DISPENSA CORSO

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DALLE ORIGINI, ALLA PELLICOLA ALL’ODIERNA DIGITALE 1 LA MACCHINA FOTOGRAFICA E LE SUE ORIGINI. 2 COME USARE UNA MACCHINA FOTOGRAFICA A PELLICOLA 3 COME STAMPARE LE FOTO IN BIANCO E NERO (in camera scura) 4 OBIETTIVI-TEMPI/DIAFRAMMI E TECNICHE DI RIPRESA. 5 L’EVENTO DEL DIGITALE, NOTE TECNICHE 6 COME USARE UNA FOTOCAMERA DIGITALE 7 COME CONSERVARE LE VOSTRE FOTO NEL COMPUTER 8 CONOSCERE I VARI FORMATI DI FILE (JPG, TIFF, RAW, etc) 9 COME ELABORARE LE FOTO DIGITALI CON PHOTOSHOP. 10 PROVA PRATICA DI FOTO DIGITALE E STAMPA IMMEDIATA

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DALLE ORIGINI, ALLA PELLICOLAALL’ODIERNA DIGITALE

1 LA MACCHINA FOTOGRAFICA E LE SUE ORIGINI.

2 COME USARE UNA MACCHINA FOTOGRAFICA A PELLICOLA

3 COME STAMPARE LE FOTO IN BIANCO E NERO (in camera scura)

4 OBIETTIVI-TEMPI/DIAFRAMMI E TECNICHE DI RIPRESA.

5 L’EVENTO DEL DIGITALE, NOTE TECNICHE

6 COME USARE UNA FOTOCAMERA DIGITALE

7 COME CONSERVARE LE VOSTRE FOTO NEL COMPUTER

8 CONOSCERE I VARI FORMATI DI FILE (JPG, TIFF, RAW, etc)

9 COME ELABORARE LE FOTO DIGITALI CON PHOTOSHOP.

10 PROVA PRATICA DI FOTO DIGITALE E STAMPA IMMEDIATA

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DALLE ORIGINI, ALLA PELLICOLAALL’ODIERNA DIGITALE

1 LA MACCHINA FOTOGRAFICA E LE SUE ORIGINI.

2 COME USARE UNA MACCHINA FOTOGRAFICA A PELLICOLA

3 COME STAMPARE LE FOTO IN BIANCO E NERO (in camera scura)

4 OBIETTIVI-TEMPI/DIAFRAMMI E TECNICHE DI RIPRESA.

5 L’EVENTO DEL DIGITALE, NOTE TECNICHE

6 COME USARE UNA FOTOCAMERA DIGITALE

7 COME CONSERVARE LE VOSTRE FOTO NEL COMPUTER

8 CONOSCERE I VARI FORMATI DI FILE (JPG, TIFF, RAW, etc)

9 COME ELABORARE LE FOTO DIGITALI CON PHOTOSHOP.

10 PROVA PRATICA DI FOTO DIGITALE E STAMPA IMMEDIATA

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Indice

Fotografia (Introduzione).........................................1

Fotocamera......................................................................16

Diaframma.......................................................................21

Otturatore.........................................................................24

Pellicola Fotografica...................................................27

Velocità della pellicola...............................................31

Obiettivo Fotografico.................................................36

Esposizione.......................................................................46

Fotocamera Digitale....................................................51

Note dei Curatori e Bibl...........................................64

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Fotografia (Introduzione)

Il termine fotografia si riferisce sia alla tecnica che permette di creare immagini, su un supporto sensibile alla luce, sia ad una un'immagine ottenuta con tale tecnica, sia più generalmente ad una forma d'arte che utilizza questa tecnica.

Note storicheLa parola fotografia ha origine da due parole greche: foto (phos) e grafia (graphis). Letteralmente quindi fotografia significa scrivere (grafia) con la luce (fotos). Ebbe origine dalla convergenza dei risultati ottenuti da numerosi sperimentatori sia nel campo dell'ottica, con lo sviluppo della camera oscura, sia in quello della chimica, con lo studio delle sostanze fotosensibili. La prima camera oscura fu realizzata molto tempo prima che si trovassero dei procedimenti per fissare con mezzi chimici l'immagine ottica da essa prodotta; le sue prime applicazioni per la fotografia si ebbero con il francese Joseph Nicephore Niepce, al quale viene abitualmente attribuita l'invenzione della fotografia, anche se scoperte recenti suggeriscono che alcuni tentativi ben precedenti, come quelli dell'inglese Thomas Wedgwood[1], potrebbero essere andati a buon fine.

Nel 1813 Niepce iniziò a studiare i possibili perfezionamenti da apportare alle tecniche litografiche e da queste ricerche sviluppò un

interesse per la registrazione diretta di immagini sulla lastra litografica, senza l'intervento dell'incisore.

In collaborazione con il fratello Claude, Niepce cominciò a studiare la sensibilità alla luce del cloruro d'argento e nel 1816 ottenne la sua prima immagine fotografica (che ritraeva un angolo della sua stanza di lavoro) utilizzando un foglio di carta sensibilizzato, probabilmente, con cloruro d'argento.

L'immagine, tuttavia, non poté essere fissata completamente, per cui Niepce fu indotto a studiare la sensibilità alla luce di numerose altre sostanze, soffermandosi sul bitume di Giudea che possiede la proprietà di divenire insolubile in olio di lavanda in seguito a esposizione alla luce.

Il primo successo con la nuova sostanza fotosensibile risale al 1822, con la riproduzione su vetro di un'incisione che raffigurava papa Pio VII. La riproduzione andò però distrutta qualche tempo dopo e la più antica immagine oggi esistente è una di quelle che Niepce ottenne nel 1826, utilizzando una camera oscura nella quale l'obiettivo era una lente biconvessa, dotata di diaframma e di un rudimentale sistema di messa a fuoco. Alle immagini così ottenute Niepce diede il nome di eliografie.

Nel 1829 fondò con Louis Daguerre, già noto per il suo diorama, una società per lo sviluppo delle tecniche fotografiche. Nel 1839 il fisico François Arago descrisse all'Accademia delle Scienze di Parigi un procedimento messo a punto da Daguerre, che venne chiamato dagherrotipia; la notizia suscitò l'interesse di William Fox Talbot, che dal 1835 sperimentava un procedimento fotografico denominato calotipia, e di John Herschel, il quale sperimentava un procedimento su carta sensibilizzata con sali d'argento, utilizzando un fissaggio a base di tiosolfato sodico.

In questo stesso periodo, a Parigi, Hippolyte Bayard ideò un procedimento originale che faceva uso di un negativo su carta sensibilizzata con ioduro d'argento, dal quale si otteneva

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successivamente una copia positiva. Bayard fu però invitato, per evitare una concorrenza diretta con Daguerre, a desistere dalla continuazione degli esperimenti.

Lo sviluppo della dagherrotipia fu favorito anche dalla costruzione di apparecchi speciali muniti di un obiettivo a menisco acromatico messo a punto nel 1829 da Charles Chevalier. Tra il 1840 e il 1870 circa si ebbero numerosi perfezionamenti dei processi e dei materiali fotografici:

• nel 1841 Francois Antoine Claudet diede nuovo impulso alla ritrattistica introducendo lastre per dagherrotipia a base di cloruro e ioduro d'argento, che consentivano pose di pochi secondi;

• nel 1851 Frederick Schott Archer ideò il procedimento al collodio che si diffuse al posto della dagherrotipia e della calotipia.

• Tra il 1851 e il 1852 vennero introdotte l' ambrotipia e la ferrotipia, procedimenti con cui si ottenevano dei positivi apparenti incollando un negativo su lastra di vetro sopra un supporto di carta o panno neri oppure di metallo brunito;

• nel 1852 viene istituita a Firenze la più antica azienda al mondo operante nel campo della fotografia: la Fratelli Alinari.

• nel 1857 comparve il primo ingranditore a luce solare a opera di J. J. Woodward;

• nel 1859 R. Bunsen e H. E. Roscoe realizzarono le prime istantanee con lampo al magnesio. Le prime immagini a colori per sintesi additiva si devono a J. C. Maxwell (1861), mentre Louis Ducos du Hauron ottenne le prime immagini a colori mediante sintesi sottrattiva (1869) e R. L. Maddox introdusse un'importante innovazione: le lastre con gelatina animale come legante.

• Infine, nel 1873 H. Vogel scoprì il principio della sensibilizzazione cromatica e realizzò le prime lastre ortocromatiche.

Tecnica

Perfezionamento di tecnologie e materiali Ma gli sforzi furono anche indirizzati al perfezionamento dei materiali sensibili, dei procedimenti di sviluppo e degli strumenti ottici. Tra le innovazioni più importanti si ricordano: l'introduzione degli apparecchi fotografici portatili (1880); l'introduzione delle pellicole in rullo, realizzate per la prima volta da G. Eastman inizialmente con supporto in carta (1888) e successivamente con supporto in celluloide (1891).

Nel 1890 F. Hurter e V. C. Driffield iniziarono lo studio sistematico della sensibilità alla luce delle emulsioni, dando origine alla sensitometria. Un considerevole miglioramento delle prestazioni degli obiettivi si ebbe nel 1893, quando H. D. Taylor introdusse un obiettivo anastigmatico (tripletto di Cooke) con sole tre lenti non collate; tale obiettivo fu perfezionato da P. Rudolph nel 1902 con l'introduzione di un elemento posteriore collato e venne prodotto l'anno dopo dalla Zeiss, con il nome di tessar.

Altri progressi si ebbero con l'introduzione del sistema reflex (1928) e degli strati antiriflesso sulle superfici esterne delle lenti (che migliorarono enormemente la trasmissione tra aria e vetro e il contrasto degli obiettivi) e con il processo Polaroid in bianco e nero (che permetteva di ottenere in pochi secondi una copia positiva, utilizzando un apparecchio e una pellicola speciali), introdotto nel 1948 da E. H. Land e successivamente esteso al colore.

Negli anni Sessanta con gli esposimetri incorporati nelle macchine fotografiche ebbe inizio l'epoca degli automatismi: l'evoluzione

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tecnologica in tale campo fu tale che alla fine degli anni Ottanta, con la miniaturizzazione dei circuiti elettronici, la messa a fuoco e l'esposizione diventano completamente automatiche; inoltre micromotori provvedono al caricamento della pellicola, al suo avanzamento dopo ogni scatto, e al riavvolgimento nel caricatore al termine dell'uso .

Negli anni Ottanta entrarono in produzione macchine per la fotografia digitale che al posto della pellicola avevano un CCD (Charge Coupled Device), lo stesso elemento sensibile delle videocamere.

Questo componente era in grado di analizzare l'intensità luminosa e il colore dei vari punti che costituiscono l'immagine e di trasformarli in segnali elettrici che venivano poi registrati su un supporto magnetico (nastro o disco) che poteva contenere alcune decine di immagini. L'immagine registrata poteva essere immediatamente rivista su un monitor, stampata da un'apposita stampante, o spedita, via cavo o via etere, a qualsiasi distanza.

Macchine di questo tipo venivano usate soprattutto dai fotoreporter, perché permettevano l'immediata trasmissione delle foto ai giornali, che non hanno bisogno di immagini ad alta definizione.

L'inconveniente principale della fotografia elettronica era infatti la scarsa definizione delle immagini, in confronto a quella della fotografia tradizionale. Notevole diffusione ha avuto l'elaborazione elettronica delle immagini fotografiche, che, digitalizzate da uno scanner ad alta definizione, possono essere corrette ed elaborate a piacere (eliminazione di dominanti cromatiche, modifica dei colori, cancellazione e aggiunta di parti di immagine, fino a ottenere fotomontaggi quasi perfetti). L'immagine elaborata viene poi stampata su pellicola, con la stessa definizione dell'originale.

Negli ultimi anni lo sviluppo della fotografia digitale ha avuto implicazioni incredibili sia nella fase di ripresa delle immagini che in quella di riproduzione. Da un lato i sofisticati sistemi di esposizione,

messa a fuoco, inquadratura e disponibilità immediata delle immagini in fase di ripresa e dall'altro la loro elaborazione sul computer hanno ridimensionato il lavoro di camera oscura per lo sviluppo del negativo e/o della diapositiva e per la loro stampa. Essa richiedeva lunghe ore al buio, pazienza e risorse economiche, al punto che grandi fotografi utilizzavano spesso laboratori professionali per le loro immagini. Oggi il processo è alla portata di tutti grazie alle immagini digitali che possono essere ritoccate, modificate e trasferite con il computer di casa propria, avvalendosi di programmi di editing e/o fotoritocco e modalità di archiviazione di file anziché di voluminosa carta che hanno in gran parte ridotto la domanda di pellicole e di stampa tradizionale delle foto.

Riproduzione dei coloriJ. T. Seebeck (1810) e J. F. Herschel (1840), E. Becquerel (1848), L. L. Hill (1850) e C. Niepce (1851) erano riusciti a ottenere delle registrazioni instabili di oggetti colorati, probabilmente per un fenomeno di interferenza all'interno dello strato sensibile. Tale fenomeno venne utilizzato da Gabriel Lippmann, in un procedimento messo a punto nel 1891, esponendo attraverso il supporto di vetro una lastra fotografica con l'emulsione a contatto con mercurio.

L'interferenza tra la radiazione incidente e quella riflessa dal mercurio, che fungeva da specchio, faceva sì che l'emulsione rimanesse impressionata a diversi livelli di profondità, la distanza fra i quali era funzione della lunghezza d'onda della radiazione. La lastra, sviluppata e osservata per riflessione, restituiva un'immagine con i colori naturali. Il procedimento di Lippmann, sfruttato commercialmente per qualche anno, fu abbandonato per la difficoltà nella preparazione dei materiali e del loro trattamento.

Nel frattempo James Clerk Maxwell aveva teorizzato i principi della sintesi additiva dei colori e nel 1855 aveva ottenuto i primi risultati incoraggianti, che rese pubblici nel 1861. Nel suo procedimento l'oggetto colorato veniva ripreso su tre diverse lastre attraverso tre

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filtri di colore blu, verde e rosso; venivano poi ricavate tre diapositive che, proiettate a registro su uno schermo mediante tre proiettori muniti degli stessi filtri usati per la ripresa, riproducevano a colori il soggetto.

Un procedimento simile, che utilizzava i colori blu, giallo e rosso, venne ideato indipendentemente, nel 1862, da Louis Ducos du Hauron, al quale si devono anticipazioni per tutti i procedimenti utilizzati fino a oggi. Nel 1868 egli osservò che un foglio di carta, ricoperto di sottili linee adiacenti di colore blu, verde e giallo, appariva bianco se osservato per trasparenza e grigio se osservato per riflessione e brevettò un procedimento di fotografia a colori basato su questo fenomeno.

Il procedimento venne ripreso in considerazione negli ultimi anni del secolo XIX quando furono disponibili materiali sensibili pancromatici con i quali era possibile effettuare la ripresa attraverso un reticolo di linee o di granuli di colore blu, verde e rosso; in seguito all'inversione dell'immagine in bianco e nero, il complesso immagine-reticolo osservato per trasparenza restituiva i colori originali.

Sfruttando questo principio i fratelli Lumière realizzarono le lastre Autochrome, la cui produzione iniziò nel 1907. Materiali simili vennero prodotti in Germania (Agfacolor) e in Gran Bretagna. Nel 1908 A. K. Dorian propose di sostituire i reticoli colorati con un insieme di minuscole lenti ottenute per goffratura sul lato del supporto opposto a quello su cui era stesa l'emulsione.

Ponendo davanti all'obiettivo un filtro costituito da tre bande colorate, ciascuna lente proiettava tre immagini, che venivano sovrapposte utilizzando un proiettore che montava sull'obiettivo lo stesso filtro usato in ripresa. Su questo principio si basavano i primi materiali Kodacolor, prodotti fino al 1935.

Tutti questi procedimenti non consentivano la produzione di stampe a colori, se non con mezzi tipografici. L'unico a ottenere copie

fotografiche su carta fu E. Vallot che nel 1895 aveva ripreso un'idea di Louis Ducos du Hauron, introducendo un procedimento che però, a causa della bassa sensibilità e della scarsa stabilità dei colori, non ebbe successo commerciale. L'era della fotografia a colori moderna iniziò nel 1935 con la pellicola per diapositive Kodachrome, seguita nel 1936 dalla Agfacolor.

La prima richiedeva un trattamento speciale, perché i colori venivano aggiunti nel corso dello sviluppo. Nella seconda, invece, che è stata la capostipite delle moderne pellicole per fotografie a colori su carta, tre strati, sensibili rispettivamente al blu, al verde e al rosso, contenevano anche i coloranti, che davano origine, durante lo sviluppo, a immagini con i colori complementari (giallo, magenta e ciano).

L'immagine riacquistava i colori naturali durante lo sviluppo della copia, stampata su carta il cui strato sensibile aveva una struttura simile. Infine la Ciba, riprendendo il vecchio procedimento di sbianca dei coloranti contenuti nei vari strati dell'emulsione, realizzò il sistema Cibachrome, per la stampa di diapositive.

Chimica

Processi con l'alogenuro d'argentoQuando si sottopone un alogenuro d'argento all'azione della luce, la radiazione assorbita gli cede l'energia necessaria per scindere il legame tra l'alogeno e il metallo. Il deposito di argento così formato è tanto più denso quanto maggiore è l'intensità dell'illuminazione ed è quindi possibile ottenere con una camera oscura un'immagine negativa del soggetto inquadrato. Tale annerimento diretto dell'alogenuro, detto effetto print-out, è stato il primo metodo utilizzato per ottenere delle immagini agli albori della fotografia, ma aveva l'inconveniente di richiedere tempi di posa lunghissimi.

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Fin dai primi tempi della fotografia, però, si scoprì casualmente che non era necessario attendere la formazione di un'immagine visibile sul materiale sensibile: anche dopo una breve esposizione era possibile, con un opportuno trattamento chimico, ottenere un'immagine perfettamente formata. In effetti anche nel corso di una esposizione molto breve si verifica la fotolisi del bromuro d'argento in misura tale da formare un'immagine debolissima, non visibile a occhio nudo (immagine latente), ma sufficiente per provocare un'alterazione delle caratteristiche chimico-fisiche dell'emulsione.

Trattando questa con particolari sostanze (rivelatori) si ottenne la formazione dell'immagine visibile, che risultava costituita da un insieme di granuli d'argento originati dalla riduzione dei singoli cristalli di alogenuro. Sono questi che conferiscono all'immagine la caratteristica struttura granulosa.

Nell'effetto print-out l'energia necessaria per la riduzione dell'alogenuro ad argento metallico è fornita interamente dalla radiazione assorbita dall'emulsione, mentre nel secondo caso la radiazione cede solo la piccola quantità di energia necessaria alla formazione dell'immagine latente.

Il rivelatore fornisce in un secondo tempo la quantità di energia necessaria per portare a termine il processo, con un effetto di amplificazione di circa un milione di volte. Dopo la formazione dell'immagine occorre allontanare l'alogenuro d'argento rimasto inutilizzato (fissaggio), oppure renderlo insensibile alla luce (stabilizzazione).

Il trattamento di un moderno materiale fotografico in bianco e nero richiede quindi un bagno di sviluppo e uno di fissaggio, cui si interpone un lavaggio o un bagno di arresto, e un lavaggio finale prima dell'asciugatura. Il lavaggio finale, estremamente importante per la conservazione dell'immagine, asporta ogni traccia dei prodotti chimici impiegati nel corso del trattamento.

Nei materiali a colori (a eccezione della Kodachrome), la formazione

dei coloranti avviene utilizzando uno sviluppo cromogeno che, contemporaneamente alla riduzione del bromuro impressionato, provoca la formazione del colore all'interno di ognuno dei tre strati sensibili sovrapposti. Con i procedimenti accennati si ottiene sempre un'immagine negativa rispetto all'originale usato per la ripresa o la stampa.

È possibile ottenere direttamente delle immagini positive mediante un procedimento di inversione nel corso del quale si distrugge l'immagine negativa e se ne forma una positiva utilizzando l'alogenuro d'argento non impressionato nel corso dell'esposizione. La distruzione della negativa avviene per mezzo di un bagno di sbianca che, nel colore, ha anche la funzione di liberare i coloranti dal deposito opaco d'argento che li maschera.

Il sempre crescente aumento del costo dell'argento ha portato, da un lato, una notevole diffusione dei procedimenti di ricupero di questo dai bagni di fissaggio, che possono contenere diversi grammi d'argento per litro, e, dall'altro lato, ha favorito lo sviluppo di procedimenti nuovi o non tradizionali. Poiché i materiali a sviluppo cromogeno consentono il recupero totale dell'argento, sono state introdotte pellicole a sviluppo cromogeno anche in bianco e nero.

Processi senza argentoFin dai primi tempi della fotografia si tentò di impiegare delle sostanze fotosensibili senza argento, per esempio la carta al ferroprussiato, usata per la riproduzione di disegni tecnici (cianografia), ma senza grandi successi. Altri procedimenti di stampa, introdotti nel 1850, furono quelli alla gomma bicromata e al pigmento, applicati specialmente nel rotocalco.

Tra gli altri procedimenti un tempo applicati o di più recente applicazione si ricordano:

• la termografia, che si basa sulla proprietà di svariate sostanze di annerire, fondere o subire altre trasformazioni se sottoposte

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a riscaldamento;

• l'elettrografia, il cui principio fu indicato nel 1935 da P. Selenyi e che ha avuto uno sviluppo eccezionale nel campo della fotoriproduzione di documenti (in particolare la xerografia);

• la fotopolimerizzazione, che sfrutta la proprietà della luce di provocare la polimerizzazione di molte sostanze;

• il procedimento Kalvar, usato per la produzione di microfilm e di positivi cinematografici, nel quale l'esposizione alla luce provoca la decomposizione di una sostanza fotosensibile incorporata in uno strato plastico con liberazione di bollicine di gas, che rendono opaco lo strato;

• la fotocromia, che si basa sulla proprietà di alcune sostanze di cambiare colore sotto l'azione della luce.

Una delle maggiori difficoltà connesse con l'introduzione di nuovi sistemi fotosensibili era costituita dalla scarsa efficienza con cui, in generale, veniva registrata l'immagine. L'unico sistema che presenta un fattore di amplificazione paragonabile a quello basato sugli alogenuri d'argento è la fotopolimerizzazione, mentre gli altri possiedono una capacità di amplificazione molte migliaia di volte inferiore. Nei sistemi fotografici tradizionali, gli alogenuri d'argento non impressionati vengono asportati nel bagno di fissaggio oppure, nel processo di inversione, vengono utilizzati per formare un'immagine positiva sul medesimo supporto.

Processi per le istantaneeDiversi sono i processi diffusivi nei quali l'alogenuro non impressionato viene trasformato in un sale solubile che diffonde dal negativo verso un supporto sul quale viene ridotto ad argento metallico dando luogo alla formazione dell'immagine positiva. Questo procedimento, descritto per la prima volta nel 1939 e

utilizzato inizialmente per materiali da fotoduplicazione, consente la cosiddetta fotografia istantanea. Le prime applicazioni pratiche si ebbero nel 1948 con il sistema Polaroid in bianco e nero che permetteva di ottenere una positiva in soli 15 secondi; in seguito fu messo a punto un analogo sistema per le positive a colori ottenibili in circa un minuto.

Nel procedimento a colori il negativo è costituito da tre strati di emulsione sensibili alla luce blu, verde e rossa, ai quali sono intercalati altrettanti strati contenenti tre diversi rivelatori di colore rispettivamente giallo, magenta e blu-verde.

Dopo l'esposizione il negativo viene portato a contatto con il supporto destinato a ricevere l'immagine positiva; tra i due si trova un sottile velo di attivatore alcalino. In presenza dell'attivatore i rivelatori colorati, contenuti nello strato sviluppatore, riducono il bromuro esposto e rimangono così immobilizzati nello strato sensibile.

I rivelatori che non hanno reagito, invece, diffondono attraverso il negativo e lo strato di attivatore fino a raggiungere il supporto, dove si fissano.

Nel 1976 la Kodak lanciò un suo sistema di fotografia istantanea, che, dopo una lunga serie di controversie legali, fu ritirato dal commercio perché violava alcuni brevetti Polaroid.

Quest'ultima, nel 1985 presentò una pellicola per diapositive, sia in bianco/nero che a colori, a sviluppo istantaneo; essa non richiedeva macchine speciali, ma poteva essere esposta con qualsiasi macchina che utilizzasse le normali pellicole 135 (formato 24 x 36 mm).

La pellicola a colori, chiamata Polachrome, è in realtà una pellicola in bianco/nero, filtrata, sia in ripresa che in proiezione, da un fitto reticolo di linee blu, verde e rosso (secondo il principio già sfruttato dai fratelli Lumière con le lastre Autochrome). Lo sviluppo viene effettuato sull'intera pellicola, in un apparecchietto che stende su di essa i prodotti chimici racchiusi in un contenitore venduto insieme

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alla pellicola.

Anche la pellicola per stampe a colori immediate è stata notevolmente perfezionata dalla Polaroid: è stato eliminato il negativo (che doveva essere gettato, insieme ai residui dei prodotti chimici di sviluppo), e la sensibilità è stata aumentata a 600 ASA. Lo sviluppo avviene in piena luce, in circa 90 secondi. Alcune pellicole a sviluppo immediato (in bianco e nero e a colori) possono essere utilizzate, per mezzo di un apposito accessorio, anche su molti apparecchi professionali e su apparecchiature scientifiche: esse danno copie formato 8,3 x 10,8 cm, spesso usate per controllare la distribuzione delle luci e delle ombre prima dello scatto definitivo su pellicola tradizionale.

ArteLa fotografia cominciò ad acquistare autonomia agli inizi del sec. XX, mentre le polemiche sui rapporti con l'arte, in seguito indagati con acutezza da W. Benjamin, erano vivacissime. In merito alla diatriba, sempre attuale, una distinzione si può fare tra la fotografia come strumento e la fotografia come linguaggio. Nel primo caso si sfruttano in quanto tali le possibilità di riproduzione meccanica delle immagini, nel secondo queste stesse possibilità vengono utilizzate a fini documentaristici ed espressivi.

Quindi da un lato si possono annoverare i processi di fotoriproduzione, utilizzati nei settori più diversi, dalla fotomeccanica alla spettroscopia, dall'altro tutte le utilizzazioni della fotografia per una descrizione, a diversi livelli di obiettività, di fenomeni scientifici, di avvenimenti, di realtà sociali o di altri valori umani, figurativi e astratti.

In opposizione ai concetti della foto d'arte, con tutto il corollario dei trucchi di mestiere, operò agli inizi del sec. XX Alfred Stieglitz, capo del gruppo americano Photo-Secession, esaltando le riprese immediate con piccoli apparecchi portatili alla ricerca dell'illusione di

realtà, cercando il cubismo nella natura (soggetti disumanizzati, riproduzione del ritmo nella ripetizione di elementi base, sovrapposizioni, ecc.).

Dal canto suo il tedesco A. Renger-Patzsch, in polemica con le tesi della Photo-Secession sostenne, parafrasando Spinoza, che la bellezza del mondo dipendeva dall'immaginazione dell'uomo e quindi anche dalla scelta che l'obiettivo faceva del particolare.

Una terza tesi veniva proposta da A. G. Bragaglia, teorizzata nel volume Fotodinamismo futurista (1911), da fotografi come l'americano A. Coburn, lo svizzero C. Schad, l'ungherese László Moholy-Nagy (del Bauhaus), lo statunitense Man Ray, l'italiano Luigi Veronesi che, proclamando l'importanza essenziale della "ricerca" riaffermavano o giungevano all'astrattismo.

Fu questo il punto di partenza di ogni avventura e sperimentazione fotografica successiva, testimoniate dall'attività di gruppi come Fotoform (1949), dalle foto di movimento di Gjon Mili, dalla scuola della candid photography e da tutti gli sperimentatori fluttuanti dalla ricerca del vero alla sensazione, dal documento alla realizzazione d'arte. Un cenno meritano le fotografie di moda e di pubblicità, che adattano alle specifiche funzioni il patrimonio finora acquisito, trasfondendo nell'immagine, con la suggestione creativa, il potere o la ricerca della persuasione.

Un'evoluzione ulteriore della fotografia è la multivisione, basata sulla proiezione di diapositive in dissolvenza incrociata, spesso con un accompagnamento musicale. Questa tecnica è utilizzata spesso a scopi didattici o pubblicitari, ma la forte componente creativa e poetica del mezzo fotografico ha ispirato la creazione in multivisione di autentiche opere d'arte.

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DirittoIl diritto d'autore considera fotografie ai fini della tutela relativa "le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale ottenute col procedimento fotografico o con processo analogo".

Spetta al fotografo, salvo deroghe relative ai ritratti fotografici, il diritto esclusivo di riproduzione, diffusione e vendita. Tuttavia se l'opera è stata ottenuta nel corso e nell'adempimento di un contratto d'impiego o di lavoro, il diritto esclusivo spetta al datore di lavoro. La durata del diritto sulla fotografia è di venti anni.

Il diritto tutela anche la privacy del soggetto fotografato. Infatti, è permessa la diffusione di fotografie senza il permesso del soggetto solo nel caso di personaggio pubblico, inteso come persona che, per lavoro o carica istituzionale, è noto al pubblico, o nel caso la persona sia ritratta nel corso di eventi aperti al pubblico (ad esempio se una persona partecipa ad una manifestazione sportiva). Negli altri casi, il fotografo titolare dell'opera deve ottenere il permesso (chiamato liberatoria) alla pubblicazione (intesa anche come esposizione ad una mostra) da parte del soggetto.

Sono particolarmente interessanti le argomentazioni pro e contro la libertà dell'arte, particolarmente per quanto riguarda le foto prese per strada per documentare la vita di una città.

Fotocamera

La macchina fotografica o fotocamera (unione del termine greco φως phōs, Gen. φωτός phōtos, luce con quello latino, camera obscura, camera oscura) è lo strumento utilizzato per la ripresa fotografica e per ottenere immagini di oggetti reali archiviabili su supporti materiali o elettronici. La fotocamera in senso stretto, quella più nota e diffusa, lavora con la porzione dello spettro elettromagnetico visibile o luce ma può sfruttare altre porzioni spettrali, o differenti forme di energia, riflesse, emesse, diffuse o trasmesse dall'oggetto da rappresentare.

Struttura e funzionamentoOgni macchina fotografica è costituita da due parti fondamentali: un corpo, con un'apertura ad un'estremità per permettere alla luce di entrare (camera oscura), ed una superficie di registrazione per catturare l'immagine luminosa all'altra estremità. Formalmente non servirebbe altro (stenoscopia). A questi due elementi basilari, nella stragrande maggioranza dei casi si aggiunge la parte diottrica (lenti) o catadiottrica (specchi), che va a costituire l'obiettivo fotografico.

La prima apertura, di dimensioni stabilite dal diaframma, è controllata da un meccanismo (l'otturatore), mentre la parte relativa alla registrazione dell'immagine è costituita da un sensore fotosensibile, che può essere una pellicola o lastra fotografica

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(macchine fotografiche tradizionali) o un sensore digitale (CCD o CMOS) (macchine fotografiche digitali).

EsposizioneMentre il diaframma controlla la quantità di luce che entra nella camera durante la ripresa, l'otturatore controlla la durata del tempo durante il quale la luce colpisce la superficie di registrazione. Apertura del diaframma e tempo d'otturazione determinano quindi la quantità di radiazione in entrata e, di conseguenza, un corretto rapporto tra essi fornisce la giusta esposizione. Per esempio, in situazioni di luce scarsa, si può usare un diaframma molto aperto oppure un maggior tempo di esposizione per catturare anche la poca luce presente; in caso di forte luce, analogamente, si ridurranno i tempi e/o si chiuderà il diaframma. Questo fenomeno non vale linearmente che per un intervallo definito di tempi e di diaframmi (da pochi secondi a circa 1/1000, e da un diaframma f/1,1 a circa f/22 nel caso delle pellicole a media sensibilità); al di fuori di questo ambito, la risposta tenderà a non essere più proporzionale, nonché differente per le diverse lunghezze d'onda. Interverranno altri fenomeni, di cui i più noti sono l'effetto Schwarzschild, o di reciprocità, e i fenomeni di diffrazione di cui si dovrà tener conto in tutti quei casi (fotografia notturna, astrofotografia, ad esempio) in cui si esce da questo intervallo di risposta lineare.

Messa a fuocoL'apparato fotografico necessita che sull'elemento sensibile, l'immagine reale che si andrà a formare venga focalizzata (Messa a fuoco) in maniera opportuna, concentrando la radiazione sul piano focale. Ci sono vari sistemi per mettere a fuoco l'immagine in modo accurato, a seconda del tipo di macchina fotografica. Le fotocamere più semplici utilizzano, combinandoli, più accorgimenti per ottenere il fuoco fisso, come un'apertura del diaframma molto ridotta ed obiettivi di tipo grandangolare per ottenere la messa a fuoco sulla

distanza iperfocale ovvero per fare in modo che tutto ciò che è compreso in un certo intervallo (tipicamente tra tre metri e l'infinito) sia ragionevolmente a fuoco. È il tipo di messa a fuoco usato nelle macchine fotografiche monouso, nelle macchine fotografiche economiche, nelle fotocamere dei telefoni cellulari. L'intervallo tra la distanza minima e massima dalla macchina fotografica entro la quale i soggetti della foto sono a fuoco è definita profondità di campo.

La maggior parte delle fotocamere utilizza invece obiettivi a fuoco variabile, cambiando quindi la geometria del sistema, per esempio muovendo avanti e indietro sull'asse l'ottica, o parte di essa. Per mettere a fuoco l'immagine. Questa operazione può essere effettuata manualmente o può essere svolta automaticamente - in fotocamere a ciò abilitate - grazie alla funzione di autofocus.

Le fotocamere a telemetro permettono di controllare visivamente il fuoco per mezzo di una unità di parallasse accoppiata posta sopra il corpo macchina. Le macchine fotografiche reflex ad obiettivo singolo (SLR) utilizzano le lenti dell'obiettivo ed uno specchio per proiettare l'immagine su un vetro smerigliato che, visualizzato nel mirino, permette di definire la giusta inquadratura e messa a fuoco, aiutandosi con alcuni dispositivi ottici integrati nel vetro smerigliato, tipicamente lo stigmometro a immagine spezzata e la corona di microprismi.

Le fotocamere reflex a doppio obiettivo (TLR) o biottiche, utilizzano un obiettivo per proiettare attraverso uno specchio l'immagine su un mirino di messa a fuoco e l'altro per proiettare l'immagine sulla pellicola; i due obiettivi sono accoppiati in modo che se l'immagine è a fuoco nel mirino, lo è anche sulla pellicola.

Il banco ottico utilizza un vetro smerigliato che viene sostituito, al momento dell'esposizione, da una lastra fotografica.

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TipologiePossiamo idealmente suddividere gli apparecchi fotografici secondo diversi criteri, il più macroscopico dei quali si basa sulla tipologia dell'elemento sensibile, chimico, basato su reazioni innescate dalla radiazione incidente, o elettronico basato su diversi tipi di sensori. Attualmente, sulla base di questo criterio, si collocano nelle categorie:

• Fotocamere digitali, basate su elementi sensibili elettronici a tecnologia digitale ormai di diversificate caratteristiche, dalle minuscole apparecchiature di pochi centimetri, a apparati da studio ad alta risoluzione con sensori linear array. Poche, limitate a settori specifici e generalmente superate le tecnologie elettroniche analogiche.

• Fotocamere tradizionali, basate sulla chimica del processo fotografico, nei vari formati, dalle diverse e diffuse pellicole alle lastre piane.

Un altro criterio di categorizzazione, largamente estendibile è quello relativo ai formati ed alle caratteristiche generali, indipendentemente dall'elemento sensibile, che in alcuni casi può essere intercambiabile, quindi sia elettronico che tradizionale. Avremo una vasta gamma di apparecchi:

• Fotocamere da studio, di grosso formato, in genere a dorso intercambiabile, digitale, a lastra piana e a pellicola di diversi formati

• Fotocamere, di grosso formato, in genere a dorso intercambiabile, trasportabili

• Fotocamere di medio formato, digitali o a pellicola, a volte con dorso intercambiabile, e come sotto-categorie:

• a mirino

• reflex biottica

• reflex SLR

• Fotocamere di piccolo formato, dove solo poche reflex sono state prodotte come adattabili pellicola/digitale, ugualmente frazionabili in:

• a mirino

• reflex SLR

• Fotocamere compatte, palmari

• Microcamere

• Fotocamere panoramiche, rotanti od a obiettivo rotante

• Fotocamere per ripresa stereoscopica

• Fotocamere di uso scientifico e specialistico

• Fotocamere tradizionali a sviluppo istantaneo.

Macchine a film e macchine digitaliLe macchine fotografiche tradizionali "catturano" la luce su una pellicola fotografica o su una lastra fotografica. Le fotocamere digitali utilizzano, al posto dei supporti tradizionali, un CCD o CMOS, per catturare le immagini che possono poi essere trasferite o archiviate in un dispositivo removibile o nella memoria interna della fotocamera per un utilizzo successivo o per effettuare operazioni di fotoritocco. Alcune macchine fotografiche digitali possono riprendere, oltre a immagini ferme, anche filmati.

Alcune macchine fotografiche hanno dei dispositivi (dorso data) che possono imprimere la data e/o l'ora sullo stesso negativo

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Diaframma

In fotografia ed in ottica, un diaframma è un'apertura solitamente circolare o poligonale, incorporata nel barilotto dell'obiettivo, che ha il compito di controllare quantità di luce che raggiunge la pellicola (in una fotocamera convenzionale) o i sensori (in una fotocamera digitale) nell'unità di tempo (intensità di luce).

Il centro del diaframma coincide con l'asse ottico della lente.

La maggior parte delle fotocamere dispone di un diaframma di ampiezza regolabile (simile, per funzione, all'iride dell'occhio) contenuto nella lente; la regolazione del diaframma si chiama apertura.

Insieme al tempo di esposizione l'apertura del diaframma determina la quantità di luce che viene fatta transitare attraverso l'obiettivo, che va quindi a impressionare la pellicola o i sensori.

In modo dipendente dalla velocità della pellicola, la quantità di luce incidente su di essa (o sensore fotosensibile) viene a determinare l'esposizione di una fotografia.

A piena apertura il diaframma lascia passare, in un dato tempo, quanta più luce possibile verso il supporto sensibile; chiudendo il diaframma si riduce tale quantità di luce.

A parità degli altri parametri (obbiettivo, formato, ecc) la profondità di campo è fortemente influenzata dall'apertura del diaframma: se questo è completamente aperto essa assume il minimo valore, viceversa diminuendo l'apertura (l'operazione è detta diaframmare) si aumenta la profondità di campo, che raggiunge il massimo quando il diaframma è portato all'apertura minima.

Diaframmi di piccole dimensioni richiedono però tempi di esposizione più lunghi e conseguentemente implicano un maggior rischio di mosso se il soggetto o la fotocamera si spostano durante

l'esposizione.

Diaframmi più chiusi hanno anche l'effetto di ridurre gli effetti di aberrazione ottica.

Nelle fotocamere, il diaframma può essere regolato su diverse aperture, distribuite regolarmente su una scala di intervalli detti numeri f (f/numero) o f/stop o aperture diframmali o divisioni di diaframma o più semplicemente diaframmi.

La sequenza dei valori di numeri f è una progressione geometrica di ragione (circa 1,4) standardizzata al congresso di Liegi nel 1905. Comprende i seguenti valori:

f/1 f/1,4 f/2 f/2,8 f/4 f/5,6 f/8 f/11 f/16 f/22 f/32 f/45 f/64

L'intervallo tra i diversi valori del diaframma viene comunemente indicato in gergo stop.

I numeri f sono calcolati e ordinati in modo tale che diaframmando (cioè chiudendo il diaframma di un'intera divisione o di 1 stop) si dimezza la quantità di luce che entra a impressionare la pellicola o i sensori; chiudendolo di 2 stop si diminuisce la luce a 1/4, chiudendolo di 3 divisioni a 1/8 e così via.

I numeri f esprimono il rapporto tra la lunghezza focale dell'obiettivo e il diametro dell'apertura del diaframma pertanto a valori più bassi di f corrispondono aperture di diaframma più ampie.

Per cui, ad esempio, con un obiettivo di 50 mm, un'apertura del diaframma di 25 mm corrisponde a f/2 mentre un'apertura di 3,125 mm a f/16.

Questo significa che, pur essendo la scala dei diaframmi standardizzata (è la stessa su tutti gli obiettivi), in realtà lo stesso numero f impostato su ottiche di focale diversa ha effetti diversi.

Infatti il rapporto, ad esempio di f/4, implica che per un teleobiettivo di lunghezza focale f = 200 mm il diametro di apertura dell'obiettivo è pari a 200/4 = 50 mm mentre per un grandangolare di lunghezza

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focale f = 35 mm l'apertura è pari a 35/4 = 8,75 mm. Quindi impostando ad 8 il valore del diaframma di un qualunque obiettivo equivale ad aprire il diaframma dell'obiettivo con un diametro pari ad 1/8 della sua lunghezza focale.

Tale regola ha valore per gli obiettivi non "retrofocus" con lunghezza focali oltre i 35 mm.

StoriaIn fotografia, i primi diaframmi introducevano delle deformazioni nell'immagine dette a barilotto o a cuscinetto. Questi diaframmi erano dei tappi forati al centro, posti davanti oppure dietro all'ottica. Sono state usate anche delle lamine forate da inserire tramite una slitta nell'obiettivo, cerchi rotanti con dei fori di vario diametro, coppie di lamine con fori tranciati a forma triangolare che scorrendo producono un foro di forma quadrangolare. Il diaframma ad oggi più utilizzato è quello detto «a iride»: è formato da un numero variabile di lamelle (da 4 in su) sagomate in maniera opportuna. Le lamelle sono imperniate in una ghiera rotante azionabile dall'esterno che, scorrendo, fanno variare in maniera continua la dimensione del foro. La sagoma del foro è dovuta alla forma delle lamelle e si avvicina al cerchio quanto più il loro numero è alto.

OtturatoreIn fotografia, l'otturatore è il dispositivo meccanico o elettronico che ha il compito di controllare per quanto tempo la pellicola o il sensore (nelle fotocamere digitali) resta esposto alla luce.

Facendo un parallelo con l'occhio umano, mentre la pupilla rappresenta il diaframma, la palpebra dà un'idea dell'otturatore.

Gli otturatori possono essere classificati in due tipi:

1. otturatori centrali

2. otturatori a tendina

Al primo tipo corrispondono tutti gli otturatori dotati di lamelle disposte a raggiera, in modo simile a quelle del diaframma.

Il secondo tipo è un otturatore composto da due superfici di stoffa o metallo disposte parallelamente lungo il piano focale, che scorrono verticalmente formando una fessura che lascia passare la luce.

Se il tempo richiesto è lento, la prima tendina raggiunge il fine corsa e conseguentemente parte la seconda che copre la pellicola concludendo l'esposizione.

In caso di tempi più rapidi, la seconda tendina viene azionata durante la corsa della prima, quindi la pellicola non viene esposta contemporaneamente lungo tutto il fotogramma, ma solo attraverso la fessura formatasi dal ritardo fra la prima e la seconda tendina.

L'otturatore, insieme al diaframma (che regola l'intesità della luce), è un fattore indispensabile per determinare una corretta esposizione, la giusta regolazione dell'apertura diaframmale combinata con la giusta regolazione del tempo di otturazione consentirà di impressionare la pellicola o il sensore esattamente con la quantità di luce richiesta (intensità x tempo) per un'esposizione perfetta.

Il tempo di otturazione può essere utilizzato in modo creativo, infatti

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scegliendo un tempo lento si può catturare un soggetto ed esaltarne il movimento (mosso creativo), oppure scegliendo un tempo rapido si può fissare (congelare) un soggetto in movimento e aumentare la nitidezza dell'immagine.

Nelle moderne macchine fotografiche, i tempi dell'otturatore sono selezionabili da una ghiera oppure, negli apparecchi elettronici, da pulsanti o comandi digitali.

Una tipica serie di tempi (o velocità) di otturazione in frazioni di secondo è la seguente:8 4 2 1 1/2 1/4 1/8 1/15 1/30 1/60 1/125 1/250 1/500 1/1000 1/2000 1/4000Nella scala dei tempi ogni valore è circa la metà di quello che lo precede ed circa il doppio di quello successivo.

Di norma i valori inferiori al secondo sono visualizzati solo con il divisore: 1/125 diviene 125.

Come per la scala dei diaframmi, l'intervallo tra i diversi valori dei tempi di otturazione viene indicato in gergo stop.

Aumentando/diminuendo di uno stop il tempo di otturazione raddoppio/dimezzo la quantità di luce che arriva al supporto sensibile.

Per esempio se si aumenta di 1 stop il tempo di otturazione, senza variare il valore di apertura del diaframma, si aumenta di un 1EV l'esposizione calcolata dall'esposimetro, il che significa raddoppiare (2X) la quantità di luce che penetra attraverso l'obiettivo.

Ma se contemporaneamente chiudiamo di un 1 stop l'apertura del diaframma, per cui dimezziamo la quantità di luce che penetra attraverso l'obiettivo, si ha una compensazione e il valore esposimetrico (EV) rimane invariato.

StoriaDalle prime camere oscure fino alla metà dell'Ottocento, l'otturatore era realizzato da un tappo con cui il fotografo copriva l'obiettivo e che utilizzava per regolare il tempo di esposizione, che si aggirava nell'ordine dei minuti.

Il progresso dei materiali sensibili richiese tempi di esposizione sempre più ridotti, si rese quindi necessario un sistema più raffinato per gestire lo scatto. A questa esigenza William England rispose progettando nel 1861 con il primo otturatore sul piano focale, montato poi nel 1883 sulla Goerz Anschutz. Questo otturatore era costituito da una tendina di stoffa che formava una fessura per la luce, che poteva raggiungere il tempo di 1/1000 di secondo.

Nel 1878 Eadweard Muybridge riuscì a catturare su pellicola 12 fotogrammi raffiguranti il trotto di un cavallo. A tale scopo utilizzò una batteria di apparecchi fotografici. Il passaggio del cavallo spezzava dei fili metallici che azionavano le elettrocalamite collegate agli otturatori delle fotocamere. Gli otturatori erano due lastre di cartone che scorrevano davanti l'obiettivo, temporizzate da un meccanismo a orologeria che, secondo Muybridge, permettevano un tempo di 1/2000 di secondo.

Nel 1902 fu progettato il sistema Compound, utilizzato poi nel 1912 con il nome di Compur.

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Pellicola fotografica

La pellicola fotografica è il supporto atto a conservare le immagini riprese a mezzo di una macchina fotografica analogica (a pellicola).

È costruita a strati, il supporto di base è un sottile nastro di materiale plastico (solitamente poliestere o triacetato di celluloide), a cui è sovrapposto uno strato antialone per evitare riflessi interni. Gli strati successivi contengono una emulsione di alogenuro d'argento con cristalli di grandezza variabile. Il materiale fotosensibile è legato con della gelatina, realizzata da materiali organici animali, all'alogenuro, prodotto combinando il nitrato d'argento con sali di alogenuri alchilici (cloro, bromo e iodio) variando la dimensione del cristallo. Nelle pellicole bianco e nero, è presente un solo strato di emulsione fotosensibile, mentre nelle pellicole colore sono necessari tre diversi strati sensibili alle diverse frequenze di luce visibile per formare l'immagine finale, utilizzando la sintesi cromatica sottrattiva. Questi strati sono disposti uno sopra l'altro e resi sensibili ai colori con delle molecole organiche chiamate sensibilizzatori spettrali. Partendo dal basso, il primo strato è sensibile al rosso, il secondo al verde e il terzo al blu. Tra il verde e il blu è presente uno strato filtro di colorante giallo per evitare il passaggio del blu. L'emulsione può essere resa sensibile alla luce visibile, all'infrarosso, all'ultravioletto, ai raggi X o ai raggi gamma.

Quando la pellicola viene sottoposta ad una esposizione controllata di luce si imprime una immagine su di essa, chiamata immagine latente. È necessario applicare alla pellicola i processi chimici di rivelazione (sviluppo) per creare una immagine stabile e insensibile ad ulteriori esposizioni alla luce, mediante i

Classificazione e caratteristicheLa pellicola fotografica può essere per negativi o invertibile. La prima trasforma l'immagine latente in negativo, quindi viene stampata su carta fotografica per ottenere il positivo, mentre nella pellicola invertibile o diapositiva il processo di sviluppo trasforma l'immagine in positiva, da proiettare o stampare.

Altre caratteristiche delle pellicole sono la sensibilità, la grana, la latitudine di posa, la risolvenza ed il contrasto. Le pellicole sono tarate per una particolare temperatura di colore, normalmente per luce diurna. Per l'utilizzo con fonti luminose diverse dalla luce naturale sono disponibili pellicole per luce al tungsteno o al Neon, oppure si possono utilizzare appositi filtri fotografici per la conversione colore dominante.

Trattamento spintoÈ possibile esporre una pellicola ad una sensibilità diversa da quella nominale, con una tecnica chiamata trattamento spinto (push processing nella letteratura in inglese). Con il trattamento spinto si utilizza la pellicola ad una sensibilità superiore, ovvero una sottoespozione che in fase di sviluppo richiede un aumento del tempo di sviluppo (o della temperatura dei liquidi) per compensare la scarsa esposizione. Questo procedimento aumenta il contrasto e la grana. Viceversa, utilizzando il pull, si sovraespone in ripresa con la conseguente riduzione del tempo di sviluppo. In questo caso il contrasto e la saturazione dei colori diminuiscono.

Pellicole istantaneeEsistono in commercio pellicole che contengono i chimici necessari per lo sviluppo diretto all'interno dello stesso supporto. La prima pellicola di questo tipo è stata introdotta dalla Polaroid nel 1948 e permette di ottenere l'immagine positiva pochi minuti dopo

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l'esposizione.

Difetto di reciprocitàIl rapporto di reciprocità, definito come la relazione tra diaframma, tempo di esposizione e velocità della pellicola, è sempre lineare tranne che nelle situazioni in cui il tempo di esposizione è particolarmente breve o molto lungo. Nelle pellicole bianco e nero gli elementi sensibili presenti sulla pellicola non reagiscono allo stesso modo e possono provocare una risposta alla luce insufficiente. Questo problema, chiamato difetto di reciprocità, può essere corretto variando l'esposizione e compensando la risposta insufficiente.

Nelle pellicole a colori la risposta alla luce è diversa per ogni livello di materiale fotosensibile, quindi si incorre in dominanti di colore che possono essere corrette con l'utilizzo di appositi filtri. Il problema si presenta anche nelle riprese con flash, che portano, solitamente, a immagini con dominanza tendente al ciano. Queste soluzioni vengono normalmente illustrate all'interno dei manuali tecnici delle pellicole. Ad esempio, una pellicola 50 ISO, richiede una compensazione dell'esposizione quando si utilizza un tempo di 4 secondi o superiore. La compensazione necessaria nel caso di esposizione di 4 secondi è di 1/3, quindi la pellicola dovrà essere esposta per circa 4,3 secondi.

Questo difetto è importante nella fotografia astronomica, in quanto la necessità di lunghe esposizioni porta al limite la risposta della pellicola. Per aumentare la sensibilità della pellicola e rendere la risposta alla luce più lineare nel tempo, è possibile immergere la pellicola nel gas "forming gas" a 30/40 °C sottovuoto, per diverse ore. Deve essere mantenuta sotto zero ed estratta, utilizzata e sviluppata in

FormatiLe pellicole fotografiche sono solitamente avvolte in rullini a tenuta di luce, che contengono un numero variabile di fotogrammi, da 12 a 36. Per uso professionale, sono distribuiti rulli di dimensioni maggiori venduti a metri, da tagliare e inserire manualmente in rullini.

La classificazione per formato si basa sulla dimensione del fotogramma.

• 135 (conosciuto come 35mm, il piccolo formato)

• APS (Advanced Photo System)

• 110 (13 x 17 mm, fuori produzione)

• 120/220 (56 × 56 mm, il medio formato)

Il supporto fotografico è distribuito anche in lastre per utilizzo singolo nelle fotocamere a banco ottico a grande formato.

ConservazioneLa conservazione delle pellicole non ancora esposte richiede temperature inferiori a 15 °C per l'uso nel medio periodo, inferiori a 0 °C per l'utilizzo nel lungo periodo. Questo evita il naturale degrado degli alogenuri che possono portare a dominanti cromatiche o variazioni della sensibilità. Per le pellicole esposte sono sufficienti temperature inferiori a 25 °C per il medio periodo e inferiori a 10 °C per il lungo periodo, sempre con umidità compresa tra il 30% e il 50%. È importante comunque sviluppare la pellicola il prima possibile, per evitare il decadimento degli alogenuri.

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Velocità della pellicola

In fotografia, la velocità della pellicola, detta anche sensibilità o rapidità, indica la sensibilità di una pellicola fotografica (o del sensore in una fotocamera digitale) alla luce.

Uno scatto con pellicola a bassa sensibilità richiede (a parità di condizioni), un tempo di esposizione maggiore; si parla perciò di pellicola lenta, viceversa, una pellicola ad alta sensibilità, che richiede tempi di esposizione più brevi, si dice pellicola veloce.

La velocità si misura in numeri ISO e/o ASA (o in Germania in numeri DIN); quanto più alto è il numero, tanto più sensibile alla luce è la pellicola o il sensore e quindi, a pari condizioni, tanto più breve è l'esposizione.

Le pellicole con rapidità ISO/ASA da 25 a 64 (15-20 DIN) sono lente; da 125 a 400 (22-27 DIN) di rapidità da moderata a media; quelle superiori a 500 (28 DIN) sono rapide.

Lo standard ISO 5800:1987 definisce due scale (una lineare e una logaritmica) per misurare la velocità delle pellicole. La scala lineare corrisponde alla scala ASA (oggi non più usata), mentre la seconda corrisponde alla scala DIN, anch'essa non più usata.

I numeri sono calcolati in modo che una pellicola con numero ISO/ASA doppio di un altro ha sensibilità doppia e, a parità di condizioni, richiede la metà del tempo di esposizione.

Nella scala DIN la rapidità della pellicola raddoppia ogni tre valori, per cui una pellicola da 18 DIN è due volte più rapida di una da 15 DIN.

Come per i tempi di esposizione e le aperture del diaframma, anche per quanto riguarda gli ISO/ASA il passaggio da un numero all'altro si indica in gergo stop, aumentando/diminuendo di uno stop la velocità della pellicola si raddoppia/dimezza la quantità di luce.

Il valore della rapidità deve essere impostato sulla scala di sensibilità della fotocamera affinché l'esposimetro interno possa indicare i dati di esposizione corretti.

I valori di ISO più comuni sono 25/15°, 50/18°, 100/21°, 200/24°, 400/27°, 800/30°, 1600/33°, e 3200/36°. I fotoamatori e i fotografi semiprofessionisti utilizzano principalmente pellicole fra i 100/21° e gli 800/30°.

Sensibilità ISO nelle fotocamere digitaliNei sistemi fotografici digitali è possibile variare il guadagno elettronico del sensore al fine di avere un diverso rapporto fra l'esposizione alla luce e la luminosità definitiva dell'immagine risultante. Questo guadagno non è direttamente proporzionale alla sensibilità del sensore, ma il calcolo è più complicato. Su una fotocamera, comunque, impostare una sensibilità ISO e l'esposizione di conseguenza, sia automaticamente che manualmente con l'aiuto di un esposimetro, farà risultare una foto correttamente bilanciata allo stesso modo che nelle fotocamere a pellicola.

Nel mondo della fotografia digitale è stato definito lo standard ISO 12232:2006[2] che disciplina le sensibilità del sensore in relazione alla quantità di luce, il rumore aggiunto dal sensore e le specifiche di apparenza dell'immagine risultante. Le sensibilità ISO digitali sono correlate ai valori convenzionali delle sensibilità della pellicola.

La sensibilità ISO di una fotocamera digitale è basata sulle proprietà del sensore e sull'elaborazione realizzata dall'apparecchio e sono espresse in temini di esposizione luminosa H (in lux secondo) che raggiunge il sensore. In una tipica ottica fotografica con una lunghezza focale f molto inferiore alla distanza fra la fotocamera e la scena fotografata, G è data da:

dove L è la luminanza della scena (in candele per m², t è il tempo di esposizione (in secondi), N è il valore del diaframma e

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è un fattore dipendente dalla trasmittanza T dell'ottica, il fattore vignettatura v(θ) e l'angolo θ relativo all'asse della lente rispetto alla luce. Un valore tipico di q = 0.65, basato su θ = 10°, T = 0.9, e v = 0.98.

La sensibilità di saturazione base (SAT) è definita come

dove Hsat è l'esposizione massima per non bruciare la fotografia. Solitamente, il limite inferiore della velocità di saturazione è determinato dal sensore stesso, ma con il guadagno elettronico dell'amplificatore fra il sensore ed il convertitore analogico-digitale, la velocità di saturazione può essere aumentata. La costante 78 è stato scelta come impostazione di esposizione in modo tale che un esposimetro standard ed una superficie riflettente del 18-percento risultassero in un'immagine con un livello di saturazione di grigio del 18%/√2 = 12.7%.

La sensibilità di rumore base è definita come l'esposizione che porterà ad un determinato rapporto segnale-rumore in un singolo pixel. Vengono utilizzati due rapporti, il 40:1 ("qualità dell'immagine eccellente") ed il 10:1 ("qualità dell'immagine accettabile"). Questi rapporti sono stati determinati basandosi su una risoluzione di 70 pixels per centimetro (180 DPI) osservati a 25 cm di distanza. Il rapporto segnale-rumore è definito come la deviazione standard della media pesata della luminanza e del colore di un singolo pixel. La sensibilità al rumore è determinata maggiormente dalla proprietà del sensore ed influenzata dal rumore aggiunto dal guadagno e dal convertitore Anologico-Digitale.

Oltre alle sensibilità definite sopra, lo standard ISO definisce anche la sensibilità standard di risultato(SOS), come l'esposizione è collegata ai valori dei pixel digitali nell'immagine risultante. È definita come

dove Hsos è l'esposizione che risulterà 118 nei pixeld di 8-bit, che è il

18 percento del valore di saturazione di un'immagine registrata come sRGB o con la correzione gamma = 2.2.

Gli standard specificano anche come le sensibilità dei sensori dovrebbero essere riportati nelle specifiche tecniche della fotocamera. Se la sensibilità al rumore (40:1) è superiore rispetto alla sensibilità di saturazione, si dovrebbe segnalare la sensibilità al rumore arrotondata per difetto ad un valore conosciuto (200, 250, 320, or 400). Se invece è la sensibilità al rumore ad essere inferiore alla sensibilità alla saturazione, sarà quest'ultima a venire utilizzata, arrotondata per eccesso ad un valore conosciuto.

Per esempio, un sensore fotografico potrebbe avere queste proprietà: S40:1 = 107, S10:1 = 1688, eSsat = 49. Secondo gli standard, la fotocamera dovrebbe comunicare la propria sensibilità come

ISO 100 (daylight) ISO speed latitude 50–1600 ISO 100 (SOS, daylight).

L'impostazione di SOS dovrebbe essere controllabile dal fotografo. Un'altra fotocamera con un sensore più rumoroso, potrebbe avere S40:1 = 40, S10:1 = 800, e Ssat = 200. In questo caso, la fotocamera dovrebbe mostrare

ISO 200 (daylight),

ed un'impostazione di SOS controllabile dal fotografo. In ogni caso, la fotocamera dovrebbe indicare per quali impostazioni di bilanciamento del bianco i valori di ISO valgono (se per l'incandescenza o la fluorescenza).

Nonostante esistano tutte queste definizioni standard per quanto riguarda gli ISO delle fotocamere digitali, sarà utile sottolineare quanto la grande maggioranza degli apparecchi non indicano chiaramente a quale tipo di ISO si riferiscono quelli dichiarati dalla fotocamera: se quelli della sensibilità di saturazione, di rumore o alla

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sensibilità del risultato. È corretto ritenere che questi valori vengano prodotti partendo da queste definizioni ma anche prestando attenzione alle necessità del marketing.

Come dovrebbe essere chiaro dalle definizioni sopra fornite, un'impostazione di SOS maggiore per un dato sensore risulterà con una perdita di qualità dell'immagine risultante, come accadeva sulle pellicole analogiche. La differenza sarà che nel digitale avremo un'immagine rumorosa invece che della grana della pellicola. Le migliori fotocamere digitali del 2008 mostrano un'assenza totale di rumore per sensibilità di ISO 200 mentre producono risultati utilizzabili fino a ISO 25600.

Obiettivo fotografico

Obiettivo (o obbiettivo) è un termine generico che descrive un dispositivo ottico in grado di raccogliere e riprodurre un'immagine. È presente in molte apparecchiature ottiche: macchine fotografiche, binocoli, cannocchiali, telescopi, microscopi e altro. Può essere composto da una o più lenti e/o da specchi concavi. In molti casi anche il cristallino dell'occhio è parte del sistema ottico dove il piano focale è rappresentato dalla retina.

Schemi otticiIl caso più semplice di obiettivo è costituito da un piccolo foro che consente il passaggio della luce a formare un'immagine all'interno di una camera oscura. Rispetto al foro stenopeico, gli obiettivi a lenti permettono di concentrare la luce sul piano focale e sono progettati per diminuire le aberrazioni ottiche.

A migliorare ulteriormente la qualità degli obiettivi contribuisce lo sviluppo dei vetri ottici utilizzati, in particolare i vetri a bassa rifrazione e di particolari trattamenti antiriflesso per ridurre la rifrazione interna e migliorare la trasmissione della luce. In un primo momento vennero introdotti i trattamenti antiriflesso semplici (single-coated) e in seguito vennero utilizzati i trattamenti antiriflesso multipli (multi-coated). Guardando dentro un obiettivo se questo è privo di trattamento si vedranno dei riflessi bianchi, se ha trattamento

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singolo dei riflessi blu-ambra, se ha trattamento multiplo dei riflessi blu-magenta. Tutti gli obiettivi oggi in produzione hanno trattamento multiplo.

Gli obiettivi moderni adottano anche lenti cosiddette 'asferiche', la cui curvatura non è una porzione di sfera. L'utilizzo di lenti asferiche aiuta a contenere difetti come l'aberrazione sferica

Caratteristiche degli obiettivi

Lunghezza focaleConsiderando gli obiettivi come una semplice lente, la distanza focale di questi è la misura espressa in mm che separa la lente dal piano focale. Essendo gli obiettivi composti da più gruppi di lenti, tale distanza non si misura da una lente in particolare all'interno degli stessi ma dal centro ottico dell'obiettivo che viene definito "punto nodale posteriore" e in genere si trova in prossimità del diaframma. In sostanza la “distanza focale indica la distanza fra il punto nodale posteriore di un obiettivo e il piano su cui i soggetti all’infinito sono messi a fuoco.”

Non è vero che al variare della focale corrisponde una diversa prospettiva. Per ovvie regole di geometria la prospettiva non cambia se il punto di vista e l’oggetto ripreso rimangono fissi, varia solamente se ci spostiamo dal punto di ripresa. Il variare della focale è una conseguenza del cambiamento di prospettiva, non la causa. Se ci spostiamo da un punto di ripresa arretrando, cambiamo la prospettiva e le dimensioni dell'oggetto che risulterà più piccolo all'interno del fotogramma, di conseguenza cambieremo anche la focale per ingrandire l'oggetto.

La lunghezza focale degli obiettivi è quel fattore che determina l’angolo di campo della ripresa ma ciò dipende anche dalle dimensioni del supporto. Due obiettivi di focale uguale variano

l’angolo di campo ripreso in base alle dimensioni della superficie sensibile al quale sono destinati.

Viene definito obiettivo “Normale”, un obiettivo che ha come lunghezza focale la lunghezza approssimativa della diagonale del supporto fotosensibile usato. Per le fotocamere 35mm con pellicola da 24x36mm, l’obiettivo normale è il 50mm quindi per il formato 35mm, prendendo come punto di riferimento la focale 50mm (normale), gli obiettivi si differenziano fra grandangolari (focale minore) e teleobiettivi (focale maggiore).

Apertura o luminositàL'apertura massima di un obiettivo è uguale alla lunghezza focale diviso il diametro della pupilla d'ingresso (la lente più esterna) dell'obiettivo, ovvero il rapporto focale massimo possibile per un determinato tipo di obiettivo. Minore è l'apertura massima, più luminoso sarà l'obiettivo, riuscendo quindi a far passare più luce ed impressionare la pellicola in minor tempo. Nei telescopi una pupilla d'ingresso di diametro maggiore permette la visione di oggetti meno luminosi.

La quantità di luce che attraversa le lenti è regolata da un dispositivo chiamato diaframma, situato di solito all'interno dell'obiettivo. La sua dimensione determina la profondità di campo e di conseguenza quella di fuoco, la forma influisce, anche se lievemente, sulla forma dello sfocato. Il valore di diaframma indicato sull'obiettivo è la massima apertura ottenibile, altre aperture sono possibili solo chiudendo il diaframma. Negli obiettivi fissi viene specificato un solo valore di apertura, ad esempio f/2.8. Sugli obiettivi zoom possono comparire due valori, il primo per la focale minore, il secondo per quella maggiore. Ad esempio, per uno zoom 35-135mm f/3.5-4, il valore f/3.5 è ottenibile a 35mm e si riduce a f/4 alla focale di 135mm.

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Angolo di campoL'immagine formata dall'obiettivo su una superficie posta in corrispondenza del piano focale è di forma circolare ed è chiamata circolo di illuminazione o cerchio d'immagine; al suo interno vi è un altro circolo detto di 'buona definizione', dove l'immagine può essere interpretata correttamente.

All'interno del circolo di buona definizione viene posto il materiale atto a raccogliere l'immagine. Questo materiale, generalmente di forma quadrangolare, può essere un vetro smerigliato, una pellicola o lastra fotografica, nonché un sensore elettronico. Ha una certa dimensione e l'angolo di campo viene misurato considerando la sua diagonale con la focalizzazione posta all'infinito. È l'angolo misurato al vertice di un triangolo isoscele posto sull'asse dal piano focale dell'obiettivo con alla base la dimensione dell'immagine formata sulla diagonale del materiale sensibile. Varia quindi in funzione del formato del materiale sensibile e della lunghezza focale, è più ampio quando questa è corta e viceversa. Da notare che se ci si sposta dall'infinito, distanziando l'obiettivo dal piano focale, l'angolo di campo diminuisce.

Messa a fuocoPer poter visualizzare nitidamente l'immagine si opera sulla messa a fuoco che consiste nel posizionare l'obiettivo a distanza opportuna tra il piano focale e l'oggetto fotografato. In alcuni obiettivi non vi è nessuna modifica alla propria lunghezza perché l'operazione è fatta con lo spostamento di uno o più gruppi ottici interni all'obiettivo stesso. Alcuni obiettivi macro, capaci di mettere a fuoco a distanze molto ridotte, utilizzano più gruppi interni indipendenti per garantire la massima definizione anche a distanze ridotte e sulle parti più esterne del fotogramma. L'operazione è svolta agendo su un'apposita ghiera posta sul barilotto dell'obiettivo. La messa a fuoco può essere di tipo manuale o automatico, utilizzando un motore posto all'interno

della fotocamera o dell'obiettivo stesso. I moderni obiettivi motorizzati offrono una modalità ibrida: quando lavorano in autofocus è sufficiente impugnare la ghiera di messa a fuoco per passare in modalità manuale, consentendo di imbastire la messa a fuoco in automatico e di rifinire poi in manuale nel caso fosse necessario, senza dover attivare il selettore di modalità.

Tipi di obiettivo• A lenti

Sono formati da più di una lente perché solo così si riescono a correggere, parzialmente, le aberrazioni ottiche. Nei telescopi si usano più lenti per correggere l'aberrazione cromatica e sono detti acromatici. Le lenti sono costruite con diversi tipi di vetro caratterizzati dal loro indice di rifrazione e dalla curvatura che può essere sferica o asferica. La curvatura delle superfici ne caratterizza la lunghezza focale che sarà positiva nel caso di convergenza e negativa nel caso di divergenza. L'uso di lenti diverse per tipo e lunghezza focale, positiva o negativa, permette le varie correzioni e ne definisce la lunghezza focale generale (sempre positiva).

• A specchi

Sono detti catadiottrici e la loro costruzione è simile al telescopio riflettore a schema Cassegrain. Rispetto ai teleobiettivi hanno il vantaggio di un piccolo ingombro e di un basso peso. Oltre ai due specchi sono costruiti impiegando delle lenti a bassa curvatura per la correzione delle aberrazioni sferiche e come sostegno dello specchio secondario. A causa delle notevoli aberrazioni extra-assiali sono costruiti solo con lunghezze focali da 350mm in su. A causa della sua conformazione ottica non è possibile introdurvi il diaframma. Inoltre la forma dello sfocato è un anello invece di un cerchio, sono meno luminosi rispetto agli obiettivi a lenti e l'immagine è in genere meno

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nitida ai bordi del fotogramma rispetto al centro.

• Foro stenopeico

È un piccolo foro praticato in una lamina sottile di materiale opaco. Indicativamente il diametro del foro è di un terzo di millimetro. Conosciuto fin dai tempi più antichi applicato alla camera obscura della quale è notevole la descrizione che ne fece Leonardo da Vinci nel Codice atlantico (camera oscura leonardiana). La luminosità è molto bassa ed è quindi impiegabile solo con oggetti statici e molto luminosi. È esente da quasi tutte le aberrazioni degli altri obiettivi e possiede una profondità di campo praticamente illimitata. La nitidezza molto bassa migliora diminuendo il diametro del foro, aumentando però la diffrazione che provoca degli aloni ai bordi.

Aggiuntivi otticiSono dei complementi ottici da montarsi anteriormente o posteriormente agli obiettivi per cambiarne la lunghezza focale a discapito, però, di altre caratteristiche.

Tubi di prolunga Sono dei cilindri senza lenti da montare tra la fotocamera e l'obiettivo constentendo un accorciamento della minima distanza di messa a fuoco. Utili in macrofotografia, sono disponibili in diverse altezze, l'unico difetto è il comportare una perdita di luminosità proporzionale alla dimensione del tubo.

Lenti addizionali Vengono montate anteriormente all'ottica per fare in modo che la focalizzazione dell'oggetto avvenga a distanza ravvicinata ed avere un rapporto di riproduzione almeno di uno a uno. Sono dei sistemi ottici convergenti possibilmente acromatici. Diminuiscono la lunghezza focale dell'obiettivo su cui sono montati. La distanza col piano di messa a fuoco rimane invariata per cui non è più possibile la focalizzazione all'infinito ma solo a distanze molto ravvicinate.

La luminosità dell'obiettivo originale non cambia in maniera percettibile. Si misurano in diottrie ed esistono modelli da +1, +2, +3 con potere di ingrandimento crescente.

Moltiplicatori di focale Sono dei sistemi ottici divergenti montati posteriormente all'obiettivo e servono ad allungare la lunghezza focale. La distanza di messa a fuoco non cambia, ma diminuisce la luminosità originale in funzione del fattore di moltiplicazione. L'ingrandimento è comunemente di 1,4 o 2, da moltiplicare per la lunghezza focale dell'obiettivo. Vengono comunemente utilizzati per la fotografia naturalistica o per il reportage.

Classificazione per utilizzo

Obiettivo normaleÈ considerato normale l'obiettivo che ha l'angolo di campo simile a quello dell'occhio umano, con un angolo di campo compreso tra 43° e 45°. Estendendo la gamma anche ai grandangolari e teleobiettivi moderati, si possono considerare gli angoli tra 20° e 59°. Per convenzione si considerano normali gli obiettivi con lunghezza focale vicina alla diagonale del fotogramma. Per il formato fotografico Leica, il più comune, detto 35mm o 135, che ha il fotogramma di 24x36mm, è considerato normale l'obiettivo da 50mm di lunghezza focale anche se quello che si avvicina di più sarebbe il 43mm. Nel formato 120 conosciuto come 6x6 il normale ha lunghezza focale di 80mm invece di 85mm calcolati.

GrandangoloGli obiettivi con angolo di campo maggiore ovvero lunghezza focale minore del normale, sono detti grandangoli. L'angolo di campo passa da 60° a 80° per un grandangolare, per portarsi anche a 180° negli

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ultragrandangolari e fish-eye. Questi ultimi sono così chiamati perché a causa dell'angolo di campo estremamente esteso l'immagine risulta tonda, come se fosse catturata attraverso un occhio di pesce. Per il 24x36mm il più classico è il 24mm, ma sono comuni anche il 35mm e il 28mm. I grandangolari spinti producono un'immagine molto deformata dovuta alla proiezione equidistante dei fasci luminosi sulla pellicola, fino ad arrivare alla formazione di un'immagine circolare. Il loro angolo di campo raggiunge i 180° e i 220° nel Nikkor 6mm 2,8. È possibile correggere la distorsione usando la proiezione rettilineare fino alla lunghezza focale di 14mm. Quando la lunghezza focale diminuisce il corpo dell'obiettivo verrebbe a trovarsi troppo vicino al piano focale con impedimento del funzionamento di alcuni organi meccanici interni alla fotocamera. Per ovviare a questo inconveniente è stato adottato lo schema ottico a retrofocus o a teleobiettivo invertito. Consiste in un gruppo ottico anteriore divergente e in un gruppo posteriore convergente, è possibile che vi siano ulteriori gruppi centrali.

I grandangolari restituiscono una prospettiva accentuata e sono soggetti alle distorsioni a barilotto, dove le linee cadenti ai bordi curvano vistosamente. Questo effetto tipico dei grandangolari permette una esaltazione del soggetto in primo piano, realizzando così interessanti effetti creativi.

Teleobiettivo o lungo fuocoGli obiettivi con angolo di campo minore ovvero lunghezza focale maggiore del normale sono detti teleobiettivi. L'angolo di campo varia tra i 20° fino a 5° o inferiori in casi estremi. Sarebbe più giusto chiamarli lungo fuoco quando presentano uno schema ottico normale. Per le leggi dell'ottica la distanza tra il piano ottico e il piano di messa a fuoco all'infinito è uguale alla lunghezza focale allungandosi ulteriormente per focalizzazioni a brevi distanze. Quindi un 500mm diverrebbe lungo oltre mezzo metro con scarsa maneggiabilità e sbilanciamenti nell'impiego pratico soprattutto con uso a mano libera.

Per ovviare a questi inconvenienti è stato adottato lo schema ottico a teleobiettivo. Consiste in un gruppo ottico anteriore convergente e in un gruppo posteriore leggermente divergente, è possibile che vi siano ulteriori gruppi centrali. Questa focale provoca un evidente ingrandimento del soggetto e produce una forte compressione del campo, ovvero avvicina gli oggetti riducendo apparentemente le distanze.

SpecializzazioniAlcuni generi fotografici come la fotografia architettonica e la ritrattistica richiedono obiettivi con caratteristiche particolari.

Nella fotografia architettonica, per eliminare le linee cadenti causate dalla necessità di puntare in alto l'obiettivo per inquadrare un edificio, sono stati progettati Per il medio formato e il 35mm degli obiettivi definiti decentrabili (o basculanti) o PC (perspective control), che possiedono un circolo di buona definizione superiore al normale. Per risolvere questo difetto nel banco ottico è possibile spostare l'obiettivo verticalmente con un movimento chiamato decentramento (o basculamento).

Nel ritratto è utile esaltare il volto o la figura umana dallo sfondo e questo si ottiene normalmente riducendo la profondità di campo, ovvero aprendo il diaframma. Per un maggiore controllo della sfocatura si può utilizzare un tipo particolare di obiettivi, chiamati soft focus, che consentono di impostare un valore maggiore o minore dell'effetto. Sono anche disponibili filtri fotografici soft focus molto più economici che realizzano l'effetto di diffusione sulle alte luci.

StoriaIl primo obiettivo fu realizzato forando una parete di una scatola chiusa per farvi passare la luce, producendo un foro stenopeico. Nel 1550 Gerolamo Cardano introdusse una lente convessa per

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concentrare la luce e aumentare la luminosità, nel 1568 Daniele Barbaro aggiunse un diaframma per ridurre le aberrazioni.

Nel 1814 William Hyde Wollaston sostitui la lente di Cardano con una concavo-convessa, a menisco,

Nel 1829 Charles Chevalier realizzò le prime lenti acromatiche composte da un elemento positivo e uno negativo con due vetri ottici di potere dispersivo uguale e contrario. Produsse inoltre gli obiettivi per equipaggiare le fotocamere di Alphonse Giroux per la dagherrotipia, con focale di 40,3cm (403mm) f/11.

Il 1840 vide la nascita del primo obiettivo calcolato matematicamente da Joseph Petzval, di luminosità f/3.

Nel 1890 John Henry Dallmeyer risolse il problema delle necessità delle lunghe focali progettando lo schema ottico a teleobiettivo, riducendo il tiraggio accorciando il fuoco posteriore rispetto alla lunghezza focale.

Il tripletto di Cooke, realizzato nel 1893 da Dennis Taylor per la Cooke & Sons, ridusse la distorsione e migliorò la qualità ai bordi.

Nel corso degli anni furono introdotti da grandi aziende del settore schemi ottici dai quali nacquero diversi obiettivi. Fra gli schemi ottici più importanti, i cui nomi per vecchia tradizione derivano dal greco, compaiono il Tessar, il Planar, il Distagon, l'Hologon, il Topogon, il Sonnar (Zeiss), il Dagor, l' Artar, l'Hypergon (Goerz), il Super-Angulon (Schneider), l'Ernostar (Ernemann)

Esposizione

In fotografia, il termine esposizione indica talvolta il periodo di tempo durante il quale l'otturatore della fotocamera rimane aperto nello scatto di una fotografia (vedi: tempo di esposizione); più spesso, in gergo tecnico, la stessa parola indica la quantità totale di luce che viene fatta giungere alla pellicola (o al sensore nel caso di fotocamere digitali) nel suddetto periodo. L'esposizione si misura in EV (valore di esposizione) ed è determinata con l'ausilio dell'esposimetro.

DefinizioneL'esposizione è definita come:

esposizione = intensità luminosa × tempo

e può essere descritta come la somma dei fattori di diaframma, tempo di esposizione e velocità della pellicola. Il rapporto che intercorre tra questi tre elementi è definito come reciprocità. A parità di condizioni di luce, si ottiene la stessa esposizione se aumentando un fattore se ne diminuisce un altro della stessa quantità. Ad esempio, portando il tempo da 1/250 a 1/500, quindi dimezzando l'esposizione alla luce, si può scegliere se raddoppiare il diaframma oppure aumentare la sensibilità della pellicola (o del sensore elettronico nelle fotocamere digitali). In entrambi i casi la quantità di luce che colpirà la pellicola

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sarà la stessa. Ad esempio la terna di valori ISO 100-f/5,6-1/60 è equivalente alle seguenti:

• ISO 100-f/8-1/30

• ISO 100-f/4-1/125

• ISO 100-f/11-1/15

• ISO 100-f/2,8-1/250

• ISO 200-f/8-1/60

• ISO 200-f/11-1/30

• ISO 200-f/4-1/250

• ISO 400-f/8-1/125

• ISO 400-f/5,6-1/250

• ISO 3200-f/11-1/500

Questa caratteristica permette un elevato controllo sul risultato fotografico.

Le suddette terne pur garantendo la stessa esposizione non danno gli stessi risultati fotografici, infatti all'aumentare dell'apertura del diaframma diminuisce la profondità di campo della foto, all'aumentare dei tempi di esposizione aumenta il rischio dell'effetto mosso, mentre all'aumentare della velocità della pellicola, aumenta la granularità dell'immagine.

Difetto di reciprocitàIl rapporto di reciprocità è sempre lineare tranne che nelle situazioni in cui il tempo di esposizione è particolarmente breve o molto lungo. In questi casi gli elementi sensibili presenti sulla pellicola non reagiscono allo stesso modo e possono provocare delle dominanti di colore o una risposta alla luce insufficiente. Questo problema, chiamato difetto di reciprocità (effetto Schwarzschild), può essere corretto con l'utilizzo di filtri colorati nel primo caso, oppure aumentando l'esposizione nel secondo di una quantità precisa (che varia con il tipo di emulsione usata).

Determinare l'esposizioneScegliere l'esposizione corretta è il compito più impegnativo, insieme alla composizione, per il fotografo.

Lo strumento utilizzato per misurare la luce è l'esposimetro, che può essere esterno o interno. La versione esterna permette una misurazione più precisa della luce, in quanto registra la luce incidente il soggetto e non la riflessa, come accade invece con l'esposimetro interno. In quest'ultimo caso, la lettura deve essere compensata pensando alla scena che si intende fotografare. Se si sta inquadrando un oggetto con sfondo molto chiaro, si deve compensare aumentando l'esposizione, in modo da far apparire il soggetto con una luce adeguata. L'attuale tecnologia degli esposimetri interni ha permesso comunque di limitare l'intervento umano utilizzando più sensori all'interno della fotocamera.

Le fotocamere elettroniche o digitali posseggono dei programmi (vari-program) che scelgono la coppia tempo/diaframma più adeguata per la scena inquadrata. Sono presenti anche due programmi che permettono un utilizzo più creativo e determinano automaticamente un tempo adeguato in base al diaframma scelto dal fotografo (priorità di diaframmi), oppure il diaframma migliore una volta scelto il tempo

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(priorità di tempi).

Situazioni particolariIn alcune situazioni è opportuno prestare particolare attenzione ai valori restituiti dall'esposimetro, interpretandoli per ottenere il corretto risultato. In special modo gli esposimetri per luce riflessa possono essere ingannati dalla riflettenza dei materiali, ovvero della capacità dei materiali di riflettere la luce in maniera diversa. Ad esempio una superficie di colore bianco o molto chiara restituisce gran parte della luce ricevuta, viceversa una superficie scura assorbe la luce. Questo influisce sull'esposimetro che interpreta la superficie chiara come una luce intensa, e la superficie scura come ombra. In queste situazioni è necessario compensare la lettura scegliendo un'esposizione maggiore nel caso del soggetto chiaro oppure minore con un soggetto scuro. In questi casi è d'aiuto l'utilizzo della tecnica del bracketing o di un cartoncino grigio medio, che possiede una riflettenza del 18%. L'esposimetro a luce incidente non richiede compensazioni per determinare la corretta esposizione.

Paesaggio innevatoFotografare uno scenario coperto di neve richiede una esposizione maggiore di ⅓ o ½ rispetto alla lettura dell'esposimetro a luce riflessa, specialmente se in pieno sole.

ControluceUn soggetto posto in controluce è un caso particolare che può risultare in due diverse interpretazioni. Se desideriamo esporre correttamente il soggetto, è necessario leggere la luce riflessa o incidente sulla superficie dello stesso, ad esempio il volto di una persona. Lo sfondo apparirà però molto chiaro.

Se desideriamo un effetto di silhouette del soggetto, è necessario

esporre per lo sfondo, leggendo la luce alle spalle del soggetto. Quest'ultimo risulterà scuro se non completamente nero, mentre lo sfondo sarà correttamente esposto.

In alternativa è possibile esporre correttamente lo sfondo e il soggetto in primo piano utilizzando il flash e leggendo la luce sullo sfondo.

La notteFotografare di notte richiede necessariamente l'utilizzo del flash o di altre fonti di luci per distinguere chiaramente la scena. Altrimenti è possibile scegliere di sottoesporre scegliendo una coppia tempo/diaframma inferiore di 1 o 1½ rispetto alla lettura dell'esposimetro.

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Fotocamera digitale

Una fotocamera digitale è una macchina fotografica che utilizza, al posto della pellicola fotosensibile, un sensore (CCD, CMOS) in grado di catturare l'immagine e trasformarla in un segnale elettrico di tipo analogico. Gli impulsi elettrici vengono convertiti in digitale da un convertitore A/D nel chip di elaborazione e trasformati in un flusso di dati digitali atti ad essere immagazzinati in vari formati su supporti di memoria.

Le differenzeUna fotocamera digitale è in quasi tutti gli aspetti esattamente identica ad una macchina fotografica convenzionale, se non per il fatto che invece della pellicola fotografica in rullino usa un sensore elettronico che può essere di diversi tipi. Questo converte l'immagine in una sequenza di informazioni digitali che adeguatamente elaborate andranno a formare un file (archivio).

Per questo motivo si rimanda alla voce macchine fotografiche per ogni informazione concernente lo strumento in sé. In particolare, per le macchine digitali vale come per quelle analogiche, e con lo stesso significato, la distinzione fra fotocamera compatta e reflex. Vi sono comunque formati di fotocamera chiamati “prosumer” (dalla fusione di due termini “professional” e “ consumer”) o anche chiamati “SLR-like” (SLR sta per Single-Lens Reflex – nome tecnico delle macchine fotografiche REFLEX) che hanno caratteristiche funzionali e di

qualità immagine estremamente vicine, o a volte superiori alle fotocamere reflex digitali di fascia bassa, pur avendo un obiettivo fisso come le compatte. All'inconveniente dell'ottica non intercambiabile alcuni produttori hanno ovviato introducendo in commercio fotocamere SLR-like con ottiche zoom con ampia escursione focale (da 28 mm equiv. fino a 400 mm equiv.) benché la qualità intrinseca di queste ottiche non possa raggiungere quella delle ottiche di maggior prestigio dedicate agli usi professionali. La presenza di un obiettivo fisso rende dunque sicuramente meno flessibile l’uso della fotocamera in contesti applicativi diversi, ma in positivo c’è da registrare che il fatto che non esponendo l’interno della fotocamera (e quindi il sensore) all’aria durante il cambio di obiettivo, si evita l’accumulo di polvere sul sensore, fatto questo che porta ad avere un degrado della qualità delle immagini riprese.

Le caratteristiche

Forma commerciale delle fotocamereAd oggi vengono prodotte fotocamere di ogni forma e dimensione: alcune assomigliano a videocamere, altre sono piccolissime e molto sottili tanto da entrare in un taschino senza essere viste. Vi sono prodotti con "case" in metallo o in plastica, colorate o trasparenti ed il gusto di ogni cliente può trovare soddisfazione in una accurata ricerca. È molto utile prendere in considerazione anche le caratteristiche ottiche ed elettroniche dei prodotti che variano di molto in base alla marca e ai modelli presenti sul mercato.

RisoluzioneSecondo le regole attuali di mercato un parametro distintivo delle fotocamere digitali è quello della risoluzione. Per ottenere una buona fotografia non occorre in realtà una risoluzione altissima, ma risulta essere molto più importante un'ottica di qualità, un sensore che abbia

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un buon rapporto segnale rumore, una buona gamma dinamica ed infine in funzione delle esigenze di stampa si sceglierà il numero di pixel del sensore.

Il sensoreIl sensore, analogo a quello utilizzato nelle videocamere portatili, può essere CCD, ma anche C-MOS[1]. Sempre comunque si tratta di dispositivi formati da elementi fotosensibili a semiconduttori in grado di trasformare un segnale luminoso in un segnale elettrico. Solo successivamente un secondo dispositivo, funzionalmente separato, (il convertitore Analogico/Digitale) converte il segnale analogico in dati digitali. Nella fotocamera digitale, l'immagine viene messa a fuoco sul piano del sensore. I segnali così catturati vengono amplificati e convertiti in digitale. A questo punto i dati digitali sono in forma grezza (RAW) e - così come sono - possono essere memorizzati su un file per una successiva elaborazione in studio, con altri apparecchi informatici. Successivamente il processore di immagine interno alla fotocamera trasforma questi dati, cioè calcola le componenti primarie mancanti su ogni pixel (RGB) e rende compatibili i dati di immagine con i normali sistemi di visualizzazione di immagini (generalmente nel formato JPG o TIFF a seconda delle esigenze per le quali è destinata la fotocamera) ed infine immagazzina il file elaborato in una memoria a stato solido (ordinariamente dal punto di vista tecnologico si tratta di EEProm di tipo Flash, mentre i formati con cui sono messe in commercio sono diversi (CF, XD, SD, MMC, Memory stick, ecc). Le schede contengono generalmente un rilevante numero di immagini, la quantità dipende dalle dimensioni della singola immagine, dalla modalità di registrazione e dalle dimensioni della memoria.

La risoluzione totale del sensore si misura in milioni di pixel totali. Un pixel è l'unità di cattura dell'immagine: rappresenta cioè la più piccola porzione dell'immagine che la fotocamera è in grado di catturare su una matrice ideale costruita sul sensore CCD.

Le proporzioni delle immagini che si ottengono con gli attuali sensori (o attraverso elaborazioni del processore d'immagine interno alla fotocamera), sono indicate nella figura seguente:

Moltiplicando il valore in pixel della risoluzione orizzontale per quello della risoluzione verticale si ottiene il numero totale di pixel che la fotocamera è in grado di distinguere in una immagine.

Le caratteristiche che attribuiscono qualità ai sensori sono:

• Elevato rapporto segnale rumore. Questo fenomeno si evidenzia in modo particolare nelle riprese a bassa luminosità dove possono comparire degli artefatti di immagine dovuti a segnali derivanti dal rumore elettrico di fondo degli elementi fotosensibili;

• Elevata gamma dinamica. Questo parametro indica l'ampiezza dell’intervallo di luminosità dal minimo registrabile al massimo registrabile prima che l’elemento fotosensibile vada in saturazione.

• Elevato numero di pixel. L’elevata quantità di elementi fotosensibili garantisce un elevato dettaglio di immagine, ma sorgono problemi di velocità nel trasferimento dei dati al processore d’immagine. Maggiore è la risoluzione, maggiore è il numero di pixel, maggiore sarà quindi la quantità di dati da trasferire e dunque, a parità di velocità di trasmissione, maggiore sarà il tempo necessario a trasferire i dati al processore d’immagine e la successiva registrazione dell’immagine. Alcuni produttori hanno studiato sensori con 4 bus dati di uscita dal sensore che trasmettono in parallelo i dati di immagine al processore della fotocamera.

• Capacità di non trattenere ombre sul sensore relative a riprese precedenti. Questo problema si incontra prevalentemente nei sensori di tipo CMOS e richiede che i costruttori adottino

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strategie per ottenere una sorta di cancellazione elettronica del sensore fra la ripresa di un'immagine e l'altra;

• Capacità del sensore di non produrre artefatti derivanti da interferenze (effetto Moiré) fra i pixel in particolari condizioni di ripresa;

• Dimensione fisica del sensore a parità di pixel (e quindi a parità di risoluzione). Se la dimensione fisica del sensore è elevata a parità di numero di pixel questo comporta ovviamente una maggiore dimensione fisica dei pixel o dei photosite (per un chiarimento sui termini photosite, pixel e elemento fotosensibile vedi il paragrafo "Numero di Pixel e qualità delle immagini" della voce correlata Fotografia digitale). Tale fatto rende maggiormente sensibili gli elementi dei photosite (pixel) garantendo un miglior rapporto segnale/rumore. Ad esempio vi sono sensori da 6 MP (f.to 4:3) con dimensione 1/2,7” che hanno una dimensione di 5,371 mm x 4,035 mm (diagonale = 6,721 mm), mentre altri sensori da 6 MP hanno dimensioni 1/1,8” e dimensione di 7,176 mm x 5,319 mm (diagonale = 8,933 mm). In termini di rumore e di sensibilità la qualità del sensore è normalmente maggiore nel sensore più grande.

I sensori di alcune fotocamere REFLEX professionali hanno il sensore di formato 3:2 ed un rapporto 1:1 con il fotogramma della pellicola, una dimensione quindi di 24x36 mm. Con queste dimensioni – oltre ad avere un basso rumore, risulta possibile garantire che l'angolo di campo delle ottiche non sia alterato (rapporto 1:1 fra angolo di campo della fotocamera con sensore e quella a pellicola).

La qualità dell'immagine tuttavia è importante relativamente alla modalità di fruizione: se le immagini si utilizzano a video non ha molta rilevanza la risoluzione, ma se si intendono realizzare stampe di grande formato allora la risoluzione diventa un parametro da tenere presente. Tanto più si vorrà effettuare una stampa grande di

una foto digitale, tanto più la fotocamera dovrà produrre immagini ad una risoluzione elevata. Ecco alcuni esempi:

• Una foto in formato standard da 14 cm di larghezza necessita di 1.2-2 megapixel di risoluzione per risultare pari ad un prodotto di una macchina fotografica tradizionale;

• Per stampare su di un foglio A4 sono necessari dai 2 ai 3 megapixel;

• Per realizzare un poster da 60-70 cm sono consigliabili risoluzioni non interpolate di più di 5 megapixel;

InterpolazioneAltro parametro a cui andrebbe rivolta una certa importanza da chi della fotografia vuol fare qualcosa più di un hobby è la questione dell'interpolazione. Tale tecnica matematica viene infatti utilizzata in due modalità diverse a volte contemporaneamente sulla stessa fotocamera:

• nelle fotocamere a bassa risoluzione si utilizza per generare dei pixel ulteriori a quelli catturati dal sensore generandone il valore di cromia per portare ad esempio una risoluzione di una fotocamera da 3 Mpixel a 4 Mpixel. Il procedimento in realtà non aggiunge informazioni vere all’immagine, ma rende meno evidente la quadrettatura dovuta al pixel se si volesse ingrandire l’immagine oltre il consentito. È un procedimento usato anche negli scanner attraverso un'elaborazione software.

• In tutte le fotocamere che adottano un sensore con Color Filter Array si usa l’interpolazione per generare in ogni pixel le due componenti cromatiche mancanti, in questo caso si tratta propriamente di interpolazione cromatica.

In merito a quest'ultima modalità infatti va detto che il sensore - composto da milioni di elementi fotosensibili - solo nel suo complesso cattura informazioni riguardanti le tre componenti RGB

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(Red-Green-Blue)(Rosso-Verde Blu) che compongono la luce della scena focalizzata sulla sua superficie. Quasi tutti i sensori, anche se con modalità diverse, hanno i photosite (che normalmente hanno un solo photodetector per photosite) che catturano una sola componente cromatica della luce. Sulla superficie del sensore infatti è collocato un filtro a mosaico denominato Color Filter Array (CFA), il più diffuso è di tipo Bayer che a sua volta può presentare diverse varianti sul numero dei colori che vengono filtrati (3 o 4) e sulla disposizione dei colori sul mosaico. Il più comune è quello denominato GRGB che ha il 50% dei photodetector che catturano il Verde (G), il 25% che catturano il Rosso (R) ed il rimanente 25 % che catturano il Blu (B). Per ottenere una adeguata fedeltà cromatica dell’intera immagine, ogni pixel registrato in un file grafico a colori (fa eccezione il file di tipo RAW) deve contenere le informazioni cromatiche di tutte e tre le componenti RGB della luce incidente su ogni pixel. Questo perché la riproduzione delle immagini luminose avviene per mescolanza additiva delle tre componenti primarie della luce. Poiché ogni photodetector ne cattura solo una di queste (R, G o B), non può fornire tutti i dati per la formazione del pixel, così le altre due informazioni cromatiche vengono calcolate dal processore d’immagine attraverso un procedimento matematico (algoritmo di demosaicizzazione – demosaicing). Solo così il pixel, inteso come raggruppamento dei dati cromatici della più piccola porzione che forma l'immagine, può concorrere ad una rappresentazione fedele dei colori dell'immagine.

Diversamente avviene per. es. in alcuni scanner ed in alcune fotocamere dove:

• l’interpolazione serve ad aumentare in modo artificiale il numero di pixel senza che vi sia riferimento a nessun oggetto reale;

• e nei quali la risoluzione vera è quella ottica, non quella ottenibile via software,

nelle fotocamere digitali il processo interpolazione cromatica comune

a tutte quelle dotate di CFA consiste nel calcolare il valore delle due componenti cromatiche mancanti su ogni pixel a partire normalmente dai valori contigui al pixel in questione aventi la stessa componente cromatica che si intende calcolare. L’approssimazione – peraltro abbastanza precisa - è quindi sul dettaglio cromatico dell’immagine e si consideri che comunque una delle tre componenti è realmente rilevata da ogni pixel. Al momento (aprile 2009) in commercio risulta esservi un solo sensore, il FOVEON, che cattura le tre componenti RGB su un unico photosite. Questo viene montato su alcuni modelli di fotocamere, ma la sua diffusione è più ridotta rispetto ai sensori dotati di C.F.A. Una precisa distinzione fra pixel, photosite e elemento unitario fotosensibile=photodetector) si trova nel paragrafo Numero di Pixel e qualità delle immagini della voce correlata fotografia digitale. Invece un approfondimento sulle diverse modalità di formazione delle immagini nelle fotocamere digitali, sulla formazione dei file delle immagini per interpolazione in base alle esigenze di profondità colore e sulla elaborazione dei files RAW, si trova alla voce Raw (fotografia)

Le memorieUna volta convertito il segnale in arrivo dal sensore (CCD o C-MOS) ed elaborato dal processore d’immagine, la fotocamera registra un file contenente l'immagine scattata su una memoria gestibile dall'utente. Alcune fotocamere economiche dispongono di una memoria interna di salvataggio immagini, alla quale normalmente è sempre possibile aggiungerne una esterna.

Dal punto di vista tecnologico - quel punto di vista che specificamente si occupa di conoscere la modalità di immagazzinamento dei dati elementari su un supporto di memoria - va detto che il tipo di memorie prevalentemente usato è di tipo EEPROM flash (Electrically Erasable and Programmable Read Only Memory - flash). La tecnologia "flash" consente di accedere alle celle di memoria per blocchi, o aree, rendendo più rapido il processo di

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lettura-scrittura-cancellazione). Per questo occorre distinguere fra la tecnologia costruttiva degli elementi di memorizzazione (per tutte le schede di memoria si tratta, come visto, di EEPROM-flash) e i formati con cui vengono prodotte le schede di memoria. I formati di scheda di memoria realizzati con celle a semiconduttore utilizzati dalle case costruttrici di fotocamere digitali, sono principalmente:

• Compactflash

• Compactflash Extreme III

• Compactflash Ultra

• Compactflash Ultra II

• Compactflash Ultra Speed

• Memory Stick

• MultiMedia (MMC)

• SD (secure digital)

• mini-SD

• TransFlash (o micro-SD)

• SmartMedia

• XD - xD tipo M - xD tipo H (foto panoramiche per le Olympus e Fujifilm)

Vi sono poi schede di memoria come la seguente:

• Microdrive

le quali non sono riconducibili a celle a semiconduttore, bensì a supporti magnetici dello stesso tipo degli hard disk dei PC, ma che per contro adottano lo stesso formato delle memorie a semiconduttore. Nel caso delle Microdrive il formato è quello delle C.F. CompactFlash

Invece altri formati, inoltre, come il:

• miniCD-ROM

fanno riferimento ad un supporto ottico di memorizzazione (mini-CD). Tecnica di memorizzazione oggi sostanzialmente abbandonata, ma che prevedeva nelle fotocamere l'incorporazione di un masterizzatore per mini-CD.

I formati di salvataggio delle immaginiI formati utilizzati nelle fotocamere digitali per il salvataggio delle immagini sono:

• JPG: il più usato nelle fotocamere economiche. Permette di salvare grandi immagini in file di piccole dimensioni, pur perdendo dettagli all'occhio impercettibili ma che rischiano di diventare evidenti in caso sia necessario effettuare successive manipolazioni di fotoritocco all'immagine salvata. Si tratta di un formato compresso di tipo LOSSY, ovvero con perdita di dati.

• TIFF: formato in grado di salvare immagini senza perdita di informazioni. Il salvataggio può essere non compresso o compresso di tipo LOSSLESS. Si può osservare come questo formato, se si sfrutta la compressione, produca immagini identiche alle BMP ma della dimensione di una BMP compressa con ZIP.

• BMP: formato di salvataggio poco utilizzato, per via del fatto che il file è di dimensioni piuttosto elevate. Le immagini possono essere salvate a 16, 24 e 32 bit senza nessun tipo di compressione.

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• RAW: formato utilizzato dai professionisti e dai fotoamatori evoluti. Una fotocamera settata per salvare il formato RAW di una istantanea salverà nella memoria utente esattamente l'output digitalizzato ottenuto dal sensore della fotocamera stessa, senza alcun tipo di modifica se non la conversione Analogico/Digitale (conversione A/D). I dati dovranno essere quindi ricomposti su un computer secondo specifici protocolli della casa madre definiti per lo specifico sensore utilizzato. Solo successivamente le immagini così ricomposte ed eventualmente regolate in luminosità ed altro, saranno convertibili ed utilizzabili in qualsiasi formato conosciuto.

Vantaggi dei file RAWQuale è dunque il grande vantaggio del RAW? Il principale va ricercato nella modalità di registrazione del file e nelle possibilità di elaborazione che esso offre successivamente allo scatto. Un file RAW durante la conversione da analogico a digitale è normalmente campionato almeno a 12 bit per canale (R,G o B). Ognuno dei canali cromatici a questo livello della elaborazione è ancora incompleto avendo solo i segnali raccolti dai photodetectors e non anche quelli generati per interpolazione. Alcune fotocamere di alto livello producono file RAW con campionamento a 16 bpp (bpp=bit-per-pixel o, meglio, bit-per-photodetector) e, come si è visto, questa è una sola delle tre componenti del pixel. I software di elaborazione dei file RAW hanno la possibilità quindi di produrre files grafici RGB a 48 bpp (qui è perfettamente corretto ritenere b.p.p. come bit-per-pixel, perché, quando il file grafico è elaborato, ogni pixel contiene tutte e tre le componenti RGB necessarie per definire ogni elemento del pixel). Per questa elevatissima profondità colore il file si presta ad elaborazioni anche abbastanza spinte senza che la qualità e dettaglio di immagine degradino troppo. Si consideri che normalmente la generazione del file TIFF o del file JPG avviene a profondità colore

di 24 bpp (che equivale ad 8 bpp per ognuno dei canali RGB) quindi per la stampa è normalmente richiesto un dettaglio cromatico (=profondità colore) molto minore. Tale caratteristica tecnica dei files RAW permette una lavorazione in studio delle immagini senza alterarne la qualità. Ma non solo. L'utilizzo dei files RAW consente addirittura di apportare in un secondo momento con elaborazioni in studio dei miglioramenti significativi alla qualità dell'immagine scattata, potendo per esempio aggiustare il bilanciamneto del bianco, ridurre eventuali aberrazioni cromatiche degli obiettivi, ottimizzare l'esposizione con un campo di variazione abbastanza elevato, applicare filtri antirumore, ecc., ecc.)

È invece secondaria e fuorviante la ragione che vede nel file RAW la possibilità di compiere scatti in rapida successione (chiamata anche "funzione di scatto a raffica" delle fotocamere), anche perché tale funzione delle fotocamere viene svolta molto più rapidamente con altri formati come il JPG. Usando questa funzione infatti la fotocamera ha necessità di tenere in memoria i dati delle immagini scattate nella raffica. Quindi, per questo, occorre integrare nella fotocamera una sorta di memoria di servizio (buffer) dove parcheggiare le immagini prima della loro scrittura nella scheda di memoria. Poiché le immagini JPG, anche se composte in alta qualità, hanno una dimensione di circa 1/4 della stessa immagine in RAW, lo svolgimento di tale funzione non comporta l'impiego di una grande quantità di memoria interna. Quindi tale funzione in JPG è molto frequente trovarla nelle fotocamere anche di fascia medio-bassa. A questo proposito si consideri che il tempo di registrazione dell'immagine nella scheda di memoria è normalmente molto superiore a quello che impiega il processore d'immagine ad elaborare i dati grezzi in arrivo del sensore per formare l'immagine JPG. Dunque, complessivamente, il tempo impiegato dalla fotocamera per svolgere la funzione di scatto a raffica è comunque minore in JPG rispetto al formato RAW.

Nonostante queste caratteristiche della funzione che permette scatti in rapida successione, vi sono fotocamere professionali, semi-pro, e

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compatte-prosumer di fascia alta, che presentano questa possibilità di registrare immagini in RAW con scatto a raffica. Tale diffusione è stata agevolata dal progressivo calo di costo delle celle di memoria che ha reso economicamente vantaggioso aumentare questa memoria buffer interna alle fotocamere. Questo fatto ha reso disponibile la funzione di scatto in rapida successione anche in fotocamere digitali non professionali che comunque possiedono prestazioni tali da far valutare positivamente tale funzione. Va detto tuttavia che nonostante l'uso dello scatto a raffica non sia così frequente come lo scatto singolo, tale funzione è apprezzata dai professionisti e dai fotoamatori evoluti.

Inoltre tale funzione di scatto a raffica in RAW è conseguenza anche del miglioramento dell'elettronica delle fotocamere che ha reso più veloce le procedure di elaborazione e di trasferimento delle immagini. Nell'utilizzo dei files RAW occorre tenere presente che:

• la memorizzazione di un file RAW ha una dimensione elevata dunque richiede più tempo per la sua registrazione nella scheda di memoria. Molto più rapida è la memorizzazione di un file JPG, registrato anche in alta qualià (dimensioni elevate del file). Questo comporta l'effetto finale secondo cui il tempo per registrare un file JPG è molto più basso rispetto a quello necessario per registrare un file RAW. E questo è valido anche se si considera che il processore d'immagine interno alla fotocamera spende un po' più di tempo per la formazione del file JPG a partire dai dati grezzi d'immagine.

• nel caso invece dello scatto a raffica (da tre in poi) i dati RAW delle immagini scattate in rapida successione vengono trattenuti in una memoria interna "di servizio" della fotocamera (buffer). Per svolgere questa funzione occorre però dotare la fotocamera di una sufficiente quantità di memoria interna che dovrà essere tanto maggiore quanto maggiore è la dimensione del file RAW e quanto maggiore è il numero degli scatti della raffica.

Note dei Curatori

Si avverte che lo scopo di questa dispensa è di fornire solo una introduzione in merito alla fotografia ed i principali argomenti ad essa correlati senza una carattere di piena esaustività. L'obiettivo principale è quello di offrire una fonte informativa scritta complementare alle lezioni del Corso di Fotografia Foto50mm in modo da integrare se necessario le nozioni divulgate durante il corso.

Note bibliografiche

Il materiale utilizzato nella compilazione di questa dispensa proviene interamente dall' enciclopedia libera Wikipedia. Per questo a titolo di correttezza e completezza per ulteriori informazioni, notazioni bibliografiche e citazioni si rimanda alle sezioni di Wikipedia relative ai singoli capitoli della dispensa.

Fonte Wikipedia:

www.wikipedia.org

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