Disastro Ambientale e Rifiuti Radioattivi - Satta - Diritto Penale Comparato

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DISASTRO AMBIENTALE E RIFIUTI RADIOATTIVI

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INTRODUZIONEIn Italia il legislatore sconta un evidente ritardo nella tipizzazione del delitto ambientale: la tutela penale ambientale è, allo stato, rimessa al modello delle contravvenzioni, con ricadute notevoli sotto il profilo dell’effettività della sanzione. Si invoca per gli ecomafiosi la previsione di una fattispecie associativa ad hoc. Il problema deve trovare la giusta soluzione nella sensibilizzazione dei poteri apicali delle grandi imprese del Nord Italia, da talune delle quali proviene un’abbondante quantità dei rifiuti pericolosi sversati nelle zone della Campania Felix. Più in generale, le preoccupazioni dell’umanità crescono in maniera direttamente proporzionale all’avanzamento delle tecniche e delle modalità produttive che creano sempre nuovi pericoli e rischi sempre maggiori. E’ una società del rischio, nella quale gli effetti transnazionali di un disastro ambientale si propagano per migliaia di chilometri. Occorre verificare se gli schemi del diritto penale tradizionale siano ancora in grado di fornire una adeguata tutela alle vittime dello sviluppo economico-industriale. Oppure se non sia più utile una scelta coraggiosa da parte dell’ordinamento che porti all’elaborazione di un nuovo diritto penale o alla creazione di modelli di tutela alternativi. Nel nostro Paese, le singole vittime delle attività industriali inquinanti non possono agire direttamente in giudizio per avere il risarcimento dei danni, ma devono delegare a ciò determinate associazioni oppure premere sulle autorità inquirenti perché diano il via al processo penale. Il processo penale è però lento ed esige la piena prova della responsabilità individuale. Un passo molto importante è rappresentato dal riconoscimento, con la l. n. 231 del 2001, della responsabilità penale delle persone giuridiche.

IL BENE AMBIENTE: LA NORMATIVA COMUNITARIA

1. La tutela dell’ambiente costituisce uno degli obiettivi che si pone la Ue verso un rapido processo di unificazione. Meritano di essere segnalati lo sviluppo sostenibile, il progresso scientifico e tecnico, la coesione sociale e territoriale, ecc. Dalla rivoluzione industriale, i problemi di contaminazione ambientale sono andati proporzionalmente aumentando rispetto alle ricchezze prodotte: si pensi all’utilizzo dell’energia nucleare quale fonte di sostentamento energetico per milioni di persone ed al pericolo che da un tale uso indiscriminato può derivare. L’ art. 174 del Trattato istitutivo della Comunità europea sancisce gli obiettivi della Comunità in materia ambientale così specificandoli:

a) salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente;b) protezione della salute umana;c) utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali;d) promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale e mondiale.

L’ambiente e la sua protezione sono il presupposto necessario per la salvaguardia della libertà e del diritto alla salute dell’individuo. La Carta di Nizza (2000) sancisce

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all’art. 37: “un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”. Non ha alcun valore giuridicamente vincolante ma le si riconosce un immenso valore politico e di intenti. L’ambiente rileva a livello di fonti comunitarie, per un duplice aspetto: da un lato viene considerato come un bene fisicamente individuabile, rappresentato dall’ecosistema ed anche dalle bellezze paesaggistiche naturali e/o prodotte dall’uomo, dall’altro costituisce un valore dall’elevato contenuto definibile soltanto in via normativa. La Comunità europea, avvalendosi del Consiglio e deliberando secondo la procedura di cui all’art. 251 TCe, e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle Regioni, adotta programmi d’azione generali che fissano gli obiettivi prioritari da raggiungere. Con la decisione CE n. 600 del 2002 del Consiglio, si è prefissato all’art. 2 par. 2, quale obiettivo primario, il raggiungimento di un elevato livello di qualità della vita e di benessere sociale per i cittadini attraverso un ambiente in cui il livello di inquinamento non provochi effetti nocivi per la salute umana e per l’ambiente stesso. La decisione è protesa a intrecciare una collaborazione fattiva con l’Organizzazione mondiale della Sanità per: a) far comprendere meglio le minacce per la salute umana e l’ambiente al fine di agire per impedire e ridurre tali minacce; b) contribuire ad una migliore qualità della vita mediante un approccio integrato concentrato sulle zone urbane; c) ridurre e mettere in sicurezza le sostanze chimiche, i pesticidi e tutti i fattori inquinanti nel breve arco di una generazione (2020).

2. Il progetto di Costituzione è stato consegnato a Roma il 18 luglio 2003 al Presidente pro-tempore del Consiglio europeo con il preciso intento di divenire il fondamento dell’Unione europea quale ente dotato di definitività nella architettura costituzionale. Il Progetto si dovrebbe porre quale unica fonte del diritto europeo venendo a sostituire i due trattati fondamentali. Nell’enunciare gli obiettivi principali dell’Unione, l’art. I-3 ne introduce alcuni del tutto nuovi e nati dalla maggiore sensibilità della Comunità europea verso determinate tematiche. Il Progetto si pone, altresì, l’obiettivo di un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Tale obiettivo, attualmente, non figura in quanto tale tra gli obiettivi dell’Unione ma è inserito tra le disposizioni relative alla politica dell’ambiente. L’Unione europea del futuro avrà una competenza normativa concorrente con quella degli Stati membri anche nel settore dell’ambiente. Il Progetto fa propria la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza. Nella Parte III del progetto, che riguarda “Le politiche e il funzionamento dell’Unione”, vi è una sezione dedicata precipuamente all’ambiente (artt. III-129, III-130, III-131).

L’art. III-129 al 2°comma indica i principi di politica ambientale su cui fondare ogni azione di tutela e salvaguardia degli ecosistemi, individuati in quelli della precauzione e dell’azione preventiva, della correzione alla fonte dei danni causati all’ambiente e del “chi inquina paga”. Quest’ultimo principio attribuisce l’onere della riparazione o indennizzo in capo a colui che, oltrepassando i limiti tollerati dell’inquinamento, produce un serio ed apprezzabile danno all’ambiente. Da tale principio ha preso spunto la direttiva sul danno ambientale del 2004.

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L’art. III-130 delega alla legge-quadro europea le azioni che dovranno essere intraprese per realizzare gli obiettivi di cui all’art. III-129.

Il 25 marzo 1957 i governi di Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda firmarono in forma solenne a Roma il Trattato istitutivo della Comunità economica europea. La CEE aveva come scopo primario quello di realizzare una unione doganale tra gli Stati membri e di garantire una serie di libertà ai cittadini in modo da instaurare un mercato comune, nonché procedere ad un riavvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri. La creazione di un mercato comune aveva bisogno di una cooperazione politica tra gli Stati membri per poter rendere efficace la stessa integrazione economica. Il problema predominante fu quello di rinvenire un valido fondamento giuridico della competenza CEE in materia ambientale, atteso che il trattato non prevedeva tra i propri compiti istituzionali la tutela dell’ambiente. L’impasse normativa venne superata facendo ricorso all’art. 235 del trattato, che prevede la possibilità di perseguire gli scopi della Comunità in mancanza di espliciti poteri al riguardo previsti dal trattato. Da parte sua la Corte Europea di Giustizia, in due sentenze del 18 marzo 1980 relative ad azioni promosse contro lo Stato italiano, ebbe ad affermare che le direttive CEE in materia d’ambiente si possono giustificare sulla base dell’art. 100 del trattato atteso che le disposizioni concernenti la sanità e l’ambiente possono costituire oneri per le imprese cui si applicano e la concorrenza potrebbe essere sensibilmente falsata. La Corte ebbe a pronunciarsi in altra sentenza dichiarando che la libertà di commercio sottostà a limiti derivanti dall’interesse generale e che la protezione ambientale costituisce uno degli scopi essenziali della Comunità. L’Atto Unico europeo, entrato in vigore il 1 luglio 1987 e modificativo del Trattato di Roma, offre per la prima volta un quadro globale dei principi comunitari in materia di ambiente portando a termine il lungo processo di tutela del valore ambiente. L’art. 130 R poneva alla Comunità i seguenti obiettivi: di salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente; di contribuire alla protezione della salute umana; di garantire una utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. L’A.U.E. esprimeva, inoltre, il principio di chi inquina paga e della azione preventiva e della correzione alla fonte dei danni causati all’ambiente.

L’art. 130 R, al par. 4 disponeva che “la Comunità agisce in materia ambientale nella misura in cui gli obiettivi di cui al par.1 possono essere meglio realizzati a livello comunitario piuttosto che a livello dei singoli Stati membri”. Secondo la dottrina, tale disposizione fissa il principio di sussidiarietà, nel senso che tali competenze entrano in gioco solo quando il livello di protezione che gli Stati possono assicurare è inferiore a quello che la Comunità può garantire.

L’art. 130 T dispone che i provvedimenti adottati in comune non impediscono ai singoli Stati membri di mantenere e prendere provvedimenti per una protezione ancora maggiore.

L’art. 130 S delineava il modo in cui la Comunità si aziona nei confronti delle problematiche ambientali. E’ previsto che il consiglio deliberi all’unanimità su proposta della Commissione.

L’art. 100 A prevedeva la possibilità per il Consiglio di adottare, al fine della realizzazione del mercato comune, misure di armonizzazione delle legislazioni

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nazionali. Al par. 3 era previsto che la Commissione possa formulare proposte in materia di protezione dell’ambiente con lo scopo di armonizzare le singole legislazioni nazionali.

Il Trattato di Maastricht, sottoscritto il 7 febbraio 1992, non adotta norme specificamente dirette alla tutela dell’ambiente ma apporta per via indiretta un contribuito fondamentale. Ci riferiamo all’art. 8, comma 2, secondo il quale “L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri, in quanto principi generali dell’ordinamento comunitario”. Non si vede come non si possa tra essi far rientrare il diritto all’ambiente inteso nella sua duplice veste di diritto alla salute e di diritto alla salubrità dell’ambiente circostante. Si passa dalla tutela del diritto oggettivo “ambiente” facente capo agli Stati membri, ad una tutela del diritto soggettivo, derivante dalla lesione del bene ambiente, da far valere innanzi alla Corte di Giustizia Europea direttamente dal cittadino danneggiato. Alcuni autori parlano di comunitarizzazione e costituzionalizzazione dei diritti dell’uomo con la conseguenza che la tutela ambientale deve essere considerata fondamento di ogni altra politica, compresa quella commerciale comune, quella agricola, quella industriale, quella rivolta alla ricerca, ecc…” Difatti il Trattato di Maastricht introduce per la prima volta tra i fini della Comunità lo sviluppo sostenibile, il rispetto dell’ambiente ed il miglioramento della qualità della vita. La modifica apportata all’art. 130 s., rafforza il ruolo del Parlamento che assume veste di co-legislatore, mediante il conferimento ad esso di poteri sospensivi e di veto. Tutto ciò sarebbe giustificato dal fatto che affidare ad un Organo della Comunità la scelta circa i modi di attuazione della tutela ambientale significherebbe rimettere alla volontà dei cittadini d’Europa il nucleo essenziale della politica comune europea.

3.1. Secondo l’art. 130 R, nella nozione ambiente rientrerebbero il concetto di salute umana e risorse naturali. La direttiva 85/337 all’art. 3 dispone che la valutazione di impatto ambientale individua gli effetti di un progetto su: uomo, flora e fauna, suolo, acqua, aria, clima e paesaggio, beni materiali e patrimonio culturale. Se ne deduce che l’ambiente è concetto comprensivo dell’insieme dei fattori suindicati e comprensivo delle relazioni tra gli stessi. La definizione più appropriata deve essere quella che individua il bene ambiente nell’ampio concetto di valore ambiente, comprensivo oltreché della materialità dei beni naturali anche del rapporto uomo-natura sostanziatosi nel diritto ad una efficace proiezione degli individui verso un ambiente sano.

3.2. Si assiste a condotte finalizzate alla produzione dei c.d. spillowers o effetti transnazionali, cioè di eventi in senso naturalistico o giuridico che si riverberano all’interno dei paesi costituenti la Comunità europea, senza che vi sia di ostacolo il frapponi mento delle barriere politico-geografiche. E’ possibile distinguere: spillowers fisici, economici e psicologici.

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Si parla di spillowers fisici nel caso ad esempio dell’inquinamento ove si assiste ad un fenomeno di trapasso fisico della sostanza inquinante da un territorio di uno Stato a quello di un altro. In tale settore non è concepibile lasciare al singolo Stato la competenza ad intervenire, atteso che non ha la potestà di imporre la propria legislazione su quella dello Stato inquinante. Molto spesso il trapasso della materia inquinante non è dovuto alla produzione industriale in sé considerata, bensì ad un fenomeno di criminalità grave denominato “ecomafia”. Ci si riferisce al traffico illecito di rifiuti tossici, nocivi e radioattivi; si tratta di una procedura di stoccaggio e smaltimento di tali rifiuti senza le necessarie precauzioni e obbligatorie autorizzazioni amministrative del caso. Appare quantomai necessaria una normativa preventiva e sanzionatoria che sia il più possibile comune ai diversi Stati.

Si parla di spillowers economici quando non è l’inquinamento, ma determinate conseguenze economiche dallo stesso derivate a passare le frontiere. Trattasi sia delle distorsioni alla concorrenza, sul mercato dei beni di produzione o di consumo, derivate dall’imposizione in un paese più che in un altro di misure garantistiche per l’ambiente, comportanti un ampio costo aggiuntivo di produzione, che degli ostacoli alla libera circolazione dei beni causati dall’imposizione, in alcuni Stati piuttosto che in altri, di rigide norme per la protezione ambientale.

Si parla infine di spillowers psicologici quando dalla giusta tutela e cura apprestata per il mantenimento di beni di enorme valore culturale, situati nel territorio di uno Stato membro, derivi per tutti i cittadini europei un beneficio di ordine psicologico.

Soltanto gli elementi transnazionali di carattere fisico richiedono una normazione tale da scongiurarne il pericolo in via preventiva, mentre quelli di carattere economico o psicologico possono giustificare un intervento di carattere sussidiario da parte della Comunità, atteso che non si ledono sempre interessi o beni di primaria rilevanza.

4. L’Unione europea tra gli altri obiettivi di politica comunitaria si prefigge quello, ex art. 29 del Trattato Ue, di fornire ai cittadini un livello elevato di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sviluppando tra gli Stati membri un’azione in comune nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Tale obiettivo si persegue “prevenendo e reprimendo la criminalità organizzata o di altro tipo”, mediante: a) stretta collaborazione tra le forze di polizia servendosi, all’uopo, dell’Europol; b) stretta cooperazione tra le autorità giudiziarie; c) armonizzazione delle normative in materia penale. Le maggiori fonti di preoccupazione provengono dal fenomeno della strutturazione transnazionale delle moderne associazioni criminali. La criminalità ambientale è spesso una forma di manifestazione della criminalità organizzata o in altri termini la dimensione globalizzata delle mafie ecologiche, le quali oggi si configurano sempre più come holding transnazionali del crimine. In gergo “ecomafia” descrive quel fenomeno criminale di sfruttamento, trasporto e smaltimento di fonti energetiche o mere scorie e rifiuti altamente inquinanti e contaminanti. Si nutre di forme di collaborazione fitte tra realtà criminali geograficamente distanti che determinano grandi opportunità di trasferimento di sostanze tossiche, venefiche e radioattive da una parte all’altra del globo. Vere e proprie “pattumiere” sono le zone povere del globo, ove le mafie dirigono i propri traffici illeciti ponendo le basi per ingenerare “disastri ambientali”. Il fenomeno della

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criminalità organizzata si nutre della dura legge del mercato economico: la volontà di risparmio delle grandi aziende multinazionali, le esigenze di poter concorrere con le altre aziende produttrici, innescano il fenomeno della domanda dei servizi che vengono resi sotto costo dalle associazioni criminali, le quali riescono a mitigare i costi bypassando ogni normativa di cautela. Ancor più avvertita è la minaccia del controllo diretto da parte delle organizzazioni criminali delle attività deputate istituzionalmente al trattamento o smaltimento delle sostanze nocive. Il pericolo è immanente al sistema finanziario ed attuale e, pertanto, l’Ue ha adottato la decisione-quadro 2003/80/GAI relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale. La decisione-quadro ha l’effetto di vincolare gli Stati membri quanto al risultato da ottenere e non ha efficacia direttamente precettiva residuando, in capo all’Autorità legislativa nazionale, la competenza attuativa in merito alla forma ed ai mezzi. L’obiettivo è quello del riavvicinamento delle disposizioni penali interne a ciascuno Stato membro al fine di addivenire ad una normazione comune basata su una piattaforma legislativa unitaria. Peraltro, sul piano del mandato d’arresto europeo, i reato ambientali costituiscono reati sensibili, per i quali, al fine di ottenere la immediata consegna del ricercato o condannato da uno Stato membro all’altro, non occorre che il fatto sia supportato dalla duplice incriminazione.

4.1. Il bene ambiente appare nella costruzione normativa delle fattispecie, il bene strumentale oggetto di previa attenzione da parte del Consiglio Ue intento, tuttavia, a tutelare il più significativo bene della incolumità individuale e/o della vita umana. Difatti i primi fatti oggetto di attenzione della decisione-quadro sono “lo scarico, l’emissione o l’immissione nell’aria, nel suolo o nelle acque, di un quantitativo di sostanze o radiazioni ionizzanti che provochino il decesso o lesioni gravi alle persone”. Il reato voluto e da normativizzare, a livello di legislazione nazionale, è certamente di danno ma reca la peculiarità di avere quale presupposto la lesione o messa in pericolo del bene ambiente. L’evento necessario ad integrare la tipicità della fattispecie prevista di danno e l’oggetto giuridico di immediata salvaguardia non sarà tanto l’ambiente ma l’incolumità individuale. Nella lett. b) dell’art. 2 la condotta deve essere illecita. Per illecita deve intendersi una condotta che violi una legge, un regolamento amministrativo o altra decisione adottata da autorità competente, intese alla protezione dell’ambiente. Mentre nella ipotesi prevista sub art. 2 lett. a) ciò che rileva è la contaminazione dolosa dell’ambiente idonea ex se a provocare danno direttamente sulle persone, nell’ipotesi prevista all’art. 2 lett. b) è criminalizzata la contaminazione ambientale non autorizzata e cioè quella che supera una normale soglia di tollerabilità. Anche nel caso di inquinamento ambientale non autorizzato occorre che si produca l’ulteriore evento del deterioramento durevole o sostanziale dell’ambiente o il pericolo del suo verificarsi oppure indirettamente danno alle persone o ad altri beni giuridici protetti. Alla lett. a) dell’art. 2 è prevista la fattispecie del “traffico di rifiuti radioattivi”. Sono criminalizzate le condotte illecite di fabbricazione, trattamento, deposito, impiego, trasporto, esportazione o importazione di materiali nucleari o di altre sostanze radioattive pericolose che provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, del suolo o delle acque, alla fauna o alla flora. Oggetto di attenzione sono anche le fattispecie di “funzionamento illecito di impianto”, in cui vengano svolte attività pericolose per la salute dell’uomo o per l’integrità ambientale,

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e quelle di “commercio, uccisione o possesso illecito di specie animali o vegetali protette” ed “il commercio illecito di sostanze che riducono lo strato d’ozono”.

4.2. L’art. 3 impone agli Stati membri di sanzionare penalmente i reati di criminalità ambientale commessi per “negligenza” o quantomeno per “negligenza grave”. Tutte le fattispecie previste all’art. 2 dovranno interessare il giudice penale nazionale anche se commesse con colpa o colpa grave. La colpa grave affiora nel diritto comunitario quale criterio di imputazione soggettiva del reato del tutto avulsa dai criteri di imputazione soggettiva propri di alcuni Stati membri dell’Ue. In Italia, il codice penale nel prevedere il delitto colposo ne chiarisce il significato precettivo senza provvedere a graduare l’elemento psicologico. Il grado della colpa non può essere elemento tipicizzante il fatto-reato ma sarà soltanto un indice di commisurazione della pena in concreto da infliggere. Diversamente, in Germania la categoria della colpa grave è ampiamente conosciuta ed utilizzata. La decisione-quadro nel prendere atto delle divergenze strutturali adopera pertanto, per i reati di negligenza, una descrizione della negligenza dividendola in violazione di regole di prudenza e grossolana violazione delle medesime.

4.3. La presente decisione-quadro impone agli Stati membri di adottare i provvedimenti necessari affinché le persone giuridiche possano essere dichiarate responsabili degli atti di cui agli artt. 2 e 3 commessi dai suoi partecipi qualificati. Scegliendo la strada del “collegamento funzionale”, impone di sanzionare la persona giuridica solo quando i fatti vengono commessi a loro vantaggio da soggetto dotati di un reale potere gestorio o di controllo sulla medesima persona giuridica. La posizione dominante nella persona giuridica è sintomaticamente individuata su un duplice ordine di criteri: formalistico e sostanzialistico. E’ cioè in posizione dominante colui che abbia della stessa il potere giuridico di rappresentanza o colui che, in fatto, abbia l’autorità di prendere decisioni per conto della persona giuridica. Ugualmente per omissione nel controllo da parte dei soggetti all’uopo deputati in seno alla persona giuridica.

4.4. La decisione-quadro impone agli Stati membri l’adozione di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, comprendenti, per lo meno nei casi più gravi, pene privative della libertà. Già la nota sentenza c. 68 del 1988 della Corte di Giustizia europea, nel caso Commissione Greca sul “mais greco”, aveva posto il problema della effettività, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni da irrogare. Poiché le sentenze della Corte di Giustizia sono diritto comunitario, la decisione-quadro fa proprie, codificandole, le caratteristiche che, a livello comunitario, deve possedere la sanzione. La sanzione deve essere connotata dalle seguenti caratteristiche: concretezza e speditezza nell’irrogazione, giusta corrispondenza con il fatto-reato commesso e finalizzazione allo scopo deterrente. La decisione-quadro prevede esplicitamente la reazione dell’ordinamento statale interno attraverso la “sanzione penale”. Accanto alla pena privativa della libertà personale, la decisione

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auspica che vengano previste una serie di misure accessorie suggerendone talune, tra cui il divieto di esercitare un’attività che richiede un’autorizzazione o approvazione ufficiale o il divieto di fondare, gestire o dirigere una società o una fondazione. L’applicazione delle misure accessorie deve seguire il previo giudizio di pericolosità sociale del resto e della sua inclinazione a commettere azioni criminali analoghe a quelle per le quali si procede. La persona giuridica subisce una politica sanzionatoria più soft rispetto a quella prevista per la persona fisica. La differenza si rinviene nella possibilità, per gli Stati membri, di poter irrogare sanzioni pecuniarie non necessariamente di natura penale ma anche strettamente amministrative. La decisione-quadro individua delle sanzioni ad hoc. Così si prevedono misure di taglio dell’aiuto pubblico, misure interdittive temporanee o permanenti, misure di sorveglianza giudiziaria, misure di scioglimento o impeditive della commissione di altri reati della stessa specie.

LE NUOVE FRONTIERE COMUNITARIE DI TUTELA AMBIENTALE

1. Con la sentenza della Corte di Giustizia del 13.09.2005 c. 176/03 è stata annullata la decisione-quadro 2003/80/GAI. L’annullamento vi è stato per violazione del principio di indivisibilità sancito dall’art. 47 Tue. Infatti la decisione-quadro avrebbe sconfinato nelle competenze che l’art. 175 TCe attribuisce alla Comunità atteso che la tutela dell’ambiente costituisce obiettivo normativo essenziale per la Comunità. La sentenza sopra evidenziata apporta, per quanto concerne i profili di maggiore interesse, delle innovazioni sostanziali nella suddivisione dei compiti normativi degli organi comunitari. Gli organi comunitari, nelle materie loro attribuite, possono adottare provvedimenti in relazione al diritto penale degli Stati membri allorché l’applicazione di misure sanzionatorie penali, effettive, proporzionate e dissuasive, da parte delle competenti autorità nazionali costituisca una misura indispensabile di lotta contro le violazioni ambientali. Nella scia di tale ragionamento si è giunti a sostenere che la Commissione europea abbia la facoltà di obbligare uno Stato membro ad imporre sanzioni penali al livello nazionale qualora ciò risulti necessario ai fini del raggiungimento di un obiettivo comunitario. La Corte di Giustizia, sebbene affermi che in via di principio la legislazione penale non rientra nelle competenze della Comunità, si contraddice al momento che afferma che il “legislatore comunitario può adottare provvedimenti in relazione al diritto penale degli Stati membri, provvedimenti necessari a garantire la piena efficacia delle norme che emana nelle materie di sua stretta competenza”. Pertanto, si attribuisce alle Istituzioni comunitarie, in particolare alla Commissione, la potestà di adottare provvedimenti e quindi, in astratto, di prevedere specifiche e dettagliate fattispecie incriminatrici. E’ evidente il contrasto con l’art. 25 cost. ed il suo corollario della riserva assoluta di legge in materia penale. Così è stata già prodotta una proposta di

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direttiva comunitaria relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale. Dalla decisione-quadro, strumento principe del Terzo Pilastro, si passa a quello molto più pregnante ed invasivo della direttiva. Tale modificazione creerà nuovi dubbi sulle capacità di primazia del diritto comunitario su quello nazionale atteso che lo strumento impositivo della direttiva urta con il principio di legalità e con il suo corollario della riserva assoluta di legge; se si dovesse passare ad utilizzare lo strumento della direttiva self-executing, l’incidenza sul diritto penale nazionale sarebbe diretta. Da fonti di etero integrazione del precetto penale gli strumenti comunitari diverrebbero strumenti di normazione primaria.

2. In Italia gli artt. 11 e 117 cost., nel prevedere limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, sono la fonte normativa della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale. Va sottolineato che la primazia del diritto comunitario e l’apertura del sistema giuridico interno a fonti di matrice comunitaria non è principio incondizionato, perlomeno nel sistema costituzionale italiano. Infatti, nel campo penale, vige il principio della riserva assoluta di legge (art. 25 cost.) che assicura che la produzione della normativa a carattere penale sia di derivazione diretta dal corpo elettorale. In altre parole, fonte del diritto penale italiano può essere soltanto una legge dello Stato italiano. Le fonti normative c.d. derivate (regolamenti, direttive, raccomandazioni) provengono dal Consiglio e dalla Commissione che sono organi privi di una legittimazione democratica diretta, in quanto non elettivi. Ciò non esclude che il diritto comunitario incida ugualmente sul diritto penale nazionale. La nascita di beni giuridici strettamente comunitari e l’esigenza di disciplinare in maniera armonizzata alcune materie di competenza della Comunità hanno indotto una progressiva espansione del diritto penale nazionale. Le scelte di politica legislativa della Comunità hanno una forza espansiva indiretta e riflessa. Si avrà una efficacia espansiva nelle ipotesi in cui l’incidenza del diritto comunitario sull’ambito operativo di singole fattispecie penali avvenga attraverso il c.d. modello dell’assimilazione che implica una equiparazione, sul piano della salvaguardia, tra il bene giuridico nazionale ed un corrispondente bene giuridico tutelato da una fonte comunitaria. Si pensi alle norme a tutela del bilancio comunitario, alla proliferazione di fattispecie penali a tutela degli interessi economici della Comunità (artt. 640-bis e 316-ter c.p.): queste fattispecie sono una dilatazione delle norme già esistenti e che tutelavano interessi propri dello Stato interno. Tuttavia, non sarà possibile richiamare la clausola di assimilazione quando ciò comporterebbe l’applicazione della fattispecie nazionale “dilatata” sino alla applicazione al caso singolo della analogia in malam partem. Nulla osta sull’ammissibilità di un effetto, a seconda dei casi scriminante, esimente o scusante, introdotto dalla fonte comunitaria. In tal caso la fonte comunitaria opererà in bonam partem con la conseguenza di una sua conciliabilità con la riserva assoluta di legge ispirata, anch’essa, al principio del favor libertatis. La fonte comunitaria inciderà sul diritto interno attraverso la disapplicazione della norma interna contraria a quella prevista in sede comunitaria (si pensi al diritto di stabilimento, al diritto di soggiorno, ecc.). Deve giungersi a diverse conclusioni quando l’intenzione delle fonti comunitarie sia di estendere la portata incriminatrice di una norma interna: allorché venga utilizzato lo schema della direttiva, attraverso la quale la Comunità impone l’adozione della norma penale interna, non si avrà

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violazione del principio della riserva assoluta di legge atteso che la mancata adozione della legge interna comporta una mera violazione dell’obbligo di fedeltà comunitaria. Stesso discorso vale per lo strumento della decisione-quadro, che obbliga soltanto all’attuazione lasciando ampia discrezionalità al legislatore quanto ai mezzi e forme da adottare in concreto. In definitiva non sarà possibile far valere a carico del singolo cittadino una direttiva comunitaria, anche se self-executing, che non abbia ricevuto trasposizione nell’ordinamento interno. Diverse caratteristiche ha invece la fonte comunitaria del regolamento, i cui caratteri sono da rinvenirsi nella obbligatorietà, in ogni suo elemento, per tutti i cittadini. In altre parole è direttamente applicabile e produce i suoi effetti senza che sia necessario trasporlo in una normativa interna di attuazione. Si deve concludere che non potrà contenere in sé il precetto penale, ma potrà al più ampliare il raggio applicativo della fattispecie incriminatrice attraverso il fenomeno di eterointegrazione del precetto penale. La natura assoluta della riserva di legge non esclude che alcuni elementi del fatto tipico vengano specificati da fonti diverse dalla legge. L’integrazione del precetto penale deve però essere limitata alla specificazione di taluni elementi normativi che abbisognano di spiegazioni tecniche e particolareggiate.

3. In ottemperanza a quanto statuito dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 15 settembre 2005, il 09.02.2007 è stata presentata dalla Commissione una proposta di direttiva volta ad assicurare protezione all’ambiente attraverso una normativa comune europea. La proposta di direttiva parte dalla considerazione che le sanzioni previste per la violazione dei precetti a tutela dell’ambiente devono essere adeguate, efficaci e dissuasive. I reati perseguibili in base alla direttiva saranno:

a) lo scarico, l’emissione o l’introduzione di una quantità di materie o radiazioni ionizzanti nell’atmosfera, nel suolo o nell’acqua, che provochino la morte o gravi lesioni alle persone;

b) lo scarico, l’emissione o l’immissione illeciti di una quantità di materie o di radiazioni nell’atmosfera, nel suolo o nell’acqua, che provochino o possano provocare la morte o gravi lesioni alle persone, o nuocciano alla qualità dell’aria, del suolo o dell’acqua o al patrimonio della fauna o della flora.

Si evidenzia un dato incontrovertibile: la tutela dell’ambiente è finalizzata alla tutela della salute umana. In riferimento alla prima delle due fattispecie vi è da rilevare che il reato si consuma anche quando l’inquinamento ambientale non sia illecito, ma ciò che integra il reato è la produzione di un danno grave alla salute delle persone. Problematica appare la prova della colpa in capo al soggetto agente e del nesso causale tra l’inquinamento ambientale e la lesione alla salute umana: la recente giurisprudenza italiana ha risolto il problema facendo confluire nel concetto di prevedibilità del danno cagionato la prova non solo della colpa ma anche dello stesso nesso di causalità. Il reato potrà essere previsto tanto nella forma dolosa quanto nella forma colposa. La seconda fattispecie, invece, prevede la illecita introduzione di materie inquinanti nell’ambiente e per tale via sanziona la violazione della regola cautelare quando ciò comporta anche il mero pericolo di lesioni gravi alla salute umana. Si caratterizza per essere costruita sul modello del reato di pericolo, quando l’inquinamento illecito possa provocare danni alla salute umana, e sul modello del reato di danno, quando invece si concretizza il danno alla salute o all’ambiente. La proposta di direttiva prevede anche il reato di trattamento e traffico illecito di rifiuti

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pericolosi. Si sanziona infatti “il trattamento illecito, ivi compreso l’eliminazione, lo stoccaggio, il trasporto, l’esportazione o importazione illecite, di rifiuti pericolosi, che provochino o possano provocare la morte o gravi lesioni alle persone, o danni rilevanti alla qualità dell’aria, del suolo o dell’acqua o del patrimonio della fauna o della flora”. Il pericolo deve essere inteso nella sua forma astratta e non in quella concreta, atteso che appare improbabile la prova della concretizzazione del rischio nell’ipotesi di rifiuti. E’ prevista inoltre, in materia nucleare, una specifica fattispecie che sanziona: “la fabbricazione, il trattamento, lo stoccaggio, l’impiego, il trasporto, l’esportazione o l’importazione illecite di materiali nucleari o di altre sostanze radioattive pericolose, che provochino o possano provocare, fuori da questo impianto, la morte o gravi lesioni alle persone, o danni rilevanti alla qualità dell’aria, del suolo o dell’acqua o al patrimonio della fauna e della flora. La pena prevista per quei fatti di inquinamento che hanno provocato danni soltanto ambientali, per negligenza grave, vanno da 1 a 3 anni di carcere. La pena prevista per il caso in cui alla negligenza grave sia seguito un danno grave anche alla salute delle persone va dai 2 ai 5 anni di carcere. L’ipotesi dolosa è invece sanzionata con pene che vanno dai 5 ai 10 anni di carcere.

4. La sentenza Pupino della Corte di Giustizia del 16.06.2005 (c. 105/03) ha chiarito le finalità dello strumento “normativo” della decisione-quadro. Il primo principio statuito è quello secondo il quale, al pari delle direttive, anche la decisione-quadro impone all’autorità giudiziaria dello Stato membro Ue una interpretazione della propria normativa conforme al dettato della decisione-quadro. Tale efficacia di conformazione, però, non può comportare una interpretazione contra legem della normativa nazionale né può comportare un aggravamento della posizione di un singolo nell’ambito di un procedimento penale. Applicando il diritto nazionale, il giudice del rinvio chiamato ad interpretare quest’ultimo è tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della decisione-quadro. Permangono, tuttavia, differenze con lo strumento della direttiva: si sottolinea come l’aver escluso una efficacia diretta della decisione-quadro e averle attribuito un mero effetto di conformazione interpretativa lascia permanere una importante differenza di cogenza tra i due sistemi. Dall’affermazione dell’obbligo di interpretazione conforme non posso trarsi indicazioni immediate circa l’efficacia dell’atto. Tale sentenza solo apparentemente si pone in contrasto con quella che ha annullato la D-Q 2003/80/GAI: va infatti letta nell’ottica della comunitarizzazione del Terzo Pilastro e di una progressiva attribuzione di competenze penali alla CE. Alla luce di queste considerazioni la Corte di Giustizia, nel sottolineare che la decisione-quadro deve essere interpretata in maniera tale che siano rispettati i diritti fondamentali, tra i quali quello ad un processo equo, statuisce la possibilità per il giudice del rinvio di autorizzare l’incidente probatorio per l’ascolto immediato dei minori vittime dei maltrattamenti. Per tale via, le norme della decisione-quadro, relative alla protezione delle vittime del reato, devono essere interpretate nel senso di garantire ai minori un livello adeguato di tutela, e quindi ad esempio anche attraverso il ricorso al loro ascolto fuori udienza, sempre che sia rispettato il diritto dell’imputata ad una difesa piena e ad un processo equo.

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DANNO AMBIENTALE INDIVIDUALE

- DANNO AMBIENTALE E RISARCIBILITA’. DANNO AMBIENTALE QUALE DANNO ESISTENZIALE

1. Nel vigente ordinamento italiano non è rinvenibile una precisa definizione normativa di ambiente. Prima che la legge cost. n. 3 del 2001 introducesse il nuovo art. 117, la sentenza della Corte Costituzionale n. 641 del 1987 chiarisce che: “l’ambiente non è passibile di una situazione soggettiva di tipo appropriativo appartenendo alla categoria dei beni liberi, fruibili dalla collettività e non dai singoli. Tuttavia l’ambiente salubre, inteso in una concezione sanitaria di ambiente giuridicamente apprezzabile e rilevante può essere collegato ai diritti della persona, che comprendono anche l’integrità fisica e psichica e la salvaguardia della qualità della vita”. La direttiva CEE 85/337 considera l’ambiente come valore unitario, ovvero come il “sistema biologico complesso di risorse naturali ed umane comprensivo, oltre che degli elementi dell’ecosistema, anche dei beni materiali e del patrimonio culturale, nonché delle componenti socio-economiche provocate dall’interazione fra attività antropiche ed ambiente naturale”. L’ambiente, in buona sostanza, viene fatto assurgere a valore primario ed assoluto dell’ordinamento in quanto elemento determinativo della qualità della vita. La Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che la lesione dell’ambiente è una lesione ad un bene immateriale ma che è giuridicamente riconosciuto e salvaguardato nella sua globalità. Le possibili forme di aggressione sono genericamente individuate nella lesione dell’ambiente naturale, del patrimonio paesaggistico e dell’ambiente quale condizione di vita salubre.

1.1. Il 18.3.2008 il Governo italiano ha dato il via libera alla riforma del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Il c.d. “codice Rutelli”, in particolare, ha fatto proprio il dictum della sentenza n. 367 del 2007 della Corte costituzionale, la quale aveva chiarito che la nozione di paesaggio contenuta nell’art. 9 della Costituzione deve essere intesa quale compenetrazione di contenuti essenziali e concreti a carattere ambientale e culturale. Assurge a valore primario ed assoluto, di competenza esclusiva dello Stato, che prevale sugli altri interessi pubblici rimessi alla competenza concorrente delle Regioni. Il codice Rutelli si prefigge un più efficace coordinamento tra disposizioni comunitarie, accordi internazionali e normativa interna.

2. Sviluppando il principio del “chi inquina paga”, la Commissione europea in data 23.1.2002 aveva presentato al Parlamento europeo ed al Consiglio una proposta di direttiva sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. In data 21.4.04 è stata adottata dal Parlamento e dal Consiglio europeo la direttiva 2004/35/CE sulla “responsabilità ambientale in materia di

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prevenzione e riparazione del danno ambientale”. Tale finalità consentirà, in ogni caso di danno ambientale, che colui che inquina non potrà più avvalersi della frammentarietà della normativa nazionale degli Stati membri e delle diversità esistenti tra le normative degli stessi. Con l’approvazione della direttiva, il principio “chi inquina paga” diviene effettivo e concretamente vincolante in ogni paese membro dell’Ue. Gli Stati membri saranno liberi di adottare ogni opportuna cautela contro la produzione ed il rischio di un danno ambientale ma la direttiva stabilisce, in maniera vincolante, le regole fondamentali in materia. Inoltre la direttiva introduce il concetto della responsabilità oggettiva dell’inquinatore. In più, ogniqualvolta il danno ambientale risulti senza paternità commissiva o l’operatore che inquina non possa riparare il danno ambientale o non possa adempiere la conseguente obbligazione risarcitoria, si stabilisce una responsabilità di tipo sussidiario in capo allo Stato membro nel cui interno si è avuta la contaminazione del sito. Infine il danno ambientale derivante dall’esercizio di impresa deve essere assicurato e quindi costituire un costo fisso di produzione che secondo gli schemi della macroeconomia verrà posto sull’acquisto del prodotto realizzato utilizzando tecniche che abbiano prodotto il rischio di un danno ambientale. La direttiva all’art. 2 chiarisce che per “danno ambientale” si deve intendere:

a) danno alla specie e agli habitat naturali protetti;b) danno alle acque;c) danno al terreno, che crei un rischio significativo di effetti negativi sulla salute.

Il danno alla biodiversità (specie ed habitat protetti) non comprende gli effetti negativi derivanti da un atto dell’operatore espressamente autorizzato dalle autorità competenti. Il considerandum n. 8 della presente direttiva sostiene che la direttiva dovrebbe applicarsi con riferimento al danno ambientale alle attività professionali che presentano un rischio per la salute umana o l’ambiente. Con riferimento al principio “chi inquina paga”, la direttiva è conscia che non tutte le forme di danno ambientale potranno essere risarcite attraverso la responsabilità civile soggettiva: “Affinché quest’ultima agisca effettivamente bisogna che vi siano uno o più soggetti individuabili, il danno deve essere concreto e quantificabile e bisogna accertare nessi causali tra il danno e gli inquinatori individuati”. Le ipotesi di inquinamento a carattere diffuso (ove ognuno, ad esempio, con il proprio scarico dell’automobile immette gas nocivi nell’atmosfera) non potranno essere riparate con la responsabilità civile. La responsabilità dello Stato è quindi di tipo oggettivo ma a carattere sussidiario. La direttiva chiarisce che rientrano nel suo ambito di operatività:

a) il danno ambientale causato nell’esercizio di una delle attività professionali elencate nell’allegato III e qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di tali attività;

b) il danno alla biodiversità causato dall’esercizio di un’attività professionale non elencata nell’allegato III e qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di tali attività.

Vi sono settori che restano esclusi dall’applicazione della direttiva: le disposizioni previste non si applicheranno alle emissioni consentite dalla legge, da regolamento o da autorizzazioni ad hoc rilasciate da un’Autorità amministrativa nazionale e non si applicheranno al danno che, allo stato della conoscenza tecnica e scientifica, non

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poteva presumersi che si potesse in qualche maniera produrre. Sono altresì esonerati: il danno ambientale o minaccia imminente che sia già stato disciplinato da una convenzione internazionale; i rischi nucleari e il danno causati dall’espletamento di attività industriali disciplinate dal trattato Euratom o per i quali sia già operante una convenzione internazionale; il danno ambientale causato da fenomeni di inquinamento a carattere generale e diffuso; le attività di difesa nazionale; il danno ambientale derivante da un atto di conflitto armato, ostilità, guerra civile o insurrezione o derivante da un fenomeno naturale di carattere eccezionale, inevitabile e imprevedibile che escluda la colpa dell’operatore. Nella fase di riparazione/risarcimento, l’attività istruttoria spetta all’Autorità all’uopo designata da ciascun Stato membro. All’operatore inquinatore viene riconosciuto il diritto ad essere notiziato dell’avvio del procedimento e gli devono essere specificati i possibili modi di ricorso. Nella scelta della misura di riparazione l’Autorità nazionale deve perseguire la finalità del ripristino dell’ecosistema violato. Dovrà scegliere tra le c.d. azioni di riparazione primarie, ove il recupero del sito ambientale avviene senza interventi umani e quindi in maniera naturale ed organica, ovvero azioni di riparazione compensative, ove l’azione è finalizzata a compensare la perdita provvisoria di risorse naturali e di servizi in attesa dell’effettiva e definitiva riparazione. L’operatore verrà invitato a cooperare nella scelta delle misure. Ugualmente saranno ascoltate le persone sul cui territorio si devono effettuare le misure di prevenzione per poi giungere ad una decisione finale. Nel caso di “danno orfano” l’Autorità dovrà farsi carico delle misure medesime e di relativi costi. Nei casi di paternità acclarata i costi verranno sostenuti direttamente dall’operatore anche nel caso in cui l’Autorità nazionale esegua in prima persona le misure preventive o riparatorie o le faccia eseguire da terzi. A prescindere dai casi in cui sia l’Autorità nazionale designata ad avviare di ufficio l’indagine, la legittimazione attiva in materia spetta sia alle associazioni di categoria portatrici di interessi diffusi volti alla tutela del bene ambientale che a qualsiasi soggetto (anche persona fisica) leso o che possa essere leso da un danno ambientale. Infine merita rilievo la previsione della direttiva che senza introdurre una garanzia in forma obbligatoria, suggerisce il ricorso degli operatori ad apposite coperture assicurative o ad altre forme di garanzia finanziaria che coprono il rischio di danno ambientale. Onde non gravare particolarmente il prezzo del prodotto, il costo di produzione dovrà essere predefinito necessariamente in sede comunitaria così da non lasciare ampio spazio di discrezionalità agli Stati membri in materia.

3. Con la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente (l. n. 349 del 1986) il legislatore riconobbe in via definitiva al bene ambientale dignità di valore unitario da tutelare. L’art. 18 introduceva nell’ordinamento italiano, per la prima volta, la nozione di danno ambientale disponendo che qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato. Inizialmente la dottrina interpretò il danno ambientale quale danno erariale, cioè un danno alle casse dello Stato poiché imponeva allo Stato dei costi di riparazione. In realtà così come sostenuto dalla giurisprudenza costituzionale, venne fatto rientrare nell’alveo della responsabilità aquiliana. L’art. 18 cioè si poneva in rapporto di specie a genere rispetto all’art. 2043 c.c. La legittimatio ad causam

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non trovava la ragion di essere nella circostanza che i costi di riparazione devono essere sostenuti dallo Stato, ma che il bene ambientale, quale bene-valore immateriale, era considerato di spettanza della collettività. Le associazioni ambientalistiche, riconosciute dall’art. 13, hanno soltanto un potere limitato a denunciare fatti lesivi dell’ambiente, ad intervenire nei giudizi di riparazione da danno ambientale e di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi. L’art. 2043 c.c., ed il sistema di responsabilità aquiliana in genere, è connotato dalla atipicità del danno mentre nell’ipotesi di cui all’art. 18 il danno veniva individuato quale danno tipico. Ciò perché prevedeva una volontà colposa o dannosa che avesse prodotto la violazione di una disposizione di legge o di provvedimenti adottati in base a legge. Il responsabile era tenuto a risarcire a prescindere da ogni valutazione di incidenza in concreto dell’azione compiuta in dispregio delle norme. Così mentre l’art. 2043 c.c. richiede la prova dell’effettiva incidenza causale del fatto sull’evento, l’art.18 si accontenta della mera violazione delle disposizioni. Ne derivava una spiccata valenza sanzionatoria del risarcimento previsto dall’art. 18 rispetto al diverso valore che nell’art. 2043 è attribuito al risarcimento derivante dal neminem laedere. Nell’un caso il risarcimento si avvicinava alla sanzione di stampo penalistico e ne condivideva le funzioni generalpreventive, mentre nel caso dell’art. 2043 c.c. il risarcimento aveva funzione reintegratoria. La preoccupazione avanzata dalla giurisprudenza si fondava sul dato che ritenere responsabili civilmente ex art. 18 colui che violasse formalmente una norma significava elevare e retrocedere la soglia di punibilità a comportamenti che potevano rilevarsi neutri sul campo del danno ambientale. Questa teoria non fece altro che analizzare dettagliatamente la normativa riuscendo a comprendere che il risarcimento poteva essere chiesto allorché ricorressero entrambe le circostanze e cioè che si agisse antigiuridicamente e si producesse un danno ambientale. La direttiva CE sul danno ambientale n. 35 del 2004 ha risolto la questione assolvendo da ogni responsabilità civilistica l’operatore che introduca nell’ambiente sostanze inquinanti da sole non in grado di modificare o alterare lo status ambientale ma che contribuiscono in maniera significativa a generare quell’inquinamento diffuso. Ne deriva che l’art. 18 così come novellato dagli artt. 300 e ss. Del d.lg. n. 152 del 2006, possa essere scisso in due precetti diversi: con la violazione della normativa ambientale si avrebbe la prova della esistenza di una colpa in capo all’operatore. In secondo luogo si avrebbe la necessità di dimostrare o quantomeno dedurre in giudizio il danno ambientale lasciando che la valutazione del giudice sulla esistenza del nesso causale sia conseguita in base alle ragioni addotte da colui che lamenta il danno e dalle prove a discarico di colui contro il quale viene esercitato il diritto. La normativa dell’art. 18 così come novellato e la direttiva CE n. 35 del 2004 dispongono che la disciplina prevista non si applica alle emissioni consentite da leggi, regolamenti o permessi. In Italia non essendoci i presupposti per applicare l’art. 18 ci si dovrà avvalere del generale rimedio dell’art. 2043 c.c. che consente, anche per ipotesi dolose di danno simili, una adeguata tutela risarcitoria. Altra problematica riguardante il danno ambientale è la natura patrimoniale di esso. Secondo parte della giurisprudenza il danno sarebbe patrimoniale in quanto deve essere considerato nel suo stretto valore d’uso. In tale ottica ci sarebbe lo spazio per attribuire un valore economico all’uso dell’ambiente. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il danno ambientale si riporta certamente al danno patrimoniale ma va al di là di esso poiché i termini economici devono essere considerati anche nella loro funzione

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dinamica quali valori ed utilità economiche delle quali il danneggiato poteva disporre e che ora non potrà più utilizzare. La Corte costituzionale ritiene che il danno ambientale sia un danno patrimoniale poiché la compromissione ambientale genera dei costi di riparazione che, ovviamente, gravano sulla collettività. Diversamente, un’attenta dottrina ha posto in luce che nella quantificazione materiale del danno patrimoniale il giudice può operare anche in via equitativa e che tale tipo di operazione contabile porta a ritenere di natura non patrimoniale il danno ambientale. Infatti il prezzo da pagare per colui che avesse inquinato o contaminato siti ambientali sarà stato rapportato esclusivamente al grado di riprovevolezza sociale della condotta posta in essere. Quando il ripristino dello stato dei luoghi non è possibile, appare fuorviante parlare di costo necessario per il ripristino, atteso che non si ha la possibilità di quantificarlo essendo la riparazione stessa divenuta impossibile. Ne deriva che il danno ambientale è certamente un danno patrimoniale che lede interessi della collettività incidendo su valori di cui non si potrà più disporre e che hanno un valore strettamente economico, ma è anche un danno non patrimoniale che incide su interessi e diritti della collettività di carattere personalistico e sociale che non essendo possibile quantificarli hanno spronato il legislatore a tutelarli con una disciplina quasi penalistica. Il problema è che non si intuì che la legittimatio ad causam non doveva essere attribuita unicamente allo Stato ma si doveva permettere al singolo individuo o ad associazioni di categoria di tutelare i diversi interessi e diritti sottesi alla lesione dell’ambiente. L’inversione di tendenza vi è stata ad opera della giurisprudenza seppure in ipotesi limitate e ben circoscritte. Da ultimo si è giunti a riformulare la nozione di danno ambientale nell’art. 300 del d.lg. n. 152 del 2006. L’art. 300 definisce danno ambientale “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”. Il legislatore riporta, al comma 2 dell’art. 300, la definizione descrittiva della direttiva CE n. 35 del 2004 secondo la quale “costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato:

a) alle specie e agli habitat naturali protettib) alle acque internec) alle acque costiered) al terreno”

In seguito ad un fatto illecito doloso o colposo sorge in capo all’autore del danno un obbligo risarcitorio in forma specifica oppure, ove ciò non sia possibile, per equivalente patrimoniale. L’omissione deve essere attuata con violazione di legge, di regolamento o di un provvedimento amministrativo e tali violazioni devono essere il frutto di un comportamento negligente, imperito o imprudente. Sono esclusi dall’ambito di applicazione della normativa quei fenomeni dovuti a:

- atti di conflitto armato, guerra civile, atti di ostilità, insurrezione;- fenomeni naturali di carattere eccezionale;- fenomeni di inquinamento nucleare disciplinati dal Trattato Euratom;- inquinamento dovuto ad attività svolte per la difesa nazionale, la sicurezza

internazionale;- inquinamento diffuso.

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4. L’ambiente ha sempre rilevato quale bene giuridico unitario di pertinenza della collettività e quindi affidato alla cura dello Stato e degli enti territoriali. Il singolo individuo, invece, non ha mai potuto liberamente rivolgersi al giudice ordinario. In ipotesi limitate al danno alla salute, l’ambiente venne ricondotto nell’alveo dei diritti della personalità venendo inteso nell’accezione di diritto all’ambiente salubre. La Cassazione, in una nota sentenza, riconosce che la protezione della salute “si intende alla vita associata dell’uomo nei luoghi delle varie aggregazioni nelle quali questa si articola e, in ragione della sua effettività, alla preservazione, in quei luoghi, delle condizioni indispensabili o anche soltanto proprie alla sua salute: essa assume in tal modo un contenuto di socialità e di sicurezza, per cui il diritto alla salute, piuttosto che come mero diritto alla vita e all’incolumità fisica, si configura come diritto all’ambiente salubre”. In una tale ottica il danno avrebbe rilievo unicamente qualora il singolo riuscisse a provare il danno alla salute subìto. Nell’ipotesi in cui il soggetto leso avesse dimostrato in giudizio la lesione alla salute, allora la Cassazione ammetteva il risarcimento del danno morale soggettivo quale conseguenza dell’evento lesivo. Nel 2002 con la sentenza n. 2515 a Sezioni unite la Cassazione civile stravolge l’intero impianto risarcitorio incidendo sulle facoltà di tutela riconosciute al singolo. La Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su di un caso di grave inquinamento ambientale prodottosi nella zona di Seveso nel 1976 a causa della nube tossica causata dall’esplosione della caldaia di un industria. Le Sezioni unite, partendo da una rilettura dell’art. 185 c.p. e chiarendo che esso non necessariamente richiede, oltre al perturbamento psichico della vittima, anche il verificarsi di un distinto danno, giunge ad affermare che il danno morale soggettivo si pone direttamente quale danno evento, e non più come danno conseguenza, così come il danno biologico, quando la vittima provi di aver subito un turbamento psichico transuente ma non patologico (atteso che se fosse patologico il danno sarebbe psichico e rientrerebbe nella macroarea del danno biologico). Pertanto la Cassazione conclude con il riconoscere il risarcimento del danno morale soggettivo, lamentato dai soggetti che provino di aver subito un turbamento psichico consistente in sofferenze e patemi d’animo di natura transitoria a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti e alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita, anche a prescindere da una lesione all’integrità psico-fisica o di altro evento produttivo di danno patrimoniale. E’ il riconoscimento che fenomeni di inquinamento ambientale grave intaccano un diritto soggettivo proprio ed esclusivo dell’individuo e cioè quello di potersi liberamente rapportare all’ambiente di vita e lavoro e a non dover sopportare costrizioni indebite dall’altrui opera inquinante. Unica perplessità che rimane riguarda la prova, in concreto, dello stato soggettivo rappresentato da un transuente perturbamento psichico non rilevabile in sede medica. Quid iuris nella ipotesi in cui il danno ambientali individuale derivi da un illecito ambientale di natura non penale? Colui che vede lesa la propria posizione individuale, a che una condizione della propria vita non sia alterata, che possibilità di tutela possiede? Secondo un certo orientamento dottrinario, da condividere, il danno ambientale individuale costituisce un chiaro esempio di danno esistenziale e che, pertanto, al di fuori dell’accertamento, nel caso concreto, di un reato, può ugualmente essere risarcito attraverso il combinato disposto degli artt. 2 cost. e 2043 c.c. Il danno esistenziale prende forma agli inizi degli anni ’90 ad opera di elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali delle posizioni assunte dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184 del 1986. Afferma che: “l’art. 2043 c.c. va necessariamente esteso fino a

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comprendere il risarcimento non solo di danni in senso stretto patrimoniali ma di tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana”. Il danno esistenziale è definito come la compromissione della sfera di realizzazione della persona umana conseguente alla lesione di un interesse giuridicamente tutelato. Si precisò che il danno esistenziale andava qualificato danno-conseguenza poiché, consistendo nella compromissione della sfera esistenziale della vittima, attiene esclusivamente alle conseguenze della lesione. Si differenzierebbe dal danno biologico poiché non si richiede una lesione psico-fisica: dal danno morale soggettivo in quanto consiste in una rinuncia ad un’attività concreta; dal danno patrimoniale in quanto prescinde da qualsiasi compromissione del patrimonio. In tale ottica il danno ambientale individuale è un danno esistenziale che deve poter essere ugualmente risarcito anche in ipotesi che escludono la ricorribilità all’art. 2059 c.c. Sarebbe del tutto illogico pensare che sia risarcibile, nelle forme del danno morale soggettivo, solo nelle ipotesi in cui l’attività contaminante integri gli estremi di un reato. Ne deriva che, al di fuori di ipotesi di reato, debba essere risarcito facendo applicazione dell’art. 2043 c.c. Le critiche mosse al modello del danno esistenziale concernono innanzitutto la indeterminatezza medico-scientifica. Inoltre non si è mancato di sottolineare come il danno esistenziale in quanto danno non patrimoniale non potrebbe essere risarcito se non nei casi di cui all’art. 2059 c.c. Tale disparità ha indotto una attenta Cassazione del 2002 sent. n. 15449 a dire apertamente che il danno esistenziale è lo strumento volto a superare le lacune riscontrate in punto di protezione civilistica degli attributi e valori della persona connesse all’impossibilità di giovarsi dell’art. 185 c.p. in relazione all’art. 2059 c.c. quante volte non si fosse concretizzata una fattispecie di reato. Il punto è quello di riconoscere alla persona lesa nei valori costituzionalmente garantiti una adeguata forma di risarcimento. Pertanto si può con ragione sostenere che la teorica del danno esistenziale costituisce un tentativo di aggirare il divieto di cui all’art. 2059 c.c., tentativo, in alcuni casi riuscito, generato dalla incomprensibile disparità di trattamento del danno non patrimoniale dipendente o meno dal reato.

5.1. Sul delineato quadro normativo e giurisprudenziale si è inserita la nuova teoria sul danno non patrimoniale. La logica seguita è stata quella di riconoscere ampia tutela ai valori della persona costituzionalmente garantiti e di reinterpretare in una lettura costituzionalmente orientata l’art. 2059 c.c. Madre della nuova teoria è la terza sezione della Cassazione civile che ha garantito, anche al diritto ambientale individuale, una tutela certa ed ampiamente rafforzata. Riconosce la terza sezione che “il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica, implicitamente ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale”. La rilettura dell’art. 2059 c.c. conduce a configurare la tutela risarcitoria dei diritti della persona in una sistematica bipolare: da un lato avremo il danno patrimoniale e dall’altro il danno non patrimoniale, comprensivo del danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo e dei pregiudizi esistenziali ulteriori. Ne deriva che in ogni ipotesi in cui venga leso il diritto ambientale individuale ma non sia possibile rivenire una ipotesi delittuosa o non sia dimostrabile un elemento costitutivo del fatto tipico di reato, la lesione genera sempre un diritto al risarcimento del danno all’ambiente individuale.

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L’orientamento citato è ampiamente condensato nelle sentenze cass. civ. terza sezione nn. 8827 del 2003 e 8828 del 2003 e non a caso va ad incidere, risolvendole nel concreto, le problematiche legate al “danno da procurata invalidità del congiunto”. Ogni lesione di un diritto personale inviolabile, costituzionalmente protetto, potrà avvalersi della medesima opera reinterpretativa dell’art. 2059 c.c. Importante avallo alla teoria della Cassazione è provenuta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 233 del 30 giugno-11 luglio 2003. La Corte evidenzia come l’art. 2059 c.c., secondo l’originaria interpretazione, sia ormai divenuto anacronistico ed abbia ampiamente perduto il carattere sanzionatorio. Da un lato, infatti, richiama l’attenzione dell’interprete sulla circostanza che il legislatore abbia oramai introdotto ulteriori e specifici casi di risarcibilità del danno non patrimoniale in materie estranee al diritto penale; dall’altro la giurisprudenza, facendo leva sull’art. 2043, ha da tempo individuato molteplici ipotesi di danno non patrimoniale risarcibili a prescindere dalla commissione di un reato. Ne deriva che è giunta l’ora di riconoscergli una funzione “tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale”.

6. In materia nucleare vi è una specifica disciplina dettata dalla legge n. 1860 del 31 dicembre 1962 e successive modificazioni. Chiunque eserciti un impianto nucleare, è responsabile di ogni danno alle persone o alle cose causato da un incidente nucleare avvenuto nell’impianto e dei danno cagionati direttamente dai combustibili nucleari o dai prodotti o rifiuti radioattivi immagazzinati, abbandonati, sottratti o perduti a meno che tali danno derivino direttamente da atti di conflitto armato o da cataclismi naturali di carattere eccezionale. La responsabilità dell’esercente non comprende i danni:

1) all’impianto nucleare in sé e alle cose che si trovano sul luogo dell’impianto o utilizzate in rapporto con esso;

2) nel caso di incidente nel corso di un trasporto, al mezzo di trasporto, se risulta provato che il danno è causato da un incidente nucleare.

Allorché dei danni sono causati congiuntamente da un incidente nucleare e da un incidente diverso, il danno causato da questo secondo incidente, nella misura in cui non può essere separato con certezza dal danno causato dall’incidente nucleare, è considerato come un danno causato dall’incidente nucleare. In caso di responsabilità ascrivibile a più di un esercente, vi è l’obbligo al risarcimento da parte di tutti in maniera solidale. Il massimale della risarcibilità dei danni derivanti da attività nucleare è di lire 7.500 milioni. Se la quantificazione dei danni eccede la somma garantita, lo Stato deve provvedere al risarcimento fino alla concorrenza di lire 43.750 milioni, potendo esercitare diritto di rivalsa nel caso in cui il danno sia imputabile a colpa dell’esercente, e le altre parti contraenti delle convenzioni sulla responsabilità civile in campo nucleare fino alla concorrenza di lire 75.000 milioni. Le somme dovute a titolo di risarcimento sono impignorabili e insequestrabili. L’azione si propone innanzi al Tribunale nella cui giurisdizione si trova l’impianto, con citazione da notificare anche al Ministero del tesoro; si prescrive nel termine di tre anni dal giorno in cui si viene a conoscenza del danno. Se l’incidente si verifica in Italia, l’autorità giudiziaria italiana è esclusivamente competente a conoscere delle

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azioni di risarcimento, anche quando l’incidente si sia verificato fuori dei territori degli Stati ai quali si applicano le Convenzioni sulla responsabilità civile nel campo dell’energia nucleare firmate a Parigi nel 1960 e a Bruxelles nel 1963 ed i protocolli addizionali alle dette convenzioni, oppure quando non sia possibile determinare con certezza il luogo in cui si è verificato l’incidente e l’impianto nucleare si trovi in territorio italiano.

- PROFILI PROCESSUALI E MEZZI DI TUTELA

7. L’azione per il risarcimento del danno ambientale ex art. 18 comma 2 poteva, prima della novella del 2006, essere proposta innanzi al giudice ordinario, ferma restando la competenza della Corte dei conti per le azioni di regresso verso il pubblico dipendente che abbia cagionato un danno, risarcito dallo Stato, a terzi. Il danno ambientale non apparteneva alla giurisdizione della Corte dei conti. Tanto è vero che provocava una perdita per la collettività che pur essendo quantificabile economicamente non generava un reale danno erariale. Ne deriva che la Corte dei conti aveva giurisdizione piena nelle sole ipotesi in cui il pubblico dipendente nell’esercizio delle sue funzioni avesse cagionato un danno ambientale per lo Stato che avesse intaccato anche dei beni ed interessi di terzi, e sul presupposto che l’azione lesiva fosse stata posta in essere con dolo o colpa grave. La legittimazione ad agire spettava ex art. 18 comma 3, anch’esso abrogato, allo Stato nonché agli enti territoriali sui quali incidevano i beni oggetto del fatto lesivo. Lo Stato agiva non quale Stato-persona chiedendo il risarcimento per il detrimento delle proprie finanze ma quale Stato-comunità facendosi carico di una generale istanza di salvaguardia dell’ambiente. Complesso era il ragionamento circa i rapporti processuali sussistenti tra Stato e enti territoriali posto che a tutti era attribuita la legittimatio ad causam. Secondo alcuni gli enti territoriali agivano in posizione autonoma e disgiunta rispetto allo Stato facendo valere istanze del tutto proprie; secondo altri tra Stato ed enti territoriali si aveva una competenza concorrente; secondo un altro orientamento gli enti territoriali si atteggiavano a modo di sostituti processuali dello Stato. Darei prevalenza a quella che ammetteva la eventuale pluralità di richieste risarcitorie. Il d.lg. n. 152 del 2006 di riordino della materia ambientale ha attribuito il potere di agire al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, anche attraverso l’esercizio dell’azione civile in sede penale. Ha abrogato per intero l’art. 18 ad eccezione del comma 5, riguardante le associazioni ambientaliste. Il Ministro in seguito alla istruttoria, ove abbia accertato un fatto che abbia cagionato un danno ambientale ed il responsabile non abbia ripristinato i luoghi, emana ordinanza immediatamente esecutiva ingiungendo ai responsabili il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica. Qualora il ripristino risulti impossibile o il responsabile non si attivi, il Ministro emana nuova ordinanza ingiunzione di pagamento di una somma equivalente al danno cagionato. Se viene esercitata l’azione richiamata, il Ministro non potrà proporre il giudizio ordinario, salva la possibilità di intervento, in qualità di persone offesa, nell’eventuale giudizio penale. Attraverso

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l’ordinanza del Ministro, il trasgressore potrà, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza, ricorrere al TAR del luogo del danno, in sede di giurisdizione esclusiva.

8. Dispone l’art. 18 comma 5 che “le associazioni individuate in base all’art. 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi”. Le associazioni ambientaliste, pertanto, divennero degli enti esponenziali dotati di una struttura organizzativa portatori delle istanze di una ben circoscritta collettività. Ciò nonostante il legislatore opera una discriminazione tra quelle alle quali, tramite un atto di individuazione, viene consentito di esercitare i poteri di intervento e di impugnativa in sede di giurisdizione amministrativa, e quelle che non possedendo i presupposti necessari, sono sfornite di poteri. I più importanti presupposti si rinvengono: a) nel loro carattere nazionale; b) nella organizzazione democratica degli organi interni; c) nella finalità programmatica di tutela ambientale; d) nella continuità dell’azione; e) nella rilevanza esterna delle azioni. I poteri principali di tali associazioni consistono: 1) nella possibilità di denunciare fatti lesivi dell’ambiente; 2) possono intervenire nei giudizi di danno ambientale; 3) possono, in sede di intervento dinanzi al g.o. addurre documentazione e prove utili; 4) possono, infine, ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per ottenere l’annullamento di atti amministrativi illegittimi. La giurisprudenza amministrativa riconosce alle associazioni non riconosciute, ma portatrici di interessi collettivi qualificati, la legittimazione ad impugnare i provvedimenti amministrativi illegittimi e ad accordare loro un certo grado di tutela. Ovviamente alle associazioni non spetta alcuna parte nella quota stabilita per il risarcimento del danno. Talune associazioni riconosciute, a patto che vi sia il consenso della persona offesa e che questo sia prestato in favore di una singola associazione o ente (art. 92 c.p.p.), potranno anche costituirsi parte civile nel processo penale. Né è da escludere che le medesime associazioni ex artt. 13 e 18 l. n. 349 del 1986 possano avvalersi dello strumento penale non già per ottenere il risarcimento, che spetta perseguire allo Stato o agli enti territoriali, ma per ottenere la rimessione in pristino e l’attribuzione economica delle spese di giudizio. Le associazioni ex art. 13 sono dirette ad intervenire nel giudizio previsto dall’art. 18, le associazioni ex art. 91 c.p.p. nel processo penale per costituirsi parte civile in favore della parte offesa. Queste ultime devono essere state costituite antecedentemente alla lesione del bene ambientale e devono essere senza finalità i lucro, le associazioni di cui all’art. 13 hanno invece presupposti di natura diversa. Nulla esclude che la medesima associazione possegga i presupposti richiesti da ambo le normative e possa operare su i diversi piani del giudizio civile e penale.

9. Prima della l. n. 349 del 1986, del d.lg. n. 152 del 2006 e delle successive sentenze delle Corti di legittimità, gli strumenti di tutela del bene ambientale vennero estrapolati da una lettura combinata di norme costituzionali, di diritto sostanziale e processuale e poste a tutela di una delle componenti del bene ambientale e cioè del diritto alla salute e del diritto all’ambiente salubre. Venne largamente utilizzato l’art. 844 c.c. in combinato disposto con l’art. 32 cost. venne

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attribuito al mezzo di tutela di cui all’art. 844 c.c. una diversa funzione di assicurare anche tutti gli altri interessi riconducibili al godimento della proprietà. Ne derivò una tutela rafforzata al diritto alla salute del singolo che però continuava ad essere legata alla posizione proprietaria vantata sul fondo interessato dalle immissioni inquinanti. Ugualmente è stato utilizzato lo strumento preventivo di cui all’art. 700 c.p.c. Il risarcimento è previsto quale disincentivo ad attività inquinanti e pare avere natura generalpreventiva della lesione del bene ambientale, inibitoria di tutte quelle iniziative industriali che presentano forti rischi di inquinamento. Nel concreto, il giudice ha sia la facoltà di ordinare l’astensione da determinate attività reputate altamente nocive sia la facoltà di prescrivere forme di comportamento da adottare nell’eventuale prosieguo dell’attività produttiva.

L’ILLECITO PENALE AMBIENTALE. DISCRASIA TRA MODELLO DI TUTELA E RILEVANZA DEL BENE GIURIDICO

1. Il riconoscimento della liceità dell’opera dell’uomo sull’ambiente, avente finalità di promozione del benessere collettivo, esige la nascita di diritti di intervento dell’uomo sulla natura. La disciplina confligge con la salvaguardia di beni e valori aventi pari rango. E’ rimessa in prima battuta la diritto amministrativo e solo subordinatamente al diritto penale, nella sua veste funzionale di prevenzione dell’illecito. Si è da subito avvertita l’esigenza di adottare un modello di tutela penale anticipata. Infatti gravi aggressioni ambientali potrebbero produrre un danno irreparabile. L’unico modello plausibile di tutela penale appare essere lo schema del c.d. reato di pericolo astratto: cioè, la centralità dell’illecito si individua nel momento del disvalore di una condotta presuntivamente idonea a esporre a pericolo il bene giuridico di riferimento. Lo schema del reato di pericolo astratto consente di bypassare la prova provata dell’esistenza del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento, evitando, altresì, che l’accertamento del reato ambientale non consista in una attribuzione al perito delle funzioni proprie del giudicante. La utilizzazione dello schema del pericolo astratto, però, rischia di divenire un pericoloso boomerang quando il precetto penale viene costruito e tipizzato secondo lo schema della semplice disobbedienza alle prescrizioni di carattere amministrativo in materia ambientale. La condotta sanzionata non sarà quella che lede il bene giuridico ma sarà una mera violazione di norme tecniche. Il disvalore della condotta non sarà facilmente percepito da colui che disobbedisce e quindi non genera nei consociati la convinzione di aver subito una sanzione giusta ed equa. Sino ad oggi il legislatore italiano ha strutturato i reati ambientali come contravvenzioni, utilizzando lo schema 1) della violazione/superamento dei limiti di quantità di sostanze inquinanti sversati nell’ambiente; 2) della condotta posta in essere in assenza della prescritta e dovuta

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autorizzazione; 3) della condotta in violazione di un ordine della autorità amministrativa.

1.1. L’anticipazione dell’intervento punitivo pone indubbiamente un serio problema di lesione al principio di offensività. Le contravvenzioni sono strutturate, nella quasi totalità dei casi, sul superamento dei limiti tabellari imposti dalle autorità amministrative nelle materie di competenza. Ciò significa che il reato ambientale si considera consumato non appena il limite di emissione vietata venga superato. La presunzione assoluta della aggressione al bene deriva, cioè, dalla mera verifica di un dato tecnico che potrebbe, in concreto, non aver determinato alcun pericolo. Così operando, il legislatore italiano ha delegato alla fonte secondaria non già l’individuazione del profilo tecnico della fattispecie, ma il profilo offensivo della stessa. L’offensività, infatti, fa pienamente parte della descrizione tipica del fatto costituente reato specificando il profilo della aggressione al bene giuridico di riferimento. Orbene deve essere prevista in maniera tassativa dal legislatore che, in ossequio al principio di riserva assoluta di legge, non può delegare tale elemento alla fonte secondaria. Allorché il fatto di reato sia già di per sé offensivo, la previsione della soglia di punibilità non sarebbe elemento del fatto tipico ma costituirebbe elemento dell’antigiuridicità e come tale sfuggirebbe alla regola della riserva assoluta di legge.

1.2. Lo stesso nesso causale tra la condotta e l’evento appare difficilmente dimostrabile. I fenomeni di inquinamento ambientale devono però essere dimostrati per potersi comminare al responsabile una sanzione di natura penale. A fronte della mera disobbedienza alla regola cautelare deve sussistere la prova che quella condotta ha generato una alterazione dell’ecosistema di riferimento o una reale lesione per la salute umana. Tanto è vero che la direttiva CE n.35 del 2004 esclude dal proprio ambito operativo i c.d. fenomeni di “inquinamento diffuso” che non possono essere dimostrati come conseguenza di una ben circoscritta condotta. La condotta presuntivamente inquinante deve essere conditio sine qua non dell’evento. Ma non basta, occorre poter sussumere quella condotta nel novero di quelle che, secondo leggi scientifiche di copertura, determinano la produzione di quel determinato evento. Per ritenere sussistente il nesso di causalità bisognerebbe escludere che altre condizioni siano idonee di per loro a produrre l’evento illecito. Lo stesso fenomeno deve, quantomeno, essere coperto da una legge di esperienza. Tuttavia, nel diritto penale ambientale, la costruzione del reato di pericolo astratto appare l’unica strada percorribile.

1.3. Data una valida spiegazione al nesso di causalità l’attenzione dovrà spostarsi sulla prova e sul contenuto della colpa del soggetto agente. La giurisprudenza risolve la questione accontentandosi della mera prevedibilità dell’evento. Le Sezioni unite penali della Cassazione hanno stabilito che occorre accertare ex ante la prevedibilità dell’evento, giacché non può essere addebitato all’agente di non avere previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere. Quanto alla prevedibilità, è da ritenere che l’agente abbia un

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obbligo di informazione in relazione alle più recenti acquisizioni scientifiche, anche se non ancora patrimonio comune, a meno che non si tratti di studi isolati ancora privi di conferma. La regola cautelare è quasi sempre cristallizzata in testi scritti aventi valore normativo. Quando fonte della regola cautelare è la legge, la sua violazione genera automaticamente una sanzione di carattere, a seconda dei casi, amministrativa o penale. Anche la violazione di regolamenti, non aventi valore di legge, può dar vita a violazione del diritto penale ambientale. Le stesse discipline o ordini disposti da autorità pubbliche o private generano regole cautelari.

2. Nella vigente normativa riscontriamo, in Italia, la proliferazione di discipline settoriali concernenti i vari elementi che compongono il bene ambientale. L’ambiente, si è detto, non è quel concetto unitario: si tratta, caso per caso, della protezione singolare di una componente del bene ambiente. Di qui la genesi della normativa settoriale. L’intero quadro normativo risulta costruito sullo schema del reato di pericolo. Raramente il legislatore prevede reati di danno poiché difficilmente è in grado di stabilire quale variazione causata dall’opera dell’inquinatore è in grado di arrecare danno all’elemento ambientale tutelato. Ne è derivato che la legge ha trasferito, nei reati ambientali, il momento consumativo del reato da quello della lesione a quello della minaccia: il reato è perfetto nel momento in cui il bene tutelato venga posto in una probabile condizione di essere leso. Nell’analisi delle singole discipline si nota come le contravvenzioni ambientali siano costruite sia secondo lo schema del pericolo concreto che del pericolo astratto. La dottrina tradizionale effettua una divisione di fondo: i reati di pericolo concreto richiedono, per essere configurati, che il giudice accerti, in concreto, il rischio occorso al bene tutelato, mentre i reati di pericolo astratto risultano configurati allorché siano integrati gli estremi della fattispecie. Infine tante altre contravvenzioni ambientali sono inquadrate nella categoria dei c.d. reati di posizione. Si tratta di illeciti penali consistenti, nel caso di attività soggette ad autorizzazione della p.a., o nella mancanza della detta autorizzazione oppure nella violazione di una ingiunzione della stessa p.a. In simili ipotesi ciò che rileva è la infrazione alla disciplina amministrativa. Tale tipo di costruzione normativa mostra un eclatante vulnus nell’elemento proprio del pericolo della fattispecie penale.

2.1. Il c.d. Testo unico ambientale è stato emanato in attuazione della legge del 15 dicembre 2004 n. 308 di delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e delle misure di diretta applicazione. Il Testo unico non fa altro che accorpare, senza realmente riordinare, tutte le precedenti contravvenzioni. È strutturato in sei parti distinte così suddivise: 1) principi generali e ambito di applicazione; 2) procedure di valutazione ambientale strategica, procedure di valutazione di impatto ambientale, procedure per l’autorizzazione ambientale integrata; 3) suolo e acque; 4) rifiuti; 5) aria; 6) danno ambientale in sede civile. Le finalità sono: “la promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell’ambiente e l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali”. La disciplina penalistica della parte terza si chiude con la previsione del beneficio

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della sospensione condizionale della pena subordinata al risarcimento del danno ed alla messa in opera degli interventi di sicurezza. Inoltre si prevede la diminuzione delle sanzioni penali da un terzo alla metà nei confronti di chi abbia riparato interamente il danno: si concretizza il principio del “chi inquina paga”.

3. La settorialità della normativa mal si concilia con le esigenze di tutelare il bene ambientale quale valore unitario. Il diritto penale non può più ignorare che il bene ambientale ha assunto un valore unitario costituzionalmente riconosciuto di diritto proprio della persona e di condizione primaria ed ineludibile allo sviluppo della personalità. Il passaggio cui il diritto penale ambientale deve tendere è quello di elevare la qualità dell’illecito commesso da contravvenzione a delitto dato il maggior disvalore sociale che fenomeni di aggressione ambientale oggi comportano per la collettività ed i singoli. La necessità di una tutela maggiormente armonica discende anche dall’imposizione dell’Unione europea. Abbiamo visto come la decisione-quadro 2003/80/GAI del Consiglio prevede fattispecie di inquinamento ambientale con incidenza sulla salute, di mero inquinamento ambientale, di traffico di rifiuti pericolosi, ecc…, che accorpano fenomeni contaminanti dell’intero ecosistema e che non appaiono limitati a disciplinare le influenze negative sui singoli elementi della natura. Tutti gli illeciti sono costruiti sulla falsariga dei reati di pericolo concreto, ma anche sullo schema del reato di danno (quando si tratta di fatti di inquinamento ambientale con diretta incidenza sulla salute individuale). Giace ormai da troppo tempo in Parlamento un d.d.l. n. 3960 presentato il 14 aprile 1999 con il quale si intende introdurre nel libro secondo del codice penale il Titolo VI-bis concernente i “delitti contro l’ambiente”. A tale d.d.l. se ne è aggiunto altro nell’aprile 2007. Nel progetto la nozione di ambiente risulta allargata a comprendere il concetto di ambiente quale ecosistema unitario ed inoltre comprende le accezioni di ambiente salubre e di ambiente incontaminato quale condizione base per la crescita e lo sviluppo dell’equilibrata personalità dell’uomo. Sono previste fattispecie costruite sullo schema del reato di pericolo concreto con la previsione di un aggravamento di pena per il caso che il pericolo si traduca in danno.

4. Nel costruire contravvenzioni a tutela dell’ambiente, il legislatore italiano non si è posto concretamente il problema di quale deve essere l’elemento soggettivo del reato. Il fatto può essere imputato all’agente tanto a titolo di dolo quanto a titolo di colpa. Tuttavia nel momento in cui si introdurrà una normativa che riguardi l’unitario valore ambiente, il legislatore dovrà necessariamente individuare delitti imputabili a titolo di dolo e delitti imputabili a titolo di colpa. La differenziazione appare obbligata posto che le aggressioni intenzionali all’ambiente fondano un giudizio di riprovevolezza molto più grave rispetto alle aggressioni di tipo colposo. Ciò che invece in campo penale deve rimanere immobile è il ripudio di forme di responsabilità oggettiva. Ciò in quanto si comprometterebbe irrimediabilmente il sistema della responsabilità penale fondato sulla colpevolezza della condotta.

5. Si è ampiamente visto come esime dal reato l’esercizio di un diritto: è il caso in cui l’emissione che danneggia l’ambiente sia stata compiuta in ottemperanza alle

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prescrizioni normative. La ratio è tutta nella contrapposizione di interessi giuridici meritevoli di tutela e nel loro equo contemperamento. Inoltre, in campo penale ambientale, ricorrono le ulteriori esimenti dello stato di necessità e quella delle azioni socialmente adeguate. Lo stato di necessità rileva in tutti quei casi in cui si pone al produttore industriale la scelta tra il continuare a produrre incidendo sulla salubrità ambientale oppure licenziare centinaia di persone operanti nel settore. Ritenute giustificative sono anche le azioni socialmente adeguate e cioè quelle azioni che malgrado l’apparente o formale contrarietà a norme di legge sono, tuttavia, generalmente ritenute lecite poiché rispondenti al modus vivendi di una determinata società organizzata. Ugualmente giustificate appaiono le attività che producono il c.d. “rischio consentito”. Il rischio consentito copre tutte quelle attività sociali che, preventivamente decretate lecite dalla collettività, formalmente sono in grado di porre in pericolo un bene giuridico penalmente tutelato.

6. Il Consiglio dei Ministri, il 24 aprile del 2007, ha approvato, su proposta del Ministro dell’ambiente e del Ministro di Giustizia, un disegno di legge che delega il Governo al riordino, coordinamento ed integrazione della disciplina dei delitti contro l’ambiente. Il d.d.l. prevede la codificazione dei delitti ambientali tutti in forma dolosa e strutturati secondo il modello del reato di danno oppure di pericolo concreto. Non più tutela minorata del bene giuridico ambientale, oramai tutelato ad ogni livello. Il d.d.l. vorrebbe introdurre nel Libro Secondo, il Titolo VI-bis, rubricandolo “delitti contro l’ambiente”. Si prevede l’introduzione dell’art. 452-bis che tratta del delitto di “inquinamento ambientale”. La norma prevede la punizione, con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da cinquemila a trentamila euro, della condotta di colui che illegittimamente immette nell’ambiente sostanze o energie cagionando il pericolo concreto di una compromissione durevole o rilevante delle originarie o preesistenti qualità del suolo, sottosuolo, acque o dell’aria oppure della flora o della fauna selvatica. Viene accolta la teoria ecocentrica dell’ambiente, assurgendo il bene ambientale a valore a sé stante. Non basterà la mera violazione della regola cautelare ma dovrà verificarsi che la illegittima immissione abbia cagionato il pericolo concreto. Si richiede che alla violazione della regola cautelare corrisponda il pericolo concreto per l’ambiente. Naturalmente, la commissione dell’illecito de quo comporterà l’assorbimento della contravvenzione prevista a tutela della mera violazione della regola cautelare. L’elemento soggettivo richiesto dall’art. 452-bis è certamente quello doloso: ne deriva che il soggetto agente dovrà perlomeno accettare il rischio, che dalla propria condotta possa derivare pericolo grave per l’ambiente circostante. L’art. 452-duodecies prevede esplicitamente il delitto di inquinamento ambientale colposo. Se dai fatti di inquinamento ambientale derivi il danno ambientale si applicherà la pena della reclusione da due a sei anni e della multa da ventimila a sessantamila euro. Questo prevede il successivo art. 452-ter comma 1, strutturato secondo lo schema dell’illecito penale di danno. Al comma 2 specifica quando la compromissione ambientale deve considerarsi durevole e rilevante: sarà tale quando la eliminazione del danno risulta di particolare complessità sotto il profilo tecnico, ovvero particolarmente onerosa o conseguibile solo con provvedimenti eccezionali. Se dalla illegittima immissione deriva, ulteriormente, il pericolo concreto per la vita o l’incolumità delle persone, si applica la pena della reclusione da due anni e sei mesi a sette anni (comma 3). L’art. 452-

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quarter prevede la punibilità, con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da trentamila a duecentocinquantamila euro, della condotta di colui che, illegittimamente immettendo sostanze nell’ambiente, cagioni un disastro ambientale. Vi sarà disastro ambientale quando il fatto determini una alterazione irreversibile dell’ecosistema naturale oppure quando, data la estensione della compromissione o la rilevanza oggettiva del danno ambientale e considerato il numero delle persone offese o esposte al rischio, vi sia offesa per la pubblica incolumità. Nei casi previsti dagli artt. 452-bis, ter, quarter e quinquies (che prevede il delitto di “alterazione del patrimonio naturale, della flora e della fauna”) la pena sarà aumentata di un terzo se la compromissione o il pericolo di compromissione ambientale 1) ha per oggetto aree protette o beni sottoposti a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico; 2) deriva dall’immissione di radiazioni ionizzanti. L’art. 452-septies prevede il delitto di “traffico illecito di rifiuti” punendo la condotta di chiunque, illegittimamente, cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, tratta, abbandona o smaltisce ingenti quantitativi di rifiuti. La pena va da uno a cinque anni di reclusione e da diecimila a trentamila euro di multa. Le pene sono sensibilmente aumentate se il traffico riguarda rifiuti pericolosi e radioattivi. Infine è previsto un ulteriore aumento di pena se il traffico/smaltimento di rifiuti provochi il pericolo concreto di una compromissione durevole o rilevante delle originarie o preesistenti qualità del suolo, sottosuolo, acque o aria oppure della flora o della fauna selvatica. Se dal fatto, invece, deriva pericolo per la vita o l’incolumità delle persone, vi sarò un ulteriore aumento di pena. Il seguente art. 452-octies prevede il delitto di “traffico di materiale radioattivo o nucleare. Abbandono”. In tal caso si sanziona, reclusione da due a sei anni e multa da cinquantamila a duecentocinquantamila euro, la condotta di chiunque cede, acquista, trasferisce, importa o esporta sorgenti radioattive o materiale nucleare. La stessa pena si applica a chi si disfa illegalmente di una sorgente radioattiva. Le pene saranno aumentate se dal fatto deriva pericolo concreto per l’ambiente o per la salute dell’uomo. L’art. 452-nonies introduce il delitto di “associazione a delinquere finalizzata al delitto ambientale”. In tale norma si prevede un aumento di un terzo delle pene previste dall’art. 416 e 416-bis quando l’associazione è finalizzata esclusivamente o prevalentemente a commettere delitti ambientali, e quando ci si avvale delle condizioni previste dall’art. 416-bis per commettere delitti ambientali. Si sanzionano le c.d. ecomafie, e cioè quelle associazioni a delinquere nazionali o transnazionali che vivono e lucrano sull’illecito traffico di rifiuti, anche pericolosi e radioattivi. Il seguente art. 452-decies sanziona il delitto di “frode in materia ambientale”, prevedendo la sanzione della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa fino a diecimila euro, per la condotta di colui che, al fine di commettere taluno dei delitti ambientali o di conseguirne l’impunità, falsifica, in tutto o in parte, la documentazione prescritta ovvero fa uso di documentazione falsa. L’art. 452-duodecies estende la punibilità dei delitti di inquinamento ambientale, danno ambientale, disastro ambientale e traffico di rifiuti illeciti o di materiale radioattivo anche alle ipotesi di mera colpa del soggetto agente. L’art. 451-terdecies prevede le pene accessorie, tra le quali:

a) interdizione temporanea dai pubblici uffici, dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese;

b) incapacità di contrattare con la p.a.;

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c) pubblicazione della sentenza penale di condanna;

d) confisca obbligatoria dei mezzi utilizzati per il traffico/smaltimento dei rifiuti illeciti e confisca delle sorgenti e materiali radioattivi.

L’art. 452-quaterdecies prevede la possibilità della concessione della sospensione condizionale della pena subordinata all’adempimento degli obblighi di bonifica, recupero e ripristino dello stato dei luoghi. Infine l’art. 452-quinquiesdecies prevede una circostanza attenuante per il “ravvedimento operoso”. Non sarà punibile colui che elimini il danno o rimuova il pericolo prima che sia esercitata l’azione penale contro di lui (art. 452-sexiesdecies).

RIFIUTI RADIOATTIVI E L’ANTICIPAZIONE DELLA TUTELA PENALE

1. L’inquinamento nucleare è quel fenomeno fisico che comporta la contaminazione, da radiazioni ionizzanti, dell’ambiente e degli organismi viventi. Conseguentemente ad una “emergenza radiologica” il materiale radioattivo sprigionato si sparge nell’atmosfera e si posa sulle superfici scoperte del suolo e delle acque proseguendo la propria azione, anche attraverso le prime materie contaminate, sui vegetali e su tutti gli esseri viventi, compreso l’uomo. In Italia si è attuata la scelta di chiudere al nucleare, ma rimangono in piedi due problemi: il superamento delle frontiere italiane delle emissioni inquinanti provenienti da Stati limitrofi e il problema di uno smaltimento sicuro dei rifiuti, scorie e residui radioattivi. Negli ultimi tempi la criminalità organizzata, a livello internazionale, ha trovato nello smaltimento degli stessi un filone estremamente redditizio. Il coordinamento delle indagini in materia di illeciti ambientali è affidato all’Europol e all’European Drugs Unit.

2. A livello italiano la normativa è quella varata con d.lg. n. 230 del 17.03.1995. Tale normativa è posta in attuazione della direttiva 84/467 Euratom in materia di tutela e delle direttive 90/641 e 92/3 Euratom in materia di protezione dei lavoratori e di sorveglianza e di controllo delle spedizioni transfrontaliere di residui radioattivi. L’art. 2 del citato decreto delinea in tre punti cardine i principi generali: il punto a) prevede che i tipi di attività che comportano esposizione alle radiazioni ionizzanti debbono essere preventivamente giustificati e periodicamente riconsiderati; al punto b) si dispone che le esposizioni alle radiazioni ionizzanti debbono essere mantenute al livello più basso; a sua volta il punto c) ci dice che la somma delle dosi ricevute ed impegnate non deve superare i limiti prescritti in accordo con le disposizioni del presente decreto e dei relativi provvedimenti applicativi. Si deve distinguere il problema dei rifiuti da quello della diretta esposizione a materiale contaminante. Sotto quest’ultimo profilo è fatto divieto di mettere in circolazione, produrre,

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importare, impiegare, manipolare o comunque detenere, al fine del commercio, qualsiasi prodotto cui siano state aggiunte materie radioattive. Per quanto concerne la questione dei rifiuti, lo smaltimento di rifiuti radioattivi solidi, liquidi o aeriformi è sottoposto al duplice vincolo della limitazione quantitativa disposta con decreto dal Ministro dell’ambiente e dell’autorizzazione amministrativa. Ugualmente sottoposta ad autorizzazione è l’attività di raccolta di rifiuti radioattivi provenienti da terzi allo scopo di conferire i medesimi ad installazioni di trattamento o di deposito, oppure di procedere allo smaltimento di essi nell’ambiente. Sono altresì soggette a preventiva autorizzazione le spedizioni di rifiuti radioattivi provenienti da Stati membri dell’Ue o ad essi destinate, le importazioni e le esportazioni dei rifiuti medesimi nonché il loro transito sul territorio italiano. Infine gli esercenti le attività di cui sopra devono registrare i tipi, le quantità di radioattività, le concentrazioni, le caratteristiche fisico-chimiche, dei rifiuti medesimi. Le sanzioni penali previste riguardano sia la violazione degli obblighi a tutela della popolazione, sia quelli a tutela del corretto smaltimento e trasporto dei rifiuti. La condotta sanzionata più gravemente è quella riguardante colui che installa strutture di deposito o smaltimento dei rifiuti radioattivi, senza il preventivo nulla-osta, atteso che è prevista la sanzione dell’arresto da sei mesi sino a tre anni e l’ammenda da circa 10.000 a 50.000 euro; chi svolge spedizioni, importazioni o esportazioni di rifiuti radioattivi senza le autorizzazioni è punito con l’arresto da due a sei mesi e con l’ammenda da circa 10.000 a 40.000 euro. Trattasi di contravvenzioni. Quanto all’elemento soggettivo si reputa che esso possa indifferentemente sostanziarsi nella colpa o nel dolo. Tali contravvenzioni hanno la natura giuridica dei reati di pericolo. In più possono essere contestate in concorso con altri reati di più grave fattura che siano conseguenza diretta o indiretta delle precedenti condotte pericolose.

3. Gli effetti negativi conseguenti ad incidenti nucleari hanno forti ripercussioni transfrontaliere, tanto da porre il problema della regolamentazione sovranazionale della materia. I Paesi che hanno scelto di non produrre energia nucleare sentono comunque molto forte il problema, posto che non si può impedire alle Nazioni vicine di produrre e utilizzare tale energia. Resta poi aperto il problema dello smaltimento dei rifiuti radioattivi che provengono dalla chiusura delle preesistenti centrali e, tramite spedizioni illecite, da ogni paese europeo. A questa serie di problemi può porre rimedio una seria regolamentazione a livello europeo che preveda un eguale livello di tutela penale. Ostano alla creazione di norme penali europee i principi basati sulla territorialità dell’azione penale, sulla riserva di legge, sulla personalità della responsabilità penale, sulla tassatività dell’incriminazione, sulla diversa rilevanza data all’elemento psicologico dell’azione criminosa. Del resto il Trattato conferisce a ciascun Stato membro la facoltà di scegliere i provvedimenti più idonei alla tutela dei valori fondamentali ivi compresa la facoltà di sanzionare penalmente la violazione degli stessi. Ciò sarebbe possibile soltanto ove l’Europa stessa adottasse una propria Carta costituzionale che fosse rispettosa dei principi cardine di ogni stato moderno: democrazia, valori fondamentali della persona, Stato di diritto. Alla luce della riconosciuta tutela in sede comunitaria del bene ambiente, la Comunità europea potrebbe predisporre una legge a tutela dell’ambiente, da presentare al vaglio di ogni Parlamento nazionale, che si atteggi a modo di contenitore di ogni peculiarità insita nell’ordinamento penale di ogni Stato membro.

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LA TUTELA CIVILE E PENALE DELL’AMBIENTE IN SPAGNA

1. Nel diritto spagnolo il principale apporto dell’ordinamento alla protezione dell’ambiente trova spazio nella Costituzione del 1978 nella quale l’art. 45 riconobbe la tutela giuridica dell’ambiente come uno dei principi rettori della politica sociale ed economica. Dispone che ognuno ha il diritto di godere di un ambiente adeguato allo sviluppo della personalità umana, così come si ha il dovere di conservare un ambiente integro. Inoltre vengono attribuiti, nel secondo comma, precisi poteri di salvaguarda alla pubblica autorità. Il comma terzo prevede che nel caso di violazione delle disposizioni enunciate nei commi precedenti una legge ordinaria stabilità sanzioni penali e/o amministrative ed anche la sanzione civile di riparare il danno causato. L’intreccio stabilito dall’art. 45 CE tra la questione ambientale e aspetti propri della vita del singolo individuo hanno posto il dubbio sulle reali intenzioni del legislatore costituzionale. Secondo alcuni, l’intreccio di elementi presenti estendono l’ambito applicativo dell’art. 45 all’ambiente inteso nella sua accezione sociale e culturale. Per altri, invece, il riferimento è unicamente all’ambiente naturale. La dottrina più attenta ritiene che l’art. 45 sia finalizzato a tutelare l’ambiente in cui vive ed opera l’essere umano, facendo intuire come esso costituisca prerogativa irrinunciabile per l’esistenza e lo sviluppo dell’umanità. Sotto un diverso angolo visuale l’art. 45 CE deve essere letto con le integrazioni che ad esso apporta il seguente art. 53 comma 3. Dispone il citato comma che il riconoscimento, il rispetto e la tutela dei principi riconosciuti nel capitolo III informano la legislazione positiva, la pratica giudiziale e l’attuazione dei poteri pubblici. La conseguenza è che la legislazione positiva ambientale subisce scosse interpretative dall’art. 45 che costituisce il vero parametro di costituzionalità delle leggi ambientali e il criterio di efficacia e validità dei regolamenti e leggi che contravvengono al suo contenuto. Da ultimo il Tribunale costituzionale, con la sentenza n.102 del 1995, ha rinvenuto nell’art. 45 un contenuto materiale preciso chiarendo che l’ambiente non può ridursi alla mera somma degli elementi naturali a base fisica ma deve essere letto secondo un significato che trascende la individualità di ognuno sino a ricondurlo ad un concetto dinamico di equilibrio degli elementi e dei fattori naturali. L’art. 45 concepisce un diritto all’ambiente “adeguato” come una meta da raggiungere e ciò in quanto tale diritto non sarà invocabile o esigibile in modo diretto innanzi ad un Tribunale sino a quando non verranno predisposte le leggi ad hoc che lo disciplinano. Inoltre non essendo parte del capitolo II della Costituzione, non beneficia di taluni principi riservati ai diritti fondamentali: riserva di legge, garanzia del contenuto essenziale, sviluppo e disciplina della normativa attraverso, unicamente, una legge organica, tutela innanzi ai tribunali ordinari. Tuttavia, potranno dichiararsi nulle, per incostituzionalità, le leggi che conducono a obiettivi contrari ai principi enucleati nell’art. 45. Il Tribunale Supremo ha riconosciuto diverse volte, in sede interpretativa, il maggior valore al principio contenuto nell’art. 45 in caso di conflitto con altri principi. A differenza di altre normative costituzionali, l’art. 45 non discorre soltanto del dovere dei poteri pubblici di restaurare e sanare l’ambiente, ma anche il dovere di difenderlo,

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migliorarlo e proteggerlo: un dovere giuridico. Di conseguenza l’amministrazione competente deve predisporre il necessario affinché cessi la situazione di rischio. Ove non ponga in essere tale comportamento, si deve rilevare come le possibilità di reazione del cittadino di fronte all’inadempimento di questi doveri non è certamente efficace. Attualmente i rimedi processuali si riducono all’azione penale e all’azione pubblica esercitabile per la difesa degli interessi collettivi da parte delle associazioni di categoria o tramite il controllo giudiziale delle inattività amministrative.

2. La dottrina è concorde nel ritenere che ogni aggressione ambientale produce due tipi di danno distinti. Da un lato si producono danni a beni privati delle singole persone oppure ai loro diritti personali. Da altro lato si producono danni all’ambiente considerato quale bene giuridico unitario. Soltanto quest’ultimo viene considerato danno ambientale autonomo. Tutti i danno ambientali autonomi arrecati all’ambiente inteso quale bene pubblico, sono ampiamente tutelati tanto dal diritto penale quanto dal diritto amministrativo. I danni ambientali con incidenza sul singolo cittadino vengono regolati dal Codice civile. La norma fondamentale è l’art. 1902: tale principio fonda l’intero sistema della responsabilità extracontrattuale in Spagna. Più specificante ai commi 2 e 4 prevede: che ugualmente risponderanno i proprietari per i danni causati: 2) per i fumo eccessivi che siano nocivi alle persone o alla proprietà; 4) per le emanazioni di cloache o depositi di materie infettanti. Il quadro normativo deve essere completato dagli artt. 590 e 7 che disciplinano la materia dei rapporti di vicinato e l’abuso del diritto. Storiche furono le sentenze del Tribunale Supremo del 25 ottobre e del 10 novembre 1924, con le quali si riconosce primaria rilevanza al bene ambiente rispetto a quello economico dei soggetti che attraverso la loro produzione inquinavano l’ambiente circostante. In tali casi si stimò necessario applicare la disciplina del risarcimento del danno previsto dall’art. 1902 c.c. e si riconobbe il principio della prevenzione. Non solo, con la sentenza del 26 febbraio 1935 si riconobbe natura oggettiva alla responsabilità civile per danno ambientale. Si affermò che la colpa dell’autore doveva considerarsi presunta, e che questi avrebbe potuto esonerarsi da responsabilità dimostrando di aver agito con la diligenza dovuta. Ancor più innovativo fu il secondo principio, con il quale si imponeva all’autore del danno, nei casi in cui fosse impossibile provare con esattezza la causa del danno, di dimostrare di aver agito con la dovuta diligenza. Passo decisivo si ebbe con la sentenza del 30 ottobre 1963 con la quale il TS giunse a dire: “appare evidente che tanto la dottrina quanto la giurisprudenza sono inclini a riconoscere la responsabilità fondata sulla mera creazione dei rischi per la comunità prescindendosi dalle colpe del responsabile”. Si giunse quindi alla teoria della imputazione per il mero rischio indotto dalla produzione di taluni prodotti. In tali evenienze la colpa del produttore si presume e costui non dovrà limitarsi a fornire la prova della regolarità delle procedure di produzione ma dovrà, ove il caso concreto lo esige, dimostrare di aver adoperato con ogni cautela possibile. Con altre sentenze storiche si attribuì, per i danni ambientali singolari, competenza esclusiva alla giurisdizione ordinaria e si assicurò tutela piena attraverso il diritto privato. Il TS completò l’opera dichiarando che nel caso di lesione o messa in pericolo di beni di primaria rilevanza, indirettamente collegati alla salute del singolo e/o la salubrità ambientale, il giudice ordinario non subisce alcuna limitazione in riferimento alla portata dei provvedimenti. Nel solco tracciato dalla linea interpretativa del TS si inserisce la

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sentenza del 2 febbraio 2001 A.R. 1.003 che giunge a riconoscere valore di diritto fondamentale all’ambiente quale diritto della personalità. Va da sé che tale riconoscimento implica un’autonoma voce di risarcimento del danno nel caso di inquinamento ambientale: accanto alle misure risarcitorie previste a tutela della proprietà, ed accanto alle misure correttive che il giudice ordinario può imporre, il TS indica che anche il diritto all’ambiente individuale esige misure risarcitorie appropriate.

3. La dottrina spagnola più attenta ha posto ben in luce come il solo art. 1902 c.c. sia insufficiente per garantire una riparazione adeguata e specifica delle aggressioni e danni ambientali. Facendo proprie le idee del TS e la nuova normativa comunitaria, il giurista spagnolo si è indirizzato definitivamente verso il concetto di responsabilità civile oggettiva per i danni ambientali. La concezione trae origine dal principio “chi contamina paga” introdotto per la prima volta nell’art. 130 R del Atto Unico europeo. Le influenze comunitarie hanno prodotto nell’ordinamento spagnolo la creazione di un disegno di legge avanzato in materia di responsabilità civile per i danni ambientali. La responsabilità civile regolata in questa legge è oggettiva e sarà esigibile indipendentemente dall’esistenza di colpa. Chiunque pretenda di ottenere la riparazione sarà tenuto soltanto a provare l’azione od omissione del responsabile, il danno ambientale e la mera relazione di causalità materiale tra l’azione od omissione del responsabile e il danno. L’Anteproyecto assoggetta a tale regime soltanto i danni causati all’ambiente per le attività di indole essenzialmente industriale, dirette alla produzione o gestione di prodotti o rifiuti pericolosi. Ne consegue che non tutte le azioni lesive o pericolose per il bene ambientale sono soggette al nuovo regime. Tale scelta appare ispirata a salvaguardare, almeno in parte, gli interessi degli agenti economici. Si avrà quindi la convivenza del regime generale (tradizionale) fondato sulla colpa e un regime speciale solo per le attività industriali pericolose basato sulla responsabilità oggettiva. Un tal tipo di discriminazione crea un elevato squilibrio microeconomico nella politica dei prezzi e dei costi di gestione delle imprese. L’Anteproyecto è chiaro nel disciplinare unicamente il danno recente e con paternità certa. Non è ammissibile ricorrere alle richieste risarcitorie per danni ambientali storici e collettivi (cioè prodotti dalla somma delle azioni di un’intera comunità). Ne deriva che la sostanza inquinante deve essere chiaramente identificata e posta a base del processo di inquinamento. Nell’eventualità che ciò non sia possibile non ci sarebbe certezza né dell’esistenza del danno né sul nesso di causalità. La pratica produttiva delle moderne industrie appare complessa e difficilmente si giunge alla prova piena che una determinata attività produttiva produca quel determinato danno ambientale. Ecco perché la tendenza giurisprudenziale è quella di attenuare il rigore della prova del nesso causale. L’operatore del diritto si accontenta di elementi indiziari probanti di elevata probabilità statistica. Ove si riscontri una incertezza probatoria è data la possibilità al presunto responsabile di offrire la prova contraria di non aver prodotto inquinamento con la propria attività industriale. Nelle ipotesi in cui esista una pluralità di possibili agenti contaminanti responsabili del medesimo danno, la responsabilità per il risarcimento del danno sarà solidale. Colui che riparerà per intero il danno diviene creditore degli altri debitori per la parte di debito a loro spettante. Il debitore che ha riparato il danno ambientale con il ripristino dello status quo ante potrà esigere in ripetizione dagli altri debitori un conguaglio in

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denaro per la loro parte di debito. Ove la pluralità di soggetti inquinanti sia costituita da imprese affermate sul mercato, la ripartizione del costo da sostenere per la riparazione e/o risarcimento del danno ambientale dovrà essere suddiviso secondo le quote di mercato. Si avrà minorazione della responsabilità quando con l’azione del responsabile concorra il dolo o la colpa di colui che soffre il danno. Vi è totalmente esenzione dalla responsabilità quando:

a) il danno ambientale sia stato causato esclusivamente da forza maggiore o caso fortuito;

b) proviene da un’azione od omissione:

b1) che ha avuto luogo con il previo consenso del pregiudicato;

b2) che ha avuto luogo con la conoscenza, da parte del pregiudicato, del rischio;

b3) che non sia contraria alla normativa e adeguata al caso concreto;

c) che il danno ha avuto luogo per causa imputabile esclusivamente all’azione od omissione di un terzo (teoria della traslazione della responsabilità).

Sotto il profilo processuale, sono istituite l’azione di riparazione del danno, l’azione di prevenzione e l’azione di ripetizione. L’azione di riparazione è quella che pone i problemi di maggior interesse. La legittimazione attiva spetta certamente allo Stato, quale titolare del bene ambiente collettivo; inoltre spetta a quei singoli cittadini che vedono compromessi proprietà privata e salute. Ugualmente, l’Antiproyecto attribuisce legittimazione ad agire alle associazioni ambientalistiche il cui scopo sia quello di salvaguardare il bene ambientale. Il riconoscimento è tuttavia limitato al possesso dei seguenti requisiti:

- che sia stata attribuita personalità giuridica alle associazioni;- che le dette associazioni siano di nazionalità spagnola;- che manchi nello scopo sociale quello di voler lucrare;- che lo stesso oggetto sociale sia quello di protezione dell’ambiente;- che si sia prodotto un danno a beni che interessino una intera comunità.

Sotto il punto di vista della legittimazione passiva, l’azione di riparazione si rivolge contro i titolari delle attività con incidenza ambientale anche se il danno ambientali si manifesti dopo la cessazione della attività. L’autorità giudiziaria deve ordinare al responsabile, nei casi in cui sia possibile, il ripristino dello status quo ante, oppure condannarlo al pagamento di una somma di denaro in favore di soggetti che abbiano subito il danno. La valutazione economica deve essere operata tenendo conto di criteri equitativi. L’autorità giudiziale, inoltre, potrà sempre imporre misure ritenute idonee per prevenire la futura commissione di danni o per attenuare i danni in itinere. Lo strumento preventivo costituisce il sistema principale e privilegiato nella lotta per la salvaguardia del bene ambientale.

4. La possibile concorrenza della sanzione penale con il risarcimento del danno appare giustificata alla luce del disposto della Costituzione che all’art. 45.3 prevede

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sanzioni penali per gli aggressori del bene ambientale accanto a sanzioni civili risarcitorie. Regola fondamentale è quella che non permette di iniziare l’azione civile di riparazione del danno ambientale sin tanto che il processo penale, per il medesimo fatto, non sia concluso. E’ l’applicazione del principio noto col brocardo francese “il diritto criminale tiene detenuto il diritto civile”. Sebbene in Spagna il nuovo Codice civile non impone sanzioni penali direttamente alle persone giuridiche, si riconosce all’art. 120 c.p. la facoltà per il giudice penale di accertare la responsabilità civile delle persone giuridiche e condannarle a sanzioni topiche. L’art. 120 c.p. deve essere raccordato con l’art. 1903 c.c. che dispone come la obbligazione della responsabilità extracontrattuale sarà esigibile non solo nei confronti di colui che provochi il danno ma anche da quelle persone che sono tenute a rispondere per il fatto di altre persone. Pertanto, l’ordinamento consente al giudice penale di fissare, in sede di condanna civile, la responsabilità della stessa impresa e condannarla al risarcimento del danno. Secondo altro orientamento, il codice penale spagnolo già prevederebbe la responsabilità penale diretta delle persone giuridiche dal momento che tra le conseguenze accessorie del delitto dell’art. 129 c.p. conferisce al giudice di imporre una delle seguenti conseguenze:

a) chiusura temporanea o definitiva dell’impresa

b) scioglimento

c) interruzione delle attività

d) divieto di svolgere in futuro attività del tipo di quelle nel cui esercizio sia stato commesso, facilitato o favorito il delitto

e) ispezione dell’impresa per salvaguardare i diritti dei lavoratori e dei creditori per il tempo necessario

Non resta da segnalare che la Procura della Repubblica è tenuta ad esercitare entrambe le azioni, civili e penali, congiuntamente e quindi ad esercitare l’azione per il danno ambientale da delitto innanzi al giudice penale.

5. Novità assoluta è il titolo XVI del Libro II rubricato “delitti relativi all’assetto del territorio ed alla protezione del patrimonio storico e dell’ambiente”. A fondamento della sua creazione si pone l’art. 45 della Costituzione, sul quale poggia il diritto di tutti a fruire in modo adeguato dell’ambiente, il dovere di preservarlo ed in particolare il dovere delle pubbliche autorità di proteggerlo. L’ottica del legislatore spagnolo è che l’urbanistica e le risorse naturali siano problemi indissolubilmente legati all’ambiente in un concetto superiore di equilibrio nella relazione tra la natura e l’uomo. In particolare i delitti ambientali e contro le risorse naturali prendono spunto dalla condivisione dell’idea delle infinte possibilità di danneggiare l’ambiente, insieme alla certezza che quasi tutto lo danneggia in maggiore o minore misura. Restano escluse dalla tipicità penale quelle condotte che risultano amministrativamente corrette sebbene, in concreto, siano offensive del bene ambientale e della sua integrità. Nel bilanciamento di interessi è prevalso nettamente il diritto di garanzia di colui che operando legalmente genera fattori inquinanti dell’ambiente. L’offesa arrecata all’ambiente non rileva, in simili casi, per il diritto

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penale per mancanza dell’elemento della colpevolezza. Più dettagliatamente il Capo III del Titolo XVI del Libro II c.p. all’art. 325 prevede la punizione con la pena della prigione da sei mesi a quattro anni, con la multa da otto a ventiquattro mesi e con l’inabilitazione speciale alla professione o ufficio da uno a tre anni per chi, contravvenendo alle leggi, provoca o realizza direttamente o indirettamente in maniera incisiva emissioni, versamenti, radiazioni, estrazioni o scavi, abbattimenti, rumori, vibrazioni, immissioni o depositi, nell’atmosfera, nel suolo, nel sottosuolo o nelle acque interne, del mare o sotterranee, compresi gli spazi transfrontalieri, come pure la raccolta di acque che può pregiudicare gravemente l’equilibrio dei sistemi naturali. Il legislatore spagnolo individua il bene finale da salvare nella unità del sistema naturale e nel suo equilibrio. L’aver subordinato la punibilità di una condotta alla palese violazione di una norma generale genera un evidente vulnus di tutela penale in tutti quei casi in cui un settore produttivo non sia regolamentato o non sia regolamentato un suo aspetto importante e si producano aggressioni ambientali non contrarie alle leggi soltanto perché esse in quel determinato settore ancora non esistono. L’aver previsto ogni forma di inquinamento possibile agevola l’interprete; inoltre si pone come forma di garanzia per lo stesso produttore in quanto solo quei fenomeni descritti nella norma sono idonei a compromettere il bene ambientale. In realtà la continua evoluzione della scienza e delle tecniche produttive impone al legislatore di architettare fattispecie penali a condotta libera piuttosto che tassativa. Nel caso in cui l’operatore spagnolo inquini territori non nazionali, il giudice spagnolo vedrà concorrere con la propria la competenza giurisdizionale del giudice del paese interessato dall’aggressione ambientale. Ogni problema d coordinamento processuale sembra essersi risolto con la introduzione del c.d. Mandato di arresto europeo. Il reato di cui all’art. 325 c.p. non ha un evento preciso lesivo del bene tutelato: ne deriva che la valutazione della potenzialità aggressiva dovrà essere operata dall’interprete ex ante ed in concreto. Si tratta di un classico reato di pericolo astratto, posto che nella valutazione dell’incidenza inquinante di un determinato fattore il giudice si atterrà a precise regole probabilistiche e/o statistiche idonee a giustificare un credibile convincimento. La pena prevista è una sanzione che cumula pene privative della libertà personale, pene pecuniarie e pene incidenti su diritti della persona. Un aggravamento della pena (metà superiore dell’intervallo edittale) è previsto per le ipotesi in cui l’aggressione ambientale produca il rischio di un grave pregiudizio per la salute delle persone. L’art. 326 c.p. prevede una serie di aggravanti specifiche:

a) qualora l’industria o l’attività operi clandestinamente

b) qualora si disobbedisca agli ordini espressi dell’autorità amministrativa di modifica o sospensione delle attività

c) qualora siano falsificate o nascoste informazioni sulle conseguenze ambientali della industria

d) qualora si ostacoli l’attività di ispezione

e) qualora si produca un rischio di deterioramento irreversibile o catastrofico

f) qualora si faccia luogo ad estrazioni illegali di acque in periodo di restrizioni

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Il giudice o il tribunale possono disporre una delle due seguenti misure accessorie:

- la chiusura temporanea o definitiva dell’impresa- l’ispezione dell’impresa per salvaguardare i diritti dei lavoratori

E’ previsto nell’art. 328 c.p. il reato di smaltimento illecito di rifiuti pericolosi. Dispone che “sono puniti con la pena della multa da diciotto a ventiquattro mesi e con l’arresto da diciotto a ventiquattro fine settimana coloro che effettuano depositi o scarichi di rifiuti o residui solidi o liquidi tossici o pericolosi e che possano gravemente danneggiare l’equilibrio dei sistemi naturali o la salute delle persone”. Deve considerarsi scriminata la regolare condotta di colui che munito delle dovute autorizzazioni smaltisca i rifiuti tossici o pericolosi nei siti deputati alla loro ricezione. Una tabella di carattere amministrativo stabilirà quali rifiuti sono da considerare tossici, quali sono pericolosi e quali, invece, innocui per l’ambiente e/o la salute dell’uomo. L’art. 329 dispone forti sanzioni a carico dell’autorità o pubblico ufficiale il quale, consapevolmente, esprima un parere favorevole alla concessione di licenze manifestamente illegali che autorizzino il funzionamento delle industrie o attività contaminanti, alle quali si riferiscono gli articoli precedenti o che nell’esercizio delle sue ispezioni faccia passare sotto silenzio l’infrazione di leggi o di disposizioni normative di carattere generale che le regolino. L’impianto normativo del Capo III è costruito sullo schema dei reati dolosi tanto è che prevede una diminuente di pena quando i fatti siano stati commessi per colpa grave. Non resta che segnalare le disposizioni del Capo IV più specificamente poste a tutela dei singoli elementi costituitivi del bene ambiente. In base al disposto dell’art. 332 c.p. è sanzionato penalmente chi taglia, brucia, sradica, raccoglie o traffica illegalmente una specie di flora minacciata o i suoi propagoli, o distrugge o altera in modo grave il suo habitat. L’art. 334 sanziona penalmente chi caccia o pesca specie minacciate, compie attività che impediscono o rendono difficile la riproduzione o la migrazione, contravvenendo alle leggi protettive delle specie di fauna silvestre, oppure per chi commercia tali specie o traffica i loro resti. L’art. 336 sanziona più gravemente colui che, senza esservi autorizzato, impiega per la caccia o la pesca veleno, mezzi esplosivi o altri strumenti o artifizi di simile efficacia distruttiva per la fauna. In conclusione l’art. 339 attribuisce al giudice competente il potere di ordinare, a carico dell’autore del fatto, le misure dirette a ristabilire l’equilibrio ecologico turbato, come pure adottare qualunque altra misura cautelare.

6. La normativa a tutela delle forme di inquinamento nucleare è densa e completa in ogni aspetto. Una legge del 1964 n.25 disciplina la responsabilità per i danni derivanti da radiazioni ionizzanti, mentre il Capo I del Titolo XVII prevede i delitti relativi all’energia nucleare ed alle radiazioni ionizzanti. L’art. 45 della legge n. 25 del 1964 dispone che il gestore di una installazione nucleare o di qualsiasi altra installazione che produca o lavori con materiali radioattivi o che adoperi dispositivi che possono produrre radiazioni ionizzanti sarà considerato responsabile dei danni nucleari. Questa responsabilità ha natura oggettiva. La citata legge stabilisce la obbligatorietà della copertura della responsabilità tramite la stipula di una polizza assicurativa che garantisca, nel limite legalmente stabilito, i danni derivanti da energia nucleare. La legge introduce talune eccezioni:

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a) in primo luogo esiste la possibilità di esonerare da responsabilità il gestore che provi che la vittima produsse o contribuì alla produzione dei danni per sua colpa

b) in secondo luogo si prevede la dichiarazione di irresponsabilità quando i danni nucleari siano la conseguenza di un incidente provocato a causa di un conflitto armato, ostilità, guerra civile, insurrezione o catastrofe naturale di carattere eccezionale. La legge realizza una classificazione dei danni nucleari stabilendo una distinzione basta su due criteri. Il primo è stabilito in funzione della origine del danno nucleare: si distinguono due tipi di danno a seconda che si siano prodotti per un incidente nella istallazione nucleare o per un incidente nelle diverse attività che adoperino materiali radioattivi o dispositivi capaci di produrre radiazioni ionizzanti. L’altro criterio funzionale è basato sul momento in cui viene individuato il responsabile del danno o viene cagionato il danno stesso. Così si parla di danno immediato quando il responsabile sia individuato nel termine massimo di dieci anni oppure si abbia certezza della produzione del danno nel termine di 10 anni dall’incidente. Il danno è invece differito quando questo si produca dopo i dieci anni dall’incidente o si individui il responsabile dopo 10 anni dallo stesso incidente. Dato che in un incidente nucleare è frequente che intervengano diversi soggetti, la legge ricorre al criterio della provenienza delle sostanze nucleari e così:

1) se l’incidente è avvenuto durante il trasporto da territorio spagnolo ad altro sempre spagnolo o in direzione di un altro paese, si considera responsabile il gestore della installazione nucleare che ha spedito la mercanzia

2) quando l’incidente ha trovato luogo a causa di sostanze nucleari spedite dallo straniero, e destinate ad una installazione nel territorio spagnolo, sarà responsabile il destinatario.

3) infine, se l’incidente è avvenuto fuori della istallazione nucleare, dovrà assumere la responsabilità il gestore della installazione o attività che sia stato possessore per ultimo della materia

Lo Stato è esente dall’obbligo di copertura dei rischi di danno nucleare derivanti dalle proprie installazioni o attività produttive di radiazioni ionizzanti. Ovviamente, nel caso di danno nucleare prodotto dallo Stato, il danneggiato avrà pienamente diritto al risarcimento del danno atteso che lo Stato è esonerato unicamente dal dover stipulare un contratto di assicurazione. Le uniche società assicuratrici che potranno coprire il rischio sono quelle regolarmente iscritte in un Registro speciale della Direzione generale delle assicurazioni. Fanno parte di tale Registro tutte le società allineate alla pratica assicurativa stabilita dal Ministero delle Finanze. Il quantum varia in funzione del tipo di installazione:

a) se si stratta di installazione nucleare la copertura minima deve essere pari alle vecchie 300 milioni di pesetas

b) per le altre ipotesi la legge prevede un regolamento di attuazione che deve stabilire la cifra da assicurare soggetta a continue variazioni adottate attraverso decreti ad hoc

I danni sofferti dalle persone hanno preferenza sui danni patrimoniali. Questi ultimi saranno soddisfatti una volta indennizzati pienamente i danni alle persone. Gli

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indennizzi alle persone non saranno mai soggetti a rateizzazioni sul presupposto che la copertura legalmente esigita non era sufficiente. In caso di insufficiente copertura, l’indennizzo dei danni patrimoniali sarà soggetto a rateizzazione. Non sono inclusi nella somma né gli interessi né le spese giudiziali. L’azione si eserciterà innanzi alla giurisdizione ordinaria competente a seconda del quantum della richiesta. Soggetti passivi dell’azione saranno sia il gestore che le società assicuratrici. La decadenza varia in funzione del tipo di danni: la scadenza sarà di dieci anni se si tratta di danno immediato e di venti anni se si tratta di danno differito. La Sezione Prima del Capo I del Titolo XVII del Libro II c.p. disciplina in maniera organica i “delitti relativi all’energia nucleare ed alle radiazioni ionizzanti”. L’art. 341 c.p. punisce con la pena della prigione da quindici a venti anni e l’inabilitazione al pubblico impiego o incarico, professione o ufficio da dieci a vent’anni, chi libera energia nucleare o elementi radioattivi che mettono in pericolo la vita o la salute delle persone od i loro beni quantunque non si verifichi un’esplosione. Bene giuridico tutelato è la vita e/o salute dell’uomo. Allo stesso modo si tutelano i beni patrimoniali. Una tale scelta appare incomprensibile e in contrasto con la stessa Costituzione, la quale preordina il bene della vita umana su quello strettamente patrimoniale. Il reato in esame è reato di pericolo astratto atteso che non è richiesto l’accertamento, in concreto, del pericolo dando per certo che una condotta siffatta non potrà non essere foriera di pericoli. Il reato è costruito sullo schema del delitto doloso d’azione a condotta libera. L’art. 342 c.p. dispone che “chi, non compreso nel precedente articolo, altera il funzionamento di una installazione nucleare o altera lo sviluppo delle attività nelle quali intervengono materiali o attrezzature che producono radiazioni ionizzanti, creando una situazione di grave pericolo per la vita o la salute, è punito con la pena della prigione da quattro a dieci anni e con l’inabilitazione speciale al pubblico impiego o incarico, professione o ufficio da sei a dieci anni”. Nei casi in cui l’alterazione del sistema sia rimasta fine a se stessa, poiché una tale condotta potrebbe condurre ad una liberazione di energia nucleare nell’ambiente, il legislatore sanziona il pericolo di un pericolo con ciò arretrando notevolmente la soglia di punibilità. Prosegue l’art. 343 c.p. sanzionando con la pena della prigione da sei a dodici anni e con l’inabilitazione speciale al pubblico impiego o incarico, professione o ufficio da sei a dieci anni “chi espone una o più persone a radiazioni ionizzanti che ne mettono in pericolo la vita, integrità, salute o beni”. Una diminuzione di pena per i fatti-reato previsti negli artt. 341, 342 e 343 c.p., è concessa a chi li abbia commessi non dolosamente ma con colpa grave. Infine l’art. 345 dispone che chi si appropria di materiali nucleari o elementi radioattivi, anche senza scopo di lucro, è punito con la pena della prigione da uno a cinque anni. La stessa pena si applica a chi, senza la dovuta autorizzazione procura, riceve, trasporta o possiede materiale radioattivo o sostanze nucleari, le commercia, nasconde o utilizza i loro scarti o fa uso di isotopi radioattivi. Un aggravamento della pena di cui all’art. 345 c.p. è previsto nel caso in cui:

a) la sottrazione di materiale radioattivo sia fatta impiegando violenza sulle cose;b) il fatto è stato commesso con violenza o intimidazione sulle persone.

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