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1 I I d d o o m m e e n n i i c c a a d d i i Q Q u u a a r r e e s s i i m m a a C C Dt 26,4-10; Sal 91; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13 Prima Lettura Dt 26,4-10 Professione di fede del popolo eletto. Dal libro del Deuteronòmio Mosè parlò al popolo e disse: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, J. Tissot (1836-1902), Tentazioni di Gesù, 1894 al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio». Seconda Lettura Rm 10,8-13 Professione di fede di chi crede in Cristo. Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato». Vangelo Lc 4,1-13 Gesù fu guidato dallo Spirito nel deserto e tentato dal diavolo. Dal vangelo secondo Luca In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

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III dddooommmeeennniiicccaaa dddiii QQQuuuaaarrreeesssiiimmmaaa CCC

Dt 26,4-10; Sal 91; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13 Prima Lettura Dt 26,4-10 Professione di fede del popolo eletto. Dal libro del Deuteronòmio Mosè parlò al popolo e disse: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, J. Tissot (1836-1902), Tentazioni di Gesù, 1894 al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio». Seconda Lettura Rm 10,8-13 Professione di fede di chi crede in Cristo. Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».

Vangelo Lc 4,1-13 Gesù fu guidato dallo Spirito nel deserto e tentato dal diavolo. Dal vangelo secondo Luca In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

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La pprriimmaa lleettttuurraa (Dt 26,4-10) è tratta dal quinto libro della Torah, Dibrê o Dübärîm «parole, Deuteronomio», che riporta il cosiddetto «credo storico di Israele». Ogni anno l'agricoltore doveva presentare al Signore, durante la festa di šäbù`ôt «settimane, Pentecoste», le primizie del raccolto (cf Es 22,28; 23,19), simbolo della restituzione a Dio di quanto ricevuto. In tale occasione doveva pronunciare una formula liturgica, con la quale professava la sua fede, ricordando gli atti salvifici compiuti dal Signore in favore del suo popolo: la chiamata di Giacobbe/Israele in Egitto, il dono della libertà nell'esodo, l’ingresso nella terra promessa. Poi avrebbe gioito di quanto aveva portato, condividendolo col levita e col forestiero. In 26,5b-9 troviamo il nucleo fondamentale della fede primitiva (cf 6,20-24; Gs 24,2-13). Il nostro brano sottolinea la fede in Dio: da lui viene ogni sostentamento e perciò a lui va rivolta la riconoscenza e ogni forma di culto. Dt 26,4: Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, (wüläqaH haKKöhën ha††eºne´ miyyädeºkä wühiºnnîHô lipnê mizBaH yhwh(´ädönäy) ´élöhʺkä, lett. «E prenderà il sacerdote il cesto dalla mano tua e deporrà esso davanti all’altare di Adonay Dio tuo»), - Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani (wüläqaH haKKöhën ha††eºne´ miyyädeºkä). Il sacerdote poneva la sua mano sotto quella dei proprietari e compiva l'atto della «agitazione della cesta» (bMakkot 18b; bSukkot 47b; Sifre 300; Rashì). Secondo Dt 18,4, le primizie dei frutti sono una prerogativa dei sacerdoti, che ricevono l’offerta dalle mani dei fedeli. L'atto della consegna della cesta con le primizie è accompagnata da una dichiarazione solenne. Il fedele riconosce che Adonay è stato fedele nel donare la terra promessa, da cui il popolo raccoglie i frutti. L'atto di presentare un’offerta non è quindi un episodio privato, ma serve per fare memoria di tutta la storia della salvezza. La dichiarazione del fedele non è fine a se stessa, ma è completata dall’atto concreto dell’offerta. Il †eºne´ «cesto» (nm.msc. 4x TM: Dt 26,4) con le primizie è consegnato al sacerdote che lo depone davanti al mizBëªH «altare» (nm.msc. 401x TM: Gn 8,20; Dt 26,4). Il mizBaH yhwh(´ädönäy) «altare del Signore» è menzionato all’interno del codice legislativo del Deuteronomio solo altre 2 volte (Dt 12,27 e 16,21) in un contesto che fa sempre riferimento all’atto cultuale. Il Deuteronomio non descrive la costruzione del santuario come in Es 25-31, tuttavia la citazione dell’altare presuppone l’esistenza del Tempio. 26,5: e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa (wü`änîºtä wü´ämarTä lipnê yhwh(´ädönäy) ´élöhʺkä ´árammî ´öbëd ´äbî wayyëºred micraºymâ wayyäºgor šäm Bimtê mü`ä† wa|yühî-šäm lügôy Gädôl `äcûm wäräb, lett. «e risponderai e dirai davanti ad Adonay Dio tuo: “Arameo errante padre mio e scese in Egitto e soggiornò là con uomini pochi e divenne là nazione grande, forte e numerosa»). - e tu pronuncerai queste parole (wü`änîºtä wü´ämarTä). Il verbo `änâ significa «testimoniare, parlare ad alta voce» (329x TM: Dt 19,18; 26,5) (mSotah VII,1). - Mio padre era un Arameo errante (´árammî ´öbëd ´äbî). L'inizio di questa antica professione di fede è costruito con arte, mediante una triplice allitterazione: ´árammî ´öbëd ´äbî «un arameo smarrito mio padre». L'unico antenato a cui si fa riferimento resta senza nome ed è definito mediante il participio del verbo ´äbad «perire, vagare, essere vicino alla distruzione» (184x TM), perciò ´öbëd significa «smarrito, errante, senza fissa dimora». In tal senso l'errare non indica solo la precarietà, ma anche il pericolo insito nella condizione nomadica. Questa specificazione manifesta lo stato di insicurezza di uno straniero senza terra, costretto a stabilirsi all'interno di un'altra nazione. Questo padre arameo può riferirsi a ya`áqöb «Giacobbe», figlio di madre aramea (Gn 24,10). Secondo Rashì (1040-1105), invece, si riferisce a läbän «Làbano» che «cercò di sterminare tutti quanti, quando inseguì Giacobbe» (cf Sifre 301). Il versetto è interpretato così anche dal Targum Onqelos e dalla Haggadah di Pasqua, secondo i quali «Labano, l’Arameo, cercò di annientare del tutto Giacobbe» (cf Gen 31). La seconda dichiarazione che il fedele deve fare, prima di deporre la sua offerta davanti ad Adonay (Dt 26,10), è conosciuta con il nome di «piccolo credo storico» (Gerhard von Rad, 1901-1971). La struttura del testo in cinque elementi, riportato dal Deuteronomio e pronunziato in prima persona dal fedele, è quella classica che ritorna anche nei Salmi di ringraziamento. Dopo il ricordo di avvenimenti passati (26,5-6), segue il grido del popolo verso Adonay (26,7a), che ascolta (26,7b) e che, di conseguenza, libera dall'oppressione e rende possibile la vita del fedele e di tutto il popolo (26,8-9). La descrizione storica parte da avvenimenti del

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passato, per arrivare a presentare la situazione presente del fedele. Il testo sottolinea non solo la continuità all'interno della storia, ma anche il contrasto tra il passato (il fedele parla usando il «noi», 26,6-9) e il presente (l'orante si mette in gioco in prima persona e usa l'«io», Dt 26,5.10). Il testo è organizzato mediante la ripetizione di tre elementi. L'arameo compie tre azioni: «scendere», «soggiornare», «divenire»; il popolo è identificato con tre aggettivi: «grande», «forte», «numeroso». - scese in Egitto (wayyëºred micraºymâ). «Anche altri vennero poi contro di noi per distruggerci, perché, dopo di ciò, Giacobbe scese in Egitto» (Rashì). - vi stette come un forestiero con poca gente (wayyäºgor šäm Bimtê mü`ä†). Il verbo yärad «discendere» (380x TM) in genere è collegato al sostantivo gër «forestiero, straniero residente». L'uso di parole composte con la radice yrd è significativo, perché ricorrono più volte per indicare la condizione dei patriarchi e quella di Mosè fuggito dall’Egitto (cf Gen 12,10; 15,13; 17,8; 20,1; 21,23.34; 23,4; 26,3; 28,4; 32,5; 35,27; 47,4; Es 2,22; 18,3), che in tal modo diventano modello degli esuli che tornano a casa (cf Gen 12,l-4a; 28,13-15; 31,3; 32,5.10; cf anche Ger 42,15.17.22; 43,2; 44,8.12.14 che usa lo stesso vocabolario per parlare della fuga in Egitto). - Con poca gente (Bimtê mü`ä†). Con settanta persone (Sifre 301). 26,6: Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù (wayyärëº̀ û ´ötäºnû hammicrîm wayü`annûºnû wayyiTTünû `älêºnû `ábödâ qäšâ, lett. «Ma furono malvagi con noi gli Egiziani e umiliarono noi e imposero su di noi una servitù dura»). Anche i micrîm «egiziani» compiono tre azioni: wayyärëº̀ û ´ötäºnû «ci maltrattarono», wayü`annûºnû «ci umiliarono», wayyiTTünû `älêºnû `ábödâ qäšâ «ci imposero una dura schiavitù». 26,7: Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; (wannic`aq ´el-yhwh(´ädönäy) ´élöhê ´ábötêºnû wayyišma` yhwh(´ädönäy) ´et-qölëºnû wayyaºr´ ´et-`onyëºnû wü´et-`ámälëºnû wü´et-laHácëºnû, lett. «E gridammo ad Adonay Dio dei padri nostri e ascoltò Adoany voce nostra e vide umiliazione nostra e pena nostra e oppressione di noi») - Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce (wannic`aq ´el-yhwh(´ädönäy) ´élöhê ´ábötêºnû wayyišma` yhwh(´ädönäy) ´et-qölëºnû). Al grido del popolo che si rivolge al Dio dei padri, fa seguito l'azione divina dello šama «ascoltare» (1160x TM) e quindi il suo intervento di salvezza descritta nei vv. 8-10. Questa culmina nel dono della terra, cui corrisponde la risposta dell’orante, che offre alla divinità le sue primizie. - vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione (wayyaºr´ ´et-`onyëºnû wü´et-`ámälëºnû wü´et-laHácëºnû). Il Signore, infine, coglie tre condizioni del popolo: ´et-`onyëºnû «la nostra umiliazione», et-`ámälëºnû «la nostra miseria», et-laHácëºnû «la nostra oppressione».

26,8: il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi (wayyôcì´ëºnû yhwh(´ädönäy) mimmicraºyim Büyäd Házäqâ ûbizröª` nü†ûyâ ûbümörä´ Gädöl ûbü´ötôt ûbümöptîm, lett. «E fece uscire noi Adonay da Egitto con mano potente e con braccio teso e con timore grande e segni e prodigi»). - ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso (wayyôcì´ëºnû yhwh(´ädönäy) mimmicraºyim Büyäd Házäqâ ûbizröª` nü†ûyâ). Espressione tipica del Deuteronomio per descrivere l'evento dell’esodo dall’Egitto. La yäd Házäqâ «mano potente» di Dio indica il potere che guida e salva, oppure punisce. La züröª` nü†ûyâ «braccio teso» indica protezione per il suo popolo e minaccia per i nemici. Il soggiorno in Egitto, nel Deuteronomio, è visto spesso in maniera positiva (Dt 17,16; 23,8), serve a giustificare alcune leggi che salvaguardano la situazione dello straniero in Israele, ma molto più spesso - come in questo caso - è sinonimo di schiavitù. 26,9: Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele (wayübì´ëºnû ´el-hammäqôm hazzè wayyiTTen-läºnû ´et-hä´äºrec hazzö´t ´eºrec zäbat Häläb ûdübäš, lett. «e fece venire noi verso il luogo questo e diede a noi la terra questa, terra stillante latte e miele»). - in questo luogo (´el-hammäqôm). Il sostantivo mäqôm «luogo» può riferirsi al santuario (Sifre 301; Rashì) o al paese; in base al contesto e allo scopo del brano, quest'ultima accezione è da preferire. Va ricordato che il

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termine ricorre con una certa frequenza nei cc. 1-11 per indicare le piane di Moab, dove Israele è in attesa di attraversare il Giordano. In questo versetto, il redattore segnala il passaggio da Moab alla terra promessa e sottolinea la stretta relazione esistente tra la terra e il luogo di culto. La fertilità della terra fa da contraltare alla situazione iniziale dell'antenato arameo costretto a emigrare. - ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele (wayyiTTen-läºnû ´et-hä´äºrec hazzö´t ´eºrec zäbat Häläb ûdübäš). La coppia alimentare Häläb ûdübäš «latte e miele» è la più citata nell’AT (21 volte), simbolo della terra promessa. Il latte, considerato una bevanda di vita, si addice agli dei. Canaan è definita terra «dove scorre latte e miele» (Es 3,8) per indicare che il nutrimento era in sovrabbondanza. Nel Cantico dei Cantici l’amato dice alla sposa: «I tuoi seni sono come due cerbiatti... c'è miele e latte sotto la tua lingua» (Ct 4,5.11). Dio dice di Gerusalemme: «Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria» (Is 66,11). Nel NT l'immagine del latte significa i primi rudimenti della fede (1Cor 3,2; Eb 5,12s; 1Pt 2,2). La notte di Pasqua, dopo la prima comunione dei neofiti, si offriva loro una miscela di latte e di miele, come segno della loro figliolanza divina e come dono del paese dove scorrono latte e miele. In antichi affreschi cristiani e sui sarcofaghi il Buon Pastore dà alle sue pecore del latte (bevanda della vita eterna). La lode rivolta al seno di Maria (Lc 11,27), ha motivato molto l’iconografia di Maria che allatta. Per gli antichi il miele possedeva forze particolari e serviva a risanare e a scacciare i demoni. Chi mangia il miele ha parte alla beatitudine eterna; così comprendiamo anche le parole profetiche riguardanti il Messia: «Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a rigettare il male e a scegliere il bene» (Is 7,15). Al miele è paragonata la dolcezza della parola di Dio: «Quanto sono dolci al mio palato le tue promesse, più del miele per la mia bocca» (Sal 119,103). Il rotolo mangiato da Ezechiele diviene nella sua bocca «dolce come il miele» (Ez 3,3). Come il miele è buono e dolce al palato, così è la Sapienza per l'anima (Pr 24,13s). Giovanni Battista nel deserto trovava nutrimento nel miele selvatico (Mt 3,4). Secondo i Padri, la roccia che stilla miele è il corpo di Cristo; egli è il fiume di miele nel nuovo paradiso. Secondo Agostino (354-430) è custodita nella Chiesa l'«arnia di Cristo», in cui i figli di Dio succhiano il «dolce miele di Cristo». Gregorio Nazianzeno (329-390) vede adombrata nel «pesce arrostito» dell'ultimo pasto di Gesù con i suoi (cf Lc 24,42) la passione del Signore e nel favo di miele la risurrezione. La scultura dell'«uomo che lecca il miele» di J. A. Feuchtmayer (1696-1770, Santuario di Birnau) non è altro che la personificazione del desiderio della dolce beatitudine del regno di Dio. La fortuna di questa immagine è nella sintesi: il latte era un elemento organico per eccellenza. Il miele era invece percepito come di origine divina. Dunque rappresenta cielo e terra, terreno e ultraterreno. 26,10: Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio (wü`aTTâ hinnË hëbëº́ tî ´et-rë´šît Pürî hä´ádämâ ´ášer-nätaºTTâ llî yhwh(´ädönäy) wühinnaHTô lipnê yhwh(´ädönäy) ´élöhʺkä wühi|šTaHáwîºtä lipnê yhwh(´ädönäy) ´élöhʺkä, lett. «E adesso ecco faccio venire primizia frutto del suolo che dai a me, Adonay. E deporrai essa davanti ad Adonay Dio tuo e ti prostrerai davanti ad Adonay Dio tuo»). - io presento le primizie dei frutti del suolo (hëbëº́ tî ´et-rë´šît Pürî hä´ádämâ). La storia evocata parte da un individuo singolo (Giacobbe o Labano errante), ritorna a un individuo singolo (l'orante che presenta un’offerta al Tempio) e culmina nella descrizione dell'offerta, come atto rituale di adorazione del Signore. La presentazione delle primizie non è quindi un atto fine a se stesso, ma corrisponde alla professione di fede del credente che riconosce in Adonay il Signore della storia, colui che mantiene le promesse e che opera salvezza per il suo popolo. Nel breve sommario storico manca qualunque accenno al tema centrale del Deuteronomio: l'alleanza sinaitica. Il Tempio tuttavia è il luogo in cui si rinnova continuamente l'alleanza tra il Signore e il suo popolo. Il Sinai non viene nominato, ma è presente nelle vicende esodali evocate. - Le deporrai (wühinnaHTô). La dichiarazione con le primizie deve essere compiuta soltanto nel tempo di gioia, cioè da šäbù`ôt «Pentecoste» fino alla festa delle suKKöt «Capanne», perché l'uomo in tale periodo raccoglie il suo provento e i suoi frutti, il suo vino e il suo olio; invece, dalla festa delle Capanne in poi, si presentano le primizie, ma non si fa la dichiarazione (Rashì).

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Il capitolo 26 del Deuteronomio segna la conclusione del Codice deuteronomico e il

secondo discorso di Mosè. L'ampia e articolata promulgazione di tutta la Legge finisce in modo analogo a come era iniziata nel c. 12, con un comando che invita a celebrare un rito nel santuario centrale e a portare lì le offerte. Il c. 26 si pone anche come transizione con la successiva importante sezione del libro, quella delle benedizioni e delle maledizioni contenuta nel c. 28. Il c. 26 è articolato in tre pericopi: i vv. 1-11 e 12-15 presentano due atti liturgici, ciascuno dei quali è accompagnato da una dichiarazione del fedele, che rivela il significato della cerimonia. Le due unità hanno la forma di istruzioni rituali. Nell'ultima pericope, i vv. 16-19, Mosè ritorna all'oggi dei suoi ascoltatori e sintetizza il tema della relazione di alleanza che si sta stabilendo tra Israele e il Signore.

Il nostro brano rappresenta un condensato della teologia storica del Deuteronomio, raccogliendo diversi temi importanti del libro: l'esodo, il dono della terra, la centralizzazione del culto, l'interesse sociale. Pur non essendo una legge totalmente originale, questo è il testo deuteronomico in cui si articolano in modo unico le componenti liturgiche dell'adorazione e la finalità dell'esodo. Va anche sottolineato che il brano, proprio perché si trova in posizione conclusiva nel Codice deuteronomico, è una legge sintetica (come il comandamento del sabato). Nella legge del re (17,14-20), presentando la figura che detiene il massimo del potere si dice che proprio il re deve essere obbediente (il più obbediente). In questi versetti del c. 26 si afferma che quando l'Israelita gode il massimo di potere, perché ha il possesso della terra, proprio in questo momento gli viene chiesta la de-possessione, cioè di rinunciare a ciò che possiede offrendo le primizie e ricordando che occorre vivere il possesso come dono di Dio.

L'offerta delle primizie è inserita all'interno di un pellegrinaggio (vv. 1-2). Si deve andare dal luogo del proprio possesso, dove l'uomo abita, in un altro luogo, quello del possesso di Dio, dove Egli abita. Questo pellegrinaggio è un'esplicita ripresa dell'esodo: quando l'Israelita va nel luogo di Adonay, ricorda la storia che lo ha portato lì. Il pellegrinaggio è dunque un gesto rituale, che qui ha il significato di ripercorrere spiritualmente la propria storia come storia di ricchezza e di bene; il proprio bene, poi, è deposto davanti al Signore. Bisogna portare con sé, come un tesoro, ciò che si è raccolto. La Legge non dice quali primizie, né la quantità: è lasciato all'Israelita di deporre davanti al Signore il frutto della propria storia con un gesto proporzionato. Quando arriva, l'Israelita fa un'affermazione solenne. Egli usa il termine «oggi», presentando le sue parole come un'attualizzazione: è come se l'Israelita entrasse in quel momento nel paese, perché l'esodo si compie quando l'uomo adora Dio sul monte; come l'alleanza, anche l'esodo è per coloro che sono vivi oggi (cf 5,3), perché costituisce l'evento originario di Israele. La dichiarazione è fatta pubblicamente «al sacerdote», testimone di un atto giuridico, l'unico che ascolta e riceve la fede di Israele. Proprio perché egli ascolta la dichiarazione, l'atto si realizza. La dimensione giuridica dell'atto significa il rispetto della comunità in cui il singolo è inserito, e il rapporto tra il singolo e la comunità è gestito appunto dal sacerdote che ascolta. La dichiarazione, infine, si presenta come una parola umana che dice che quanto di fatto si realizza è la parola divina. L'uomo attesta che Dio è fedele: gli Israeliti sono venuti nella terra (per il potere e la guida di Adonay) e in risposta vengono al luogo del culto.

La mediazione del sacerdote (v. 4) rende il gesto sacro e portatore di valore divino, perché il sacerdote significa la presenza di Dio. Egli sta come in mezzo tra il singolo Israelita e Dio: prende ciò che è già stato preso e depone ciò che verrà deposto. Il suo agire rende sacro quello dell'Israelita perché depone il dono davanti all'altare che dice la presenza di Dio, e perché lo prende dalla mano dell'Israelita. La corporeità del sacerdote è il luogo dell'alterità di Dio. La sua de-possessione permette di consacrare: il sacerdote può significare il sacro perché è senza terra, non ha ciò che gli altri offrono (c. 18) e quindi non può offrire. Egli è in questo modo il segno che tutto il dono è dato a Israele, perché Dio non prende niente per sé. Il sacerdote, inoltre, vivendo di ciò che il Signore gli dona, diventa segno per l'Israelita, ricordando che, anche quando ha la terra, questa è dono.

A partire dalla tesi di von Rad, si è ritenuto a lungo che la dichiarazione dei vv. 5-10a costituisse la sintesi di un antico Credo contenente gli elementi costitutivi della fede dei primi tempi di Israele. Recenti ricerche sul linguaggio e sulla storia della tradizione del Credo mostrano, però, che il suo schema rappresenta una sintesi posteriore delle grandi teologie storiche di Israele. Esso fu creato da un autore deuteronomico, in sintonia con la prospettiva storica di Nm 20,15-16 e con la ripresa dei concetti chiave dei racconti riguardanti i patriarchi e l'uscita dall'Egitto. Il tema fondamentale dei vv. 5-10 è il passaggio da

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una precaria esistenza, presentata nel v. 5a, al godimento della terra fertile di cui parla il v. 10a. Due sono i punti dominanti di questi versetti. Il primo è il contrasto tra l'essere senza casa e il possesso della terra. Il padre arameo, errante, vulnerabile e debole, sotto le cui spoglie si intravede Giacobbe, è accolto come stra-niero e soggiorna in Egitto, un'espressione che enfatizza l'essere senza una dimora. Mentre sono lì, non avendo diritti, i suoi discendenti cadono vittima dell'oppressione, gridano ad Adonay e vengono liberati e condotti in una terra che diventa loro. I poli di questo arco narrativo sono chiaramente «non possedere niente» e «possedere tutto».

Il secondo punto del Credo è la risposta di Adonay al grido disperato del popolo (cf Es 2,23-25; 3,7.9) e il favore mostrato a quelli che nell'oppressione guardarono alla sua misericordia. Il tema dell'ingiustizia e della schiavitù, che segna profondamente le leggi (cf 15,9; 24,16.18), viene qui cristallizzato. Il modello di base delle parole del fedele è quello dei salmi di lamento e di ringraziamento: evocazione del passato (vv. 5-6), grido (v. 7a), ascolto (v. 7b) e liberazione (vv. 8-9). Nel momento in cui presenta l'offerta (vv. 10b-11), l'Israelita diventa povero. La primizia non è solo ciò che si è prodotto, ma è un frutto necessario, è il frutto che viene dopo un anno, quando le riserve sono esaurite. Quando si vedono finire le scorte, Dio dona le primizie e l'Israelita le dona. La primizia è il primo frutto e non si sa se ce ne sarà un altro. È il primo e anche l'ultimo in quel momento. La sua offerta diventa un modo straordinariamente simbolico di dare tutto. È inoltre il frutto migliore, perché è il frutto del vigore della terra e quindi simboleggia l'offerta della propria vita, della propria giovinezza e perciò è adorazione: Dio è l'unico valore, si vive del Signore per cui si può donare tutto.

La conseguenza del dono è la gioia prodotta dal fatto che Dio è presente nella storia dell'uomo ed è gioia perché il dono è condiviso col povero, con chi è senza terra.

La sseeccoonnddaa lleettttuurraa (Rm 10,8-13) riprende un passaggio di Paolo che affronta lo spinoso interrogativo del perché Israele non ha riconosciuto il Messia nella persona di Gesù. La professione di fede già insegnata da Mosè e applicata a Cristo assicura la vittoria sulla tentazione e quindi la salvezza. Rm 10,8: Che cosa dice dunque? Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore, cioè la parola della fede che noi predichiamo (ἀλλὰ τί λέγει; ἐγγύς σου τὸ ῥῆμά ἐστιν ἐν τῷ στόματί σου καὶ ἐν τῇ καρδίᾳ σου, τουτ’ ἐστιν τὸ ῥῆμα τῆς πίστεως ὃ κηρύσσομεν, lett. «Ma cosa dice? Vicino a te la parola è nella bocca tua e nel cuore tuo. Questa è la parola della fede che annunciamo»). Grammatica: prs.ind.di λέγω «dico, parlo» (2267x NT: 100x Paolo); ἐγγύς avv. «vicino, presso» (31x NT: 5x Paolo); ῥῆμα, ατος, τό «parola, detto, fatto» (70x NT: 9x Paolo); στόμα, ατος, τό «bocca, il parlare» (78x NT: 13x Paolo: 6x Rm); κύριος, ου, ὁ «signore, padrone» (722x NT: 275x Paolo: 43x Rm; 67x 1Cor); Ἰησοῦς, οῦ, ὁ «Gesù» (923x NT: 213x Paolo: 37x Rm); aor.cgt.di πιστεύω «credo» (244x NT: 54x Paolo: 21x Rm); καρδία, ας, ἡ «cuore» (158x NT: 52x Paolo); θεός, οῦ, ὁ «Dio» (1327x NT: 548x Paolo: 153x Rm); πίστις, εως, ἡ «fede» (243x NT: 142x Paolo: 40x Rm +); prs.ind.di κηρύσσω «proclamo, annuncio» (61x NT: 19x Paolo). - Vicino a te è la Parola (ἐγγύς σου τὸ ῥῆμά ἐστιν). Paolo cita Dübärîm «Deuteronomio»: Kî|-qärôb ´ëlʺkä haDDäbär mü´öd Büpîºkä ûbi|lbäbkä, lett. «Ma vicina a te è la parola assai, nella tua bocca e nel tuo cuore»; CEI: «Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore» (Dt 30,14). Questa esortazione è riportata alla fine del terzo discorso di Mosè che sfocia nel celebre insegnamento delle due vie: rü´Ë nätaºTTî lüpänʺkä hayyôm ´et-ha|Hayyîm wü´et-ha††ôb wü´et-hammäºwet wü´et-härä` lett. «Vedi, pongo davanti a te oggi la vita e il bene, e la morte e la vita»; CEI: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male» (Dt 30,15). La Torah è presentata come un dono prezioso e come un cammino da intraprendere con libertà. Il frutto dell'obbedienza sarà il Däbaq

«attaccarsi, unirsi, legarsi» (54x TM: Gn 2,24; Dt 13,5; 30,20; 1Re 11,2), verbo che indica l'adesione intima, la comunione con il Santo che benedice. - la parola della fede che noi predichiamo (τὸ ῥῆμα τῆς πίστεως ὃ κηρύσσομεν). Paolo stabilisce un’assimilazione tra la parola e la fede. Nel vocabolario paolino, τὸ ῥῆμα τῆς πίστεως «la parola della fede» non è altro che il vangelo che genera la fede, come spiegherà nei vv. 14-17. I sostantivi ῥῆμα, ατος, τό «parola, detto, fatto» (70x NT: 9x Paolo) e πίστις, εως, ἡ «fede» (243x NT: 142x Paolo: 40x Rm +) hanno una chiara connotazione cristologica: noi predichiamo la parola di Cristo che genera la «fede in Cristo». A

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differenza del sinonimo λόγος, ου, ὁ, il sostantivo ῥῆμα sottolinea la concretizzazione della Parola che qui si identifica con la fede in Cristo. Paolo in questa sezione sviluppa l'affermazione della centralità di Cristo, che giustifica chiunque mediante la fede. La sua dimostrazione si basa su varie citazioni della Scrittura. Rifacendosi a Dt 30, l’apostolo esclude la possibilità di ottenere la salvezza mediante lo sforzo umano nel praticare le opere della Legge. La salvezza invece è connessa con τὸ ῥῆμα τῆς πίστεως «la parola della fede», cioè la predicazione evangelica che è ἐγγύς σου «vicina a te» (v. 8), alla portata dell'uomo, della sua bocca e del suo cuore, per essere accolta nell'intimo e professata all'esterno. Secondo s. Agostino (De Trinitate 13, 2, 5) non si tratta della fides qua creditur «la fede con cui si crede», ma della fides quae creditur «fede in cui si crede», ossia il contenuto della predicazione. Agostino dimostra come esistano realmente due dimensioni nell’unico atto di fede: la fede personale in Dio può essere grande o piccola (fides qua), ma la fede nella Trinità, espressa nel Simbolo di fede resta uguale per tutti (fides quae). Scrive Agostino: aliud sunt ea quae creduntur, aliud fides qua creduntur «Una cosa è ciò che si crede, altra cosa la fede con cui si crede». 10,9: Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo (ὅτι ἐὰν ὁμολογήσῃς ἐν τῷ στόματι σου ὅτι κύριος Ἰησοῦς καὶ πιστεύσῃς ἐν τῇ καρδίᾳ σου ὅτι ὁ θεὸς αὐτὸν ἤγειρεν ἐκ νεκρῶν, σωθήσῃ, lett. «Perché se confessi con la bocca tua (il) Signore Gesù e credi nel cuore tuo che Dio lo risuscitò dai morti, sarai salvo»). Grammatica: aor.cgt.di ὁμολογέω «confesso, professo, proclamo» (26x NT: 4x Paolo: 2x Rm); στόμα, ατος, τό «bocca, il parlare» (78x NT: 13x Paolo: 6x Rm); καρδία, ας, ἡ «cuore» (158x NT: 52x Paolo); aor.ind.di ἐγείρω «risuscito, faccio alzare» (144x NT: 41x Paolo); νεκρός, ά, όν agg. «morto» (130x NT: 43x Paolo: 16x Rm); fut.ind.pss.di σῴζω «salvo» (106x NT: 29x Paolo). - se con la tua bocca proclamerai … e con il tuo cuore crederai (ἐὰν ὁμολογήσῃς ἐν τῷ στόματι σου … καὶ πιστεύσῃς ἐν τῇ καρδίᾳ σου). Il verbo ὁμολογέω «confesso, professo, proclamo» (26x NT: 4x Paolo: 2x Rm) esprime un atteggiamento pubblico in cui si riconosce decisamente qualcosa, anche di fronte a testimoni; nel NT è spesso utilizzato per esprimere la confessione di fede; nelle lettere autoriali di Paolo (Rm, 1-2 Cor, Gal, Fil, 1Ts, Fl) si trova soltanto qui (Rm 10,9.10; cf lTm 6,12; Tt 1,16). La bocca e il cuore sono relazionati fra di loro, per indicare la totalità della persona umana coinvolta nella professione della fede. - Gesù è il Signore! (κύριος Ἰησοῦς). L'espressione «Signore Gesù» richiama la tradizionale professione di fede delle prime comunità cristiane (cf 1Cor 12,3; 2Cor 4,5). - Dio lo ha risuscitato dai morti (ὁ θεὸς αὐτὸν ἤγειρεν ἐκ νεκρῶν). Questo è il linguaggio proprio della cristologia paolina: non è stato Gesù a «salire» dagli abissi (v. 6) ma «Dio lo ha risuscitato dai morti» (cf Rm 4,25; 1Cor 6,14; 15,15). La conseguenza fondamentale della professione di fede nella risurrezione di Gesù è la salvezza finale o escatologica: σωθήσῃ «sarai salvo». In tal modo, qualsiasi attesa di salvezza è collegata alla fede in Gesù, riconosciuto come il Signore. 10,10: Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza (καρδίᾳ γὰρ πιστεύεται εἰς δικαιοσύνην, στόματι δὲ ὁμολογεῖται εἰς σωτηρίαν, lett. «Col cuore infatti si crede per giustizia, con la bocca invece si confessa per salvezza»). Grammatica: prs.ind.med.di πιστεύω «credo» (244x NT: 54x Paolo: 21x Rm); δικαιοσύνη, ης, ἡ «giustizia, giustificazione» (92x NT: 57x Paolo: 33x Rm +); prs.ind.med.di ὁμολογέω «confesso, professo, proclamo» (26x NT: 4x Paolo: 2x Rm); σωτηρία, ας, ἡ «salvezza» (46x NT: 18x Paolo: 5x Rm). Il v. 10 riprende il binomio στόμα, καρδία «bocca, cuore», però con termini invertiti: ora al centro della composizione chiastica così formata (bocca-cuore / cuore-bocca) si trova il καρδίᾳ γὰρ πιστεύεται «con il cuore infatti si crede». Il passaggio naturale dall'interiorità del credere all'esternazione della confessione di fede è ribadito nei Sinottici: «L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (Lc 6,45); «La bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (Mt 12,34b). Nel pensiero paolino è naturale il passaggio dallo status attuale di essere giustificati (cf Rm 3,28; 9,30; Gal 2,16) a quello futuro di essere salvati: «A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui» (Rm 5,9); «Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 33chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32-33).

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10,11: Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso (λέγει γὰρ ἡ γραφή• πᾶς ὁ πιστεύων ἐπ’ αὐτῷ οὐ καταισχυνθήσεται, lett. «Dice infatti la Scrittura: Ogni credente in lui non sarà svergognato»). Grammatica: γραφή, ῆς, ἡ «scrittura» (50x NT: 14x Paolo: 7x Rm); fut.ind.pss.di καταισχύνω «confondo, umilio, faccio vergognare, deludo, disonoro» (13x NT: 10x Paolo: 3x Rm). - Chiunque crede in lui non sarà deluso (πᾶς ὁ πιστεύων ἐπ’αὐτῷ οὐ καταισχυνθήσεται). Paolo qui riprende la conclusione della citazione di Is 28,16 già utilizzata in Rm 9,33: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e un sasso che fa cadere; ma chi crede in lui non sarà deluso», a cui aggiunge però il pronome πᾶς «chiunque», che poi tornerà altre tre volte (10,12-13; cf Rm 1,16b: «per la salvezza di chiunque crede»). La fede, qui avente come oggetto implicito Cristo, è come la base solida su cui costruire senza rimanere delusi. Tutte queste citazioni dell'AT mirano a confermare l'universalismo della salvezza. 10,12-13: Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. 13Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato (οὐ γάρ ἐστιν διαστολὴ Ἰουδαίου τε καὶ Ἕλληνος, ὁ γὰρ αὐτὸς κύριος πάντων, πλουτῶν εἰς πάντας τοὺς ἐπικαλουμένους αὐτόν. 13πᾶς γὰρ ὃς ἂν ἐπικαλέσηται τὸ ὄνομα κυρίου σωθήσεται, lett. «Non infatti c’è distinzione del Giudeo e del Greco, infatti lo stesso Signore di tutti essendo ricco verso tutti gli invocanti lui. 13 Ognuno infatti che invochi il nome del Signore sarà salvato»). Grammatica: διαστολή, ῆς, ἡ «differenza, diversità, distinzione» (3x NT: Rm 3,22; 10,12; 1Cor 14,7), sst.dvb.di διαστέλλω «separo, ordino» (8x NT); Ἰουδαῖος, αία, αῖον agg. «Giudeo» (195x NT: 26x Paolo); Ἕλλην, ηνος, ὁ «Greco» (25x NT: 13x Paolo); prs.ptc.di πλουτέω «sono ricco» (12x NT: 2x Lc 1,53; 5x Paolo); prs.ptc.med.di ἐπικαλέω «chiamo, nomino, invoco» (30x NT: 6x Paolo); v. 13: ὄνομα, ατος, τό «nome» (231x NT: 21x Paolo); fut.ind.pss.di σῴζω «salvo» (106x NT: 29x Paolo). - non c’è distinzione fra Giudeo e Greco (οὐ γάρ ἐστιν διαστολὴ Ἱ̓Ἰουδαίου τε καὶ Ἕλληνος). La tesi genera-le della lettera ai Romani è dimostrare l'imparzialità universale della salvezza, mediante la formula tipica di Paolo «tanto per il giudeo quanto per il greco» (cf Rm 1,16). La ragione per la quale non c'è alcuna discriminazione per essere salvati deriva dal fatto che «Cristo è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano». Tali professioni di fede lascerebbero pensare a Dio stesso; in questo contesto si riferiscono a Cristo, a causa dell'attribuzione della stessa signoria di Dio nei suoi confronti. - Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato (πᾶς γὰρ ὃς ἂν ἐπικαλέσηται τὸ ὄνομα κυρίου σωθήσεται). Il verbo ἐπικαλέω «chiamo, invoco» (30x NT: 6x Paolo) ha un riferimento cristologico più che teologico e prepara la citazione di Gl 3,5. Invocare Gesù come il Signore corrisponde a invocare il suo nome. L'uso di questo verbo nella LXX dimostra che l'«invocazione» non riguarda soltanto la preghiera ma anche la prostrazione o l'adorazione da rendere a Dio; in questo caso sembra più pertinente l'adorazione come espressione della propria professione di fede in Cristo. L'affermazione dell'universalità della salvezza legata alla fede in Cristo viene esplicitata al v. 12. La prodigalità del Signore si riversa con abbondanza su tutti quelli che lo invocano senza disparità. Conclude l'argomentazione la citazione biblica posta a suggello di quanto appena affermato; si tratta della ripresa letterale di Gl 3,5, che originariamente era riferito a Israele posto di fronte all'imminente giudizio divino; la novità, oltre al fatto che tale promessa viene ora estesa a tutti, compresi quindi i gentili, consiste nell'attestazione di un vero e proprio culto che i cristiani delle origini rivolgevano a Gesù-Signore, invocando il suo nome: «chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo». Per Paolo non esistono due tipi di giustizia, ma c'è una sola via per salvarsi: confessare che Gesù è Signore.

Il vvaannggeelloo (Lc 4,1-13) riprende l’episodio delle tentazioni di Gesù, avvenuto subito dopo il battesimo nel Giordano. Questo racconto suscitò molto interesse nel cristianesimo delle origini, come testimoniato anche dalla Lettera agli Ebrei: «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Marco sintetizza le tentazioni in due versetti: 1,12-13; Giovanni fa solo qualche accenno (Gv 6,14-15; 7,1-9; 12,27-28); Matteo e Luca, invece, offrono un racconto più dettagliato, mettendo in evidenza l’obbedienza di Gesù. Luca inquadra l’episodio tra la genealogia di Gesù, incarnato nella cultura ebraica e figlio di Davide (3,23-38) e l’annuncio del regno di Dio nella sinagoga di Nazaret (4,14-30).

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Lc 4,1-2: Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, 2per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame (Ἰησοῦς δὲ πλήρης πνεύματος ἁγίου ὑπέστρεψεν ἀπὸ τοῦ Ἰορδάνου καὶ ἤγετο ἐν τῷ πνεύματι ἐν τῇ ἐρήμῳ 2ἡμέρας τεσσεράκοντα πειραζόμενος ὑπὸ τοῦ διαβόλου. Καὶ οὐκ ἔφαγεν οὐδὲν ἐν ταῖς ἡμέραις έκειναις καὶ συντελεσθεισῶν αὐτῶν ἐπείνασεν, lett. «Gesù allora pieno di Spirito santo ritornò dal Giordano ed era condotto nello Spirito nel deserto, 2 per giorni quaranta tentato dal diavolo. E non mangiò nulla nei giorni quelli ed essendo terminati essi ebbe fame»). Grammatica: Ἰησοῦς, οῦ, ὁ «Gesù» (923x NT: 89x Lc); πλήρης, ες agg. «colmo, pieno» (16x NT: 2x Lc); πνεῦμα, ατος, τό «soffio, spirito» (383x NT: 36x Lc); ἅγιος, ία, ον agg. «santo, sacro, separato» (235x NT: 76x Paolo); aor.ind.di ὑποστρέφω «torno, ritorno» (35x NT: 21x Lc +); Ἰορδάνης, ου, ὁ «Giordano» (15x NT: 2x Lc); impf.ind.pss.di ἄγω «guido, conduco» (66x NT: 13x Lc); ἔρημος, ον agg. «deserto» (48x NT: 10x Lc +); v. 2: ἡμέρα, ας, ἡ «giorno» (390x NT: 83x Lc); τεσσαράκοντα agg.idl. «quaranta» (22x NT: Lc 4,2); prs.ptc.pss.di πειράζω «tento, provo» (39x NT: 2x Lc); διάβολος -ος -ον «colui che divide, che distoglie, che separa» (37x NT: 5x Lc); aor.ind.di φάγω / ἐσθίω «mangio» (94x NT: 21x Lc +); aor.ptc.pss.di συντελέω «termino» (6x NT: 2x Lc 4,2.13); aor.ind.di πεινάω «sono affamato, ho fame» (23x NT: 9x Mt; 2x Mc; 5x Lc; 1x Gv; 5x Paolo; 1x Ap), vrb.dnm. di πεῖνα, ας, ἡ «fame». - pieno di Spirito Santo (πλήρης πνεύματος ἁγίου). Dopo l’esperienza del battesimo, Gesù inizia a prendere l'iniziativa, guidato dallo Spirito Santo, che si è già manifestato prima della nascita di Gesù: Maria, Elisabetta, Simeone. La pienezza dello Spirito che Gesù ha ricevuto nel battesimo rivela la piena sintonia che esiste tra il Messia e lo Spirito.

- si allontanò dal Giordano (ὑπέστρεψεν ἀπὸ τοῦ Ἰορδάνου). Il verbo ὑποστρέφω «torno, ritorno» (35x NT: 21x Lc +) è usato da Luca più di altri e serve anche per descrivere l’esperienza della conversione. Gesù compie lo stesso percorso del Battista (3,2-3), ma in senso inverso: dal Giordano al deserto. Nel deserto, dove Giovanni ha udito la voce di Dio, Gesù sente la voce del diavolo. Il valore simbolico del deserto è dunque ambiguo: può essere positivo o negativo. Il deserto è il luogo in cui l'uomo può fare l'esperienza del divino o delle forze oscure.

- era guidato dallo Spirito nel deserto (ἤγετο ἐν τῷ πνεύματι ἐν τῇ ἐρήμῳ). Il verbo ἄγω «guido, conduco» (66x NT: 13x Lc) è un passivo divino. Il deserto si rivela sempre luogo inospitale e mortale se lo si affronta senza la guida dello Spirito. Nel deserto non funziona il «fai da te». midBär «deserto» (nm.msc. 271x TM), luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Esso è un luogo chiamato in ebraico con diversi nomi: 1) `áräbâ «luogo arido e incolto» (nm.fm. 60x TM: Gb 24,5; Sal 68,5), corrispondente alla Rift Valley «fossa tettonica» che si estende per circa 6000 km in direzione nord-sud della circonferenza terrestre, dal nord della Siria al centro del Mozambico»; 2) HorBâ «deserto, desolazione, rovina, rifiuti» (nm.fm. 42x TM: Lv 26,31); 3) yüšîmôn «steppa, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua» (nm.msc. 13x TM: 1Sam 23,19). Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte (cf Salmo 121,6). Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (cf Nm 20,5), il deserto rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo della rinascita. Il Talmud afferma che nel midBär «deserto» (nm.msc. 271x TM: Is 40,3), luogo ove risuona il Däbär «parola» (sst.msc. 1.441x TM), Dio si rende presente come müdaBBër «colui che parla». È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Es 3,1.14); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Es 19-24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un sottile silenzio» (1Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa-Israele dopo il tradimento di quest’ultima per rinnovare l’alleanza nuziale (Os 2,16; Ger 2,2). Il deserto ha un valore bipolare che abbraccia spazio e tempo ed esprime negatività e positività. ⫸ É spazio ostile da attraversare, faticoso cammino che fa uscire dalla schiavitù per entrare in una terra «dove scorre latte e miele» (Es 3,8; Lv 20,24; Nm 13,27; Ger 11,5; 32,22; Bar 1,20). La spazialità arida, monotona,

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silenziosa del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Es 14,11-12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Nm 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Nel deserto Israele tenta Dio e rivela ciò che abita nel suo cuore: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Dt 8,2). Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, già percorso da Abramo in risposta all’invito di Dio: lek-lükä «Vattene dalla tua terra» oppure «Va' per te» (Gn 12,1). Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere satanico permetterà a Gesù di svelare il suo cuore attaccato alla nuda Parola di Dio. ⫸ Il deserto è anche tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si attraversa. Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per Israele, ma anche per Mosè, Elia e Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, il tempo lento del deserto è già pregustazione dell’eternità! Il deserto si rivela magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista è diventato voce che grida, mano che indica il Messia, occhio che discerne il peccato. Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: nel deserto ha imparato l’economia di farsi piccolo. Ma ha sperimentato anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo e gioisce quando ne sente la voce (cf Gv 3,29). L’ambivalenza del deserto biblico è l’ambivalenza della vita umana. Forse ha ragione il monaco benedettino Henri le Saux (1910-1973) quando scrive: «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio». - per quaranta giorni (ἡμέρας τεσσεράκοντα). Il numero simbolico di quaranta è molto caro a Luca, che lo riprende all’inizio del libro degli Atti (1,3) per descrivere l’ascensione di Gesù al cielo. Israele si è servito di questo numero per descrivere le fasi della sua formazione come popolo di Dio. L’apocrifo Vita di Adamo ed Eva riferisce che Eva fu sollecitata da Adamo a stare per 40 giorni nel fiume Tigri con l’acqua fino alla gola per chiedere perdono a Dio, mentre Adamo si impegna a stare nel fiume Giordano per 47 giorni; Noé; Mosè; deserto; esploratori della Terra promessa; Elia; Giona; flagellazione non più di 40 colpi (Dt 25,3); Gesù presentato al Tempio dopo 40 giorni; Tentazioni di Gesù; Ascensione di Gesù. - fu tentato (πειραζόμενος). Il participio greco qui ha valore di proposizione finale, come sembra richiesto da ciò che segue. A differenza di quanto riferisce Mc 1,12: «lo Spirito lo sospinse nel deserto», Luca parla di una libera scelta di Gesù. Il verbo πειράζω è forma intensiva di πειράω «provo, saggio, tento». Il ptc.prs.att. è usato per indicare ὁ πειράζων «il tentatore» (Mt 4,3; 1Ts 3,5). Nella LXX πειράζω traduce l'ebraico nasâ

«tentare» (36x TM: Dt 4,34). Nel deserto, il popolo è stato messo alla prova da Adonay, che a sua volta è stato messo alla prova dal popolo (cf Es 16,4; 17,2; Dt 8,2; Sal 94,9). Il participio πειραζόμενος sembra essere familiare ai credenti della Chiesa delle origini (Eb 2,18; Gc 1,13) per indicare l'infedeltà a Dio. Poiché Luca non usa questo vocabolo negli Atti per esprimere le tentazioni dei primi cristiani, non dobbiamo sopravvalutare l'aspetto etico del racconto lucano delle tentazioni di Gesù. Il verbo πειράζω contiene spesso un intento ostile e si distingue da δοκιμάζω «provo, saggio, metto alla prova» (22x NT: 3x Lc). Così il diavolo, figura completamente negativa, è l'autore di vere e proprie tentazioni e non di un semplice esame critico di Gesù. La Lettera di Giacomo chiarisce il ruolo di Dio: «13 Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. 14 Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; 15 poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte» (Gc 1,13-15). Colui che si fa trascinare al male non deve far cadere la colpa su Dio, che non può volere il male. Il peccato viene dall'interno dell'uomo (Rm 7,8) e sfocia in uno stato del tutto opposto a quello della «corona della vita» (v. 12; Rm 6,23). Paolo conferma: «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1Cor 10,13). Tentare è innanzitutto provare, mettere alla prova, riconoscere la realtà die-tro le apparenze. Dio «tenta» l'uomo, benché lo conosca a fondo (Ger 11,20; 2Cr 32,31), per dargli l'occasione di manifestare l'atteggiamento profondo del suo cuore (Gen 22,1; Es 16,4; Dt 8,2.16; 13,4; Gdt 8,25-27). Ma

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questa prova è spesso provocata da circostanze esterne o anche da Satana, il «tentatore» (Gb 1,8-12; Mt 4,1; 1Cor 7,5; 1Ts 3,5; Ap 2,10), o dalla cupidigia (Gc 1,13-14; 1Tm 6,9). In questo caso subentra la seduzione, l'attrazione verso il male, che il fedele può vincere con l'aiuto di Dio (Sir 44,20; Mt 6,13; 26,41; Lc 8,13; 1Pt 1,6-7). Gesù stesso ha voluto essere tentato per rafforzare la sua sottomissione alla volontà del Padre (Mt 4,1; 26,39-41; Eb 2,18; 4,15). Quando è l'uomo che «tenta» Dio, si parla di blasfemia, di bestemmia (Es 17,2.7; At 15,10). Un apoftegma di Antonio il Grande (250 - 356) racconta che un giorno uscendo dal suo eremo vide tutte le tentazioni del diavolo gettate come un’immensa rete sulla terra. Emise un gemito di spavento e gridò: «Mio Dio, chi dunque potrà essere salvato?». Una voce gli rispose dal cielo: «L’umiltà» (Apoftegmi, 7). E ancora: «Togli le tentazioni e nessuno sarà salvato» (Apoftegmi, 5). In conclusione: quanto più sono inevitabili le tentazioni nell’esperienza cristiana, tanto più si rende necessaria l’umiltà. - dal diavolo (ὑπὸ τοῦ διαβόλου). Il sst. διάβολος -ος -ον, diábolos «colui che divide, che distoglie, che separa» (37x NT: 6x Mt + 4,1; 5x Lc; 3x Gv; 2x At; 8x Paolo), agg.dvb. di διαβάλλω «accuso, denuncio» (hapax NT: Lc 16,1), composto da διά «per mezzo» e βάλλω «getto di traverso, accuso, calunnio», è l’esatto contrario di σύμβολον, τό «segno» che a sua volta deriva dal verbo σύμβάλλω «converso, medito, rifletto, coordino» (6x NT: Lc 2,19; 14,31; 4x At 4,15) (da σύμ- «insieme» e βολή «getto»), avente il significato approssimativo di «mettere insieme» due parti distinte. Luca nella sua opera chiama il tentatore sette volte ὁ διάβολος «diavolo» e sette volte Σατᾶν o Σατανᾶς, ᾶ, ὁ «Satana» (36x NT: 5x Lc 10,18; 11,18; 13,16; 22,3.31; 8x Ap +), termine di origine ebraica: Sä†än «avversario, accusatore in giudizio, satana» (nm.msc., 27x TM: 2x Nm). Il cambiamento da «Satana» (Mc 4,14) in «diavolo» (Lc 8,12) segnala la preferenza dell'evangelista per il vocabolo greco. Anche se non sviluppa una demonologia, tuttavia ha alcune idee chiare al riguardo: dopo i suoi tentativi infruttuosi il diavolo lascia Gesù ἄχρι καιροῦ, «fino al momento fissato». Il πειρασμός, οῦ, ὁ «tentazione, prova» (21x NT: 6x Lc +) colpisce più i discepoli che Gesù: il diavolo soggioga Giuda (22,3) e scuote i discepoli come in un setaccio (22,31); Gesù deve metterli in guardia nel Getsemani (22,40.46). A partire da Lc 22,3 il diavolo riprende la sua iniziativa contro Gesù. Luca è profondamente convinto che gli uomini siano sottoposti agli attacchi del diavolo e ne soffrano (13,16; At 10,38; 26,18). La potenza universale del diavolo, che si estende anche all'ambito politico (4,6), può fare irruzione improvvisamente in un uomo (13,16; 22,3). Il tempo di Gesù è tempo di gioia, perché l'azione del Messia e la potenza di Dio attaccano il diavolo e lo cacciano dalla sua posizione di forza (10,18; 13,16; At 10,38). Ma il combattimento terminerà solo alla parusia; la vittoria non è mai acquisita una volta per tutte, perché il diavolo, precipitato dall'alto del cielo, agisce ancora sulla terra (1Cor 7,5; Ef 6,11; Ap 13,1; 1Pt 5,8; Gc 4,7). Né la parola di Dio né lo Spirito Santo garantiscono al credente che non ricadrà in mano a Satana

(8,12). Anche dopo Pasqua bisognerà distogliere gli uomini dal dominio di Satana e dirigerli verso Dio (At 26,18). La creazione e la storia non sono demonizzate, ma l’autore non cede a un ottimismo facile o al disfattismo: la conversione è necessaria per ritrovare l’armonia originale. Luca conosce la potenza delle forze sovrumane che tengono l'uomo prigioniero, ma conosce anche la forza che libera i prigionieri (cf At 5,19; 12,7-10; 16,25-30). Luca cita anche Βεελζεβούλ, ὁ «Beelzebùl» (7x NT: 3x Lc 11,15.18.19); ebr. baº̀ al zübûl «signore della dimora». Alcuni studiosi riconoscono in questo titolo un’inversione del nome ugaritico zbl b'l «Baal il Principe», divinità cananea (cf 2Re 1,2-16) e dio principale della città filistea di Ekron, 35 km a ovest di Gerusalemme (cf Gs 13,2s). La forma Beelzebùb, che si riscontra nelle versioni siriache e nella Vulgata, è un gioco di parole di disprezzo che trasforma questo titolo in Βεελζεβούβ «signore delle mosche» (2Re 1,2). Questo arcinemico è visto come il sovrano di un antiregno nel quale τὰ δαιμόνια «i demoni» e τὰ πνεύματα ἀκάθαρτα «gli spiriti impuri» sono i suoi sudditi (cf 11,14-20). - Non mangiò nulla in quei giorni (Καὶ οὐκ ἔφαγεν οὐδὲν ἐν ταῖς ἡμέραις έκειναις). L'interesse della comunità cristiana per la pratica del digiuno non basta a dare la spiegazione di questo episodio. I maestri che hanno istruito la comunità delle origini hanno compiuto qui un bel lavoro di arte haggadica, senza porsi alcuno scrupolo nel fondere figure diverse in quella di Gesù. Pur presentando alcuni tratti di Mosè, Gesù assume anche la funzione di popolo amato da Dio, di «figlio di Dio» che soccombe alla tentazione nel deserto ai piedi della montagna, mentre Mosè si trova sulla cima. - ebbe fame (ἐπείνασεν). Il verbo πεινάω «sono affamato, ho fame» (23x NT: 5x Lc) è vrb.dnm. di πεῖνα, ας, ἡ «fame». Luca fa notare che Gesù è stato senza mangiare, ma evita di chiamare questo un «digiuno» come invece fa Matteo (4,2). In Luca le tentazioni cominciano al termine dei quaranta giorni, quando Gesù è debole a causa della fame.

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4,3: Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane» (εἶπεν δὲ αὐτῷ ὁ διάβολος• εἰ υἱὸς εἶ τοῦ θεοῦ εἶπε τῷ λίθῳ τούτῳ ἵνα γένηται ἄρτος, lett. «Disse allora a lui il diavolo: Se figlio sei di Dio di’ alla pietra questa che divenga pane»). Grammatica: aor.ind.di λέγω «dico, parlo» (2267x NT: 217x Lc); λίθος, ου, ὁ «pietra» (59x NT: 14x Lc +); aor.cgt.di γίνομαι «succedo, accado, faccio» (667x NT: 129x Lc +); ἄρτος, ου, ὁ «pane» (97x NT: 15x Lc).

- Se tu sei Figlio di Dio, di' a questa pietra che diventi pane (εἰ υἱὸς εἶ τοῦ θεοῦ εἶπε τῷ λίθῳ τούτῳ ἵνα γένηται ἄρτος). Nella versione di Luca, la dichiarazione del Battista che Dio «può far nascere figli ad Abramo da queste pietre» (3,8) riecheggia qui come una parodia. Gesù è messo di fronte alla sfida di rivelare i poteri della forza divina che il mondo ellenistico associava ai «figli degli dèi» e di imitare il potere di Dio nel dare «pane nel deserto» al popolo (Es 16,14-21). La combinazione pane/pietra si ritroverà in Matteo: «Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra?» (Mt 9,7). 4,4: Gesù gli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo» (καὶ ἀπεκρίθη πρὸς αὐτὸν ὁ Ἰησοῦς• γέγραπται ὅτι οὐκ ἐπ’ ἄρτῳ μόνῳ ζήσεται ὁ ἄνθρωπος, lett. «E rispose a lui Gesù: É scritto: Non di pane solo vivrà l’uomo»). Grammatica: aor.ind.di ἀποκρίνομαι «rispondo» (231x NT: 46x Lc); prf.ind.pss.di γράφω «scrivo» (191x NT: 21x Lc); fut.ind.di ζάω «vivo» (140x NT: 9x Lc); ἄνθρωπος, ου, ὁ «uomo, essere umano» (554x NT: 95x Lc). - Sta scritto (γέγραπται). Formula stereotipata abbreviata di καθὼς γέγραπται o di ὡς γέγραπται «come è scritto» (cf 2,23; 3,4) per introdurre una citazione scritturistica. Le insidie del diavolo si possono respingere solo ascoltando la Parola. Il deserto ha permesso a Gesù di nutrirsi a lungo delle Scritture e perciò può facilmente respingere la tentazione. - Non di solo pane vivrà l’uomo (οὐκ ἐπ’ ἄρτῳ μόνῳ ζήσεται ὁ ἄνθρωπος). I migliori manoscritti omettono l'aggiunta «ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» che si trova in Mt 4,4, come è detto in Dt 8,3. Dio educa il suo popolo nel deserto e lo mette alla prova. Contrariamente al popolo del Sinai, Gesù esce vittorioso dalla prova e non rimpiange il pane dell'Egitto. Ora, non è più Dio che mette alla prova ma il diavolo. Con il racconto della tentazione la Chiesa delle origini difende Gesù contro il rimprovero di stregoneria e afferma che i miracoli sono segni del regno di Dio e non di magia diabolica.

4,5-7: Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra 6e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. 7Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo» (Καὶ ἀναγαγὼν αὐτὸν ἔδειξεν αὐτῷ πᾶσας τὰς βασιλείας τῆς οἰκουμένης ἐν στιγμῇ χρόνου 6καὶ εἶπεν αὐτῷ ὁ διάβολος• σοὶ δώσω τὴν ἐξουσίαν ταύτην ἅπασαν καὶ τὴν δόξαν αὐτῶν, ὅτι ἐμοὶ παραδέδοται καὶ ᾧ ἐὰν θέλω δίδωμι αὐτήν• 7σὺ οὖν ἐὰν προσκυνήσῃς ἐνώπιον ἐμοῦ, ἔσται σοῦ πᾶσα, lett. «E avendo condotto in alto lui mostrò a lui tutti i regni della terra in un istante di tempo 6 e disse a lui il diavolo: A te darò il potere questo tutto e la gloria di loro, che a me è stata data e a chiunque voglio darò essa; 7 tu dunque se adori davanti a me, sarà a te tutta»). Grammatica: aor.ptc.di ἀνάγω «conduco in su» (23x NT: 3x Lc); aor.ind.di δείκνυμι «mostro» (33x NT: 4x Lc); βασιλεία, ας, ἡ «regno» (163x NT: 46x Lc); οἰκουμένη, ης, ἡ «terra» (15x NT: 3x Lc); στιγμή, ῆς, ἡ «attimo, istante» (hapax NT); χρόνος, ου, ὁ «tempo» (54x NT: 7x Lc); v. 6: fut.ind.di δίδωμι «do» (416x NT: 60x Lc); ἐξουσία, ας, ἡ «potere» (102x NT: 16x Lc +); ἅπας, ασα, αν «tutto» (34x NT: 11x Lc); δόξα, ης, ἡ «gloria» (167x NT: 13x Lc); prf.ind.di παραδίδωμι «do, consegno» (120x NT: 17x Lc); prs.cgt.di θέλω «voglio» (209x NT: 28x Lc); v. 7: aor.cgt.di προσκυνέω «mi prostro, adoro» (60x NT: 3x Lc); ἐνώπιον prp. «davanti» (94x NT: 22x Lc); fut.ind.di εἰμί «sono» (2479x NT).

- in un istante (ἐν στιγμῇ χρόνου). Alla lettera: «in un punto del tempo», cioè si tratta di una visione istantanea. Questa precisazione si trova solo in Luca e serve a chiarire il carattere visionario dell'esperienza, nonché il potere magico del diavolo.

- tutti i regni della terra (πᾶσας τὰς βασιλείας τῆς οἰκουμένης). Il diavolo cita il Sal 2,8: «Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane» (ripreso in At 4,25-26; 13,33). La prima tentazione consiste nella seduzione del potere assoluto. Luca usa il termine οἰκουμένη, ης, ἡ «terra» (15x NT: 3x Lc) invece di κόσμος, ου, ὁ «orbe terraqueo» (186x NT: 3x Lc) usato da Mt 4,8. Luca usa il termine κόσμος quando vuole riferirsi al mondo naturale, al creato (9,25; 11,50; 12,30; At 17,24), mentre quando parla dell'ordine sociale o politico usa il termine οἰκουμένη (2,1; 21,26; At 11,28; 17,6; 19,27; 24,5). La visione allude all’impero romano (cf Lc 19,12-27).

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- Ti darò tutto questo potere e la loro gloria (σοὶ δώσω τὴν ἐξουσίαν ταύτην ἅπασαν καὶ τὴν δόξαν αὐτῶν). L'autorità è qui intesa in senso politico (cf 12,11; 20,20; 23,7). Il pronome αὐτῶν si riferisce probabilmente a «i regni» (v. 5). Il diavolo si arroga il potere di «dare». Gesù invece dirà di avere ricevuto tutto: Tutto è stato dato a me dal Padre mio (Lc 10,22); e ancora: 28Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove 29e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, 30perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele (22,28-30). Il fatto che Gesù ha ἐξουσία, ας, ἡ «potere, autorità» (102x NT: 16x Lc +) nel regno di Dio è dimostrato dal fatto che ha il potere di scacciare i ministri dell'altro regno, ossia gli spiriti immondi (cf 11,20). Luca concepisce la lotta tra Dio e il potere del male come un dissidio tra due regni. Il regno-ombra del diavolo scimmiotta quello di Dio. Le parole e le opere del Messia rappresentano un'operazione di ripulitura: «Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio» (Lc 11,20). In tutto ciò che fa «Dio era con lui» (At 10,38).

- perché a me è stata data e io la do a chi voglio (ὅτι ἐμοὶ παραδέδοται καὶ ᾧ ἐὰν θέλω δίδωμι αὐτήν). Luca non precisa chi abbia dato al diavolo l'autorità; forse si tratta di un passivo divino che, dunque, rimanda a Dio (cf Gb 1,2). Nonostante questa parodia diabolica, Gesù non discute questa pretesa. Probabilmente Luca, per quanto amante della pace, lascia intendere di avere una visione pessimistica del mondo (tipica della mentalità apocalittica). Rebus sic stantibus «stando così le cose», i prìncipi non ricevono il loro potere né da Dio né dal popolo, ma dal diavolo; si inchinano quindi davanti al diavolo e non davanti a Dio, o per dirla in termini evangelici esercitano il potere per i propri interessi e non come servizio.

- 7Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo (σὺ οὖν ἐὰν προσκυνήσῃς ἐνώπιον ἐμοῦ, ἔσται σοῦ πᾶσα). Luca non sta scrivendo un trattato di teologia politica, ma racconta una storia di tentazione. La promessa del diavolo è legata a una precisa condizione: προσκυνέω «adorare» lui. Il diavolo pretende il passaggio di poteri. La relazione del Figlio con il Padre è appena stata confermata al Giordano e il diavolo, invece, propone un'altra alleanza pervertita. Spera forse che Gesù possa cambiare di campo?

4,8: Gesù gli rispose: «Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto» (καὶ ἀποκριθεὶς ὁ Ἰησοῦς εἶπεν αὐτῷ• γέγραπται• κύριον τὸν θεόν σου προσκυνήσεις καὶ αὐτῷ μόνῳ λατρεύσεις, lett. «E rispondendo Gesù disse a lui: É scritto: (il) Signore, il Dio tuo adorerai e a lui solo renderai culto»). Grammatica: aor.ptc.pss.di ἀποκρίνομαι «rispondo» (231x NT: 46x Lc); prf.ind.pss.di γράφω «scrivo» (191x NT: 21x Lc); fut.ind.di προσκυνέω «mi prostro, adoro» (60x NT: 3x Lc); fut.ind.di λατρεύω «servo, rendo culto,» (21x NT: 3x Lc).

- Gesù gli rispose: «Sta scritto (καὶ ἀποκριθεὶς ὁ Ἰησοῦς εἶπεν αὐτῷ• γέγραπται). Gesù risponde nuovamente con una citazione della Scrittura: Dt 6,13: «Temerai il Signore, tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome»; 10,20: «Temi il Signore, tuo Dio, servilo, restagli fedele e giura nel suo nome». Non c'è tentazione che possa essere rigettata se non tramite l'ascolto obbediente della Scrittura. - Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto (κύριον τὸν θεόν σου προσκυνήσεις καὶ αὐτῷ μόνῳ λατρεύσεις). Il verbo λατρεύω significa «servire», ma anche «rendere culto, adorazione» (Lc 1,74; 2,37; At 7,7.42; 24,14; 26,7; 27,23), da cui derivano i termini italiani: latria, latreutico. Il diavolo non si accontenta della politica, ma pretende l'adorazione riservata a Dio, cioè vuole detronizzare Dio. La risposta di Gesù è pronta: «Temerai il Signore, tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome» (Dt 6,13). Si rinnega Dio piegandosi al potere temporale della politica e dell’economia. Il Messia, invece, riceverà potere sui regni della terra solo dopo la risurrezione e la parusia. La seconda tentazione è parallela alla salita di Gesù a Gerusalemme prima della passione (19,29-38). 4,9-11: Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; 10sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano; 11e anche: Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra» (Ἤγαγεν δὲ αὐτὸν εἰς Ἰερουσαλὴμ καὶ ἔστησεν ἐπὶ τὸ πτερύγιον τοῦ ἱεροῦ καὶ εἶπεν [αὐτῷ]• εἰ υἱὸς εἶ τοῦ θεοῦ βάλε σεαυτὸν ἐντεῦθεν κάτω• 10γέγραπται γὰρ ὅτι τοῖς ἀγγέλοις αὐτοῦ ἐντελεῖται περὶ σοῦ τοῦ διαφυλάξαι σε 11καὶ ὅτι ἐπὶ χειρῶν ἀροῦσιν σε μήποτε προσκόψης πρὸς λίθον τὸν πόδα σου, lett. «Condusse poi lui a Gerusalemme e pose sul pinnacolo del tempio e disse a lui: Se figlio sei di Dio, getta te stesso di qui giù; 10 è scritto infatti: agli angeli di lui comanderà riguardo a te per proteggere te, 11 e: su mani sosterranno te, perché non inciampi in una pietra il piede tuo»). Grammatica: aor.ind.di ἄγω «conduco» (66x NT: 13x Lc); Ἱερουσαλήμ, ἡ «Gerusalemme» (77x NT: 27x Lc); aor.ind.di ἵστημι «sto, pongo» (153x NT: 26x Lc); πτερύγιον, ου, τό «pinnacolo» (2x NT: Mt 4,5; Lc 4,9);

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ἱερόν, οῦ, τό «santuario» (70x NT: 14x Lc); aor.ind.di λέγω «dico, parlo» (2267x NT: 217x Lc); υἱός, οῦ, ὁ «figlio» (382x NT: 77x Lc); θεός, οῦ, ὁ «Dio» (1327x NT: 122x Lc); aor.impt.di βάλλω «lancio, getto» (122x NT: 18x Lc); σεαυτοῦ, ῆς, οῦ prn.rfl.2sng. «te stesso» (43x NT); ἐντεῦθεν avv. «da qui» (10x NT); κάτω «giù, in basso» (10x NT); v. 10: prf.ind.pss.di γράφω «scrivo» (191x NT: 21x Lc); ἄγγελος, ου, ὁ «angelo» (175x NT: 25x Lc); fut.ind.di ἐντέλλω «comando, prescrivo, ingiungo» (15x NT, slt.med. ἐντέλλομαι); aor.inf.di διαφυλάσσω «custodisco con cura, proteggo» (hapax NT); v. 11: χείρ, χειρός, ἡ «mano» (179x NT: 26x Lc); fut.ind.di αἴρω «prendo» (101x NT: 20x Lc); aor.cgt.di προσκόπτω «inciampo, sono scandalizzato» (8x NT: 1x Lc); λίθος, ου, ὁ «pietra» (59x NT: 14x Lc +); πούς, ποδός, ὁ «piede» (93x NT: 19x Lc +).

- Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio (Ἤγαγεν δὲ αὐτὸν εἰς Ἰερουσαλὴμ καὶ ἔστησεν ἐπὶ τὸ πτερύγιον τοῦ ἱεροῦ). Il termine πτερύγιον, ου, τό «pinnacolo» (2x NT: Mt 4,5; Lc 4,9) indica uno spazio all'estremità di un edificio, come una torretta, il culmine di un tetto o di un merlo. Forse ci si riferisce all'angolo a sud-est della spianata del tempio, a strapiombo sulla valle del Κεδρών, ὁ sst.idl. «Cedron» (hapax NT: Gv 18,1); ebr. qidrôn «Cedron» (11x TM: 2Sam 15,23), oppure al pinnacolo del portico regale nella parte meridionale del piazzale. Giuseppe Flavio (37-100 d.C.) afferma: «Tanto era grande l’altezza del portico, che se qualcuno avesse guardato giù dalla cima... avrebbe sofferto di vertigini, e il suo sguardo sarebbe stato incapace di raggiungere il termine di quella profondità senza misura» (Antichità giudaiche 15,11,5 § 412)

L'interesse di Luca per Gerusalemme fa di questa tentazione il punto culminante, perché avvenuta nel recinto del Tempio. Dopo quella profetica e quella regale sopravviene la tentazione sacerdotale, oppure tentazione economica, politica e religiosa. Il diavolo conduce Gesù nel luogo più frequentato di Gerusalemme e qui, cambiando strategia, cita le Scritture: «Egli per te darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le sue vie. Sulle mani essi ti porteranno, poiché il tuo piede non inciampi nella pietra» (Sal 91,11-12).

- perché il tuo piede non inciampi (μήποτε προσκόψης πρὸς λίθον τὸν πόδα σου). C’è un astuto argomentare del diavolo secondo la regola rabbinica Qal wachomer, prima delle 7 regole ermeneutiche sancite da rabbì Hillèl, (70-10 a.C.): da un caso poco rilevante, qal «leggero», deriva un caso più importante, chomer «pesante». È ciò che noi indichiamo con l’espressione latina a fortiori. Se Dio ha ordinato agli angeli di proteggere Davide (Sal 90,1 LXX) per non inciampare nelle pietre, quanto più Dio comanderà di proteggere il Messia, «Figlio di Dio», se si buttasse a capofitto dalla parte più alta del Tempio. 4,12: Gesù gli rispose: «È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo» (καὶ ἀποκριθεὶς εἶπεν αὐτῷ ὁ Ἰησοῦς ὅτι εἴρηται• οὐκ ἐκπειράσεις κύριον τὸν θεόν σου, lett. «E rispondendo disse a lui Gesù: É stato detto: non tenterai Signore il Dio tuo»). Grammatica: aor.ptc.pss.di ἀποκρίνομαι «rispondo» (231x NT: 46x Lc); prf.ind.pss.di ἐρεῶ (98x NT: 19x Lc), fut. e prf.ind.di λέγω «dico, parlo»; fut.ind.di ἐκπειράζω «metto alla prova» (4x NT: Lc 4,12).

- È stato detto (εἴρηται). Gesù qui si scosta dalla forma delle prime due risposte: γέγραπται «sta scritto» e usa il verbo ἐρεῶ (98x NT: 19x Lc), prf.ind.di λέγω «dico». Il testo citato è Dt 6,16: «Non tenterete il Signore, vostro Dio, come lo tentaste a Massa». In questa circostanza il popolo aveva tentato Dio reclamando l’acqua (Es 17,1-7; Nm 20,1-13). Nelle tre tentazioni Gesù non vuole nulla per sé, per questo non mette alla prova Dio. Il diavolo cita la Scrittura, ma non la capisce. Il credente sa che non può fare esperienza di Dio mettendolo alla prova. Gesù sulla croce non si è salvato da sé, non ha preteso nulla dal Padre. 4,13: Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato (Καὶ συντελέσας πάντα πειρασμὸν ὁ διάβολος ἀπέστη ἀπ’ αὐτοῦ ἄχρι καιροῦ, lett. «E avendo terminato ogni prova il diavolo si allontanò da lui fino al tempo (opportuno)»). Grammatica: aor.ptc.di συντελέω «esaurisco» (6x NT: 2x Lc 4,2.13; 4x At); πειρασμός, οῦ, ὁ «tentazione, prova» (21x NT: 6x Lc +); διάβολος -ος -ον «colui che divide, che distoglie, che separa» (37x NT: 5x Lc); aor.ind.di ἀφίστημι «separo, vengo meno, cedo» (14x NT: 4x Lc); ἄχρι prp. «fino a» (48x NT); καιρός, οῦ, ὁ «momento» (85x NT: 13x Lc +).

- Dopo aver esaurito ogni tentazione (Καὶ συντελέσας πάντα πειρασμὸν). Il verbo συντελέω «esaurisco» (6x NT: 2x Lc 4,2.13) è usato solo da Luca. Satana riconosce la propria sconfitta e si ritira, ma solo temporaneamente «fino al momento fissato».

- il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato (ὁ διάβολος ἀπέστη ἀπ’ αὐτοῦ ἄχρι καιροῦ). Il termine καιρός, οῦ, ὁ «momento» (85x NT: 13x Lc +) ha il senso di «un particolare momento», ma in At 13,11 significa

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«per un certo tempo». Anche se il diavolo torna all’assalto nella passione (22,3.31), il conflitto tra i regni rivali si protrae per tutto il ministero di Gesù. La tripartizione del racconto è un sinistro presagio del triplice rinnegamento di Pietro (22,54-62) e della triplice derisione di Gesù sulla croce (23,35.37.39). Al lettore ellenistico le tentazioni presentano l'immagine delle tre categorie di vizi: ricerca del piacere, attaccamento ai beni materiali, desiderio di gloria (cf Dione Crisostomo, Orazione 4,84). Gesù ha decisamente rifiutato una visione violenta, militare e zelota del Regno di Dio in Israele. Ma il significato delle tentazioni è ancora più profondo per i lettori cristiani di Luca, perché Gesù ha scelto di essere un Messia che ha rifiutato il dominio sulla natura per soddisfare il proprio appetito, il dominio sull'uomo per amore della gloria e la forzatura della volontà di Dio per la propria sopravvivenza, preferendo invece la «via della pace» (1,79; 2,14.29; At 10,36) tipica del Servo/profeta di Isaia, come rivelano immediatamente le parole che rivolge al popolo (Lc 4,18; Is 61,1-2).

Lo Spirito (4,1-13). L’episodio delle tentazioni è introdotto da una duplice menzione

dello Spirito: Gesù è ricolmato dello Spirito in occasione del suo battesimo (cf 3,22) ed è guidato dallo stesso Spirito nel deserto (4,1). La prova a cui Gesù è sottomesso è dunque voluta da Dio.

Il tema di una grande prova che precede la vita pubblica di famosi personaggi è un motivo ricorrente della letteratura antica. L'esperienza di Gesù si svolge nel deserto, luogo di solitudine e di tentazione, luogo dove Israele ha vissuto l’esperienza fondante dell'esodo. Tale prova dura quaranta giorni (v. 2); nella Bibbia questo tempo rappresenta un periodo decisivo vissuto con Dio: il diluvio (cf Gen 7,12), Mosè sul monte Sinai (cf Es 24,18; 34,28), Elia nel deserto (cf 1Re 19,8).

Due punti di vista a confronto. Il diavolo personifica la radicalità del male. La sua triplice domanda

non manifesta alcun dubbio a proposito dell'identità del suo interlocutore, ma suggerisce a Gesù d'interpretare la propria condizione filiale come un potere. Si tratta, cioè, dello scontro di due punti di vista: quello del diavolo e quello di Gesù. Al triplice tentativo Gesù oppone un rifiuto, non in forza della sua bravura (come per gli eroi antichi), ma grazie a una parola che non è sua, ma di Dio. Le sue risposte sono unicamente citazioni del Deuteronomio (8,3; 6,13; 6,16). Egli cioè non oppone al diavolo la propria parola, ma la volontà divina, che la precede e ne fonda l'esistenza. A chi lo spinge a considerare la sua condizione di Figlio come un potere, Gesù oppone la propria fedeltà alla volontà di Dio.

Un dialogo rivelativo. A tre riprese Satana suggerisce a Gesù di utilizzare il suo statuto di Figlio per

sfuggire ai limiti della condizione umana. Ogni tentazione è collegata a un particolare ambiente: il deserto dove non c'è nutrimento, i regni del mondo, il tempio. Rispetto al racconto di Matteo, Luca inverte la seconda e la terza tentazione: il culmine è a Gerusalemme. Ciò è coerente con la struttura geografica e teologica del terzo vangelo (il racconto è un cammino verso la città santa e Gerusalemme è il luogo dell'esodo/innalzamento, cf 9,31.51) ma, insieme, preannuncia l’ultima tentazione, quella della croce (cf v. 13). Per evitare la fame, il diavolo suggerisce di trasformare la pietra in pane; Gesù spiega questo bisogno vitale ricordando che l’uomo non vive solo di pane (cf Dt 8,3). Per saziare il bisogno di potere, il diavolo invita Gesù a sottomettersi a lui; Gesù, invece, riserva l'adorazione unicamente a Dio (cf Dt 6,13). La terza tentazione è più sottile e nefasta: pretendere da Dio un miracolo appariscente per sedurre i credenti e così avere potere su di loro, citando il Sal 91,11-12. Gesù lo smaschera citando Dt 6,16. Il triplice rifiuto di Gesù aiuta a riconoscere la vera immagine di Dio e a sconfessare una pseudo fede, ridotta a manipolazione religiosa. Il contrasto tra Gesù e il diavolo chiarisce anche che ci può essere un uso demoniaco del potere di compiere miracoli, se è utilizzato per il proprio tornaconto e non a favore dei poveri e dei bisognosi.

Il demonio. Luca riserva una grande attenzione al tentatore: Satana sarà il principale attore del

dramma della passione e qui è introdotto come personaggio. Il racconto, al termine, fa riferimento al «tempo fissato» (v. 13), nel quale riapparirà il tentatore: è un rimando alla passione (cf 22,3.31.35), dove per tre volte sarà detto al Crocifisso di interpretare la sua messianicità in modo differente, salvando se stesso e scendendo dalla croce (cf 23,35-39).

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La storia dell'interpretazione di Lc 4,1-13 è ricca di insegnamenti. Per Ambrogio (Treviri 340 - Milano 397) Gesù «soffre nell'essere tentato dal diavolo perché in lui impariamo tutti a trionfare sul demonio». I «tre principali giavellotti del diavolo» sono: l'ingordigia, la vanità, l'ambizione. Secondo Origene (185-254 d.C.) le pietre sono le dottrine eretiche offerte ai cristiani al posto del pane. Per Giovanni Calvino (1509 - Ginevra 1564) le tre tentazioni consistono nel prendere le distanze da Dio: ad allontanarsi da lui (prima tentazione), ad attribuire a Satana una potenza che è solo di Dio (seconda tentazione) e a servirsi della potenza di Dio per il proprio interesse (terza tentazione). K. Barth (Basilea 1886 - 1968) si colloca sulla stessa linea di Calvino. Se Gesù avesse ceduto alla tentazione, avrebbe commesso un crimine infinitamente più grave di tutte le mancanze contro la morale o la legge, avrebbe commesso il male supremo.

Alcuni teologi contemporanei vedono nella resistenza di Gesù alla tentazione un esempio non solo etico ma anche spirituale. Esemplare è l'atteggiamento di Gesù verso Dio. Secondo G. Lafon (1979) Gesù rinuncia in ciascuna delle tre tentazioni a ogni possesso. «Perché l'umanità ci sarà garantita solo dalla presenza in noi della mancanza, mediante la sopportazione della nostra fame». Né il pane né il potere offerti nelle due prime tentazioni bastano a fare di noi degli uomini. Nella terza tentazione Cristo si rifiuta di disporre della morte. «Egli esiste senza possedere alcunché, né una cosa, né tutte le cose, né se stesso». Così è anche per i cristiani.