cosa può

sostenere l’impeto creativo che questo lavoro esige? A queste domande ha contribuito a rispondere

la semplice presenza dei miei colleghi e ancor più il nostro fisico ritrovarci insieme la mattina

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Antonio Lionello, Gli esami sono finiti. Ed io non mi sento molto bene

dell’ultimo giorno, prima di concludere i colloqui con gli ultimi tre ragazzi. Un dialogo

indimenticabile. E ancora, dopo la fase di scrutinio (perciò a cose fatte e concluse!), siamo stati lì

quasi un’ora a discutere. Di solito gli insegnanti si accapigliano durante! Come funzionari statali, o

come il ragioniere di fantozziana memoria allo scadere dell’ora, non si sono santi che ci tengano.

Ripensando a quei giorni, alle tante volte in cui mi sono sentito dietro quel tavolo uno

scrivano dell’insostenibile leggerezza del nulla, il dialogo di quel mattino è stata quasi una rugiada

non timorosa della calura estiva. Non è stata una sterile lamentazione e una generica

verbalizzazione la stesura di atti procedurali (peraltro previsti) con cui il presidente (e noi con lui)

abbiamo redatto una fitta memoria in cui si dichiarava che il livello bassissimo di preparazione

degli studenti ci aveva per così dire “costretti” ad attenerci ad un livello elementare del colloquio.

Più chiaro di così si muore. Livello elementare significa livello delle elementari!

Se fino a qualche tempo fa consideravo il colloquio d’esame la riedizione del colloquio delle

scuole medie, questa volta il salto generazionale all’indietro e la regressione all’età della latenza, si

sono compiuti vertiginosamente. Esprimere tale valutazione in ordine al livello di preparazione di

studenti di un liceo (quanto meno quegli studenti di quel liceo), obbliga anche la comunità

insegnante a interrogarsi sul proprio lavoro. O si aggregano classi e si promuovono gli studenti in

funzione del mantenimento delle cattedre di insegnamento –e in tal caso gli studenti diventano

inconsapevoli strumenti delle logiche occupazionali- o si ha il coraggio di aiutare gli studenti nello

specifico del proprio percorso di formazione. Non potevamo come commissione d’esame far pagare

quel prezzo agli inconsapevoli studenti. D’altra parte, se non si ha il coraggio di sfidare lo studente

a quella personalizzazione dello studio, togliamo questa finzione giuridica: aboliamo l’esame di

stato e il valore legale del titolo di studio!

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