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METAMORFOSI Storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone Locarno, 10 settembre 2015

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METAMORFOSIStorie sull’origine del mondo

secondo Publio Ovidio Nasone

Locarno, 10 settembre 2015

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MMEETTAAMMOORRFFOOSSIIStorie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone

perque omnia saecula (...) vivam,«e per tutti i secoli (...) vivrò»

Publio Ovidio Nasone,Metamorfosi, (XV, 878-879)

Dobbiamo ammettere che, circa un anno fa, quando abbiamo comin-ciato a ipotizzare Ovidio e le sue Metamorfosi come protagonisti del-l’edizione 2015 di «Piazzaparola», eravamo un po’ scettici. Ovidio,c’eravamo detti, è stato un grandissimo poeta, ma la sua parabolaumana e sociale (per come è giunta a noi) rende difficile presentarlo aragazze e ragazzi di nove o dieci anni. Poco più che cinquantenne, l’im-peratore romano Augusto lo mandò via da Roma, la capitaledell’Impero, a trascorrere gli ultimi anni della sua vita in esilio a Tomi,una piccola cittadina in riva al Mar Nero, lontano tanti e tanti chilome-tri dal centro della romanità (oggi si chiama Costanza e si trova inRomania). Difficile stabilire se la ragione stia dalla parte della corte edei suoi intrighi, o da quella dell’uomo. In più Le Metamorfosi, chesono il suo capolavoro, sono un testo difficile. Pensate: è un poemaepico-mitologico scritto duemila anni fa in latino, quindici libri in versiche partono dalla descrizione del Chaos e dell’origine del Mondo perarrivare fino al trionfo di Gaio Giulio Cesare, militare, console, dittato-re, oratore e scrittore romano, considerato uno dei personaggi piùimportanti e influenti della storia. Non a caso Italo Calvino ha scrittoche «le Metamorfosi vogliono rappresentare l’insieme del raccontabiletramandato dalla letteratura con tutta la forza d’immagini e di signifi-cati che esso convoglia».Poi, però, col passare delle settimane, abbiamo cominciato ad amarequest’uomo di 2’000 anni fa, la sua esistenza controversa e avventu-rosa, e, ciò che più conta, ad appassionarci alle sue Metamorfosi.Allora, come succede a tutti quando incontrano qualcosa di meraviglio-so e avvincente, ci è venuto il desiderio di suscitare anche l’interessealtrui e di far conoscere ad altre persone la nostra scoperta, affinchépossano emozionarsi come ci siamo emozionati noi, preparando que-st’edizione 2015 di «Piazzaparola», dedicata a Publio Ovidio Nasone,detto Ovidio, e a una delle sue opere più importanti, Le Metamorfosi:un capolavoro talmente capolavoro, che a venti secoli di distanza loleggiamo ancora con interesse e passione.

Questo fascicolo, destinato per lo più alle maestre e ai maestri, inten-de creare il miglior presupposto affinché l’incontro con lo splendoredelle Metamorfosi ovidiane — un’interpretazione del mondo che ha labella età di duemila anni — possa entusiasmare anche le ragazzine e iragazzini che frequentano le ultime classi della scuola elementare. Mal’incontro con queste storie sull’origine del mondo, scritte con gli occhidi un antichissimo poeta, può essere l’occasione, volendo, per avvici-narsi più in generale alla storia di Roma antica — dalla sua fondazioneall’espansione di un impero smisurato, fino alla sua decadenza, più dimill’anni dopo. Naturalmente, in queste pagine incontreremo ancheOvidio, il nostro protagonista, il sommo poeta, e le sue opere.

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Ci sarà un’altra avventura straordinaria da conoscere e avvicinare: lanascita dell’italiano, la nostra bella lingua, ch’è figlia diretta e legittimadel latino, la lingua di Ovidio e di tanti re, condottieri, imperatori, donnee uomini potenti o umili, che hanno fatto la storia di Roma e dell’Euro-pa. L’italiano, si dice, è lingua neo-latina, cioè che deriva dal latino (o,meglio, continua il latino), ch’era la lingua dei romani, la lingua parlatae scritta di Ovidio e di tanti altri scrittori del suo tempo. Nel mondo visono altre lingue neo-latine, dette anche lingue romanze, quali lo spa-gnolo, il rumeno, il portoghese e il francese.

Il 10 settembre sarà l’occasione per ascoltare la «voce» di Ovidio,magari per la prima volta. E, ve lo garantiamo, sarà una incontro deltutto inatteso, pieno di sorprese che, ne siamo sicuri, vi emozioneran-no e vi lasceranno a bocca aperta. Questo quaderno dà a ognuno lapossibilità di prepararsi per bene all’appuntamento — un appuntamen-to con una persona importante — e, per chi vorrà, di saperne un po’ dipiù.

Un pensiero di gratitudine a Stephanie Grosslercher e all’intero servi-zio Risorse didattiche, eventi e comunicazione del DFA per la preziosae qualificata collaborazione.

Agosto 2015Silvia Demartini e Adolfo Tomasini

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Nota per gli insegnanti

Come è sempre giusto e doveroso fare, è utile preparare i propri allie-vi ad affrontare un’attività «speciale», uno di quei momenti che sipotranno riprendere in seguito, ma che non sarà possibile riprodurredopo che saranno accaduti. Il discorso vale per un’uscita di studio, perla visita a una mostra o per assistere a uno spettacolo teatrale. Salvopoche eccezioni — e, a volte, scelte pedagogiche consapevoli, che ipo-tizzano i passi successivi — conviene che gli allievi sappiano a cosavanno incontro e cosa li aspetta: il che non significa azzerare la possi-bilità che nascano delle emozioni e delle curiosità. Insomma, non ènecessario rivelare come andrà a finire la storia.

Come preparare gli allievi all’incontro con Ovidio e le sue Metamorfosi,affinché ne traggano beneficio e possano seguire con profitto le diver-se proposte della mattinata? Questo fascicolo propone alcune pisteche saranno utili soprattutto nelle settimane e nei mesi successivi,qualora l’insegnante volesse partire dagli stimoli di «Piazzaparola» perscavare sotto la superficie di un mondo che si sarà appena disvelato.Ma potrà essere utile all’insegnante anche se intende limitare l’incon-tro con Ovidio a ciò che si ascolterà e si vedrà quel giovedì mattina. Inaltre parole, la preparazione all’incontro con Publio Ovidio Nasonedipenderà almeno in parte dal percorso pedagogico e didattico che siè scelto.

«Piazzaparola» 2015 si svolgerà in tre momenti distinti. La prima parte,con tutti gli allievi, proporrà, al Teatro di Locarno, il racconto dellaCreazione del mondo, con un accompagnamento musicale compostoespressamente per noi. Seguirà una prima metamorfosi, il racconto diun mito in un adattamento proposto sul palco da due lettrici.In seguito le classi si sposteranno, a rotazione, in due luoghi suggesti-vi: ai giardini «Rusca», davanti alla statua del toro bronzeo donato allacittà di Locarno dallo scultore Remo Rossi (1909-1982), dove CristinaZamboni racconterà due miti, che saranno illustrati dall’artista SimonaMeisser; e in Piazza Grande, nel cuore del mercato del giovedì, doveSara Giulivi racconterà due altre storie, con l’accompagnamento musi-cale di Daniele Dell’Agnola.

Le metamorfosi di Ovidio sono una grande raccolta di narrazioni deri-vanti dalla mitologia greca, che a sua volta le aveva recuperate da sto-rie precedenti. Il poema contiene, legate fra loro in un’unica macro-sto-ria, circa 250 narrazioni mitologiche. Noi ne presenteremo cinque,oltre alla Creazione, che nell’originale è composta di per sé da almenotre o quattro trasformazioni.

Tenuto conto di quanto precede, e tornando all’imperativo iniziale, visono alcuni spunti di partenza che conviene proporre agli allievi, affin-ché possano avere qualche indizio relativo al contesto che li accoglie-rà. Publio Ovidio Nasone, per cominciare, è un poeta: dunque, non scri-

veva in prosa, mentre i nostriadattamenti sono in prosa. Enemmeno scriveva in italiano,bensì in latino. E cosa c’entra,allora? Beh, c’è il discorso sul-l’italiano lingua romanza, e unaccenno, seppur minimo, lo sipuò fare. Eppoi siamo in un’epo-ca lontana: Ovidio nasce nel 43a. C. e muore nel 18 d. C. È quin-di un uomo e un poeta dellaprima età imperiale, dominatada Ottaviano e poi da Tiberio.Infine, le storie delle Metamor-fosi si rifanno alla mitologia gre-ca e romana, coi suoi dei, le suedee e le loro regge, le loro vicen-de appassionanti con animali,appunto, «mitologici», gli amori,le guerre, le competizioni. C’è ladea che, per punizione, vien tra-sformata in un ragno e quell’al-tra in una pianta di alloro; e poiIcaro che s’avvicina troppo alsole e re Mida che muta in orotutto ciò che tocca.Non è insomma il caso di antici-pare dei possibili contenuti di«Piazzaparola» raccontando sto-rie e descrivendo dei e dee. Masarà certamente utile sapereche si ascolteranno storie dimigliaia d’anni fa, con personag-gi un po’ particolari, quali dei edee e ninfe; e luoghi lontanissimie un po’ celesti, accanto ad altriancor oggi segnati sulle cartegeografiche.

Per tutto il resto, volendo, ci saràtempo dopo il 10 settembre.

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Breve cronologia della storia romanaDI LISA FORNARA

LA ROMA DEI RE

Verso la fine dell’ottavo secoloavanti Cristo le città del Lazio,come Tarquinia e Veio, comincia-rono a provare interesse per unapiccola città che si stava svilup-pando sulla riva sinistra delTevere, a pochi chilometri dalmare. Questa città si chiamavaRoma. Era circondata da muradifensive, che racchiudevanopovere capanne e alcuni ripidisentieri che si inerpicavano susette colli fitti di boschi, e siaffacciava su una valle paludosae infestata dalla malaria.Gli abitanti di questa città narra-vano alcune leggende che spie-gavano la nascita di Roma.Queste leggende avevano comeprotagonisti i gemelli Romolo e Remo, discendenti addirittura daEnea, eroe troiano figlio delladea Venere, sbarcato nel Laziodopo la caduta della sua città.I gemelli, abbandonati da un lorozio crudele, erano scampatimiracolosamente alla morte gra-zie a una lupa che li aveva allat-tati e a una coppia di pastori cheli aveva allevati. Romolo, diventa-to un giovane guerriero, avevafondato Roma nell’anno 753 a.C. ed era diventato il suo primore. Per i romani quella data eral’anno Uno della loro storia.La leggenda narra che a Roma ire furono sette. In realtà durantetutto questo periodo furono piùdi sette i re che governaronoRoma. L’ultimo di essi, che sichiamava Tarquinio, fu sopran-

nominato il Superbo perchégovernò male. Secondo le leg-gende, suo figlio Sesto giunse adinsediare una signora romana dinome Lucrezia, che, non poten-do tollerare la vergogna, si ucci-se. I romani, che oramai si consi-deravano capaci di governare dasoli, presero le armi e cacciaronoTarquinio dalla città.

LA REPUBBLICA ROMANA

Era l’anno 509 a. C., in quelladata i romani abolirono la mo-narchia e fondarono la Repubbli-ca. Così essi definivano unoStato che ha a cuore «la cosa(res) pubblica», cioè che non haa capo un sovrano a vita di cui cisi può liberare solo attraversouna rivoluzione, ma è uno Stato icui governanti, eletti periodica-mente dai cittadini, devono perlegge rendere conto agli elettoridel loro operato. A capo della

Repubblica stavano due consoliche, eletti ogni anno, convocava-no le assemblee e comandavanogli eserciti. L’assemblea romanapiù importante era il Senato, cheaveva molti poteri di decisione epoteva emanare le leggi. Quandola città di Roma era consideratain pericolo e quando c’era un’e-mergenza grave veniva nominatoun dittatore, dotato di poteriassoluti su tutti i cittadini ma chepoteva governare solo per seimesi al massimo. Sotto la Repubblica, Roma siespanse notevolmente. L’avver-sario più importante fu la cittàafricana di Cartagine, che fusconfitta durante le due guerrepuniche. La prima durò più divent’anni, tra il 264-241 a.C, e sicombatté quasi esclusivamentesul mare. Le navi di Cartagine erano dota-te di rostri per speronare leimbarcazioni nemiche.I romani inventarono invece uno

strumento che si rivelò straordi-nariamente efficace: i corvi, cioèpasserelle uncinate che veniva-no agganciate alla nave nemicapermettendo l’abbordaggio. Gra-zie a questo sistema Roma riuscìa battere Cartagine a Milazzonella più grande battaglia navaledell’epoca, combattuta da

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150’000 uomini e 480 navi.Nella seconda guerra punica(218-202 a. C.), il cartagineseAnnibale attraversò le Alpi perraggiungere l’Italia e Roma condegli elefanti. Egli fu però scon-fitto e con questa vittoria, Romadivenne padrona di tutto ilMediterraneo.Durante il periodo repubblicano,numerose altre conquiste furonofatte da Roma. Le continue guer-re e l’occupazione di nuovi terri-tori fecero vivere periodi tumul-tuosi per la repubblica. Numero-se volte essa chiamò i più famo-si generali a diventare dittatoriper superare le situazioni più dif-ficili. Questi generali diventavano

sempre più potenti, perché pote-vano avere l’appoggio totaledelle loro grandi armate che essipagavano con il bottino delle loroconquiste. Per questo motivo cifurono molte guerre civili tragenerali romani. Il più famoso diquesti generali fu Giulio Cesareche conquistò l’odierna Francia,chiamata allora Gallia (dal 58a.C al 50 a.C).Diventato estremamente poten-te, Cesare fu proclamato dittato-re e imperatore a vita. Con questiatti, la Repubblica aveva cessatodi esistere. Per questa ragione,un gruppo di senatori ucciseCesare in Senato il 15 marzo del44 a. C. Tra i congiurati vi eranoil figlio adottivo Marco Bruto el’amico Crasso.Proclamandosi dittatore a vita,Cesare aveva inferto il colpo defi-nitivo alla Costituzione repubbli-

cana, che i congiurati avevanoritenuto l’unica in grado di garan-tire la libertà dei cittadini. Conl’uccisione di Cesare, essi spera-vano di ripristinare la Repubbli-ca. Al contrario, la morte diCesare diede avvio ad un altrogrande periodo di guerra civile.Contro i congiurati si batterono igenerali Marco Antonio e Ot-taviano, figlio adottivo di Cesare.Sconfitti i congiurati, Marco Anto-nio, amante di Cleopatra, farao-ne d’Egitto, si pose in conflittoanche con Ottaviano. Nel 31 a.COttaviano sconfisse Marco Anto-nio ad Azio. Cleopatra, alla noti-zia, si suicidò facendosi mordereda un serpente velenoso.

L’IMPERO ROMANO

Nel 27 a. C. Ottaviano chiese deipoteri eccezionali e assunse iltitolo di Imperatore. Con l’appel-lativo di Cesare Augusto, Ottavia-no divenne capo del territorioconquistato dai romani. Nel 15d. C., alla morte di Augusto, glisuccesse il figlio Tiberio, dandoinizio alla dinastia imperiale. L’impero romano, organizzato daAugusto raggiunse la sua massi-ma espansione nel II secolo d.Cdurante i regni di Traiano, Adria-no e di Marco Aurelio (morto nel180 d. C.). Nel secolo successivouna serie di problemi tra cui lacrisi economica e la pressionemilitare dei barbari alle frontiereindussero l’imperatore Dioclezia-no a una riforma istituzionaleche divise l’impero in due parti.Nel 313 l’Imperatore Costantinoconcedette ai cristiani la libertà

di culto con l’editto di Milano.Costantino nel 330 trasportò lacapitale dell’impero da Roma aBisanzio, che da lui prese allorail nome di Costantinopoli. La cre-scente divisione tra le due parti -occidentale e orientale - dell’im-pero ne minò infine l’unità finoalla scissione del 395: iniziava lastoria dell’impero romanod’Oriente, dal VI secolo chiamato«bizantino», mentre quello d’Oc-dente divenne preda dei barbari.Nel 476 l’ultimo imperatore,Romolo Augustolo, fu depostodal germanico Odoacre.L’Impero romano d’Oriente so-pravvisse ancora per ben 1000anni fino al 1453, quando Co-stantinopoli fu conquistata daiturchi e assunse il nome diIstanbul.

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L’espansione di Roma sull’arco di 1’200 anni

La città di Roma nel 500 a. C.,quando governava Lucio

Tarquinio, detto Tarquinio ilSuperbo, ultimo re di Roma.

Le conquiste romane dopo laseconda guerra punica: siamo

più o meno nel 200 a. C., vale adire nel III secolo a. C.

Il territorio romano dopo la con-quista della Gallia, attorno al

50 a. C.

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Ecco l’Impero Romano alla mortedi Marco Aurelio e all’ascesa al

trono dell’imperatoreCommodoro (circa nel 180 d. C.).

Nel 313 d. C. gli imperatoriCostantino il Grande e Giovio

Licinio sottoscrivono l’editto diMilano.

Il 4 settembre 476 venne desti-tuito quello che è considerato

l’ultimo imperatore romano,Romolo Augusto, conosciuto conil diminutivo Augustolo, cioè pic-

colo Augusto.

È l’anno che, per tradizione,segna l’inizio della seconda

grande epoca della storia euro-pea: il Medioevo.

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Vivere a Roma: le abitazioni, gli abiti, gli alimenti, il tempo liberoDI LISA FORNARA

Non tutti i quartieri di Roma luc-cicavano di marmi. La popolazio-ne della città e gli alloggi scar-seggiavano. Nei quartieri popola-ri imprenditori di pochi scrupolicostruivano case di quattro o cin-que piani, chiamate insulae(cioè isole, da cui isolato), desti-nate ad ospitare molte famigliein piccoli appartamenti.I materiali da costruzione eranoscadenti e i crolli frequentissimi.Le strutture di legno e l’uso deibracieri per il riscaldamento fa-vorivano gli incendi, che la man-

canza di acqua corrente, soprat-tutto nei piani alti, rendeva ancorpiù pericolosi. Le case eranoaddossate l’una all’altra e ilfuoco si propagava con rapiditàdivorando interi quartieri.Augusto istituì un corpo specialedi vigili contro il pericolo di incen-di e vietò che gli edifici superas-sero una certa altezza, ma nonsempre la legge è rispettata. Perdi più gli affitti erano altissimi ele sottili pareti non proteggevanoda rumori molesti.

Un’insula, cioè un isolato, a Roma, nei pressi deimercati di Traiano.

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LE STRADE E I QUARTIERI

Poche strade principali avevanoun nome (la via Sacra, la viaTrionfale, la via Lata), le altre neerano prive; le case mancavanodi numeri civici. Perciò non era

facile orientarsi fra vicoli e viuz-ze. Per trovare un indirizzo biso-gnava basarsi su punti di riferi-mento come templi, portici,negozi…Nei quartieri stagnava spesso unodore nauseabondo, prodottosoprattutto da lavorazioni artigia-nali (del cuoio, della porpora, deidetersivi…), e i passanti più deli-cati si proteggevano con un fioreo una boccetta di balsami odoro-si.Di giorno la legge vietava il pas-saggio dei carri, ma per le stradec’era lo stesso un rumore assor-dante. Una folla vociante e vario-pinta di gente indaffarata, disfaccendati, stranieri, ciarlatani,mendicanti ingombrava a tutte leore le vie centrali dei fori. Pochelettighe di ricchi, sorrette darobusti schiavi, si facevano largoa stento. I più si spostavano apiedi.

GLI ABITI

Dall’abbigliamento era possibilecapire chiara-mente la posi-zione socialedi ciascuno.L’abito dei cit-tadini romaniadulti, quan-do dovevanomostrarsi inpubblico, erala toga, unagrande pezzadi stoffa, ta-gliata a semi-cerchio, checopriva tutto ilcorpo fino aipiedi. Indos-sare la toga era un’operazione

c o m p l e s s a .La stoffa pote-va raggiunge-re anche i seimetri di dia-metro e, peraccomodarse-la addosso,bisognava ri-correre all’a-iuto di unoschiavo.La toga di uncittadino adul-to era priva didecoraz ion i

ed aveva il colore giallastro dellalana. Quelli che intendevanofarsi eleggere dalle magistraturefacevano sbiancare la stoffa,forse per essere meglio ricono-sciuti fra la folla, e dal colorecandido della toga deriva il loronome: candidati. I magistrati e ibambini portavano la toga prete-sa orlata di porpora, e i generalitrionfatori ne indossavano unaorlata d’oro.

LA TUNICA, LA STOLA,LE CALZATURE

Sotto la toga i Romani si infilava-no la tunica, una sorta di camiciache lasciava scoperte le gambee parte delle cosce ed era strettain vita da una cintura. La tunicaera l’abito della plebe e deglischiavi. Le donne indossavano lastola, una tunica lunga fino allacaviglia e su di essa portavanoun mantello simile alla toga macon assai meno pieghe, chiama-to palla. Insieme con la toga era d’obbligocalzare calze chiuse e molto sco-mode che nascondevano com-pletamente i piedi e stringevanoi polpacci. Naturalmente esiste-vano anche sandali, ma eranocalzature inadatte per le cerimo-nie e un cittadino distinto non leavrebbe mai indossate in pubbli-co, a meno che non partecipas-se ad un banchetto.

I BANCHETTI E I CIBI

Durante i pranzi era ammessa lapiù grande libertà di vestiario. Gliinvitati ad un banchetto poteva-no indossare una comoda tunicae si portavano da casa i sandaliper calzarli prima di entrare nellasala da pranzo, il triclinio.Secondo un’usanza orientale giànota agli Etruschi e dalla qualeall’inizio le donne erano escluse,si pranzava sdraiati sui letti.I cibi si prendevano con le dita -e si considerava educato usaresolo le punte per non ungersitroppo - o un cucchiaio.Ai Romani piaceva mescolaregusti contrastanti: si univano adesempio pepe e miele o si usavamiele (lo zucchero era scono-sciuto) misto ad aceto per condi-re gli arrosti. Un condimentomolto apprezzato, già noto aiCartaginesi, era il gaum, unasorta di salsa che si otteneva

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con carne di pesce mescolata asale e ad erbe aromatiche. Nei banchetti di lusso si facevagrande consumo di cibi rari ecostosi, manipolati in modo darenderli irriconoscibili e da stupi-re in convitati. Ma il banchettoera un mezzo per conversare ediscutere piacevolmente, perascoltare la musica (c’erano isuonatori di flauto e cetra), perassistere a mimi e a recite e perrafforzare i legami tra amici.Al di fuori dei banchetti la cucinaromana era molto meno elabora-ta. Del resto essa cambiò piùvolte nei secoli. Nella severa etàrepubblicana l’alimentazione sibasava sui cereali, le verdure, ilegumi. Per i poveri questi cibicostituirono sempre la normalità.

LE CASE DEI RICCHI

Esistevano naturalmente anchecase signorili, bellissime e abita-te da una sola famiglia. A Romase le potevano permettere solo icittadini molto ricchi. Queste case erano costruite conmattoni o calcestruzzo (impastodi sabbia, ghiaia, acqua ecemento), e si componevano didue parti. La parte anterioreaveva al suo centro un grandevano (atrio)n con un’ampia aper-tura sul soffitto: di qui scendeval’acqua piovana, che veniva rac-colta in una vasca e sistematanello spazio sottostante. Sulfondo dell’atrio, proprio di fronteall’entrata, si trovava una grandesala di soggiorno (tablino), sepa-

rata dall’atrio soltanto da ten-daggi. In questa parte della salaerano esposte le immagini degliantenati, le opere d’arte, gli og-getti di lusso e altri segni di nobil-tà e ricchezza; qui il padrone dicasa riceveva visitatori e clienti,soci e alleati politici.La vita privata della famiglia sisvolgeva di solito nella parteposteriore della casa, raccolta in-torno ad un giardino ben curato,che nelle case più belle era cir-condato da un portico a colonne(peristilio) e ornato da statue,marmi e fontane. La sala dapranzo o triclinio, si trovava nel-l’una o nell’altra parte dellacasa, spesso in tutte e due.Come tutti gli ambienti destinatial ricevimento, i triclini erano lus-suosi, con affreschi alle pareti emosaici ai pavimenti.

IL TEMPO LIBERO

Tutti i romani, ricchi e poveri, siprendevano cura dell’igiene edel loro corpo. Solo chi era inlutto poteva vestire abiti straccia-ti e portare la barba lunga emostrare capelli ispidi permostrare il suo dolore.In tutti gli altri casi un romanodoveva essere ben pulito e vesti-to decorosamente.Il bagno in casa era un lussoriservato alle persone ricche, mafin dall’età repubblicana esiste-vano numerosi bagni pubblici.Più tardi gli imperatori li trasfor-marono in edifici sfarzosi e mo-numentali, chiamati terme , e liadornarono di marmi, specchi,statue e mosaici.Il bagno si svolgeva in quattromomenti. Prima si eseguivanoesercizi ginnici nella palestradella terme, poi ci si immergevain acqua calda, in un ambienteriscaldato con sistemi avanzatis-simi, quindi si faceva un bagnofreddo seguito da una salutarenuotata in piscina. Infine era lavolta delle frizioni con olio profu-mato, dei massaggi, della depila-zione.Tutti frequentavano le terme:uomini e donne, ragazzi e adulti,poveracci e ricchi magistrati chesicuramente avevano il bagno incasa, perfino imperatori con iloro famigliari.Non si trattava solo di un fattoigienico. Oltre che per bagnarsialle terme di andava per altrimotivi, come incontrare amici eRicostruzione dello SSttaaddiioo ddii DDoommiizziiaannoo (oggi Piazza Navona).Vi si svolgevano per lo più gare tra atleti.

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clienti, prendere accordi politici,fare scommesse e pettegolezzi.All’interno degli stabilimenti erapossibile trascorrere piacevol-mente il tempo, passeggiando ingiardini ombrosi, assistendo aspettacoli, ascoltando musica epoesia, mangiando e bevendoalle numerose rivendite. La visita quotidiana alle termeera un fatto di costume, che pre-sto si diffuse in tutto il mondoromano. Dovunque nelle cittàdell’impero sorsero stabilimentitermali e, accanto ad essi, gliedifici destinati ai giochi e aglispettacoli, come i teatri e gli anfi-teatri. Gli anfiteatri erano grandi costru-zioni a pianta quasi circolare conal centro lo spazio per gli spetta-coli, chiamato arena, e tutt’intor-no le gradinate. Il teatro piùfamoso era il Colosseo, inaugu-rato a Roma nel 80 d. C. e capa-ce di contenere circa 45’000posti a sedere. Vi si svolgevanosoprattutto giochi di gladiatori ecombattimenti di belve. Con spe-ciali congegni era possibile inon-dare completamente l’arena tra-sformandola in un lago. Si rap-

presentavano allora vere e pro-prie battaglie navali con l’impie-go di grandi imbarcazioni e dimigliaia di gladiatori che siaffrontavano fra l’entusiasmodel pubblico.Uno degli spettacoli preferiti dairomani erano le corse dei carri,

tirati da due, quattro e più cavalli.Generalmente le gare si svolge-vano nel Circo Massimo, unagrande pista a forma di U allun-gata, divisa da un muro nelsenso della lunghezza. Fina dalla notte precedente allospettacolo, gli spettatori si affol-lavano sulle gradinate, rinun-ciando al sonno pur di conquista-re un buon posto. La passionesportiva era accesa e le zuffe tra

tifosi erano frequenti. Il mestieredi auriga, cioè di guidatore dicavalli era rischioso, perché icarri sbandavano facilmente e sicapovolgevano, soprattutto incurva. Tuttavia gli aurighi piùbravi guadagnavano cifre favolo-se e godevano di larghissima

popolarità. Non meno famosierano i cavalli. Sappiamo di uno,di nome Incitato, che viveva inuna stalla di marmo, aveva co-perte di porpora e schiavi a suadisposizione. Si racconta perfinoche l’imperatore allora in caricavolesse nominarlo console. Il circo massimo era la più gran-de piste del mondo e poteva con-tenere fino a 300’000 spettatori.I teatri invece raccoglievano unpubblico molto meno numeroso.Si rappresentavano commedie,tragedie e mimi, ma dall’etàaugustea in poi solo gli spettaco-li mimici riuscivano a reggere al-la concorrenza dei giochi delcirco. Il pubblico partecipava ru-morosamente all’azione congrida, schiamazzi, battute di spi-rito. Gli attori - tutti maschi fuor-ché negli spettacoli di mimo -non godevano di buona reputa-zione ed erano privati di alcunidiritti (ad esempio non potevanooccupare uffici pubblici). Coltempo la loro condizione miglio-rò, gli attori di successo diventa-rono famosi quasi quanto gliaurighi, e furono anch’essi ricchie ricercati.

Il Colosseo è ancor oggi il più imponente monumento di epoca romana e il più grande anfiteatro delmondo. Era usato per gli spettacoli dei gladiatori e per e altre manifestazioni pubbliche, che si svolgevanodavanti a un pubblico stimato tra 50 e 75 mila.

Il Circo Massimo è un antico circo romano, dedicato in particolare alle corse dei cavalli. L’immagine èuna ricostruzione di come appariva ai tempi dell’imperatore Traiano, attorno all’anno 103.

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Perché leggere Ovidio? Perché affrontare, oggi, questo autore latino? Qual è il senso di proporre gli articolati racconti delle Metamorfosi a ragazzi nati a duemila anni di distanza? So-no domande legittime, per ri-spondere alle quali possono es-sere stimolanti alcune brevi ri-flessioni introduttive, che pro-viamo a sintetizzare in tre paro-le: curiosità, fascino, complessi-tà. Sono tre parole che si pos-sono immaginare collegate da un filo invisibile: la curiosità dei bambini, motore primario dell’in-telligenza e del desiderio di sco-prire, trova nelle storie di Ovidio molti stimoli e molte risposte; il fascino è la risposta letteraria alla curiosità: le storie di Ovidio piacciono perché sono belle, perché conquistano e perché sanno portare il lettore-ascol-tatore in altri mondi di immagini e parole; la complessità è la chiave che ci permette di prova-re a decodificare la realtà in cui siamo immersi: l’opera ovidiana è complessa e varia, e per que-sto ci affascina; non è mai bana-le o monodimensionale, e per-mette numerosissimi riferimenti letterari ed extra-letterari. Per questo e per molto altro vale la pena di chiudere gli occhi e ascoltare l’eco della voce del poeta, liberi da restrizioni di spazio e di tempo. Anzi: Eco – maiuscolo! – pen-sando alla storia della ninfa che portava questo nome e di cui Ovidio racconta come mai è ri-masta solo la voce. Ci sono pa-role – letterarie – la cui eco è talmente potente che nei secoli si amplifica, arrivando a orec-chie lontane, che popolano un mondo nuovo, ma alle quali hanno ancora molto da dire. Quest’eco sarà, ce lo auguria-mo, la risposta alle domande dei bambini e dei ragazzi quando, mossi dal gusto di risalire all’indietro alla ricerca di origini e cause, si chiederanno (ci chie-

deranno): ma questa cosa, que-sta storia, questa partizione ge-opolitica, questo modo di dire… da dove arriva? Spesso arriva, come intuizione o già definita, dall’antichità. Le Metamorfosi, il poema della trasformazione continua, dall’inizio dei tempi, ci permettono di intuire, in forma narrativa, la potenza di questo legame con l’antico. Un legame che è, inoltre, profondamente culturale, nel senso più ricco del termine: è nell’antichità classi-ca, infatti, e nelle lingue greca e latina, che pone le sue basi più solide il sostrato culturale e lin-guistico che ci appartiene, e che condividiamo con un numero troppo spesso dimenticato di nazioni che si affacciano sul Mediterraneo e non solo. Una bella immagine greco-latina colloca anche noi nella metafora infinita della traditio lampadis, la consegna della fiaccola dagli anziani ai giovani, immagine se-condo cui l’umanità progredisce attraverso un incessante pas-saggio di testimone. In questo senso, conoscere il nostro ieri serve a non farsi trovare sprov-visti di strumenti (critici, cultura-li) oggi. Per la letteratura che rende possibile questo passag-gio, e per i prosatori e i poeti che le hanno dato vita, rendendola patrimonio collettivo, si prestano alla perfezione le parole di un grande scrittore da poco scom-parso, Sebastiano Vassalli, che, nel suo libro Amore lontano, ha scritto: La poesia è vita che rimane im-pigliata in una trama di parole. Vita che vive al di fuori di un corpo, e quindi anche al di fuori del tempo. Vita che si paga con la vita: le storie dei poeti […] stanno a dimostrarlo. Ovidio è stato proprio così: un poeta vero, che ha trovato ispi-razione nella sua vita e ha paga-

to la sua arte con la vita; non perché abbia fatto un unico, grandioso gesto eroico, ma per-ché la sua intera esistenza è

stata un mutuo scambio con la letteratura, giorno dopo giorno. Storia di un uomo e di un poeta Partiamo dal nome, o, meglio, da una veloce analisi della se-quenza dei tria nomina, che in latino (come, del resto, in molte lingue antiche e moderne) rap-presentava una sintetica “carta d’identità” della persona: Publio Ovidio Nasone, in latino Publius Ovidius Naso. Il praenomen, Pu-blius, cioè il nome proprio, il nomen (il nome per eccellenza), che indicava la famiglia (o gens) d’origine, Ovidius, e, infine, il cognomen, Naso, che caratteriz-zava ogni individuo per una spe-cifica caratteristica fisica o ca-ratteriale. Ovidio aveva, dunque, un naso importante e Naso (Na-sone) era una sorta di sopran-nome, di quelli che a non voler essere troppo teneri con le altrui caratteristiche fisiche o morali potremmo usare ancora oggi. Certo oggi ne faremmo un uso diverso, ludico e senz’altro non giuridico, mentre, al contrario, presso gli antichi romani, dall’e-

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tà repubblicana in poi, il cogno-men aveva un valore pari a quel-lo del ben più illustre nomen; e aveva un’utilità in più: serviva a distinguere gli individui, almeno quelli di censo superiore. Non a caso, alcuni dei nostri cognomi derivano proprio da lì: da qual-che avo che si notava fra gli altri per una caratteristica partico-larmente spiccata e dalla sua discendenza. Lo stesso cogno-me “Naso” è, tutt’oggi, vitale e diffuso; non sarà difficile trovare altri esempi analoghi. Ma torniamo più precisamente sulla vita del nostro autore. No-to, oggi, semplicemente come Ovidio, il poeta nacque a Sul-mona, nell’odierno Abruzzo, il 20 marzo del 43 a.C. e morì a Tomi (oggi Costanza, nell’attuale Romania) nel 18 d.C.. In realtà, sulla sua vita si sa poco e l’unico autentico resoconto che abbiamo ci arriva dalle sue stesse parole: quelle di una lun-ga elegia − cioè una poesia − autobiografica rivolta ai posteri (Tristia, IV, 10*, qui riportata in traduzione nel capitolo che pre-cede la presentazione delle Me-tamorfosi); accenneremo oltre a che cosa sono i Tristia, anche se il nome permette già di anticipa-re qualche suggestione). Gli estremi cronologici ci per-mettono di ricavare una prima informazione generale: Ovidio nasce negli ultimi anni della Roma repubblicana e nel pieno delle guerre civili che seguirono l’assassinio di Cesare (alle idi di marzo del 44 a. C.). Se si consi-dera che nel 27 a. C. viene as-segnato a Ottaviano il titolo di Cesare Augusto, possiamo dire che Ovidio fu un uomo e un poe-ta della prima età imperiale. Gli ultimi e turbolenti anni della sua vita, dal 14 d. C. in poi, saranno segnati dalla presenza dell’im-peratore Tiberio. Queste brevis-sime notazioni storiche non vanno considerate esterne ed estranee alla sua biografia, per-ché, in particolare nel suo caso e in generale per gli uomini di

cultura, il rapporto con il loro tempo e con la società in cui vi-vono ha un’influenza determi-nante sul loro operato. La famiglia di Ovidio era bene-stante, appartenente al rango equestre1. A 12 anni, cioè nel 31 a. C., il padre mandò Ovidio a Roma insieme al fratello per completare gli studi di gramma-tica e retorica, studi che tutti i giovani di famiglia agiata dove-vano praticare: questi, infatti, avrebbero permesso loro di in-traprendere la prestigiosa car-riera forense e politica. Ovidio frequentò le lezioni dei più illu-stri maestri attivi nella capitale, in particolare Marco Arellio Fu-sco e Porcio Latrone, e, più tar-di, andò ad Atene, patria natale dell’arte oratoria, per approfon-dire le sue conoscenze ed eser-citare le sue capacità; durante il viaggio di ritorno visitò numero-se le città dell’Asia minore. Da ormai un secolo circa, questo viaggio formativo era un costu-me diffuso tra i ragazzi di buona famiglia, un po’ come sarà il grand tour e, in tempi assai re-centi, le vacanze studio per im-parare una lingua straniera, l’anno scolastico all’estero o l’Erasmus; insomma, a guardare con attenzione ed evitando su-perficiali approssimazioni, ci so-no analogie fra tutte le epoche. Rientrato in patria, Ovidio capì che la retorica, il foro e la politi-ca non erano il suo mestiere: i suoi interessi erano letterari, così come le sue attitudini. Pro-vò a intraprende la carriera pubblica, ma non si distinse per impegno o risultati particolari; decise, dunque, di scontentare il padre per provare a diventare 1 L’ordine equestre, nella Roma del tem-po di Ovidio, si distingueva dai patrizi e dalla plebe. Nella Roma antica, questa classe sociale era formata dai cittadini sufficientemente ricchi da possedere un cavallo ed entrare, perciò, nella cavalle-ria; solo in seguito, questa divisione dell’esercito diventò una classe di censo e con caratteristiche specifiche (privilegi e ricchezze che li distinguevano dalla plebe, e l’accesso a specifiche profes-sioni, una fra tutte gli esattori delle tas-se).

ciò che davvero voleva: un poe-ta. Ai tempi era meno complica-to di oggi fare di quest’arte una professione, e viverne, ma era comunque una carriera molto più incerta e rischiosa del cursus previsto per un giovane di buona famiglia. Da ultimo, un’informazione personale. Ovi-dio ebbe tre mogli: dopo due matrimoni sfortunati (da uno dei quali ebbe una figlia), sposò una fanciulla della gens Fabia, che amò profondamente sino alla fine dei suoi giorni, lontano da Roma.

Un poeta ribelle, cantore dell’amore e del sogno Destinato dalla famiglia alla car-riera forense e politica, Ovidio provò sin da giovanissimo una spiccata inclinazione verso la letteratura e la poesia: tutto ciò che gli riusciva di esprimere be-ne era in versi (lo scrisse egli stesso nell’elegia prima citata: “quod temptabam dicere versus erat”). Per seguire questa sua inclinazione, contrariamente al fratello e ribellandosi alla volon-tà di suo padre, si dedicò agli studi letterari. Le sue opere ebbero da subito un notevole successo, cosa che gli permise di entrare a far parte dell’importante circolo letterario romano di Messalla Corvino e di conoscere molti illustri poeti, fra i quali, ad esempio, Orazio e i poeti elegiaci Properzio e Gallo, che erano i principali autori di poesie amorose del tempo (Vir-gilio, invece, lo conobbe appe-na). Anche Ovidio è stato, in numerosi suoi testi, poeta ga-lante, cantore di una Roma che, dopo i difficili anni della guerra civile, aveva voglia di vivere, di gioire, di gustare la vita e la pa-ce con leggerezza, cedendo al lusso (in controtendenza coi programmi di restaurazione dei costumi morali promossi da Au-gusto). Ovidio ha saputo offrire a questa società la letteratura che

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cercava, una letteratura che ne rifletteva i gusti e i comporta-menti, e, perciò, ebbe un suc-cesso strepitoso. Tra le sue ope-re, molte sono di carattere gio-coso-amoroso, come gli Amores (tre libri di elegie in cui il poeta canta il suo amore per Corinna e per altre donne, e in cui sono narrate le frivole avventure ga-lanti dell’alta società romana), le Heroides (ventuno lettere d’a-more immaginarie, scritte da donne della mitologia antica ai loro amanti), l’Ars Amatoria (un trattato che spiega che cosa fa-re per conquistare l’amore delle donne: un autentico codice della seduzione, gaudente, esplicito e dettagliato, in netto contrasto coi rigidi dettami morali promul-gati da Augusto), i Remedia A-mores (l’ “anti” Ars amatoria: un libro che spiega come evitare l’amore e in che modo liberar-sene nel caso ci si innamori); da ultimo, possiamo ricordare l’in-compiuto Medicamina faciei: circa 100 versi dedicati ai co-smetici femminili. Apparentemente frivoli e super-ficiali, questi testi, scritti in me-tro elegante e impeccabile (di-stici elegiaci), ricchi di riferimen-ti storico-mitologici e astutamen-te ammiccanti, esprimono una voce acuta, libera e moderna. Non solo propagano leggerezza e lodano il progresso, ma inneg-giano con maestria al mondo femminile e alla libertà in modo non comune all’epoca delle se-vere disposizioni di Augusto, che nel 18 a. C. aveva promulgato leggi severe sui costumi (una in particolare era de pudicitia, cioè dettava le norme sugli adulteri e sul comportamento sessuale in generale). Altri poeti, quelli lega-ti al circolo di Mecenate, aveva-no il compito di propagandare la Roma augustea: Orazio, che fa-ceva divertire con ironia, ma sempre entro i limiti; Virgilio, che celebrava la stirpe di Augusto esaltandone le origini diretta-mente collegate a Enea. Ovidio

no: preferiva la libertà, e il prez-zo che questa gli costò fu alto. Una fine misteriosa: l’allontanamento da Roma al Mar Nero Nell’8 d.C., con una procedura eccezionale e istantanea, Ovidio venne confinato da Augusto a Tomi, sul Mar Nero, lontano dal-la capitale e dai suoi cari, verso i confini del mondo latino. A tutti gli effetti si trattò di una relega-tio, che, a differenza dell’exil-ium, non prevedeva la perdita dei diritti di cittadino e la confi-sca dei beni; eppure, nonostan-te le suppliche sue, della moglie e degli amici, rimase lì fino alla morte, avvenuta nel 18 d.C. Sul-le autentiche ragioni dell’esilio, è calato, sin dall’antichità, un silenzio inspiegabile e impene-trabile, e la parabola umana di Ovidio è ancora oggi un mistero sul quale si possono solo avan-zare delle congetture a partire dalle testimonianze pervenuteci: la più probabile è che Ovidio sia stato, in maniera più o meno vo-lontaria, complice, partecipe o magari testimone di qualche scandalo che coinvolse la fami-glia imperiale (forse l’adulterio di Giulia Minore, nipote di Augu-sto, che fu esiliata nello stesso anno). Secondo le vaghe parole di Ovidio stesso nel secondo li-bro dei Tristia, “carmen et error” furono le cause del suo allonta-namento, cioè la pubblicazione della troppo audace Ars amato-ria e uno sbaglio (suo? Altrui? Non possiamo dirlo). In esilio il poeta scrive i cinque libri dei Tristia, cioè una cin-quantina di elegie redatte con visibile disperazione tra l’8 e il 12 d.C.: dobbiamo immaginare Ovidio, cantore e fruitore del lusso, vivere solo, in un paese sconosciuto, circondato da bar-bari che parlavano una lingua incomprensibile. Erano i Geti, che per i romani rappresentava-no l’espressione estrema della

rozzezza e dell’incultura, relegati con loro alla fine del mondo no-to. Nei Tristia Ovidio racconta l’ultima sera a Roma, con parole drammatiche: Quando mi torna in mente la vi-sione tristissima di quella notte, delle ultime ore che passai a Roma, quando ripenso a quella notte in cui lasciai i miei affetti, ancora adesso mi si riga il viso di lacrime. Si era quasi levato il giorno in cui per ordine di Augu-sto dovevo allontanarmi dagli estremi confini d’Italia. [...] Ero attonito come quando una per-sona colpita dalla folgore resta viva e non si rende conto d’es-serlo. A quell’epoca, un viaggio come quello che Ovidio doveva com-piere, solo, verso il mistero, era un addio alla vita. Il poeta ricor-da (e ci tramanda) anche le ul-time parole che gli disse Fabia, sua moglie, alla quale non ces-serà mai di scrivere da Tomi: “Non ti possono strappare a me. Partiremo insieme, sì, insieme. Ti seguirò, moglie in esilio di un uomo in esilio. Anche per me c’è un viaggio, anche per me c’è un posto nella terra ai confini del mondo: non sarò un gran carico in più per la tua nave di fuggia-sco”. Ma niente da fare: Ovidio partì senza compagnia, per or-dine imperiale, e morì da solo, in esilio, dieci anni dopo, nono-stante le ripetute suppliche a Ottaviano Augusto e, poi, al suo successore Tiberio. Del suo pe-riodo sul Mar Nero ci restano anche le Epistulae ex Ponto: un epistolario che comprende lette-re in forma di elegia ad amici e parenti.

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Ovidio secondo Ovidio * TRISTIA, IV, 10.

In questa lunga poesia Ovidio narra ai posteri l’intera storia della sua vita, secondo il suo punto di vista, dalla nascita al sofferto esilio da Roma. Il te-sto è complesso e raffinato – secondo lo stile ricercato e curato tipico del poeta −, ricco di riferimenti a personaggi, usi e costumi del tempo, e a tutto l’immaginario di divinità e ambientazioni legate all’arte della poesia (le Muse, il Mon-te Elicona); tuttavia, non oc-corre avere presenti con chia-rezza tutti i riferimenti per gu-stare appieno un testo che racconta la vita di un uomo che ha vissuto con pienezza e intensità, scegliendo e sof-frendo con coraggio, capar-bietà e un briciolo di sfronta-tezza, sin dalla più giovane età.

Chi io fossi, il noto cantore di teneri amori, ascolta, per apprenderlo, posterità che mi leggi. Mi è patria Sulmona ricchissima di gelide onde, che dista nove volte dieci miglia da Roma. Qui fui dato alla luce, e perché tu sappia la data, fu quando con pari destino caddero i due consoli. Se vale qualcosa, antico erede dell’ordine fin dai lontani proavi, divenni cavaliere non per dono recente della fortuna. Non fui il primogenito, ma fui generato dopo un fratello che era nato quattro volte tre mesi prima di me. La medesima stella vide la nascita di entrambi e un unico giorno veniva celebrato con due focacce: è quello, dei cinque giorni di festa dell’armigera Minerva, che primo diviene cruento per le battaglie dell’arena. Subito ancor teneri veniamo istruiti e per la premura del padre frequentiamo i maestri celebri in Roma per la loro arte. Il fratello fin dalla verde età tendeva all’eloquenza, nato per le grandi schermaglie oratorie del foro. Ma a me fin da ragazzo piaceva coltivare le cose celesti e segretamente la Musa mi conduceva al suo ministero. Spesso il padre mi diceva: «Perché tenti uno studio inutile? Il Meonide stesso non ha lasciato alcuna fortuna.» Ero scosso dalle sue parole e lasciato del tutto l’Elicona provavo a scrivere parole libere dal ritmo. Spontaneamente un carme si formava nei metri appropriati, e ciò che tentavo di scrivere erano versi. Intanto con tacito passo via scorrevano gli anni e il fratello e io prendemmo la toga più libera, e ci ricopre le spalle la porpora col laticlavio ma la nostra inclinazione rimane quella di prima. Già mio fratello aveva raddoppiato dieci anni di vita, quando morì, e io cominciai a essere privo di una parte di me. Ricoprii le prime cariche dell’età giovanile e una volta fui uno dei triunviri. Restava la curia: ma io restrinsi la striscia di porpora. Quello era un fardello troppo grande per le mie forze; né il corpo sopportava né la mente era adatta alla fatica e io rifuggivo dagli affanni dei pubblici onori; e le sorelle Aonie mi allettavano a cercare i tranquilli ozi letterari, quelli che il mio intimo ha sempre amati. Coltivai e adorai i poeti di quel tempo, e quanti vati erano con me, tanti dèi ritenevo che mi fossero accanto. Spesso mi lesse i suoi uccelli, più anziano di me, Macro, e i serpenti che nuocciono e le erbe che giovano; spesso era solito recitarmi i suoi amori Properzio in virtù dell’amicizia che a me lo legava; Pontico celebre per i versi eroici e Basso per i giambi furono parte diletta della mia cerchia di amici, e affascinò le mie orecchie Orazio ricco di ritmi, mentre toccava sulla lira ausonia carmi di dotta fattura. Virgilio lo vidi soltanto, né l'avaro destino concesse tempo a Tibullo per la mia amicizia. Egli successe a te, o Gallo, Properzio a lui, quarto dopo questi fui io stesso in ordine di tempo. E come io venerai i più anziani di me, così venerarono

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me i più giovani, e non tardò a divenir nota la mia Talia. Quando lessi per la prima volta al popolo i miei carmi giovanili, la barba mi era stata tagliata una o due volte. Aveva mosso il mio genio, da me cantata per tutta la città, Corinna, così chiamata da me con nome non vero. Ho scritto senza dubbio molto, ma le cose che ho giudicato non buone le ho date io stesso da correggere alle fiamme. E anche sul punto di fuggire bruciai certe cose che sarebbero piaciute, adirato con la mia passione e con i miei carmi. Tenero e non inespugnabile ai dardi di Cupido era il mio cuore e un niente bastava a commuoverlo. Tuttavia pur essendo io tale e accendendomi alla più piccola fiamma, sotto il mio nome non corse nessuna diceria. Quasi ragazzo mi fu data una moglie né degna né utile, che per breve tempo rimase mia sposa; a lei successe una sposa che, sebbene senza colpa, non avrebbe diviso tuttavia per sempre il mio letto; l’ultima, che è rimasta con me fino agli anni avanzati, sopportò di essere la consorte di un marito esiliato. Mia figlia, due volte madre nella prima giovinezza, ma non da un solo marito, mi fece nonno. E intanto mio padre aveva compiuto il suo destino e a nove lustri aveva aggiunto altri nove lustri. Lo piansi non diversamente da come avrebbe egli pianto me stesso defunto. Resi poco dopo le dovute onoranze alla madre. Felici ambedue e sepolti nel momento opportuno, poiché morirono avanti il giorno della mia condanna! Felice me pure, che sono esiliato quando essi non sono più in vita e non hanno sofferto per me! Se tuttavia agli estinti qualche cosa oltre il nome rimane e una gracile ombra scampa al rogo eretto, se notizia vi è giunta di me, o ombre dei miei genitori, e nel foro stigio si parla della mia colpa, sappiate, vi prego, − né potrei ingannarvi − che la causa del mio esilio è un errore, non un delitto. Questo basta per i Mani! A voi torno, o cuori che desiderate sapere le vicende della mia vita. Già la canizie, fuggiti via gli anni migliori, era giunta a mescolarsi alle mie chiome di un tempo. E dopo la mia nascita, il cavaliere vincitore, cinto dell’olivo di Pisa, aveva strappato dieci volte il premio, quando l'ira del principe offeso mi ordina di raggiungere Tomi situata sulla riva sinistra del mare Eusino. La causa della mia rovina a tutti troppo nota non ha bisogno che sia attestata dalle mie parole. Perché ricordare la slealtà degli amici e i servi malvagi? Molte cose ho sopportato non più lievi dell’esilio stesso. Ma l’animo ebbe a sdegno di dover soccombere ai mali e si dimostrò invitto ricorrendo alle sole sue forze dimenticando me stesso e una vita trascorsa negli ozi impugnai con mano non avvezza le armi che il momento chiedeva e affrontai per terra e per mare tanti pericoli quante sono le stelle fra il polo nascosto e quello visibile. Infine dopo essermi trascinato per lunghe peregrinazioni toccai le rive di Samarzia contigue ai faretrati Geti. Qui sebbene mi risuonino intorno le armi confinanti,

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con la poesia, per quanto posso, allevio il triste destino, e se essa non può giungere alle orecchie di nessuno, trascorro tuttavia così la giornata e inganno il tempo. Perciò se vivo, se resisto alle dure sofferenze e non mi prende il tedio di una vita angosciata, te ringrazio, o Musa! Infatti tu mi dai il conforto, tu sei riposo agli affanni, tu vieni come medicina; tu sei guida e compagna, tu mi porti via dall’Istro e mi fai posto nel mezzo dell’Elicona. Tu mi hai dato da vivo − e questo è raro – un nome eccelso, che la fama suole dare dopo le esequie. E l’invidia, che denigra le opere dei viventi, non ha morso col suo dente malevolo nessuna delle mie opere. Infatti, quantunque il nostro tempo abbia prodotto grandi poeti, la fama non è stata maligna col mio genio, e se io pongo molti davanti a me, sono stimato non inferiore a loro e assai sono letto nel mondo intero. Perciò se i presagi dei poeti hanno qualcosa di vero, dovessi io anche subito morire, non sarò tuo, o terra. Sia che io abbia raggiunto questa fama per il tuo favore, o con la mia poesia, ti devo il mio grazie, benevolo lettore.

Le Metamorfosi: un canto dall’origine del mondo

Febo mi disse: “Esprimi un desiderio, vergine cumana: sarà esaudito”. Io presi un pugno di sabbia e glielo mostrai,

chiedendo che mi fossero concessi tanti anni di vita quanti granelli di sabbia c’erano in quel mucchietto.

Sciocca, mi scordai di chiedere che anni fossero di giovinezza. (Met., XIV)

Le Metamorfosi (in originale alla greca Metamorphoseon libri, Libri delle trasformazioni) sono solo un’opera tra le molte di Ovidio, ma di certo sono la più lunga e la più complessa. Si tratta di un poema epi-co-mitologico dedicato alle “trasformazioni” (dal greco μεταμόρ ωσις, che deriva dal verbo μεταμορ όω, «trasformare»), che l’autore iniziò a comporre intorno al 3 d. C. arrivando a realizzare (intorno all’8 d. C. circa) quindici libri di esametri (unica delle sue opere scritta in questi versi), contenenti circa 250 miti che condividono il tema del muta-mento: in essi, esseri umani o creature mitologiche cambiano o ven-gono cambiati in parti della natura (animata e non). Ovidio ci fa sapere che l’opera non ha potuto essere rivista da lui co-me avrebbe desiderato. Anzi, probabilmente sarebbe andata perduta se non fosse stata pubblicata, su indicazione del poeta stesso da To-mi, a cura di un amico che ne possedeva una copia. Per descrivere le Metamorfosi, seppur brevemente, partiamo col con-siderare due concetti generali, eterogenei fra loro, ma imprescindibili, soprattutto quando si parla di opere antiche: la storia del testo (cioè la sua tradizione filologica) e il dialogo con le opere precedenti. Il pri-mo aspetto va tenuto presente ogni volta che ci si accosta, o si ac-compagnano bambini e ragazzi, all’incontro con un testo antico: il te-sto che oggi possiamo agevolmente sfogliare come sfogliamo un ro-

manzo moderno è un prodotto totalmente diverso da un ro-manzo moderno, con una storia del tutto particolare. Infatti, il testo non ci è quasi mai arrivato tale e quale in forma autografa dell’autore, ma tramite numero-si manoscritti, ciascuno con so-miglianze e differenze2 (basti pensare che della ben più re-cente Commedia dantesca sono pervenuti a noi oltre seicento codici redatti da mani diverse!). Solo l’accurato lavoro di con-fronto e scelta dei filologi ci permette di fruire dell’opera in una forma, se non originale, al-meno coerente e plausibile; ciò significa anche che possono 2 Nel caso delle Metamorfosi, i codici pervenuti probabilmente continuano una pluralità di edizioni antiche. Infatti, no-nostante la grande popolarità che le Metamorfosi ebbero quando vennero composte nessun manoscritto di quel tempo è giunto a noi; ciò non stupisce se si considera che il poema fu tacciato di essere “opera pericolosamente paga-na”: probabilmente, molti manoscritti vennero distrutti soprattutto durante il periodo della cristianizzazione dell’Im-pero. Esistono frammenti dei secc. IX e X, ma i primi manoscritti utilizzabili per la ricostruzione testuale sono databili in-torno all’XI secolo

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sempre essere approntate nuove edizioni, che presentano nuove scelte a livello di testo latino proposto (e, sicuramente, nuove tradu-zioni rispondenti a diversi criteri stilistici: più attuali, più poetiche, più letterali…). Il secondo aspetto, quello del dialogo con le opere prece-denti, è legato ai contenuti e ci porta a riflettere sul valore del baga-glio culturale, del sapere, delle informazioni che portiamo con noi e sappiamo riutilizzare; oggi nella nostra società sintetica e veloce molto meno, ma per gli antichi, e almeno fino al Rinascimento (con esito estremo nel principio d’imitazione), riprendere le opere prece-denti, giocare con l’intertestualità, fare tesoro e riproporre in forma nuova i saperi precedenti erano segni del valore di un autore e di un’opera. E al pubblico piaceva (i miti, ad esempio: sono storie di sempre, e, a ben guardare, ritroviamo l’impronta di molti nelle novelle e nelle fiabe di epoche successive). In questo senso, le Metamorfosi sono una grande raccolta di narra-zioni derivanti dalla mitologia greca che a sua volta le aveva recupe-rate da storie precedenti reinterpretate alla luce della storia e della sensibilità latine, per mano di Ovidio: il poema contiene, infatti, legate fra loro in un’unica macro-storia, circa 250 narrazioni mitologiche, più o meno lunghe. Perché scegliere di scrivere un’opera del genere? Le risposte che si potrebbero dare sono molte, e di diversa entità. Anzi-tutto, va detto che l’attenzione di Ovidio per i miti e le tradizioni si era già, in parte, espressa nei Fasti: sei libri che descrivevano l’origine delle feste del calendario romano, insieme a numerose altre leggende e tradizioni (il progetto prevedeva dodici libri, uno per ogni mese dell’anno). Inoltre, la mitologia rappresentava una materia apprezza-ta, vastissima e affascinante con cui cimentarsi, per la quale erano disponibili numerosi modelli filosofici e letterari da rielaborare e per-sonalizzare (uno per tutti, la raffinata poesia dei poeti alessandrini di età ellenistica). Il fine più significativo dell’opera nel suo insieme, tut-tavia, era ancora un altro: celebrare la storia della romanità inqua-drandola nel percorso dell’intera creazione, romanità che, sotto il principato di Augusto, aveva raggiunto il culmine. Le Metamorfosi, lungi dall’essere una raccolta disorganica, rivelano una profonda unità espres-sa attraverso la presenza pervasiva di una natu-ra in dialogo con la leggenda e col mito, principio instancabile del divenire del tutto: una natura profondamente viva, in cui ogni albero e ogni fio-re hanno una storia da raccontare. Nel fluire del-la storia universale, ogni mito si lega nella finzio-ne letteraria al successivo, partendo dalla crea-zione dell’universo (la trasformazione più antica: dal Chaos al Kosmos ordinato) fino alla storia più recente (l’apoteosi di Cesare, trasformato in a-stro, e la glorificazione di Augusto). In questo percorso trova posto l’intero bagaglio mitologico e storico greco-latino, narrato in una sorta di “carmen continuum” della nostra civiltà (da Me-dea a Teseo e Arianna, dalle fatiche di Ercole a Orfeo ed Euridice, da Enea a Romolo), come se il mito non fosse disgiungibile dalla storia reale, nel fluire incessante e a volte angoscioso del tempo che passa. La maestria del poeta è quella di saper unire un episodio all’altro, di lunghezza diversa, attraverso legami sottili, ma efficaci: a-

nalogie tra i miti, similitudini contenutistiche, incastri, perso-naggi che diventano voci narran-ti e molto altro. Sebbene il materiale sia in gran parte tradizionale, il risultato dell’operazione ovidiana è inno-vativo: nei suoi racconti ci sono più fantasia, più sensibilità e più attenzione alle sfumature psico-logiche dell’individuo e alle sue sofferenze; inoltre, lo stile, le scelte lessicali accurate e il me-tro (un esametro di estrema mu-sicalità) accompagnano con leg-gerezza l’incessante racconto delle mutazioni e la percezione della vanità delle forme solo ap-parentemente stabili. Della tra-sformazione, Ovidio mette in ri-salto talvolta la velocità, altre volte la lentezza, il persistere della natura precedente nella nuova, con il dramma che que-sto comporta. Anche nei casi in cui le narrazioni non comportino una evidente trasformazione fi-sica, c’è comunque un sottile gioco di trasformazione interio-re. In tutti i casi, al di là della superficie del racconto, si intra-vede una sensibilità inquieta molto attuale, che trapela dal

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Dal latino alle lingue romanze: un parlare al modo dei romani GIOCHI LINGUISTICI TRA PASSATO E PRESENTE

Noi parliamo latino? Perché accostarsi a questa lingua. La domanda potrebbe apparire ingannevole. Troppo semplice rispondere “No, parliamo italia-no”, troppo vago – anche se più vicino alla risposta esatta – ri-spondere “Sì, in un certo senso sì”. Come fare, allora? Quali so-no gli strumenti interpretativi corretti per arrivare alla risposta giusta? Come accompagnare i bambini, gradualmente e in forma ludica, a scoprire la gran-de trasformazione linguistica di cui sono eredi e nella quale so-no immersi ogni giorno? E, so-prattutto, perché? Da più parti si sente dire che il latino non serve a nulla, perché è una lingua morta e non insegna niente di pratico. Limitiamoci a considera-re l’aggettivo morta: se, in rife-rimento a una lingua, si intende non più parlata, non più usata come strumento di comunica-zione, possiamo anche essere d’accordo; tuttavia, se ci fer-miamo a considerare la vitalità del latino come base di deriva-zione dell’italiano e delle altre lingue romanze di oggi, nonché l’inesauribile possibilità che of-fre, insieme al greco, per la cre-azione di neologismi (in partico-lare scientifico-tecnologici) dob-biamo ricrederci. È qui che l’argomento dell’inutili-tà dell’avvicinamento al latino cade: non si tratta di diventare traduttori esperti, ma, sempli-cemente, di stimolare la natura-le curiosità dei ragazzi attraver-so il materiale linguistico che li circonda, in modo che ne diven-tino osservatori più consapevoli. Perché si pensa sia possibile, giusto e urgente incentivare nei giovanissimi lo sguardo scienti-fico sulle diverse dimensioni del-la realtà, ma questo non si con-

sidera utile in campo linguisti-co? Il tentativo di risposta alla domanda “Noi parliamo latino?” parte proprio da qui, nella presa di coscienza che l’italiano di og-gi non è un prodotto stabile, na-to, chissà come, qualche decina d’anni fa, e non è nemmeno sempre stato uguale, ma ha una storia, in parte comune con altre lingue, che si radica indissolu-bilmente a quella del latino, di cui è la continuazione. Un simile allargamento di prospettive, ol-tre a prestarsi come miniera di possibilità didattiche, potrà con-tribuire, pian piano, a incentiva-re la sensibilità linguistica degli allievi. Cominciamo: che cos’è il latino? Intuitivamente, per formazione scolastica o per cultura genera-le, grossomodo abbiamo tutti un’idea più o meno esatta di che cos’è il latino. Se dovessimo rivolgere la domanda a un grup-po di persone (non classicisti o filologi classici di professione), dall’età dell’adolescenza in su, otterremmo presumibilmente svariate risposte, ciascuna delle quali contenenti una parte di verità e ciascuna delle quali sa-rebbe una variante sui temi se-guenti: “Era la lingua parlata nell’antica Roma”, “Era la lingua che si usava prima dell’italiano”. Qualcosa di esatto c’è, ma man-cano molti elementi. Confrontiamo con queste rispo-ste la definizione di un’illustre enciclopedia (la voce “lingua la-tina” della Treccani, consultabile online): Lingua indoeuropea apparte-nente al gruppo italico o protola-tino, lo stesso di cui fanno parte quelle di altri popoli (Ausoni, O-pici, Enotri e Siculi) che, insieme

ai Latini, si insediarono nella parte centromeridionale dell’Ita-lia fra il 3° e il 2° millennio a. C. Vediamo, innanzitutto, che il senso comune ci porta – con alcune limitazioni e imprecisioni − alla dimensione dell’uso (era la lingua “parlata”, ma anche “scritta”, a Roma), mentre l’enci-clopedia ci offre per prima una definizione della lingua dal pun-to di vista storico. Un manuale universitario di glottologia an-drebbe più a fondo nelle carat-teristiche tipologiche ed evoluti-ve della lingua, mentre un ma-nuale specifico di grammatica storica illustrerebbe i mutamenti interni che hanno portato dal latino al volgare italiano (per fa-re un esempio fra i più semplici, mostrerebbe che, gradualmen-te, i dittonghi latini hanno subito monottongamento: per inten-derci, da AURUM sia derivato il nostro oro). Tutto ciò è “il latino” o, meglio, tutto ciò è studio del latino. Questi e altri approcci concorro-no a descrivere una qualsiasi lingua come entità caratterizza-ta da più livelli d’indagine e da più dimensioni di variazione nel tempo e nello spazio, a seconda dei registri e del canale di tra-smissione orale o scritto. Nella realtà di individui parlanti e scri-venti, siamo propensi a percepi-re una lingua nella sua dimen-sione concreta di strumento di comunicazione immediatamen-te disponibile; eppure, dietro la lingua dell’uso quotidiano odier-no c’è una storia lunga e com-plessa, una storia che continua ancora oggi. Infatti, nemmeno l’italiano odierno è arrivato a una conformazione grammatica-le, sintattica e neppure ortogra-fica definitiva: basti notare la quantità di grafie concorrenti e

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di abbreviazioni (più o meno ac-cettate a seconda del mezzo di comunicazione: ciò che è lecito in un sms o in una chat può non esserlo in una tesi di laurea), per non parlare della libertà sin-tattica, dei neologismi, dei pre-stiti e delle rifunzionalizzazioni di parole (un esempio per tutti, tipo in luogo di come). La data di nascita delle lin-gue: un compleanno impos-sibile Da quel poco che abbiamo detto finora, possiamo facilmente in-tuire che è estremamente com-plicato fissare una “data di na-scita” per le lingue moderne; e il risultato che si ottiene è inevita-bilmente approssimativo e fitti-zio. L’evoluzione linguistica è, infatti, più un flusso che una se-quenza di tappe. Per l’italiano gli storici della lingua hanno prova-

to a individuare nel 960 l’anno natale del volgare e nel celebre Placito Capuano (Sao ko kelle terre... Con k per ch-: grafia, ai tempi, perfettamente lecita) il suo “atto di nascita” (si trattava di un atto notarile vero e pro-prio, nel quale, in mezzo a frasi tutte in latino, ne compariva una chiaramente in volgare). Per il latino, la questione è ancora più complessa e, dato il difficile re-perimento di testimonianze scritte, è davvero difficile dire quando questo idioma ha pre-valso sugli altri diffusi tra le po-polazioni dell’Italia preromana (visibili nella cartina qui a fian-co). Eppure, a un certo punto, dopo una lenta competizione con gli idiomi delle popolazioni sottomesse (lingue di sostrato), il latino è diventato protagonista della storia della romanità e del-le sue conquiste, della sua ora-toria e della sua letteratura.

Dal latino alle lingue romanze: l’italiano e le lingue sorelle Insomma, anche le lingue hanno una storia e non nascono come prodotti pronti all’uso in un mo-mento preciso della storia. Anzi, la loro storia è, spesso, com-plessa e lunga, e procede su un doppio binario: la storia interna (come cambiano la grammatica e le strutture delle lingue nel tempo) e la storia esterna (Co-me cambia l’uso linguistico? Come si trasforma la percezione dei parlanti? Perché certe lin-gue, un tempo prestigiose, gra-dualmente perdono di vitalità?). Le due “storie” sono indissolu-bilmente legate: infatti, sono proprio i parlanti, che vivono in un dato lasso di tempo, a coo-perare lentamente e senza ac-corgersene al cambiamento lin-guistico interno. Dal latino parla-to, più esposto ai mutamenti ri-spetto alla sua varietà scritta, sono nate le diverse lingue ro-manze, che potete vedere qui sotto; sono lingue sorelle in quanto derivano da un unico genitore: il latino, appunto. Ecco perché in esse possiamo trovare molte somiglianze (ad esempio nel lessico). Le differenze nei suoni, nelle parole e nelle strut-ture dipendono, invece, dalla storia individuale delle singole lingue, che si sono dovute con-frontare con idiomi preesistenti nei territori di diffusione. Il fe-nomeno di trasformazione del latino nelle diverse lingue “fi-glie” è avvenuto lentamente.

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Le lingue romanze o neolatine sono, dunque, un gruppo di lin-gue geneticamente affini; esse sono la continuazione del latino, rispetto al quale non manifesta-no nessuna interruzione drasti-ca. Il periodo intercorso fra l’epoca dell’unità latina e quella dell’attestazione dei diversi i-diomi indipendenti non è troppo grande; e comunque va detto che anche lo stesso latino non era una lingua davvero omoge-nea. L’espansione del Latino dal suo primitivo centro sulla riva sinistra del Tevere, prima in Ita-lia e poi nell’intera Romània (termine preso a prestito dalla filologia romanza per indicare il territorio di diffusione del latino), e i conseguenti contatti con le lingue dei popoli assoggettati avevano senz’altro creato nu-merose differenziazioni nelle di-verse aree di latinità. All’incirca nel quinto secolo, quando l’Impero Romano d’Occidente cedette alla pressione dei bar-bari, le differenze regionali co-minciarono a farsi più marcate e lo divennero ancor di più quan-do i legami politici e amministra-tivi che riunivano le parti

dell’impero iniziarono ad allon-tanarsi, originando singole re-gioni man mano più autonome. Insomma, fino a quando la forza accentratrice della capitale dell’Impero permise che all’unità politica corrispondesse anche una relativa unità lingui-stica, le varietà non uscirono mai dagli argini delle differenze regionali, almeno per quanto risulta dalle testimonianze scrit-te superstiti. Man mano, però, che l’unità imperiale si allentò, anche l’unità linguistica, sebbe-ne i legami culturali permanes-sero, ne risultò indebolita. Per quanto riguarda il cambia-mento linguistico, i glottologi hanno individuato un elemento importante e significativo nella distinzione fra centro e periferia dell’impero, che vale la pena di ricordare. Partiamo da un caso, quello della parola “plus”, più, che nelle lingue moderne ha a-vuto gli esiti seguenti (provate a pronunciarli, tenendo conto che sardo e rumeno si pronunciano come si scrivono, proprio come il latino):

Plus (latino)

plus (rumeno) pius (sardo)

plus (francese) più (italiano)

mas (spagnolo) mais (portoghese)

Consideriamo prima di tutto la geografia: Spagna e Portogallo sono laterali e più lontane ri-spetto al centro dell’impero, così come la Romanìa (che oltre a essere laterale è isolata fra lin-gue di ceppo slavo); isolata, nel vero senso della parola, è la Sardegna. Poi consideriamo che mas e mais derivano da MAGIS, forma comparativa arcaica pre-cedente PLUS in latino. Metten-do assieme i pezzi possiamo no-tare che la forma più recente, PLUS, si è affermata in Italia e in Francia con vistose differenze di pronuncia: questo vuol dire che la lingua era più vitale; poi pos-siamo osservare che plus si è affermato in sardo e in rumeno, ma senza differenze di pronun-cia rispetto al latino; infine, no-tiamo che nello spagnolo e nel portoghese si è continuata la

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forma arcaica, cioè l’innovazio-ne linguistica latina più recente (plus) non è arrivata. Che cosa significa tutto ciò? Secondo la linguistica areale, significa che le zone lontane, laterali e isolate

conservano caratteristiche più arcaiche in quanto il cambia-mento linguistico si è manifesta-to di meno: l’innovazione, infatti, procedeva dal centro alla perife-ria. Questo spiega perché in

spagna “bello” si dice hermoso (dal lat. classico FORMONSUS, bello; BELLUS è, invece, aggetti-vo del latino tardo).

Lettere e suoni della lingua latina L’ALFABETO LATINO

Cominciamo con una riflessione sull’alfabeto (in particolare sui caratteri latini, e più in generale, sul concet-to stesso di alfabeto) e facciamolo cimentandoci in un piccolo gioco, che si può proporre ad adulti e bambi-ni:

(a) 木

Osservate qui a sinistra. Che cosa vedete? C’è scritto qualcosa? È una scritta o un disegno?

(b) ARBŎR E qui? Che cosa vedete? Riuscite a leggere? Sapete dire che cosa significa?

Certamente, nel secondo caso (b) i problemi di decifrazione so-no stati minori: siamo riusciti a leggere (cioè a riconoscere le lettere del nostro alfabeto e i suoni corrispondenti) e a intuire il significato della parola (albe-ro). Anche nel primo caso c’è scritto albero, ma si tratta di un ideogramma cinese, cioè – semplificando al massimo – di un sistema di scrittura non alfa-betico, bensì ideografico: per provare a capire il significato del significante (a), dobbiamo muo-verci su un altro livello di inter-pretazione, cioè quello visivo, del riconoscimento di un’imma-gine stilizzata (un albero rove-sciato). Non si tratta più di sim-boli astratti come quelli alfabeti-ci, a ciascuno dei quali corri-sponde un suono, ma di ripro-duzioni della realtà. I caratteri dell’alfabeto latino ci sono familiari in quanto sono quelli utilizzati per la trascrizione di lingue a noi note: non solo di quelle romanze, anche di lingue come l’inglese o il tedesco, di ceppo germanico. Tuttavia, leg-gere il latino non è proprio come leggere l’italiano, per alcune dif-

ferenze che vedremo qui di seguito; per leggere, come per tradurre, ci sono alcune regole precise, che possono essere presentate come re-gole di un gioco, rispettando le quali ci si può accostare in modo di-vertente a una lingua nuova e misteriosa. Leggiamo il latino: caratteristiche e differenze principali rispetto all’italiano Poiché non è possibile ascoltare dei parlanti nativi, gli studiosi hanno dovuto dedicare attenzione particolare e specifica per individuare del-le norme di lettura del latino, ricavate da testimonianze di varia natu-ra (prime fra tutti gli scritti dei grammatici del tempo). L’alfabeto lati-no è formato da 24 lettere (le 21 italiane più k, x, y). Conta in totale dieci vocali: i segni, in realtà, sono cinque (a, i, e, o, u), ma tutti pos-sono realizzarsi in forma breve o lunga, originando, così, sillabe brevi e sillabe lunghe: – una sillaba è breve se contiene una vocale breve, caratterizzata

dal segno caratteristico simile ad una piccola mezzaluna, tracciato su di essa nei vocabolari e nelle grammatiche (ĕ);

– una sillaba è lunga se contiene una vocale lunga o un dittongo: una vocale lunga si riconosce da quel segno caratteristico, simile a un trattino, tracciato su di essa nei vocabolari e nelle grammatiche (ē).

Non è semplice per noi, oggi, sapere esattamente a che cosa corri-spondeva la differenza di lunghezza; forse aveva un valore timbrico, cioè segnalava una differenza di pronuncia che non sappiamo ripro-durre. Infatti, il sistema vocalico dell’italiano è composto di sette voca-li (graficamente sono cinque, ma la e e la o possono essere aperte o chiuse, anche se fra gli italofoni di oggi la sensibilità per questa di-

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stinzione si va perdendo; una maggiore sensibilità e capacità di riprodurre le aperte e le chiu-se è comune solo in Toscana). Le regole di lettura del latino, strettamente legate alla quanti-tà vocalica, sono tre: 1. l’accento non cade mai

sull’ultima sillaba: non esi-stono quindi parole tronche, tipo verità;

2. in latino l’accento non può mai cadere oltre la terzulti-ma sillaba: quindi può esser-ci al massimo una parola sdrucciola come sìngolo (p. es. ìncipit), ma non una paro-la come telèfonami;

3. infine, c’è la cosiddetta legge della penultima, che riguarda le parole di tre o più sillabe. Nelle parole di tre o più silla-be, si possono verificare due casi:

– la penultima sillaba è

lunga: l’accento cade su di essa;

– la penultima sillaba è breve: l’accento cade sul-la sillaba precedente.

Vanno ricordati, poi, i dittonghi, cioè i gruppi formati da vocale più una semivocale: in latino i dittonghi più frequenti sono tre au = au (aurum, oro) ae = e (Caesar, Cesare) oe = e (poena, pena) Le consonanti non presentano particolari difficoltà, ma occorre sape-re che alcuni gruppi di lettere si pronunciano diversamente da come sono scritti o comunque in modo diverso da come verrebbe sponta-neo fare. Vediamo qualche caso, per curiosità: ti + voc. = zi (es. vitium pr. vìzium); questa regola non vale se ti + voc. è preceduto da s, x o t (es. quaestio pron. quèstio); sc = le due lettere sono sempre pronunciate separate (il suono pala-tale di pesce è nato nel latino tardo, così come i suoni affricati del no-stro cielo e del nostro gennaio); gn = come nel caso precedente, la tendenza classica era probabil-mente quella di realizzare due suoni separati. Infine, una curiosità. Abbiamo parlato di vocali brevi e lunghe, che l’italiano non ha. Tuttavia, l’italiano ha una caratteristica in un certo senso simile a questa. Dove? Facciamo una prova. Affinate le orec-chie e pronunciate (o fare pronunciare da qualcuno) la parola CARO, poi la parola CARRO; oppure pronunciate la parola PALA, poi la parola PALLA. Non solo sentirete la consonante doppia rafforzata, ma anche la vocale che precede la geminata pronunciata in un’emissione voca-le un pochino più lunga.

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Gioco linguistico: il Memory delle parole latine e italiane DI ROSANNA IAQUINTA Il «Memory» è un noto gioco di carte che richiede attenzione, concen-trazione e memoria. Le carte sono inizialmente mescolate e disposte, coperte, sul tavolo. I giocatori scoprono, a turno, due carte. Se queste formano una coppia (cioè hanno qualche elemento che le lega), ven-gono incassate dal giocatore di turno, che può scoprirne altre due, altrimenti, vengono nuovamente coperte e rimesse in gioco sul tavolo, e il turno passa al prossimo giocatore. Vince il giocatore che riesce a scoprire più coppie. Ovviamente, molto sta nell’avere buona memoria di dove si trovano le carte scoperte e poi rimesse in gioco. Perché non provare a creare la coppia unendo la parola latina e quel-la italiana derivata da essa? L’obiettivo di questo gioco è, innanzitut-to, quello di incuriosire e sensibilizzare spontaneamente alle somi-glianze fra la lingua latina e l’italiano (ma si possono facilmente coin-volgere anche altre lingue!). Man mano che i bambini si appassione-ranno all’affascinante processo di trasformazione dal latino all’italiano, sarà possibile costruire altri «Memory», con nuove parole più o meno complesse (all’occorrenza si può anche consultare un di-zionario etimologico). Buon divertimento! Per il docente: per completezza, a lato di ogni abbinamento è accen-nata una breve spiegazione dei mutamenti fonetici avvenuti nel corso del processo di trasformazione (cfr. G. Patota, Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano, Bologna, il Mulino, 2007).

Regola Latino Italiano

Il dittongamento spontaneo In sillaba aperta dalle vocali «e» e «o» brevi si sono sviluppati i

due dittonghi ascendenti «ie» e «uo».

pedem piede decem dieci levitum lievito bonum buono focum fuoco core cuore

Chiusura in protonia e postonia In posizione protonica la /e/

tende a chiudersi in /i/ e la /o/ passa in /u/

molinum mulino

secūrus sicuro

Lo sviluppo della /j/ in posizione iniziale o intervocalica

iocum gioco peius peggio maiorem maggiore

La spirantizzazione di /b/ hăbēre avere La sonorizzazione delle sorde

intervocaliche Le occlusive sorde latine /p/, /t/ e /k/ comprese tra vocali si so-no spesso trasformate nelle cor-

rispondenti sonore. Nel primo caso, invece, la /p/ fricativizza

in /v/

ripam riva stratam strada patrem padre cattum gatto macrum magro

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Regola Latino Italiano

La semplificazione (assimilazio-ne) dei nessi consonantici /gm/

e /mn/

fragmentum frammento somnum sonno

Il nesso /ns/ La nasale prima della sibilante

cade sistematicamente

mensem mese sponsam sposa

Il nesso /ps/ Il nesso /ps/ ha avuto come esi-

to /ss/

ipsum esso scripsi scrissi

Il nesso /ks/ Il nesso /ks/ ha avuto in italiano

un duplice esito: /ss/ oppure /sc/

saxum sasso vixi vissi laxare lasciare

Il nesso /ct/ Il nesso /ct/ ha avuto in italiano

come esito l’assimilazione re-gressiva

factum fatto

lactem latte

Il nesso /kw/ Il nesso /kw/ ha subito diversi

esiti.

aqua acqua antiquum antico

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Dal latino alle lingue romanze: un gioco DI ROSSANA IAQUINTA L’obiettivo di questo gioco è, innanzitutto, quello di mettere in eviden-za il rapporto tra la lingua latina e le lingue romanze, in modo visivo e comparativo, senza “insegnare” nulla a priori ai ragazzi. Prima di in-trodurlo potrebbe anche essere utile procurarsi una carta geografica raffigurante la massima estensione dell’impero romano, e confronta-re successivamente la stessa con una carta geografica moderna, per avere un’idea di come sono cambiati i confini. Partendo dall’idea di questo gioco, si possono naturalmente inventare tutte le variazioni che si desiderano. La tabella sottostante vuol esse-re solo uno spunto di partenza. Così, ad esempio, si può cominciare con un cartellone in cui, nella co-lonna di sinistra, compaiono le parole latine, mentre le altre colonne restano vuote. Le «traduzioni» nelle cinque lingue considerate – italia-no, francese, spagnolo, portoghese e rumeno – finiranno invece in una specie di mazzo di carte: tirando a caso, si tratterà di incollare ogni parola nel giusto riquadro. Ovviamente la tabella può essere ampliata con nuove parole, consul-tando dizionari di lingua straniera o etimologici. Oppure, espandendo il gioco all’infinito, potrà essere affascinante andare alla ricerca di al-tre contaminazioni linguistiche, che a volte percorrono e hanno per-corso strade assai strane.

Latino Italiano Francese Spagnolo Portoghese Rumeno

manus, -us mano main mano mão mână

oculus, -i occhio œil ojo olho ochi caseus, -i (latino popolare: formaticus, -i)

formag-gio/cacio

fromage queso queijo caş

capra, -ae capra chèvre cabra cabra caprǎ

clavis, -is chiave clé llave chave cheie

ecclesia, -ae chiesa iglesia igreja église biserică

basium, -ii bacio baiser beso beijo sărut

mater, -tris, madre mère madre mãe mamă

pater, -patris padre père padre pai tată

stella, -ae stella étoile estrella estrela stea

lingua, -ae lingua langue lengua lingua limbă

platea, -ae piazza place plaza praça piaṭǎ

pons; -ntis ponte pont puente ponte pod

nox, noctis notte nuit noche noite noapte

rosa, -ae rosa rose rosa rosa roz

flos, -oris fiore fleur flor flor floare

unus, -a, -um uno un uno um unu

duo, -duae,-duo due deux dos dois doi

tres, -tres,-tria tre treus tres três trei

viginti venti vingt veinte vinte douăzeci

centum cento cent cien cem sută

mille mille mille mil mil mie

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Latino Italiano Francese Spagnolo Portoghese Rumeno

rapide (rapidamente) rapidamente rapidement rápidamente rapidamente repede

lente lentamente lentement despacio lentamente

frigus, -oris freddo froid frío frio frig

calidus, -a, -um caldo chaud caliente quente

cantare cantare chanter cantar cantar cânta

dicere dire dire dicer dixer

Osservazione: il latino usa normalmente due tipi di segni distintivi, detti breve (ŭ, ĕ, …) e lunga (ā, ē, …). Ad esempio, la traduzione lati-na corretta di occhio è ocŭlus e quella di rapidamente è răpĭdē. Per comodità e per non complicare il tutto, abbiamo scelto di riportare le parole latine senza questi segni.

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A cura di Silvia Demartini e Adolfo Tomasini

Alle 9 al Teatro di LocarnoAccoglienza e saluto ai partecipantida parte di Raffaella Castagnola, ideatrice e coordinatrice diPiazzaparola, e della direzione del DFA

«Ascoltate, o Dei, il mio canto...»Il racconto della creazione del mondo in un libero adattamento diSilvia Demartini e Adolfo Tomasini da Le Metamorfosi di Ovidio,con le voci di Marco Fasola e Beppe Vedani (per gentile concessionedella RSI), la musica di Giovanni Galfetti e le luci di Luca Bertolotti eWerner Walther.

La storia di Eco e di Narcisoadattata da Silvia Demartini e Rosanna Iaquinta,con le voci di Sara Giulivi e Cristina Zamboni.

E poi altre metamoorfoosi, scelte e adattate daSilvia Demartini e Rosanna Iaquinta:

ai giardini Ruscacon la voce di Cristina Zambonie le illustrazioni di Simona Meisser

in piazza Grande, al mercato del giovedìcon la voce di Sara Giulivie la fisarmonica di Daniele Dell’Agnola

In caso di cattivo tempo la manifestazione si svolgerà interamente alTeatro di Locarno.

Piazzaparola è una manifestazione che nasce dalla Dante Alighieri di Lugano.

www.dantealighieri.ch — [email protected] — Facebook: piazzaparola

Enti e sponsor

Teatrodi Locarno

SUPSI

Banque SYZ & CO

Città di Locarno Cittàdi Locarno

Piazzaparola a Locarno / Giovedì 10 settembre 2015

METAMORFOSISSttoorriiee ssuullll’’oorriiggiinnee ddeell mmoonnddoo sseeccoonnddooPPuubblliioo OOvviiddiioo NNaassoonnee

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Piazzaparola a Locarno / Lo staff

Daniele Dell’Agnola, narratore e musicista, insegna italiano e comuni-cazione nelle scuole superiori e attualmente è docente dei corsi bache-lor alla SUPSI. Suona il pianoforte, la fisarmonica e adora i ritmi del car-nevale.Silvia Demartini, ricercatrice in didattica dell’italiano alla SUPSI (DFA).Dopo la laurea in lingua e cultura italiane, ha conseguito il dottorato diricerca all’università del Piemonte Orientale. Collabora al progetto«TiScrivo», sulla lingua scritta a scuola dai bambini ticinesi.Marco Fasola e Beppe Vedani lavorano insieme da almeno vent’anni.La coppia artistica, oltre ad occuparsi della realizzazione dei messag-gi promozionali per le reti radio RSI, ha prodotto numerose serie radio-foniche sotto lo pseudonimo di «Circo Rilassa». Appassionati di musica,si sono spesso lanciati nella composizione ed esecuzione di sigleradiotelevisive, tra le quali le canzoncine delle rubriche radio del CanePeo e l’immortale hit «La Fregata Dell’Amore». Il primo è appassionatodi cartoni animati giapponesi che traduce a spanna. Il secondo di disci-pline mediche orientali.Giovanni Galfetti ha studiato al Conservatorio di Zurigo e ora è inse-gnante di musica e di didattica della musica presso il dfa della SUPSI. Èorganista della Collegiata di S. Antonio di Locarno. Suona in duo conCarlo Bava (Laetimusici) e dirige l’Ensemble Controcanto.Sara Giulivi ha conseguito nel 2007 il dottorato di ricerca in linguisti-ca e linguistica italiana presso l’università di Firenze ed è attualmen-te ricercatrice presso il Dipartimento formazione e apprendimentodella SUPSI. Si è inoltre formata come attrice presso il Centro TeatroInternazionale (CTI) di Firenze, dove ha frequentato il corso triennale diFormazione Professionale per Attori di Prosa, sotto la guida di O.Melnik, dell'Università Statale di Cultura e Arte di Mosca.Rosanna Iaquinta si è iscritta al DFA della SUPSI dopo aver conseguitonel 2012 la laurea in lettere moderne all’università Statale di Milano.Attualmente frequenta il Bachelor of Arts SUPSI in Insegnamento per illivello prescolastico. Come studentessa al DFA ha collaborato all’edizio-ne 2015 di «Piazzaparola» nell’ambito di un credito libero proposto aglistudenti del II anno (Metamorfosi di una lingua: dal latino all’italiano…e altro!).Simona Meisser, illustratrice di libri per l’infanzia, lavora a Lugano. Hafrequentato l’Istituto Europeo di Design a Milano, dove ha ottenuto ildiploma di illustratrice. Espone in mostre itineranti e svolge corsi di illu-strazione nella scuole. Il suo sito: www.simonameisser.com.Publius Ovidius Naso, (43 a. C. - 18 d. C.), poeta elegiaco romano tra ipiù popolari. Malgrado diverse sollecitazioni, il poeta non ha ritenuto diinviare una sua breve nota biografica. In tutti i casi è l’autore delle sto-rie di «Piazzaparola» di quest’anno.Adolfo Tomasini, pedagogista, è stato insegnante di scuola elementa-re per una decina d’anni. Nel 1987 ha conseguito la licenza in scienzedell’educazione all’università di Ginevra e, nello stesso anno, è statonominato direttore delle scuole comunali di Locarno, funzione che halasciato nel 2013. Cura dal 2001 la rubrica «Fuori dall’aula» delCorriere del Ticino e, in collaborazione con la SUPSI, coordina le appen-dici locarnesi di «Piazzaparola».Cristina Zamboni, attrice, si forma alla scuola di teatro «Quelli di Grock»di Milano. Collabora con Cambusateatro, Teatro Agorà e come attriceindipendente ha proposto il ciclo di narrazioni mitologiche «Raccontamiun mito». Dal 2006 è lettrice alla RSI e voce RSI Cult TV.

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