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47 un quartiere in movimento... un movimento di quartiere il periodico informativo di Vanchiglia www.comitatoquartierevanchiglia.net [email protected] aprile 2010 POTERE AL POPOLO! P opolo di Vanchiglia, è arrivato il momento di scegliere tra i candidati per amministrare il paese. I programmi li avete sentiti…mano ai telefoni… via al televoto! A seguire, comodamente da casa, senza muoverci dalla poltrona e con un semplice gesto del telecomando, potremo scegliere il direttore della scuola, il gestore della mensa, le maestre dei nostri figli… purtroppo qualcuno verrà eliminato, ma senza polemiche, per favore, perché questo è il giudizio insindacabile del Popolo Italiano. Scegliete pure se eliminare gli statali fannulloni, gli studenti bamboccioni, i magistrati infingardi, gli operai improduttivi, i valsusini refrattari, gli immigrati clandestini… Nessuno protesterà poiché il volere del popolo è indiscutibile, ed è una delega in bianco per chi, unto dalla volontà popolare, è scelto come vincitore. Ma non crediate che votare sia solo un onore, è anche un onere e serve per aiutare il prossimo. Con un solo euro potete aiutare le popolazioni d’Abruzzo, la gente di Haiti, la ricerca sul cancro, i bambini africani, l’ospedale Gaslini… Il popolo sarà felice di aver contribuito alla pulizia della propria coscienza e chi governa potrà continuare a tagliare i fondi per la ricerca, per la cooperazione internazionale, per la sanità… E Bertolaso potrà partecipare alla ricostruzione delle disgrazie senza che nessuno ci metta bocca. Suvvia, San Bertolaso è l’uomo più amato dagli italiani, più delle cucine Scavolini. Lo dicono i sondaggi commissionati dal governo, e quindi è vero! Nessuno tocchi Caino, unto dal volere popolare. E se state pensando al senatore Di Girolamo, eletto con i voti diretti della ‘ndrangheta, siete i soliti malpensanti. Come quelli che sostengono che il televoto sia truccato e che i produttori comprino pacchetti di migliaia di voti per far vincere i propri dipendenti; come quelli che sostengono che le donazioni vadano direttamente nelle tasche degli organizzatori. Malpensanti e disfattisti. Vecchi, non siete ancora entrati nell’era dell’ottimismo, dove tutto va benissimo, i problemi si risolvono in fretta o spariscono magicamente, dove i ministri hanno più di mille alternative contro la chiusura di Termini Imerese ma neanche una andrà in porto; dove sono bastati 3 mesi per risolvere il problema degli sfollati abruzzesi, in particolare per 300 di loro, gli altri 20mila rimarranno senza tetto; dove la mondezza napoletana sparisce in poche ore e non riapparirà che tra dieci anni, nei prati dove brucano le bufale. Ma tra dieci anni chissà chi ci sarà al governo... e chiunque fosse lì a scaldare la seggiola rimpallerà le responsabilità ad altri, ergendosi a baluardo per la risoluzione immediata dell’emergenza. In emergenza si può fare tutto. Si può abbracciare il bimbo (continua...) ça pousse - http://capousse.blogspot.com

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il periodico informativo di Vanchiglia

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un quartiere in movimento... un movimento di quartiere

il periodico informativo di Vanchigliawww.comitatoquartierevanchiglia.net [email protected]

apri

le 2

010

POTERE AL POPOLO!

Popolo di Vanchiglia, è arrivato il momento di scegliere tra i candidati per amministrare il paese. I programmi li avete

sentiti…mano ai telefoni… via al televoto! A seguire, comodamente da casa, senza muoverci dalla poltrona e con un semplice gesto del telecomando, potremo scegliere il direttore della scuola, il gestore della mensa, le maestre dei nostri figli… purtroppo qualcuno verrà eliminato,

ma senza polemiche, per favore, perché questo è il giudizio insindacabile del Popolo Italiano. Scegliete pure se eliminare gli statali fannulloni, gli studenti bamboccioni, i magistrati infingardi, gli operai improduttivi, i valsusini refrattari, gli immigrati clandestini… Nessuno protesterà

poiché il volere del popolo è indiscutibile, ed è una delega in bianco per chi, unto dalla volontà popolare, è scelto come vincitore. Ma non crediate che votare sia solo un onore, è anche un onere e serve per aiutare il prossimo. Con un solo euro potete aiutare le popolazioni d’Abruzzo, la gente di Haiti, la ricerca sul cancro, i bambini africani, l’ospedale Gaslini… Il popolo sarà felice di aver contribuito alla pulizia della propria coscienza e chi governa potrà continuare a tagliare i fondi per la ricerca, per la cooperazione internazionale, per la sanità… E Bertolaso potrà partecipare alla ricostruzione delle disgrazie senza che nessuno ci metta bocca. Suvvia, San Bertolaso è l’uomo più amato dagli italiani, più delle cucine Scavolini. Lo dicono i sondaggi commissionati dal governo, e quindi è vero! Nessuno tocchi Caino, unto dal volere popolare. E se state pensando al senatore Di Girolamo, eletto con i voti diretti della ‘ndrangheta, siete i soliti malpensanti. Come quelli che sostengono che il televoto

sia truccato e che i produttori comprino pacchetti di migliaia di voti per far vincere i propri dipendenti; come quelli che sostengono che le donazioni vadano direttamente nelle tasche degli organizzatori. Malpensanti e disfattisti. Vecchi, non siete ancora entrati nell’era dell’ottimismo, dove tutto va benissimo, i problemi si risolvono in fretta o spariscono magicamente, dove i ministri hanno più di mille alternative contro la chiusura di Termini Imerese ma neanche una andrà in porto; dove sono bastati 3 mesi per risolvere il problema degli sfollati abruzzesi, in particolare per 300 di loro, gli altri 20mila rimarranno senza tetto; dove la mondezza napoletana sparisce in poche ore e non riapparirà che tra dieci anni, nei prati dove brucano le bufale. Ma tra dieci anni chissà chi ci sarà al governo... e chiunque fosse lì a scaldare la seggiola rimpallerà le responsabilità ad altri, ergendosi a baluardo per la risoluzione immediata dell’emergenza. In emergenza si può fare tutto. Si può abbracciare il bimbo

(continua...)

ça pousse - http://capousse.blogspot.com

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orfano del terremoto, si può stringere le mani degli operai cassintegrati, si può calzare il casco da minatore e farsi riprendere dentro le macerie, si possono avviare ricostruzioni assieme a qualche amico interessato, si possono avviare lavori estremamente telegenici che non termineranno mai. E raggiungere nei sondaggi l’odore di santità, con Giovanni Paolo II, Antonella Clerici e Giovanni Agnelli.

Ma non provate a dare responsabilità ad altri, avete scelto voi. Tra Pupo e Valerio Scanu, tra Belen e Luxuria, tra Berlusconi e Bersani, tra Zelig e Ballarò, tra Topo Gigio e Gatto Silvestro… Avete televotato e adesso vi tenete il responso del Popolo Italiano, valido un anno, o tre o cinque, a seconda della competizione a cui avete partecipato. E poco conta se Scanu cantava in playback, se Belen decide di non mostrare più il sedere per la quale l’avete votata, se Bersani

cambia programma ogni due giorni ed il suo avversario si scopre essere a capo di una cupola di imbroglioni… ormai la decisione è presa. Ma non preoccupatevi, ci sono i ripescaggi, la giuria popolare, quella demoscopia, il risultato è ancora in bilico. Non si dice così per mantenere alta l’attenzione dei telespettatori? E se non siete d’accordo cambiate canale. O sistema... Push the Botton!

CERTI UOMINI POLITICI, APPENA VANNO AL POTERE, PER RENDERSI BENEMERITI SI PREOCCUPANO PER IL BENESSERE DEL PAESE. E INCOMINCIANO A DIRE: “C’È DISOCCUPAZIONE, C’È MISERIA, C’È FAME”. E ALLORA CHE COSA FANNO? SI RIUNISCONO, IN QUATTRO O CINQUE, E, SEMPRE PER IL BENESSERE DEL PAESE, DECIDONO DI FARE LA GUERRA. E SE LA PERDONO? SCIOCCHEZZE, PINZILLACCHERE! CI SONO UOMINI POLITICI NUOVI, I QUALI, PREOCCUPATI PER IL DISAGIO DELLA GUERRA PERDUTA, SAPETE COSA FANNO? SI RIUNISCONO IN QUATTRO O CINQUE E, SEMPRE PER IL BENESSERE DEL POPOLO, FANNO UN’ALTRA GUERRA.

TOTÒ

(... segue dalla prima)

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Roma, 1° maggio 1945

[...]Alcuni punti però sono sicuri e cioè: durante la sua carriera,

Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbero meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto

e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). [...]

Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi. Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti. Se poi li favorisce e applaude, peggio che

complice, si fa mandante di questi delitti.

Perché il popolo tollerò, favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo. Vi fu pure una minoranza che

si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel miglior dei

casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani).

Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosìffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa

scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto.

Mussolini,uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo

onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio

provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese

libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine.

In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano.

Debole in fondo, ma ammiratore della forza, e deciso ad apparire forte contro la sua natura. Venale, corruttibile. Adulatore. Cattolico senza credere in Dio. Corruttore. Presuntuoso: Vanitoso. Bonario.

Sensualità facile, e regolare. Buon padre di famiglia, ma con amanti. Scettico e sentimentale. Violento a parole, rifugge dalla ferocia e dalla violenza, alla quale preferisce il compromesso, la corruzione e il ricatto. Facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità, se fa della beneficenza è per questo motivo, oltre

che per vanità e per misurare il proprio potere. Si proclama popolano, per adulare la maggioranza, ma è snob e rispetta il denaro. Disprezza sufficientemente gli uomini, ma la loro ammirazione lo sollecita. Come

la cocotte che si vende al vecchio e ne parla male con l’amante più valido, così Mussolini predica contro i borghesi; accarezzando impudicamente le masse. Come la cocotte crede di essere amata dal bel giovane,

ma è soltanto sfruttata da lui che la abbandonerà quando non potrà più servirsene, così Mussolini con le masse. Lo abbaglia il prestigio di certe parole: Storia, Chiesa, Famiglia, Popolo, Patria, ecc., ma ignora

la sostanza delle cose; pur ignorandole le disprezza o non cura, in fondo, per egoismo e grossolanità. Superficiale. Dà più valore alla mimica dei sentimenti, anche se falsa, che ai sentimenti stessi. Mimo abile,

e tale da far effetto su un pubblico volgare. Gli si confà la letteratura amena (tipo ungherese), e la musica patetica (tipo Puccini). Della poesia non gli importa nulla, ma si commuove a quella mediocre (Ada Negri)

e bramerebbe forte che un poeta lo adulasse. Al tempo delle aristocrazie sarebbe stato forse un Mecenate, per vanità; ma in tempi di masse, preferisce essere un demagogo.

[...]Si serve anche di coloro che disprezza. Disprezzando (e talvolta temendo) gli onesti, i sinceri, gli intelligenti

poiché costoro non gli servono a nulla, li deride, li mette al bando. Si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, e quando essi lo portano alla rovina o lo tradiscono (com’è nella loro natura), si proclama tradito,

e innocente, e nel dir ciò è in buona fede, almeno in parte; giacché, come ogni abile mimo, non ha un carattere ben definito, e s’immagina di essere il personaggio che vuole rappresentare.

Elsa Morantepagina di diario

ORA E SEMPRE, RESISTENZA 25 aprile 2010

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Lo SPORTELLO CASA dell’AskaÈ uno spazio aperto a tutti/e dove trovare informazioni sui requisiti per accedere agli alloggi dell’Edilizia Residenziale Pubblica (EPR) e sulla normativa vigente in merito. È un servizio di informazione e consulenza legale (completamente gratuita) per tutte le persone e famiglie in difficoltà, che sono sotto sfratto o che stanno per subire uno sfratto. È uno strumento di orientamento per capire come comportarsi di fronte ad un avviso di sfratto.Se pensi che da solo è impossibile ma in tanti si è più forti, passa allo sportello casa

OGNI MARTEDÌ DALLE 19,30 ALLE 21,00Presso centro sociale Askatasuna, Corso Regina Margherita, 47

La crisi è ... di casaQUESTO TESTO È TRATTO DA UN ARTICOLO

DI EMILIANO VICCARO, PUBBLICATO SUL

SETTIMANALE «CARTA» DEL 12-18 MARZO 2010

La chiamano ancora “emergenza casa”, ma nessuno ci crede più. Dalla crisi dei mutui “subprime” al disastro italiano il passo è stato breve: venti anni di politiche liberiste hanno raso al suolo quel che rimaneva delle

politiche pubbliche sulla casa, sia sul fronte degli affitti, sia su quello dell’edilizia popolare. Il cosiddetto piano casa dell’attuale governo si presenta semplicemente come un’operazione di sostegno al settore edilizio, attraverso deroghe ed incentivi che fanno a pezzi le regole urbanistiche. Nel frattempo, in tutto il paese, si è costruito molto, ma tante case sono rimaste vuote. Ora la parola magica - bipartisan - é “housing sociale”, il rimedio sbagliato (regali ai costruttori in cambio di affitti calmierati) a una malattia vera (l’assenza di risposte concrete per i nuovi soggetti precari: ex ceto medio, famiglie monoreddito, migranti, giovani coppie).Negli ultimi mesi è cresciuta in modo drammatico la percentuale di famiglie costrette a lasciare la casa perché non ce la fa più a pagare il canone: ogni anno oltre il 75 % delle sentenze di sfratto e l’85% degli sfratti eseguiti sono riconducibili a morosità.«Le nostre città – spiega David Morettini, del movimento di lotta per la casa (Firenze) – negli ultimi venti anni sono cresciute a dismisura, nonostante la crescita demografica sia pari quasi a zero. Sono state costruite case private che hanno espanso le cinture urbane senza alcun criterio di qualità. Il sistema dei mutui è

crollato davanti alla crisi e ora ci ritroviamo con un patrimonio immobiliare sfitto e vuoto». Per non parlare degli immobili pubblici in dismissione, come le caserme, che potrebbero essere destinate all’“emergenza abitativa”. A Roma, come a Firenze, le giunte comunali spacciano l’housing sociale come risposta alla nuova emergenza abitativa, quella che rimane fuori sia dal mercato immobiliare privato che dalle graduatorie per l’accesso alle case popolari. «Il problema – continua David – è che dietro questa dizione rassicurante c’è una realtà fatta di speculazione e di prezzi poco sociali. A Firenze, gli appartamenti costruiti su terreno precedentemente agricolo saranno messi sul mercato ad un costo “sociale” di circa 700 euro. E questo sarebbe un affitto calmierato? Per una fetta enorme di popolazione – conclude David – la crisi economica si presenta con la faccia feroce di uno sfratto, di un mutuo che non si può più pagare o dell’impossibilità di lasciare la casa dei genitori». Una condizione sempre più diffusa che obbliga tutti i cittadini ad immaginare il diritto all’abitare come fondamento del nuovo welfare, come riappropriazione di una parte di reddito. Urge il rilancio dell’edilizia popolare di qualità, anche attraverso il recupero del patrimonio dismesso. Non nuovo cemento, ma recupero e valorizzazione delle città storiche, mobilità sostenibile, servizi sociali e culturali, tutela del territorio.

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MI SOFFERMERÒ SUL SENSO DI DISAGIO E DI PAURA CHE DIVERSE FONTI CI DESCRIVONO COME LARGAMENTE DIFFUSO TRA AMPI STRATI DELLA NOSTRA SOCIETÀ.

È difficile dire se la criminalità a Torino è veramente aumentata negli ultimi anni. A essere sicuramente aumenta-ti sono la percezione e la paura della

microcriminalità. A crescere è il sentimento di insicurezza, ed è questo sentimento che cerche-rò di analizzare.

L’insicurezza urbana, in quanto paura della microcriminalità, è attualmente il cuore delle preoccupazioni delle persone comuni, al centro dei discorsi da bar e da tram e delle discussioni tra amici.

Così come la centralità dei beni di consumo nelle formazioni discorsive della nostra società è il segno e il frutto del feticismo delle merci, allo stesso modo si intravede nella diffusione di questi discorsi una sorta di feticismo dell’insi-curezza. I sentimenti di paura verso la micro-criminalità che trovano nelle figure dell’altro, dell’immigrato e del tossicodipendente il loro bersaglio principale, sono da questo punto di vista un simbolo, non riconosciuto come tale, reificato, un feticcio, di paure e angosce altre, più ampie e più difficilmente esprimibili.

Il feticismo dell’insicurezza è allo stesso tem-po un feticcio in senso freudiano e marxiano. Un oggetto-appiglio su cui proiettare le pulsio-ni, in questo caso le paure, che non riusciamo a esprimere liberamente, e un simbolo opaco che copre, invece di rappresentare, una realtà sociologica. Quale realtà sociologica, dunque, è mascherata dal feticcio dell’insicurezza urba-na? Quali paure, che non riusciamo a esprimere altrimenti, trovano sfogo nella paura della mi-crocriminalità, degli immigrati, del drogato?

Non è necessario guardare molto lonta-no per trovare una risposta. La nostra stessa esperienza e gli studi di autori come Bauman, Beck e Sennet, ci mostrano che la precarietà economica e lavorativa, e l’insicurezza sociale e culturale che attanagliano le nostre esistenze sono la principale fonte di quell’angoscia che vede nella città una trappola oscura e nel diver-so una minaccia. Con un curioso scivolamento semantico, l’insicurezza sociale ed economica affrontate quotidianamente dalle classi subal-terne e, con tutte le differenze del caso, anche dalle cosiddette classi medie, si tramuta in “in-sicurezza urbana”, nelle minacce portate alle nostre vite e ai nostri beni dalla crescita della delinquenza.

È l’insicurezza economica e sociale dif-

fusa a farci paura, ad alimentare il feticismo dell’insicurezza. Insicurezza economica in-nanzitutto, che nasce dalle difficoltà vissute in un mondo del lavoro sempre meno regolato e comprensibile, sempre più precario e segnato da una corsa al ribasso dei redditi e dei diritti acquisiti. E, strettamente intrecciata a questa, un’insicurezza sociale, che nasce dal crescente isolamento delle persone nella vita quotidiana, e dalla mancanza di punti di riferimento – as-siologici, sociali e identitari – solidi, propria della nostra “modernità liquida”.1 I cittadini si ritrovano soli, isolati nei loro appartamenti e nelle loro villette a schiera, a cercare di far fron-te a una realtà economica in cui è sempre più difficile la stessa riproduzione di classe, sempre minacciata dal rischio di perdita di status. Le due dimensioni, pur distinte, sono strettamen-te associate a formare quell’insicurezza sociale che non trovando veicoli simbolici e politici per essere espresso si trasfigura nella paura per sé e i propri beni, nel timore angosciante di furti, aggressione e scippi, e nella xenofobia.

Lo scivolamento semantico da insicurezza intesa come precarietà economica e lavorativa a insicurezza urbana come conseguenza delle

minacce ai nostri beni da parte della delinquen-za è particolarmente evidente nei discorsi della politica. Se fino a pochi anni fa lottare contro l’insicurezza significava, per tutte le forze po-litiche, dare più diritti ai cittadini, più reddito ai lavoratori e più stato sociale, attualmente la stessa espressione ha assunto un significato molto diverso: lotta alla microcriminalità, alla droga (ovvero ai tossicodipendenti), espulsione dei clandestini, tolleranza zero, ripulire le stra-de! Il feticismo dell’insicurezza delle persone comuni è dunque perfettamente in linea con le trasformazioni della politica contemporanea, con l’abbandono di ogni progetto di migliora-mento sociale.

Il cittadino si trova così solo di fronte a forze incontrollabili e alle loro disastrose con-seguenze: disoccupazione, precarietà, crescita delle disuguaglianze, incertezza per il futuro. Abbandonate a se stesse e non potendo lottare contro queste forze, le persone comuni si rifu-giano nella difesa individuale di sé e delle cose che li circondano e contribuiscono a definire la loro identità sociale, come i propri beni, la casa, il vicinato e il territorio locale, di modo che la delinquenza comune emerge come la minaccia

DEL FETICISMO DELL’INSICUREZZAdi Carlo Capello

docente di Antropologia Politica all’Univesità di Torino

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principale da cui difendersi. Non si può prote-stare contro il Mercato, che per il senso comune è ormai un dato di fatto naturale e immodifi-cabile. Ma si può protestare, anche collettiva-mente, contro tossici e spacciatori, scippatori e prostitute, trovando in queste proteste un mez-zo per scaricare l’ansia generata dall’incertezza per il proprio futuro.

Il complesso feticistico da noi descritto può essere analiticamente scomposto in due par-ti: la paura della microcriminalità e il timore dell’alterità e del diverso, che giunge fino alla xenofobia. La prima è strettamente connessa alla precarietà economica e all’impossibilità di una protesta politica contro di questa; la se-conda ha una connessione più diretta con l’in-sicurezza sociale e il bisogno di comunità, per citare ancora Bauman,2 che ne deriva. Si tratta, beninteso di una scomposizione analitica, così come l’insicurezza sociale è composta di una componente economica e di una più propria-mente sociale, il feticismo dell’insicurezza si caratterizza per entrambe la dimensioni, come dimostrano del resto le paure, le proteste e gli slogan dei nostri concittadini che sovrappon-gono sistematicamente immigrazione e crimi-nalità. La seconda dimensione del complesso feticistico è dunque espressione del bisogno di comunità da parte dei ceti popolari. Magat-ti e De Benedittis in un recente e interessante

volume,3 mostrano, basandosi anche su ampie indagini statistiche sulle diverse realtà italiane, come in reazione alle crescenti difficoltà econo-miche e sociali, i “nuovi ceti popolari”, tendano a dare rinnovato valore alla località e alla co-munità, in senso morale e spaziale. Ma è una comunità largamente immaginaria quella cui si rivolgono per trovare sicurezza, perché non sorretta da pratiche di reciprocità e legami for-ti, riservati all’ambito della famiglia, e perché dotata di scarsi appoggi rituali e simbolici, al di là del territorio condiviso o di un’identità così vaga e contestata da creare più problemi di quanti ne risolva. La figura dell’Altro viene a compensare questa debolezza, divenendo fondamentale per la costruzione di questa co-munità immaginata, attraverso l’opposizione e l’esclusione: la stigmatizzazione dell’alteri-tà serve a marcare i confini e a dar forza a un senso di identità largamente fittizio. L’identità è così ridotta alla contrapposizione noi/altri, che a seconda dei contesti assume diverse sem-bianze: gli immigrati, gli islamici, i delinquenti, i tossicodipendenti.

Fattori complementari rafforzano poi la fun-zione dello straniero in questo processo e la sua posizione all’interno del feticismo dell’insicu-rezza: il diffuso timore e l’incomprensione per la diversità culturale, e il suo ruolo di simbolo delle trasformazioni associate alla globalizza-

zione. Tutto ciò fa sì che gli stranieri in parti-colare diventino il capro espiatorio agognato su cui riversare la paure, le angosce e le frustra-zioni generate da fattori, come la progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro, fattori occultati dalle retoriche della politica e dei mass-media.

Non va dimenticato infatti che il feticismo dell’insicurezza diffuso nel senso comune ri-ceve gran parte della sua forza da un mecca-nismo di conferma circolare, che comprende oltre all’opinione pubblica, i mass-media e la sfera politica, come ha mostrato tra gli altri Marcello Maneri.4 La paura della delinquenza e l’ansia per l’alterità che sorgono sul terreno dell’insicurezza sociale, trovano alimento nel-le cronache dei giornali. Il sensazionalismo di quotidiani di consumo come Torino Cronaca è certamente irraggiungibile, ma la gran parte dei nostri quotidiani e dei TG nazionali hanno notevoli responsabilità nel tener vive la paure della cittadinanza.

E un’analoga responsabilità nell’alimentare il feticismo dell’insicurezza ha la politica. La richiesta feticistica di maggior sicurezza ur-bana, di lotta contro la microcriminalità, di controlli e di polizia è infatti perfettamente in linea con l’ideologia dello stato minimo ormai egemone anche in Italia. Mentre limita al mi-nimo la lotta contro l’insicurezza sociale, lo stato sembra accogliere con favore le richieste di maggior ordine e maggior controllo da parte della popolazione, ben lieto di potersi limitare al ruolo di “guardiano notturno”. La lotta contro la delinquenza comune, contro l’immigrazione clandestina, contro la droga diventa inoltre un paravento dietro cui nascondere il disinteresse a combattere le cause profonde del malessere sociale.

Grazie a questo meccanismo circolare di conferma il feticismo dell’insicurezza divie-ne quasi inattaccabile, i cittadini continuano a concentrare il loro sguardo e i loro timori su presunte minacce immediate ai loro beni e alle loro proprietà, trascurando di affrontare le cause reali dell’insicurezza socioeconomica che investe le loro vite.

Solo una reale politica di contrasto alla pre-carietà economica e al liberismo sfrenato che miri alla certezza del lavoro e alla sicurezza del-le condizioni di vita potrà contribuire a rove-sciare questa situazione, alleviando le angosce quotidiane che alimentano il feticismo dell’in-sicurezza.

Z. Bauman, 1. Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2003.Id., 2. Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari, 2003.M. Magatti, M. De Benedittis, 3. I nuovi ceti popolari, Feltrinelli, Milano, 2006.M. Maneri, 4. “Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discor-si”, in Lo straniero e il nemico, a cura di A. Dal Lago, Costa & Nolan, Genova, 1998.

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UNA DELLE CARATTERISTICHE DELLA VITA URBANA È SENZA DUBBIO LA SERENDIPITY, LA POSSIBILITÀ DI TROVARE QUALCOSA CERCANDO TUTT’ALTRO.

Potremmo chiamarlo semplicemente caso, ma, l’altro giorno, tornando a casa, ho incrociato in via Vanchiglia tre ragazzini marocchini che stavano

parlando tra loro in italiano a proposito della scuola: – Ieri la supplente mi ha fatto i complimenti per come parlo bene l’italiano… E vorrei ben vedere, le ho detto, sono nato qua, come dovrei parlare?!– Anche a me succede sempre la stessa cosa, che poi a scuola sono uno dei più bravi!Un paio di chilometri più in là, in Barriera di Milano, Paolo e Federico, i miei vicini di casa, giocano nel cortile del loro palazzo. Si stanno rivelando il segreto dell’ultimo scherzo fatto a scuola:– Stupido, parla in italiano, così mamma e papà non ci capiscono!

Paolo e Federico sono cinesi. O almeno così li considerano i professori, quando in classe sequestrano loro i soliti bigliettini scritti in quella lingua incomprensibile che è il cinese.

Questi due aneddoti nella loro semplici-tà mi sembrano illustrare bene alcune delle questioni che ruotano intorno alle cosiddette seconde generazioni o per meglio dire, ai figli dell’immigrazione: nelle città italiane vive un numero sem-pre maggiore di giova-ni che, nati per lo più in Italia, socializzati alla lingua e alla cul-tura italiana, per via dell’origine stranie-ra dei loro genito-ri continuano a essere consi-derati im-migrati, e a s u -

bire le conseguenze di tale etichettatura. Allo stesso tempo, ci ricordano che l’iden-

tità e l’appartenenza di questi giovani sono in larga misura performative e strategiche, contestuali e negoziate. Non è possibile dire a priori se essi si sentano italiani o cinesi, italo-marocchini ecc., e forse non è così importante determinarlo. Tanto più che non si tratta di vittime passive di processi di etichettamento, ma di soggetti che attivamente negoziano e in-terpretano identità complesse e appartenenze multiple.

Chi sono le “seconde generazioni”? “I giovani di origine immigrata non esi-

stono”. Questa provocatoria affermazione del sociologo francese Gérard Noiriel introduce una questione sottile eppure fondamentale: è corretto, ed è giusto, categorizzare socialmente dei ragazzi in base al paese di provenienza dei loro genitori? Quante generazioni devono pas-sare affinché un giovane si liberi dello stigma dell’origine della propria famiglia?

L’apparentemente paradossale negazione di Noiriel si riferisce a un contesto, quello fran-cese, in cui una definizione come jeunes issus de l’immigration entra in aperto contrasto con l’automatica acquisizione di cittadinanza ga-rantita a tutti coloro che nascono sul suolo del-la Repubblica. Parlare di seconde generazioni lederebbe dunque il diritto di uguaglianza di tutti i cittadini. Ma questa prospettiva può va-

lere anche per l’Italia, dove, come sappiamo, la questione della cit-

tadinanza e delle pari opportu-nità è molto più complessa?

Seconde generazioni, italiani-con-il-trattino,

figli dell’immigrazione,

nuovi cittadini, minori immigrati, giovani di origine immigrata… le varianti sono molte-plici. Nomi diversi per parlare di persone che oggi più che mai chiedono il diritto di auto-rappresentarsi, e non di essere rappresentati.

Nella maggior parte della letteratura scien-tifica italiana e nel discorso pubblico di chi opera nel settore dell’integrazione pare ormai

INTE(g)RAZIONI: GIOVANI, MIGRAZIONI, CITTÀ

di Francesco ViettiNarratore, animatore interculturale, esperto di “culture della migrazione”

essere consolidata un’interpretazione ampia e comprensiva delle “seconde generazioni”, inte-se come figli di almeno un genitore immigrato, nati tanto all’estero quanto in Italia. Mentre la denominazione “seconde generazioni”, epurata dello scomodo corollario “dell’immigrazione”, si avvia a divenire un marchio (G2) o il nome proprio di specifiche realtà associative e lobbi-stiche (Seconde Generazioni, con la maiusco-la), altre definizioni possono essere tuttavia prese in considerazioni ed utilizzate, di volta in volta, per sottolineare ed evidenziare alcuni aspetti della condizione di vita dei giovani figli degli immigrati.

Italiani-con-il-trattino (afro-italiani, cino-italiani…) rimanda ad esempio alla possibilità che tali giovani possano appartenere a due cul-ture, come attori protagonisti di positive iden-tificazioni molteplici e appartenenze multiple, ma allude anche al rischio che essi possano ritrovarsi sospesi fra due culture, come vittime passive e invisibili di un cono d’ombra che li esclude e li squalifica.

Nuovi cittadini, espressione molto in voga nel discorso pubblico perché percepita come progressista e tout court positiva, ha in effetti il grande merito di utilizzare il termine “cittadi-ni”, ma nasconde l’ipocrisia dell’amara consta-tazione che i giovani in questione molto spesso non sono affatto cittadini (perché sprovvisti di cittadinanza e di tutti i diritti connessi), sebbe-ne spesso non siano neppure nuovi (perché nati in Italia, o residenti da moltissimi anni). Sareb-be forse più corretto allora intendere “cittadini” nel senso di abitanti a pieno titolo di una città, perché in effetti questi giovani sono artefici di una progressiva cittadinizzazione, ossia “di un processo che li porta a essere membri e soggetti della città intesa nella più larga accezione del termine”.

Figli dell’immigrazione, infine, mentre da un lato pare privare questi figli di una legittima e concreta genitorialità ponendoli nella scomo-da posizione di figli di un fenomeno globale piuttosto che di una famiglia reale, dall’altro paradossalmente li libera dal peso di essere appunto “figli di immigrati”, ossia di ritrovarsi in una condizione immutabile ed ascritta e di dover ereditare dai genitori la medesima mar-ginalità e subalternità. La possibilità di emanci-pazione garantita da questa formula può spie-gare perché molti giovani propendano proprio per questa denominazione quando debbano auto-definirsi.

Qualunque definizione o etichetta si scelga di utilizzare, sarà in ogni caso bene tenere a mente una concezione di identità fluida, mute-

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vole, meticcia, che restituisca ai singoli giovani un proprio spazio di libertà e personalità indivi-duale. Con la consapevolezza che sono proprio questi giovani a chiedere a Torino, così come alle altre città italiane, di entrare in una “fase adulta” del processo di integrazione di tutti i suoi cittadini, affrontando i processi migratori non più sul presupposto della provvisorietà, ma su quello della durevolezza.

Barriera di Milano e Vanchiglia-Vanchiglietta: il “caos calmo” delle emiferie torinesi

“Il quartiere Vanchiglia è costituito in gran parte da immigrazione, prima regionale, poi na-zionale, e oggi da altri paesi. Io faccio parte di una famiglia di immigrati originari della provincia di Cuneo, precisamente da Barolo. Negli anni Trenta mio padre si occupava di vino, ma gli affari an-davano molto male. Fu così che tutta la mia fa-miglia decise di trasferirsi a Torino. La mia vita l’ho trascorsa tutta in Vanchiglia e perciò mi sento di appartenere a questo luogo con tutto il cuore.” (Pietro Camerano, ‘L borgh dël fum: storia e me-morie di Vanchiglietta, Graphot, 2001)

Vanchiglia, così come Barriera di Milano, è un spazio cittadino intermedio, sospeso tra il centro e la periferia. Due quartieri disegnati all’inizio del Novecento, nati per rispondere alle esigenze della prima industrializzazione e della prima immigrazione torinese. Potremmo defi-nirli dunque emiferie, territori a pochi passi dal centro, con il timore di poter divenire periferie.

Dopo le migrazioni regionali di un secolo fa, e quelle nazionali degli anni ’50 – ’70, per Bar-riera e Vanchiglia è oggi venuto il momento di confrontarsi con una più ampia sfida, che pone

questi quartieri al centro di una trasformazione dettata da logiche che li trascendono e che ne mettono alla prova la tradizionale permeabilità e flessibilità nei confronti dell’immigrazione.

Da alcuni anni infatti, chi è arrivato a To-rino seguendo le rotte delle migrazioni inter-nazionali e ha vissuto per qualche tempo a Porta Palazzo o San Salvario, si sta spostando gradualmente e progressivamente in altre zone della città. È il cammino silenzioso di chi vuole diventare cittadino, di chi ha figli e famiglia e, seguendo le semplici logiche del mercato, com-pra casa in zone tranquille, dove gli apparta-menti hanno prezzi accessibili e dove vi sono scuole, negozi e servizi a disposizione.

Si tratta dunque di quartieri dove il processo migratorio non ha le caratteristiche di “emer-genzialità”, o di primo approdo di fortuna, ma si presenta invece come il risultato dell’inse-diamento di famiglie migranti alla ricerca di miglioramento delle condizioni abitative e di avvio di progetti permanenti di insediamento nella società ospitante.

Quale luogo migliore dunque per osservare e cercare di capire la vita quotidiana di chi, figlio dell’immigrazione, percepisce la propria presen-za in città come un fatto normale, permanente, e certo non come un’emergenza temporanea?

I dati riguardanti la popolazione comples-siva dei due quartieri mostrano caratteristiche socio-economiche e demografiche simili: alto indice di vecchiaia, basso livello di scolarità, redditi medio-bassi, disoccupazione elevata e notevole densità abitativa. Sono dunque ri-scontrabili i tipici fattori di problematicità della crisi della città fordista. Barriera di Milano e

Vanchiglia-Vanchiglietta sono due ex-barriere operaie che hanno perso la loro tradizionale ra-gion d’essere a causa della scomparsa delle fab-briche stesse per le quali erano nate. Non più circondati da barriere industriali, ma da grandi ed anonimi complessi edilizi, oggi questi due quartieri si trovano nella situazione di dover ospitare nuovi cittadini senza che la loro storia di accoglienza sia sostenuta, come in passato, dalla presenza delle fabbriche, luoghi di impie-go e di socializzazione oggi scomparsi da que-ste porzioni di territorio urbano.

Naturalmente, al di là dei tratti comuni, ciascuno dei due quartieri mantiene le sue caratteristiche e specificità, a partire da quelle urbanistiche.

Vivendo in questi territori appare evidente come la tanto invocata integrazione non sia una proprietà degli individui, ma della società nel suo complesso. Non sono insomma gli im-migrati a doversi dimostrare integrati (e tanto meno le seconde generazioni), ma è il contesto umano, sociale, territoriale di una città a rive-larsi più o meno integrato, in tutte le sue com-ponenti.

Due diversi scenari sono possibili per il fu-turo di Barriera di Milano e Vanchiglia-Van-chiglietta: da una parte la deriva depressiva e la minaccia della rottura della coesione sociale. Dall’altra, la rivitalizzazione dell’area grazie alla nuova linfa dei cittadini stranieri e l’arricchi-mento della complessità culturale e sociale. È facile dunque comprendere come la presenza e il destino delle seconde generazioni possa condurre i due quartieri nell’una o nell’altra direzione.

Gianni, tu che sei un pedagogista “di lungo corso”, come vedi l’attuale situazione della scuola pubblica?

La ministra alla pubblica istruzione ha proceduto a varare una ‘riforma’ che è in realtà solo un ‘pasticcio’ che temporaneamente soddisfa l’economia di chi sta bene ed ha paura di perdere qualcosa. Per

questo motivo calerà il numero di insegnanti, aumenterà il numero di bambini per classe e si farà letame di tutte le sperimentazioni, realizzazioni, riflessioni che a partire dalla fine della guerra insegnanti e pedagogisti hanno portato avanti affinché la scuola (bambini insegnanti e genitori) fosse veramente un tempo-luogo di crescita solidale, aperta

ed inclusiva. Ora rimangono i rimpianti, i lamenti, le dolorose bastonature. Accusare la Gelmini è facile, folcloristico ed addormentante. La ministra è lo strumento, passivo, di una politica ad ampio raggio, del pensiero unico e dominante, del conformismo becero e sterile. Non avrebbe alcun esito, una tale politica, se gli ‘operatori’, quelli, cioè, che posseggono gli strumenti e la cultura professionale senza cui non è possibile realizzare alcunché, avessero coscienza della loro peculiarità, orgoglio, direi, d’essere in prima linea, con i più deboli, i bambini. Un sussulto, una riflessione profonda, l’acquisizione di un’autostima che dobbiamo meritare e che non sarà determinata da nessun ministro, da nessuna riforma, nata negli anonimi e freddi saloni del potere. Non siete soli o lo sarete solo se lo vorrete. Educare significa vivere a 360° ed istruire significa mettersi a disposizione di chi vuole apprendere per veicolare i saperi. Ed i saperi non sono patrimonio di pochi, sono abilità, intelligenze e volontà, sono scelte morali, non indifferenti ai problemi del mondo. Non dimenticate che la scuola ‘pubblica’ è costata fatica, sacrifici, esclusioni. Non vorremmo ritornare alla discriminazione d’un tempo per cui ai deboli tocca lo scarto, l’indigenza mentre agli altri, per mal che vada, le scuole private, i collegi all’estero. Non so come la pensiate, ma ricordate che la Repubblica è nata dalla Resistenza e questa da una grande speranza, di uguaglianza, di mutuo soccorso, di felicità.

Gianni Milano

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O questa nostra gente

che tutto sa di niente,

questa grandeur abbiente

abominevolmente…

O quelli che dai mattoni

edificano le teste,

e con le televisioni, palloni

le idiotizzano in resse…

O questa nuova gente

in ascesa da oscuri

poteri innominati, spuri

dello spreco affluente…

Nei casermoni di Via Stalingrado a Piombino avere quattordici anni è difficile. Lo sanno bene Anna e Francesca, amiche inseparabili che tra quelle case popolari si sono trovate e scelte. Attraverso gli occhi di due ragazzine che diventano

grandi, Silvia Avallone ci racconta un’Italia in cerca d’identità e di voce, apre uno squarcio su un’inedita periferia operaia nel tempo in cui, si dice, la classe operaia non esiste più. Una giovane scrittrice, il ritratto di adolescenti che al massimo possono sperare di trovare il loro nome scritto su una panchina, una descrizione della lotta quotidiana di una parte di questo paese che conta sempre meno. Una grande parte di questo paese che oggi non è più rappresentata né tutelata, a cui sono stati sottratti anche i sogni.Sono questi i motivi che mi fanno ritenere importante questo romanzo, perché oggi più che mai abbiamo bisogno di farci provocare dalla descrizione delle realtà lontane dai riflettori se non per narrare di qualche fatto di cronaca o che, altrimenti, sono sistematicamente ignorate.

Michele Berghelli – Libreria Linea 451 – Via S.Giulia 40/a

Notte privata Gianni D’Elia

(Einaudi, 1993)

l’illustrazione è tratta da un’opera di Gec

www.gec-art.com

versi

versi

Silvia AvalloneACCIAIO

Rizzoli, pp. 358, € 18.

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Partecipa al concorso LINVENTAFAVOLE con una storia scritta da te oppure completando questo fumetto! Aggiungi quante vignette vuoi e poi spediscilo a [email protected] o portalo di persona ogni mercoledì o sabato pomeriggio nel giardino dell’Askatasuna.I vincitori del concorso saranno premiati durante la Festa DiZona il 28 e 29 maggio! Buon divertimento!

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La suina? Una porcheria...

La pandemia colpisce ancora. Ma questa volta non è la minaccia di un contagio globale, anzi: in Piemonte sono finite magicamente le scorte di vaccino esavalente contro poliomielite, difterite, tetano, pertosse, epatite B e meningite da emofilo. Scorte “scomparse” che non hanno permesso che i vaccini venissero somministrati come previsto a diversi bambini arrivati negli ambulatori vaccinali. La responsabilità ricade sull’influenza A-H1N1 sulla quale si è concentrata la produzione della casa farmaceutica che detiene il “monopolio” in Italia per la fornitura del vaccino esavalente. Il risultato è, da una parte, una carenza

insanabile di vaccini contro malattie gravi ed invalidanti, comunemente somministrati a tutti i bambini entro il primo anno di età, e dall’altra un esubero di vaccini (inutili) contro l’influenza A-H1N1, parte dei quali non potranno nemmeno essere restituiti poiché in confezioni non più imballate. La pandemia ha la possibilità di colpirci direttamente in un modo di cui i giornali e le televisioni non ci avevano parlato, occupati com’erano a convincerci della presenza di pericolo incombente ed inevitabile che giustificasse il trasferimento di qualche centinaio di milioni di euro dalle casse statali (le nostre tasche) a quelle di qualche industria farmaceutica.

FALAFEL

Pietanza tipica dei paesi mediorientali (Siria, Palestina, Israele, Giordania ed Egitto)

Ingredienti400 g. di ceci, 1 cipolla tritata, 1 mazzo di prezzemolo tritato, 2 spicchi d’aglio, 2 cucchiaini di cumino, 1 cucchiaino di coriandolo macinato, olio per friggere, pepe un pizzico, sale.

PreparazioneScolare e togliere le bucce ai ceci dopo averli lasciati in ammollo per 24 ore. Trasferire nel frullatore i ceci, la cipolla, l’aglio, il prezzemolo, il coriandolo (semi) macinato, il cumino, un pizzico di pepe e il sale; frullare per 20 secondi fino ad ottenere un impasto fine ed omogeneo.Lasciare riposare in frigo per 1 ora. Con il composto formare quindi, delle polpette medie e dorarle nell’olio bollente, girandole dolcemente, per 4 minuti circa. Quando le polpette sono ben colorite toglietele e asciugatele con la carta assorbente.

PresentazioneI falafel vanno serviti a scelta caldi o freddi su un letto di verdura oppure su del pane tostato con verdure e hummus (salsa a base di pasta di ceci e pasta di sesamo).

ConsiglioQuando non si riesce a formare le polpette perché il composto risulta troppo liquido e non compatto, si può aggiungere un pò di farina.

La ricetta popolare

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25 aprile: “PAREVA DOVESSE SUCCEDERE UN FINIMONDO”In occasione della Festa per la liberazione dall’occupazione nazifascista, letture e cronache sulla Resistenza a cura dei maestri della scuola; a seguire pranzo buffet nel giardino dell’Aska, per i più piccoli giochi, animazione e proiezione del film Cipollino, per tutti il concerto degli Egin.dalle 10,00 alle 12,00 presso la scuola Leone Fontana

27 aprile: STATI GENERALI DEL GAP - 2° incontroper conoscere meglio e approfondire insieme il percorso del Gruppo di Acquisto Popolare di Vanchigliaalle ore 17,00 alla libreria Linea 451, via S. Giulia 40/a

1° maggio dell’OPPOSIZIONE SOCIALE in piazza Vittorio

... e poi le prossime mostre di arte contemporanea di Ars-ka:

LA SOMMA DÀ SEMPRE TRE tre installazioni di Pandemiainaugurazione 7 maggio ore 18,00 (fino al 15 maggio)

ANALOGICHE METAMORFOSI (VARIAZIONI SUL VIDEO)5 video-installazioni interattive di FanniDadainaugurazione 27 maggio ore 18,00 (fino al 4 giugno)

CICADAS (ESERCIZI DI TECNO-TEATRO)di Rudi Punzo e Terri Gambarinrappresentazione 28 maggio (durante la Festa diZona)a

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tiFACCE DA STRANIERO30 anni di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia

FINO AL 18 MAGGIO

al Museo Regionale di Scienze Naturali via Giolitti 36, Torino

tutti i giorni dalle 10 alle 19chiuso il martedì

e segnatevi che il 28 e 29 maggiotorna la... FESTA DIZONA 2010 !!!

CORSI DI PRIMAVERAATTIVIPRESSO IL COMITATO, ALL’ASKA

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per info:www.comitatoquartierevanchiglia.net