Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende...

20

Click here to load reader

Transcript of Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende...

Page 1: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

Diagnostica artistica

Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di metodi e tecniche scientifiche mentre i primi con il famoso metodo ‘morelliano’ ossia l’analisi di quello che poi Ginzburg definirà paradigma indiziario. Il restauratore preferito da Morelli è Cavenaghi giacché utilizza nei suoi lavori i famosi paradigmi: egli, infatti, conoscendo gli artisti applica un restauro completativo che sebbene non possa definirsi ortodosso è innanzitutto specchio del proprio tempo e poi è eseguito con un rigore tale da dover essere per forza apprezzato; prendiamo qualche esempio:Madonna col Bambino di Foppa: in questo esempio Cavenaghi riesce a dimostrare come oltre al restauro il suo laboratorio sia anche capace di fare storia dell’arte: l’opera infatti gli giunge in due momenti differenti da due diversi collezionisti, e nel corso del restauro separato delle due parti dell’opera egli riesce a riconoscere nell’angioletto musico la mano del Foppa e comprende che si tratta di un insieme arbitrariamente separato; il risultato finale è una ricostruzione dell’opera, armonizzata, tra l’altro, con l’aggiunta di alberi in stile foppesco laddove erano presenti delle lacune. Opera del Mantegna: in quest’opera è evidente il discorso della ‘sensibilità visiva ottocentesca’: il restauratore, infatti, inserisce degli elementi (come la palmetta e il libro tra le mani della vergine) che gli sembravano mancare. Pietà di Crivelli: Crivelli è un pittore del rinascimento che sarà particolarmente apprezzato nell’800 proprio grazie all’interesse di Morelli nei suoi confronti; nel restauro della pala, che presentava la parte centrale completamente abrasa, Cavenaghi riesce a ricostruire sulla base dei pochi indizi superstiti l’opera intera. È evidente però che non si può parlare di restauro oggettivo poiché entra, anche prepotentemente, la personalità del restauratore: lo stile di Crivelli ne risulterà, dunque, mediato dalla sensibilità visiva dell’800, come del resto dimostrano i tratti ammorbiditi dei personaggi che non posso non risalire al Cavenaghi.Questo fu senza dubbio il restauro più criticato e non solo dai colleghi, ma dagli stessi collezionisti, spaventati dalla sua abilità nell’isolare dei dettagli caratteristici della mano di un’artista e riproporli in modo simile: la più diretta conseguenza di tale capacità sta nella possibilità di produrre falsi di eccezionale verosimiglianza. (ecco perché Isabella Stuart Gardner non vorrà mai far restaurare le opere della sua collezione). Il paradigma indiziario permette, dunque, un rovesciamento dal punto di vista morelliano (cioè piuttosto che far riconoscere un falso lo crea).

Il restauro e le altre discipline

Ginzburg ci ricorda che la storia del costruirsi delle discipline testuali e quelle delle immagini non è simile perché la prima si basa su due momenti fondamentali di cui uno è l’invenzione della stampa. Mancini afferma invece che lo studioso d’arte “può lavorare come il grafologo” poiché anche la scrittura ha degli elementi caratteristici e personali, riconoscibili però solo nei manoscritti. Alessandro conti afferma che un’opera è unica a differenza di un testo letterario poiché nel primo caso le riproduzioni non si confondono con l’originale, ma che tuttavia il restauro di un’opera d’arte è simile a quella del materiale archivistico e bibliografico: se è vero che l’opera d’arte ha una propria scadenza (circa mille anni) mentre la vita di un’opera bibliografica può essere continuamente prolungata, è altrettanto vero che anche i documenti autentici portano con se la storia dei fattori che l’anno determinato, ad esempio carta ed inchiostri, e poiché un manufatto bibliografico originale è sempre deperibile allora i dettami del restauro che sono validi per le arti visive si possono considerare tali anche per quelle scrittorie. Conti esamina un disegno di area ferrarese del 400 che si trovava su un manoscritto: l’analisi di quest’ultimo, dei danni, delle piegature gli hanno consentito di ricostruire la storia del disegno che è completamente slegata da quella del manoscritto. Tra le informazioni che possiamo ricavare dall’oggetto dice Conti non va sottovalutato l’effetto percettivo: ad esempio il trasporto di un’opera da un supporto ad un altro ci fa perdere non solo i dati relativi al materiale ma anche l’effetto che l’artista gli aveva impresso.

Scienza e conservazione

Rossi Bernardi – presidente del Cnr- rileva che ‘scienza’ e ‘cultura’ sono stati visti per molto tempo come termini antitetici mentre, in realtà, sono due facce della stessa medaglia, la conoscenza, ed in quanto tali dovrebbero agire insieme e di fatto integrarsi l’un l’altra.

Page 2: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

Sebbene già a partire dal diciottesimo secolo gli scienziati iniziarono ad occuparsi di opere d’arte (anche se non sempre con risultati positivi - basti pensare ai danni di Davy sui papiri di Ercolano nel 1818)è solo negli ultimi decenni che il contributo della scienza è diventato fondamentale e la problematica si è trasferita dal ‘tipo di approccio’ alla ‘definizione del ruolo’ di scienziati e restauratori e ai principi e le metodologie che regolano questo lavoro interdisciplinare. Accade, infatti, che restauratori e scienziati si guardino con reciproco sospetto ed addirittura non riescano a comunicare i propri bisogni ed intenzioni a causa dei linguaggi differenti che utilizzano; per rimediare a tale situazione è evidente che nessuno dei due specialisti si ponga nei confronti dell’altro con l’idea della superiorità della propria materia ma che sia disposto ad aprirsi alle nuove tecniche: la scarsa preparazione dei restauratori nelle materie scientifiche li porta, troppo spesso, a ritenere che il proprio lavoro possa essere svolto anche senza l’ausilio di esperti dell’altro settore, e viceversa gli scienziati, convinti della bontà dei mezzi che mettono a disposizione non credono necessaria una preparazione di altro livello del restauratore, ma in realtà come fa notare Torraca, entrambe le cose sono necessarie giacché un ottimo materiale nelle mani di un pessimo restauratore non darà i risultati sperati così come un pessimo materiale adoperato da un ottimo restauratore può dare risultati eccellenti, si sottolinea quindi la necessità di un lavoro d’equipe (che sia costante) e di un ‘feed back’ ossia di un ritorno delle informazioni dal campo al laboratorio scientifico; del resto la collaborazione dovrebbe avere inizio, afferma Torraca, già a partire dal ‘cantiere di progetto’ ossia quel periodo di anali e di studio dell’opera che imposta il progetto prima di un qualunque intervento. Chimica, fisica, meccanica ed informatica apportano, del resto contributi importanti sia dal punto di vista dei metodi di analisi per determinare lo stato di conservazione delle opere, sia dal punto di vista della catalogazione ma anche per lo studio del microclima e delle condizioni idonee alla salvaguardia delle opere, senza contare che un settore determinante è proprio quello della produzione di materiali per il restauro che contribuiscono all’evoluzione e, talvolta, alla messa in discussione delle tecniche acquisite. I vari ‘incidenti’ riscontrati nella storia recente dei restauri mettono comunque in evidenza che non è possibile lavorare senza dei requisiti minimi, ossia, essenzialmente,il rispetto dei principi generali per il restauro (reversibilità, compatibilità, intervento minimo), un budget adeguato che consenta varie sperimentazioni in laboratorio prima delle prove sulle opere, un migliore coordinamento dei centri di ricerca (anche attraverso la periodica pubblicazione di un bollettino o un potenziamento del “Bollettino dell’arte”) nonché un incremento di tali centri, molto limitati nonostante il numero crescente di richieste di interventi; attualmente, infatti,oltre all’ICCD, si occupano di queste problematiche i vari istituti centrali di restauro (ICR, p.e), alcune soprintendenze (Napoli, Venezia ecc.), alcuni dipartimenti universitari, il CNR (consiglio nazionale delle ricerche, con gli uffici da esso istituiti a Roma, Milano e Firenze), i laboratori di alcune industrie (per i materiali più che altro), alcuni laboratori privati che eseguono analisi scientifiche a pagamento (finalizzate però a risolvere un solo problema relativo ad un solo oggetto). Da ricordare ancora la commissione NORMAL (normativa manufatti lapidei del ’79), fondata per rendere controllabili e ripetibili le singole operazioni tecniche e tracciare uno schema sulla corretta prassi interventistica.Fino a poco tempo fa gli interventi di restauro erano di limitata intensità a causa dei minimi finanziamenti, e per questo si ricorreva a delle piccole imprese di fiducia; ora, invece, numero e intensità degli interventi è aumentato, e hanno cominciato ad interessarsi di questo settore anche grosse imprese finanziarie. Ciò comporta anche una difficoltà dei controlli della qualità dei restauri da parte delle autorità competenti, ma un rimedio esiste: regolarizzare tramite normativa il tipo dei materiali e degli interventi, anche se data la varietà degli interventi una normativa del genere sarebbe complessa da applicare.

Fattori di deterioramento

Il deterioramento dei materiali è un processo naturale e inarrestabile, dovuto sia a fattori intrinseci dell’opera stessa, sia all’ambiente. I fattori di degrado dei beni culturali possono essere divisi in due tipi: quelli consapevoli, causati dall’uomo, e quelli naturali.

Tra le cause di degrado consapevole ricordiamo:

Degrado per notorietà: da una definizione di Paolucci, si indica con questa locuzione una serie di fenomeni quali “l’eccesso d’uso, il sovraffollamento. Il microvandalismo che il turismo culturale di massa porta con se” e che miete vittime soprattutto tra le opere più note o i luoghi più famosi (es. Grotte di Lascaux). I tipi di degrado causati dai turisti possono, dunque, essere molteplici, diretti ed indiretti (installazione di strutture inadeguate come i coffee shop, o l’invasione dei saccopelisti) e sono per lo più non controllabili perché

Page 3: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

innescati da fattori sociali e demografici difficilmente gestibili arginabili; l’unica contromisura valida fino ad ora individuata è quella di dirottare una parte dei turisti verso mete meno note o verso opere minori restaurate da poco.Vandalismo: a parte alcuni rari casi di vandalismo diretto (si veda l’episodio della Pietà di Michelangelo o la Ronda di Notte di Rembrandt) gli aspetti più frequenti del vandalismo comportano l’asportazione di piccoli souvenir: reperti archeologici affioranti e/o pezzetti di muro, oppure l’apposizione di scritte – pratica ben più antica di quello che si pensa visto che sulle pareti dei templi egizi sono stati ritrovati graffiti di greci in vacanza-.Variazioni demografiche: la nascita della società industriale prima e poi negli ultimi anni il progressivo inurbamento dovuto alla crescita demografica ha causato quello che è comunemente definito esodo agricolo, ossia lo spopolamento delle campagne (o delle zone meridionali) in favore delle città o dei paesi del nord che offrono condizioni di vita migliori; questo fenomeno ha causato da un lato l’abbandono a se stessi di molti edifici e dall’altro una selvaggia speculazione edilizia. Inquinamento: prodotto dall’uomo per via diretta ed indiretta.Incidenti di Restauro: il metodo Pettenkofer è uno dei casi più fallimentari del rapporto tra arte e scienza. Si tratta di un metodo elaborato in Germania e basato sulla rigenerazione alcolica delle vernici: pretendeva cioè di restituire la brillantezza dei colori ad olio, ingialliti a causa dell’ossidazione del legante; tuttavia dopo un primo rinvigorimento dei colori si ripresentava nuovamente l’ingiallimento, per di più accompagnato da microfratture sulla parte superficiale della pittura. L’entusiasmo per il metodo fece si che molti insigni laboratori di restauro europei, nella smania di essere al passo con i tempi, si dotassero di questo metodo, rovinando moltissime opere; anche in Italia Adolfo Venturi nel 1890 aveva sostenuto questo metodo che però fu in breve proibito mediante una circolare ministeriale. Il problema stava nel fatto che la sperimentazione del materiale era durata troppo poco a causa della immane fiducia nelle scienze che si diffondeva in quel periodo e visti gli apparentemente ottimi risultati.

Tra le cause di degrado naturale, invece, si annoverano:

Cause chimico- fisiche: dovute a cause di natura meccanica, di natura termica o dovuta alle radiazioni. La variazione di stato dell’acqua è uno dei fattori più dannosi per un’opera in quanto essa può essere presente in tutti i suoi stati fisici ed essere in equilibrio con l’opera stessa, il variare di questo stato comporta uno squilibrio che si riflette in modo negativo sul manufatto. L’igroscopicità di un’opera varia a seconda della sua porosità e soprattutto a seconda della struttura dei suoi pori (più piccolo è il poro maggiore è la risalita capillare) , ed in relazione al modo di assorbire il fluido, l’acqua presente all’interno del solido poroso sarà detta “di imbibizione”, di cristallizzazione (nei sali e minerali organici) e di costituzione, di queste la prima è la più dannosa, ma il danno non si verifica nel momento in cui l’acqua viene assorbita, bensì quando evapora: ecco perché affreschi rimasti a lungo in condizioni di alta umidità si sono perfettamente conservati ed i loro degrado è iniziato solo dopo l’aerazione dell’ambiente. La luce causa un doppio problema: le radiazioni luminose, particolarmente quelle più energetiche, oltre ad alterare le proprietà termiche (IR) dell’opera d’arte, sono anche capaci di attivare reazioni chimiche che degradano i materiali costitutivi del manufatto (UV). Tra l’altro, il problema della luce è anche estetico, dal momento che è necessaria una corretta illuminazione anche per la fruizione dell’opera d’arte da parte del pubblico. E’ preferibile illuminare le opere d’arte sensibili a queste radiazioni con luce artificiale di intensità costante e regolabile; esistono due diverse fonti di luce artificiale: le lampade ad incandescenza (al tungsteno) e le lampade a fluorescenza. Le prime emettono anche un certo calore, mentre le seconde contengono meno IR ma più UV; qualora si decidesse di usare queste lampade, sarà bene applicare speciali filtri (vetri, vernici, fogli) in modo da eliminare gli UV. Chiaramente i danni sono proporzionali al tempo di esposizione alla luce.Le variazioni di temperatura, infine, non sono necessariamente causate dallo scambio di calore con l’ambiente esterno ma possono essere anche determinate da una variazione dell’umidità presente, ecco perché, per far fronte a tali inconvenienti la salvaguardia delle opere prevede un accurato studio del microclima e delle variazioni climatiche subite dall’opera nel corso della sua vita. (Temperatura di Rugiada, Umidità relativa, Umidità assoluta.)Cause biologiche: l’alta umidità o l’alta temperatura, la presenza di ossigeno o di una fonte di carbonio sono condizioni favorevoli allo sviluppo di microrganismi che utilizzano come nutrimento i materiali costitutivi delle opere. Tali microrganismi possono essere divisi in: - autotrofi (ossia che su mutrono di materiale inorganico) tra cui ricordiamo alghe eplitiche e quelle

esolitiche, che si sviluppano sulla superficie dell’opera o penetrano in profondità e i licheni che si

Page 4: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

sviluppano in condizioni di ampia luminosità, per lo più superficialmente, e che secernono acidi che rovinano i materiali su cui si insediano.

- eterotrofi (si nutrono di materiale organico) come batteri e funghi – detti volgarmente muffe-; molto pericolosi sono: il caldosporium che si attacca agli affreschi già restaurati sfruttando come nutrimento i residui di colla, lo streptomices che si sviluppa particolarmente negli ipogei e causa una patina biancastra sugli affreschi, e i cellulositici che attaccano tele e materiali d’archivio. Tra i funghi che attaccano il legno, oltre i cromogeni ricordiamo quelli che causano la cosiddetta carie (bianca quando i microrganismi attaccano cellulosa e lignina, nera se attaccano solo la cellulosa).

Anche piante ed animali rientrano tra le cause biologiche di degrado: si pensi per l’uno ai muschi e allo sviluppo incontrollato delle radici e per l’altro ai roditori e agli insetti (in particolare i coleotteri ed i tarli per il legno); Tra gli isotteri sono da ricordare le termiti, che attaccano il legno sia in piedi che in opera, scavando l’oggetto (rifuggono la luce) in profondità ma lasciandone inalterato l’aspetto superficiale, cosicché il danno è noto solo quando ormai è troppo tardi. Per combattere tutti questi microrganismi, si deve provvedere alla loro distruzione, al predisporre le condizioni peggiori per il loro proliferare, all’impiegare materiali che non attirino in quanto nutrimento tali organismi. Per la disinfezione e disinfestazione dei manufatti ad oggi si utilizzano dei gas tossici non dannosi per l’opera, sebbene la loro durata nel tempo sia limitata; per questo, il manufatto dovrà essere tenuto sotto controllo in un ambiente biologicamente e clinicamente sano per evitare che tale attacco si ripeta. Su opere monumentali difficilmente trattabili con gas tossici si preferiscono prodotti disinfettanti iniettabili.Disastri naturali (alluvioni, frane, sismi)

Page 5: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

Dipinti su Tavola

Le essenze legnose di maggior impiego sono:Latifoglie.

Pioppo: una delle essenze più usate per la facilità di reperimento e di lavorazione, pur non essendo particolarmente resistente e durevole; è un legno tenero, di aspetto chiaro, facilmente attaccato da insetti xilofagi.

Tiglio: simile al pioppo, ma più compatto e con una tonalità più scura; spesso è cibo per insetti xilofagi;

Salice: nella varietà di salice bianco più diffusa, viene utilizzato per tavole dipinte, ed è piuttosto tenero e attaccabile; per una maggiore durezza, resistenza e lavorabilità è preferito il salicone.

Noce: per tavole dipinte di modeste dimensioni, ha colore scuro e grande compattezza e resistenza; viene attaccato da insetti xilofagi.

Quercia: legno duro e resistente, usato per tavole dipinte e mobilio; resiste bene agli insetti xilofagi, ma tende a spaccarsi durante la stagionatura.

Frutto: ossia tutti gli alberi da frutto come pero, ciliegio, albicocco, che ebbero largo uso come matrici xilografiche e piccole sculture, dal momento che molti di questi legni sono duri e compatti.

Bosso: struttura molto compatta e colore scuro, usato per le piccole sculture soprattutto a partire dal XVII secolo.

Conifere. Abete bianco e abete rosso : due varietà che hanno una differenza di compattezza e colore,

più intense nell’abete rosso, utilizzati soprattutto per tavole dipinte; vengono attaccati dagli insetti xilofagi.

Larice: durevole, con fibra regolare e compatta, di facile lavorazione. Varietà di pino: il pino cembro, ad esempio, viene particolarmente usato per la scultura

lignea, mentre i pini montani e marittimi non sono impiegati molto spesso; sono resistenti agli attacchi degli xilofagi.

Cipresso: usato raramente e per opere di piccole dimensioni; piuttosto duro, ha fibre irregolari che ne rendono difficoltosa la lavorazione; non viene attaccato dagli insetti xilofagi.

Cedro: usato per lo più per casse da corredo e librerie; non viene attaccato dagli insetti xilofagi ed emana un ottimo profumo.

Il legno migliore in campo artistico, come già i romani ritenevano, è quello che viene tagliato durante il suo periodo di stasi vegetativa, ossia dal tardo autunno a marzo, poiché essendo povero di linfa è più resistente agli attacchi di insetti e microrganismi; in genere i migliori sono quelli nati in luoghi poco luminosi e con poca acqua perché presentano fibre più compatte.Il momento del taglio è senza dubbio quello più delicato di tutto il processo poiché, se anche si dovesse prendere un’essenza solida e particolarmente compatta, bisogna sempre tener conto della presenza di nodi e cipollature ed in primis del verso in cui tagliarlo; un tronco, infatti, può essere tagliato in vari modi:

a spacco: (il sistema più antico) è praticato inserendo dei cunei che permettono al legno di fendersi seguendo la direzione delle fibre.

Con segazione radiale: è un sistema poco usato che permette però di ricavare assi stabili giacché queste vengono tagliate allineatamene agli anelli annuali

In quarto: si ottengono 4 mezzoni ed assi simili a quelle ottenute con segazione parallela Con segazione parallela: permette il minimo spreco di legname, tra le assi così ricavate quelle

centrali (mezzoni) sono quelle più stabili mentre le altre tendono ad imbarcarsi sui lati opposti.

La costruzione del supporto inizia, dunque, una volta scelta l’essenza e le tavole; se si voleva ottenere un supporto di notevoli dimensioni, si provvedeva all’ancoraggio delle varie assi, incastrate le une nelle altre

Page 6: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

con cavicchi ed incollate con colle animali o caseina; un altro tipo di giunzione era ottenuto con innesti a coda di rondine ed eseguiti con essenze più dure, ma sempre assicurandosi che le fibre delle code fossero in fase con quelle delle assi per non provocare spaccature; per supporti particolarmente grandi si utilizzavano anche le “traverse” che, applicate parallelamente sul retro delle tavole, erano fissate con chiodi o cavicchi oppure incastrate e incollate in appositi solchi. Dopo aver accomodato le tavole si procedeva all’eliminazione di tutti i difetti di superficie colmando gli eventuali buchi con il gesso e attuando l’impannaggio, che aveva lo scopo di attenuare le sollecitazioni prodotte dai movimenti del legno ed era ottenuto incollando strisce di tela pergamena o stoffa sopra i nodi o su tutta la tavola.

Quando parliamo di preparazione della tavola ci riferiamo a tutti quegli strati intermedi che si trovano fra supporto e pellicola pittorica ed hanno la funzione di fornire una superficie fisicamente e cromaticamente adatta alla pittura: essa deve, dunque, legarsi intimamente con il supporto ed avere contemporaneamente una buona permeabilità, in modo tale da permettere l’adesione ottimale degli strati pittorici. La preparazione era composta da una carica, generalmente gesso o carbonato di calcio e argilla bianca, ed un legante (il più utilizzato era la colla di pelle a cui, a partire dal sedicesimo secolo si iniziò ad aggiungere olio di lino per dare più compattezza ed elasticità alla preparazione). Il composto era poi steso in più mani sulla tavola e levigato, sopra questa base venivano poi eseguite le decorazioni in rilievo, dette a “pastiglia” , che potevano anche essere fatte a parte e poi semplicemente incollate sulla preparazione. Al di sopra della preparazione veniva realizzata l’imprimitura cioè l’apposizione di quello strato costituito da molto legante ed una carica sottile che da un lato doveva rendere più liscia e meno porosa la preparazione stessa e dall’altro aveva una valenza estetica giacché spesso come cariche erano utilizzati dei pigmenti.La doratura poteva avvenire in due modi: a bolo per le superfici grandi (operazione nella quale foglie d’oro sottilissime venivano incollate su argilla, sulle quali superfici si potevano anche stampigliare motivi decorativi) ed a missione o a mordente utilizzata per superfici piccole (stendendo con un pennellino una colla particolare sulle parti da dorare; una volta fatta presa la colla, si applicava la foglia d’oro affinchè aderisse); a conchiglia:il meno usato, ottenuta mescolando polvere d’oro con legante e stendendo il tutto con un pennello. Era una tecnica usata per lo più per dorare zone nelle quali rispettare perfettamente le definizioni (barbe e capelli delle sculture lignee).

CAUSE DI DEGRADOIl legno è sensibilissimo all’umidità e, quando si ritira, provoca nelle tavole imbarcamento o svergolamento. L’imbarcamento può dipendere dal tipo di asse che si utilizza e dalla sua messa in opera; generalmente la deformazione tende a rendere concavo il lato non dipinto perché, non protetto dalla pellicola pittorica, cede o assorbe umidità più rapidamente. Lo svergolamento, invece, è determinato dalle tensioni interne del legno, ed è dovuto all’andamento deviato delle fibre rispetto l’asse longitudinale. Infine variazioni di umidità, stagionatura, attacchi biologici o errati interventi possono produrre spaccature. I danni peggiori sono causati dall’uomo: riduzioni dimensionali, assottigliamenti (che creano instabilità igrometrica), parchettature fisse; Per parchettatura si intende una struttura di sostegno applicata sul retro della tavola composta da traverse poste perpendicolarmente tra loro, in modo da sostenere le tavole originarie se prive di coesione, e di impedire alle tavole imbarcate e riaddrizzate di flettersi nuovamente; sebbene fossero applicate per dare maggiore robustezza la supporto, erano anche fonte di gravi danni poiché impedendo i movimenti naturali del legno, finivano per creare fessure o sollevamenti della pellicola pittorica. Si tratta di una pratica già presente nel ‘700, evolutasi col tempo in una pratica di parchettature mobili, costituite da sbarre metalliche scorrevoli incollate su piccoli sostegni fissi in posizione longitudinale.Danni gravissimi, infine, vengono inflitti alle tavole dipinte tramite l’uso di liquidi consolidanti non idonei.

Il restauro relativo alle tavole di legno è valido anche per le sculture lignee e può porre rimedio alle fenditure, all’inconsistenza della struttura, all’imbarcamento, alla debole o assente coesione fra assi; qualora il supporto sia ormai fatiscente, allora si potrà provvedere a trasportare la pellicola pittorica su un altro supporto.

Fenditure: una volta si usavano innesti a coda di rondine che arrestassero la crepa; si tratta di un metodo utilizzato anc ora oggi e che da buoni risultati se si utilizza un legno della stessa essenza e posto con la venatura enllo stesso senso di quello delle tavola, ma più frequentemente oggi si ricorre alla sverzatura, ossia la regolarizzazione della fenditura praticando sul retro una incisione triangolare colmata con blocchetti lignei triangolari poi incollati.

Page 7: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

Consolidamento del legno: quando l’attacco degli insetti xilofagi è ormai critico, si usa consolidare il legno impregnandolo con sostanze che ridiano consistenza al legno e allontanino l’eventualotà di un attacco futuro; chiaramente è necessario utilizzare consolidanti abbiano un buon potere di penetrazione e che, possibilmente, non alterino l’aspetto chimico/estetico del legno e siano reversibili, anche se in realtà la reversibilità e l’invisibilità sono caratteristiche che mai completamente potranno essere osservate in un consolidante. Il consolidamento può essere parziale o totale: nel primo caso, il prodotto viene iniettato con una siringa, mentre nel secondo l’imbibizione per capillarità avviene immergendo la tavola in una vasca a contatto con il consolidante, lasciando che si diffonda nelle fibre autonomamente. Quest’ultima scelta snatura molto l’opera, per cui è un’operazione da effettuare solo in casi eccezionali. In passato consolidanti spesso utilizzati erano la gommalacca decerata sciolta in alcool e la cera, oggi, invece, si utilizzano resine acriliche sciolte in solventi non troppo volatili. Un caso particolare è rappresentato da legno immerso per secoli nell’acqua, il quale, estratto ed essiccato naturalmente, si deformerà necessariamente; pertanto, in un caso del genere bisognerà sostituire lentamente l’acqua con un’altra sostanza che eviti la deformazione, e che mantenga lo stato di rigonfiamento delle cellule di legno; le sostanze impiegate a questo scopo possono essere: solubili in acqua o insolubili, ed in quest’ultimo caso sarà necessaria un’operazione più complessa che consiste innanzitutto alla sostituzione dell’acqua di cui il legno è impregnato con un solvente in cui sia solubile la resina che viene poi fatta polimerizzare con l’ausilio dei raggi gamma.

Trasporto: costituisce un grave trauma per l’opera perché comporta l’eliminazione del supporto e della preparazione originale in alcuni casi. Può rientrare in questo caso anche un intervento assai comune nel passato, ossia l’assottigliamento del supporto e l’incollaggio della tavola ridotta ad un nuovo supporto rigido. Si trattava di un’operazione talora usata anche per il raddrizzamento delle tavole imbarcate.

Dipinti su tela

La pittura su tela era praticata fin dall’antichità, soprattutto per gli stendardi, ma si diffuse alla fine del XV secolo a Venezia, dove dipingere su grandi tele che sostituivano gli affreschi favorì l’adozione di supporti più leggeri e maneggiabili delle tavole. Le prime tele erano di lino e molto sottili, quasi prive di preparazione, come la tela rensa (o tela di Reims) usata dal Mantenga e dal Bellini, a cui si sostituì, poi, la tela di canapa tessuta a spina di pesce, ruvida, usata dai pittori del ‘500 che sostituirono alla pittura a tempera le spesse pennellate della pittura ad olio. Nel XVII secolo furono usate tele a trama abbastanza larga, mentre nel secolo successivo prevalsero tessuti di canapa più fitti e sottili, ancor più regolari dopo l’introduzione dei telai meccanici. Nel XIX secolo si cominciarono ad usare tele di tutti i tipi, anche con preparazioni industriali. Per gli stendardi, infine, fu spesso usata la seta. Le fibre utilizzate, dunque, possono essere distinte in base all’origine vegetale o animale:

Canapa: la fibra più usata per le tele dipinte, fino alla metà dell’800. La fibra grezza, ricavata per la macerazione di fusti, è costituita soprattutto da cellulosa, ed è simile al lino, tanto che le fibre, essendo rigide, rendono la canapa adatta come supporto per dipinti.

Lino: ottenuto per macerazione dei fusti, e come la canapa, contiene grosse percentuali di cellulosa. Cotone: dal frutto dell’omonima pianta, costituito quasi esclusivamente da cellulosa, per questo è

molto igroscopico e facilmente attaccabile da acidi e agenti ossidanti, per cui non garantisce lunga durata.

Seta: unica fibra animale usata in pittura, ottenuta filando i bozzoli prodotti dalle bave dei bachi da seta.

La struttura dei tessuti della tela è identificata da alcuni elementi: l’Ordito, ossia il complesso dei fili disposti parallelamente a costituire la lunghezza del tessuto, la trama, che è l’insieme dei fili che intersecano i precedenti ad angolo retto e che vanno da cimosa a cimosa; le cimose, infine, sono i gruppi di fili all’estremità destra e sinistra del tessuto. Per armatura di una tela, invece, si intende il modo con cui si

Page 8: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

intrecciano i fili di ordito e trama. Tutti i tessuti non semplici, cioè che presentano delle finitura elaborate (broccati, ricami) sono chiamati composti. I tessuti semplici, invece, vengono distinti in base alla diversa armatura in:

Tele: intreccio più semplice: ordito e trama perpendicolari; Saglie: tessuti con trama diagonale Ad armatura spezzata: fili con andamento a zig zag.

La preparazione è l’insieme di strati compresi tra supporto e pellicola pittorica, generalmente composta da gesso e colla animale, più uno strato sottile colorato chiamato imprimitura; anche i dipinti su tela presentano una preparazione che deve, però, essere più leggera ed elastica rispetto a quella dei dipinti su tavola. La diffusione dei dipinti su tela coincise con quella dei colori ad olio, che furono adoperati spesso con preparazioni colorate sulle quali veniva tracciato l’abbozzo con pigmenti chiari; questo sistema però determinava la trasparentizzazione degli olii per invecchiamento, e il colore dell’imprimitura finiva per annullare le mezze tinte. Per ovviare al problema, le preparazioni vennero fatte con un sottile strato di gesso mescolato a colla e olio siccativo, colorate con pigmenti mescolati agli olii o aggiunti in seguito; nel XIX secolo, infine, tornarono in uso le preparazioni bianche. I telai, fino a quel secolo, erano fissi, mentre in seguito entrarono in uso telai mobili, tali che si potevano allargare su zeppe angolari, accompagnando e compensando l’allentamento della tela di supporto. Le tele, infine, erano attaccate ai telai per mezzo di chiodi o piccoli cunei di legno.Per quanto riguarda il restauro delle opere su tela va tenuto presente che la cellulosa e i processi chimico-fisici che subisce nel tempo sono i principali fattori di degrado dei tessuti; la cellulosa può infatti:

Perdere elasticità: l’alta igroscopicità della cellulosa fa si che possa dilatarsi o contrarsi per assorbimento o evaporazione dell’acqua, ma rispetto al legno, nelle tele l’elasticità diminuisce col tempo, anche a causa della loro tensione sul telaio e del loro peso dovuto a preparazione e pitture;

Ossidarsi: l’ossigeno dell’atmosfera interagendo con la cellulosa produce oxycellulosa, scura e fragile; si tratta di un processo ineliminabile, ma che avviene in tempi molto lunghi se non sono presenti metalli o luce che catalizzano il fenomeno;

Decomporsi a causa degli acidi: in presenza di acidi (disciolti nell’aria a causa dell’inquinamento e trasportati per via aerosol) la cellulosa si trasforma in idrocellulosa; come l’ossidazione, anche questa reazione può essere catalizzata da metalli e raggi ultravioletti;

Subire attacchi microbiologici: diretti al supporto più che altro; Errati interventi di restauro: ad esempio le foderature fatte con colle non trattate appositamente

con fungicidi o irreversibili, oppure impregnazioni della tela con olii siccativi e resine, irreparabilmente dannosi perché acidi. Frequenti sono anche i danni dovuti alle stirature mal fatte, tali, cioè, da provocare l’eccessivo schiacciamento o la bruciatura della pellicola pittorica.

In passato, i danni della pellicola pittorica venivano risolti foderando il dipinto, ossia incollando sul retro della tela originale una nuova tela allo scopo di rinforzare quella vecchia; si trattava comunque di un intervento traumatico per il quadro, e pertanto da utilizzare solo quando la tela originale ha perso la sua funzione di sostegno, e sia necessario ripristinare l’adesione fra il supporto e la preparazione o fissare e appianare una pellicola pittorica scodellata o per risolvere gravi lacune o deformazioni. Una buona foderatura non dovrà modificare il colore e la superficie pittorica, deve avere una buona durata ed una buona reversibilità, tanto da assicurare un sufficiente sostegno alla tela e una buona coesione e adesività alla preparazione. Gli adesivi da utilizzare dovranno essere flessibili (in modo da seguire i movimenti naturali delle fibre e dei materiali costitutivi), inerti, solubili in sostanze che non alterino i materiali originali del dipinto.

Pittura Murale

CENNI STORICI. Caratteristica principale delle pitture murali è il loro rapporto imprescindibile con la struttura architettonica per cui è stata concepita, tanto che un loro arbitrario spostamento non potrebbe che pregiudicarne una corretta lettura. Tuttavia, nel passato centinaia di metri quadri di affreschi sono stati

Page 9: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

asportati per essere esposti come quadri nei musei o ammassati in depositi e lasciati nel dimenticatoio. D’altra parte, poi, le pitture murali condizionano lo spazio per il quale sono state concepite (falsi rivestimenti dipinti, trompe l’oel ecc.), anche qualora si trattasse di pitture che si trovano all’esterno, dal momento che in questo caso condizioneranno la resa del paesaggio.Eppure, la storia della pittura murale risale ad un tempo in cui ancora non esistevano edifici in muratura: già nella preistoria venivano eseguite pitture parietali sebbene di trattasse di semplici segni tracciati sulla roccia senza strato di intonaco (Altamira, Lascaux); i primi esempi di intonaco risalgono all’arte mesopotamica, egizia e cretese, ma soltanto quando all’intonaco cominciò ad essere aggiunta la calce iniziò il vero procedimento di pittura a fresco. Nella pittura murale egiziana gli intonaci erano a base di gesso e argilla, a cui a volte si aggiungeva paglia tritata per garantirne una maggiore elasticità; i colori erano a tempera (a base di gomme o colle diluite in acqua), estremamente sensibile all’umidità, ma hanno potuto conservarsi grazie al clima secco del luogo. Della pittura murale greca si sono salvate le pitture tombali pestane (tomba del tuffatore, realizzata con la tecnica del buon fresco eseguita su uno strato di arriccio ed uno di intonaco e con disegno preparatorio graffito direttamente su quest’ultimo) e gli originali macedoni, che hanno consentito di verificare le nozioni contenute negli scritti di Plinio e Vitruvio, fonti autorevoli di pittura romana (nota tramite Pompei ed Ercolano).Dal De Architectura di Vitruvio sappiamo che l’intonaco a più strati (ariccio + intonaco + intonachino) comparve in periodo ellenistico, e si diffuse in Italia centrale e quindi a Roma; i Greci utilizzavano solo 4 colori (nero, giallo, rosso e bianco), mentre gli Etruschi preparavano l’intonaco stendendo sulle pareti un sottile strato di argilla su cui passavano una mano di latte di calce.Andando più a fondo nel discorso delle pitture murali romane, i ritrovamenti archeologici hanno consentito di analizzare quanto scritto da Vitruvio, soprattutto per quanto riguarda la preparazione dell’intonaco e del disegno: dai tre strati di ariccio (il cui impasto era costituito da calce spenta e sabbia grossolana) ai tre strati di intonaco (composto di sabbia fine, calce e polvere di marmo), con un procedimento che andò semplificandosi fino al II secolo d.C. (unico strato di ariccio e di intonaco). Dagli affreschi di Pompei sappiamo che i romani usavano la sinopia (disegno sull’ariccio), che ricoprivano con l’intonachino per giornate; altre tecniche, come la battitura di fili o il disegno diretto con una punta acuminata sull’intonaco, furono riprese anche nel medioevo. Un problema particolare della pittura romana (che si ritrova anche in alcune tombe macedoni) è la pittura ad encausto: la Schiavi è giunta alla conclusione che si trattasse di una pittura realizzata con cera d’api emulsionata in acqua per mezzo di una sostanza alcalina come il natron. A questa miscela (detta da Plinio cera punica) veniva aggiunto un collante; appena asciugata, la superficie veniva riscaldata e la cera tornava grassa e lucente. Alcuni hanno invece dato un’altra spiegazione, ossia che lo strato di cera venisse steso sulla superficie già dipinta, applicata a caldo e poi lucidata.Per quanto riguarda il Medioevo e l’età moderna, le fonti principali derivano dai manuali dell’epoca, tra cui il celeberrimo Libro dell’arte di Cennino Cennini, redatto alla fine del ‘300, che compendia tutte le nozioni di tecnica pittorica del medioevo. Le pitture parietali dell’alto medioevo erano quasi sempre a fresco, con rifiniture a secco, ossia sul muro asciutto tramite colori stemperati nel latte di calce; in epoca bizantina, paleocristiana e romanica, gli affreschi venivano eseguiti a fasce orizzontali che seguivano l’andamento dei ponti cominciando dall’alto (affreschi per pontate). Soprattutto per quanto riguarda le pitture bizantine, il ricordo a schemi iconografici fissi velocizzava non poco il lavoro; sappiamo che il disegno veniva praticato direttamente sull’intonaco. Tra ‘200 e ‘300 due innovazioni tecniche consentirono una evoluzione della tecnica: la sinopia (dalla terra rossa usata per realizzare i disegni preparatori) e la stesura dell’intonaco per giornate, ossia coprire d’intonaco la sinopia che il pittore pensava di dipingere in giornata con la malta ancora umida (i bordi dell’intonaco a giornata venivano tagliati di sguincio in modo da permettere una corretta sovrapposizione). Nel ‘400 alla sinopia si sostituì il cartone, che meglio si adattava alle nuove necessità prospettiche; si tratta di un sistema tramite il quale il pittore dopo aver abbozzato uno schizzo della composizione su scala minore, la trasportava in scala definitiva su fogli di carta che, incollati insieme, costituivano il cartone; nella tecnica dello ‘spolvero’ i cartoni venivano bucherellati seguendo i contorni delle figure e, fissati al muro, vi si batteva sopra con un sacchetto contenente polvere di carbone in modo che venisse lasciato sull’ariccio il disegno dei contorni. Il disegno poteva anche essere trasportato premendo i contorni del disegno con una punta metallica in modo da imprimerli nella malta fresca. Il cartone poteva, poi, essere smembrato per fungere da guida alla stesura dell’intonachino o per essere riutilizzato.Altra innovazione importante fu la quadrettatura, o rete, che consisteva nel sovrapporre ad un disegno di piccole dimensioni dei quadrati in modo che il disegno fosse diviso in tante piccole zone; aumentando le dimensioni alla rete, venivano conservate le proporzioni, e il disegno era pronto per essere reso sull’intonaco.

Page 10: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

Questo tipo di trascrizione divenne comune nel ‘500, ‘600, ‘700 ed il primo esempio insigne lo ritroviamo nella famosa Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella. Nel frattempo anche per quanto riguarda i colori, alle superfici lisce e compatte si cominciarono a preferire quelle granulose che da lontano avevano una maggiore luminosità ed evitavano le ‘specchiature’; nel ‘600 e ‘700, poi, gli affreschi cominciarono a diventare più spessi ed opachi per l’uso dell’acqua di calce che dava agli impasti uno spessore maggiore. Nell’800 sebbene la tecnica ‘a fresco’ fu oggetto di un vero e proprio recupero tecnico-culturale, si diffuse sempre più la pittura ‘a secco’ chee nel ‘900 prese definitivamente il sopravvento, anche perché meglio rispondeva ai fini estetici e ai metodi operativi degli artisti (Fregio Beethoven di Klimt nel padiglione della secessione a Vienna, nel 1902, e il soffitto dell’Opera di Parigi dipinto da Chagall nel 1964). Esistono, però, anche altre tecniche pittoriche che vengono raggruppate sotto il nome di pitture a secco poiché i colori vengono applicati sull’intonaco già asciutto: pittura a tempera (su intonaco spennellato con tuorlo e albume d’uovo sbattuti con acqua), pittura ad olio (con olii siccativi su intonaco impregnato di olio e talvolta coperto da un’imprimitura di olio di lino e biacca), mezzo fresco (colori stemperati nel latte di calce, in modo che i pigmenti restino inglobati in un sottile strato di carbonato di calcio). Rispetto al buon fresco, queste tecniche sono meno resistenti, perché i materiali sono eterogenei rispetto all’intonaco e sensibilissimi alle variazioni di umidità.

TECNICHE D’ESECUZIONE E MATERIALI DELLA PITTURA A FRESCOUn dipinto murale necessita di una superficie liscia e di colore uniforme; per ottenerla, nel corso dei secoli si adoperarono sistemi vari, ma tutti caratterizzati dalla sovrapposizione di uno strato intermedio dallo spessore variabile che, a partire dal II secolo d.C., fu sempre costituito da uno strato grossolano detto ariccio ed uno più sottile chiamato intonaco. L’intonaco è costituito generalmente da sabbia di fiume e da calce spenta (o idrata) in proporzioni variabili (nell’ariccio di solito 1 calce : 3 sabbia; nell’intonachino anche 1 o 2 sabbia : 1 calce, spesso mescolati a polvere di marmo per dare maggiore levigatezza alla superficie). La calce si ottiene cuocendo a circa 900° in forni ad imbuto dei sassi di fiume, in modo che si polverizzino trasformandosi in ossido di calcio ( CaO + CO2 volatile), detto anche calce viva, che, prima di venir impiegato per affresco, deve essere spenta impregnandola di acqua per almeno sei mesi, altrimenti brucerebbe i colori. L’ossido di calcio, trasformandosi in idrossido di calcio, diventa una pastella chiamata calce spenta; asciugandosi, perde gran parte dell’acqua e, combinandosi con l’anidride carbonica dell’atmosfera, torna a formare carbonato di calcio, composto duro e insolubile. Questo processo di carbonatazione della calce impiegava diversi mesi prima di completarsi in quanto era necessario che si perdesse gran parte dell’acqua, per cui la solidificazione avveniva velocemente solo negli strati superiori; date le circostanze gli artisti solevano realizzare gli strati inferiori erano realizzati mescolando alla sabbia della pozzolana che, a differenza della calce, solidifica anche in acqua. Prima di stendere l’arriccio, la parete veniva bagnata in modo da non assorbire eccessivamente idrossido di calcio contenuto nella malta; qualora l’ arriccio (o l’intonaco) veniva steso su una parete già intonacata, e talvolta addirittura già dipinta, allora il vecchio intonaco veniva picchiettato per favorire l’adesione con quello nuovo. Nonostante i due componenti fondamentali degli antichi intonaci fossero calce e sabbia, i materiali usati come cariche furono assai vari: tra quelle inorganiche si annoverano cariche inerti (p.e. sabbia alluvionale) e cariche idrauliche (cioè con la proprietà di indurire per reazione chimica con l’acqua e non, con l’anidride carbonica e anche in assenza di aria: pozzolana, tufo, rocce vulcaniche che hanno perso tutta la loro acqua di costituzione, oppure mattoni, tegole e cocci cotti ad altissime temperature). Tra le cariche organiche, si annoverano vegetali (paglia) o peli animali, che servono a mantenere più a lungo l’umidità dell’intonaco e ad aumentare l’elasticità. Per quel che riguarda il legante, bisogna ricordare che la calce viene distinta in calce grassa (95% di ossido di calcio), calce magra (82-95%) e calce idraulica (inferiore a 82%). Per ottenere una buona malta, era consigliata una granulometria differente.Dopo tutte queste operazioni, si passava all’esecuzione del disegno preparatorio, e alla stesura dei colori sull’intonaco umido, che, cominciando a seccare, portava alla migrazione verso la superficie dell’idrossido di calcio. Così, la pellicola pittorica si trova inglobata nello strato di carbonato. Dunque, non sono i colori ad essere assorbiti, ma è l’idrossido di calcio che sale ad inglobarli. Chiaramente, qualora non si dipingesse sull’intonaco umido, le particelle di colore non verrebbero inglobate e, appena asciutte, risulterebbero pulverulenti; per questo, quando l’intonaco appariva troppo secco, gli artisti usavano premerlo con la cazzuola per richiamare l’umidità, o stemperavano i colori nel latte di calce (appunto, il mezzo fresco). L’applicazione dei colori era abbastanza problematica, sia perché non si potevano effettuare cancellature, sia perché l’intonaco asciugava velocemente e, asciugando, comportava uno schiarimento di colori (per questo colori non compatibili con la calce, come cinabro, azzurrite e biacca, non erano adeguati); dovevano essere

Page 11: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

utilizzati tutti i pigmenti minerali che a contatto con la calce non si alteravano (p.e. ocre gialle, ocre rosse, malachite, lapislazzuli, nero d’avorio). Spesso si utilizzavano anche foglie d’oro o stagno dorato con vernice gialla che, fatte aderire con un collante (il missone, composto da resine e olii essiccativi) all’intonaco, garantivano buone dorature.

DEGRADO DEI DIPINTI MURALI. acqua e Sali: dal momento che le condizioni degli affreschi sono legate a quelle dell’edificio nel

quale sono conservati, bisognerà annoverare tra le prime cause di degrado le variazioni termo igrometriche. L’assorbimento di umidità da parte di un intonaco può avvenire in diversi modi: per infiltrazione dell’acqua piovana (attraverso lesioni della muratura), per capillarità (umidità alla base del muro che tende a risalire), per condensazione (il vapore acqueo entra in contatto con una parete pari o inferiore a quella di rugiada e si condensa creando un velo sul muro; caso emblematico è l’intonaco che copre un corpo più freddo, come un tubo: in quel caso il vapore acqueo condensa e crea una macchia scura della forma del corpo sottostante, anche perché la polvere tende a depositarsi sulle superfici fredde). Al di là degli stress fisici, le variazioni termo igrometriche creano anche problemi a livello chimico, dal momento che nell’acqua sono disciolti dei sali che possono cristallizzarsi sulle superfici o immediatamente sotto di esse.

cause biologiche: ad attaccare gli affreschi sono tanto microrganismi eterotrofi (attaccano zone dove siano stati usati colori o adesivi di origine organica) che autotrofi, come le alghe, i licheni (che forano l’intonaco), i solfobatteri (che vivono sui materiali calcarei che trasformano in solfati). I microrganismi eterotrofi, invece, attaccano pigmenti o adesivi di natura organica.

RESTAUROL’analisi dello stato di conservazione d’un affresco comincia dall’accertamento delle condizioni statiche dell’edificio in cui si trova, attraverso il rilevamento delle condizioni fisiche degli intonaci e la verifica dei danni prodotti dall’uomo. In base ai rilevamenti effettuati, si procede al restauro cominciando, innanzitutto, dal risanamento dell’ambiente per arrivare infine all’intervento sull’intonaco, cercando innanzitutto di conservare gli affreschi nel luogo d’origine o almeno di creare le condizioni adatte affinché possano essere ricollocati nell’antica sede, altrimenti, per questioni di sicurezza, dovrà essere spostato altrove; sebbene possibile, lo spostamento è comunque un intervento che snatura profondamente l’affresco stesso, pertanto sarà indicato tentare almeno di ricreare le condizioni originarie di esposizione: una delle prime operazioni in generale da effettuare è la deumidificazione delle murature, ad esempio tagliando il muro alla base e inserendovi uno strato impermeabile, oppure inserendo cilindri che consentano l’aerazione.La rimozione del dipinto murale, se strettamente necessaria, può avvenire in tre modi: per stacco, per strappo, per stacco a massello.

Stacco: asportazione della superficie dipinta insieme all’intonaco. Prima di procedere, bisogna innanzitutto pulire l’affresco da sporcizia, ridipinture, e la superficie pittorica deve essere consolidata. Per effettuare lo stacco vero e proprio, si incollano due strati di tela all’affresco, uno di mussola di cotone e l’altro di lino di medio spessore, facendo ben attenzione a non lasciare bolle d’aria o zone con poca colla (generalmente colla forte animale). Se l’affresco è molto grande, bisognerà tagliarlo in zone non molto visibili e significative; una volta asciugata la colla, con un martello di legno si batte l’affresco in modo da farlo staccare dal muro, cominciando da un angolo inferiore ed inserendo tra muro e intonaco una lama che faciliti le operazioni. Finito lo stacco, l’affresco va girato sul retro e l’intonaco assottigliato fino a pochi millimetri di spessore; sul retro, verranno incollate due tele dello stesso tipo di quelle sulla parte anteriore. Una volta asciutte, si procederà all’eliminazione con acqua calda delle tele usate per lo stacco, e l’affresco sarà pronto per il nuovo supporto che dovrà essere leggero, resistente, inerte e con forma appropriata. In genere, tra affresco e nuovo supporto viene inserito uno ‘strato di intervento’, come un foglio di polistirolo che essendo solubile con solventi organici può essere facilmente eliminato senza danno né per il pannello né per l’affresco.

Strappo: stesse fasi preparatorie dello stacco, ma con asportazione solo della pellicola pittorica, con tele che vengono avvolte su rulli man mano che si procede; si tratta di un sistema che impoverisce il

Page 12: Scienza e conservazione · Web viewDiagnostica artistica Per Diagnostica artistica si intende l’analisi dei segni visibili e invisibili, questi ultimi ricavati con l’ausilio di

colore, e pertanto viene usato in casi estremi (ad es. se si deve operare su muri pericolanti o se l’intonaco è fatiscente). Per recuperare le sinopie, invece, una volta staccata la pellicola pittorica, si eliminano con spazzole e raschietti i resti dell’intonaco rimasti sopra l’ariccio; proprio sull’ariccio, tramite l’applicazione di tele, si procede allo strappo delle sinopie come evidenziato per gli affreschi. Chiaramente, prima di procedere con questa tecnica si dovrà essere certi del consolidamento del colore, e che i collanti non rechino danni alla pellicola pittorica. Decenni fa lo strappo era utilizzato moltissimo dal momento che consentiva il recupero delle sinopie, tanto che tra ’50 e ’70 specialmente in Toscana si diede inizio ad una vera e propria campagna di asportazione, culminata negli anni immediatamente successivi all’alluvione del ’66. Non mancarono certo critiche, dal momento che spesso i magazzini delle soprintendenze erano pieni di affreschi per i quali non si riuscivano a trovare sedi adatte, e di sinopie difficilmente esponibili; tali critiche culminarono nel ’73 nell’opera Problemi di conservazione di Urbani in cui si afferma che “il distacco degli affreschi è il più chiaro esempio della concezione di ‘bene culturale’ come bene di consumo”.

stacco a massello: si tratta dell’asportazione della pellicola pittorica con una parte del muro ad essa sottostante; può essere utile quando i dipinti siano realizzati su roccia o su intonaci e murature fragili, anche se è un sistema che comporta la distruzione del retro della parete sulla quale è posto l’affresco. Infatti, lo stacco a massello consiste nell’imbrigliare con una struttura di legno la porzione di muro da asportare, in modo tale che, una volta tagliata, venga sollevata con mezzi meccanici; una volta fatto questo, il muro viene assottigliato fino a raggiungere lo spessore di un normale affresco staccato.

I sistemi usati per costruire i nuovi supporti su cui adagiare i dipinti asportati sono stati al centro di numerosi dibattiti ed attualmente non è ancora stata trovata una soluzione soddisfacente; il dibattito si incentra sulla necessità di preparare un nuovo supporto che permetta all’opera di rimanervi sopra senza ulteriori rischi e dunque ci si interroga sulla necessità di adoperare o meno un materiale che sia poroso: da un lato ci sono i fautori dei supporti porosi che sostengono il bisogno di “respirare” del dipinto, dall’altro quelli che si schierano con i supporti impermeabili per evitare rischi legati all’assorbimento di acqua ed umidità e tali, però, da impedire la formazione della condensa. L’uso della tela, particolarmente apprezzato nell’ottocento, è invece sconsigliato poiché un dipinto in queste nuove condizioni perde le sue caratteristiche materiche e l’aspetto irregolare date dall’intonaco per assumere l’aspetto di pittura a tempera su tela. A proposito di quest’ultimo tipo di pittura, che come detto rientra tra i dipinti murali a secco, va detto che il restauro che li riguarda è uno dei più difficili e che non lascia molte alternative al restauratore: per il consolidamento si usano per lo più resine acriliche, mentre per la pulitura chiaramente si scelgono sistemi variabili in base al tipo di sporcizia da rimuovere, allo stato di conservazione e alla natura della pellicola pittorica. Anche le tempere possono essere rimosse con lo strappo ma facendo attenzione ad utilizzare colle leggere giacchè, come detto, l’aderenza del colore alla pellicola pittorica è minore.