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1 Giuseppe Muti 1 CULTURE IN MOVIMENTO: IL DISTRETTO TURISTICO REGGAE SALENTINO Se nu te scierri mai delle radici ca tieni, rispetti puru quiddre delli paisi lontani! Se nu te scierri mai de du ede ca ieni, dai chiu valore alla cultura ca tieni! Simu salentini dellu munnu cittadini, radicati alli messapi cu li greci e bizantini, uniti intra stu stile osce cu li giammaicani, dimme mo de du ede ca sta bieni! Sud Sound System, Le radici cà tieni, 2003. 1. Introduzione Il ‘distretto turistico reggae salentino’ è la località dove si ritrovano, da circa vent’anni nel periodo estivo, gli appassionati di musica reggae in Italia. Il suo epicentro è grossomodo collocabile presso le marine di Melendugno, una trentina di chilometri a sud di Lecce sul litorale Adriatico, ma la sua storia e le sue caratteristiche sembrano estenderne l’influenza a tutta la penisola salentina, diffondendone l’immagine di “Giamaica d’Italia” (Manfredi, 2008). Capigliature pittoresche, sfoggio di colori rosso giallo verde, musica allegra e aroma di cannabis sono la percezione che di tale fenomeno hanno i turisti ‘altri’, quelli che in Salento trascorrono le loro vacanze tallonando le attrazioni naturali, ‘il sole, il mare e il vento’ come recita un noto logo, e quelle culturali, collegate all’enogastronomia e alle celebrazioni popolari scandite dai ritmi della pizzica e della taranta. Per certi versi, non sembra azzardato ipotizzare che al loro “sguardo” (Urry, 1995) il ‘distretto reggae salentino’ costituisca un’attrazione turistica secondaria, contribuendo a dare uno sfondo esotico e vagamente trasgressivo alla vacanza. Il ‘distretto reggae salentino’ rivela caratteristiche e svolgimenti particolari, legati a dinamiche socioculturali di più ampia portata politico-geografica: da un lato gioca un ruolo di rilievo nella diffusione globale di quella che per il momento 1 Con la partecipazione di Gabriella Kuruvilla, scrittrice e pittrice.

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Giuseppe Muti1

CULTURE IN MOVIMENTO: IL DISTRETTO TURISTICO REGGAE SALENTINO

Se nu te scierri mai delle radici ca tieni, rispetti puru quiddre delli paisi lontani!

Se nu te scierri mai de du ede ca ieni, dai chiu valore alla cultura ca tieni! Simu salentini dellu munnu cittadini, radicati alli messapi cu li greci e bizantini,

uniti intra stu stile osce cu li giammaicani, dimme mo de du ede ca sta bieni! Sud Sound System, Le radici cà tieni, 2003.

1. Introduzione

Il ‘distretto turistico reggae salentino’ è la località dove si

ritrovano, da circa vent’anni nel periodo estivo, gli appassionati di musica reggae in Italia. Il suo epicentro è grossomodo collocabile presso le marine di Melendugno, una trentina di chilometri a sud di Lecce sul litorale Adriatico, ma la sua storia e le sue caratteristiche sembrano estenderne l’influenza a tutta la penisola salentina, diffondendone l’immagine di “Giamaica d’Italia” (Manfredi, 2008).

Capigliature pittoresche, sfoggio di colori rosso giallo verde, musica allegra e aroma di cannabis sono la percezione che di tale fenomeno hanno i turisti ‘altri’, quelli che in Salento trascorrono le loro vacanze tallonando le attrazioni naturali, ‘il sole, il mare e il vento’ come recita un noto logo, e quelle culturali, collegate all’enogastronomia e alle celebrazioni popolari scandite dai ritmi della pizzica e della taranta. Per certi versi, non sembra azzardato ipotizzare che al loro “sguardo” (Urry, 1995) il ‘distretto reggae salentino’ costituisca un’attrazione turistica secondaria, contribuendo a dare uno sfondo esotico e vagamente trasgressivo alla vacanza.

Il ‘distretto reggae salentino’ rivela caratteristiche e svolgimenti particolari, legati a dinamiche socioculturali di più ampia portata politico-geografica: da un lato gioca un ruolo di rilievo nella diffusione globale di quella che per il momento

1 Con la partecipazione di Gabriella Kuruvilla, scrittrice e pittrice.

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definiamo ‘cultura reggae giamaicana’. Dall’altro svolge, fin dai primi anni ‘90 e secondo relazioni storiche originali, una funzione di impulso e di aggregazione per la cultura giovanile italiana definita ‘alternativa’, alla quale ancora oggi è collegato.

Questo articolo si propone di ricostruire e analizzare, anche grazie all’osservazione partecipante, le caratteristiche e le dinamiche del ‘distretto turistico reggae salentino’, valutando la sua eventuale influenza sulla valorizzazione turistica dell’intero Salento. A tal fine si rendono utili due momenti preliminari e fra loro collegati: 1) l’ analisi della cultura musicale giamaicana e dei suoi legami con la “filosofia politico-religiosa” (Chivallon, 2004) del Rastafarianesimo; 2) la comprensione dei mezzi e dei motivi della loro diffusione globale e, in Italia, la lettura dei loro rapporti con il movimento di contestazione giovanile, dai primi anni ’90 alle sue più recenti evoluzioni.

2. Il reggae come musica, il reggae come icona Il reggae è il genere musicale nato in Giamaica negli ultimi

anni ’60 e divenuto famoso a livello mondiale grazie al suo più celebre interprete, Bob Marley. L’enfasi sul levare della battuta musicale e il ritmo sincopato dettato dal giro di basso (riddim), sono le caratteristiche che lo rendono particolarmente orecchiabile e ballabile.

Ma il reggae è anche un’icona che rappresenta tutta la cultura musicale giamaicana, dandole una visibilità altrimenti impossibile ma contribuendo a sminuirne la varietà e la rilevanza innovativa. Fondando un particolare immaginario sull’equazione ‘Reggae - Bob Marley - Rasta’, l’icona reggae consente una diffusione impensabile della cultura Rastafariana, ma ne promuove un’immagine folkloristica che prescinde dalla sua essenza filosofica e politica.

2.1 Origini e caratteristiche della cultura musicale giamaicana.

Meno di tre milioni di persone popolano i diecimila

chilometri quadrati dell’isola delle Grandi Antille il cui toponimo, Giamaica, ‘terra delle primavere’, ne sottolinea le caratteristiche climatiche. Già possedimento della corona

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spagnola, dall’occupazione inglese del 1655 l’isola diventa lo zuccherificio dell’impero britannico, la cui redditività è assicurata dal massiccio afflusso di schiavi dall’Africa. I loro discendenti costituiscono il 90 per cento dell’odierna popolazione giamaicana.

Dopo l’indipendenza, raggiunta nel 1962, il Paese offre, e soffre, un classico scenario post-coloniale scandito da sperequazioni economiche e fratture sociali così gravi da generare uno dei più alti tassi di violenza diffusa e di criminalità al mondo2. Nelle dinamiche della globalizzazione la Giamaica si distingue in due campi caratteristici: lo sport e la musica. Quest’ultima, a partire dal dopoguerra, si è progressivamente costituita come vera e propria industria musicale, fino a rappresentare una percentuale non inferiore al 3 per cento del mercato musicale mondiale nel 1996, secondo calcoli sommari e datati (Witter, 2004), ma rappresentativi e probabilmente sottostimati, data l’ampiezza del settore informale.

Le specificità della musica giamaicana sono sintetizzabili in due punti: l’invenzione del sound system e la messa a punto del ritmo ‘in levare’. Due evoluzioni orientate principalmente a soddisfare la voglia del pubblico di ballare; una vera e propria istanza popolare informale, in parte radicata nelle tradizioni religiose e sociali dell’isola, in parte determinata dalla necessità di sfogare le quotidiane frustrazioni legate alle situazioni di marginalità.

Il sound system è un impianto musicale itinerante e di grande potenza, in grado di portare la musica laddove la si vuole o la si può ballare (Fig. 1). Furgoni dotati di giradischi, mixer ed enormi casse acustiche si diffondono in Giamaica dal 1950, e si dedicano inizialmente a diffondere musica jazz (swing e bop), soul e rhythm’n’blues, captata via radio dagli Stati Uniti.

I sound system costituiscono una doppia innovazione. La prima novità è data dalle modalità di impiego dello spazio pubblico e dalle dinamiche di socializzazione connesse. Chi non può permettersi l’ingresso in una discoteca può comunque ballare secondo logiche e in situazioni diverse. Strade, piazze e parchi dei quartieri marginali di Kingston si trasformano in ‘dance’, situazioni pubbliche di ballo spesso situate in prossimità di una rivendita di liquori che sponsorizza l’evento; 2 Oltre 1.500 morti violente nel 2007 secondo dati di Amnesty International

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anche fuori dalla capitale la musica itinerante dei sound system riesce a raggiungere i centri minori nelle campagne e in montagna, ricreando libere situazioni danzanti. La seconda novità si evolve a partire dalla struttura organizzativa stessa del sound system, che favorisce la valorizzazione di inedite figure musicali di grande attualità: il Selecter, che seleziona l’avvicendamento dei dischi, e il Toaster, che parla sulla musica e intrattiene il pubblico mantenendo alta l’empatia (mood) durante i cambi dei dischi.

Fig. 1. Caratteristico sound system giamaicano

Fonte: (http://images.google.com)

Dalla competizione fra i maggiori sound system per avere la musica più esclusiva e il pubblico più numeroso nasce e si sviluppa una vera e propria industria musicale locale impegnata a promuovere artisti giamaicani. A partire dagli anni ’60 i protagonisti della scena si dotano di studio di registrazione e fondano proprie etichette discografiche: assoldano i più estrosi musicisti scelti tra i membri delle orchestre di mento e calypso, ingaggiano i più talentuosi fra i molti giovani cantanti che cercano un’occasione di successo e producono, just in time, musiche dal ritmo incalzante e contagioso che seguono i gusti e

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le preferenze del momento. Si delinea così il tratto specifico di una cultura musicale definita “del bricolage” (Salewicz, 2004, p.76)

Il ritmo in levare si evolve dalla fine degli anni ’50 sotto le influenze della musica nera statunitense, di quella caraibica e delle tradizioni religiose. Dalla sua progressiva messa a punto nascono quattro generi musicali popolari e originali: lo ska (primi anni ’60), il rock steady (fine anni ’60), il reggae (anni ’70-’80) e il raggamuffin (dagli anni ’80). La successione temporale non implica l’accantonamento dell’uno a favore dell’altro. Questi generi si influenzano e i riddim di maggior creatività e successo vengono continuamente reinterpretati dalle nuove generazioni di artisti. La loro successione rispecchia e influenza le mode giovanili, così come alcune fra le dinamiche culturali e politiche di maggior rilevanza nella storia dell’isola. Anche le liriche variano sensibilmente nel tempo e narrano gli stati d’animo e i problemi di una parte rappresentativa della società giamaicana, trasmettendone le specificità.

Definito come la prima superstar globale del terzo mondo (Salewicz, 2004), Bob Marley è l’indiscusso interprete della musica reggae e il protagonista della globalizzazione del ritmo in levare. Più melodico rispetto ai suoi predecessori, il reggae non solo continua a svolgere una funzione aggregativa e ricreativa facendo ballare le dance, ma si confronta sempre più con tematiche religiose e di resistenza sociale. In una Giamaica dove ogni tornata elettorale sembra condurre sull’orlo di una guerra civile, “quella musica intrisa di spiritualità e interiorità fece da contrappunto all’accettazione passiva degli omicidi e delle devastazioni quotidiane prodotte dalla violenza politica” (Ibidem, p. 111).

2.2. Immagini e contenuti della filosofia politico religiosa rastafariana

Grazie alla portata emotiva e sociale che imprime alla

propria produzione artistica, Bob Marley è il protagonista della moderna storia giamaicana3. È, infatti, l’artefice principale della creazione e del radicamento di un vero e proprio nuovo tessuto

3 È insignito dell’Ordine al merito giamaicano e l’anniversario della sua nascita, il 6 febbraio, è festa nazionale.

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culturale nazionale, avente come ordito l’evoluzione musicale del ritmo in levare e come trama i problemi della società giamaicana riletti attraverso la lente di resistenza proposta del Rastafarianesimo, il sistema di credenza al quale l’artista aderisce fin dagli anni ’60 e del quale diventa una sorta di profeta globale.

Il sistema di credenza rastafariano mette radici in Giamaica fin dagli anni Trenta, integrando il locale ‘revivalismo’ al messaggio di redenzione della diaspora africana di Marcus Garvey4. Il nome deriva da Ras Tafari Makonen, eletto imperatore d’Etiopia nel 1930 con il nome di Haile Selassie I e unico sovrano africano ad avere sconfitto una potenza coloniale: in lui il rastafarianesimo riconosce una fitta rete di significati biblici che lo identificano come il Salvatore nella sua seconda venuta.

La geografa Christine Chivallon (2004) propone un lettura convincente del Rastafarianesimo come cultura politico religiosa i cui “aspetti barocchi e disordinati destabilizzano ogni sforzo definitorio” (Ibidem, p. 205). Sono proprio tali caratteristiche che permettono di individuare e mettere a fuoco la portata di maggior interesse di tale cultura: le modalità di interpretazione e gestione del potere. L’inedito sistema di senso rastafariano, spiega la studiosa francese, è “alimentato da una forte coscienza critica e formula l’ideale di una libertà radicale, concepita fuori dal potere di regolazione dei dispositivi comunitari” (Ibidem, p. 214).

I precetti e la simbologia del Rastafarianesimo si sviluppano nel corso di specifiche congiunture storiche, non come semplice segno distintivo ma come riflesso di una forma di resistenza a specifiche situazioni di oppressione e ingiustizia perpetrate dalla società dominante, l’Occidente, identificata con il termine Babilonia. (Campbel, 2004). I più noti fra tali simboli e precetti sono comunemente definiti ‘rasta’ e prevedono: il rispetto del corpo tramite alimentazione vegetariana, pratiche sessuali corrette ed esercizio fisico; l’astensione dal consumo di quelle che nella cultura rastafari vengono percepite come droghe, cioè gli alcolici; la meditazione e la socializzazione, da stimolarsi tramite il consumo comune e rituale di marijuana; l’uomo come

4 Di origini giamaicane ma impegnato soprattutto negli Stati Uniti (fra il 1910 e il 1930) Marcus Garvey è uno dei più celebri attivisti politici del panafricanismo.

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primus inter pares nel rapporto fra generi; la consacrazione del capo tramite l’astensione dal taglio dei capelli e l’acconciatura in dreadlocks.

Non meno importante, seppur molto meno nota, è la portata simbolica della sfera del linguaggio ‘rasta’ che fonda una vera e propria filosofia e si riflette sulle modalità di gestione del potere. Le pratiche discorsive del Rastafarianesimo “traducono il potere accordato alle parole di comporre il mondo” (Chivallon 2004 p. 213). Riconoscendo un eccessivo servilismo al pronome me (prima persona), lo sostituiscono sempre con l’I, talché il ‘noi’ diventa I and I. All’individuo spetta un’importanza prioritaria e ogni collettivo è innanzitutto composto da persone.

La filosofia dell’I & I localizza l’autorità in ogni individuo così che il Rastafarianesimo identifica un sistema di potere anarchico che rifiuta l’autorità grazie ad “un’acuta coscienza” della violenza provocata dall’esercizio del potere (Constant, 1982, p. 74). Tale anarchia si realizza effettivamente sulla base di un insieme di pratiche individuali e concrete che, se attuate, la rendono possibile ed effettiva proprio a partire dal loro quotidiano esercizio. Procedendo dal basso, tali pratiche danno luogo a una vera e propria filosofia popolare di resistenza spontanea che configura effettive realtà socio-territoriali (dis)organizzate nel rifiuto di qualsiasi logica di controllo.

Il legame fra Rastafarianesimo e musica in levare si salda nelle liriche delle canzoni che parlano di verità e diritti, di giustizia ed emancipazione, di amore e passione. Dilatato dalla musica reggae il messaggio rastafariano sprona all’unificazione dell’umanità al di fuori di ogni logica razziale e politico-economica, trasformandosi ben presto in un insegnamento ascoltato dalle più diverse società che non si riconoscono nell’autorità ‘legittima’ o che si percepiscono vessate dal potere. Un messaggio raccolto non solo dagli aborigeni australiani, dai nativi americani e da altri popoli in cerca della propria emancipazione, ma anche dai movimenti occidentali di contestazione giovanile.

3. Culture in movimento Con Bob Marley il ritmo in levare e il messaggio

rastafariano di resistenza al potere raggiungono una diffusione

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davvero globale. Dallo ska al reggae la musica giamaicana è ascoltata e ballata, ma anche suonata da gruppi locali, in Giappone in Australia e a Bali, ritmando gli Hippy trail citati da Minca (1996); in tutta l’Europa occidentale, dove Marley ha tenuto un gran numero di concerti di straordinario successo (100 mila presenze allo stadio Meazza di Milano nel 1980); nel continente americano, dal Brasile al Canada agli Stati Uniti; e in Africa naturalmente, in Senegal, Mali, Costa d’Avorio Ghana, Nigeria, Sud Africa e nello Zimbabwe, alla celebrazione della cui indipendenza l’artista giamaicano partecipa come ospite d’onore.

Conclusa l’epopea di Bob Marley, scomparso nel 1981, la cultura musicale giamaicana si rinnova secondo modalità artistiche e pratiche capaci di influenzare il proscenio globale. In Italia ciò avviene parallelamente ad una trasformazione della cultura giovanile di opposizione, i cui ideali e i cui modelli organizzativi rivelano diversi collegamenti, non privi di contraddizioni, con la cultura musicale giamaicana e con la filosofia dell’I & I. L’incontro fra queste ‘culture in movimento’ getta i presupposti per lo sviluppo del distretto turistico reggae salentino.

3.1 La globalizzazione della cultura musicale giamaicana

L’influenza della tradizione giamaicana sull’odierno

mainstream musicale globale è ben più radicale e profonda di quanto la diffusione del reggae e la notorietà di Bob Marley non lascino intendere. Le evoluzioni del sound system, dei suoi protagonisti e delle sue prerogative, infatti, influenzano le modalità del fare musica anche al di fuori del genere ‘in levare’ e si sposano con gusti e tendenze di diverse tipologie di pubblico, diffondendosi in tutto il mondo.

La figura del selecter evolve in quella di disc-jockey (DJ) un artista che non solo si occupa della selezione musicale, ma assembla suoni, ritmi e melodie preregistrate in un pastiche sonoro originale. La figura del toaster evolve da semplice intrattenitore a vero e proprio protagonista, ‘maestro di cerimonia’ (MC) della festa danzante, capace di improvvisare sugli spunti musicali offerti dal DJ e di giocare con la metrica, la ritmica e le parole, assemblando sempre nuove narrazioni. È così che la struttura organizzativa tipica del sound system si

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diffonde come configurazione logistica di ogni discoteca. Ma non solo.

Dai primi anni ’70 a New York, nel Bronx, i riddim ‘in levare’ sono sostituiti da basi preregistrate di musica funky. Nasce il genere rap che si afferma, insieme alla breack dance e ai graffiti, come una delle componenti essenziali della rinnovata cultura urbana afroamericana che prende il nome di hip-hop. Ed è interessante notare come i primi riconosciuti artisti della scena abbiano origini giamaicane (Dj Kool Herk) o si affrontino a colpi di volume dei rispettivi ghettoblaster (grosse radio portatili analoghe ai sound system) in feste danzanti organizzate per le strade di quartiere e chiamate block party.

Definito raggamuffin in Giamaica e rap negli Stati Uniti il nuovo genere musicale si caratterizza per essere quasi interamente eseguito con apparecchiature elettroniche e per offrire a chiunque la possibilità di cimentarsi artisticamente, pur senza eccezionali doti canore e con costi economici decisamente contenuti. I motivi del suo straordinario successo sono dunque chiari ed oggi il cantato su basi preregistrate è probabilmente la modalità più diffusa al mondo per fare musica, tanto nel mainstream quanto nei circuiti underground.

Due interessanti concettualizzazioni che emergono da un’indagine sull’hip-hop e sui linguaggi del ghetto analizzati come “pratica di resistenza” (Tarona, 2005) sembrano trasferibili per analogia alla cultura musicale giamaicana. L’“oralità post-alfabetica” (Ong, 1982 p. 140), individua l’interazione fra aspetti tradizionali e tecnologici nel definire una nuova originalità narrativa, i cui effetti sulla composizione della memoria e sull’identità collettiva devono ancora essere scoperti. La “co-paternità creativa” (Tarona, 2005), sostiene che ogni opera originale può non essere un punto d’arrivo ma solo una delle alternative possibili, aperta all’altrui ingegno e creatività; l’idea di paternità collettiva rimette in causa la nozione di autenticità e rimanda alla nozione di “situazione transdiscorsiva” impiegata da Foucault (1971, p.14) per identificare l’evoluzione del ruolo dell’autore da creatore a fondatore di discorsi aperti.

Le nuove modalità di esecuzione consentono alla produzione musicale giamaicana una varietà tale da mettere in crisi i tentativi di classificazione. Influenzata di ritorno dal rap americano essa si apre dai tradizionali ritmi in levare (roots e newroots), a quelli dell’hip-hop e della musica techno

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(bashment). Anche le liriche moltiplicano i loro contenuti spaziando da testi carichi di spiritualità e consapevolezza (consciousness) a tematiche collegate al gangsterismo urbano, al lusso e alle imprese sessuali, espresse con linguaggi esasperatamente volgari (slackness). Le variazioni sono così numerose che un unico termine, dancehall, si afferma per identificare sia il genere musicale che il contesto socio-spaziale nel quale esso realizza la sua finalità, cioè quella di far ballare.

Le dancehall o dance restano uno dei perni centrali della tradizione musicale giamaicana ma le situazioni di ballo a localizzazione variabile, rese possibili dalla particolare struttura del sound system, conoscono una straordinaria diffusione globale come alternativa alla discoteca. In Occidente, e in Europa in particolare, la possibilità di portare la musica laddove la si vuole o la si può ballare diventa famosa negli anni ’90 grazie ai rave party, feste danzanti di musica techno organizzate tramite l’occupazione temporanea di aree industriali dismesse. 3.2. Le evoluzioni della cultura giovanile d’opposizione in Italia

A muovere dal movimento studentesco della ‘Pantera’ che,

fra il 1989 e il 1990, costituisce una primordiale rete di aggregazione basata sui fax, il rap e il raggamuffin conoscono un crescente successo in Italia parallelamente ai gruppi musicali chiamati ‘posse’, fenomeno underground che si inserisce in una fase di cambiamento importante dei ‘Centri sociali occupati autogestiti’ (CSOA) italiani.

Dalla caduta del muro di Berlino alla seconda Repubblica il vecchio stile della militanza politica di sinistra, ortodosso, autoreferenziale e chiuso nella rivendicazione della propria marginalità specifica, viene aggiornato nella forma e nei contenuti. Tale cambiamento rivela diversi richiami al rastafarianesimo e alla filosofia dell’I and I. Le parole d’ordine del movimento sono ‘autocoscienza’ e ‘cittadinanza attiva’, resistenza all’uniformazione (anche e soprattutto verso gli schemi prevalenti di socialità e di svago), documentazione alternativa e controinformazione, produzione culturale innovativa tramite creatività pratica e auto-organizzata, nelle arti ma anche nella solidarietà (Aa.Vv., 1996).

Attraverso il ‘fare comune’, la produzione di cultura è strettamente connessa alla costruzione di spazi di socialità e di

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identità, sia collettive che individuali; tali identità si autodeterminano a partire dal grado di resistenza effettiva che riescono ad opporre al sistema dominante, così che l’atto dell’occupazione di un edificio abbandonato è il primo simbolo e la più immediata manifestazione di dissenso verso l’ordine prestabilito. Parallelamente alla trasgressione di codici urbanistici e comportamentali, l’okkupazione propone nuovi criteri di relazione, fra individui e fra spazio pubblico e privato, cercando di sviluppare “forme non mercantili di scambio sociale” (Rossi 2009, p. 446).

Al progressivo collasso dei linguaggi e dei significati della politica tradizionale, una generazione post-politica risponde con la musica (Branzaglia et al., 1992, p. 19). La musica diventa il fattore di identificazione, reciproco riconoscimento, convergenza e propulsione per decine di Centri sociali; le posse sono i portavoce del movimento e uniscono l’autocoscienza, attraverso liriche sempre molto critiche e attuali, all’intrattenimento, grazie alla partecipazione diretta e al venir meno delle separazioni fra palco e platea. Attraverso i nuovi generi musicali e le nuove forme di interazione, anche tecnologica, i centri sociali riescono in certa misura a realizzare quella “pragmatica dello spazio pubblico” (Rossi, 2009, p. 446) finalizzata all’individuazione e all’affermazione delle identità.

In campo musicale, in particolare, si viene a creare una rete di CSOA il cui perno è Bologna, cerniera dell’asse Milano, Roma, Napoli. A questi nodi principali si allacciano diverse decine di altre realtà auto-organizzate a Genova, Torino, Bergamo, Padova, Udine, Venezia, Firenze, Perugia, Cagliari, Bari, Reggio Calabria, Messina, a loro volta perno di ulteriori unità locali. Dati i costi moderati, le modalità di svolgimento e la partecipazione diffusa, l’immediatezza della pratica e l’efficacia nella trasmissione dei messaggi, rap e raggamuffin si rivelano un eccellente supporto nella diffusione dei contenuti e del modello organizzativo della cultura giovanile alternativa in trasformazione. Circolando incessantemente fra i centri sociali di tutta la penisola e organizzando raduni nazionali, le posse animano serate danzanti e intessono una vera e propria rete di amicizie, conoscenze e collaborazioni che finirà per contraddistinguere un’intera generazione.

Il legame fra le feste danzanti a localizzazione variabile e lo spirito ludico-costruttivo della contestazione giovanile è più facilmente leggibile facendo riferimento a due nozioni, che lo

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hanno al tempo ispirato e descritto. In primo luogo la “situazione” (Debord 1956, 1957) individua contesti reali e momentanei di pratica giocosa e spontanea finalizzata alla ricerca di una superiore intensità passionale. La creazione di situazioni è il cardine del movimento situazionista tornato in auge negli anni ’90 (ad opera di collettivi quali Criticalmass e Luther Blisset, ad esempio) ed implica il lasciarsi andare in contesti fuori dagli schemi per autodeterminarsi, individualmente e socialmente, attraverso la partecipazione alla creazione della situazione stessa. In secondo luogo la “Zona Temporaneamente Autonoma” (Hakim, 1993) rappresenta l’effrazione spazio-temporale, reale e simbolica, di una porzione di territorio che viene temporaneamente affrancata e trasformata in un luogo ‘altro’, da parte di un movimento capace di aggirare il controllo e di liberare spazi (di tempo, di terra, di immaginazione), dissolvendosi in tempo per potersi riformare in un altro luogo, in un altro tempo, secondo altre immaginazioni.

Il sopracitato legame, tuttavia, non è privo di contraddizioni, che emergono a cominciare dalle controversie in merito ai ricchi contratti discografici offerti ad alcuni artisti della scena dalla distribuzione discografica multinazionale. Un’altra questione tutt’oggi delicata è in relazione all’omofobia che contraddistingue alcuni testi rap e dance hall; i centri sociali e più in generale il sentire di sinistra non solo in Italia, infatti, si caratterizzano per un atteggiamento diametralmente opposto, tanto che in Europa viene messo a punto il Reggae Compassionate Statement, documento formale contro l’omofobia sottoscritto dai maggiori artisti Giamaicani. Una terza criticità riguarda infine l’ambivalenza di determinati costumi che possono sì dimostrare l’adesione a specifici precetti filosofico-religiosi, ma che possono anche essere il mero sfoggio dei loro simboli divenuti icone alla moda, com’è il caso dall’acconciatura a dreadlocks e delle differenti finalità del consumo di marijuana, culturali-religiose oppure ricreative.

Dal rap, progressivamente attratto dalla grande distribuzione, la pratica dei centri sociali si orienta sempre più verso il raggamuffin e le dancehall, mentre le posse lasciano spazio ai sound system. Nel 1994 si tiene a Osoppo il primo Festival reggae italiano, destinato a diventare il più importante del continente con oltre 150 mila presenze nell’edizione 2008. Nel 1996 si svolge il primo raduno nazionale autogestito dei

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sound system, con una decina di partecipanti che, nel 2001, diventano oltre trenta. Oggi i sound system in Italia sono oltre duecento, sebbene il termine sia parzialmente evaporato e solo pochi possiedano un impianto musicale itinerante. Con livelli qualitativi e di partecipazione molto differenti, essi danno settimanalmente vita a svariate decine di feste danzanti in stile giamaicano, dando linfa ad un movimento ancora in buona misura esterno al circuito delle discoteche e della grande distribuzione.

4. Il distretto turistico reggae salentino Il ‘distretto turistico reggae salentino’ si sviluppa dalla fine

degli anni ’80 in una regione evidentemente incline al turismo, il Salento, ma nella quale il processo di regionalizzazione turistica non ha ancora superato il secondo stadio dello schema di Miossec, e i flussi si concentrano stagionalmente in brevi tratti di litorale o singole stazioni balneari, tralasciando le aree interne (Spinelli, 1999).

Nel quadro territoriale delle marine di Melendugno, caratterizzato dall’assenza di peculiari iniziative di valorizzazione turistica e punteggiato da sparuti villaggi turistici ‘autocentrati’, da scarse strutture ricettive di livello intermedio e da agglomerazioni sgrammaticate di seconde case. Il distretto reggae si sviluppa in un tratto particolare del litorale (Fig. 3), e si contraddistingue come ‘specializzazione spontanea’ che intreccia la propria storia con il gruppo musicale Sud Sound Systema e con il movimento giovanile di opposizione, influenzando e venendo a sua volta influenzato dallo sviluppo turistico che caratterizza negli stessi anni tutta la regione.

4.1. Il genius loci e il suo riconoscimento nazionale

Il genius loci del distretto turistico reggae salentino è il Sud

Sound System, gruppo musicale raggamuffin che esordisce musicalmente nel 1991 come evoluzione della Salento Posse, formazione attiva già da qualche anno nella produzione musicale alternativa e nell’organizzazione di feste danzanti in stile giamaicano fra il Salento e le maggiori realtà autogestite italiane.

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I componenti del gruppo, una decina fra passati e presenti,

sono originari di Lecce e dei comuni limitrofi, ma molti di loro vivono e risiedono al nord, a Roma e Bologna soprattutto. Essi sono al centro di una vasta rete di amicizie, contatti e collaborazioni passate e presenti cosicché il ‘distretto reggae salentino’ nasce, fin dagli ultimi anni ’80, dalla loro abitudine a ritrovarsi durante l’estate presso le marine di Melendugno, invitando amici ed organizzando dancehall (Fig. 2).

Fig. 2. Locandina per serata danzante, 1989\90 circa

Fonte: MosesVibes Reggae Store, Lecce.

Fin dalle prime apparizioni il Sud Sound System si

caratterizza per una doppia connessione alla cultura musicale giamaicana. Da un lato le dancehall, nelle quali il gruppo si specializza raggiungendo livelli di eccellenza oggi internazionalmente riconosciuti. Dall’altro lato, un’originale stile raggamuffin che miscela ritmi giamaicani, dialetto salentino e liriche conscious che, senza tralasciare le tradizioni e

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l’amore, sono spesso orientate alla critica sociale e all’analisi dei problemi sociali ed economici della regione.

La devozione alle radici territoriali e l’utilizzo del dialetto salentino, le cui cadenze si adattano perfettamente al genere raggamuffin e ai ritmi in levare, decretano il successo del gruppo fino a destare l’attenzione della comunità scientifica. Esperto degli stati modificati di coscienza (transe), è l’antropologo francese George Lapassade a rinvenire una continuità fra il raggamuffin e la tradizionale cultura musicale-popolare salentina (Fumarola, Lapassade, 1991) caratterizzata dalla pizzica, un componimento insistente e ipnotico centrato sui tamburelli, e dai balli che la accompagnano, sfrenati, sensuali e ispirati alla tradizione del sistema catartico-rituale del tarantismo.

Secondo Lapassade alcuni tratti rappresentativi del tarantismo persisterebbero nella memoria profonda del repertorio musicale del Sud Sound System e, analizzandoli, l’antropologo si prefigge di recuperare lo spirito autentico del tarantismo nel suo moderno aggiornamento che definisce tarantamuffin. Fra il ’90 e il ’93 l’autore trascorre diverso tempo in Salento organizzando sessioni musicali congiunte e collaborazioni fra il gruppo e le orchestre di musica tradizionale locale. Pur non verificato, ed anzi infine abbandonato dallo stesso promotore (Lapassade 1993, Poidimani 1993, Plastino 1995), il legame profondo fra raggamuffin e tarantismo si inserisce comunque nel frizzante dibattito concernente i centri sociali e richiama l’attenzione di diversi media nazionali sul reggae come sulle tradizioni salentine.

I media fanno da cassa di risonanza alla fama che il gruppo ha già consolidato nell’ambito del circuito alternativo dei centri sociali; il Sud Sound System si esibisce e riceve riconoscimenti davanti alle più prestigiose platee nazionali e internazionali, ma riesce a trovare un equilibrio fra critica sociale e grande distribuzione, collegandosi ad etichette indipendenti. Il gruppo diventa così un punto di riferimento sociale e culturale capace di legare al territorio almeno due generazioni di giovani salentini che, appassionatisi al reggae, costituiscono le nuove leve dello stile giamaicano-salentino.

A suo modo quindi autentico, oltre che originale, il Sud Sound System si caratterizza per una doppia matrice identitaria. In primo luogo quella culturale musicale giamaicana, basata sulla capacità di intrattenimento dei Dj e dei cantastorie del

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gruppo, capaci di improvvisare cantando su qualunque base musicale, dal levare alla pizzica. In secondo luogo le pratiche di resistenza sociale tipiche dell’esperienza dei centri sociali e dei movimenti giovanili sviluppatisi sulle macerie del muro di Berlino. Idee e radici leggibili sia nelle liriche di critica sociale, sia nelle pratiche di occupazione, sia nell’impegno sul territorio in tema di diritti, lavoro, criminalità, ambiente, che li ha portati fra l’altro ad esibirsi al World Social Forum di Nairobi nel 2007.

4.2. Utopia, gioco, spontaneità: insolite relazioni fra domanda e offerta turistica

Come accennato, il ‘distretto turistico reggae salentino’

nasce dall’abitudine dei membri del Sud Sound System a ritrovarsi d’estate al mare ‘sotto casa’, dove sono cresciuti, organizzando feste danzanti e invitando gli amici che, date le attività del gruppo, sono davvero numerosi e sparsi in tutto il Paese. Da questo network informale, non programmato e (dis)organizzato, basato sulle reti di conoscenze dei centri sociali e sostenuto dal passaparola, si sviluppa il distretto reggae salentino.

I primi frequentatori del distretto, i ‘ragga-turisti’ pionieri, scoprono loro malgrado uno dei litorali più suggestivi dell’intero Mediterraneo, ma il loro “sguardo” (Urry, 1995) cerca e trova altro. Il motivo del viaggio in Salento infatti può essere accostato alla nozione di “Valorizzazione utopica” (Bonadei e Volli, 2003, p. 32) e cioè collegata a ideali e valori che per un certo gruppo di persone appaiono come scopi in sé. Nel caso specifico, questa valorizzazione utopica presuppone anche una “valorizzazione ludica” (Ibidem) nella misura in cui i fondamenti dello spirito antagonista contengono anche la doverosa ricerca del gioco e del divertimento. Per i ‘ragga-turisti’ pionieri il viaggio ha dunque un elevato contenuto sociale e simbolico: esso sancisce una sorta di compimento dell’adesione al movimento (anche durante la vacanza!) che richiama le riflessioni di John Urry (1995, p.133) sul consumo culturale differenziato e sui collegati processi di inclusione sociale

La specializzazione ‘ragga’ del distretto si fonda sulla partecipazione spontanea, diretta e diffusa dei turisti, cosicché ciò che sembra costruito per loro è in realtà costruito anche da loro, soprattutto per quanto concerne i momenti ludici che,

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come detto, svolgono un ruolo centrale. La formula è resa possibile dalle prerogative organizzative e artistiche del movimento e dal venire meno della separazione fra l’artista e il suo pubblico. Ed è così che il ‘ragga turista’ pioniere in Salento non si auto-percepisce come vero e proprio turista, ma come ospite a casa di amici; se non ché la casa è una casa okkupata e gli amici sono coloro assieme ai quali continua a svolgere le attività che svolge durante tutto l’anno, allorquando sono gli amici stessi ad essere ‘ospitati’ nella sua regione e nella sua città.

I rapporti fra i ‘ragga-turisti’ e i locali, in effetti, non dimostrano particolari “tensioni bipolari” (Bonadei e Volli, 2003, p. 18) del tipo ‘noi-loro’, ‘dentro-fuori’, che possono accompagnare lo sguardo dei turisti; sia perché entrambi ‘vivono il luogo’ da protagonisti (i turisti da quasi-locali, come appreso nella socializzazione alternativa delle realtà autogestite) sia perché il “tono sociale” della località (Urry, 1995, p.42) è scandito da lussi minimi e politiche dei prezzi ragionevoli e si adatta perfettamente all’“ingegneria sociale” (Ibidem, p. 38) alle esigenze economiche e agli ideali del movimento antagonista.

Fig. 3. Il distretto reggae salentino

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Negli anni ’90 il distretto si fonda su non più di tre o quattro località ricomprese in un raggio di meno di cinque chilometri: la spiaggia di Torre dell’Orso, la baia di Sant’Andrea, dove un locale dall’indicativo nome di Babilonia catalizza le serate, la masseria occupata Mantagnata nei pressi di San Foca e un paio di campeggi fra gli uliveti di Melendugno o verso i Laghi Alimini, dove il relativo isolamento consente di alzare il volume della musica. La pineta che orla il litorale fra Sant’Andrea e la località Frassanito diventa uno dei ‘campeggi liberi’ più ambiti e citati nei resoconti sulle vacanze salentine che circolano nei ritrovi sociali delle grandi città. La piazzetta della baia di Sant’Andrea si trasforma nel suggestivo scenario di concerti in cui si esibiscono posse e artisti provenienti da tutto il paese.

Promuovendo le nuove correnti artistiche underground il distretto si trasforma in un vero e proprio laboratorio estivo della cultura alternativa giovanile che, di anno in anno, si consolida nella sua auto-organizzazione fino a giungere al festival reggae hip-hop ‘Gusto dopa’ svolto dal 1995 al 2000.

4.3. Situazione dancehall: la dimensione ludica del distretto reggae

È nella pratica delle dancehall che emerge lo spirito del Sud

Sound System e del distretto reggae salentino. E in particolare nelle ‘dancehall pirata’, cioè organizzate con spontaneità e improvvisazione, al di fuori di ogni logica di sorveglianza, ideate il pomeriggio, pubblicizzate la sera tramite il passaparola e realizzate di notte grazie al sistema mobile del sound system.

Per comprendere portata e significato delle dancehall è utile rifarsi ad altri studi dell’antropologo Lapassade, quelli sullo stato modificato di coscienza definito ‘transe’. L’analisi della “techno-transe” (Lapassade, 1997), e cioè degli stati modificati di coscienza che caratterizzano i rave, le feste danzanti di musica techno, può essere estesa per analogia alle dancehall dove, parimenti, può soggettivamente realizzarsi uno stato di transe “da iperstimolazione” (Ibidem, p. 107), collegato al set, cioè ai fattori ambientali, ed al setting, cioè all’atteggiamento individuale e all’assunzione di induttori specifici.

I fattori ambientali dipendono dal contesto fisico, dall’atmosfera di socialità ed empatia create dalla

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partecipazione e dalla musica, nonché dalla presenza di una ‘guida spirituale’. Riguardo al set, le dancehall dell’estate salentina si svolgono sotto le stelle, in spartane strutture all’aperto o in spiaggia, ospitate da uno stabilimento balneare. Quelle pirata, invece, non si sa dove si svolgano fino all’ultimo momento, anche se di solito è un uliveto, una scogliera o una masseria abbandonata a trasformarsi nell’imprescindibile scenario. La variegata composizione etnica e sociale della festa contribuisce ad aumentare il senso di coinvolgimento, ma è soprattutto la musica a segnare il momento. Il dj e il toaster possono elevarsi al ruolo di vere e proprie guide spirituali quando, sincronizzando i ritmi biologici e coinvolgendo i partecipanti, favoriscono il raggiungimento della transe: “ci canta e ci balla suntu na cosa sula”5

L’atteggiamento individuale attiene invece alla personalità, allo stato d’animo, alle aspettative e soprattutto alla disponibilità a ‘lasciarsi andare’ del partecipante. La musica, la scenografia e l’effetto di gruppo a nulla valgono in assenza di una pratica disponibilità soggettiva ad allentare i freni inibitori lasciandosi coinvolgere. Riguardo al setting, diverse sostanze psicotrope più o meno legali possono favorire la predisposizione d’animo e il ‘ragga-turista’ ha in proposito le idee piuttosto chiare: la birra e gli ‘spinelli’ sono gli induttori chimici di gran lunga più diffusi, mentre il consumo di droghe pesanti è fortemente stigmatizzato.

Ogni notte d’estate nel distretto c’è almeno una dancehall giamaicana salentina originale, ma diversi momenti della giornata, dal ritrovo pomeridiano in spiaggia a quello dell’aperitivo, possono trasformarsi in uno spontaneo contesto di ballo. È in questa pratica che trova soddisfazione, la dimensione ludica della vacanza e la tendenza alla giocosità liberatoria, sottaciuta od ostentata, talvolta inconscia, del ‘ragga-turista’.

Situazione dancehall I lumini fanno concorrenza alle stelle, i primi sulla terra e le

seconde nel cielo, ma bisogna seguire i lumini, bisogna guardare a terra, per raggiungere la dancehall pirata. Percorriamo strade sterrate, tra boschi di ulivi e latrati di cani, non vogliamo perderci,

5 Sud Sound System, Sciamu a ballare, “Acqua pe sta terra”, V2 Records, 2005.

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vogliamo arrivare. Moretti e lemonvodka sonno accatastate in una borsafrigo incassata tra i sedili dell’auto, risparmiare poco e bere molto: al bar ‘ufficiale’ birra calda e improbabili cocktail. Scendono nello stomaco con difficoltà, e quindi ti ubriachi lentamente. Canne: a non finire, le fai e te le passano. Il nirvana in Occidente lo raggiungi drogandoti. Ma non sempre lo raggiungi. Quello che vuoi è anestetizzarti, alienarti da quello che pensi di non essere ma che solitamente ti ritrovi ad essere. Vuoi essere te stesso, o quello che vorresti essere. Libero, soprattutto. Mentre il ritmo del reggae si sintonizza sui battiti del cuore, il corpo asseconda il desiderio, il ballo simula il sesso. Donne con abiti ridotti al minimo e uomini con vestiti allargati al massimo. Essere blakka, nell’aspetto e negli atteggiamenti. Se non ci riesci con l’abbronzatura ci provi con l’abbigliamento. E le pose. Mentre i neri si mischiano ai bianchi, non è solo intercultura è anche ammirare l’altro, il diverso, lo straniero. Non importa se non è giamaicano, va bene anche l’Africa. Volerlo, magari averlo. Magari in un letto. Intanto siamo uno di fianco all’altro, uno davanti all’altro, uno dietro l’altro: e tu muovi il tuo bacino a ritmo con il mio, proprio come se fossimo in un letto. L’ex colonialista desidera essere colonizzato. Vuole essere e sentirsi gangsta, io femmina e tu maschio, tornare alle radici, allentare inibizioni e perdere consapevolezza. Dimenticare se stesso, per riscoprirsi e scoprirsi. Amare e divertirsi: gli unici fini che giustificano i mezzi. Almeno fino all’alba.

Gabriella Kuruvilla

4.4. Il nuovo sguardo del ‘ragga-turista’.

Dai primi anni del nuovo secolo il ‘distretto reggae

salentino’ entra in una seconda fase influenzata sia dalle vicende che investono i centri sociali e le realtà autogestite in Italia, sia dai più generali sviluppi turistici regionali.

Dopo il G8 di Genova la vitalità dei CSOA soffoca lentamente ma inesorabilmente sotto il tacco del “berlusconismo” (Bobbio 1994): una vocazione politica e sociale orientata a creare situazioni normalizzate, ‘tutto sotto controllo’, sul modello culturale del ‘grande fratello’, che, senza mediazioni e senza proposte alternative, tende a reprimere qualunque altra situazione spontanea e regolata dalla pragmatica del fare, responsabile e soggettivo, ma ‘al di fuori di ogni controllo’, sul modello dell’I and I.

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La penisola salentina conosce un forte sviluppo turistico che porta verso il raddoppio degli arrivi (Fig. 4). La valorizzazione delle risorse culturali, sportive e naturalistiche è ben percepibile anche negli spazi del ‘distretto reggae salentino’, nel cui retroterra l’impegno di numerosi attori locali anche del mondo delle associazioni porta alla messa a punto dell’odierna attrazione turistico-culturale per eccellenza dell’intero Salento: il festival di musica popolare salentina ‘Notte della Taranta’.

Fig. 5. Arrivi nella Provincia di Lecce, Agosto, 1988-2007

0

50.000

100.000

150.000

200.000

1988

1990

1992

1994

1996

1998

2000

2002

2004

2006

Fonte: APT Lecce

Nel 1998 a Melpignano viene organizzata la prima ‘Notte

della Taranta’, dal cui successo (oltre 150 mila presenze nel 2008) prende vita il Festival itinerante delle ‘Notti della Taranta’, che dal 2003 ritma le serate d’agosto dei comuni della Grecìa Salentina (Fig. 3) in un circuito che si snoda fra decine di sagre enogastronomiche. Un’iniziativa la cui messa a punto ha beneficiato, a quanto è intuibile dai contenuti e dalle modalità di esecuzione, sia dell’interesse verso il tarantismo ridestato dagli studi accademici e giornalistici sulle radici salentine del Sud Sound System, sia dei primi raduni musicali-culturali uderground.

Lungo il litorale delle marine di Melendugno i villaggi vacanze e i residence si moltiplicano disegnando radure fra uliveti e pinete. Gli stabilimenti balneari si affastellano sulle spiagge e a ridosso delle scogliere. Gli esercizi ricettivi e

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pararicettivi aumentano considerevolmente di numero ma, soprattutto quelli della ristorazione e dello svago, tendono ad orientarsi verso una clientela meno ingombrante dal punto di vista delle abitudini, e più disponibile a spendere. I ‘campeggi liberi’ sono progressivamente scoraggiati, anche a seguito di alcune eccessive manifestazioni di noncuranza, mentre alcuni gestori specializzano la propria offerta creando vere e proprie ‘riserve’ di ‘ragga-turisti’.

Pur mantenendo una struttura acefala e un’organizzazione reticolare, in questa seconda fase il ‘distretto turistico reggae salentino’ si perfeziona, arricchendo l’offerta musicale con i più celebri artisti del momento, spesso entusiasti di calcare il proscenio estivo del distretto, e si consolida, ricevendo visitatori comunque numerosi, nonostante la contrazione del tradizionale bacino d’utenza potenziale, più esigenti e musicalmente preparati. Lo sguardo del ‘ragga turista’ tuttavia cambia. Esso è collettivo e moderno (per molti aspetti postmoderno) ma se negli anni ’90 è orientato ad “attività abituali in un ambiente visivo inusuale” (Urry, 1995, p. 31), nel decennio successivo è più variegato e sembra decisamente più orientato alla ricerca dei simboli e delle tracce collettive atte a soddisfare le immaginazioni e i desideri stratificatisi in ormai vent’anni di racconti di viaggio in Salento.

Il ‘distretto reggae salentino’ rappresenta l’esotica Giamaica, da ritrovarsi nei ritmi musicali e nella multietnicità, oltre che nel clima e nelle acque cristalline. Rappresenta il retrogusto della trasgressione, da sperimentarsi nella ricerca di uno svago illusoriamente alternativo al ‘divertimentificio’ istituzionalizzato: una particolare situazione che, per essere raggiunta, implica almeno l’elusione di qualche controllo e l’aggiramento delle usuali modalità di svago. Rappresenta, per alcuni veterani frequentatori affezionati, la rievocazione delle esperienze giovanili che trasforma il distretto in una meta heritage.

Talvolta i ragga-turisti maturi scelgono di soggiornare altrove nella penisola salentina, spostandosi verso il distretto per seguire le serate e i concerti; i ‘novizi’, invece, si trovano spesso involontariamente delocalizzati a decine di chilometri dagli eventi e dai ritrovi principali, confusi nella loro scelta insediativa dall’immagine diffusa dell’intero Salento come ritrovo reggae alternativo.

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Più di quanto non accada nel rapporto con gli abitanti del luogo, la pittoresca presenza dei ragga-turisti richiama l’attenzione dei turisti ‘altri’, con i quali si vengono a creare sipari di varia umanità fondati sulle convergenze spazio-temporali invertite: all’appuntamento della prima colazione alla caffetteria centrale gli uni concludono la propria giornata quando gli altri la cominciano, e il contrario avviene la sera alla sagra del paese di turno. 5. Conclusioni

Il distretto turistico reggae salentino non pare collegato ad

un’“intrusione turistica” (Minca, 1996, p.47) etero-diretta e capace di generare perdita di senso e discontinuità identitarie, ma, al contrario, sembra fondato sulla ricezione culturale e sulla rielaborazione delle novità da parte degli attori locali.

Da un punto di vista quantitativo è assolutamente impossibile valutare il peso del distretto reggae sul totale degli arrivi e delle presenze turistiche in Salento (anche a seguito dell’impressionante sommerso). In un’ottica storica e qualitativa, invece, è più agevole riconoscergli un’influenza pioniera, diretta ed efficace, nel valorizzare la musica come elemento culturale ‘autentico’ dell’odierna offerta turistica salentina.

Più che alle generali tendenze del turismo nella regione, e a fronte del crescente successo di una politica governativa volta a cancellare anche le tracce dell’esperienza storica sociale e politica dei centri sociali italiani, le prospettive del ‘distretto reggae salentino’ sembrano collegate alle capacità cooperative e creative autonome dei suoi principali attori. La collaborazione è essenziale per resistere alle tendenze normalizzatrici e continuare ad offrire spazi più o meno (dis)organizzati con funzioni aggregative e identitarie; la creatività risponde invece alla doppia minaccia iscritta nell’identità stessa degli spazi di resistenza: il pericolo del ‘controllo’ e il pericolo della loro trasformazione in ‘simulacro’, la perpetuazione banalizzata che si fa rito.

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