Don Ernest Simoni - estratto libro - di Mimmo Muolo

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Dal lavori forzati del regime comunista albanese all’abbraccio con Papa Francesco, una storia di persecuzioni e di umiliazioni che non hanno fiaccato lo spirito sacerdotale di don Simoni e ne fanno un esempio di perdono e misericordia . http://www.paoline.it/blog/testimoni/1011-don-ernest-simoni.html

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Mimmo Muolo

DON ERNEST SIMONIDai lavori forzati

all’incontro con Francesco

Prefazione diAngelo MAssAfrA

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INTRODUZIONE

Quando il Papa lo ha abbracciato, e quando ha pianto di fronte a lui e a mille persone, nella cattedrale di Tirana, senza contare tutti quelli che seguivano la scena attraver-so i media, chissà a cosa avrà pensato, don Ernest Simoni. Chissà quale dei suoi 11.107 giorni di prigionia e lavori forzati gli sarà venuto in mente per primo. Se quello dell’arresto, la notte di Natale del 1963, o quello in cui sta-va per morire, con due braccialetti di ferro così stretti at-torno ai polsi da bloccargli la circolazione del sangue. Op-pure sarà stato il primo giorno in cui con la lanterna in mano, quasi come uno dei sette nani (ma non era certo una favola, anzi, piuttosto un incubo ciò che stava vivendo), è sceso in miniera, in quelle gallerie buie, scavate nelle visce-re della montagna, così simili ad antri infernali, per scon-tare una pena senza colpa. Oppure quello della liberazio-ne, il 5 settembre 1990, quando un funzionario di polizia gli disse – e lui credette lì per lì che fosse l’ennesimo in-ganno – che era finita, che finalmente era libero di torna-re a fare il sacerdote, dopo un calvario durato quasi ven-totto anni, tra lavori forzati prima come muratore, poi come minatore (appunto) e infine come addetto alle fogne della città di Scutari.

Chissà. Il Papa era lì, con la sua mole imponente e il ve-stito bianco, e lui, che pure tanto piccolo d’aspetto non è mai stato, né da giovane né adesso che è anziano, sembra-va un puntino nero nella sua tonaca di altri tempi. Non

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certamente un nano, tanto per restare alla metafora di pri-ma, anche se a farlo diventare tale avevano provato per tut-ti quegli anni i comunisti di Enver Hoxha, con l’unico ri-sultato di trasformarlo in un gigante della fede. Eppure in quel momento appariva piccolo, indifeso, quasi più biso-gnoso di protezione ora che nel lungo tempo della tiran-nide, quando svegliarsi una mattina dopo l’altra non sape-vi mai se era una benedizione del cielo o una nuova infinita condanna.

In quell’abbraccio, nelle lacrime del Papa, nell’applau-so della folla che gremiva la cattedrale c’era in sintesi tut-ta la vita di don Ernest, tutte le sue sofferenze, tutta la cro-ce portata per decenni da lui come da mille e mille altri cattolici d’Albania. E c’era la lode a Dio per aver trasfor-mato quel dolore e quelle sofferenze in una testimonianza stupenda di fedeltà a Cristo e alla Chiesa, che in quegli istanti persino il Papa suggellava con le sue lacrime.

Le lacrime del Papa, la testimonianza dei martiri

Non capita spesso di vedere un papa commuoversi in pubblico fino alle lacrime. Ma quel giorno a Tirana è suc-cesso e lo hanno visto tutti. L’ascolto della testimonianza di don Ernest Simoni, l’abbraccio con l’anziano sacerdo-te che aveva passato quasi ventotto anni fra carcere duro e lavori forzati e infine quelle lacrime sgorgate dagli occhi del Vescovo di Roma, quasi a sancire al più alto livello pos-sibile la preziosità di quella testimonianza per tutta la Chie-sa, erano come un grande affresco, drammatico e glorioso al tempo stesso.

Piangeva, papa Francesco, non solo per ciò che don Er-nest gli aveva appena raccontato, condensando in poco più di una paginetta i suoi ottanta e più anni di fedeltà estre-

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ma, eroica, indefettibile a Cristo. Piangeva per ciò che ave-va visto arrivando in papamobile nelle strade della capita-le albanese in festa.

Piangeva ricordando i volti e le storie dei martiri le cui gigantografie lo avevano accolto, insieme con cinquecen-tomila persone, lungo il viale Dëshmorët e Kombit (« Mar-tiri della Nazione »), lo stesso delle grandi parate del regi-me comunista, lo stesso dove il dittatore Enver Hoxha aveva fatto edificare il suo mausoleo, un’inquietante pira-mide di cemento armato che avrebbe dovuto trasmettere ai posteri la sua imperitura memoria e che ora è stata tra-sformata in teatro, così come lui aveva fatto con molte del-le chiese cattoliche del Paese.

Piangeva, l’uomo vestito di bianco, su tutti coloro che in Albania erano stati spazzati via come granelli di polve-re solo perché cattolici e su tutto il sangue, le lacrime, le torture, il dolore che il Novecento – il secolo con il mag-gior numero di martiri cristiani da quando il Vangelo ha cominciato a essere annunciato – ha sparso a piene mani in Europa e nel mondo intero.

Ma piangeva, il Papa argentino che abbiamo imparato a conoscere per la sua straordinaria capacità di immedesi-marsi nella sofferenza e nei sentimenti altrui, anche per la gioia di trovarsi di fronte a un uomo, a un sacerdote, a un credente che aveva saputo accettare, vivere, sublimare e offrire come sacrificio a Dio tutto ciò che gli era stato in-flitto, la croce enorme il cui legno per ventotto anni ha por-tato addosso lungo la sua personale via dolorosa; anni co-stellati di umiliazioni, angherie, torture, lavoro durissimo, fame, freddo e privazioni (prima tra tutte la mancanza di libertà) solo per il fatto di essere un sacerdote.

Don Simoni era lì, davanti al Papa, a rappresentare sia quei suoi compagni (la maggior parte) ai quali era stata concessa la grazia del martirio propriamente detto, sia

Questo testo è un'anteprima del libro. Il numero delle pagine è limitato.

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quelli (una ristretta minoranza) che erano riusciti a soprav-vivere per ricordare e raccontare, e dunque per contri-buire a non rendere vano con l’oblio il sacrificio dei più. Quel giorno di fine settembre dell’anno 2014, sotto la pioggerellina fina ma insistente dell’autunno alle porte, era come se al cospetto del successore di Pietro fossero tutti presenti e tutti parlassero per bocca dell’anziano prete di Scutari. Una schiera imponente di uomini e donne, sacer-doti e laici che, usando le parole dell’Apocalisse, si potreb-bero dire passati attraverso la grande tribolazione e che avevano potuto rendere candide le loro vesti, lavandole nel sangue dell’Agnello. Anche la talare nera di don Ernest è idealmente candida. Anche lui, infatti, era passato attra-verso il crogiolo della persecuzione, pur non essendogli stato richiesto l’estremo sacrificio. Ma non per questo la sua testimonianza appare oggi meno significativa.

Anzi, proprio alla luce di questa testimonianza forse è possibile entrare per un istante nella mente e nel cuore dell’anziano sacerdote e sentire il suo pensiero di quel mo-mento, mentre il Papa lo abbracciava e si commuoveva. “Questo è il giorno che ha fatto il Signore”. Sì, deve aver pensato e sentito questo, don Ernest, dopo aver raccon-tato al Papa e al mondo la sua vicenda. Lui, emblema di una sofferenza crudele e lunghissima, inflitta a un popo-lo intero. Lui, con la forza della preghiera e la fede incrol-labile in quel Cristo che lo aveva chiamato fin da piccolo a ripercorrere le sue orme, a essere sacerdote, a offrire tut-to se stesso per i fratelli. Lui, con la mite fermezza di una vita in cui mai nessuno gli ha sentito dire una parola con-tro un altro uomo, neanche contro il più spietato dei suoi persecutori. Lui, vessillo della libertà cui sempre il Signo-re riconduce i suoi figli dopo ogni schiavitù, non può non aver levato in quel momento a Dio un canto di lode e di ringraziamento, per aver potuto vedere e abbracciare un

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altro successore di Pietro dopo san Giovanni Paolo II, il primo papa a recarsi in Albania, una volta terminata la dittatura.

In quegli istanti la sua vita era lì, aperta come un qua-derno sfogliato dal soffio dello Spirito e offerta a tutti, af-finché tutti potessero leggerla. E perciò, qualche tempo dopo averla riassunta davanti al Papa, gli abbiamo chiesto di raccontarla ancora, questa volta in forma più ampia e dettagliata, per farla confluire in queste pagine. Ciò che il lettore troverà da qui in poi è la sua voce, la sua vita, il suo sacrificio e la sua gioia. Ma anche e soprattutto la sua umil-tà, quando dice: « Io non ho fatto niente. È tutto merito del Signore ». Ed è appunto con questo spirito che ci ac-cingiamo a raccontarla, inserendola, come un primo pia-no su uno scenario più ampio e complessivo, nella grande, tragica, ma allo stesso tempo (se vista con gli occhi della fede) feconda epopea dei martiri albanesi del secolo scor-so, come ricorda l’arcivescovo di Scutari-Pult, monsignor Angelo Massafra, nella prefazione a questo volume. Per trentotto di loro, cioè una minima parte, è in corso il pro-cesso che li porterà a diventare beati e poi santi. E forse conviene partire proprio da qui, per cominciare a com-prendere quanto grande sia stato il sacrificio e l’esempio di don Ernest e dei suoi compagni. Sia dei pochissimi che come lui sono sopravvissuti per poterlo raccontare, sia di quelli – e sono la stragrande maggioranza – che hanno ver-sato il proprio sangue perché un giorno, come afferma Ter-tulliano, diventasse sangue di nuovi cristiani.

La nemesi della storia

Quel giorno, il 21 settembre 2014, quando papa Fran-cesco è giunto nel centro di Tirana, dopo un viaggio in ae-

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UNA VOCAZIONE MOLTO PRECOCE

« Sono nato a Troshani, un villaggio a una trentina di chilometri da Scutari, il 18 ottobre 1928. O almeno così dicono ». Don Ernest Simoni inizia con queste parole il racconto della sua vita. E il « così dicono » si riferisce alla data. Chissà se è proprio quello il giorno in cui il futuro sacerdote vide per la prima volta la luce di quell’angolo di mondo in cui, negli anni successivi, avrebbe provato sulla sua pelle le sofferenze di Gesù. Proprio quel Gesù al quale, già da piccolo, aveva promesso di uniformare la propria esi-stenza. All’epoca era prassi che i neonati fossero dichiara-ti all’anagrafe diversi giorni o addirittura settimane dopo la nascita. Avveniva così in Italia, a maggior ragione in Alba-nia, dove le condizioni socio-economiche erano ancora più arretrate. A ogni modo il 18 ottobre 1928 è la data ufficia-le, l’inizio di una vicenda umana e religiosa straor dinaria, anche se ovviamente nessuno di coloro che ascol tarono quella mattina i primi vagiti del nuovo arrivato, nessuna delle donne che lo lavarono, lo accarezzarono e lo conse-gnarono infine all’abbraccio di mamma Prenda e di papà Antonio poteva immaginarlo.

A dire il vero, in favore della data ufficiale c’è una cir-costanza incontrovertibile. Il documento del battesimo. E su quel foglio c’è scritto proprio « 18 ottobre 1928 ». « C’e-ra l’usanza di battezzare i bambini lo stesso giorno della loro nascita », racconta don Ernest, « quindi è molto pro-babile che io sia nato esattamente in quella data ». Se così

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fosse, il sacerdote albanese sarebbe in buona compagnia, perché, ad esempio, anche Joseph Ratzinger, il futuro Be-nedetto XVI, fu battezzato lo stesso giorno della nascita, il 16 aprile 1927, come egli stesso ricorda nella sua auto-biografia. Ma le vicende dei due bambini quasi coetanei, come sappiamo, saranno completamente diverse, anche se accomunate dall’aver interamente speso la propria vita a servizio di Cristo e della Chiesa. Forse, però, a posteriori possiamo considerare come un segno del cielo la circostan-za che la prima notizia certa dell’esistenza in vita di un bimbo chiamato Ernest Simoni derivi da un documento religioso e non civile. Quasi un imprimatur, una specie di conferma dall’alto delle scelte che avrebbero portato il pic-colo lungo la strada di una testimonianza molto prossima al martirio.

La difficile scelta di Antonio Simoni

Quella strada, va detto subito, non scorre nel deserto. Nel senso che il bimbo nasce e cresce in una famiglia pro-fondamente religiosa. E del resto anche suo padre, Anto-nio, ha alle spalle una storia che vale la pena di essere bre-vemente raccontata.

Da bambino era stato praticamente adottato da un im-prenditore italiano, Giuseppe Scapini. Questi, giunto dal-la Toscana, costruisce in Albania, e precisamente a Scuta-ri, il primo forno industriale per cuocere e vendere il pane al dettaglio. Siamo ai primi del Novecento e l’attività all’i-nizio si rivela abbastanza redditizia. Scapini adocchia il piccolo Antonio Simoni, che ha nove anni, gli insegna l’i-taliano (che da grande Antonio trasmetterà ai suoi figli, Ernest compreso, il quale ricorda con un pizzico di orgo-glio: « A casa mia si è sempre parlato italiano con un

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INDICE

Prefazione, di A. Massafra pag. 5

Introduzione » 11

I unA vocAzIone Molto Precoce » 23La difficile scelta di Antonio Simoni » 24Quelle « messe » celebrate a quattro anni » 27Nel turbinio della guerra » 30Arrivano i comunisti » 32Di fronte agli aguzzini » 37

II MAestro e tIrAtore scelto suo MAlgrADo » 42Esilio missionario tra le montagne » 43Da Tito a Stalin » 45L’accordo-truffa con la Chiesa » 47Sotto le armi » 49Campione di tiro a segno » 51L’ordinazione sacerdotale » 53

III lA notte DI nAtAle Del 1963 » 55Un parroco scomodo » 56Verso l’orbita cinese » 58Segni premonitori » 60L’arresto alla vigilia di Natale » 63Cella di isolamento, interrogatori e torture » 65Condanna a morte » 68

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Ma la Provvidenza vigila pag. 70Rivoluzione culturale in salsa albanese » 71

Iv AI lAvorI forzAtI » 77Giù in miniera » 78La giornata tipo dei prigionieri » 80Intollerabile promiscuità » 83Il legame mai interrotto con la famiglia » 84Parroco anche in miniera » 86Il decreto sui nomi » 90L’unica Costituzione atea del mondo » 93

v DAllA MInIerA Alle fogne » 97Liberazione o nuova condanna? » 98Il prete di notte » 101Un clima da « Grande Fratello » orwelliano » 102

vI verso lA fIne DellA DIttAturA » 105Il quinquennio di Ramiz Alia » 106L’annuncio della liberazione » 107I colpi di coda della dittatura » 109I persecutori perdonati » 111

vII sAcerDote DeI Due MonDI » 113Con Giovanni Paolo II e Madre Teresa » 114Libero, finalmente » 114Un’operazione all’improvviso » 116

Conclusione » 119