Due in uno

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Due in uno Billy Cowie traduzione di Gino Scatasta

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Romanzo d'esordio di Billy Cowie

Transcript of Due in uno

Due in unoBilly Cowie

traduzione di Gino Scatasta

Collana I Pavoni

titolo originale: Passenger© 2006, 2010 Billy Cowie

© 2010 Comma 22 srl, Bolognawww.comma22.com

L’editore ringrazia lo Scottish Arts Council per il supporto alla pubblicazione di questo libro.

ISBN 978-88-88960-82-1

Stampa a cura di Stampa Sud S.p.A. - Mottola (TA)marzo 2010

I am a passenger And I ride and I ride

I ride through the city’s backside I see the stars come out of the sky

Yeah, they’re bright in a hollow sky You know it looks so good tonight

Singin’ la la, la la, la-la-la la La la, la la, la-la-la la

La la, la la, la-la-la la, la-la

Iggy Pop, The Passenger

Paganini prediligeva la tecnica Fleischton e forse fu egli stesso a inventarla. Nella suddetta tecnica, il violinista usa la parte morbida del dito, e non la sua

estremità callosa, per fermare la nota, producendo così un suono particolar-mente soave. La tecnica va usata con parsimonia dal momento che, da una parte è estremamente dolorosa, in particolare sulle note alte, e in secondo luogo perché se se ne abusa, anche quella parte del dito sviluppa un callo

e l’effetto si perde. Come accade anche nella vita e nell’amore, commentava il giovane Paganini.

Edwin Müller, The Young Paganini

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Un sibilo. Milan frusta l’aria dopo aver allentato il suo archetto per tirare via la resina. Quasi tutti i suoi colleghi dell’orchestra se ne sono andati dopo la prova pomeridiana, lasciandosi dietro solo pochi ritardatari.

Milan getta uno sguardo verso la sezione dei fiati, ormai vuota. Karen si è spostata un paio di sedie più avanti, dove di solito siede uno dei suonatori di fagotto. Ha la testa rovesciata all’indietro, a intercettare un tenue raggio di sole.

Alza gli occhi. Una finestrella in alto, sul soffitto, lascia passare un fascio di luce, come una specie di riflettore, mentre il pulvi-scolo e la resina ne tracciano il percorso in giù, verso il viso di Karen.

Aspetta questo momento da diverse settimane, ma gli era sempre parso che ci fosse troppa gente intorno. Karen è giap-ponese, avrà una decina d’anni meno di lui. Trentatré o tren-taquattro? Ha un trucco pesante che le dà un’aria kabuki, con i suoi capelli neri lucidi e la frangetta. Milan mette giù l’archetto e si fa strada fra le sedie. Si mette a sedere lasciando due posti vuoti fra loro.

«Ciao. Mi chiamo Milan.»«Ciao.»Karen non apre gli occhi né muove il capo, ma continua a fare

il suo minibagno di sole.«Tu sei Karen?»«Proprio mi chiedevo chi sono.»Che ragazza buffa, pensa Milan.«Ti va un caffè? O qualcos’altro, se preferisci?»

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«Io sì.»Raddrizza lentamente la testa e spalanca gli occhi di colpo.«Perché no?» aggiunge con un sorriso talmente fugace che

Milan avrebbe potuto farselo sfuggire se avesse chiuso le palpebre proprio in quell’attimo.

«Un attimo e metto via il violino.»Milan fa un cenno in direzione della sua sedia.Karen annuisce e riprende la sua posizione, piegando all’in-

dietro il capo e richiudendo gli occhi.«Tu fai fischio quando tu pronto» dice. «Tu sai fischiare, sì?»«Sì. Si avvicinano le labbra e poi si soffia.»Tornando verso il suo posto, Milan incespica in un paio di

sedie, come un ragazzino di dodici anni o il comico Norman Wisdom.

«Tu attento a sedie» cinguetta lei.«Grazie» risponde Milan.Prova la strana sensazione, non del tutto sgradevole, che Karen

sia perfettamente padrona di sé.Partono per un lungo tragitto attraverso le distese desolate di

Mile End in cerca di un posto dove bere un caffè. Il raggio di sole settembrino di Karen sembra essersi disperso e c’è nell’aria un vago sentore di gelo. L’orchestra ha trovato da queste parti un locale per provare a prezzi stracciati, e non c’è da stupirsene. Dove facevano prima le prove, dalle parti di Oxford Street, rischiavano di farsi travolgere da una marea di Starbucks e di Costa. Qui in-vece non ce n’è traccia.

Milan poggia il piede sul bordo del marciapiede e la caviglia cede. Sta quasi per cadere.

«Tu attento, tigrotto» fa lei afferrandolo per il braccio.Milan riprende a camminare zoppicando ma lei non lo lascia.

Alla fine trovano un caffè che si chiama Il Cucchiaio Unto. Milan spera che il nome sia ironico. Purtroppo non è così. Anzi, è lette-rale. Hanno perfino quelle tazze trasparenti che lui odia, con una patina untuosa sopra.

Nonostante questo, tutt’a un tratto si sente stranamente affamato. Forse è un po’ nervoso. Riesce a ordinare un pa-

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nino al formaggio, che gli arriva su un piatto anch’esso traspa-rente, e una specie di cappuccino. Karen si fa portare un caffè normale.

Karen storce la bocca. All’inizio Milan pensa che sia il caffè, ma lei prosegue dicendo: «Sentito mio errore in secondo movi-menti?».

«No» mente Milan. (Pensa di essere bravo a dire bugie, bravo nel senso di abile. Gli sembra quasi di rilassarsi nella bugia, fino a disinteressarsene, come se fosse qualcosa che non lo riguarda. E gli pare che funzioni). Ovviamente se ne era accorto.

Karen capisce che vuole solo mostrarsi gentile.«Tu molto gentile, ma nostro caro direttore a me fatto occhia-

taccia quando saltato quella nota. Tu molto fortunato in folla di violini. Se tu suoni inno americano, nessuno si accorge.»

Con la mano sinistra continua a mescolare il caffè pur non avendoci messo dentro né latte né zucchero.

«Grazie» risponde Milan. «È bello sentirsi importanti.»In effetti ha già provato a suonare vecchi motivi nell’orche-

stra, una volta durante una sinfonia di Brahms, tanto per vedere se qualcuno se ne accorgeva. Il direttore aveva colto una sfuma-tura sospetta, ma senza identificare niente con certezza. Le note sbagliate di Milan si erano diluite in un mare di note esatte. Ma Daphne, la violinista accanto, se ne era accorta subito. «Piantala di cazzeggiare, per favore. Voglio tornare a casa stasera» gli aveva sussurrato senza perdere una nota.

«Tu piace flauti?» gli chiede senza preavviso Karen. Milan si domanda se per caso negli ultimi minuti si è perso dietro ai propri pensieri e, cosa più importante, se Karen se ne è accorta. Concen-trati, si dice.

E le risponde: «Quale flauto? Il tuo o il flauto in generale? O che altro?».

«Flauti in generale.»Non va pazzo per il flauto ma, dato che parla con una flautista

professionista, smussa la sua risposta. E resiste anche alla tenta-zione di scimmiottare la sua pronuncia, frauto. Si sforza di dare una risposta equilibrata.

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«Sai, secondo me certe volte il flauto ha un suono un po’ mel-lifluo, ma nelle mani giuste...»

Karen lo interrompe.«Tu non preoccupa, neanche io piace molto flauto. Io prefe-

risco sassofono.»«Suoni il sassofono?»«Sì, lui stessa diteggiatura di flauto.»«Non di clarinetto?»Sotto l’influenza del giapponese di Karen, ha già iniziato a di-

menticare l’articolo. Fra poco, senza rendersene conto, comincerà ad abusare dei pronomi.

«No, overblow di clarinetto è di quinta sopra ottava, di flauto e sax solo ottava, clarinetto cilindro, sax cono.»

«Ma flauto è cilindrico, no?»Anche se ha dimenticato gli articoli, almeno Milan si tiene

stretto i verbi.«Sì, ma flauto no estremità chiusa.»Milan alza le braccia in segno di resa.«Mi arrendo. Come dici tu.»Karen ride.«Buono vecchio Adolfo...»«Adolfo?»«Adolfo Sax.»«Ah, sì. Quell’Adolfo. Se ci pensi, non ci sono molti Adolfi in

circolazione ultimamente.»«Chi sa perché» dice lei ridendo di nuovo.Segue una pausa imbarazzata. Milan addenta il suo panino.Questo silenzio non va. Milan fa uno sforzo e si ributta nella

conversazione.«Di dove sei?»«Io sono giapponese.» Milan non capisce se lo sta prendendo

in giro o no.«Lo so che sei giapponese. Ma di che parte del Giappone?»«Io di Hiroshima» risponde lei senza battere ciglio.Ahi. Continua come se niente fosse, pensa lui.«Ne ho sentito parlare.»

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«Sì, posto un po’ famoso.»«E così è da lì che vieni. Deve essere una città strana.»«Lei solo grossa città. Come Birmingham, più meno» fa lei

alzando le spalle.«Nel senso, forse non è strano viverci, ma suona strano quando

sei in un altro posto e dici a qualcuno da dove vieni, come hai fatto adesso. Più inquietante di così non ce n’è, no?»

Karen riflette per un momento.«Auschwitz?»Milan è costretto ad annuire.«Sì, forse hai ragione.»Karen guarda l’orologio e si alza di scatto.«Tardi... io faccio tardi... per appuntamento molto importante»

canticchia recuperando le sue cose.Milan si sente assalire da una sensazione sottile di allarme:

qualcosa nel suo tono di voce acuto, nel verbo essere che è scom-parso, in quell’accenno di elle nelle sue erre... è come nel Giovane Holden quando si dice che alcune donne fanno le cose più insigni-ficanti e tu perdi la testa per loro.

Fa un lieve inchino.«Ciao, Milan-san.»«Ci rivediamo» dice lui, con un tono di voce che vorrebbe si-

gnificare non che me ne importi molto, anzi addirittura chi se ne frega se non ci vedremo mai più.

«Certo, cowboy.» In piedi, beve un ultimo sorso dalla tazza.Milan finisce il panino e il caffè mentre la guarda allontanarsi

con il suo flauto. Passando davanti alla vetrina, lei gli manda un bacio silenzioso accompagnato da un sorriso accennato.

Le undici del mattino dopo. Andreas si presenta a casa di Milan con un sacchetto pieno di cornetti. Sulle scale scavalca come al solito le pile di fogli.

«Un giorno qualcuno ci rimetterà la pelle su queste scale e tu finirai in prigione.»

Milan cambia argomento.«Hai qualcosa di diverso. Occhiali nuovi?» Andreas indossa

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dei costosi occhiali di marca e ne compra sempre di nuovi. Ha un paio di anni meno di Milan ed è sempre in tiro.

«Niente male, no?»«Fashion victim.»Andreas ci pensa sopra per un po’.«Meglio vittima che fuori moda.»Milan prepara il caffè. Si siedono, sul balcone, di cui Milan

va molto fiero. Un appartamento con un balcone al centro di Londra: si è mai sentita una cosa simile? E per di più in affitto a un musicista squattrinato. Però fa un po’ freddo.

Andreas mette due cucchiaini di zucchero nel caffè. Si accorge che Milan non è del solito umore.

«Sembri contento.»«Ho conosciuto una persona.»«Ti dispiacerebbe darmi qualche dettaglio?» Andreas tira fuori

un taccuino immaginario e una matita di cui lecca diligentemente la punta.

«Sesso femminile.»«Femminile» ripete Andreas, trascrivendo coscienzioso.«Suona il flauto, si chiama Karen, è giapponese.»Andreas ascolta e trascrive. Poi si ferma a riflettere.«Karen. Non sembra un nome molto giapponese.»Prova a dirlo con la elle al posto della erre. «Kalen va meglio?»

Andreas non è ancora soddisfatto.«Forse suo padre era un fan dei Carpenters» spiega Milan.Andreas riceve questa informazione e risponde con un paio di

versi a caso da Calling Interplanetary Craft. Milan non gli presta la minima attenzione e alla fine Andreas passa ad altro.

«Barla anglese? O si esprime nella lingua internazionale dell’amore?»

Andreas modula la voce in una passabile imitazione di Barry White. È decisamente in forma questa mattina. Quasi esasperante.

«Finora mi ha concesso solo il suo inglese. Sospetto che parli la lingua internazionale dell’amore e suppongo anche un po’ di giapponese, ma per ora non mi ha ritenuto degno dell’uno né dell’altro.»

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Andreas trascrive, mormorando silenziosamente «Niente di notevole da segnalare, finora» e chiude di scatto il suo quaderno immaginario.

«Allora di che avete parlato?»«Auschwitz, Hiroshima e Adolphe, solite cose.»Andreas annuisce con l’aria di chi la sa lunga.«Sempre meglio star dalla parte dei bottoni quando si fa con-

versazione al primo appuntamento.»«Non so se si può definire un appuntamento» risponde Milan

con vaga mestizia.Si appoggiano entrambi allo schienale della sedia. Milan pensa

che anche per quest’anno i giorni da passare in balcone stanno per finire.

«Allora, dove eravamo rimasti?»«Mi ha mandato un bacio»«Promettente.»«E un’altra cosa. C’è qualcosa nel modo in cui parla che mi

ricorda la ragazza del film Gregory’s Girl.» Milan pensa a come lo ha chiamato, cowboy e tigrotto, e forse anche a una certa aria scherzosa.

Andreas scuote il capo con aria disperata.«Temo che sarà letale. Non hai la minima possibilità di so-

pravvivere se è brava con quei trucchetti. Arrenditi e spera per il meglio.»

Sono rimasti un cornetto al cioccolato e una brioche a pira-mide con la crema. Milan li divide a metà per evitare discussioni.

Poi fa un’ultima domanda.«Cosa significa san?»«San?»«Quando mi ha salutato, mi ha chiamato Milan-san.»Andreas riflette per un momento.«Direi signore, o un segno di rispetto, credo. Di sicuro era iro-

nica.»«E va bene. Fuori di qui.» Milan spalanca la porta del balcone.

«Non ti ho invitato in casa mia per farmi insultare.»Andreas non si muove.

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«A dire il vero non mi hai invitato proprio.»«Esatto. Proprio così.»

Il concerto serale è terminato, ed escono lentamente dal Fe-stival Hall. Milan si fa strada fra i violinisti e raggiunge Karen. Non le ha più rivolto la parola dopo il caffè insieme.

«Ti va di andare a bere qualcosa?»Un momento di suspense. Lei si gira piano.«Mi dispiace, ma io già impegnato con primo trombone.»Milan è già preparato a una risposta del genere e reagisce auto-

maticamente prima ancora che lei abbia finito la frase.«Ah, va bene, non importa.» Si sta già allontanando quando

vede qualcosa di strano nell’espressione del suo viso.«Io scherzo. Vengo volentieri» dice lei ridendo.È una bella risata. L’abito nero da concerto le dona. Niente

errori con il flauto stasera. Sembra sollevata, allegra e sicura di sé. E sta andando a bere qualcosa. Con lui, per di più.

Mentre sono diretti al pub, a Milan viene in mente che il primo trombone è una donna. Piccola, astemia, con labbra nor-mali, perfettamente conformate. In effetti, l’esatto contrario del tipico suonatore di trombone. Milan si chiede se questo pensiero sia sessista (probabile), dimensionista (più che probabile), trombo-nista (sicuro).

Finiscono allo Yellow Caravel, un pub nautico con reti e alghe dappertutto, ma soprattutto dotato di separé. Cosa ancora più im-portante, è un locale dove gli altri dell’orchestra non vanno mai. Bevono tre pinte di birra a testa.

«Pensavo che i giapponesi non bevessero tanto. Qualcosa a li-vello genetico...»

Lei vuota il boccale sprezzante e si pulisce platealmente la bocca con la manica.

«Tu visto che roba.»Milan fa l’una e l’altra cosa.«Quindi immagino che ti piaccia anche il latte.»Lei fa una smorfia di disgusto.

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«No, latte no. Mi fa vomito solo pensiero.»«Bene, allora niente latte.»Karen fissa il bicchiere vuoto, sembra in attesa di qualcosa.Milan decide che un momento vale l’altro.«Posso darti un bacio?»Si sente in dovere di chiederglielo. Nei film, nei libri e simili

non si chiede mai il permesso: sembra che due persone si guar-dino telepaticamente negli occhi e finiscano l’uno nelle braccia dell’altra. Liscio come l’olio. In effetti, hanno già letto la sceneg-giatura, sanno quale sarà la battuta successiva, sanno cosa sta per accadere. Ma che succede se ti butti per primo perché ti sei fatto un’idea completamente sballata mentre l’altra persona sta pen-sando a tutt’altro e all’improvviso qualcuno si profila minaccio-samente davanti a voi? Non sarebbe un po’ imbarazzante? Meglio chiedere, così l’altra persona può dire semplicemente no, grazie e tu puoi riprendere al volo la conversazione e non tornare più sulla questione. Mai più.

«Sì» risponde lei.Si baciano.

Tre ore dopo Milan e Karen sono distesi in uno stato di batitudine postcoitale (forse non è proprio beatitudine ma quanto meno un benessere postcoitale) nel letto dell’appartamento di lei, dalle parti di Earl’s Court.

«Io ho sentita che eri sposato» gli dice all’improvviso.Allora si è informata, pensa Milan.«Lo sono ancora, tecnicamente» risponde.Milan ha un fremito. È stato troppo precipitoso?«Cosa successo?»«Alice. Si chiamava Alice. Mi ha piantato, se ne è andata, tanti

saluti e via.» Non entra nei particolari.

Il giorno dopo c’è una prova importante. Milan quasi si ad-dormenta nel bel mezzo della prova, cosa alquanto sorprendente dato che stanno preparando la Sagra della primavera e la sezione percussioni ci dà dentro più del necessario a pestare e battere.

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Daphne ogni tanto lo pungola con una battuta.«Troppo letto senza dormire?» insinua con un lampo malizioso

negli occhi.Milan fa spallucce mentre la stanchezza a volte emerge a volte

soccombe nella sua testa ai postumi della sbornia.«Le novità viaggiano in fretta a orchestrilandia, a quanto

pare.» In realtà non c’è da sorprendersi dato che è arrivato in ritardo, incerto sulle gambe, insieme a Karen, tutti e due sem-bravano ancora ubriachi. «A dire il vero è che non ho dormito bene. E non per quello che pensi. O almeno non solo per quello che pensi.»

Daphne suona nell’orchestra accanto a lui da tre anni. La prima volta che si sedette vicino a lei, Milan le chiese di uscire. Va bene, rispose lei, ma non ti dispiace se porto anche mio marito e i miei due bambini, vero? Oops. Da allora sono sempre stati vi-cini nella sezione dei violini, dove, come in una corsa ippica, tutti vogliono finire in prima fila. Loro sono riusciti a spostarsi di tre file in avanti. Non proprio fino al seggio del direttore, che è già assegnato in pianta stabile. Se però riesci a sederti vicino a lui e lui viene investito da un’auto, sarai tu a sostituirlo, a stringere la mano a Rostropovič, a prenderti la tua parte di applausi e suonare l’assolo di Lark Ascending.

Daphne è seduta all’esterno, come è naturale, più vicino al pubblico. Per l’orchestra è sempre un problema il fatto che ci siano poche donne, quindi quelle che ci sono vengono sempre messe in evidenza, un po’ come quando compri un sandwich con l’uovo e l’uovo è tutto vicino al bordo ma in mezzo c’è solo una foglia mi-nuscola di insalata. Daphne è l’uovo e io sono la foglia di insalata, immagina Milan.

«Goditela finché dura» risponde lei con un pizzico di invidia. Milan pensa che forse avrebbe dovuto insistere con lei anni fa. Comunque, Karen lo ha invitato a cena questa sera.

Karen abita in un appartamento minuscolo. Questa volta Milan ha modo di guardarsi meglio intorno. La stanza principale della casa è spartana nella sua semplicità.

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«Moshi moshi, Karen-san» le dice Milan. Ha sentito quell’espressione in un film.

«Moshi moshi» risponde lei ridendo.«Ho sbagliato?» chiede Milan.«Non sbagliato, fa carino. Tu dici moshi moshi quando ri-

spondi telefono.»Milan ha portato dei fiori e del vino.«Non hai molti mobili e cose del genere.»Karen inizia a disporre i fiori.«Io appena trasferita.»Milan annuisce. Pensa che se lei abitasse qui da tre anni, di

mobili non ce ne sarebbero molti di più.Karen gli versa un bicchiere di vino, poi comincia a cucinare.«Io buona notizia» annuncia lei dalla minicucina.«Che notizie?» le grida lui di rimando.«Due giorni prima, io andata via, tu ricordi, per audizione con

altra orchestra.»Speriamo che sia un’altra orchestra di Londra, è il primo pen-

siero che gli viene in mente.«Ma hai appena iniziato con la nostra.»«Altra, orchestra di musica antica. Io suono flauto di legno.»«Ti hanno preso?»«Sì, io appena saputa.»Milan si infila nello spazio ristretto dietro di lei.«Presumo che dovrei congratularmi, allora. Quando co-

minci?»«Rimane quattro settimane da fare con tua. Forse io posso tro-

vare posto con mia nuova a te?»Milan scuote il capo.«No, non fa per me, grazie. Il mio vibrato non potrebbe risal-

tare in quell’autentica bolgia.»Milan è sollevato quando scopre che quella banda di musica

antica è di Londra, ma prova comunque un senso di vaga delu-sione. Aveva già immaginato un futuro in tournée senza più stanze d’albergo singole e solitarie.

Mangiano una zuppa e poi il sushi che ha fatto Karen.