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INTERVISTA A PAOLO VIRZI’ Dove ha trovato l’ispirazione per parlare del mondo della salute mentale? E perché ha scelto proprio Valeria e Micaela? I casi umani che si incontrano nella vita quotidiana. Tutti i personaggi del film sono in qualche modo dei casi clinici, la psicopatologia corre sotto le storie di tutti noi. La scelta di Valeria e Micaela risale al loro primo incontro causale sul set de Il Capitale Umano. Camminavano tenendosi per mano e Valeria guidava con fare deciso Micaela, che la seguiva con un misto di fiducia e di terrore. Appena ho avuto l’idea di questo film l’ho raccontato a Francesca Archibugi. Con lei condivido anche la passione per la psicopatologia, siamo una calamita per i casi clinici, forse vedono in noi lo stesso smarrimento e disperazione”. Come ha fatto a trovare il giusto equilibrio fra realismo e fiaba, raccontando questa storia? La Pazza Gioia è un film realistico con momenti da commedia avventurosa e trip psichedelici, visto che ci troviamo di fronte a delle pazienti che sono in astinenza da farmaci antideliranti. Il film è anche un’esplorazione su quello che le istituzioni offrono per il problema del disagio mentale. La società preferisce stigmatizzare le persone che soffrono, anche proponendo terapie innovative, basta che sia altrove. Fuori, il mondo è fatto da altrettante persone apparentemente normali che hanno a che fare con la psicopatologia. Io non ho mai visto chi ha problematiche mentali come un diverso, secondo me bisogna aver paura di chi ha paura della pazzia”. Nel film c’è una solidarietà femminile autentica. Perché hai voluto parlare di questo aspetto delle donne? Le donne mi interessano perché forse lo sono un po’ anch’io. Amo i film con protagoniste le donne, ma non come eroine edificanti, amo le donne sbagliate o escluse, stigmatizzate come poco di buono. ll fatto di aver scritto questo film con Francesca è stato un aiuto prezioso, ridevamo e piangevamo mentre scrivevamo questa sceneggiatura, c’era una nota di identificazione in queste creature bellissime, struggenti e buffe. Ne La Pazza Gioia rappresento una cura che ha il volto della relazione affettiva, anche bellicosa e complicata. L’accudimento e la preoccupazione reciproca son la vera terapia. LA PAZZA GIOIA REGIA Paolo Virzì INTERPRETI Valeria Bruni Tedeschi Micaela Ramazzotti Valentina Carnelutti Tommaso Ragno Bob Messini SCENEGGIATURA Paolo Virzì Francesca Archibugi FOTOGRAFIA Vladan Radovic MONTAGGIO Cecilia Zanusa DURATA 118’ ORIGINE ITALIA 2016 Filmografia La pazza gioia (2016) Il capitale umano (2014) Tutti i santi giorni (2012) La prima cosa bella (2010) Tutta la vita davanti (2008) N-Io e Napoleone (2006) Caterina va in città (2003) Ovosodo (1997) Ferie d’agosto (2005) La bella vita (2004)

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INTERVISTA A PAOLO VIRZI’ Dove ha trovato l’ispirazione per parlare del mondo della salute mentale? E perché ha scelto proprio Valeria e Micaela? I casi umani che si incontrano nella vita quotidiana. Tutti i personaggi del film sono in qualche modo dei casi clinici, la psicopatologia corre sotto le storie di tutti noi. La scelta di Valeria e Micaela risale al loro primo incontro causale sul set de Il Capitale Umano. Camminavano tenendosi per mano e Valeria guidava con fare deciso Micaela, che la seguiva con un misto di fiducia e di terrore. Appena ho avuto l’idea di questo film l’ho raccontato a Francesca Archibugi. Con lei condivido anche la passione per la psicopatologia, siamo una calamita per i casi clinici, forse vedono in noi lo stesso smarrimento e disperazione”. Come ha fatto a trovare il giusto equilibrio fra realismo e fiaba, raccontando questa storia? La Pazza Gioia è un film realistico con momenti da commedia avventurosa e trip psichedelici, visto che ci troviamo di fronte a delle pazienti che sono in astinenza da farmaci antideliranti. Il film è anche un’esplorazione su quello che le istituzioni offrono per il problema del disagio mentale. La società preferisce stigmatizzare le persone che soffrono, anche proponendo terapie innovative, basta che sia altrove. Fuori, il mondo è fatto da altrettante persone apparentemente normali che hanno a che fare con la psicopatologia. Io non ho mai visto chi ha problematiche mentali come un diverso, secondo me bisogna aver paura di chi ha paura della pazzia”. Nel film c’è una solidarietà femminile autentica. Perché hai voluto parlare di questo aspetto delle donne? Le donne mi interessano perché forse lo sono un po’ anch’io. Amo i film con protagoniste le donne, ma non come eroine edificanti, amo le donne sbagliate o escluse, stigmatizzate come poco di buono. ll fatto di aver scritto questo film con Francesca è stato un aiuto prezioso, ridevamo e piangevamo mentre scrivevamo questa sceneggiatura, c’era una nota di identificazione in queste creature bellissime, struggenti e buffe. Ne La Pazza Gioia rappresento una cura che ha il volto della relazione affettiva, anche bellicosa e complicata. L’accudimento e la preoccupazione reciproca son la vera terapia.

LA PAZZA GIOIA REGIA Paolo Virzì INTERPRETI Valeria Bruni Tedeschi Micaela Ramazzotti Valentina Carnelutti Tommaso Ragno Bob Messini SCENEGGIATURA Paolo Virzì Francesca Archibugi FOTOGRAFIA Vladan Radovic MONTAGGIO Cecilia Zanusa DURATA 118’

ORIGINE ITALIA 2016

Filmografia • La pazza gioia (2016)

• Il capitale umano (2014)

• Tutti i santi giorni (2012)

• La prima cosa bella (2010)

• Tutta la vita davanti (2008)

• N-Io e Napoleone (2006)

• Caterina va in città (2003)

• Ovosodo (1997)

• Ferie d’agosto (2005)

• La bella vita (2004)

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IL REGISTA Ultimo detentore dei segreti della commedia all'italiana. Una celebrità

che ha catturato lo sguardo degli spettatori nel modo più pungente possibile e senza mai perdersi. Paolo Virzì si aggira nel piccolo mondo provinciale puntando su quel prodotto medio che ancora oggi latita alla produzione cinematografica nazionale, ma senza abbandonare mai una certa dose di rivoluzione e di impegno. Doti, queste, che gli hanno permesso di essere uno dei cineasti più interessanti in circolazione. Abile nel costruire bozzetti coloriti, nel riprendere con sguardo pietoso un'Italia da ridere (e

da piangere), acuto quando si tratta di delineare ritratti sociologici che si ispessiscono con ritmo sostenuto, è un po' come uno dei leggendari artisti del Rinascimento medievale, soprattutto perché dai suoi affreschi - carichi di personaggi come casalinghe con sogni televisivi e con il corpo prorompente di Sabrina Ferilli, insegnanti che fanno i finti intellettuali ma hanno la moglie burina a casa, parvenu di ieri e di oggi e impiegate dei call center terrorizzate dalla precarietà della vita - scaturisce la vera anima del suo lavoro e del suo stile. Il senso del ridicolo, l'arroganza, l'infelicità diventano qualità delle sue pellicole a tratti romanzesche, che si spostano da un mondo all'altro, da una diversità all'altra. Brillante e affiancato nella scrittura dai fedeli Francesco Bruni e Francesco Piccolo, è uno dei pochi registi che coglie l'Italia per quella che è effettivamente. Stradaiola, picaresca, provinciale, lontana anni luce dal finto mito della globalizzazione che, in effetti, non ci appartiene. È un'Italia entusiasta del calcio, approssimativa nella conoscenza, ferocemente aspirante in qualcosa purché ci si metta in mostra, innamorata, radicale e a volte intransigente, ma soprattutto spavaldamente e gustosamente ignorante, basata sui nodi dell'amicizia, della famiglia, del lavoro, della vita quotidiana, Pellicola per pellicola, Virzì ci restituisce un eterno presente usando i personaggi più come una lente per guardare dentro di noi che come i perni della trama e mostra le nostre miserie, sbandierate e rivelate sotto ogni punto di vista, con ogni sfumatura, segreta o meno, scandagliando i nostri comportamenti privati che si perdono fra

il gossip nazionale e le nostre biografie. Ad avercene registi con così tanta intelligenza, abilità e coraggio. Gradevole maestro della commedia social-sentimentale e del giusto equilibrio fra i sussulti del cuore e quelli della società, sorprende costantemente per la sua autoironia e ironia, rifacendosi ai personaggi interpretati da Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefano Satta Flores e Giovanna Ralli, portandoli a nuova vita e impiantandoli in realtà italiane che si immergono in una nazione che non si è ancora ristabilita dopo gli Anni Settanta, che soffre e gioisce fra miracoli e riformismi, fra congiunture e fra sessantotto, gigioneggiando, immaginando. L'analisi sociale diventa una barzelletta efficace, ma una di quelle dure, arrabbiate e deluse che non risparmia nessuno. Non si salva nessuno nei film di Virzì: non importa che sia destra o sinistra, senza titolo di studio o laureato, professori e alunni, adolescenti e genitori. Strizzando l'occhio a Ettore Scola, Mario Monicelli, Luigi Magni, dipinge continuamente anni, storie ed esistenze che cercano di evitare quanto più possono il consumismo, l'utopia radical-chic, gli intrallazzi, gli intrighi politici. E se i suoi protagonisti non sanno a quale santo votarsi, di questa confusione è meglio ridere apertamente. Il merito di Paolo Virzì sta proprio qui, in questo vagabondare divertito, alla ricerca di briciole di bellezza, di ingenuità, di amara allegria che diventano stendardi della commedia popolare.

LA TRAMA Beatrice Morandini Valdirana ha tutti i tratti della mitomane dalla loquela inarrestabile. Donatella Morelli è una giovane madre tatuata e psicologicamente fragile a cui è stato tolto il figlio per darlo in adozione. Sono entrambe pazienti della Villa Biondi, un istituto terapeutico per donne che sono state oggetto di sentenza da parte di un tribunale e che debbono sottostare a una terapia di recupero. È qui che si incontrano e fanno amicizia nonostante l'estrema diversità die loro caratteri. Fino a quando un giorno, approfittando di una falla nell'organizzazione, decidono di prendersi una vacanza e di darsi alla pazza gioia.di normale anormalità, di complicazioni irrazionali, mine reali, ideali umanitari e umane debolezze.

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Generosità per le imperfezioni di Valerio Caprara Il mattino

Pochissimi cineasti come Paolo Virzì riescono a suscitare l’empatia col pubblico. Un plusvalore autentico, che in fondo è il coefficiente dell’equazione-cinema e può persino prescindere dai disparati meccanismi grazie ai quali il film l’incassa. Non a caso al termine di La pazza gioia è la generosità la prima qualità che salta agli occhi: sostantivo va da sé da intendersi non in senso paternalistico-buonista, bensì in quello di spaziosità narrativa, iconica, creativa. La sua galleria di donne tutte senso e sensibilità si arricchisce, infatti, di Beatrice e Donatella che, ricoverate in una comunità terapeutica, dimostreranno in capo a un pugno di buffe (dis)avventure come non siano “matte”, bensì persone delicate e preziose, ferite a vario titolo da partner, società o famiglia. Un mini-romanzo di riacclimatazione alla libertà su cui torreggiano la Ramazzotti più grintosa e scombinata che mai, ma soprattutto la Bruni Tedeschi eccezionale nell’incarnazione di svalvolata sexy e radical chic autolesionista, sempre trascinante benché sospesa appena un millimetro al di sopra della caricatura. La miscela di lacrime e risate, per fortuna, proprio per questo non si lascia sopraffare dalla sceneggiatura che, al contrario, non ha predisposto al meglio l’interscambio -che al regista viene invece naturale- tra il (si scusi la brutalità) “messaggio” e la vividezza e la levità degli sguardi, le espressioni, i movimenti e il modo di scambiarsi le emozioni. Perché l’assioma che i veri folli sono i normali e nella vita tutti hanno le loro ragioni ormai lo sanno ripetere a memoria a legioni, non solo i cinefili con l’immancabile listino di Thelma e Louise e nidi del cuculo; mentre Virzì gestisce da par suo un approccio compassionevole e non pietistico, che s’insinua sotto la pelle delle situazioni, sorvola sulla rieducazione ideologica dello spettatore, non edulcora il mondo, ma neppure gli spara addosso nascondendosi dietro Senza fine diffuso a tutto schermo nella sala buia. E’ questo il cineasta da amare perché anche stavolta, ancorché a intermittenza, ha voluto e saputo specchiarsi nelle nostre imperfezioni.

Ritratti femminili da amare di Paolo Mereghetti Corriere della sera

Forse non c’è altro regista italiano, oggi, che ami i suoi personaggi come Paolo Virzì. Li inventa e li modella con passione, li fa muovere e li segue con amore all’interno di storie create apposta per farne emergere tutte le caratteristiche. Non necessariamente positive, s’intende, ma sempre senza un’ombra di cinismo o di superficialità. È la prima qualità che colpisce in questo La pazza gioia, accolto con molti applausi ieri alla proiezione all’interno della «Quinzaine des réalisateurs»: un film trascinante, coinvolgente, in alcuni momenti anche doloroso ma sempre attraversato da una passione contagiosa (e rara) per i suoi protagonisti. Che sono due donne, Beatrice Morandini Valdirana (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), la prima aristocratica e la seconda popolana, entrambe ospiti di una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, entrambe alle prese con problemi più grandi di loro. Beatrice è pesantemente bipolare, Donatella ha pulsioni suicide, di cui ha pagato le conseguenze anche il figlio (che le è stato tolto per affidarlo a un’altra famiglia). Si troveranno quasi senza volerlo libere da ogni controllo e inizieranno a girovagare, in una ricerca che cementerà la loro (ancor fragile) amicizia, una alla ricerca di un mondo che l’ha espulsa; l’altra per ritrovare l’unico legame che ha veramente contato, quello col figlio. E per le strade di una Toscana mai oleografica, anche lo spettatore è invitato ad appassionarsi a queste due simpatiche «matte» (a chi le apostrofa così, sorpreso dai loro comportamenti, Beatrice risponde con bella autoironia: «Clinicamente lo siamo!»), a queste due involontarie ribelli che stanno pagando sulla loro pelle l’appartenenza a un mondo avido e conformista o squallidamente egoista e ottuso. Un viaggio però fatto sempre o quasi con il sorriso perché La pazza gioia è soprattutto una commedia, scritta con maestria da Virzì assieme a Francesca Archibugi, ma soprattutto interpretata da una coppia di attrici in stato di grazia, Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti: alla seconda sono «riservate» le scene più drammatiche, alla prima quelle più farsesche, dove ha la possibilità di dimostrarsi grande come forse non era mai stata, una specie di

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incrocio tra Franca Valeri e Monica Vitti (con l’ironia della prima e l’energia della seconda), capace di inanellare battute ed espressioni trascinanti e irresistibili. Due attrici straordinarie che una regia «al servizio di» permette di mostrare in tutta la loro bravura e amorevolezza. Più proseguono le loro disavventure — alle prese con madri poco affettive (Anna Galiena per Donatella, Marisa Borini, madre anche nella vita della Bruni Tedeschi, per Beatrice) o uomini inetti (Bob Messini e Bobo Rondelli per l’aristocratica, Marco Messeri e Tommaso Ragno per la popolana) — più il film inanella colpi di scena e diventa romanzesco e romanzato, più le due protagoniste possono dare l’impressione di essere «frenate», costrette come sono a fare i conti con il dipanarsi della storia (dalla comunità le cercano, i carabinieri portano Donatella in un Ospedale psichiatrico giudiziario, Beatrice vuole farla evadere per favorire l’incontro col figlio). Ma quello che potrebbe sembrare un cambio di ottica registica (che mette meno a fuoco le sue due eroine e più gli accadimenti della storia) si rivela in fondo un passaggio obbligato per accendere il tifo nello spettatore e farlo partecipare emotivamente alla loro avventura. Che trova così un modo differente ma sempre coinvolgente per amare Beatrice e Donatella, due ritratti femminili che non si scordano. E che confermano in Paolo Virzì uno dei pochi registi italiani capaci di unire la volontà dell’ottimismo (c’è sempre un po’ di speranza all’interno dei suoi film) con il pessimismo dell’osservazione.

Le nipotine di Thelma e Louise

di Fabio Ferzetti Il messaggero

Se volete capire a che punto è l’Italia prendete due matte diverse in tutto, anche nel modo di vivere la loro follia. Chiudetele nella stessa casa di cura, nascosta in un angolo della campagna toscana. Quindi fatele scappare e speditele in giro a seminare danni di ogni genere, come due nipotine di Thelma e Louise del tutto svalvolate. Ma con una capacità incredibile di mettere a fuoco, come per reazione chimica, tutto ciò che non va fuori di loro, oltre che dentro.

È lo straordinario La pazza gioia di Paolo Virzì, accolto con applausi trionfali alla Quinzaine (e in sala in Italia dal 17 maggio), copione scintillante scritto da Virzì con Francesca Archibugi, e interpretazione da applauso di Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti. La prima ex-ricchissima, nobili origini e agenda da jet set, ex-moglie di un avvocato del Cavaliere, ex-amante di un bandito, insomma una mitomane che mette tutti nel sacco con la sua parlantina. Mentre l’altra è una ragazza madre con un sacco di guai alle spalle, un’ex-cubista abbandonata da tutti, un cane bastonato che il film mette a fuoco poco alla volta, distribuendo divertimento e commozione con il tempismo infallibile delle nostre migliori commedie di una volta. Uno dei più bei film italiani della stagione (e non solo). Applauditissimo a Cannes, dove tutti hanno riconosciuto all'istante il Dna della grande commedia italiana ma così trascinante e riuscito che viene da chiedersi dove sia il suo segreto. Il lato più evidente è la straordinaria alchimia tra le protagoniste, ovvero la loro capacità di recitare davvero senza rete, dandosi senza riserve ai personaggi, ma mantenendo sempre un controllo perfetto, anche nel lungo prologo ambientato tra persone davvero problematiche (una scelta niente affatto scontata). L'altra risposta è la qualità della sceneggiatura. Oggi che bastano una trovata azzeccata o dialoghi brillanti a far gridare al miracolo, ecco infatti un copione che condensa mondi interi in una battuta e spunti non banali nei continui equivoci fra queste donne che rappresentano due Italie inconciliabili. E se il dramma incombe fin dalle prime scene, poi resta sapientemente sottotraccia per esplodere nel sottofinale. Sempre sorretto da un cast di comprimari bravissimi (e diretti con mano impeccabile da un Virzì sempre più bravo nello schizzare tutto un carattere in due scene. I fanatici del nuovo storceranno il naso per la linea fin troppo classica. A noi sembra che in tempi così confusi un film così brillante e autoironico, oltre che una benedizione sia un esempio di buon uso della tradizione e delle risorse ancora disponibili. Umane, espressive e produttive."