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1 TECNICA E SICUREZZA DEI CANTIERI STRADALI DISPENSA N° 2 Anno Accademico 2007/2008 prof. Gaetano BOSURGI ing. Orazio PELLEGRINO

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Materiali costruzione strada

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TECNICA E SICUREZZA DEI CANTIERI STRADALI

DISPENSA N° 2 Anno Accademico 2007/2008

prof. Gaetano BOSURGI ing. Orazio PELLEGRINO

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LE PAVIMENTAZIONI STRADALI: TIPOLOGIE..................................... 3

Le origini: massicciata in macadam.......................................................3 Le pavimentazioni ad elementi............................................................4 Le pavimentazioni flessibili.............................................................6 Le pavimentazioni rigide.................................................................8

I MATERIALI PER LE SOVRASTRUTTURE STRADALI............................... 14 Generalità ............................................................. 14 Gli aggregati lapidei .................................................. 14 Prove per la caratterizzazione degli aggregati ......................... 17

Forma degli aggregati...................................................................18 Idrofilia...............................................................................19 Pulizia dei materiali...................................................................20 Misura dell’equivalente in sabbia (ES)..................................................20 Prova LOS ANGELES.......................................................................21 Gelività................................................................................23 Coefficiente di usura Micro-Deval.......................................................24 Resistenza alla compressione............................................................25 Determinazione del coefficiente di levigabilità accelerata (CLA)........................25 Requisiti di accettazione degli aggregati impiegati nelle pavimentazioni stradali.......28 Impiego negli strati di fondazione e di base............................................31 Strato di fondazione....................................................................34 Strato di base..........................................................................36

I BITUMI ED IL LORO IMPIEGO NEL CAMPO STRADALE........................... 37 Caratteristiche chimiche ............................................... 37 L’utilizzo nel settore stradale ........................................ 38 Le prove sui bitumi .................................................... 39

Penetrazione............................................................................39 Punto di rammollimento PR (metodo palla e anello).......................................41 Indice di penetrazione..................................................................43 Punto di rottura Fraass.................................................................44 Duttilità...............................................................................45 Solubilità in solventi organici.........................................................45 Prove di volatilità.....................................................................46 Densità a 25/25 °C......................................................................47

Caratteristiche dei bitumi puri per uso stradale ....................... 47 I bitumi modificati .................................................... 49 I conglomerati bituminosi .............................................. 52

Il mix design dei conglomerati bituminosi...............................................53 La percentuale di bitume................................................................54 Porosità o percentuale dei vuoti........................................................54 Peso di volume di miscele di aggregati lapidei con bitume...............................55 La prova Marshall.......................................................................56 Prova di rottura a compressione diametrale (trazione indiretta).........................58 Prove di deformabilità a carico costante (creep)........................................60 Prova di spogliamento in acqua di miscele di legante idrocarburico ed aggregati lapidei.61 Resistenza a fatica.....................................................................62 Modalità e finalità di impiego dei conglomerati bituminosi..............................63 Strati di base..........................................................................64 Strati di collegamento (binder).........................................................64 Strati di usura.........................................................................64 Applicazioni speciali con i bitumi modificati...........................................65 Conglomerati bituminosi drenanti- fonoassorbenti........................................66 Trattamenti superficiali................................................................69 Microtappeti a caldo....................................................................71 Microtappeti a freddo...................................................................71 Conglomerati bituminosi per strati di collegamento e usura su ponti e viadotti..........72 Conglomerati bituminosi ad elevate prestazioni meccaniche...............................73

Impianti per la produzione dei conglomerati bituminosi ................. 74 Tipologia degli impianti produttivi.....................................................74 Impianti continui.......................................................................77 Le tecniche di riciclaggio dei conglomerati bituminosi..................................78 Il riciclaggio a caldo in impianto......................................................79 Il riciclaggio a caldo in sito..........................................................81 Il riciclaggio a freddo.................................................................83

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LE PAVIMENTAZIONI STRADALI: TIPOLOGIE In genere le pavimentazioni stradali sono formate da più strati sovrapposti, costituiti da miscele d’aggregati lapidei e di leganti, oppure sono eseguite con battitura del terreno (strade sterrate). Le tecnologie più utilizzate e diffuse, nel passato e ai giorni nostri, nella costruzione del piano viario sono state: pavimentazioni in terra battuta, massicciate in macadam, pavimentazioni ad elementi, flessibili e rigide. Le pavimentazioni in terra battuta sono state utilizzate prevalentemente in tempi remoti quando l’entità dei carichi viaggianti, sia in termini di peso che di numero di passaggi, era piuttosto modesta (carri trainati da buoi o cavalli). Attualmente vengono utilizzate prevalentemente come vie d’accesso ai cantieri. Questo tipo di pavimentazione presenta l’inconveniente di essere particolarmente polverosa e, in caso di pioggia, risulta sostanzialmente impraticabile. Nei prossimi paragrafi verranno trattate in modo più approfondito le altre tipologie di pavimentazioni stradali, partendo da quelle più antiche ormai non più utilizzate, fino ad arrivare a quelle più moderne. Le origini: massicciata in macadam Questo tipo di pavimentazione stradale si sviluppò agli inizi del 1800 per merito dell’inglese Mac Adam, che per primo introdusse una pavimentazione in pietrisco senza alcun tipo di fondazione. La semplicità esecutiva e d’estrazione del materiale, permise una rapida diffusione, sopratutto per strade foranee ed urbane, permettendo di avere strutture piuttosto resistenti all’usura (in funzione del tipo di pietra adottata nella costruzione) e a carichi di media entità. La massicciata classica detta “all’acqua”, utilizzava come elemento portante della pavimentazione pietrisco di calcare o dolomia in pezzatura variabile da 40/60 a 40/71. Questo materiale veniva steso in strati successivi, con la cura di preparare in terreni di bassa portanza, una fondazione in scapoli di cava di spessore non minore di 25 cm; lo strato effettivo della massicciata era di circa 15-20 cm e il tutto veniva poi alloggiato in uno scavo (cassonetto) di spessore pari a quello della struttura medesima. La fondazione era sistemata sul piano del cassonetto costituendo delle guide longitudinali ai margini della strada e sull’asse e delle guide trasversali ogni 15-20 m. Queste erano realizzate in pietre più grosse e meglio squadrate di dimensione minima pari a 20 cm.

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Macadam classico all’acqua

Una volta formati i riquadri era necessario disporre l’eventuale fondazione di scapoli opportunamente incuneati fra di loro e successivamente il pietrisco, che doveva essere opportunamente compattato mediante cilindratura con rulli compressori, al fine di diminuire la densità dei vuoti fra gli elementi. Dopo la cilindratura era in genere necessario intervenire con delle ricariche di pietrisco in pezzatura 25/40 e in percentuale volumetrica non superiore al 10-15%; tale operazione terminava quando gli elementi lapidei si rompevano invece di compattarsi. In quest’operazione era indispensabile mantenere la pavimentazione bagnata per aumentare l’effetto legante dovuto alle polveri di frantumazione e lubrificare il materiale facilitandone la compattazione. Attualmente, non si costruiscono massicciate con la tecnica di Mac Adam, in quanto sono pavimentazioni polverose e piuttosto cedevoli non idonee alla movimentazione degli odierni volumi di traffico. In genere può succedere di imbattersi in lavori di ripristino o adeguamento di massicciate in macadam. Una possibile tecnica è quella del trattamento superficiale, che permette di incrementare la coesione degli strati superficiali, incrementandone la resistenza al taglio e riducendone la polverosità. Indipendentemente dal tipo di trattamento che s’intende utilizzare, è necessario pulire tramite acqua in pressione la superficie della massicciata, al fine di rendere efficiente l’ancoraggio dei materiali di trattamento. L’inconveniente del trattamento superficiale è la limitata durata dell’intervento, a cui si può porre rimedio utilizzando, in caso d’elevati e/o pesanti volumi di traffico, massicciate a penetrazione, in cui il legante è fatto penetrare fra i vuoti del pietrisco per lo spessore dello strato, in modo da collegare tutti gli elementi della struttura. In superficie si applica generalmente uno strato ulteriore detto sigillo. Le pavimentazioni ad elementi Si dicono pavimentazioni ad elementi quelle costituite da blocchi litoidi di varie dimensioni, come i ciottolati, i

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lastricati e i selciati. La differenza tra i diversi tipi consiste nella forma e nelle dimensioni degli elementi. I ciottolati sono formati da elementi più o meno grossi a forma tondeggiante, i lastricati sono invece costituiti da elementi di pietra di forma parallelepipeda con due dimensioni più sviluppate rispetto alla terza (spessore del lastricato), ed i selciati da blocchetti più piccoli. I lastricati costituirono le prime pavimentazioni delle strade militari romane e si diffusero specialmente per le vie urbane del medioevo. Queste hanno un’ottima resistenza all’usura ed una buona durata; per contro risultano molto rumorose e talvolta non confortevoli per i viaggiatori, a causa delle irregolarità che si possono presentare tra gli elementi. I materiali generalmente impiegati sono: il porfido, il basalto, il granito ed i calcari compatti. La parte superficiale, quella a contatto con i pneumatici, deve essere lavorata a punta al fine d’incrementare l’aderenza della ruota. Lo spessore di tali pavimentazioni è di circa 15-18 cm. Nella posa, che avviene su letti di sabbia o di malta di spessore variabile (in funzione della portanza del sottofondo), si deve garantire il parallelismo tra superficie del fondo e dei masselli o lastre. A completamento della posa si provvede talvolta alla sigillatura dei giunti con bitume, in modo da preservare il fondo da dannose infiltrazioni e gli spigoli delle lastre dalla rottura. La posa di una pavimentazione ad elementi piccoli può avvenire o mediante l’accostamento su file parallele d’elementi uguali, soluzione possibile mediante elementi prefabbricati, oppure, come avviene classicamente, con soluzioni architettoniche più efficaci, disponendo gli elementi ad arco ed eliminando così il parallelismo dei giunti.

Schema di posa in opera delle pavimentazioni ad elementi: 1) rivestimento;

2) letto di posa in sabbia; 3) sottofondo; 4) terreno di fondazione L’impianto ad arco consiste nel disporre i cubetti secondo serie continue d’archi di cerchio di raggio assegnato, in modo che due archi contigui abbiano in comune l’elemento d’imposta. La posa in opera avviene disponendo un letto di sabbia, di spessore variabile, nel caso si utilizzino gli elementi in pietra, in quanto presentano altezze tipicamente diverse, di

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spessore costante, nel caso in cui si utilizzino elementi prefabbricati che invece presentano tutti la stessa altezza.

Fasi della posa in opera degli elementi

Le pavimentazioni flessibili Le pavimentazioni flessibili sono formate da più strati sovrapposti: strato di fondazione, di base, di collegamento o binder e usura, realizzati mediante miscele d’aggregati lapidei e di leganti (bitumi), di prestazioni via via crescenti verso lo strato superficiale. L’organizzazione “a strati” delle pavimentazioni flessibili assicura la distribuzione del carico al piano di posa, evitando l’assorbimento degli sforzi mediante lavoro di flessione.

Schema degli strati tipici di una pavimentazione flessibile

Per lo strato di fondazione, in special modo dove la natura dei terreni di sottofondo fa temere possibili plasticizzazioni e cedimenti, si usano strati di terreni granulari d’opportune caratteristiche. Per evitare la risalita d’acqua per capillarità, soprattutto per le strade a grande traffico, si

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procede alla stabilizzazione dello strato di fondazione, mediante costipamento, correzioni del contenuto d’acqua con calce o cemento e/o disposizione di strati di tessuto non tessuto. Per stabilizzazione di un terreno s’intende ogni procedimento, che tende a migliorarne le proprietà meccaniche, sia al fine di aumentare la portanza, che di conferire proprietà d’impermeabilizzazione, coesione e resistenza al gelo che, comunque, si ripercuotono sulla portanza dello strato stesso. Eseguito lo strato di fondazione, si predispone uno strato, detto di base, formato da materiale avente migliori caratteristiche di resistenza di quello sottostante, in particolare deve presentare una buona resistenza nei confronti della flessione indotta dai carichi verticali. Lo strato di base può essere di tre tipi: misto cementato, misto bitumato o terra stabilizzata a bitume. Il misto cementato è lo strato di base di più recente utilizzo ed è stato introdotto nelle pavimentazioni stradali a causa dell’aumento del traffico pesante che comporta un rapido deterioramento delle sovrastrutture flessibili. Strati di base di questo tipo consentono il raggiungimento di migliori condizioni per quelli superficiali, che incrementano la loro resistenza a trazione e a fatica. Gli strati di base cementati sono costituiti da aggregati di frantumazione o naturali, da cemento (3-5% in peso) e acqua (5-7% in peso). Gli strati di base in misto bitumato sono senza dubbio i più diffusi sulle autostrade italiane, presentano spessori variabili da 10 a 15 cm e rappresentano una buona base d’ancoraggio per gli strati superiori. La loro preparazione avviene mediante la miscelazione d’aggregati, rispondenti a percentuali ben precise definite dai capitolati d’appalto, con bitumi. La stesa avviene in strati successivi di 8-11cm compattati mediante rullo compressore. Gli strati di base in terra stabilizzata a bitume sono utilizzati, in particolare, in terreni granulari con percentuali d’acqua minori del 4%, mediante la stesa di bitume (3% in peso). Questo sistema non è molto diffuso in quanto presenta elevati costi d’impianto. Al di sopra dello strato di base, si dispone lo stato superficiale in genere caratterizzato da veri e propri conglomerati bituminosi. Quasi sempre lo strato superficiale è composto da due sottostrati, il più profondo detto binder, è caratterizzato da un conglomerato o da una miscela bituminosa aperta, quello più superficiale detto manto d’usura, è caratterizzato da un conglomerato bituminoso chiuso d’ottima qualità, che permette di avere una buona resistenza al taglio. La differenza tra conglomerati aperti o chiusi è essenzialmente legata alla percentuale d’aggregati di grosse dimensioni; questa percentuale è minore in quelli chiusi

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poiché per ridurre la percentuale di vuoti si usano elementi di piccole dimensioni come sabbia e filler. In particolare si adottano per il binder dei conglomerati aperti con presenza d’elementi di grosso diametro, che rispettano i requisiti d’accettazione tipici degli strati di base, in questo modo questi strati permettono un buon ancoraggio degli strati superiori. I conglomerati semiaperti sono analoghi a quelli aperti, ma presentano una percentuale dei vuoti compresa tra il 5 e il 7% a causa della presenza di frazioni percentuali di filler e graniglia. I conglomerati chiusi, invece, sono costituiti da miscele d’aggregati e filler, tali da garantire una percentuale massima di vuoti minore al 3-5%. Conglomerati di questo tipo sono usati solo per manti d’usura, poiché presentano ottima resistenza alle azioni verticali e mantengono un buon livello d’aderenza. Tra i conglomerati aperti (detti anche a masse aperte) si stanno diffondendo i così detti conglomerati drenanti, ossia quei conglomerati che si lasciano attraversare dall’acqua, che viene poi allontanata dall’infrastruttura per gravità, grazie alla pendenza del manto d’usura. Mediante l’uso di questi conglomerati, la superficie di contatto pneumatico-strada resta asciutta anche sotto pioggia battente garantendo buona aderenza e riducendo drasticamente, sia il rischio d’aquaplaning che il rischio nebbia, in quanto la forte ventilazione che si forma nei dreni, non permette il raggiungimento delle condizioni termo-igrometriche necessarie per questo fenomeno. I manti di questa generazione sono inoltre poco rumorosi, ma per contro la presenza dei vuoti comporta alcuni problemi, tra cui la formazione di ghiaccio nelle zone fredde, in cui, per altro, ne è sconsigliato l’utilizzo, e inconvenienti di manutenzione dovuti al possibile intasamento dei vuoti. Le pavimentazioni rigide Le pavimentazioni rigide sono costituite da lastre di calcestruzzo di cemento, dotate di una forte resistenza al taglio e di discreta resistenza flessionale. Al disotto di questa lastra si usa disporre una fondazione in materiale lapideo non legato o di misto cementato, che consente di garantire un buon funzionamento della lastra nei confronti dell’acqua, che può raggiungere agevolmente la fondazione attraverso i giunti. In questo tipo di pavimentazione, la lastra svolge contemporaneamente i compiti della fondazione e degli strati superficiali, infatti, la maggior parte delle sollecitazioni è sopportata dalla lastra stessa, tanto che per sovrastrutture di questo tipo, piccole variazioni della portanza del piano di posa, hanno poca influenza sul comportamento strutturale e sullo stato di sollecitazione.

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Confronto tra pavimentazioni flessibili e rigide

Grazie all’elevata rigidezza della lastra di calcestruzzo, i carichi veicolari sono distribuiti su un’area di sottofondo più estesa rispetto a quella delle pavimentazioni in conglomerato bituminoso.

Distribuzione dei carichi

Si distinguono diversi tipi di pavimentazioni rigide: • Pavimentazione rigida non armata: è costituita da un

insieme di lastre, prive d’armatura strutturale, tra cui la compartecipazione è realizzata attraverso un sistema di giunti longitudinali e trasversali. I giunti consentono di controllare le deformazioni del calcestruzzo, limitando le sollecitazioni d’origine meccanica, termica ed igrometrica.

• Pavimentazione rigida armata: l’inserimento dell’armatura

consente una piccola riduzione dello spessore e l’aumento della spaziatura tra i giunti. Compito dell’armatura è anche quello di contenere l’apertura delle fessure da ritiro che si formano nella lastra.

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• Pavimentazione rigida ad armatura continua: è costituita da

una lastra continua di calcestruzzo, provvista di un’armatura, anch’essa senza soluzione di continuità, cui è affidato il compito di guidare la formazione di un sistema di fessure uniformemente distribuite, ravvicinate e di piccola ampiezza.

• Pavimentazione precompressa. Negli ultimi è stata molto utilizzata la cosiddetta pavimentazione composita funzionale (PCP), costituita da uno strato in conglomerato bituminoso drenante e fonoassorbente, da una piastra in calcestruzzo ad armatura continua e da una fondazione costituita da uno strato in misto cementato ed uno in misto granulometrico.

Pavimentazione composita polifunzionale

Questa tipologia presenta alcuni vantaggi: • maggiore resistenza strutturale (a fatica); • antisdrucciolevolezza; • riduzione del fenomeno dello spray; • migliore regolarità superficiale; • riduzione del rumore di rotolamento.

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I calcestruzzi per le pavimentazioni sono totalmente diversi da quelli utilizzati per le altre strutture, in quanto essi devono poter sviluppare un’adeguata resistenza meccanica a flessione, devono avere buona lavorabilità, devono avere basso ritiro e ottima qualità superficiale al fine di garantire una superficie viabile regolare e resistente agli urti. La miscela viene confezionata in betoniere, per lo più mobili che avanzano di pari passo con la macchina finitrice in modo che il getto venga effettuato in continuo. Le macchine finitrici hanno il compito di spargere il materiale, livellarlo e costiparlo. Alcune delle macchine più utilizzate sono quelle a casseforme scorrevoli su cui si muove la macchina stessa. Alla macchina finitrice segue la macchina per il taglio dei giunti nel calcestruzzo ancora fresco, in modo da separare le varie lastre.

Treno di betonaggio e macchina a casseformi scorrevoli

Uno degli elementi più importanti delle pavimentazioni in calcestruzzo è il giunto che si realizza tra una lastra e quelle adiacenti; infatti, è impensabile costruire la pavimentazione in un unico blocco, dato che si formerebbero delle fessure causate dalle sollecitazioni interne dovute alle variazioni termiche, al ritiro del calcestruzzo e ai cedimenti differenziali. I giunti hanno, quindi, la funzione di controllare la fessurazione trasversale e longitudinale delle lastre. Il loro buon funzionamento dipende dal corretto dimensionamento, dalla buona esecuzione e manutenzione. I giunti sono praticati sia in senso longitudinale che trasversale, in modo da consentire accorciamenti dovuti a diminuzione di temperatura e al ritiro (giunti di contrazione) e allungamenti dovuti agli incrementi di temperatura (giunti di dilatazione).

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Giunto di costruzione e di dilatazione

I giunti di dilatazione sono presenti trasversalmente in tutti i tipi di pavimentazione (stradale, aeroportuale o di sosta), mentre longitudinalmente sono utilizzati solo nel caso di piste aeroportuali o di grandi piazzali di sosta. Interessano tutto lo spessore della lastra, sono larghi almeno 20 mm e dotati di connettori in grado di consentire il trasferimento delle sollecitazioni di taglio tra le lastre adiacenti (diffusione del carico). Si tende però, ad eliminarli per ridurre gli oneri di manutenzione, infatti, vengono utilizzati solo in corrispondenza delle opere d’arte. I giunti di contrazione sono disposti sia longitudinalmente che trasversalmente, non interessano tutto lo spessore della pavimentazione, ma vengono tagliati nel calcestruzzo parzialmente indurito per una larghezza non superiore a 8 mm con profondità di circa 1/5h; il giunto è completato lungo il restante spessore per mezzo delle lesioni che nascono a causa del punto di debolezza provocato.

Giunto di contrazione

Nel caso di giunti di contrazione non sarebbe necessario utilizzare dispositivi di trasferimento del carico, in quanto la scabrezza delle superfici è in grado di assolvere questa funzione. In senso longitudinale i giunti di contrazione servono a prevenire gli effetti di possibili cedimenti differenziali lasciando libera di ruotare la lastra. Infine esiste un altro tipo di giunto, detto giunto di costruzione, necessario ogni qualvolta si decida di interrompere il getto della pavimentazione; in questo caso si deve disporre una cassaforma in cui si alloggerà un dispositivo di trasferimento del carico verticale tra le due porzioni adiacenti. Questi dispositivi sono indispensabili per

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contrastare le forti concentrazioni di tensioni, che si hanno quando le ruote sono in prossimità della zona di ripresa. La disposizione dei giunti comporta però, l’inconveniente di permettere la filtrazione dell’acqua al di sotto della lastra; nel momento in cui la ruota del veicolo percorre la zona di giunzione, induce uno stato di compressione nello strato non legato che è saturo d’acqua. Questa pressione da un lato tende a spingere il materiale granulare verso valle e dall’altro a farlo uscire dal giunto. Alla fine comporta la risalita dell’acqua con l’uscita del materiale fino. Questo fenomeno denominato pumping, induce alla formazione di zone vuote al disotto della lastra che possono risultare molto dannose. Infatti, la lastra perde il supporto e si ha il cosiddetto fenomeno dello scalinamento, con la formazione di un gradino tra la lastra di monte e quella di valle. Questa è una forma d’ammaloramento grave, in quanto le sollecitazioni che provengono dai veicoli rompono il bordo del giunto, che dovrà essere ripristinato tramite un intervento correttivo molto delicato. Tutte le giunzioni vanno suturate con del mastice di bitume o con materiali applicabili a freddo quali neoprene o polimeri liquidi, per evitare il prematuro consumo dei pneumatici. Poichè la realizzazione di giunti è piuttosto onerosa e complicata, si può in alcuni casi procedere alla stesura di reti d’acciaio (0,25% della sezione lorda totale), la cui funzione è quella di contrastare l’apertura delle lesioni dovute al ritiro e alle variazioni termiche; questa soluzione permette il diradamento dei giunti da 10 m a 25 m. Altrimenti per poter eliminare completamente l’armatura è necessario ricorrere alla precompressione, di cui, però, esistono solo delle tratte di pavimentazione aeroportuale del tutto sperimentali.

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I MATERIALI PER LE SOVRASTRUTTURE STRADALI Generalità Il progetto delle sovrastrutture, siano esse destinate al traffico stradale, ferroviario o aeroportuale, presuppone una conoscenza dettagliata dei materiali da impiegare nella realizzazione degli strati; ciò, sia in fase progettuale per ricorrere a schemi di calcolo e formulazioni il più possibile coerenti con la realtà, che in fase esecutiva, per assicurare scenari che siano rispondenti alle ipotesi teoriche. Nell’ambito della stessa sovrastruttura ai materiali vengono richiesti requisiti e, quindi, prestazioni diverse in funzione della loro dislocazione rispetto alla superficie di rotolamento, ovvero della parte della sovrastruttura direttamente interessata dalle azioni generate dai carichi e dalle condizioni ambientali. In particolare, le prestazioni richieste decrescono via via che ci si allontana dalle zone più superficiali, fino al sottofondo che ne rappresenta il supporto e che deve possedere adeguate caratteristiche di portanza e di resistenza per scongiurare cedimenti eccessivi che possano compromettere la funzionalità dell’intero organismo. Quando ancora la disciplina non si muoveva su rigorose basi scientifiche, la scelta e l’accettazione dei materiali avveniva secondo regole non precise e codificate che, il più delle volte, traevano origine dall’esperienza maturata sul campo. La crescente domanda di mobilità e la conseguente evoluzione del numero e dell’entità dei carichi di traffico, unitamente a clamorosi insuccessi dovuti proprio all’assenza di conoscenze adeguate sull’argomento, hanno stimolato la ricerca, facendo del settore delle sovrastrutture un riferimento fondamentale per l’intera disciplina stradale. Molti sono stati gli studi e i risultati conseguiti, grazie ai quali è stato possibile realizzare le grandi infrastrutture di trasporto oggi presenti nel territorio. Tuttavia, la disciplina è in continua evoluzione per rispondere, da un lato alle nuove esigenze di natura ambientale consistenti nella difficoltà di reperimento di materiali pregiati e con la proposta di materiali e soluzioni alternative parimenti prestazionali; dall’altro per far fronte alle crescenti esigenze di manutenzione del patrimonio infrastrutturale esistente che, come è noto, non sono supportate da adeguati budget economici. Gli aggregati lapidei Gli aggregati lapidei, detti anche inerti, formano lo scheletro di tutti gli strati costituenti la sovrastruttura stradale. Lo studio del loro impiego è soggetto a continui processi di ottimizzazione sia dal punto di vista tecnico che economico,

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per tenere conto delle proprietà che essi hanno sulle prestazioni dell’intera sovrastruttura. Una prima suddivisione distingue gli inerti nelle seguenti categorie: • Terre; • materiali litici di frantumazione; • sottoprodotti dell’industria; • aggregati artificiali prodotti industrialmente; • detriti di risulta delle demolizioni di manufatti edilizi. Con il termine terre si suole indicare quegli inerti di buone caratteristiche meccaniche, di corretto assortimento granulometrico, insensibili all’azione del gelo, che possono essere impiegati nella realizzazione di alcuni strati della sovrastruttura così come si trovano in natura. Nel caso si tratti di terre contenenti apprezzabili quantità di limi e argille, bisognerà procedere ad un trattamento di stabilizzazione (calce o cemento). In genere, gli aggregati naturali sono impiegati, sotto forma di miscele non legate, per gli strati di fondazione. Negli strati superficiali, invece, si possono utilizzare i materiali litici di frantumazione, sotto forma di miscele legate con leganti organici (bitumi) o idraulici (cemento). Essi sono ottenuti da rocce aventi buona resistenza con processi di frantumazione artificiale. I sottoprodotti dell’industria, quali scorie d’altoforno o ceneri volanti (prodotte dalle centrali termoelettriche a carbone), possono essere impiegati in strati non superficiali. Una quarta categoria è costituita dagli aggregati prodotti industrialmente mediante la fusione di rocce o minerali, quali la bauxite. Tali aggregati devono avere notevole durezza, persistente scabrezza superficiale e vantaggi che non sempre sono presenti in altri inerti; pertanto, essi vengono utilizzati per interventi “locali”. L’ultima categoria elencata, detriti di risulta delle demolizioni di manufatti edilizi, è diventata oggetto di interesse generale; basti pensare, infatti, che l’utilizzo di tali materiali risolverebbe e ridurrebbe i prelievi dalle cave e, inoltre, risolverebbe il problema dello smaltimento dei materiali di scarto. Gli aggregati naturali sono suddivisi in: • tondeggianti, aventi cioè superficie a spigoli arrotondati

(ciottolo, ghiaia, ghiaietto, ghiaino, sabbia); • di frantumazione, aventi almeno due facce a spigoli vivi. Mentre i primi sono sempre di origine naturale, i secondi possono essere di origine sia naturale (breccia, breccetta, brecciolino, sabbia) sia artificiale, cioè prodotti in un impianto di frantumazione (pietrisco, pietrischetto,

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graniglia, sabbia). La dimensione del granulo è, convenzionalmente, definita dall’apertura più piccola del setaccio o del crivello attraverso cui viene fatto passare il granulo. Premettendo che in seguito si farà riferimento alle frazioni di un aggregato, cioè all’insieme di granuli le cui dimensioni sono comprese in un determinato intervallo granulometrico, si ritiene opportuno riportare le definizioni che, di queste, fornisce il CNR nel bollettino ufficiale n° 139/92 “Norme per l’accettazione degli aggregati lapidei impiegati nelle sovrastrutture stradali”. Pietra o ciottolo (≥71 mm) Granulo di dimensioni maggiori di 63 mm (71 mm), trattenuto cioè dal setaccio di 63 mm di apertura (o dal crivello di 71 mm di apertura), dotato di spigoli vivi (pietra) o di spigoli tondeggianti (ciottolo). Pietrisco, ghiaia, breccia (25≤d<71) Frazione di aggregato passante al setaccio di 63 mm e trattenuta al setaccio di 20 mm (rispettivamente al crivello di 71 mm e di 25 mm), costituita da elementi provenienti da frantumazione di rocce lapidee (pietrisco), elementi naturali tondeggianti (ghiaia), o naturali a spigoli vivi (breccia). Pietrischetto, ghiaietto, breccetta (10≤d<25) Frazione di aggregato passante al setaccio di 20 mm e trattenuta al setaccio di 8 mm (rispettivamente al crivello di 25 mm e di 10 mm), costituita da elementi provenienti da frantumazione di rocce lapidee (pietrischetto), ovvero da elementi naturali tondeggianti (ghiaietto), o naturali a spigoli vivi (breccetta). Graniglia, ghiaino, brecciolino (2≤d<10) Frazione di aggregato passante al setaccio di 8 mm e trattenuta al setaccio di 2 mm (rispettivamente al crivello di 10 mm e al setaccio di 2 mm), costituita da elementi provenienti da frantumazione di rocce lapidee (graniglia), ovvero da elementi naturali tondeggianti (ghiaino), o naturali a spigolo vivo (brecciolino). Sabbia (0.075≤d<2) Frazione di aggregato passante al setaccio di 2 mm e trattenuta al setaccio di 0,075 mm. Può essere, sabbia naturale o proveniente da frantumazione di rocce lapidee (sabbia di frantumazione). Sabbione (0.075≤d<4) Termine generico improprio, spesso usato per indicare una frazione di aggregato compresa fra 4 e 0,075 mm (5 e 0,075 mm)

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costituita in parte da sabbia (naturale o di frantumazione) e dalla frazione di aggregato inferiore a 4 mm. Filler (d<0.075) Frazione di aggregato avente dimensioni minori di 0,075 mm (passante cioè al setaccio da 0,075 mm di apertura).

Materiali lapidei da frantumazione:

1) pietrisco; 2) pietrischetto); 3) graniglia; 4) sabbia Nelle sovrastrutture stradali questi materiali sono usati in miscele aventi un ben preciso assortimento granulometrico. Tali miscele prendono il nome di Misti Granulari e, secondo le definizioni proposte dal CNR, si distinguono in: • misto granulare naturale - tout venant: miscele di aggregati

provenienti da fiumi o da cave con caratteristiche tali da essere idonee all’impiego senza richiedere alcuna correzione od aggiunta;

• misto granulare corretto granulometricamente: miscela corretta con l’aggiunta o la sottrazione di determinate frazioni granulometriche per migliorarne le proprietà fisico-meccaniche;

• misto granulare di frantumazione: miscela avente una porzione di aggregato frantumato maggiore del 40%.

• misto stabilizzato: miscela granulare trattata con aggiunta di legante al fine di migliorarne le proprietà fisiche e meccaniche, anche in presenza di acqua e di gelo. La quantità di legante sarà quella sufficiente per far assumere alla miscela, stabilmente e durevolmente dopo un adeguato periodo di stagionatura, le proprietà di un materiale solido evidenziabile con prove di trazione e flessione. Nei nostri climi i leganti più usati sono cemento (misto cementato), loppe d’alto forno, bitume (misto bitumato), calce con pozzolana.

Prove per la caratterizzazione degli aggregati I materiali granulari, naturali od artificiali, utilizzati nelle sovrastrutture stradali per la costituzione di strati

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legati o non legati, vengono selezionati e considerati idonei all’uso previa verifica di molteplici requisiti di qualità, riguardanti: • proprietà meccaniche (durezza dell'aggregato grosso e medio,

tenacità); • proprietà fisiche (porosità, imbibizione, rugosità

superficiale); • resistenza all’usura (abradibilità) e alle condizioni

ambientali (cicli di imbibizione ed essiccamento, gelività, agenti aggressivi);

• stabilità nel tempo (durevolezza, inalterabilità chimico - fisica);

• sensibilità all'acqua (plasticità e gelività della parte fina);

• compatibilità con i leganti eventualmente impiegati. Il rispetto dei requisiti di qualità sinteticamente richiamati è necessario al fine di assicurare un buon risultato per la costruzione stradale, ma non è sufficiente. A determinare le qualità funzionali degli strati finiti concorrono, in modo essenziale, le caratteristiche geometriche dei singoli elementi dell'aggregato e la guisa nella quale essi si dispongono reciprocamente. La portanza e la stabilità, infatti, intese in senso lato come capacità di resistere agli sforzi mantenendo una sufficiente integrità ed indeformabilità dello strato, dipendono primariamente, oltre che dalle forze di coesione assicurate da eventuali leganti, dall’esistenza di un elevato attrito interno, derivante da un mutuo contrasto tra elementi vicini. Un conveniente assortimento dimensionale (granulometria) è dunque il requisito che caratterizza le miscele al fine di ottenere in opera, con il costipamento, un buon intasamento dei vuoti ed una ottimale compattezza dell'insieme, con conseguente aumento del numero dei punti di contatto e minore intensità locale delle sollecitazioni. Per granulometria di una miscela naturale di elementi litici, o di un assortimento artificiale, si intende comunemente la distribuzione delle dimensioni degli elementi componenti. Di seguito, sono elencate e descritte una serie di prove e controlli finalizzati all’individuazione delle caratteristiche fisiche e meccaniche di maggior interesse per le pratiche applicazioni, a parte l’analisi granulometrica, di cui si è già detto. Forma degli aggregati Appare interessante il ruolo che la forma degli aggregati esercita sulla resistenza meccanica delle miscele. Quest'ultima infatti varia con il tipo e la quantità di frantumato. La resistenza delle miscele monogranulari è

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certamente influenzata dalla variazione della quantità di frantumato presente nell'aggregato grosso; in particolare, le resistenze meccaniche s'incrementano in presenza di una maggiore percentuale di materiale a spigoli vivi. Il fattore forma, quindi, svolge un ruolo decisivo sulle caratteristiche delle miscele: maggiori quantità di frantumato generano valori più elevati dell’angolo d'attrito interno. Gli aggregati devono avere una forma pressoché poliedrica in modo da garantire nello strato finito, quell'assenza di ponti fra i granuli che creano dei vuoti impropri con conseguenti cedimenti. Infatti, le percentuali di vuoti richieste devono essere ottenute solo con un programmato assortimento granulometrico. Quindi, sia la forma dell'inerte, sia la sua spigolosità sono parametri non trascurabili per l'ottenimento di miscele di sempre più alta stabilità e rugosità. La forma di un elemento è definita da tre dimensioni: la lunghezza L, la larghezza G e lo spessore E. Mentre la larghezza è fornita dall'apertura della maglia del setaccio attraverso cui passa l'elemento, la lunghezza e lo spessore sono definiti dalla distanza minima e massima di due piani paralleli tangenti all'elemento. Le norme CNR n°95 si occupano del problema definendo l’Indice di Forma (If ) e l’Indice di Appiattimento (Ia). Il primo è definito dalla seguente espressione:

1f

0

MI 100

M=

dove M1 è la massa degli elementi che hanno un coefficiente di forma L/E maggiore o uguale a 3 ed Mo è la massa totale degli elementi sottoposti a misura. L’indice di appiattimento è dato, invece, dalla:

Ia =(ΣMg / ΣMf)100 dove Mg è la massa, relativa a ciascuna frazione granulometrica, di elementi che presentano un rapporto G/E>1,58 ed Mf è la massa di ciascuna frazione granulometrica. Idrofilia Gli inerti possono presentare due possibili comportamenti in presenza di acqua: • Idrofilo • Idrofobo Se l’inerte proviene da rocce di natura acida (ad esempio quarziti), ricche di silice libera, l’inerte assume un comportamento idrofilo, ovvero mostra una affinità superficiale per l’acqua maggiore che per il bitume. Se la provenienza è da rocce basiche (calcari) l’inerte

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presenta una elevata affinità per il bitume, anziché per l’acqua: si avrà, pertanto, un comportamento idrofobo del bitume. Il rivestimento degli inerti con legante bituminoso deve produrre forze adesive sufficienti ad impedire il distacco del materiale sia sotto le azioni dei traffico che sotto l'azione dell'acqua. Questo è garantito quando è sicura l'adesione del bitume alle pietre. In sostanza occorre che vi sia buona bagnabilità dell'inerte da parte del bitume e che il legante si trovi in condizione di compatibilità chimica. Al fine di verificare l'adesione degli inerti al bitume, si sono messe a punto prove di idrofilia, che possono essere divise in due gruppi: quelle che definiscono il comportamento dell'aggregato coi film di bitume puro e quelle che portano a una valutazione globale del conglomerato bituminoso in presenza di acqua. Pulizia dei materiali Il controllo della pulizia dei materiali, quello cioè che mira ad escludere la presenza di polvere o addirittura di altre sostanze minerali od organiche, si esegue mediante la misura della perdita per decantazione in acqua secondo quanto definito dalla norma CNR 4/1953. La pulizia degli inerti (granulati e sabbie) è una caratteristica molto importante quando gli inerti stessi debbono essere avvolti con leganti (idrocarburati, idraulici, ecc.) Questo controllo è tipicamente un controllo di accettazione e ha significato soltanto se eseguito sul materiale approvvigionato per la messa in opera. D'altra parte la semplicità di esecuzione di tale prova ne consente il frequente uso in cantiere. In quasi tutti gli impieghi è prevista e desiderabile una frazione di fino ma, naturalmente, si esige la pulizia assoluta degli elementi maggiori, sia per controllare esattamente la percentuale di fino da impiegare, sia per evitare che il fino stesso si trovi aderente ai grani di sabbia o granulato, cioè in posizione non utile ma dannosa. La perdita per decantazione è conseguente a un sommario lavaggio in acqua di una determinata quantità di inerte; la misura è rappresentata dalla perdita in peso, dopo decantazione del fino ed essiccazione dell’inerte pulito. Particolare interesse assume il controllo della pulizia per le sabbie, per le quali può essere utilizzata la misura dell'equivalente in sabbia. Misura dell’equivalente in sabbia (ES) L’equivalente in sabbia è un indice per caratterizzare convenzionalmente la presenza della frazione limo-argillosa di una terra. La norma che descrive la prova è quella CNR n° 27 del 30 marzo

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1972. La prova dell’ES viene eseguita sulla frazione di materiale passante al setaccio n° 4 ASTM (4.75 mm). È buona norma che il materiale da trattare venga mantenuto leggermente umido durante l'operazione di setacciatura per evitare l'eventuale perdita di una porzione delle parti più fini. La frazione trattenuta al setaccio verrà scartata; può però succedere che parte del materiale fino resti ad essa aderente o formi dei grumi non passanti. In questo caso bisognerà innanzitutto disgregare i grumi e si dovrà, quindi, provvedere all'essiccazione degli elementi grossi ricoperti, dopo di che si potrà agevolmente separare la parte sottile per strofinamento con le dita ed aggiungere anch'essa al materiale già preparato. Il materiale cosi ottenuto va poi essiccato a 100-105 °C. Si utilizza, quindi, un cilindro graduato contenente l’inerte fino, lavato con una soluzione di cloruro di calcio anidro, glicerina e formaldeide. Si assoggetta la provetta ad un’agitazione in senso orizzontale per mezzo dell'agitatore meccanico. Questa consiste in 90 cicli effettuati in 30 secondi, con una corsa di cm 20 (per ciclo si intende un movimento completo di andata e ritorno). L'agitazione della provetta può venire effettuata anche manualmente ed, in questo caso, è necessario effettuare periodici controlli in modo da verificare che gli scarti rispetto al valore ottenuto con l'agitazione meccanica siano mantenuti entro limiti accettabili. Esaurita l’operazione di lavaggio e messo a riposo il cilindro in posizione verticale per 20 minuti esatti, gli elementi puliti si depositano sul fondo mentre il fino risale superiormente nella colonna. Si misura poi l’altezza h1 del materiale pulito sedimentato sul fondo e l’altezza h2 (materiale pulito più quello sospeso). Si avrà:

ES = (h1/h2) × 100 È buona norma ricavare il valore dell’ES come media di tre prove. Naturalmente a valori più alti di ES corrispondono materiali più puliti. Prova LOS ANGELES La prova misura convenzionalmente la perdita in peso per abrasione di un aggregato lapideo sottoposto ad una azione di rotolamento ed urto insieme a sfere metalliche in apposito cilindro. Nell’eseguire la prova si dovrà fare riferimento al bollettino ufficiale CNR n° 34 del 28 marzo 1973. L’apparecchio Los Angeles è un cilindro ad asse orizzontale entro il quale si introducono quantità prefissate di miscele granulometriche di inerte. Si introduce anche un certo numero di sfere d'acciaio che, non solo rotolano insieme al materiale ma, per la presenza di un risalto d'arresto nella superficie

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interna del cilindro, sono trascinate in alto e cadono (quindi con effetto d'urto) sul materiale che è in basso. Il cilindro è montato su due perni che ne permettono la rotazione attorno al proprio asse posto in posizione orizzontale ed è mosso da un motore con dispositivo di rinvio che conferisce al cilindro una velocità di 30-33 giri/minuto a pieno carico.

Apparecchio Los Angeles

L'apparecchio è inoltre corredato da un dispositivo automatico per l'interruzione a 500 e a 1000 giri. Ci possono essere due tipi di procedimento a secondo della dimensione degli inerti da testare ed, in particolare, uno per aggregati 19,00/76,20 mm (“aggregati con dimensioni superiori a 19,00 mm”) e l’altro per aggregati 2,38/38,10 mm (“aggregati con dimensioni inferiori a 38,10 mm”). I due procedimenti si differenziano tra loro per il numero di giri del cilindro, per la quantità di materiale da testare e perché, nel primo caso, la prova va eseguita sulla parte di aggregato trattenuto al setaccio da 19,00 mm, mentre nel secondo caso si effettua sul trattenuto al setaccio da 2,38 mm. In entrambi i casi, poi, il materiale va lavato ed essiccato a 105-110 °C fino a peso costante. Il campione di prova va preparato in modo che la sua granulometria ed il suo peso siano conformi a quelle delle diverse classi previste nei due casi (si riporta, come esempio, la tabella relativa alle pezzature inferiori a 38,10 mm) in maniera tale da avvicinarsi il più possibile alla granulometria del materiale di effettivo impiego. Per l’esecuzione nel cilindro vengono introdotti il campione di prova e la corrispondente carica abrasiva. Posto in rotazione il cilindro, esso viene fatto ruotare per 500 giri. Il materiale viene quindi tolto e passato al setaccio da 1,68 mm al quale, per non danneggiare le maglie, è sovrapposto quello da 4,76 mm. Il trattenuto, preventivamente lavato ed essiccato a 105-110 °C fino a peso costante, va pesato con la precisione di 1 g.

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Indicazioni per pezzature inferiori a 38.10 mm

La perdita in peso per abrasione all'apparecchio Los Angeles viene riferita percentualmente al peso iniziale con la relazione:

1 2

1

P PLA(%) 100

P−

= ×

dove: P1 = massa iniziale del campione di prova P2 = massa del trattenuto al setaccio da 1,68 mm dopo la prova (lavato ed essiccato). Il risultato va arrotondato alla mezza unità o all'intero più prossimo. Nel resoconto di prova va indicata la classe o le classi granulometriche relative al risultato stesso. I valori tipici di Los Angeles per i più noti aggregati impiegati nei conglomerati bituminosi sono calcarei/dolomitici 22%-28%; ghiaie 20%-24%; basalti 16%-18%. Gelività Alcune rocce sono sensibili all'azione del gelo in presenza d'acqua, per cui si rendono necessari controlli di gelività sottoponendo l’inerte, previa imbibizione, a cicli ripetuti accelerati di gelo e disgelo, misurando la variazione subita da una proprietà meccanica o dalla granulometria. Questi sono da condurre eventualmente anche sui singoli grani e non soltanto su provini regolarizzati (cubetti). Sarà opportuno, anche, integrare ulteriori controlli sul prodotto nel suo insieme, eseguendo, per esempio, una misura Los Angeles prima e dopo i cicli d'alterazione e precisamente:

GLA LAG 100

LA−

=

con: LAG valore di Los Angeles su provino sottoposto a cicli di gelo e disgelo LA valore di Los Angeles su provino non sottoposto a cicli di gelo e disgelo.

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Coefficiente di usura Micro-Deval Si ricorda che la prova Los Angeles può applicarsi alle pezzature di inerti che vanno da 2,38 a 76,2 mm. Tuttavia essa è tipicamente significativa per le dimensioni degli inerti grossi oltre 19 mm. Per gli inerti più fini è più adatta la prova Micro-Deval. Infatti, questa prova prevede la frazione 4/14 mm, che consente di misurare l'usura per attrito non più sul pietrisco ma sulle pezzature minori effettivamente usate nelle più interessanti miscele stradali. La norma CNR n° 109 del 20 dicembre 1985 definisce il coefficiente Micro-Deval come la percentuale di materiale prodotto dall'azione abrasiva esercitata da sfere d'acciaio in condizioni standardizzate entro l'apparecchio Micro-Deval rappresentato nella figura seguente.

Apparecchio Micro-Deval

La prova può essere eseguita su aggregato asciutto (MDS) o in presenza di acqua (MDU, in questo caso si devono aggiungere nel cilindro 2,5 litri d’acqua); consiste nel far rotolare entro un cilindro in rotazione intorno al proprio asse (12.000 giri) 500 g di materiale, inserendo nel cilindro stesso una quantità di sferette di acciaio di 10 mm di diametro in quantità correlata alla pezzatura in esame secondo le indicazioni riportate in tabella.

Carica abrasiva in relazione alla frazione scelta

Prima della prova bisogna lavare l'aggregato, essiccarlo a 110 °C sino a massa costante, raffreddarlo in essiccatore e setacciarlo sui setacci delimitanti la frazione granulometrica scelta. Il coefficiente Micro-Deval è dato dal rapporto:

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M mMD 100

M−

= ×

dove M è la massa in g del provino prima della prova; m è la massa in g del trattenuto al setaccio da 1,6 mm (setacciatura per via umida) dopo la prova (lavato ed essiccato). Resistenza alla compressione È una normale prova a rottura e si esegue su otto provini. Le norme prescrivono che quattro provini vengano rotti caricandoli normalmente al piano di posa e quattro ortogonalmente a tale piano. Si riportano nella tabella a seguire alcuni valori tipici:

Tipo di Roccia Resistenza(kg/cm2)Granito 1600 – 2400 Basalto 1800 – 3000 Lava basaltica 800 – 1500 Calcare 800 – 1800 Conglomerati 1200 – 2000 Tufi vulcanici 200 – 300 Serpentina 1400 - 2500

Valori tipici di resistenza a compressione Determinazione del coefficiente di levigabilità accelerata (CLA) Con l'emanazione della normativa CNR n° 140 del 15 ottobre 1992, anche in Italia è stata introdotta “La prova per la determinazione del coefficiente di levigabilità accelerata (CLA)”, che rappresenta il valore numerico del risultato di un test di attrito radente effettuato su di un campione di graniglia sottoposto, in laboratorio ed in condizioni ben standardizzate, ad un'azione di traffico simulato, corretto in rapporto al risultato della stessa prova su un materiale di riferimento. In sintesi, il CLA fornisce la misura della resistenza all’usura offerta dalle graniglie (2≤d<10 mm) allorquando esse costituiscono lo scheletro litico degli strati superficiali delle sovrastrutture stradali in conglomerato bituminoso. Tale indice, quindi, deve essere inteso come un coefficiente di accettazione di quei materiali che, con il loro grado di qualità, contribuiscono a fare rallentare l'inevitabile processo di degradazione della caratteristica superficiale delle pavimentazioni stradali, misurata attraverso l'indicatore di stato “rugosità” (di cui si parlerà più avanti). La misura di quest'ultima rappresenta, infatti, un fattore di primaria importanza per definire numericamente quell'aliquota di sicurezza di marcia legata all'aderenza. La prova si suddivide in due fasi: nella prima si sottopongono i provini di graniglia ad un'azione levigante accelerata

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standardizzata, mentre nella seconda si misura il grado di levigazione mediante la prova di attrito radente. Nel bollettino si descrivono le apparecchiature, i materiali specifici necessari, la preparazione dei provini, l'esecuzione della prova e l'espressione dei risultati. La prova in sé non è particolarmente complicata; va, invece, posta molta attenzione al confezionamento dei provini, alla taratura della macchina e all'espressione dei risultati. Nel confezionare i provini per ogni campione di laboratorio sono necessari almeno 3 kg di graniglia di granulometria compresa tra 6,3/10 mm (anche se nominalmente la graniglia va da 2 a 10 mm). Ciascun provino è costituito da uno strato di 35-50 elementi disposti il più possibile accostati con la faccia piatta disposta verso il fondo dello stampo specifico. Gli elementi verranno fissati con della resina o malta di sabbia e cemento. La prova di traffico simulato per la determinazione del CLA è distinta in due diverse sottofasi, all’interno della prima fase, ognuna delle quali ha una durata di circa 3 ore. Nella prima fase i provini, montati su una ruota porta provini, sono sollecitati da una ruota gommata di colore scuro che esplica su di essi una forza di 725 N. In questa fase agisce, per mezzo di un dispositivo distributore, dell'abrasivo grosso in quantità variabile tra 20 e 35 grammi al minuto; l'azione di tale abrasivo è agevolata da una percolazione d'acqua di 30-50 grammi al minuto. La durata di questa prima fase è regolata attraverso un contagiri e il numero di giri che la ruota dovrà compiere. è pari a 57.600; raggiunto tale valore un dispositivo elettrico spegne automaticamente la macchina. Terminata la prima fase occorre pulire i provini con acqua, senza smontarli dalla ruota, fino a quando non vi sarà più traccia dell'abrasivo grosso. Prima di procedere alla seconda sottofase si deve sostituire la ruota gommata e il dispositivo di distribuzione dell'abrasivo. A questo punto si ripete il procedimento come nella prima fase, utilizzando una ruota gommata di colore chiaro che trasmette sempre un carico di 725 N e un materiale abrasivo fine (totalmente passante al setaccio da 0.063 mm).

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Apparecchio di prova CLA

Anche questa seconda fase del processo di levigatura ha una durata di 3 ore circa, equivalente a 57.600 giri della ruota. La quantità di abrasivo fine che bisogna addurre varia tra 2 e 4 grammi al minuto, contemporaneamente si fa percolare una quantità di acqua in ragione di 2-4 grammi al minuto. Terminato il secondo ciclo di levigatura si deve avere cura di lavare i provini, smontarli dalla ruota e testarli. La macchina utilizzata per la prova ha permesso, pertanto, di simulare l'azione del traffico sulla serie di provini da testare. La ruota contiene in tutto 14 provini, 12 di materiale da testare e 2 confezionati con il materiale di riferimento, oltre che da una contro-ruota di gomma di durezza predefinita (pari a RHD 69 ± 3); queste due ruote mantengono costantemente il contatto durante l’esecuzione della prova. La misura del coefficiente di levigabilità accelerata (CLA) è effettuata con l’apparecchio a pendolo (Skid Tester) definito dalla norma CNR n° 105/85. Tale determinazione viene fatta su di un campione di quattro provini, per ognuno dei quali vengono eseguite cinque diverse strisciate (con conseguente letture sulla scala modificata). La zona di contatto tra pattino e provino, durante la strisciata, deve essere di 76 ± 0.5 mm. Per la determinazione

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del CLA si considerano solo le tre strisciate finali. È importante ricordare che tra una strisciata e l’altra si deve sempre bagnare il provino. Per un campione si avranno quindi 12 diverse letture (4 provini × 3 letture ciascuno). Facendo una media aritmetica di tali valori si otterrà un valore di CLA non ancora effettivo. Tale valore, infatti, deve essere confrontato con quello ottenuto per il materiale di riferimento. Ciò è possibile grazie ad una tabella di correzione allegata alla norma. La tabella di correzione si rende necessaria poiché la condizioni della prova non sono univoche; esistono una serie di fattori che possono variare all'interno di intervalli talvolta piuttosto ampi (abrasivo, acqua, etc.). Questo è il motivo principale della esistenza di un materiale di riferimento il cui CLA risulta pari a 0,55. Requisiti di accettazione degli aggregati impiegati nelle pavimentazioni stradali Nel presente paragrafo si è ritenuto utile riportare, dopo avere descritto le principali prove da effettuare sugli aggregati per uso stradale, alcune delle tabelle riassuntive presenti nel bollettino ufficiale del CNR n° 139 del 1992 dal titolo “Criteri e requisiti di accettazione degli aggregati impiegati nelle sovrastrutture stradali”. Le suddette tabelle sintetizzano i valori di accettazione dei materiali in uso comune nel campo stradale differenziandosi al variare dello strato o della tipologia della pavimentazione considerata. Per quanto riguarda i simboli utilizzati nelle seguenti tabelle, i significati sono piuttosto chiari ma, qualora non lo fossero, si rimanda alla consultazione del bollettino CNR prima citato. Solo per la prima tabella si ritiene utile ricordare che per TIPO 1 si intendono quegli aggregati duri e tenaci che conservano pressoché inalterata la loro granulometria a seguito di costipamento (LA ≤ 50), mentre per il TIPO 2 ci si riferisce agli aggregati teneri che si frantumano per effetto del costipamento e assumono una granulometria diversa da quella iniziale (LA > 50).

Strati di fondazione: Requisiti di accettazione degli aggregati per misti

granulari naturali o corretti

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Strati di base: Requisiti di accettazione degli aggregati per misti

granulari naturali o corretti

Strati di base: Requisiti di accettazione degli aggregati per misti

bitumati e conglomerati bituminosi aperti

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Strati di collegamento: Requisiti di accettazione degli aggregati per

conglomerati bituminosi a caldo

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Strati di usura: Requisiti di accettazione degli aggregati per

conglomerati bituminosi a caldo

Strati di usura: Requisiti di accettazione degli aggregati per trattamenti

superficiali e di irruvidimento Impiego negli strati di fondazione e di base Un materiale non legato è un materiale resistente a trazione solo per quella limitata frazione di resistenza attribuibile all’attrito ed al mutuo incastro tra i granuli. Uno strato costituito con questo materiale (opportunamente costipato) è, pertanto, caratterizzato da una bassa rigidezza flessionale e, quindi, da una ridotta capacità di ripartizione dei carichi applicati. Normalmente essi trovano impiego negli strati più profondi

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(fondazione), maggiormente distanti dalla superficie del piano viabile e dalle dirette azioni prodotte dal traffico. Molto frequente è anche il loro uso in strati drenanti, in strati anticapillari e in strati antigelo contribuendo, così, pure alla stabilità complessiva della pavimentazione. Per l’impiego dei misti granulari non legati (MGNL) negli strati di base delle sovrastrutture flessibili occorre prestare qualche cautela. Il loro utilizzo, infatti, è limitato generalmente a sovrastrutture destinate a sopportare un volume di traffico medio – leggero e carichi per asse non elevati. I materiali non legati più usati negli strati di fondazione e, quando consentito, di base, sono i misti granulari naturali formati da miscele di ghiaie e sabbie ed i misti granulari di frantumazione. Le condizioni e le disponibilità locali e le prassi costruttive in vigore nei diversi paesi, portano a una notevolissima diversificazione dei materiali impiegati. Come si può intuire, la differenziazione dei materiali impiegabili è certamente maggiore per la realizzazione degli strati di fondazione in conseguenza della minore entità delle sollecitazioni prodotte dal traffico che si registrano alla profondità di questo strato, mentre nel caso degli strati di base, la scelta si restringe soltanto a materiali più selezionati (normalmente di frantumazione) e di più alta qualità. Tutti i principali MGNL impiegati nelle sovrastrutture stradali sono stati raggruppati nella tabella seguente.

Strato di base Strato di fondazione ghiaia misto granulare naturale

ghiaia con scorie d’altoforno

sabbia

sabbia e ghiaia frantumate

ghiaia

misto granulare di frantumazione

misto granulare con scorie d’altoforno

pietrisco sabbia con scorie d’altoforno

Macadam ghiaia con scorie d’altoforno

sabbia e ghiaia frantumate misto granulare di

frantumazione pietrisco pozzolana

sabbia argillosa conchiglie

detriti Riepilogo dei MGNL per strati di fondazione e di base

Le proprietà e caratteristiche più importanti dei materiali non legati, controllate dalle normative italiane e straniere,

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sono: 1. Aggregato grosso (d > 4 mm); • frantumabilità o durezza (prova Los Angeles CNR 34/73); • resistenza all’usura (prova Micro Deval Umida CNR 109/85); • sensibilità al gelo (prova di gelività CNR 80/80); • dimensione massima (Dmax CNR 23/71); • forma dell’aggregato (CNR 95/84). 2. Aggregato fino (d ≤ 4 mm); • indice di plasticità (IP, CNR UNI 10.014); • limite liquido (LL, CNR UNI 10.014); • equivalente in sabbia (ES, CNR 27/72); • rapporto fra il passante al setaccio 0,075 e al setaccio 0,4

(P0,075/P0,4); • passante al setaccio 0,075 (P0,075 CNR 75/80). 3. Caratteristiche della miscela; • granulometria; • portanza CBR. 4. Caratteristiche della miscela in opera; • grado di costipamento in funzione della densità massima

ottenuta con l’energia di costipamento AASHTO Standard o AASHTO Modificata (CNR 69/78);

• modulo di deformazione (Md, CNR 9/67). Il CNR fornisce due fusi differenti a seconda della dimensione massima degli aggregati, distinguendo il tipo A, con dimensione massima degli elementi uguale a 71 mm (questo è praticamente coincidente con il fuso delle Autostrade), dal tipo B che invece presenta una dimensione massima pari a 30 mm.

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Fuso CNR Dmax 71 mm

Fuso CNR Dmax 30 mm

Strato di fondazione I requisiti di accettazione per gli aggregati da impiegare nello strato di fondazione sono diversi a seconda se si considera l’aggregato grosso, l’aggregato fino o la miscela. Essi dipendono del traffico previsto sulla strada e dalla natura degli aggregati in termini resistenza alla frantumazione. La normativa italiana CNR definisce quattro categorie di traffico: • Leggero L: <450 veicoli commerciali (PTT ≤ 3 t) / giorno per

corsia per senso di marcia. • Medio M: 450÷1.100 veicoli commerciali (PTT ≤ 3 t) / giorno

per corsia per senso di marcia. • Pesante P: 1.100÷3.000 veicoli commerciali (PTT ≤ 3 t) /

giorno per corsia per senso di marcia. • Pesantissimo PP: >3.000 veicoli commerciali (PTT ≤ 3 t) /

giorno per corsia per senso di marcia.

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Tutte le normative consigliano di usare materiali poco sensibili al gelo, con una frazione fina non plastica, con dimensioni massime (Dmax) inferiori alla metà dello spessore h dello strato. Per quanto riguarda la forma dei grani, nelle normative si riscontrano prescrizioni generiche secondo le quali sono da evitare aggregati di forma troppo appiattita senza, però, fissare dei limiti per il coefficiente di appiattimento. Nelle tabelle che seguono sono riportati i requisiti di accettazione per gli aggregati da impiegare nello strato di fondazione riferite, rispettivamente, alle caratteristiche dell’aggregato grosso, di quello fino e della miscela.

Strato di fondazione. Requisiti di accettazione per l’aggregato grosso

dove tipo A e tipo B sono due diversi fusi granulometrici previsti dalla norma CNR UNI 10006; MG e ML indicano, rispettivamente, un misto granulare non legato e un misto granulare con scorie d’altoforno.

Strato di fondazione. Requisiti di accettazione per l’aggregato fino

dove con la sigla NP si è indicato un aggregato non plastico;

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A, B e C indicano tre diversi fusi granulometrici previsti dal Capitolato speciale d’appalto del Ministero dei LL. PP.

Strato di fondazione. Requisiti di accettazione per la miscela

Strato di base Nelle tabelle si riportano i dati riguardanti i requisiti di accettazione per i materiali non legati, da utilizzare negli strati di base delle pavimentazioni flessibili forniti dalle diverse normative italiane. Tali requisiti sono più restrittivi rispetto a quelli richiesti per gli strati di fondazione, in quanto tale strato risente, maggiormente delle azioni indotte dai carichi.

Requisiti di accettazione per l’aggregato grosso

Requisiti di accettazione per l’aggregato fino

Requisiti di accettazione per la miscela

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I BITUMI ED IL LORO IMPIEGO NEL CAMPO STRADALE I leganti idrocarburici, pur essendosi recentemente introdotto il loro uso come impermeabilizzanti nel settore edilizio (copertura di terrazze) ed in quello idraulico (impermeabilizzazione dei canali), mantengono il loro predominio nelle costruzioni delle pavimentazioni stradali. Alla classe dei leganti idrocarburici appartengono i bitumi, ma anche gli asfalti ed i catrami. In particolare, i tre gruppi possono essere classificati come segue, in base alle definizioni fornite dal CNR: • Bitumi: miscele di idrocarburi e loro derivati non

metallici, completamente solubili in solfuro di carbonio (CS2), dotati di capacità legante.

• Asfalti: prodotti ottenuti dalla frantumazione di rocce asfaltiche naturali, cioè impregnate naturalmente di bitume in modo uniforme.

• Catrami: prodotti ottenuti dalla distillazione distruttiva dei combustibili fossili, dotati di capacità leganti.

I bitumi sono materiali solidi o semisolidi, termoplastici, di colore dal nero al bruno scuro che si ritrovano in natura allo stato solido o semisolido oppure sono ottenuti industrialmente dalla raffinazione del petrolio. I bitumi di origine naturale si sono formati nel corso dei millenni per cause geologiche attraverso forme di filtrazione ed evaporazione. Tali prodotti si presentano generalmente puri o in miscela con sostanze minerali. Caratteristiche chimiche Dal punto di vista chimico si distinguono tre famiglie di costituenti che sono definite da differenti processi di separazione: • i carbeni: insolubili nel tetracloruro di carbonio (CCl4),

presenti in quantità molto ridotta; • gli asfalteni: solubili nel tetracloruro di carbonio, ma

insolubili nell'etere di petrolio, rappresentano il corpo viscoso del bitume ovvero la frazione più ricca di macromolecole aventi configurazioni strutturali di tipo aromatico;

• i malteni ed i petroleni: solubili in tutti i citati solventi; i malteni vengono anche chiamati oli e si suddividono in resine, aromatici e saturi mentre i petroleni sono la frazione più leggera che volatilizza dopo 7 ore di permanenza in stufa a 180 °C.

Sostanzialmente il bitume è da intendersi come un sistema colloidale costituito da miscele di idrocarburi ad alto peso molecolare (gli asfalteni) disperse in idrocarburi a minor peso molecolare (i malteni). Questo tipo di schematizzazione è senz’altro più utile

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dell’analisi dei singoli componenti chimici che, comunque, si riportano per completezza di informazione: • Carbonio: 82% ÷ 88% • Idrogeno: 8% ÷ 11% • Zolfo: 0% ÷ 6% • Ossigeno: 1% ÷ 3% • Azoto: 0% ÷ 1% Come si evince dall’analisi dei dati riportati, le percentuali dei vari componenti sono variabili; ciò è dovuto al fatto che l’esatta composizione in percentuale dipende dalla sorgente del greggio e dal processo produttivo.

Schema di impianto per la produzione di bitumi

L’utilizzo nel settore stradale Il bitume è utilizzato come legante per trattenere insieme grani minerali di diversa forma e grandezza. Il mantenimento di questo legame richiede che non vi sia distacco tra la pellicola di bitume e il singolo grano (adesione) e che non vi sia rottura all’interno della pellicola di bitume (coesione). Poiché questo legame deve sussistere sia a basse temperature sia a temperature elevate, bisogna esaminare la consistenza del bitume e la variabilità di questa caratteristica. A temperatura ambiente la consistenza del bitume è quella di un solido o di uno pseudosolido; a temperature elevate si ha un progressivo rammollimento, a temperature basse si ha una fragilizzazione. Gli intervalli di temperatura da ritenere particolarmente interessanti sono quelli di esercizio su strada (all’incirca –15°C ÷ +60°C) e le temperature di confezione e posa in opera delle miscele bituminose (circa 150°C ÷ 165°C). Per classificare i bitumi si ricorre, perciò, all’analisi

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della consistenza del materiale ad una data temperatura o alla determinazione della temperatura alla quale si raggiunge una determinata consistenza. Questi risultati si possono ottenere attraverso prove standardizzate, che consentono misure di penetrazione, determinazioni del punto di rammollimento ad alte temperature e del punto di rottura a temperature basse. In attesa di esaminare in dettaglio tali prove, si anticipa che le norme italiane suddividono i bitumi in base alla penetrazione in otto classi, da quello più duro, di penetrazione 20/30, al più molle di penetrazione 180/200. Le prove sui bitumi La normativa italiana prevede parecchie prove sui bitumi, sulle quali è opportuno premettere alcune considerazioni generali riguardanti le modalità di prelevamento dei campioni e di preparazione dei provini. Le prove sui bitumi, come quelle sulle terre di cui si è trattato nelle pagine precedenti, sono prove tecnologiche, che, pur mettendo in evidenza particolari proprietà fisiche, forniscono valori che devono essere considerati come indici relativi di confronto. Affinché i valori suddetti non siano falsati è opportuno attenersi alle precise prescrizioni delle norme; basta infatti non curare un particolare, che potrebbe sembrare di secondaria importanza, per ottenere determinazioni completamente errate e non paragonabili con altre, svolte da diverso laboratorio o da diverso personale. Di seguito sono descritte le principali prove da effettuare secondo le specifiche dei bollettini ufficiali del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Penetrazione La prova è descritta nel BU CNR n° 24 del 29 dicembre 1971 e serve a caratterizzare convenzionalmente la consistenza di un bitume solido o semisolido, mediante la misura della profondità, espressa in decimillimetri, raggiunta da un ago normalizzato che penetra verticalmente in un provino del bitume in esame, in un dato tempo ed in determinate condizioni di carico e temperatura. Poiché i risultati della prova di penetrazione possono essere inficiati dalle imperfette condizioni degli aghi, questi devono essere controllati periodicamente al microscopio. In ogni caso, dopo l'impiego, gli aghi devono essere puliti, asciugati perfettamente con un panno pulito e conservati in ambiente asciutto. Prima di effettuare una nuova prova, l'operazione di pulitura degli aghi deve essere ripetuta. Per l’esecuzione della prova è necessario disporre di un Penetrometro, che è un apparecchio che permette all'alberino di supporto dell'ago di muoversi verticalmente nella sua guida senza attrito apprezzabile; è, inoltre, dotato di un

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dispositivo atto ad indicare la penetrazione al decimo di millimetro. Il penetrometro può essere anche del tipo con bagno d’acqua termostatico incorporato. Per maggiore chiarezza si illustra nella figura sottostante lo schema dell’apparecchiatura.

Schema dell’apparecchio per la determinazione della penetrazione di un

bitume Per la preparazione dei provini si riscalda il bitume fino a fusione, con ogni precauzione atta ad evitare surriscaldamenti locali. Se il bitume contiene acqua, la si elimina mediante riscaldamento a 110 °C in bagno d'aria, agitando continuamente; questa operazione va compiuta in non più di 15 minuti. Si innalza quindi la temperatura del bitume sino a 80°C ÷ 90°C al di sopra del suo punto dì rammollimento PA (si vedrà successivamente di cosa si tratta), agitando continuamente onde evitare surriscaldamenti locali, finché il materiale sia completamente fluido e privo di bolle d'aria; questa operazione deve compiersi in non più di 30 minuti. Si versa nel contenitore il bitume fuso, fino ad un'altezza di almeno 10 mm maggiore della penetrazione prevista. In tal modo vanno preparati due provini identici, adoperando i contenitori più profondi se è prevista una penetrazione maggiore di 225 dmm, quelli meno profondi in caso contrario. I provini devono essere protetti dalla polvere e lasciati raffreddare a temperatura ambiente di 18-25 °C per 1,5 ÷ 2 ore se sono stati preparati nei contenitori più profondi, 1 ÷ 1,5 ore nel caso dei provini meno profondi. Questi vanno, quindi, immersi nel bagno termostatico mantenuto alla temperatura costante di 25 °C e lasciati in bagno per 1,5 ore ovvero per 1 ora, rispettivamente se sono stati adoperati i contenitori più profondi o quelli meno profondi. A questo punto si abbassa lentamente l'alberino di supporto

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dell'ago, finché la punta di questo arriva a leggero contatto con la superficie del provino nel contenitore, si porta a zero l’indice del penetrometro e si lascia affondare l’ago nel provino per il tempo previsto, quindi si blocca nuovamente l’ago e si legge il valore della penetrazione nell’apposito quadrante. Le condizioni normali di prova prevedono una temperatura di 25 °C, un carico sull’ago di 100 grammi e una durata di penetrazione di 5 secondi. Sul provino in esame vanno effettuate non meno di tre penetrazioni, a distanza di almeno 1 cm una dall’altra e dalla parete del contenitore. La media approssimata all’unità intera è il valore della penetrazione cercato. Questo tipo di prova consente anche la classificazione dei bitumi, come quella riportata nella tabella seguente.

Classificazione dei bitumi in base alla penetrazione

Punto di rammollimento PR (metodo palla e anello) Il punto di rammollimento indica la temperatura alla quale un bitume solido o semisolido, riscaldato progressivamente, raggiunge un determinato grado di consistenza misurato in modo convenzionale mediante un'apposita apparecchiatura. La norma CNR che regolamenta la prova è la n° 35 del 22 novembre 1973. L’esecuzione della prova prevede l’utilizzo di: due sferette di acciaio del peso di 3,50 grammi; due anelli di ottone di dimensioni indicate nella norma; due collarini per il centraggio delle sfere; un supporto per gli anelli; un recipiente di vetro per contenere il tutto. Uno schema dell’apparecchio è rappresentato nella figura sottostante.

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Schema dell’apparecchiatura per la determinazione del punto di

rammollimento PR Per preparare i provini si riscalda il campione di bitume finché sia sufficientemente fluido da poter essere colato e privo di bolle d'aria. Durante questa operazione la massima temperatura raggiunta non deve superare di 100°C il previsto punto di rammollimento. Si scaldano gli anelli a temperatura all'incirca uguale a quella del bitume e si pongono su una lamina metallica amalgamata con mercurio o spalmata con miscela in parti uguali di glicerina e destrina, per evitare che il bitume aderisca. Si riempiono gli anelli col bitume fuso, in modo da farne rimanere un eccesso al di sopra dell'orlo. Si lascia raffreddare per almeno 30 minuti all'aria, quindi si livella il provino asportandone l'eccesso con una lama adeguatamente riscaldata. Si monta l'apparecchiatura con gli anelli in posizione orizzontale, con il termometro appropriato e con i collarini di centraggio sugli anelli. Si riempie il bagno con acqua distillata a temperatura di 5 °C, fino ad una altezza di 50 mm al di sopra della superficie superiore degli anelli. Si immergono le sfere nel bagno e, dopo averlo mantenuto a 5 °C per 15 minuti, usando una pinza si colloca una sfera in ciascun collarino di centraggio. Si riscalda il bagno in modo che la temperatura aumenti con una velocità costante di 5 °C/minuto finché il provino di bitume, rammollitosi, sotto il peso della sfera viene spinto verso il basso. Per ciascun anello si prende nota della temperatura segnata dal termometro nel momento in cui il bitume, che avvolge la sfera, tocca la piastrina sottostante. Per bitumi con punto di rammollimento maggiore di 80 °C si procede nello stesso modo impiegando però glicerina come liquido per il bagno.

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Si indica come punto di rammollimento PR (palla e anello) la media delle temperature registrate nelle due determinazioni contemporanee, arrotondata a 0,50 °C. Indice di penetrazione Noti i valori della penetrazione (PEN) a 25 °C e del punto di rammollimento (PR) palla e anello, è possibile ricavare l’indice di penetrazione, che è un numero convenzionale che serve a classificare il bitume in base alla sua suscettibilità termica. Esso viene ricavato mediante la seguente formula proposta da Pfeiffer e Doormaal:

20 500 aIP

50 a 1−

=+

dove: ( )log 800 log PEN 25 C

aPR 25− °

=−

Il numero 800 rappresenta il valore della penetrazione alla temperatura di rammollimento e si assume uguale per tutti i bitumi. Lo steso indice si può anche ricavare graficamente servendosi del nomogramma di Van der Poel di seguito riportato:

Nomogramma per la determinazione dell’indice di penetrazione

Congiungendo i punti rappresentativi del punto di rammollimento palla e anello e della penetrazione a 25 °C

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determinati nelle rispettive scale del monogramma, si ottiene, all’intersezione con la scala dell’indice di penetrazione, il corrispondente valore di quest’ultimo. I bitumi elastici per usi stradali devono avere indice di penetrazione compreso tra –2 e +2, meglio se fra –1 e +1. Punto di rottura Fraass La prova è normalizzata dal bollettino CNR n° 43 del 6 giugno 1974 e consiste nel determinare la temperatura alla quale un bitume solido o semisolido, raffreddato progressivamente, raggiunge un determinato grado di fragilità misurato in modo convenzionale mediante un apposita apparecchiatura. Il dispositivo in questione è l’apparecchio Fraass, il quale, sostanzialmente, è costituito da un vaso Dewar a doppia parete entro il quale si pone una piastrina di acciaio (20×40 mm e spessore 0,15 mm), su cui si stende a caldo una pellicola di bitume del peso di 0,4 g; si producono, quindi, delle inflessioni alla piastrina mentre contemporaneamente si abbassa la temperatura del vaso con un apposita miscela refrigerante (1 °C/minuto, partendo da almeno 10 °C sopra il previsto punto di rottura). Lo strumento è rappresentato in figura:

Apparecchiatura Fraass con i dispositivi per l’inflessione e per il

raffreddamento delle piastrine bitumate Si registra come punto di rottura, relativo ad una piastrina bitumata, la temperatura alla quale compaiono una o più fessure nel film di bitume di quella piastrina.

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La determinazione deve essere eseguita almeno due volte e si riporta come punto di rottura la media, approssimata all’unità intera, dei valori di due determinazioni che non differiscano per più di 2 °C. Duttilità La duttilità di un bitume è espressa dall’allungamento, in centimetri, che un provino normalizzato può subire prima di rompersi, quando viene sollecitato a trazione in determinate condizioni di prova. La prova è normalizzata dal bollettino CNR n° 44 del 29 ottobre 1974, nel quale vengono descritte le apparecchiature da utilizzare e le procedure da seguire. Lo strumento di prova è il duttilometro, che è in sostanza costituito da una vasca metallica contenente il dispositivo meccanico per l'allungamento del provino con corsa massima di 1500 mm. La vasca è a sua volta contenuta in un contenitore esterno isolato termicamente e percorso da una serpentina di circolazione del fluido di refrigerazione che può essere acqua. I provini vengono preparati versando il bitume fuso a una temperatura superiore di 80 °C a quella del relativo "punto di rammollimento", sulle apposite formelle in dotazione dell'apparecchio. Raggiunta la temperatura costante di 25°C dei provini montati nel dispositivo di allungamento della vasca, si da inizio alla prova di allungamento che avviene a una velocità di 5 cm/minuto. Una prova si considera normale ed il suo risultato accettabile quando il provino di bitume fra le due ganasce, allungandosi ed assottigliandosi fino a formare un punto od un sottile filamento, si rompe senza essere mai venuto a contatto con la superficie o con il fondo del bagno. Si riporta come duttilità la media dei valori delle misure effettuate in tre prove normali, purché la maggiore differenza fra tali valori non superi il 15% della media suddetta. I valori superiori ai cm 100 vanno indicati come “oltre 100”. Solubilità in solventi organici Il bollettino ufficiale CNR n° 48 del 24 febbraio 1975 definisce la solubilità di un bitume in un solvente organico come la percentuale in peso del bitume che risulta solubile in quel solvente. Per l’esecuzione della prova possono essere utilizzati indifferentemente i seguenti solventi organici: Solfuro di carbonio Tetracloruro di carbonio Tricloroetilene (trielina) Il più usato è sicuramente il solfuro di carbonio, che però è anche il più pericoloso. Infatti tutti questi solventi presentano un certo grado di tossicità e pertanto per il loro impiego devono essere osservate le opportune norme di

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sicurezza e deve essere, comunque, predisposta una buona ventilazione. In particolare il solfuro di carbonio è anche estremamente infiammabile ed i suoi vapori si accendono spontaneamente a contatto con una superficie calda. La prova consiste nello sciogliere 1 g di bitume in 100 cm 3 di solvente aggiunto in piccole porzioni; la successiva filtrazione che può avvenire mediante aspirazione. Prove di volatilità Le prove di volatilità hanno lo scopo di determinare la perdita percentuale in peso che subisce il bitume quando viene riscaldato in determinate condizioni di prova. Ne esistono di due tipi: la prima, detta “Perdita per riscaldamento (volatilità)” è normata dal bollettino ufficiale del CNR n° 50 del 17 marzo 1976; la prova consiste essenzialmente nel riscaldamento in stufa di provini di 50 grammi di bitume colati negli stessi recipienti utilizzati per la penetrazione e posti in rotazione (5-6 giri al minuto) onde evitare la formazione di vapori stazionari. La durata della prova è di 5 ore, mentre la temperatura alla quale devono essere sottoposti i provini può essere di 163 °C (per bitumi stradali di penetrazione inferiore o uguale a 80 dmm) o 200 °C (per bitumi stradali di penetrazione superiore a 80 dmm). Al termine delle 5 ore si calcola la media delle perdite percentuali in peso di due provini e si riporta come perdita per riscaldamento (volatilità) il risultato approssimato alla seconda cifra decimale. Questo tipo di prova serve per simulare gli effetti dello stoccaggio del bitume in serbatoio riscaldato. Invece, la “Perdita per riscaldamento (volatilità) in strato sottile”, nota anche con la sigla RTFOT (Rolling Thin Film Oven Test), è descritta nel bollettino ufficiale del CNR n° 54 del 10 marzo 1977 ed è nata per simulare gli effetti del mescolamento a caldo con aggregati lapidei sulle caratteristiche che deve conservare il bitume dopo la muscolazione e la stesa del conglomerato bituminoso. I provini consistono in 35 grammi di materiale da versare in appositi contenitori. Tali provini devono poi essere montati in un piatto girevole (15 giri al minuto) e messi in stufa a 163 °C per la durata di 85 minuti. Si calcola la media delle perdite percentuali in peso di due provini e si riporta come perdita per riscaldamento (volatilità) in strato sottile il risultato approssimato alla seconda cifra decimale. Per entrambe i tipi di prova, più che analizzare la perdita per riscaldamento, risultano di maggiore interesse, le determinazioni della penetrazione, rammollimento, punto di rottura e viscosità effettuate sul residuo, vale a dire su un bitume che ha subito un processo di invecchiamento. Si ricorda che la prova RTFOT è stata assunta dal programma SHRP quale test per la simulazione dell’invecchiamento che il legante

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subisce a breve termine, vale a dire quando subisce il riscaldamento in impianto, durante la muscolazione con l’inerte. Densità a 25/25 °C La prova serve a determinare la densità a 25/25 °C di un bitume ottenuta come rapporto fra la massa di un determinato volume di materiale a 25°C e quella di un ugual volume d’acqua distillata alla stessa temperatura. La descrizione fornita dal bollettino ufficiale CNR n° 67 del 22 maggio 1978, prevede che un picnometro riempito d’acqua e tappato si immerga per almeno 30 minuti nel bagno termostatico a 25°C. Pulita rapidamente la sommità del tappo con una sola passata di un panno asciutto ed asciugata la superficie esterna del picnometro si pesa il tutto (massa B). A questo punto si svuota nuovamente e, dopo averlo ripulito ed asciugato, viene riempito per 3/4 con bitume e lasciato raffreddare per almeno 40 minuti; quindi, viene tappato e pesato (massa C). Infine, si riempie completamente la rimanente parte (quella non occupata dal bitume) del picnometro con acqua distillata e si effettua una ulteriore pesata (massa D). Il valore della densità del bitume a 25/25 °C si calcola con la formula:

(C-A)/[(B-A)-(D-C)] dove: A è la massa del picnometro (con tappo) B è la massa del picnometro (con tappo) riempito d’acqua C è la massa del picnometro (con tappo) parzialmente riempito di bitume D è la massa del picnometro (con tappo) parzialmente riempito di bitume e, per il resto di acqua. Si deve riportare il risultato approssimato alla terza cifra decimale. Caratteristiche dei bitumi puri per uso stradale Per sintetizzare le prove descritte fino adesso al riguardo dei bitumi per uso stradale e per dare un’idea degli ordini di grandezza che si possono incontrare nell’analisi di questo tipo di materiale, si riporta di seguito la tabella riassuntiva delle caratteristiche e proprietà del legante puro proposta dal bollettino CNR n° 68 del 23 maggio 1978:

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Caratteristiche B 40/50 B 50/70 B 80/100 B 130/150 B 180/220 Penetrazione a 25 °C dmm

oltre 40 fino a 50

oltre 50 fino a 70

oltre 80 fino a 100

da 130 fino a 150

da 180 fino a 220

PR °C 51/60 47/56 44/49 40/45 35/42 Punto di rottura Frass max °C

-6 -7 -10 -12 -14

Duttilità a 25 °C min cm

70 80 100 100 100

Solubilità in CS2 min %

99 99 99 99 99

Volatilità max a 163 °C a 200 °C

- 0,5

- 0,5

0,5 -

1 -

1 -

Penetrazione a 25 °C del residuo della prova di volatilità: valore min espresso in % di quello del bitume originario

60

60

60

60

60

Punto di rottura max del residuo della prova di volatilità in °C

-4 -5 -7 -9 -11

% max in peso di paraffina

2,5 2,5 2,5 2,5 2,5

Densità a 25°C da 1,00 a 1,10

da 1,00 a 1,10

da 1,00 a 1,07

da 1,00 a 1.07

da 1,00 a 1,07

Caratteristiche e proprietà dei bitumi puri per usi stradali

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I bitumi modificati II bitume, come si è già evidenziato, è un materiale dalle innumerevoli proprietà, ovvero è un legante efficace, di pronta adesione, di elevata permeabilità, resistente alla maggior parte degli acidi, degli alcali e dei sali. A ciò, bisogna aggiungere il grande pregio di essere solido, o meglio semisolido a temperatura ambiente e di poter essere liquefatto per riscaldamento e quindi messo in opera agevolmente. Questa peculiarità del bitume presenta, tuttavia, un inconveniente: l’elevata deformabilità in esercizio. Tale problema non si può risolvere usando semplicemente bitumi più duri, in quanto essi risultano fragili alle basse temperature. A fronte di tali problematiche, unitamente all’esigenza di ottenere livelli prestazionali più elevati, negli ultimi anni la ricerca nel settore dei bitumi ha portato ad interessanti risultati. In particolare, si è verificata la possibilità di ottenere un cospicuo miglioramento del comportamento reologico dei leganti idrocarburici mediante la modifica dei bitumi normali con l’aggiunta di vari tipi di polimeri di sintesi. La modifica del bitume può essere sia soft (basso tenore di polimero), che hard (percentuale di polimero superiore al 5%). I polimeri sono costituiti da due o più molecole di composti semplici, denominati monomeri. Essi possono essere naturali (gomma, cellulosa), o sintetici. Questi ultimi si differenziano in elastomeri, caratterizzati da un comportamento reologico di tipo elastico (possono avere struttura lineare o radiale) e plastomeri, contraddistinti da un comportamento di tipo viscoso. È dimostrato che il bitume modificato tende a riprodurre il comportamento reologico del suo modificante. In figura si sono voluti schematizzare in maniera generica gli effetti prodotti, dal punto di vista della reologia, dalla modifica del bitume:

Rappresentazione schematica del comportamento reologico dei bitumi

Ovviamente, poi, i diversi tipi di polimeri producono effetti

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differenti sulle caratteristiche del bitume: a parità di sollecitazione, il bitume modificato con plastomero si comporta più rigidamente (meno deformazione) e al rilascio del carico, dopo un repentino recupero della deformazione di tipo elastico, è più plastico, cioè mantiene a tempo indefinito una deformazione residua. Il bitume modificato con elastomero non reticolato è meno rigido durante il carico e, dopo una prima fase, recupera lentamente in quanto è dominante una componente viscoelastica che è influenzata in parte da una elastica-ritardata; il bitume modificato con elastomero reticolato, a fronte di una maggior deformazione iniziale, presenta una spiccata risposta elastico-ritardata per cui è possibile, in tempo relativamente breve, il recupero completo della deformazione. Più in generale, si può notare che l’aumento di consistenza, alla luce delle prove tradizionali come Penetrazione a 25°C, Punto di rammollimento palla-anello, Punto di rottura Fraas, è rilevante. Si assiste infatti: ad un cospicuo innalzamento del punto di rammollimento PA e all’aumento della viscosità, per quanto riguarda le più elevate temperature critiche di esercizio; all’aumento, anche notevole, del valore dell’indice di penetrazione (fino a 40 dmm di differenza); all’abbassamento del punto di rottura Frass. CATEGORIA POLIM. %

INDICATIVA POLIMERO TIPO

CAMPI DI APPLICAZIONE

Bitume di base - - CB Bitume Soft 4 SBSr,SBSl,

EVA CBS

Bitume Hard 4 + 2 SBSr + SIS CBH,CBD,TSC, MT,MAD, MAMT, MAV , MAPCP

Bitume Hard per: Microtappeti a freddo, Riciclaggio in sito a freddo

6 SBSr,SBSl,EVA MTF, CBRF

Bitume Hard per Sigillature, Tamponi, Viadotti, Cavalcavia

8 SBSr, SBSl,EVA, LDPE

S, GT, CBV

Emulsioni bituminose cationiche

- -

MAF

Attivanti chimici funzionali

- -

CBR

Leganti sintetici Resine epossi-amminiche

TSS

Campi di applicazione dei bitumi modificati È evidente, quindi, che la suscettibilità termica diminuisce, mentre si amplia notevolmente il campo di temperature in cui il bitume soddisfa le peculiari esigenze di legante stradale. Per concludere, si riportano le tabelle proposte dal Capitolato Speciale d’Appalto della Autostrade, che riassumono

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gli svariati impieghi che si possono fare dei conglomerati bituminosi confezionati con bitume modificato, al variare del tipo di modificante adoperato e delle percentuali di polimero aggiunte. SIGLA CAMPO DI APPLICAZIONE CB Conglomerati bituminosi normali per strati di base, collegamento ed

usura CBS Conglomerati bituminosi speciali per strati di base, collegamento ed

usura, con bitume a modifica “Soft” CBH Conglomerati bituminosi speciali ad alta resistenza a fatica per

strati di base, collegamento ed usura, con bitume a modifica “Hard” CBR Conglomerati bituminosi contenenti tra il 10% e il 20% di riciclato CBD Conglomerato bituminoso drenante fonoassorbente CBDR Conglomerato bituminoso drenante riciclato CBRF Conglomerato bituminoso riciclato in sito a freddo MT Microtappeti ad elevata rugosità (parzialmente drenanti) TSC Trattamenti superficiali a caldo TSS Trattamenti superficiali con leganti sintetici (tipo ITALGRIP) MTF Microtappeti a freddo (tipo Macro Seal) CBV Conglomerato bituminoso per viadotti S Sigillature GT Giunti a tampone MAD Mano di attacco per CBD MAMT Mano di attacco per MT MAV Mano di attacco per CBV (tra membrana poliuretanica e CBV) MAPCP Mano di attacco per PCP(lastra in calcestruzzo ad armatura continua) MAF Mano di attacco a freddo per conglomerati bituminosi tradizionali

Significato delle sigle relative ai campi di applicazione della tabella precedente

SIGLA POLIMERI E ADDITIVI SBSr Stirene-Butadiene-Stirene a struttura radiale SBSl Stirene-Butadiene-Stirene a struttura lineare SIS Stirene-Isoprene-Stirene EVA Etilene-Vinil-Acetato LDPE Polietilene a bassa densità LS Resine bicomponenti epossi-amminiche ACF Attivanti Chimici Funzionali FM Fibre minerali (vetro)

Significato delle sigle relative ai polimeri della prima tabella

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I conglomerati bituminosi I conglomerati bituminosi a caldo tradizionali sono miscele, dosate a peso o a volume (solitamente a peso), costituite da aggregati lapidei di primo impiego a varia pezzatura come pietrisco, pietrischetto, graniglia, sabbia (completamente di origine di frantumazione o miscelata con sabbia naturale), filler, bitume semisolido ed eventuali additivi. I conglomerati possono essere generalmente distinti in due classi: • conglomerati bituminosi a freddo; • conglomerati bituminosi a caldo. Nel primo caso il legante e l’inerte vengono mescolati a temperature relativamente basse (<70°C); questo tipo di conglomerato viene impiegato in strade secondarie e di scarso traffico. Nel secondo caso, la miscelazione tra legante e inerte, viene effettuata a temperature dell’ordine dei 150-160°C. Se i conglomerati vengono confezionati con bitume modificato, le temperature medie di tutti i processi di lavorazione dovranno essere incrementate. È possibile, inoltre, distinguere i conglomerati bituminosi in: • aperti (percentuale dei vuoti > 10%) • semichiusi (6-10%) • chiusi (3-6%) Le ultime due classi si possono ottenere solo con impasti a caldo. Si ricorda, infine, che il volume dei vuoti a cui si fa riferimento è quello dei vuoti residui, ovvero il rapporto percentuale fra il volume dei vuoti tra gli elementi lapidei, non occupati dal legante idrocarburico ed il volume totale. Le caratteristiche principali che devono avere i conglomerati bituminosi sono la stabilità, la deformabilità, la compattezza, la permeabilità, la rugosità e la resistenza a fatica. • La stabilità è un parametro che dipende dal tipo e dalle

procedure di prova cui si fa riferimento. Tra queste ricordiamo quella a compressione semplice proposta da Duriez, le prove a compressione triassiale, la prova ad estrusione Hubbard-Field, quella allo schiacciamento Marshall e quelle che utilizzano penetrometri a cono.

• La deformabilità si può determinare mediante prove di Creep. Essa dipende dalle caratteristiche reologiche della miscela. Le temperature elevate che si raggiungono nei manti durante il periodo estivo possono esaltare le deformazioni viscose per cui, se la miscela non è stata studiata in modo opportuno (esubero di bitume) si possono formare delle ormaie.

• La compattezza dei conglomerati dipende dal costipamento. Essa si determina attraverso la misura della percentuale dei

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vuoti ossia della porosità del conglomerato. • La permeabilità delle miscele bituminose rappresenta

l’attitudine di queste ad essere attraversate dall’acqua. Poiché il bitume è impermeabile e ricopre tutti i granuli di inerte i manti di conglomerato bituminoso dovrebbero essere impermeabili. Aggiungendo al bitume alcuni specifici polimeri è, però, possibile realizzare dei manti drenanti.

• La rugosità che offre la superficie di un manto in conglomerato bituminoso deve sempre essere elevata. Essa è funzione della scabrezza specifica, cioè del numero di asperità per unità di superficie. Ciò che conferisce elevata aderenza ai manti è la resistenza all’usura dell’inerte che deve allora essere di eccellente qualità (coefficiente Los Angeles ≤ 20).

• La resistenza a fatica è una caratteristica cui si conferisce sempre maggiore importanza per i conglomerati da usare per strati superficiali sollecitati da traffico pesante elevato. Gli sviluppi recenti del calcolo di sovrastrutture stradali sono orientati verso una idonea caratterizzazione delle proprietà di resistenza a fatica dei materiali utilizzati negli strati superficiali.

Il mix design dei conglomerati bituminosi La conoscenza delle caratteristiche degli aggregati e del bitume rappresenta un punto di partenza essenziale per il confezionamento di una miscela. Tuttavia, le prestazioni in esercizio dei conglomerati bituminosi sono fortemente influenzate dalla loro composizione che presenta delle peculiarità a causa delle caratteristiche reologiche dei leganti idrocarburici rispetto, ad esempio, ai leganti idraulici (cemento). A tal riguardo, un ruolo fondamentale viene rivestito, in particolare, da: • dosaggio e tipo di legante (per il bitume); • granulometria, spigolosità, forma, % di filler (per gli aggregati); • percentuale dei vuoti o porosità. La procedura di ottimizzazione e di controllo di tali caratteristiche, nota con il nome di mix design, consente di pervenire alla realizzazione di miscele prestazionali dal punto di vista strutturale e, nello stesso tempo, compatibili con le esigenze costruttive. La scelta granulometrica degli inerti e la quantità di bitume sono molto importanti per la formazione di un conglomerato bituminoso. Questo, dopo il costipamento, non deve presentare eccessivi vuoti, altrimenti risulterebbe deformabile sotto l’azione del traffico. D’altra parte, un’occlusione completa dei vuoti, mediante un assortimento granulometrico opportuno, ridurrebbe la flessibilità e l’elasticità del manto.

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Per gli strati superficiali è richiesta un’ossatura litica la più compatta possibile (elevata densità o peso apparente). A tale scopo, nel caso in cui con i soli inerti si ottenga una bassa densità, può essere necessario aggiungere una quantità di legante bituminoso superiore a quella strettamente necessaria per rivestire i granuli con pellicole sottili. Aumentando però lo spessore delle pellicole di legante si riduce la resistenza meccanica alla deformazione. Se la granulometria degli inerti è studiata correttamente, il volume dei vuoti residui, dopo idoneo costipamento, può essere inferiore al 4÷5% del volume del conglomerato (porosità). Nei conglomerati ricchi di filler (maggiore del 6%) si arriva a percentuali dei vuoti del 2÷3%. La percentuale di bitume La percentuale di bitume deve essere tale da potere avvolgere tutti i grani litici con una pellicola di legante di opportuno spessore (da 5 a 12 micron). Più le pellicole sono sottili più il conglomerato risulta rigido e resistente meccanicamente. La percentuale di bitume da adottare può essere scelta in funzione della percentuale dei vuoti residui relativa alla miscela di soli inerti dopo costipamento. Un altro criterio consiste nell’assegnare la quantità di bitume in rapporto alla superficie degli inerti (per dato volume apparente) che compongono la miscela. In base alla superficie specifica di una miscela di aggregati (in m2/Kg oppure in m2/daN), sono state calcolate diverse formule che forniscono la percentuale di legante bituminoso riferita, in peso, all’inerte considerato pari a 100. Per conglomerati ai quali si vuole dare la massima resistenza si può adottare la relazione:

5b 3,75= ⋅ Σ dove b è la percentuale di bitume e Σ la superficie specifica degli inerti. Per conglomerati più plastici si può usare la relazione:

5b 4= ⋅ Σ Per determinare approssimativamente la superficie specifica Σ (in m2/Kg) degli inerti, i cui elementi hanno dimensioni comprese tra d e D (in mm), si può usare la relazione:

2,3d D

Σ =×

Per la determinazione della quantità di bitume necessaria, l’elemento principale è rappresentato dal filler, per via della sua elevata superficie specifica. Porosità o percentuale dei vuoti Per quanto detto in precedenza questo tipo di determinazione assume particolare importanza nella caratterizzazione delle miscele bituminose.

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La norma CNR n° 39 del 23 marzo 1973 definisce porosità o percentuale dei vuoti di una miscela di aggregati lapidei con bitume o catrame il rapporto percentuale fra il volume dei vuoti intergranulari occupati da aria ed il volume totale della miscela. Per il calcolo della percentuale dei vuoti occorre avere preventivamente determinato:

• Il peso di volume della miscela, calcolato secondo quanto indicato nella norma CNR n° 40.

• La percentuale di legante della miscela, determinata come descritto nella norma CNR n° 38.

• Il peso specifico del legante, che in prima approssimazione si può assumere pari a 1,02÷1,04.

• Il peso specifico dei granuli dell'aggregato, che è possibile determinare indifferentemente con le norme CNR n° 63 o n° 64, basta specificare quale si adotta (i valori che si ottengono con l’uno o l’altro metodo danno in genere differenze trascurabili).

La percentuale dei vuoti è, allora, data dalla formula:

c c

b a

b 100 bv 100

⎛ ⎞−= − γ +⎜ ⎟γ γ⎝ ⎠

dove: v è la percentuale dei vuoti γ è il peso di volume della miscela bc è la percentuale di legante riferita al peso della miscela γb è il peso specifico del legante γa è il peso specifico dei granuli dell'aggregato Il risultato va arrotondato alla mezza unità o all'intero più prossimo. Peso di volume di miscele di aggregati lapidei con bitume La determinazione del peso di volume di una miscela di aggregati lapidei con bitume è definita, nel bollettino CNR n° 40 del 30 marzo 1973, come il peso dell’unità di volume della miscela asciutta. Il metodo sfrutta il principio di Archimede. In poche parole, si calcola il volume cercato pesando dapprima il campione asciutto e poi immerso in acqua. La differenza tra i pesi permette il calcolo dell’acqua spostata che può essere convertita in volume conoscendo il peso specifico dell’acqua (1 ad una temperatura di 23°C). Il volume, espresso in dm3, viene misurato mediante pesata in acqua, dopo aver impermeabilizzato il provino con paraffina e sarà dato dalla seguente espressione:

2 3 pV P P V= − − dove: Vp (in dm3) è il volume della paraffina dato da:

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2 1p

p

P PV

−=

γ.

P1 è il peso a temperatura ambiente del conglomerato essiccato in kg. P2 è il peso in aria a temperatura ambiente del provino paraffinato in kg. P3 è il peso in acqua del provino paraffinato in kg. γp è il peso di volume della paraffina in kg/dm3 (in genere è compreso tra 0,89 e 0,90 kg/dm3). Infine il peso di volume del conglomerato in kg/dm3 sarà dato da:

1PV

γ =

dove: P1 è il peso in aria del conglomerato dopo essiccazione in kg. V è il volume del conglomerato calcolato in precedenza. Il risultato va poi espresso approssimandolo alla seconda cifra decimale. Il metodo sfrutta il principio di Archimede. In poche parole, si calcola il volume cercato pesando dapprima il campione asciutto e poi immerso in acqua. La differenza tra i pesi permette il calcolo dell’acqua spostata che può essere convertita in volume conoscendo il peso specifico dell’acqua (1 ad una temperatura di 23°C). La prova Marshall Il bollettino ufficiale CNR n° 30 del 15 marzo 1973 “Determinazione della stabilità e dello scorrimento di miscele di bitume e inerti lapidei a mezzo dell’apparecchio Marshall” fornisce una descrizione della prova; essa consente di misurare convenzionalmente le proprietà meccaniche (stabilità e scorrimento) di miscele bituminose confezionate a caldo con bitumi solidi o semisolidi ed aggregati lapidei tutti passanti al crivello UNI 2234 o al setaccio da 25,4 mm (1 pollice), sottoponendo a rottura, in condizioni di prova standardizzate, provini cilindrici del diametro di 101,6 mm (4 pollici). La rottura avviene a seguito di un carico applicato attraverso due ganasce in direzione normale all’asse dei provini. Il carico massimo raggiunto durante la prova fornisce il valore della stabilità (espressa in N) mentre la relativa deformazione misura lo scorrimento (espresso in mm). In figura è rappresentata l’apparecchiatura di prova.

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Schema apparecchiatura Marshall

La prova Marshall è impiegata per il controllo della qualità del conglomerato durante la stesa. Inoltre serve a determinare la quantità di bitume da aggiungere ad una data miscela di inerti (mix design). Eseguendo il test su vari provini, confezionati con diverse quantità di bitume, si ottiene, infatti, una curva sforzi-percentuale di bitume a campana: il massimo si ha in corrispondenza della quantità ottima di bitume. Essenziale per l’esecuzione della prova è il rispetto delle indicazioni previste dalla norma per la preparazione dei provini, in quanto piccole variazioni possono produrre notevoli differenze sui risultati finali. Si comincia col preparare gli aggregati secondo la granulometria scelta, essiccandoli alla temperatura di 105-110°C fino a peso costante ed eliminando, mediante setacciatura a secco, il materiale trattenuto al crivello 30 UNI 2234 o al setaccio da 25,4 mm. Le temperature di mescolamento del bitume e degli aggregati e di costipamento dell'impasto devono essere quelle indicate in tabella:

Temperature di mescolamento e di costipamento per la preparazione dei

provini Marshall Per ogni percentuale di bitume si preparano tre provini. Le

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percentuali si scelgono prima in difetto e poi in eccesso rispetto a quella calcolata con la relazione che tiene conto della superficie specifica degli inerti, in modo da essere praticamente sicuri di ottenere una curva a campana che permette di individuare facilmente il massimo. I provini (diametro 101,6 mm e altezza 63,5 mm), sono preparati alla temperatura di circa 125°C e costipati con 50 colpi di pestello su ciascuna delle due basi. Per manti che devono sopportare un traffico elevato i colpi saranno 75. Ultimato il costipamento vengono raffreddati in acqua e poi posti in una vasca termostatica a 60°C per 30 minuti. Subito dopo, vengono sottoposti a prova di schiacciamento con una velocità di due pollici al minuto (5,08 cm/minuto). Per stabilità Marshall del campione si assume il massimo valore del carico registrato; la deformazione del campione misurata con un comparatore indica, invece, il valore dello scorrimento. La curva di stabilità ottenuta dalla prova Marshall è riportata in figura, dove quella tratteggiata indica gli scorrimenti.

Curva di stabilità Marshall

Il valore della percentuale di bitume per cui la stabilità è massima si assume come percentuale ottima. Occorre sempre controllare che lo scorrimento si mantenga entro limiti accettabili. Se ciò non si verifica significa che la composizione granulometria dell’inerte non è idonea. Prova di rottura a compressione diametrale (trazione indiretta) Le azioni cui sono sottoposte le sovrastrutture stradali agiscono sia in direzione verticale che orizzontale: le prime dovute soprattutto al peso dei veicoli, le seconde conseguenti al moto o alle variazioni di velocità del veicolo stesso o, ancora, alle azioni trasversali prodotte dall’accelerazione

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centrifuga durante il moto in curva. Anche i fenomeni di ritiro del conglomerato, causati dal raffreddamento, generano sollecitazioni di trazione. Di conseguenza, è necessario caratterizzare le miscele anche in relazione alla loro resistenza a trazione. Il bollettino CNR n° 134 del 19 dicembre 1991 descrive e normalizza la relativa prova che consente di misurare la resistenza a trazione indiretta. In questo test alcuni provini cilindrici di conglomerato bituminoso sono disposti con le generatrici diametralmente opposte fra due piatti paralleli su cui si esercita, attraverso un martinetto, una pressione crescente fino a rottura che, di solito, avviene lungo il piano verticale passante per le due generatrici.

Direzioni di carico

La procedura di preparazione dei provini è la stessa di quella seguita per la prova Marshall (ma possono avere dimensioni anche diverse) e si può adottare la stessa velocità di schiacciamento. Si devono poter misurare le deformazioni del provino sia lungo l’asse verticale (schiacciamento) sia su quello orizzontale (dilatazione). Si applica quindi il carico, funzione della temperatura di prova, fino a raggiungere il valore di rottura e, bloccato lo strumento, si possono leggere i valori del carico di rottura e della deformazione. Noti questi valori, la resistenza a trazione indiretta (Rt) si calcola con la seguente formula :

t

2 PR

D h×

=π × ×

dove: P è il carico a rottura (daN); D è il diametro medio del provino (cm); h è l’altezza del provino La prova è richiesta da molti capitolati in quanto, oltre a

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caratterizzare il conglomerato per questo tipo di resistenza, fornisce indicazioni sulla capacità di tenuta del conglomerato in termini di adesione tra legante ed aggregato in presenza di acqua, subendo i provini una prolungata immersione in acqua. Il notevole vantaggio della prova a rottura alla compressione diametrale è dovuto alla possibilità di un controllo dopo la stesa anche con provini prelevati direttamente dal manto steso senza preoccuparsi delle altezze H. Un ulteriore controllo della buona esecuzione di un conglomerato steso e compattato, può essere svolto mediante la determinazione della percentuale di vuoti residui (porosità) e della densità (massa volumica) rilevabile in un campione indisturbato prelevato dal manto. Questi valori sono confrontati con quelli corrispondenti al massimo di stabilità ottenuti insieme alle prove di rottura svolte nella fase di studio della miscela. Prove di deformabilità a carico costante (creep) Uno degli aspetti più rilevanti della risposta del conglomerato bituminoso all’azione dei carichi esterni è il suo comportamento viscoelastico dovuto alle caratteristiche intrinseche dei suoi componenti, principalmente il bitume ed alla sua stessa struttura di aggregazione. Lo scopo della prova ,descritta nel bollettino del CNR n° 106 del 10 aprile 1985, è quello di procedere al tracciamento del diagramma di deformazione in funzione del tempo ed eventualmente determinare alcuni parametri delle miscele bituminose nel campo della viscoelasticità lineare. Si definisce deformabilità (creep) a tensione costante di una miscela bituminosa la deformazione unitaria che subisce nel tempo un provino del materiale sottoposto ad una tensione normale costante di compressione o di trazione in condizioni prefissate costanti di temperatura. Tale deformabilità può essere descritta mediante la variazione della deformazione in funzione del tempo (funzione di creep):

0

(t)J(t)

ε=

σ

dove ε(t) è la deformazione unitaria in funzione del tempo e σ0 la tensione costante applicata, espressa in daN/cm2 (0,98 kg/cm2). I provini devono essere cilindrici e rispettare la relazione h≥1,5 d e vengono preparati prendendo come riferimento la massa volumica apparente del provini Marshall. La scelta delle condizioni di prova (carico e tempo di applicazione) dipende dal campo di temperatura e deformazione che si vuole analizzare. Nel bollettino si possono leggere le indicazioni per rimanere nel campo della viscoelasticità lineare.

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Curva di deformazione

Al termine della prova si può disporre di una serie di valori di ε in funzione del tempo, per la temperatura di prova prefissata, che potranno essere diagrammati onde tracciare la funzione σ(t) sotto carico e allo scarico. Si vede chiaramente come il punto A rappresenti la fine della deformazione elastica, mentre fino al punto B si è in fase di carico; successivamente si ha la fase di restituzione elastica (ε elastica, fino al punto C) e la fine della fase di scarico (punto E) che permette di leggere la deformazione permanente. Prova di spogliamento in acqua di miscele di legante idrocarburico ed aggregati lapidei Il riferimento normativo è il bollettino CNR n° 138 del 15 ottobre 1992 e serve a definire l'attitudine dell'aggregato a legarsi in modo stabile al legante del tipo che verrà impiegato in opera. Il metodo consente infatti di valutare l'affinità degli aggregati lapidei con il legante e, in particolare, l'idoneità di un aggregato ad essere usato in trattamenti superficiali, mettendo in evidenza anche il beneficio di un eventuale impiego di prodotti attivanti l’adesione nel caso di aggregati idrofili. Essendo un fenomeno molto complesso, legato alla attività superficiale che si esercita all'interfaccia fra l'aggregato ed il legante e che dipende da numerosi fattori quali: natura mineralogica dell'aggregato, sue condizioni superficiali, natura e viscosità del legante, temperatura dell’acqua, ecc., conviene fare riferimento ad una prova che tenga conto dell'insieme di questi fattori, operando sull'aggregato, sul legante e sulle miscele nelle pezzature e nei dosaggi effettivamente impiegati in opera. Si definisce spogliamento di una miscela di legante idrocarburico ed aggregati lapidei in presenza di acqua il distacco della pellicola di legante dai granuli causato dall'acqua. La prova si esegue su pezzature comprese fra 6,3/10 e 10/15 mm. L'aggregato rivestito della pellicola di legante viene immerso in acqua a temperatura prestabilita ed il grado di spogliamento dopo un intervallo di 24 ore viene valutato visivamente.

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Circa 400 g dell'aggregato vengono lavati ed essiccati in stufa a 110 °C fino a massa costante e si mescolano, a seconda se si opera con la frazione 6,3/10 o 10/15 mm dell'aggregato, con rispettivamente il 3,5% o il 3,0% in massa di bitume semisolido; in ogni caso, però, il quantitativo di legante deve essere tale da avvolgere completamente i granuli La temperatura e la durata di miscelazione dovranno essere le minime compatibili con un completo rivestimento dei granuli con una pellicola continua di legante. A titolo indicativo si può dire che, per esempio, per un bitume semisolido B 80/100 la miscelazione deve avvenire intorno ai 150°C, mentre la temperatura del bitume e degli aggregati deve essere intorno rispettivamente a 155°C e 150°C. L'aggregato rivestito con il legante viene diviso in due parti di massa all'incirca eguale. Una delle parti viene posta in contenitore in vetro di circa 10 cm di diametro, ricoperta di acqua demineralizzata a 25°C e mantenuta nel bagno termostatico a tale temperatura per 24 ore. L'altra parte, analogamente, viene ricoperta di acqua demineralizzata a 40°C e mantenuta a tale temperatura per lo stesso periodo di tempo. Verrà effettuata la valutazione a vista della percentuale della superficie dei granuli spogliatasi dopo 24 ore dal momento dell'immersione e il risultato della prova verrà espresso come percentuale di superficie spogliata alle due temperature di riferimento. Resistenza a fatica I conglomerati bituminosi utilizzati in campo stradale sono costituiti da componenti che presentano caratteristiche e comportamenti diversi sotto l’azione dei carichi dinamici veicolari. Da ciò, deriva la difficoltà di riprodurre sperimentalmente le reali condizioni di sollecitazione e il comportamento in esercizio della pavimentazione. Si definisce resistenza a fatica di un conglomerato bituminoso, il numero di cicli di carico/scarico necessari per provocare la rottura del provino. Diverse sono le interpretazioni che si danno al termine rottura; nella maggior parte dei casi, si intende per rottura del provino, il raggiungimento di una deformazione pari al doppio di quella misurata sul provino stesso dopo i primi cicli di prova. La resistenza a fatica è stata studiata mediante sollecitazione a deformazione o tensione controllata. Si è visto che essa dipende da: • rigidezza • percentuale dei vuoti • dosaggio in bitume • consistenza del legante • caratteristiche fisiche del legante

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Sottoponendo un provino di una miscela bituminosa a sollecitazioni ripetute, è possibile conoscerne il comportamento a fatica, ovvero individuare il numero N di cicli di sollecitazione in corrispondenza del quale si verifica la rottura. Si è osservato che la maggior parte delle miscele obbedisce a una legge del tipo:

( ) ar N K N−ε = ⋅

dove εr(N) è la deformazione iniziale in corrispondenza della quale si ha la rottura dopo N cicli (N è generalmente compreso tra 5 × 103 e 107), K è un fattore che dipende dal tipo di miscela ed a è un numero detto fattore di pendenza. La relazione che lega il numero N e l’ampiezza σ0(N) della sollecitazione (normalmente di tipo sinusoidale) che dopo N cicli porta a rottura il provino risulta:

( ) a0 N M N−σ = ⋅

dove M è un coefficiente che dipende dal tipo di miscela, dalla frequenza e dalla temperatura di prova. Le prove di resistenza a fatica, oltre che del tipo a sollecitazione controllata in cui l’ampiezza della deformazione va progressivamente aumentando per il degradare delle caratteristiche della miscela, possono essere anche a deformazione controllata. In quest’ultimo caso l’ampiezza della deformazione è mantenuta costante mentre diminuisce l’ampiezza della sollecitazione necessaria per produrla. Modalità e finalità di impiego dei conglomerati bituminosi Le miscele di conglomerato bituminoso che vengono impiegate in campo stradale possiedono caratteristiche volumetriche e meccaniche che variano a seconda della posizione da esse occupata all’interno della sovrastruttura. I diversi strati della pavimentazione, infatti, sotto l'azione dei carichi ripetuti trasmessi dai veicoli, sono sollecitati sia da azioni flessionali che tangenziali, la cui entità varia in funzione della loro posizione. Non è semplice realizzare miscele bituminose che siano in grado di resistere efficacemente a entrambi questi tipi di sollecitazione: ad esempio, una miscela chiusa, ricca di filler e di bitume e con materiale in tutto o in parte tondeggiante, resiste abbastanza bene alle sollecitazioni a fatica, ma con altrettanta facilità è predisposta a subire le deformazioni plastiche da cui derivano le ormaie. Al contrario, le miscele dette grenu (a granulometria parzialmente discontinua), appaiono soddisfacenti per quel che riguarda la resistenza alla formazione di ormaie, ma sono facilmente fessurabili per fatica. Lo studio della miscela di inerti è, quindi, particolarmente delicato, specialmente per gli strati superficiali, i quali subiscono in misura notevole sia le sollecitazioni di fatica che quelle tangenziali. Tuttavia, l’introduzione dei bitumi modificati ha consentito

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di pervenire a soluzioni tecnologiche altamente prestazionali un tempo inattuabili con le miscele cosiddette “tradizionali”. Proprio per la particolarità e specificità delle funzioni legate a ciascuno strato della pavimentazione, nel confezionamento e nella successiva posa in opera delle miscele, occorre attenersi alle prescrizioni contenute nei capitolati d’appalto. Tali prescrizioni variano in funzione della tipologia della strada e delle condizioni di esercizio (volumi di traffico, entità dei carichi). Gli attuali capitolati di riferimento sono quelli emanati dal CNR, dalla Società Autostrade, dall’ANAS ed il cosiddetto Capitolato Prestazionale. Di seguito, sono riportate alcune prescrizioni relativamente allo strato di base e a quello di usura per la tipologia autostradale, contenute nel capitolato CNR. Strati di base Nella miscela di questo strato il fuso granulometrico (tabella seguente) comprende aggregati con dimensione massima generalmente di 30 mm; si può autorizzare l’uso di inerti non frantumati in una percentuale massima del 35% in peso; la percentuale di bitume varia tra il 4% e il 5%; la stabilità Marshall deve essere almeno pari a 8 kN e la rigidezza non deve essere inferiore a 2,5 kN/mm; la percentuale di vuoti residui sarà compresa tra il 4% ed il 7%. Strati di collegamento (binder) Il fuso granulometrico proposto dal CNR è riportato nella tabella seguente; la percentuale di bitume varia tra il 4,5% e il 5,5%; la stabilità Marshall deve essere almeno pari a 10 kN e la rigidezza compresa tra 3 e 4,5 kN/mm; la percentuale di vuoti residui sarà compresa tra il 4% ed il 6%. Si raccomanda anche di valutare le prescrizioni contenute nel Capitolato Prestazionale, anche se non ancora vigente (vedi slide).

Fuso granulometrico per strati di collegamento

Strati di usura Questi strati richiedono elevata resistenza meccanica e rugosità superficiale: la stabilità Marshall deve essere almeno pari a 11 kN e la rigidezza compresa tra 3 e 4,5 kN/mm; la percentuale di vuoti residui sarà compresa tra il 3% ed il

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6%; il CNR prevede tre diversi fusi A, B e C a seconda dello spessore dello strato: fuso A per spessori superiori a 4 cm (percentuale di bitume: 4,8-5,8 %), il fuso B per spessori di 3-4 cm (percentuale di bitume: 5-6 %), il fuso C per spessori inferiori a 3 cm (percentuale di bitume: 5,2-6,2 %). Si raccomanda anche di valutare le prescrizioni contenute nel Capitolato Prestazionale, anche se non ancora vigente (vedi slide).

Fuso granulometrico per strati di usura

Applicazioni speciali con i bitumi modificati I più importanti Capitolati Speciali d’Appalto hanno ormai assimilato le indicazioni del mondo scientifico internazionale a proposito della modifica del bitume. Risulta, infatti, ormai evidente che l’introduzione dei bitumi modificati permette di ottenere, sotto particolari condizioni di fabbricazione, il miglioramento delle proprietà reologiche dei leganti. Oltre all’aumento della resistenza meccanica dovuto al più elevato modulo complesso, i bitumi modificati, assicurano un minore accumulo delle deformazioni alla ripetizione dei carichi e, quindi, un contributo al miglioramento del comportamento a fatica. Se a ciò si abbina il fatto che l’incremento del traffico merci negli ultimi decenni ha innescato fenomeni di ammaloramento strutturale delle pavimentazioni stradali e che il traffico pesante, insieme con quello leggero, risulta anche causa di degrado delle caratteristiche superficiali delle pavimentazioni (aderenza e planarità), appare chiaro che l’uso dei bitumi modificati può fornire risposte migliori alle odierne problematiche. L'estensione della rete viaria e il continuo incremento del traffico richiedono per il mantenimento e il miglioramento delle caratteristiche delle pavimentazioni stradali, operazioni specifiche al fine di evitare la rapida perdita di affidabilità dell’intera infrastruttura. Tali operazioni si sono rese necessarie per identificare, tra l’altro, le tecniche di intervento che possano dare i migliori effetti sulla buona conservazione delle pavimentazioni e quali, tra i possibili accorgimenti, risultino essere i più vantaggiosi per la gestione di queste ultime. Se è vero che non esiste un agente modificante atto a fornire leganti modificati idonei a tutti gli impieghi, è pur vero che

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con alcuni polimeri è possibile ottenere leganti particolarmente mirati a risolvere problemi specifici. La richiesta di prestazioni meccaniche eccezionali, o comunque gravose, o la necessità di garantire elevati standard di sicurezza, può essere soddisfatta, quindi, grazie all’impiego dei bitumi modificati con polimeri. L’impiego dei modificati offre, inoltre, la possibilità di adottare curve granulometriche fortemente discontinue, allo scopo di ottenere miscele resistenti alle deformazioni permanenti e di avere elevate caratteristiche superficiali in termini di rugosità e impermeabilità. Nelle prossime pagine si esamineranno alcune delle principali tipologie di conglomerati bituminosi correntemente in uso per risolvere problemi specifici e che, il più delle volte, richiedono l’ausilio di bitumi modificati. Conglomerati bituminosi drenanti- fonoassorbenti Gli strati di usura drenanti sono tappeti dotati di elevata rugosità superficiale, drenanti e fonoassorbenti, in grado di fornire una buona aderenza anche in caso di pioggia e di abbattere il rumore di rotolamento. Uno dei requisiti fondamentali cui deve soddisfare una pavimentazione stradale è certamente la sicurezza; a tal riguardo, riveste particolare importanza, lo studio dei fenomeni di scivolosità, spesso dovuti alla notevole quantità di acqua, non smaltita, che si riversa sulla pavimentazione durante la pioggia. Con l’introduzione dei bitumi modificati si è potuto diffondere l’uso dei conglomerati drenanti che favoriscono l’aderenza in caso di pioggia eliminando il velo d’acqua superficiale in tutte le pavimentazione e, soprattutto, nelle zone con ridotta pendenza di smaltimento (zone di transizione rettifilo-clotoide, rettifilo-curva) Ciò, si traduce, nella scelta di curve granulometriche quasi monogranulari per ottenere percentuali di vuoti compresi tra il 20 ed il 25% e nella ricerca della impermeabilità del manto sottostante. La presenza di percentuali di vuoti così elevate, oltre a permette un rapido smaltimento delle acque, consente un sensibile abbattimento del rumore di rotolamento prodotto dal veicolo, una minore nebulizzazione dell’acqua sollevata dalle ruote dei veicoli in movimento (effetto spray) e l’eliminazione dell’effetto di riflessione dei raggi luminosi con conseguente miglioramento della visibilità. In caso di pioggia, l’asfalto poroso dapprima assorbe l’acqua, evitando che si ristagni in superficie, poi la incanala fino a scaricarla ai lati della strada.

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Pavimentazione con singolo strato drenante

L’uso di manti drenanti fonoassorbenti può ridurre il livello sonoro di 3 dB(A) abbattendo le alte frequenze (500–6300 Hz), che sono poi quelle più fastidiose per l’orecchio umano. L’asfalto poroso aperto consente all’aria di passare sotto la zone di contatto; pertanto, in fase di rilascio, l’onda esce più smorzata e rimbalza sotto la scocca del veicolo in movimento con minore pressione e, quindi, con meno rumore. L’energia che penetra nel conglomerato risulta gradualmente dissipata per rifrazione fra i granuli del pietrisco. Recenti studi hanno messo in evidenza che il diametro degli inerti e lo spessore del materiale in opera, influiscono in modo determinante sulla rumorosità per rotolamento. In particolare l’assorbimento acustico aumenta al diminuire del diametro massimo dei pietrischi e all’aumentare dello spessore dello strato. Per velocità comprese tra 60÷120 km/h, si ottengono ottimi risultati impiegando inerti da 8÷10 mm e spessori di 30 cm. Il problema di questo tipo di manti è dovuto alla diminuzione nel tempo (6÷8 anni) della porosità e, conseguentemente, dell’effetto drenante. È, perciò, necessaria un’adeguata manutenzione per questi tipi di pavimentazioni. Un metodo particolarmente efficace e diffuso per la manutenzione dei manti drenanti e fonoassorbenti è l’idropulizia con acqua in pressione. Le alternative sono quelle di realizzare manti con elevata percentuale dei vuoti, oppure di realizzare la cosiddetta pavimentazione con doppio strato drenante la quale prevede due differenti porosità sullo strato superiore ed inferiore, ottenute con due diverse miscele, più grossolana e calcarea quella inferiore, più fine e basaltica quella superiore. I problemi di manutenzione diventano rilevanti nella stagione invernale e nei luoghi dove si ha presenza di neve. In inverno, infatti, la porosità superficiale riduce la conducibilità termica, con conseguente riduzione della temperatura in superficie; la neve, d’altra parte, penetra nei vuoti e viene compattata dal traffico per cui la superficie rimane bianca più a lungo. Come trattamento preventivo si intervenire con spargitori di

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cloruro di sodio allo stato solido, umidificato con cloruro di sodio o di calcio. Il conglomerato bituminoso per usura drenante e fonoassorbente è costituito da una miscela di pietrischetti frantumati, sabbie ed eventuale additivo impastato a caldo con bitume modificato tipo Hard nella percentuale del 5-6% sul peso degli aggregati. Viene steso di norma in spessori di 4 cm costipati. Il valore della stabilità Marshall eseguita a 60°C su provini costipati con 50 colpi di maglio per faccia, alla temperatura di 140°C, deve risultare almeno 500 daN e il modulo di rigidezza deve essere almeno 200 daN/mm. Per quanto riguarda la granulometria si riportano due fusi relativi rispettivamente al Capitolato della Società Autostrade e alle indicazioni fornite dal CNR, che differiscono tra loro essenzialmente per la quantità di aggregato fine. Si raccomanda anche di valutare le prescrizioni contenute nel Capitolato Prestazionale, anche se non ancora vigente (vedi slide).

Fuso granulometrico per manti drenanti e fonoassorbenti secondo il

Capitolato Autostrade

Fuso granulometrico per manti drenanti e fonoassorbenti secondo le

indicazioni del CNR. La stesa del conglomerato richiede particolari accorgimenti: • si deve assicurare lo smaltimento delle acque; • bisogna rispettare le pendenze trasversali e longitudinali; • è necessario stendere un mano di attacco, sul piano di posa già pulito e privo di segnaletica orizzontale, per impermeabilizzare il piano di posa stesso; • è necessario stendere sulla mano di attacco un sottile strato di graniglia per evitare inconvenienti al momento del contatto delle ruote dei mezzi di cantiere con il bitume modificato che è altamente adesivo;

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• si devono limitare le interruzioni durante la stesa; • i giunti trasversali derivanti dalle interruzioni giornaliere devono essere realizzati sempre previo taglio ed asportazione della parte terminale di azzeramento; • i giunti longitudinali devono essere fra loro sfalsati e non devono cadere nelle fasce della corsia di marcia interessate dalle ruote dei veicoli pesanti; • il costipamento dell’impasto deve essere eseguito con rulli tandem da 8-12 t non vibranti, seguiti da rulli gommati per soddisfare i requisiti di addensamento previsti dalle prescrizioni tecniche; • la rullatura deve iniziare subito dopo la stesa e non deve essere interrotta, evitando cosi la formazione di fessure causate da temperature insufficienti. Trattamenti superficiali I trattamenti superficiali sono degli interventi di ripristino e manutenzione della pavimentazione stradale che consistono nello spruzzare un legante idrocarburico e nel porre sulla superficie stradale degli inerti. Tale intervento viene eseguito per ridare impermeabilità e rugosità allo strato superficiale. La sicurezza del traffico è influenzata sia dalla integrità e regolarità della pavimentazione che dalle caratteristiche di antisdrucciolevolezza della pavimentazione. Nelle zone di maggior pericolosità (svincoli, incroci, attraversamenti pedonali), l’usura della pavimentazione è causa di una diminuzione di aderenza dei pneumatici. I mezzi a disposizione per valutare le “zone” a rischio sono numerosi, basti pensare alla misura puntuale della macrorugosità con il sistema dell’altezza di sabbia o all’uso di attrezzature mobili sofisticate quali lo SCRIM. Affinché una pavimentazione presenti requisiti di antisdrucciolevolezza deve avere una macrorugosità grossa ed una microrugosità aspra/ruvida. È importante evidenziare, tuttavia, che un trattamento superficiale non può e non deve servire per ricostruire un profilo stradale ove siano presenti ormaie e buche. Gli inerti utilizzati devono presentare due importanti proprietà: • la resistenza meccanica, che dipende dalla loro natura e si esprime come resistenza all’usura, alla compressione e all’attrito; • la forma, che dipende dalle condizioni di produzione e si esprime con la curva granulometrica, la spigolosità ed il coefficiente di forma. In genere si utilizzano le frazioni 4/6, 6/10, e 10/14. Per quanto riguarda i bitumi in passato sono stati impiegati i bitumi fluidificati o flussati, poiché essi avevano una bassa viscosità. All’insuccesso di tali prodotti ha poi fatto

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seguito l’utilizzo sempre più frequente delle emulsioni bituminose che, presentando bassa viscosità, avvolgono bene l’inerte e non richiedono temperature elevate durante la fase di spruzzatura. L’ultima alternativa introdotta nel campo dei trattamenti superficiali è l’uso del bitume modificato e delle relative emulsioni. Senza voler entrare nel merito di una scelta del polimero più adatto, è importante sottolineare il notevole incremento di carico che un bitume modificato può sopportare rispetto ad un bitume tradizionale. In pratica, le sollecitazioni tangenziali del traffico che i pneumatici scaricano sugli inerti possono essere dissipate dal legante attraverso lo stiramento delle molecole del polimero. I trattamenti superficiali rappresentano una serie di tecniche diverse sia per il tipo di legante impiegato, sia per il numero di volte che il legante e gli inerti vengono stesi sulla pavimentazione. Il numero degli strati di legante (L) e graniglia (G) forniscono le seguenti diverse tipologie: • monostrato monogranigliatura (LG) • monostrato doppia granigliatura (LGG) • bistrato doppia granigliatura (LGLG) • monostrato monogranigliatura con pregranigliatura (GLG) • bistrato doppia granigliatura con pregranigliatura (LGLGLG) La scelta delle tipologia è legata al tipo di traffico, alle prestazioni ricercate, alle condizioni del supporto. Posa in opera L’efficacia dei trattamenti superficiali è legata preliminarmente alle macchine impiegate. In generale vengono usate: • Motospazzatrice aspirante. • Cisterna spruzzatrice. • Spandigraniglia. • Rullo. Bisogna inoltre ricordare che la pavimentazione non deve presentare ormaie, avvallamenti e fessurazioni estese. Accertato ciò, si procede alle varie fasi della posa in opera ed, in particolare, alla: 1) pulizia della superficie con la motospazzatrice; 2) applicazione del legante con la spruzzatrice; 3) applicazione della graniglia con lo spandigraniglia; 4) compattazione con rullo; 5) seconda applicazione del bitume (nel caso di LGG); 6) seconda compattazione con rullo; 7) eliminazione della graniglia in eccesso con la motospazzatrice aspirante.

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Le operazioni devono essere interrotte in caso di pioggia o superficie bagnata. L’apertura al traffico deve avvenire dopo 2÷3 ore per i trattamenti a freddo e dopo 6÷7 ore per quelli a caldo. Microtappeti a caldo I microtappeti a caldo sono manti di spessore ridotto, caratterizzati da una elevata rugosità superficiale. Un conglomerato sottile trova la sua giustificazione in numerose applicazioni di costruzione e di manutenzione quali il mantenimento della sopraelevazione della pavimentazione entro spessori ridotti, il ripristino della rugosità e di tutte quelle condizioni che permettano il raggiungimento di standard di sicurezza appropriati. Il conglomerato è costituito da una miscela di inerti nuovi (ghiaie, pietrischi, graniglie, sabbie ed additivi) impastati a caldo con legante modificato di tipo Hard in percentuale del 5-6 % sul peso degli aggregati. Gli inerti devono essere costituiti da elementi sani, duri, di forma poliedrica, puliti esenti da polvere e da materiali estranei. Il conglomerato per microtappeti è posto in opera in spessori compresi tra 1 e 2 cm, mediante macchina vibrofinitrice e costipato a caldo. Deve essere applicato solo su supporti con buon profilo longitudinale e trasversale. In caso di pavimentazioni interessate da ormaie superiori ad 1 cm od in presenza di avvallamenti, depressioni od altre deformazioni occorre prevedere una riprofilatura del supporto mediante idonea miscela. Il valore della stabilità Marshall, eseguita a 60°C su provini con 50 colpi di maglio per ogni faccia, deve risultare in tutti i casi di almeno 600 daN; inoltre il valore del modulo di rigidezza Marshall deve essere compreso tra 150 e 300 daN/mm. Microtappeti a freddo Il microtappeto (spessore < 1,5 cm) a freddo (slurry seals) è costituito dall’applicazione di un sottile strato di malta bituminosa impermeabile irruvidita. La malta è formata da una miscela di inerti particolarmente selezionati, impastati a freddo con un bitume modificato ed emulsionato. Il trattamento normalmente non richiede rullatura e può essere aperto al traffico quasi immediatamente. I conglomerati bituminosi a freddo trovano impiego soprattutto in ambito urbano, consentono un notevole risparmio energetico e diminuiscono l’inquinamento atmosferico. Dal punto di vista del risparmio energetico, è evidente che un impianto a caldo richiede quantità considerevoli di energia

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che, nelle tecniche a freddo non è necessaria, in quanto l’emulsione si mescola con il pietrisco umido a temperatura ambiente. Pertanto, non occorre fornire calore né durante la fase di miscelazione, né durante il trasporto. I vantaggi in termini di inquinamento sono invece da ricercare nell’assenza di produzione di fumi e di polveri che normalmente le lavorazioni a caldo generano in grosse quantità. Gli aggregati lapidei sono costituiti da una miscela di graniglia, sabbia e filler che devono soddisfare particolari requisiti in termini di granulometria, forma, pulizia, resistenza meccanica, all’abrasione e al levigamento. I fusi granulometrici variano con lo spessore che si vuole collocare e sono riportati nei capitolati già menzionati. Conglomerati bituminosi per strati di collegamento e usura su ponti e viadotti I conglomerati bituminosi da impiegare nel caso di opere d’arte devono soddisfare requisiti molto restrittivi che per essere raggiunti richiedono l’impiego dei bitumi modificati con polimeri. Nel caso di viadotti la pavimentazione è realizzata con due strati di conglomerato bituminoso a caldo. Le indicazioni del Capitolato della Società Autostrade prevedono che la pavimentazione da impiegare sugli impalcati di ponti e viadotti deve essere costituita da uno strato di binder coperto con un’usura di tipo A. Il conglomerato per ambedue gli strati deve essere costituito da una miscela di pietrischetti, graniglie, sabbie e additivi, mescolati al bitume modificato con polietilene a bassa densità LDPE. Per quanto riguarda lo strato d’usura: • Il tenore di legante deve essere compreso tra il 5,5% ed il

6,5% riferito al peso totale degli aggregati; • al posto del fuso tipo A, si potranno usare anche

granulometrie di tipo drenante; • la stabilità Marshall eseguita a 60 °C su provini costipati

con 75 colpi di maglio per faccia, deve risultare in tutti i casi di almeno 1100 daN (in deroga al CNR n° 30/73 la temperatura di compattazione per i conglomerati modificati dovrà essere di 160 °C anziché 140 °C come richiesto per i conglomerati tradizionali);

• il valore del modulo di rigidezza deve essere compreso tra 300 e 450 daN/mm;

• la percentuale di vuoti residui deve ricadere tra il 3% ed il 5%.

A proposito del binder: • La granulometria degli inerti coincide con quella di un

normale strato di collegamento autostradale, ma il tenore di

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bitume modificato con polimero deve essere compreso tra il 5% ed il 6% riferito al peso totale degli aggregati;

• la stabilità Marshall eseguita a 60°C, su provini costipati con 75 colpi di maglio per ogni faccia, deve risultare in ogni caso superiore a 1000 daN;

• il valore del modulo di rigidezza Marshall deve essere compresa tra 300 e 450 daN/mm;

• la percentuale di vuoti residui compresa tra il 3% e 5%. Conglomerati bituminosi ad elevate prestazioni meccaniche Prestazioni elevate possono essere richieste anche su strade dove si verificano particolari condizioni di clima o di traffico (corsie lente autostradali, piazzali di sosta per veicoli industriali, incroci, piste aeroportuali ecc). Si possono ottenere elevate prestazioni, soprattutto in termini di diminuzione di accumulo di deformazioni plastiche, utilizzando formule granulometriche povere di sabbia (tipo semi-grenu). Un leggero sovradosaggio di legante modificato, ha permesso inoltre, di ottenere un aumento della resistenza a fatica. I polimeri usati per la modifica del bitume, in generale sono l’EMA, l’EVA, l’LDPE. Fra le miscele bituminose ad elevate prestazioni meccaniche che impiegano come leganti bitumi modificati, citiamo: • gli asfalti colati, tipo Gussasphalt; • gli asfalti di mastice e graniglia tipo Splitt-Mastix-

Asphalt. Il primo tipo è stato usato all’estero, nei paesi nordici, come strato di usura per pavimentazioni di ponti e viadotti. In queste miscele il mastice diventa l’elemento principale, a discapito dello scheletro litico. Gli asfalti colati possono presentare diversi problemi, tra cui: • formazione di bolle; • fessurazione per ritiro termico; • irregolarità sui supporti ad elevata pendenza; • perdita della rugosità, causata della migrazione della graniglia verso gli strati bassi; • deformazioni visco-plastiche alle alte temperature estive. Gli Splitt-Mastix-Asphalt sono conglomerati chiusi, ad alto contenuto di graniglie e di legante, in grado di fornire rugosità superficiale, stabilità, resistenza alle deformazioni e all'ormaiamento. Si tratta di conglomerati che, grazie alle particolari caratteristiche granulometriche e alla elevata qualità dei materiali costituenti, consentono di pervenire a prestazioni di livello superiore in termini di durabilità, stabilità e sicurezza, utilizzati spesso per il ripristino delle

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caratteristiche superficiali delle pavimentazioni o per la riprofilatura di superfici stradali deformate. Questo tipo di miscela è caratterizzato da uno scheletro litico essenzialmente discontinuo (povero della frazione sabbiosa) con i vuoti riempiti da una miscela costituita da bitume, filler e agenti stabilizzanti, detta mastice. Le prestazioni meccaniche sono affidate alla natura dei contatti fra i granuli, mantenuti assieme dal mastice che assolve, tra l’altro, a compiti di resistenza a trazione. Gli additivi stabilizzanti, introdotti in percentuale variabile da 0.3 a 1.5%, fanno addensare il mastice riducendo così lo spessore del rivestimento degli elementi lapidei. Gli SMA, vengono posti in opera con spessori ridotti (1-3 cm) e ad elevate temperature (150°C). La miscela degli aggregati da adottarsi per gli splittmastix dovrà avere una composizione granulometrica contenuta nei fusi riportati in capitolato. Si possono distinguere tre diverse tipologie, a seconda dello spessore dell’intervento; la percentuale di bitume, riferita al peso degli aggregati, dovrà rientrare nell’intervallo 6,5÷7,5% per il tipi 0/12 e 0/8 e nell’intervallo 7÷8% per il tipo 0/5; la stabilità Marshall eseguita a 60°C su provini costipati con 50 colpi di maglio per faccia deve essere 900 daN; il modulo di rigidezza deve essere compreso tra 1,5 e 3 daN/mm; la percentuale dei vuoti sarà fra 2% e 4%. Impianti per la produzione dei conglomerati bituminosi I primi impianti per la produzione di conglomerato sono stati in realizzati in Italia subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Da allora sicuramente è cambiata la tecnologia ed i controlli, soprattutto se si pensa al fatto che sono state introdotte molte norme per l’abbattimento delle emissioni dei gas e dei fumi in atmosfera, per evitare l’inquinamento delle falde acquifere ed il rumore. Questi interventi sono stati sollecitati anche dalle norme comunitarie relative agli obblighi di fornitura conformi al dispositivo CE (sicurezza delle macchine) e dai suggerimenti forniti dal documento BAT (Best Available Tecnique), pubblicato dall’Associazione dei Pavimentatori Europei (EAPA) e rappresentato in Italia dal SITEB. Tipologia degli impianti produttivi Relativamente agli impianti di produzione a caldo è possibile affermare che esistono 3 grandi gruppi: 1. Impianti fissi 2. Impianti mobili 3. Impianti semoventi Alla prima tipologia appartengono gli impianti posizionati nelle cave o presenti nelle periferie della città. Gli

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impianti mobili sono, invece, quelli dotati di ruote e utilizzati per tempi determinati nei cantieri. Meno utilizzati sono gli impianti semoventi, noti con il termine “treno”; si tratta di impianti utilizzati sulla strada quando avvengono operazioni di fresatura e riciclaggio. Gli impianti fissi e mobili possono essere ulteriormente suddivisi in impianti discontinui e impianti continui tipo drum-mixer. L'impianto di produzione discontinuo Questi tipi d'impianti, nelle loro diverse taglie e sistemazioni sono i più diffusi ed i più facili da controllare. Offrono inoltre la maggiore garanzia qualitativa del prodotto. Negli impianti moderni il processo produttivo è completamente automatico. Cuore di un impianto discontinuo è la torre di mescolazione: gli aggregati caldi ed essiccati raggiungono la sommità della torre per mezzo di un elevatore a tazze posto all'uscita dell'essiccatore. Le fasi di processo partono con la selezione degli aggregati caldi per mezzo del vaglio vibrante che andranno a riempire le tramogge. Ogni tramoggia ha nella parte inferiore un'apertura per il prelievo delle campionature. Passando alla fase successiva del ciclo produttivo la macchina provvede alla pesatura dei tre elementi primari: aggregati, filler, bitume. Il ciclo di produzione prevede che gli aggregati entrino per primi nel mescolatore. In seguito, in sequenza e con calcolati ritardi, entrano il bitume, eventuali additivi ed il filler. Al sistema di dosatura del bitume è correlata una funzione matematica che tiene conto, per ogni mescolata, del peso "reale" degli aggregati. Infatti, la quantità di bitume immessa nel mescolatore non sarà quella teorica pesata nella tramoggia e prevista dalla ricetta, ma l'esatta percentuale necessaria, calcolata sul reale peso d'aggregati e del filler contenuti nelle rispettive tramogge in quello specifico ciclo. È l'operatore dell'impianto che, per esigenze tecnico-produttive, può effettuare variazioni ed impostare valori diversi per i tempi e le quantità interessate. La relazione tra i tempi del ciclo di mescolazione e le quantità d'elementi immessi determinano la produttività dell'impianto. Il conglomerato scaricato dal mescolatore è poi avviato al silo di deposito. Con la chiusura dello di scarico dal mescolatore ha inizio un nuovo ciclo.

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Tutte le fasi sopraelencate avvengono con materiali secchi, i quali, nel movimento, danno luogo a formazione di polveri. Allo scopo d'evitare inquinamento, tutte le parti d'impianto che contengono aggregati sono ermeticamente chiuse verso l'esterno e poste in depressione da un apposito aspiratore. In seguito, una pompa preleva il bitume dalla vasca di pesatura e l'invia al mescolatore attraverso la barra di spruzzatura munita d'ugelli a tenuta. L’impianto può essere dotato di sili per lo stoccaggio del prodotto finito: essi sono tramogge di forma tronco conica, a piramide rovesciata. Le tramogge, nel lato superiore, hanno un'apertura adatta al carico del prodotto mentre, nella parete inferiore troviamo una portina che, riscaldata elettricamente e comandata da un cilindro pneumatico, permette lo scarico. È in grado di lavorare e produrre con la presenza di un solo addetto, oltre al manovratore della pala meccanica che carica i predosatori. La cabina è il luogo di lavoro dell'operatore e si trova in posizione strategica rispetto all'impianto. In questa unità ci sono tutte le apparecchiature di comando e controllo che concorrono al corretto funzionamento. Dalla sua postazione l'operatore può, per mezzo delle strumentazioni in suo possesso, impostare tutte le grandezze fisiche necessarie al processo produttivo e determinare: ritmo di produzione, quantità e qualità di prodotto, temperatura finale degli aggregati, ecc. Definiti ed impostati i parametri di produzione, l'operatore assume solo una funzione di controllo.

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Da quanto esposto è facile intuire che un impianto come quello descritto consente: • la vagliatura e la riselezione degli aggregati, la pesatura del filler e, quindi, il controllo granulometrico; • la pesatura del bitume (controllo della percentuale); • maggiore controllo dell’emissione dei fumi. Accanto a questi fattori positivi bisogna però citare alcuni svantaggi legati agli impianti sopra menzionati, e cioè: • maggiori costi di acquisto, gestione e manutenzione; • produzione inferiore a pari potenzialità; • difficoltà di impiego di materiali provenienti dalla fresatura di vecchie pavimentazioni. Impianti continui La differenza sostanziale tra questa tipologia di impianti e quelli analizzati in precedenza è dovuta al fatto che, negli impianti continui, la mescola avviene direttamente nel tamburo essiccatore (drum-mixer) che ha, di conseguenza, dimensioni maggiori. Anche in questo caso, gli impianti più moderni vengono controllati direttamente in cabina in maniera automatizzata. Ciò consente di conoscere molti parametri come la temperatura e la pressione dentro il tamburo, il volume del gas aspirato, le temperature degli inerti nel mescolatore, del bitume nelle cisterne e la pressione all’interno del filtro. Gli impianti continui di tipo Drum Mixer presentano, però, inconvenienti legati all’inquinamento; infatti, la presenza del bitume in prossimità di zone ad elevata temperatura provoca la formazione di vapori volatili ed oleosi difficilmente filtrabili. Per ovviare a questo problema è nato un nuovo tipo di impianto costituito da un cilindro essiccatore in controcorrente, con bruciatore abbinato ad un tamburo separato dove avviene il dosaggio degli inerti, del bitume e del filler. Gli impianti continui, quindi, si dividono in impianti nei quali l'essiccatore è un'entità separata dal mescolatore ed altri, chiamati genericamente Drum-Mixer nei quali il processo produttivo si svolge, in sostanza, in un'unica unità operativa. Queste tipologie d'impianti prevedono tutte che l'intero ciclo produttivo avvenga in una sola unità rappresentata dal cilindro rotante. In questo avvengono sia le fasi d'essiccazione/riscaldamento degli aggregati, che quella di miscelazione. Rispetto a tutte le altre tipologie, i "Drum Mixer" sono più semplici e facili da condurre, offrono la massima garanzia qualitativa del prodotto e rappresentano inoltre la soluzione meno costosa d'acquisto e d'impiego. I vantaggi dei Drum Mixer, rispetto ai tradizionali, risiedono oltre che nell'estrema semplicità concettuale, nel maggiore

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rendimento termico e nel minor numero di macchine presenti nell'impianto con ridotte necessità d'energia elettrica e di manutenzioni. Il conglomerato, prodotto col processo Drum Mixer è, fatti salvi i necessari controlli, d'elevatissima qualità.

Le tecniche di riciclaggio dei conglomerati bituminosi Il riciclaggio è una tecnica oggi sempre più diffusa per via, soprattutto, di esigenze di salvaguardia ambientale e per un’economia complessiva delle procedure costruttive. Nel settore dei conglomerati bituminosi, il riciclaggio consiste nel recupero dei materiali delle vecchie pavimentazioni ed in un loro riutilizzo mediante opportune tecniche finalizzate al raggiungimento dei requisiti di accettazione. Riciclare significa, infatti, utilizzare uno scarto di lavorazione per produrre un nuovo prodotto diverso da quello di partenza. Il riciclaggio può essere effettuato a caldo o a freddo. Nel primo caso, è possibile utilizzare il materiale proveniente dalla fresatura in una percentuale variabile tra il 10% e il 50%; nel secondo caso, invece, la percentuale di utilizzo può

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raggiungere il 90% o anche il 100%. Con il termine a caldo si intendono tutte quelle tecniche che consentono il riutilizzo del conglomerato bituminoso in cui l’aggregato lapideo di primo impiego, aggiunto durante la fase di confezionamento, è preventivamente riscaldato e portato ad una temperatura idonea (>150°C). Il riciclaggio a caldo può avvenire in appositi impianti fissi o in sito mediante l’impiego di specifiche macchine semoventi. Quando non avviene il preriscaldamento degli inerti di primo impiego il riciclaggio si dice a freddo. Questa tecnica viene realizzata mediante attrezzature che consentono di miscelare in continuo il fresato con emulsione di bitume modificato, cemento, acqua e aggiunta di eventuali inerti di primo impiego. Le tecniche di riciclaggio consentono, inoltre, di recuperare altro tipo di materiale di scarto proveniente da diversi settori, ovvero: scorie d’altoforno; ceneri di carbone; polverino di gomma dalle carcasse dei pneumatici; plastica e vetri; scorie d’acciaio; ceneri provenienti dall’incenerimento dei rifiuti. Il riciclaggio a caldo in impianto Questa tecnologia si basa sull’utilizzo di impianti di produzione fissi che consentono il corretto dosaggio di tutti i componenti e, quindi, di pervenire ad un prodotto identico a quello di primo impiego. Il trasferimento del calore al fresato può avvenire per conduzione o per convezione. Nel primo caso, il calore è trasferito per contatto tra due corpi solidi a temperatura diversa; nel secondo caso, invece, il solido è immerso in una corrente fluida di gas o di liquido. Nelle figure che seguono sono rappresentati gli schemi di impianto di tipo discontinuo e continuo predisposti per il riciclaggio.

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Schema impianto discontinuo

Impianto discontinuo

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Schema impianto continuo

Impianto continuo

Il riciclaggio a caldo in sito Tale tecnica viene effettuata mediante treni di riciclaggio, ovvero macchine che riscaldano e scarificano la pavimentazione esistente aggiungendo bitume e agenti attivanti per rigenerare il bitume esistente. La rimozione del materiale esistente può avvenire mediante fresa a freddo o mediante il preriscaldamento della superficie con appositi pannelli. Nel primo caso, è possibile intervenire a qualsiasi profondità della pavimentazione esistente e, conseguentemente, utilizzare la totalità del materiale costituente gli strati della stessa. La seconda tecnica viene applicata, invece, sui tappeti di usura consentendo di eliminare alcune forme di ammaloramento, quali le fessurazioni superficiali e il ripristino della rugosità e, quindi, dell’aderenza. Rimozione con fresatura a freddo In questo caso, il treno è composto da: • automezzo spandigraniglia per l’aggiunta di aggregati di

integrazione; • fresa a freddo per la scarifica del manto nello spessore

desiderato;

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• unità di spinta comprendente un sistema di pulizia della superficie stradale, un elevatore a nastro per la raccolta del fresato, una cisterna contenente il bitume e gli additivi, un sistema di aspirazione delle polveri e dei fumi;

• unità drum mixer composta da una tramoggia di raccolta degli aggregati con relativo dosatore, un tamburo essiccatore e mescolatore (drum-mixer) per l’essiccazione degli aggregati e la miscelazione con il legante, un sistema di raccolta e scarico del conglomerato;

• finitrice per la stesa del conglomerato; • rulli statici e gommati per la compattazione del nuovo

strato.

Schema del treno e particolare del drum-mixer

Rimozione con pannelli preriscaldanti Il treno di riciclaggio è composto da un riscaldatore semovente munito di pannelli radianti seguito dal riciclatore che fresa, raccoglie e mescola il materiale, aggiunge il legante, gli attivanti e gli eventuali inerti di correzione della curva granulometrica. Il materiale viene, quindi, steso e compattato. In figura è rappresentato uno schema di questa tipologia di treno.

Schema del treno

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Fase di lavorazione

Il riciclaggio a freddo È una tecnologia che consente di realizzare un conglomerato riciclato con caratteristiche analoghe a quelle di un conglomerato tradizionale, con un notevole risparmio energetico e un vantaggio ambientale. Essa si basa sul miscelazione del prodotto di fresatura con bitume sotto forma di emulsione o di schiuma (bitume espanso o schiumato); questi leganti sono utilizzati in abbinamento a cemento o calce. La presenza del legante idraulico conferisce maggiore rigidezza alla miscela e favorisce il processo di disidratazione in tempi brevi. Questa tecnica di riciclaggio può essere attuata sia in impianto fisso che in sito. Il bitume schiumato è prodotto all’interno del mescolatore attraverso una specifica camera di espansione che conferisce al materiale originario un aumento di volume pari a circa 25 volte quello iniziale. Normalmente per riciclare un fresato si impiega un quantitativo di bitume schiumato di circa il 3%. Una fase molto delicata è rappresentata dalla fase di studio e di progetto della miscela e, in particolare: • scelta del legante; • ottimizzazione della percentuale d’acqua in relazione

all’umidità residua del fresato; • ottimizzazione del contenuto di cemento; • calcolo dei tempi di trasporto (per il riciclaggio in

impianto fisso); • stesa e tempi di riapertura al traffico.

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Particolare del treno

Riciclaggio a freddo con emulsione e schema del treno

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Riciclaggio a freddo con emulsione e distribuzione di cemento

Riciclaggio a freddo con emulsione ed iniezione di cemento

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Riciclaggio a freddo con bitume espanso

Treno di riciclaggio