Dossier Francese 1

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Contatti Ultime Notizie Mario Francese Dossier DA GARCIA A RUSSO A GARCIA 20 maggio 1979 Da Garcia a Russo a Garcia E' sera. Nella piccola casetta al primo piano in piazza, a Ficuzza, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, la moglie Mercedes Berretti e la piccola Benedetta hanno appena terminato di cenare. Hanno lasciato Palermo nel pomeriggio. La signora Mercedes è stanca, preferisce riordinare la cucina e andare a letto. Russo invece vuol fare due passi. Esce e chiama un amico che abita vicino, l'insegnante Filippo Costa. E' la sera del 20 agosto 1977, ore 21.30. In maglietta e pantaloncini, sotto il cielo stellato, fiancheggiando il porticato della caserma della Forestale, Russo e Costa passeggiano diretti verso il bar della piazza. Nessuno saprà mai di cosa parlano. Al bar entra soltanto Russo per fare una telefonata. Costa attende fuori. Un minuto dopo i due amici riprendono la loro passeggiata. Un teste interrogato dai carabinieri, Felice Crosta, ha detto: "Alle 22 li ho visti. Erano diretti verso la parte alta della piazza lungo il viale parallelo a quello principale". Nello stesso momento c'è chi si accorge di una "128" verde che procede lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa. Divide i due viali un largo marciapiedi in parte alberato. L'auto continua la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettua una conversione ad "U" e si ferma proprio davanti all'abitazione del colonnello Russo. I due amici sono vicini alla macchina degli assassini. Non se ne rendono conto. Non possono. Si fermano, Russo tira fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di "Minerva". Russo non ha il tempo di accendere la sua ultima sigaretta. Sono le 22,15. Dalla 128 scendono tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminano verso i due. Appena sono vicini aprono il fuoco con le calibro 38. Sparano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che ha il compito di uccidere Costa. Sono killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cade addosso. Si rialza immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbraccia il fucile sparando alla testa. E' il colpo di grazia. Il killer vuol essere certo che l'esecuzione sia completa e mira anche alla testa dell'insegnante Filippo Costa. E' il secondo colpo di grazia. Si può andar via. Ma l'ultimo killer nella fuga perde gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo. Numerose persone assistono a queste drammatiche sequenze e, soprattutto, alla fuga perché i killer, a bordo della 128, passano proprio davanti al bar. Ci si convince subito che si tratta di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima. Fatti e misfatti di una diga La scelta di Ficuzza come teatro di esecuzione non è occasionale. Entrambi potevano essere uccisi più facilmente in altri posti. Russo in via Ausonia sotto casa a Palermo, Costa a Misilmeri dove abita. Invece no. La mafia voleva una esecuzione spettacolare ed esemplare. HOME MARIO FRANCESE GIUSEPPE FRANCESE DOCUMENTI VIDEO LIBRI & GALLERIA FOTO

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Mario Francese Dossier

DA GARCIA A RUSSO A GARCIA

20 maggio 1979

Da Garcia a Russo a Garcia

E' sera. Nella piccola casetta al primo piano in piazza, a Ficuzza, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, la moglie MercedesBerretti e la piccola Benedetta hanno appena terminato di cenare. Hanno lasciato Palermo nel pomeriggio. La signora Mercedes èstanca, preferisce riordinare la cucina e andare a letto. Russo invece vuol fare due passi. Esce e chiama un amico che abita vicino,l'insegnante Filippo Costa.

E' la sera del 20 agosto 1977, ore 21.30.

In maglietta e pantaloncini, sotto il cielo stellato, fiancheggiando il porticato della caserma della Forestale, Russo e Costapasseggiano diretti verso il bar della piazza. Nessuno saprà mai di cosa parlano.

Al bar entra soltanto Russo per fare una telefonata. Costa attende fuori. Un minuto dopo i due amici riprendono la loro passeggiata.Un teste interrogato dai carabinieri, Felice Crosta, ha detto: "Alle 22 li ho visti. Erano diretti verso la parte alta della piazza lungo ilviale parallelo a quello principale".

Nello stesso momento c'è chi si accorge di una "128" verde che procede lentamente per il viale principale, evidentementecontrollando i movimenti di Russo e Costa. Divide i due viali un largo marciapiedi in parte alberato. L'auto continua la sua marcia finoalla parte alta della piazza, effettua una conversione ad "U" e si ferma proprio davanti all'abitazione del colonnello Russo.

I due amici sono vicini alla macchina degli assassini. Non se ne rendono conto. Non possono. Si fermano, Russo tira fuori daltaschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di "Minerva".

Russo non ha il tempo di accendere la sua ultima sigaretta. Sono le 22,15. Dalla 128 scendono tre o quattro individui, tutti a visoscoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminano verso i due. Appena sono vicini aprono il fuoco con le calibro 38.Sparano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che ha il compito di uccidere Costa.

Sono killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cade addosso. Si rialzaimmediatamente e, come in preda ad un raptus, imbraccia il fucile sparando alla testa. E' il colpo di grazia. Il killer vuol essere certoche l'esecuzione sia completa e mira anche alla testa dell'insegnante Filippo Costa. E' il secondo colpo di grazia. Si può andar via. Mal'ultimo killer nella fuga perde gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo.

Numerose persone assistono a queste drammatiche sequenze e, soprattutto, alla fuga perché i killer, a bordo della 128, passanoproprio davanti al bar.

Ci si convince subito che si tratta di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovataabbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima.

Fatti e misfatti di una diga

La scelta di Ficuzza come teatro di esecuzione non è occasionale. Entrambi potevano essere uccisi più facilmente in altri posti.Russo in via Ausonia sotto casa a Palermo, Costa a Misilmeri dove abita. Invece no. La mafia voleva una esecuzione spettacolare edesemplare.

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I mandanti avranno fatto ricorso a killer che conoscono zona ed abitudini del paese. Dovevano sapere, per esempio, che quella sera il"posto" della Forestale era sguarnito e non correvano alcun rischio nel primo tratto di fuga: un chilometro che, senza possibilità dideviazioni nel caso di sorprese, conduce da Ficuzza alla biforcazione del fondo Marino: una strada porta a Corleone e l'altro braccio aMarineo.

Gli appunti trovati su Russo, sulla sua "127", in casa e alla Legione imprimono alle indagini sin dalle prime battute un precisoindirizzo: la diga Garcia. Questa la pista dei carabinieri, che si ritrovano davanti alla formula: mafia­Garcia­sequestro Corleo.

Russo quando muore è al settimo mese di convalescenza. Il mese successivo avrebbe dovuto presentarsi ad una visita fiscale: sel'esito fosse stato positivo si sarebbe definitivamente ritirato dall'Arma.

Ci si chiede quindi quale strada l'ufficiale avrebbe voluto percorrere nel caso di congedo. Squadra mobile e Criminalpol indagano sullesue amicizie. Soprattutto una, quella dell'imprenditore di Montevago Rosario Cascio. Poi: il progetto di un'industria da realizzare inLiberia, alcuni suoi viaggi a Roma con Cascio, la sua partecipazione in una società, la Rudesci.

Tutti fatti sui quali si indaga. Alla fine, la polizia e carabinieri concordano su un punto: Russo è caduto per aver cercato di ripristinarel'ordine ed evitare soprusi nella corsa dei gruppi mafiosi verso i remunerativi subappalti ruotanti intorno ai lavori per la costruzionedella diga Garcia (costo: 300 miliardi circa).

In particolare, il colonnello Russo avrebbe tentato di non far perdere al suo amico Rosario Cascio il lavoro che si era legittimamenteconquistato nella diga Garcia, da dove alcuni gruppi di mafia lo avevano cacciato con una serie di violenze.

Il tentativo di Russo non è stato però gradito dalla mafia che intravide nella sua intromissione un serio pericolo per la realizzazionedei programmi iniziati nel '74 con alcuni sequestri­monstre, finalizzati al predominio assoluto nella zona di Garcia e nella valle delBelice.

Un pericolo non infondato perché i gruppi di mafia in fermento avevano già avuto modo di conoscere la tenacia di Russo, soprattuttonella lotta alla "Anonima sequestri".

La nuova mafia ormai aveva preso il sopravvento. E uno dei suoi obiettivi era quello di cancellare l'impresa di Rosario Cascio, diescluderla dai numerosi appalti, cominciando proprio dalle forniture alla Lodigiani, che in quel periodo avrebbe dovuto eseguire lavoriper 21 miliardi.

Cascio è considerato una pedina fondamentale dei vecchi equilibri della zona, quelli che non piacciono alla nuova mafia. Inoltre eraamico di Russo e aveva le spalle protette da Stefano Accardo, il boss di Partanna­Trapani che sarebbe stato uno degli artefici delfallimento del sequestro Corleo.

Rosario Cascio, nel corso dell'inchiesta giudiziaria poi affidata al giudice istruttore Pietro Sirena, dichiara di essere stato estromessodall'ingegner Ratti dell'impresa Lodigiani. Ma Ratti lo esclude. In marzo – è la sua tesi – ci sono pervenute due offerte, una della dittaCascio e l'altra della "INCO". Abbiamo ritenuto più conveniente quella della "INCO".

Soffermiamo la nostra attenzione su questa sigla: è quella di una società con sede iniziale a Camporeale, fondata il 26 giugno 1970,registrata a Monreale; ha il programma di aprire cave, lavorare la pietra e fornire materiale alle imprese che ne hanno bisogno. Unasocietà modesta la "INCO", con capitale iniziale di un milione e duecento mila lire. Ne fanno parte l'imprenditore di MonrealeFrancesco La Barbera, Giovanni Lanfranca di Camporeale e il cognato di quest'ultimo, il geometra Giuseppe Modesto, dipendentedell'amministrazione provinciale di Palermo, segretario dell'assessore delegato alle opere finanziate dalla Cassa del Mezzogiorno.Strano compito quello di Modesto che, fra l'altro, richiede 200 milioni alla "Cassa" proprio per potenziare le attrezzature della "INCO".

La società il 10 luglio 1971 porta il suo capitale a 150 milioni e il 22 luglio 1974 a 200 milioni. E' l'anno in cui Giuseppe Modestoassume la presidenza della "INCO".

Negli ultimi mesi del '76 la "INCO" è in crisi: "La situazione redditizia – si legge nella relazione di fine anno allegata al bilancio – ènegativa per il ridotto regime di attività degli impianti nel corso dell'esercizio 1976 e per la pesante incidenza degli oneri finanziari perdebiti a breve scadenza, oltre che per il ritardo del contributo della Cassa del Mezzogiorno".

Per la prima volta, la "INCO" così fa ricorso al fondo di riserva. La società si presenta in queste condizioni come alternativaall'impresa di Cascio concorrendo all'appalto per le forniture alla Lodigiani.

Non si può escludere che il colonnello Russo, dopo essersi tanto adoperato per far superare a Cascio una serie di difficoltà poste dauna precedente operazione da effettuare in Liberia, abbia pensato che c'era un solo modo di salvare l'amico reinserirlo nelle fornituredi Garcia.

Non avrà tentato il colonnello Russo di raggiungere un compromesso con la "INCO" che, non essendo in grado di garantire le forniturerichieste dalla Lodigiani, avrebbe potuto reinserire Cascio nel gioco?

Morto Russo, la risposta a questa domanda è finita nella tomba con lui. C'è però una dichiarazione di Rosario Cascio, che mi harilasciato subito dopo l'interrogatorio del giudice Pietro Sirena, che val la pena di rileggere. Dalle sue parole non si escludel'"ingerenza" di Russo.

"Non comprendo come i Lodigiani e i suoi tecnici – dice – soltanto ora rivelano al giudice istruttore che io sono stato estromesso

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QUANDO LA “LA MALA” TOCCAUN INTOCCABILE

13 maggio 1979

Quando la "la mala" tocca un intoccabile

Sul sequestro e sul rilascio della moglie dell'ex costruttoreGiuseppe Quartuccio, sugli otto morti che seguirono allaliberazione di Graziella Mandalà, il colonnello Giuseppe Russopresentò un rapporto alla magistratura, l'ultimo della sua lungacarriera prima di lasciare il comando del nucleo investigativo deicarabinieri (26 ottobre 1976) per venire trasferito alla Legione diPalermo.

Russo presentò il rapporto ma non arrestò Quartuccio. Proprio alcontrario di come si comportò il suo successore, il maggioreAntonio Subranni. Quest'ultimo il 23 dicembre dello stesso annocon un suo primo rapporto all'autorità giudiziaria arrestòGiuseppe Quartuccio come mandante degli omicidi di FrancescoRenda, Elio Ganci, Schifando, Malfattore Spaduzza, Giaconia,Filippo e Salvatore Ganci. Arresto confermato dal giudiceistruttore Marcantonio Motisi, che contestò all'ex costruttore ilconcorso in sei omicidi: Renda, Elio, Filippo e Salvatore Ganci,Schifaudo e Malfattore. Come si vede, pur essendone indiziato,non ha avuto ufficialmente contestati né gli omicidi Giaconia eSpaduzza, né la scomparsa di Vito Mangione, volatilizzatosisubito dopo il rilascio della Mandalà.

Vediamo come Subranni giunge alla determinazione di arrestareQuartuccio. Il suo rapporto rivela anche nei dettagli le sequenzedel più eclatante giallo della malavita organizzata.

E' stato accertato che subito dopo il rapimento della moglie,Giuseppe Quartuccio "bussò" alla porta di un noto boss deltriangolo Monreale­Uditore­Borgo Nuovo.

LA “GUERRA DEL DOPOCAMPISI­CORLEO”

29 aprile 1979

La "guerra del dopo Campisi­Corleo"

Del banchetto organizzato in un ristorante di Mazara del Vallo il27 febbraio 1976 da Rosario Cascio (festeggiò così il contrattostipulato con la Lodigiani per costruire il cantiere­operai per ladiga e per realizzare la galleria destinata a deviare il corso delfiume Belice fino al termine dei lavori) bisognerà ricordarsi comepunto di partenza nelle indagini per l'omicidio a Ficuzza delcolonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.

Quel giorno resterà una data importante perché, ancora unavolta, si tentò di uccidere.

La comitiva si divise nel primo pomeriggio. I tecnici dellaLodigiani tornarono a Garcia con le loro auto. Cascio si diressecon altri tecnici verso Montevago e Stefano Accardo si mise allaguida della sua "Mercedes" diretto a Partanna insieme algeometra Paolo Lombardino. Prima di lasciare Mazara, Accardofece il pieno di benzina presso un distributore gestito da AntoninoLuppino, un uomo con il quale scambiò qualche parola. Fatto ilpieno la "Mercedes" partì per l'autostrada Mazara­Punta Raisi.

Secondo una ricostruzione attendibile, Luppino – subito dopo lapartenza di Accardo e del suo compagno di viaggio – avrebbeinformato qualcuno sull'itinerario della "Mercedes". E' certocomunque che, quando l'auto del boss giunse all'altezzadell'abitato di Castelvetrano, da una macchina affiancatasi invelocità furono sparati colpi di mitra e di pistola. La "Mercedes"fu ridotta ad un colabrodo ma sia Accardo che Lombardinorimasero feriti soltanto di striscio tanto che – dopo avere finto diessere morti – proseguirono verso Palermo.

perché l'impresa aveva ritenuto più vantaggiose le offerte della INCO. Da maggio ad ora nessuno aveva accennato ad offerte dellaINCO: né io, come erroneamente sostenuto da Lodigiani, a marzo ho fatto offerte per aggiudicarmi le forniture a Garcia inconcorrenza con la INCO. E' vero che io già rifornivo i Lodigiani e che a marzo avevo soltanto presentato una variazione di prezziadeguandoli ai nuovi costi. Continuai le forniture anche dopo la presentazione dei nuovi prezzi che non furono mai né respinti nécontestati, come dimostrano le fatture di pagamento. L'offerta della INCO è spuntata dopo la morte di Russo e non posso neancheescludere che si tratti di un'offerta perfezionata in un secondo momento e, comunque, dopo i fatti di Ficuzza, magari per togliere daogni imbarazzo i Lodigiani e i suoi tecnici. Comunque la INCO non potrà garantire le forniture che soltanto la mia imprese riesce aprodurre per l'attrezzatura di cui è fornita e che le consentono di far fronte contemporaneamente alle esigenze di tutte le imprese cheoperano nel Belice".

Alla luce di queste parole appare verosimile che Russo chiedesse il rispetto della legalità a chi della legalità è irriducibile nemico, ilrispetto della giustizia per Cascio a chi nell'ingiustizia prolifera.

"Russo si è spinto", si sussurrò negli ambienti vicini a Cascio. Il suo era un temperamente impulsivo ma generoso. Si spingeva finoalle estreme conseguenze quando era convinto di essere dalla parte della giusta causa. Un temperamento che lo avrà indotto –magari con durezza – a chiedere giustizia per un amico, cosa che gli è costata la vita.

La magistratura, per avallare questa tesi, cerca l'aggancio Russo­Costa alla causa di Cascio. Ma non era forse Filippo Costa l'unicoamico che l'ufficiale aveva a Ficuzza e al quale poteva confidare, durante le passeggiate, i suoi problemi? Russo non aveva moltiamici. Ma un amico era l'insegnante Costa, probabilmente a conoscenza dell'affare­Cascio.

E, ammesso che Russo non avesse rivelato nulla a Costa, chi avrebbe potuto convincere gli assassini?

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C'è chi in quei giorni consigliò a Quartuccio di rivolgersi algioielliere di Monreale, Elio Ganci, famoso in certi ambienti peravere avuto un ruolo nella scomparsa del gestore del "barMassimo" Vincenzo Guercio, rapito sotto la sua abitazione diCorso Calatafimi, il 10 luglio 1971. Il gioielliere, secondo leindicazioni dei carabinieri, era legato al clan di Gerlando Alberti edi Loreto Sordi, il capo della rivolta dell'Ucciardone nel 1957.

Quartuccio avrebbe chiarito le idee a se stesso il 23 luglio 1976,giorno in cui si recò nella gioielleria di via della Repubblica diMonreale.

"La prego – disse a Elio Ganci – mi aiuti a riavere mia moglie cheè ammalata". Ganci choccato e turbato dall'inaspettata richiestarispose confuso: "Ma... che c'entro io? Che ne so di questi fatti?".Dal turbamento di Ganci l'ex costruttore si sarebbe convinto cheil gioielliere era proprio uno degli organizzatori del sequestro.

I carabinieri sono riusciti a ricostruire attraverso le dichiarazionidi alcuni protagonisti le fasi misteriose della liberazione dellaMandalà.

Testi chiave dell'accusa sono Rachela Finocchio in Rizzo titolaredi un esercizio di generi alimentari a Borgo Nuovo, e FrancescaCalì ex amante di Vittorio Manno, il meccanico assassinato allacirconvallazione nel '74, e amica di Francesco Renda, GiovanniOrofino e Salvatore Enea, tre dei protagonisti del "giallo­Mandalà".

Francesca Calì, madre di un bambino nato dalla relazione conManno, abita in una villetta a Partanna Mondello, dove in unastanza al primo piano la Mandalà viene tenuta prigioniera durantegli otto giorni del sequestro.

Erano stati Renda ed Enea ad imporre la presenza della signoraQuartuccio alla Calì obbligandola a vivere per quei giorni al pianoterra e lasciando disponibili le tre stanzette del primo piano. Sitratta di circostanze confermate da Francesca Calì che sostieneperò di non aver mai visto la prigioniera e di aver intuito cheRenda, Enea e Orofino avevano il ruolo di coordinatori di tutte leoperazioni.

Queste ed altre testimonianze fanno credere ai carabinieri che icarcerieri della Mandalà siano stati nei primi giorni Renda, esuccessivamente Schifaudo, Malfattore, Spaduzza e Mangione.

Arriviamo così alla ricostruzione delle ultime fasi. E' la era del 29luglio. Nella villa di Partanna Mondello, oltre alla Calì, si trovanoSalvatore Enea al piano terra e, a quanto pare, Malfattore eSchifaudo di guardia al primo piano.

Improvvisamente una persona bussa alla porta. Risponde la Calì.Lo sconosciuto in modo autoritario dice che deve consegnare unmessaggio. Poi dice di lasciarlo su uno dei tergicristallidell'automobile di Enea, parcheggiata davanti alla villa. La Calì,appena lo sconosciuto si allontana, esce fuori per prendere ilmessaggio. Lo trova però sul muretto della villa, accanto alcancello. E' un pezzo di carta doppia color zucchero, comequella usata nei negozi di generi alimentari.

Aperto il messaggio, la Calì legge: "Mi trovo in mano ad amici.Liberate subito la donna perché sarà meglio per me e per voi". Lafirma è quella di "Francesco Renda". E non ci sono dubbi che siala sua: qualcuno sulla carta color zucchero ha incollato latessera di identità del Renda, quasi un'autenticazione della firma.

Due le versioni sull'attentato fallito: Accardo doveva morireperché punito da chi lo ritiene autore della soppressione di VitoCordio ovvero doveva essere eliminato perché le sue confidenzeal colonnello Russo avevano consentito la denuncia degli autoridei sequestri Campisi e Corleo.

La risposta all'attentato non si fece attendere. Il 5 aprile, incontrada Ciaccio di Marsala, un "commando" a bordo di un'autodi grossa cilindrata assalì una "131" uccidendo il latitanteSilvestro Messina e ferendo il fratello di Vito Cordio, ErnestoPaolo; si salvarono anche Giuseppe Ferro e Vito Vannutelli.

La paternità dell'agguato viene affibbiata ad Accardo, denunciatoma subito dopo scarcerato.

La serie continua con l'uccisione di Antonino Luppino, proprio ilbenzinaio di Marsala, probabilmente punito per le informazionifornite al gruppo Messina­Ferro­Vannutelli.

Lunghissima la catena di sangue contrassegnata da nomi nonsempre di spicco: Cucchiara, Ingrassia, Piazza, Nicolò Messina,Mario Cordio, Casano. Fino all'assassinio di Vito Vannutelli, fattofuori non appena uscito dal Palazzo di Giustizia di Palermo dopoun rinvio del processo nel quale figurava imputato insieme aGiuseppe Ferro, a Nicolò Messina (ucciso a Mazara il 16 luglio'77) e al latitante Giuseppe Renda.

Vediamo come i carabinieri individuarono le responsabilità diVannutelli, colpito da due ordini di cattura per il sequestro Corleoe per l'attentato a Stefano Accardo e Paolo Lombardino. Loarrestarono per caso insieme a Nicolò Messina e a GiuseppeFerro, anch'essi ricercati per i sequestri Corleo e Campisi.

I militari avevano organizzato in contrada Marchese, al confinetra il territorio di Monreale e quello di Camporeale, una battuta neltentativo di rintracciare gli undici bovini rubati la notte tra il 18 e il19 agosto '76 al pastore Vito Sciortino. Ad un tratto avvistaronodue individui accovacciati e armati in mezzo ad un vigneto, a duepassi da un casolare.

Appena videro le divise, i due fuggirono abbandonando unapistola ed un fucile a canne mozze. I carabinieri non riuscironoad acciuffarli ma li riconobbero: erano Giuseppe Ferro eGiuseppe Renda. Poco dopo sul posto giunse una "126" con abordo Vito Vannutelli e Nicolò Messina. Avevano un fucile acanne mozze, munizioni e due coltelli. Arrestati i due, si riuscì amettere le mani addosso a Giuseppe Ferro, latitante da diversotempo. A Vannutelli fu notificato un ordine di cattura perl'attentato ad Accardo e Lombardino e presentata unanotificazione giudiziaria per il sequestro Campisi.

Per le armi di cui furono trovati in possesso al momentodell'arresto, Vito Vannutelli, Nicolò Messina e Giuseppe Rendafurono rinviati a giudizio i primo febbraio 1977 dal giudiceistruttore Mario Fratantonio. Ferro, fu poi condannato a due annie sei mesi di reclusione, Vannutelli a due anni e Messina a unmese di arresto per favoreggiamento. Quest'ultimo, ritornato aMazara, sarà ucciso il 16 luglio '77, quattro giorni dopo la suascarcerazione.

E' l'ottavo omicidio della "catena". Contrastanti le tesi sulmovente. Si è ventilata l'ipotesi di un seguito nella guerrafratricida in seno alla stessa cosca dei sequestri per la mancatadivisione dei settecento milioni del riscatto Campisi.Effettivamente ci furono difficoltà per il riciclaggio del denaro a

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Ciò che avviene da quel momento nella villa i carabinieri loapprendono dalle dichiarazioni di Rachela Finocchio, amica difamiglia dei Reina, titolare del negozio di Borgo Nuovo dove –con tutta probabilità – Francesco Renda acquistava i viveri per laMandalà.

La Finocchio ha raccontato di avere incontrato occasionalmenteVito Mangione, che terribilmente scosso e preoccupato le hafatto delle confidenze ritenendo in pericolo la sua vita.

Un racconto drammatico, dalla notte del rapimento della Mandalàfino alla notte della sua liberazione.

Secondo questa ricostruzione, la moglie dell'ex costruttore èstata condotta direttamente da San Martino delle Scale nella villadi Partanna Mondello. Quella sera la Calì era stata invitata dagliamici del suo ex amante Manno a non farsi trovare a casa. LaMandalà fu così rinchiusa in una stanza al primo piano mentre isuoi custodi alloggiavano in una stanza attigua.

Il Mangione raccontò alla Finocchio della visita ricevuta la seradel 29 luglio dello sconosciuto e del messaggio.

Un messaggio che turbò profondamente Enea il cui sgomento siaccentuò quando – dopo qualche ora – lo sconosciuto ritornòvicino alla villa gridando: "Ma, non vi siete ancora decisi? Locapite che dovete liberare la donna".

Sembra che lo sconosciuto abbia anche raccomandato che icarcerieri avrebbero dovuto consegnare la prigioniera ad un suoparente; lo avrebbero trovato fermo a piazza Leoni, quasiall'ingresso della Favorita verso le 23,30.

Questa seconda "visita" disorienta i rapitori. Non sanno che fare.Decidono quindi di chiamare a raccolta tutto il clan. Nel giro dipoco tempo si svolge una riunione, ma all'appello manca proprioFrancesco Renda, il firmatario del messaggio. Si preoccupano epensano che Renda possa essere caduto prigioniero nelle manidella mafia ed abbia rivelato il nascondiglio della Mandalà e inomi dei complici.

Il "clan" decide di eseguire i consigli contenuti nel messaggio diRenda. Viene rubata una "128", si invita la Calì ad allontanarsidalla sua abitazione ma non vengono eseguiti in tutto e per tutto iconsigli dello sconosciuto. I carcerieri, infatti, temono di cadereanch'essi in un tranello. Invece di abbandonare l'auto con laMandalà in piazza Leoni, si fermano in piazza Don Bosco.

Dirà poi Mangione a Rachela Finocchio: "Subito dopo ci riunimmonella villa di Partanna Mondello. Eravamo preoccupati perché nonavevamo più notizie di Francesco Renda. Tutti temevamo per lanostra pelle. Pensammo che della liberazione della Mandalà sifosse interessata la mafia: qualcuno di noi pensò alla mafia diPartanna Mondello. Il capomafia locale chissà forse si erarisentito perché non informato di un sequestro che si svolgevanella sua zona. Alla fine, preoccupatissimi, telefonammo aMonreale a Elio Ganci. Lo informammo di quanto era successo eGanci ci disse che se il giorno dopo non avessimo saputo nullasu Renda ci saremmo dovuti recare a Monreale per discuternecon lui".

Secondo il racconto di Mangione alla Finocchio il gruppo in effettila sera dopo, il 30 luglio, andò a Monreale. C'era una gran folladavanti alla gioielleria di via della Repubblica: Elio Ganci damezz'ora era stato "giustiziato".

causa delle traversie giudiziarie delle persone che avevano isoldi.

Non manca chi sostiene che Nicolò Messina fu fatto fuori da unclan avverso e vicino a Stefano Accardo.

Né si può trascurare l'ipotesi che Nicolò Messina e, dopo, VitoVannutelli siano stati eliminati perché ritenuti responsabilidell'identificazione di Giuseppe Ferro e di Giuseppe Renda inoccasione del loro arresto in contrada Marchese a Monreale. Unadelazione che avrebbe consentito ai carabinieri di individuaresubito il nascondiglio di Ferro, arrestato mentre Giuseppe Renda,per la seconda volta, riusciva a sottrarsi alla cattura.

Una tesi non trascurabile quest'ultima. Di rilievo un particolare:quando il 5 luglio 1977 cominciò il processo per le armi trovateglial momento dell'arresto, Ferro non si presentò in aula per nonincontrarsi con Vannutelli e Silvestro Messina, anch'essidetenuti.

Comparve in aula, invece, nel gennaio 1978 insieme alcompaesano Giuseppe Filippi in occasione del processo per ilsequestro Campisi. Notata, infine, la sua assenza dall'aula il 7marzo 1978, in occasione del processo di secondo grado per cuiera stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Anchequesta volta avrebbe così evitato di incontrare sul banco degliimputati Vito Vannutelli.

Alcuni particolari meritano attenzione. Nicolò Messina venneucciso subito dopo la sua scarcerazione. Vito Vannutelli,scarcerato per decorrenza di termini nel febbraio 1978, fu inviatoal soggiorno obbligato a Favignana, dove i killer non avrebberopotuto raggiungerlo per le difficoltà che avrebbero incontrato almomento della fuga dall'isola.

Vannutelli è stato quindi atteso ad un varco ??? gato. Chi hadecretato la sua morte sapeva che sarebbe venuto a Palermo peril processo di secondo grado. All'andata Vannutelli avrà colto allasprovvista i killer raggiungendo Palermo con la "Ford Capri" diun'amica, Concetta Patti. I killer lo hanno atteso all'uscita dalPalazzo di Giustizia. Vannutelli, alla guida della "Ford Capri" incompagnia della Patti e della sua amante Rosalia Signorello,appena fuori dal tribunale si diretto verso il Teatro Massimo. Ed èlì che gli assassini, a bordo di una "127" celestina, affiancaronol'auto. Con rara precisione spararono a lupara contro Vannutellisenza colpire le due donne. La "Ford Capri" rimasta senza guidae piombata sul marciapiede, schiacciò contro la cancellata unastudentessa ribaltando poi sul giardinetto del Teatro. La sentenzaera compiuta.

Con il delitto Vannutelli siamo giunti al marzo '78, ma di un vero eproprio giallo non abbiamo ancora parlato: quello del sequestro diGraziella Mandalà, avvenuto il 21 luglio 1976. Un sequestroclamoroso perché si tratta della moglie dell'ex costruttore diMonreale Giuseppe Quartuccio. Un sequestro atipico perché maiprima di allora la mafia aveva rapito in Sicilia una donna a scopodi estorsione.

Le date acquistano rilievo. Siamo nel luglio del '76. Un annoprima sono stati sequestrati Corleo e Campisi, vicendesuccessive al sequestro di Franco Madonna, nipote di unpersonaggio "intoccabile" eppure colpito. I gregari, come si disse,alzavano la testa. La "nuova mafia" squinternava così un sistemabasato su equilibri raggiunti dopo anni di lotte interne.

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Il gruppo, ancor più disorientato, tornò frettolosamente aPalermo. Una volta uccisi Renda e Ganci, dissero in macchina,la mafia poteva ritenersi appagata in quanto loro avevano trattatobene la Mandalà e, obbedendo agli ordini ricevuti, l'avevanorilasciata appena ricevuto il messaggio di Renda. Decisero quindidi separarsi.

DIETRO MANDALÀ OTTO NOMI,OTTO DELITTI

6 maggio 1979

Dietro Mandalà otto nomi, otto delitti

La notizia del sequestro di Graziella Mandalà viene pubblicata dalGiornale di Sicilia la mattina del 21 luglio 1976. Un sequestro chefa sensazione. Atipico: mai prima di allora la mafia aveva rapitoin Sicilia, a scopo di estorsione, una donna. E per di più si trattadella moglie dell'ex costruttore di Monreale Giuseppe Quartuccio,ex socio di don Peppino Garda, il possidente al quale rapirono ilnipote Franco Madonia.

Questi i fatti: è da poco trascorsa la mezzanotte del 20 luglio.Cinque banditi armati di mitra e di pistola bussano al villino di viaSan Martino delle Scale, residenza estiva della famigliaQuartuccio. L'ex costruttore sta per mettersi a letto, apre la portae si ritrova di fronte un giovane che gli dice: "L'Opel di suocognato si è scontrata con un'altra macchina. Corra all'ospedale".

Quartuccio si precipita verso la camera da letto per informare lamoglie sofferente di cuore, e i cinque malviventi piombanodentro. Con il calcio di un mitra colpiscono al capo Quartuccio, lolegano mani e piedi e gli tappano la bocca con una striscia dicarta adesiva. Mentre un bandito tiene a bada l'ex costruttore, glialtri prendono di peso la Mandalà e la portano fuori per stradadove c'è un'auto con un complice alla guida. Quindi la fuga con la"124" rossa, una scena alla quale assiste un villeggiante di SanMartino che abita vicino.

Il clamoroso sequestro viene indagato dalla polizia e daicarabinieri nello scenario di cronaca nera, che in quel periodosconvolge il Palermitano: fatti allora ancora oscuri.

In particolare, i carabinieri collegano il rapimento della Mandalàcon il sequestro dell'enologo Franco Madonna, rapito aRoccamena l'8 settembre 1974, per i rapporti avuti in passato traGarda e Quartuccio, presidente e amministratore rispettivamentedella disciolta società edilizia "Conca d'Oro".

Insomma, un altro colpo della "nuova mafia" che tenta di far soldie, contemporaneamente, di umiliare esponenti rappresentatividella vecchia guardia.

Non mancano le tesi alternative. Fra le altre, quella secondo cui ilsequestro colpisce direttamente Quartuccio, ritenuto – non si saancora se a torto o a ragione – il cassiere dell'"Anonimasequestri" e, come tale, responsabile di qualche torto. E' una tesiavallata dalla circostanza che i fratelli della seconda moglie diQuartuccio, tra i quali Pietro Mandalà, sono in odore di mafia,anche se ufficialmente impegnati nella gestione di una avviata

QUEL FILO CHE COLLEGA QUEITRE SEQUESTRI

15 aprile 1979

Quel filo che collega quei tre sequestri

La legge con cui sono stati espropriati gli 820 ettari di terreno perla costruzione della gigantesca diga "Garcia" ha previsto unaspesa di 17 miliardi da dividere tra i proprietari che quelle terre,pochissimi anni prima, avevano acquistato complessivamenteper meno di due miliardi.

Ogni ettaro di terreno coltivato a vigneto è stato pagato 13milioni. Cifra raddoppiata nel caso che il proprietario fosseiscritto nell'elenco dei coltivatori diretti. Altri benefici sono statiprevisti per mezzadri, coloni, affittuari, compartecipi edusufruttuari.

La legge, nota con il numero "865", ha così consentito ai grossiproprietari tra i quali spicca don Peppino Garda di creare, almomento giusto, rapporti con la Coldiretti o con terzi perprivilegiare larghe fasce di familiari, parenti, amici o fedelisubalterni.

Garda, tanto per fare un esempio, ha ceduto "al momento giusto"la sua terra alla moglie Vita Ganci e ai figli Baldassare, Anna,Maria, Ursula e Gaetana, conservandone l'usufrutto. Aveva poicreato rapporti di mezzadria o di affittuariato con i generi PietroMadonna e Baldassare Miceli. E, grazie a questi rapporti, unaprima estensione di 33 ettari gli è stata pagata un miliardo 68milioni e 960 mila lire: circa 33 milioni e 600 mila lire ad ettaro.

Un altro esempio: Michele Fundarò, coltivatore diretto, hapercepito un miliardo e 58 milioni per l'esproprio di 30 ettari. Unaltro ancora: i coniugi Antonino Vaccaro e Rosa Perrillo, entrambiiscritti nell'elenco dei coltivatori diretti, hanno incassato 99 milionie 209 mila lire per due ettari e 96 are. Ed inoltre: GiuseppeSerradifalco di Roccamena ha percepito 145 milioni per quattroettari e 56 are.

Il progetto della diga Garcia, redatto nella sua stesura definitivanel dicembre 1972, venne approvato il 18 settembre 1974, ottogiorni dopo il sequestro di Franco Madonna, enologo, nipote diGiuseppe Garda. Agli osservatori e agli inquirenti è sembrato chela "mafia nuovo corso" abbia voluto colpire Garda sotto il profiloaffettivo infierendo con crudeltà sui sentimenti di un vecchiobaluardo della tradizionale mafia di Monreale.

Al vecchio patriarca, durante i sette mesi di prigionia del nipote,sono giunte offerte da ogni parte d'Italia per i suoi terreni diGarcia e Roccamena. Per rendersene conto basta dareun'occhiata al volume di circa 80 pagine in cui sono tradotte le

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pizzeria in piazza Duomo a Monreale.

Gli uomini che seguono le indagini sin dalle prime battute (fra glialtri, il questore Domenico Migliorini, il capo della squadra mobileBruno Contrada e il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo)pensano subito ad un sequestro per vendetta senza, però,riuscire a chiarire di che tipo di vendetta si tratti.

Giuseppe Quartuccio riceve la prima telefonata dei banditi tregiorni dopo il rapimento alle 13: "Quartuccio, prepara un miliardoe mezzo se vuoi viva tua moglie", gli dice una voce coninflessione dialettale interrompendo subito la comunicazione.

Da quel giorno i rapitori si fanno vivi con qualche telefonataall'avvocato Giuseppe Candido, amico di Quartuccio. Non sisaprà mai chi ha segnalato loro questo nominativo. Quartuccioritiene che sia stata la moglie: ma la Mandalà, dopo laliberazione, sosterrà di non essere stata lei.

L'ex costruttore riceve anch'egli un paio di telefonate a casa, ma,ogni volta, non gli lasciano il tempo di rispondere.

Mi dice in quei giorni Quartuccio: "Non riesco mai a dire unaparola perché non me ne danno il tempo. Tramite l'avvocatoCandido ho così fatto sapere ai banditi che tutte le mie proprietàpossono valere 200 milioni".

Una somma che non basta ai rapitori. Altra telefonata: "Dunque,Quartuccio – dice la voce con tono sarcastico – lo dobbiamo farequesto concordato?".

Terza ed ultima telefonata all'ex costruttore, fatta fra il 26 ed il 27luglio: "Quartuccio, la signora sta male, dovete sbrigarvi se citenete a volerla viva".

Ma, attraverso l'avvocato Candido, Quartuccio comunica aibanditi che può subito approntare soltanto 15 milioni. "Allora – èla risposta – Quartuccio non ci tiene ad avere sua moglie viva".E' l'ultimo contatto con i banditi.

Colpo di scena il 29 luglio alle 23,30. Un funzionario di banca haappena parcheggiato la sua auto in piazza Don Bosco, sta perrientrare a casa quando una donna barcollando gli viene incontro.Pensa che si tratta di una ubriaca ma lei si presenta: "SonoGraziella Mandalà per favore mi aiuti". Pochi minuti dopo arrivaun parente della signora e viene avvertito il marito a Monreale.

I banditi abbandonano la donna su una 128 blu, accostata ad unmarciapiedi di piazza Don Bosco. Le dicono di non muoversi e,per precauzione, prima di lasciarla, le coprono gli occhi con deicerotti.

A piazza Don Bosco arrivano immediatamente decine e decine digazzelle e volanti con carabinieri e funzionari di polizia ai qualiQuartuccio dichiara di non avere sborsato una lira per il rilascio.Inizia così il giallo del dopo­sequestro.

Poco dopo la liberazione della signora Mandalà un anonimotelefona al giornale "L'Ora": dice che alla circonvallazione, dietroil palazzo dell'Ente minerario siciliano, c'è un "pacco" con uncadavere. La polizia compie una perlustrazione nella zona ma del"pacco" non si trova traccia. Dall'interrogatorio della Mandalàfrattanto saltano fuori vistose contraddizioni che tingono ancorpiù di giallo le fasi del rilascio della donna.

Sono trascorse dodici ore dal rilascio. Siamo in casa Quartuccio,in via Marsala a Monreale. E' piena di amici che si congratulano

intercettazioni telefoniche dei carabinieri durante il periodo delsequestro. Offerte giunte dall'Immobiliare Venezia, da possidentidel Lazio, di Bologna, Napoli, Monreale, Bisacquino e SanGiuseppe Jato. Ma Giuseppe Garda tenne duro, non vendendouna sola striscia di terra e cedendo soltanto il cocuzzolo di unamontagnola (terra gessosa e non trasformabile) che nonrientrava nel piano espropriativo.

Con i banditi Garda raggiunse un accordo per pagare il riscatto intre rate. Il denaro gli veniva ogni volta preparato dalla Cassacentrale di risparmio: 120 milioni pagati il 4 marzo 1975, poi 150milioni e, infine, il 13 aprile 1973, 730 milioni per un totale di unmiliardo di lire.

L'ultima rata, quella di 730 milioni, fu consegnata ai banditi daPietro Madonna e da Baldassare Miceli, partiti in auto dalla loroabitazione di Monreale alle 22 del 13 aprile e rincasati alle 2,35del giorno dopo.

I carabinieri accertarono che lunedì 14 aprile il gioielliere MarioMartello non aveva messo piede nella sua oreficeria. La sua autofu però vista transitare verso le 15,20 da corso Calatafimi. Lamattina di martedì (15 aprile) Franco Madonna fu rilasciato daibanditi. Martello tornò a casa alle 8,15 di martedì con le ruotedella sua macchina infangate.

Fermato dai carabinieri, non seppe fornire spiegazioni per la suaassenza dalla sera del 13 aprile, alla mattina del 15. Fu arrestatoil 18 aprile, imputato di concorso in sequestro, e condannato neldicembre 1977 a 15 anni di reclusione. Non ha mai parlato e nonsono stati identificati i suoi complici.

Prima della liberazione di Madonna, in contrada Gamberi diRoccamena era stato ucciso il sindacalista Salvatore Monreale.Non si è riusciti a dare un perché a questa "esecuzione", né ildelitto può essere collegato con certezza al sequestro. Alcontrario, la lunga catena di sangue che si sviluppa dopo ilrilascio suggerisce una relazione con il "caso Madonia".

Di cinque omicidi abbiamo già parlato nella scorsa puntata.Ricordiamo rapidamente i nomi delle vittime: 27 gennaio 1975,Angelo Genovese e il suo dipendente Michele Ferrara aGiardinello; 17 dicembre 1975, Remo Corrao a Monreale; gennaio1976, Aloisio Costa a Sancipirello; 11 aprile 1976, EnzoGiuseppe Caravà a Sancipirello.

Cinque omicidi tutti ad opera di "ignoti", come ignoti sono rimastii complici di Mario Martello, l'unico condannato per il sequestroMadonna e contro il quale i Garda­Madonia, durante ildibattimento, non si sono costituiti parte civile.

Per avere una visione complessiva dell'attività della "nuovamafia" nella rottura dei vecchi equilibri realizzati dalla mafiatradizionale, oltre al sequestro Madonna, bisogna esaminarequelli del professor Nicola Campisi e dell'esattore Luigi Corleo.

La mattina del primo luglio 1975, verso le 10,20 il professorCampiri, docente di criminologia all'università di Palermo, erauscito dall'abitazione paterna di Sciacca, diretto nella cartiera diMenfi, amministrata dalla società ISCA, e di cui il padre era ilmaggiore azionista. La cartiera è sulla strada statale 115 a circasette chilometri da Menfi.

Il padre a mezzogiorno, non vedendolo arrivare, telefonò a casaapprendendo così che il figlio era partito da un'ora e mezzo. Si

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per la felice conclusione della vicenda. Dall'orologio del Duomo sisentono rimbombare dodici rintocchi. Quartuccio dà un'occhiataal suo orologio, lascia la moglie sofferente a letto ed esce.

Mezz'ora dopo alcune persone lo vedono dirigersi verso la piazzadove si trova l'oreficeria di Elio Ganci. L'ex costruttore passadavanti al negozio, si ferma col pretesto di guardare un amicoche passa da lì. I carabinieri diranno poi che voleva farsi notareda Ganci. E ci riesce. Il gioielliere esce fuori e si avvicina aQuartuccio, si complimenta per la liberazione della moglie.Alcune persone assistono alla scena. Quartuccio e Ganci siabbracciano e si baciano. I carabinieri diranno che il marito dellaMandalà si era voluto "godere" l'imbarazzo della "sua vittima",Ganci, che ritiene implicato nel sequestro della moglie.

Non esiste un pronunciamento della magistratura, ma certecoincidenze lasciano perplessi. Pochi minuti dopo cheQuartuccio ha abbracciato e baciato Ganci, una 128 (del tuttoidentica a quella utilizzata dai rapitori della Mandalà per liberarlaa piazza Don Bosco) procede lentamente per via Repubblica.Elio Ganci è soprappensiero davanti al suo negozio. Ad un trattodalla macchina schizzano fuori due killer armati di calibro 38 elupara. Una raffica di colpi e, per il gioielliere, è la fine. Senzariuscire a dare una risposta i carabinieri si chiederanno:"Quartuccio ha assistito all'esecuzione?".

"Esecuzione" avvenuta mentre il sostituto procuratore dellaRepubblica Domenico Signorino, sulla circonvallazione si trovadavanti al cadavere di uno sconosciuto scoperto in seguito aduna segnalazione anonima, più precisa di quella giunta al giornale"L'Ora". Il "pacco" è appoggiato ad un montante di tufo davanti alcancelletto di via Collegio Romano, una piccola traversa dellacirconvallazione, quasi all'altezza di un grande magazzino, ilSigros.

Il giorno dopo, il 31 luglio, all'istituto di medicina legale, ilcadavere viene riconosciuto da una donna di Borgo Nuovo perquello del marito, Francesco Renda. Il medico legale, AlfonsoVerde, fa risalire la morte a circa 20 ore prima del ritrovamento equindi a pochissime ore prima del rilascio di Graziella Mandalà.

Il corpo senza vita viene ritrovato legato mani e piedi dietro laschiena.

Renda, 41 anni, abitante in via Assoro 2 a Borgo Nuovo, sposatocon Angela Rizzato, padre di due bambine, era una vecchiaconoscenza di polizia e carabinieri. Il 30 gennaio 1976 fra l'altroera stato bloccato su una Mercedes nuova di zecca insieme aSalvatore Enea, 39 anni, anch'egli di Borgo Nuovo, e di GiovanniOrofino, fratello di Michele, imputato di omicidio. Inquell'occasione in casa Orofino furono sequestrate delle armi.

I delitti Renda e Ganci vengono subito collegati da carabinieri epolizia, che non ne fanno un mistero, al sequestro Mandalà.Comincia, infatti, a farsi strada l'ipotesi di omicidi commissionatiaddirittura da Quartuccio e dal cognato, Pietro Mandalà, pervendicare l'affronto. In casa Quartuccio viene effettuata unaperquisizione e i carabinieri sequestrano 15 milioni, in contanti,probabilmente il denaro che l'ex costruttore avrebbe voluto offrireai banditi come acconto.

Mentre si tenta di far luce sui punti oscuri che trasformano in unvero e proprio giallo il rilascio della Mandalà, ecco altri dueomicidi. La catena di sangue si allunga.

ipotizzò subito il sequestro di persona a scopo di estorsione. Laconferma si ebbe il giorno dopo, quando il camionista GregorioVerderame di 29 anni di Sciacca, avendo letto la notizia dellascomparsa di Campisi sul "Giornale di Sicilia", rivelò aicarabinieri di essere stato inconsapevole testimone delsequestro.

Raccontò che, verso le 10,30 di quella mattina, percorrendo incamion la "113" in direzione Sciacca – Menfi, in contrada Calì,nei pressi di Quisisana, aveva notato una Mini­minor chiaratargata Palermo ferma sul ciglio della strada. Vicino all'utilitariac'erano altre due macchine, una Fiat 124 color sabbia e una A­112 di colore celestino. Pensando che ci fosse stato un incidentestradale, si fermò per chiedere se qualcuno avesse bisogno diaiuto. Ma in quel momento la 124 e la A­112 ripartirono a granvelocità. Verderame ebbe l'impressione che una delle due autoavesse preso a bordo il ferito della Mini­minor.

La "124" fu poi trovata abbandonata a pochi chilometri da Menfi.Sui sedili c'erano dei batuffoli di cotone imbevuti di ???. Nessundubbio quindi che il professor Campisi era stato sequestrato ascopo di estorsione. E pochi giorni dopo giunsero all'avvocatoRemo Campisi le prime richieste anonime: i banditi volevano unmiliardo.

Verderame, interrogato a lungo, in una foto segnaletica notò unacerta somiglianza tra un pregiudicato e l'autista di una delle duemacchine fuggite a tutta velocità quella mattina. Si trattava di unautotrasportatore residente a Modena, Antonino Pollina, 44 anni,denunciato nel luglio 1968 per omicidio e associazione adelinquere ma prosciolto, per insufficienza di prove, il 5 gennaio1969 al termine dell'istruttoria.

Mentre erano in corso le indagini sul rapimento del professorCampisi, da Salemi giunse notizia di un altro sequestro, quellodel big delle esattorie Luigi Corleo, 71 anni, abitante nel PalazzoFilaccia di via Matteotti a Salemi.

Era stato rapito verso le 13,55 del 17 luglio 1975, mentre sitrovava in una sua villa di contrada Gargazzo, vicino a Salemi.

Si trattava di un sequestro clamoroso, conosciuto come eraCorleo, suocero di Nino Salvo, titolare di una società che ha inappalto uffici esattoriali a Salemi, Marsala ed altre cittadine deltrapanese.

Vecchio amico di Francesco Cambria, big delle esattorie diPalermo, Messina e Catania, Corleo era riuscito a determinareuno stretto collegamento tra Giuseppe Cambria, il figlio di "donFrancesco", con suo genero Nino Salvo. Un duo che, facendoleva sull'esperienza di Francesco Cambria, oriundo di Floresta(Messina) e di Luigi Corleo ha dato vita a Palermo alla SATRIS,l'esattoria che introita i tributi dovuti dai cittadini al Comune.

La tradizione del gruppo Cambria – Corleo – Salvo nella gestionedelle esattorie comunali è trentennale. Venne alla ribalta dellacronaca soprattutto tra il 1958 e il 1961, quando Silvio Milazzo,deputato regionale della circoscrizione di Caltagirone e giàassessore regionale all'Agricoltura e alle Foreste, lasciòclamorosamente la Democrazia cristiana determinando unagrossa frattura all'interno del suo partito e fondando l'Unioneseparatista cattolici siciliani (USCS).

Presidente dell'USCS, protetto dall'esterno dal PCI, Milazzo perl'imponente numero di voti riportato nelle elezioni del 1957,

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E' il dieci agosto 1976. Nicolò Malfattore e Vincenzo Schifando,23 anni il primo, 22 il secondo, entrambi sorvegliati speciali, pocoprima delle 17 sono in un circolo ricreativo nei pressi di piazzaScaffa. Qualcuno si avvicina e dice loro di essere attesi al barvicino. Appena fuori, a due passi da piazza Scaffa, da una 128rossa scendono due killer armati di calibro 38 e fucile a cannemozze. La "sentenza" viene eseguita con facilità: Malfattoremuore subito, Schifano viene inutilmente trasportato all'ospedaledove arriva senza vita.

Gli inquirenti navigano nel buio. Per altri 23 giorni non accadenulla. Colpo di scena il 2 settembre: alle 5,15 un gruppo di killersorprende Salvatore e Filippo Ganci, 56 anni il primo, 50 ilsecondo, fratelli del gioielliere Elio, assassinato 33 giorni prima aMonreale. L'agguato viene teso proprio davanti allo stand deiGanci al mercato ortofrutticolo di Palermo mentre i due fratelli,insieme ad alcuni dipendenti, scaricano meloni da un camion.

Non è difficile abbatterli perché i killer giocano sulla sorpresa. Unaltro loro fratello, Vincenzo, 52 anni, titolare dello stand, riesce asalvare la pelle perché al riparo, dentro lo stand.

Non si registrava un delitto all'"ortofrutta" da 18 anni: dal 1958,quando venne ucciso a raffiche di lupara Gaetano Galatolo, "zuTanu Alati", il "re" della zona Acquasanta­Montalbo: da quelgiorno prese il suo posto Michele Cavataio, uno dei quattroassassinati negli uffici Moncada di via Lazio il 10 dicembre 1969.

Anche il duplice omicidio dell'"ortofrutta" viene inquadratonell'ambito delle vendette seguite al sequestro e al rilascio diGraziella Mandalà. Strenuo assertore di questa tesi è proprio ilcolonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.

Il contadino Calogero Mannino, conduttore di un fondo a "Pianodell'Occhio", tra Montelepre e Torretta, di proprietà di LucreziaPrestigiacomo, residente in America, mentre ara il suo terrenocoltivato ad uliveto si accorge che la pala del trattore rimaneimpigliata in un sacco. E' una scena macabra. Dentro una bucalarga circa 60 centimetri e profonda 80 c'è un cadavere avvolto ametà dentro un sacco. Il corpo, con le braccia e le gambe legatedietro il tronco con una fettuccia di canapa, era stato infilato nelsacco dalla testa fino all'addome.

Il riconoscimento, all'istituto di medicina legale, è facilitato da duetatuaggi: una farfalla ed una sirena. E' proprio Stefano Diaconia,42 anni, scomparso un paio di giorni prima. La conferma la dà lamoglie, Maria Sarchina, abitante in via Re Federico.

La cronaca si era occupata di Diaconia il 23 aprile 1963 quandodavanti alla sua pescheria di via Empedocle Restivo, un gruppodi kille sparò delle raffiche di mitra contro il boss Angelo LaBarbera, in quel momento fermo sul marciapiedi a parlare con lui.La Barbera non fu colpito, invece Diaconia e due suoi dipendentirimasero feriti. Un attentato che fece storia perché segnò la finedi La Barbera, costretto a fuggire prima a Roma e poi a Milano.Gli assassini continuarono a cercarlo e tentarono di ucciderloproprio a Milano in viale Regina Giovanna. Ma La Barbera se lacavò con qualche ferita.

Giaconia, dal canto suo, dopo l'agguato di via EmpedocleRestivo, finì all'Ucciardone dove rimase fino al famoso processodi Catanzaro, quello contro le cosche mafiose del Palermitano.

Il 22 settembre 1976, giorno della sua scomparsa, StefanoGiaconia, al soggiorno obbligato nel comune di Lanciano, si trova

divenne presidente della Regione formando una maggioranzaeterogenea, battezzata col nome di "milazzismo".

In quel tormentato periodo della vita politica siciliana, il gruppoCambria­Corleo, già economicamente potente, appoggiòincondizionatamente la DC e il segretario regionale del tempo,Giuseppe D'Angelo, per scalzare l'USCS e riportare idemocristiani al governo.

Una lotta dura protrattasi per tre anni, durante i quali Milazzoriuscì a governare con l'appoggio esterno delle sinistre e con lapartecipazione, nella giunta regionale da lui presieduta, dideputati missini e monarchici.

Fu appunto il gruppo Cambria – Corleo – Salvo, con quartiergenerale all'Hotel des Palmes di Palermo, a provocare l'esododall'USCS del barone catanese Benedetto Majorana e il crollodefinitivo dell'USCS di Silvio Milazzo nei primi mesi del 1961.

Milazzo cadde indecorosamente e alla presidenza della Regionelo sostituì, per oltre un anno, Majorana della Nicchiara,presidente di una giunta provvisoria composta pure dademocristiani.

Il gruppo degli esattori acquisì quindi notevoli benemerenzeall'interno della DC, sostenuta economicamente nelle elezioniregionali del 1962 che segnarono il definitivo tracollo di Milazzo.Non è un caso se, proprio in quegli anni, il gruppo consolidò lasua posizione economica nell'isola ottenendo la gestione dimoltissime esattorie comunali siciliane.

Quando fu sequestrato, Luigi Corleo aveva già passato la manoal genero Nino Salvo. E la stessa cosa aveva fatto FrancescoCambria con il figlio Giuseppe. L'esperienza dei due "giovani"d'altronde era ormai ventennale avendo partecipato allasolidificazione di un impero economico indubbiamente costruitocol benestare della vecchia mafia del Trapanese e delPalermitano, quelle – per intenderci – rappresentate dai Rimi diAlcamo, dai Bua di Marsala, da Giuseppe Garda, ma anche dallevecchie leve della Democrazia cristiana.

Come il sequestro di Franco Madonna aveva colpito la potenzaeconomicamente di Giuseppe Garda e dei suoi "amici" persconvolgere l'equilibrio realizzato nel Monrealese dalla mafiatradizionale, così il sequestro di Luigi Corleo è stato interpretatocome un atto di ribellione della nuova mafia ad un imperoeconomico basato su vecchi equilibri. Si voleva quindisconvolgere la zona della Valle del Belice dove la mafiatradizionale e i vecchi imperi economici da essa sostenutiavevano il controllo sui lavori di ricostruzione dei paesi colpiti dalterremoto del gennaio 1968.

In questo ambiente, in fermento dal primo luglio del 1975, ilgiorno del sequestro di Luigi Corleo, era piombato il colonnelloGiuseppe Russo che sarà poi ucciso dalla mafia il 20 agosto1977 a Ficuzza. Russo conosceva benissimo l'ambiente. Erastato tenente della compagnia di Alcamo dal gennaio al dicembre1956 e, con lo stesso grado, a Castelvetrano dal gennaio 1957all'ottobre 1958. Poi, fino al marzo 1962, aveva coordinato lesquadriglie formate per la vigilanza delle campagne per prevenireabigeati e catturare latitanti.

All'epoca dei sequestri Campisi e Corleo, Russo comandava ilnucleo investigativo di Palermo, incarico affidatogli l'8 gennaio1969 e mantenuto fino al 15 ottobre 1976, giorno in cui passò alla

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Redazione: Giulio Francese, Massimo Francese, Silvia Francese,Nino Pillitteri

a Palermo essendo riuscito ad ottenere un permesso. Riuscivaad ottenerli spesso. Proprio il 22 scade la sua "vacanza" infamiglia. Di buon mattino esce da casa per andare alla stazione,poi nessuno ne ha notizia. Dopo quattro giorni il suo cadavereviene trovato in quel sacco sepolto dalla terra in una buca di"Piano dell'Occhio".

I carabinieri effettuano dei sondaggi nei pressi della "fossa" doveera stato seppellito Giaconia, trovano a qualche metro didistanza un altro cadavere in avanzato stato di decomposizione.

Per gli ufficiali dei carabinieri, alla medicina legale, non ci sonodubbi: si tratta del pregiudicato Salvatore Spaduzza, latitante dadue anni; lo riconoscono perché ha un dente fratturato edannerito. Ma, prima ancora di vedere il cadavere, quella stessasera, i familiari di Spaduzza sostengono che non può trattarsi dilui. Il giorno dopo genitori, fratelli, parenti ed amici della vittimavanno tutti all'istituto di medicina legale del Policlinico. Pur traditida una certa emozione, dicono tutti di non riconoscere SalvatoreSpaduzza in quel cadavere.

I carabinieri pensano che soprattutto i genitori di Spaduzzaabbiano così tentato di evitare ulteriori danni alla loro famiglia eagli altri fratelli della vitima.

Per i rapporti di amicizia tra Spaduzza, Francesco Renda (ilprimo morto della catena), Salvatore Enea e le due vittime dipiazza Scaffa, Nicolò Malfattore e Vincenzo Schifando, icarabinieri collegano anche le due ultime vittime col sequestrodella Mandalà.

Renda, i tre fratelli Ganci, Schifando, Malfattore, Spaduzza,Giaconia: otto nomi, otto delitti. Il giallo si infittisce. Le ipotesi diun collegamento al sequestro della moglie di GiuseppeQuartuccio si concretizzano. Ma l'inchiesta riserva dellesorprese.

Legione dei carabinieri, prima di chiedere un periodo diconvalescenza a causa di una sciatalgia bilaterale, otite ebronchite cronica, malattie acquisite in vent'anni di carrieradurnate i quali gli furono riconosciuti 16 encomi solenni.

Russo mise in moto il suo apparato investigativo.

Il punto di partenza era la richiesta di un riscatto di 20 miliardipervenuta al genero di Luigi Corleo, Nino Salvo. L'esattore chieseperò la garanzia che il suocero fosse in vita e i banditi non sifecero più sentire. Da allora di Corleo non se ne è saputo piùniente. E' morto nelle mani dei suoi carcerieri per malattia dopopochi giorni dal rapimento? Ovvero, è morto di inediaabbandonato nella sua cella? Un mistero. Nessuno potrà mai direse Corleo fu subito ucciso appena si misero in moto gli amici deiSalvo e gli uomini di polizia e carabinieri.

Una domanda però è d'obbligo: perché i Salvo chiesero garanzieper essere certi che Luigi Corleo non fosse morto?

L'esattore soffriva effettivamente di gravi disturbi renali ma nasceil sospetto che i suoi congiunti siano stato subito informati,chissà attraverso quali canali, della fine del big delle esattorie.

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