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Diritto e società Il Legato di azienda e la responsabilità per i debiti aziendali di Manuela Grassi e Arcangelo Celi 2 La c.d. “vendita” del voto: opinioni tradizionali e recenti proposte di Davide Lapis 8 Tributi e accertamento fiscale Stratificazione fiscale del patrimonio netto dell’incorporante nella fusione inversa: alcune riflessioni a seguito della risoluzione n. 62/E/2017 di Fabio Landuzzi 20 La pianificazione fiscale del passaggio generazionale dell’impresa individuale di Fabio Giommoni 29 La nuova definizione di stabile organizzazione “personale” contenuta nell’Action 7 del Progetto Beps di Valerio Cirimbilla e Marco Masi 42 Adempimenti e procedure Modalità applicative della branch exemption alla luce del provvedimento dell’Agenzia delle entrate n. 165138/2017 di Roberto Moro Visconti e Matteo Maria Renesto 56 La detrazione Iva per le holding di Marco Peirolo 66 1 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

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Diritto e società

Il Legato di azienda e la responsabilità per i debiti aziendali

di Manuela Grassi e Arcangelo Celi 2

La c.d. “vendita” del voto: opinioni tradizionali e recenti proposte

di Davide Lapis 8

Tributi e accertamento fiscale

Stratificazione fiscale del patrimonio netto dell’incorporante nella fusione inversa: alcune

riflessioni a seguito della risoluzione n. 62/E/2017

di Fabio Landuzzi 20

La pianificazione fiscale del passaggio generazionale dell’impresa individuale

di Fabio Giommoni 29

La nuova definizione di stabile organizzazione “personale” contenuta nell’Action 7 del

Progetto Beps

di Valerio Cirimbilla e Marco Masi 42

Adempimenti e procedure

Modalità applicative della branch exemption alla luce del provvedimento dell’Agenzia

delle entrate n. 165138/2017

di Roberto Moro Visconti e Matteo Maria Renesto 56

La detrazione Iva per le holding

di Marco Peirolo 66

1 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

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2 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Il Legato di azienda e la responsabilità

per i debiti aziendali di Manuela Grassi – avvocato studio legale Ichino-Brugnatelli e Associati

Arcangelo Celi – avvocato studio legale Ichino Brugnatelli e Associati

L’imprenditore può trasferire la propria azienda non soltanto mediante un ordinario

contratto di cessione, ma anche con successione mortis causa, che tuttavia non è oggetto di

una disciplina ad hoc. Se il vuoto normativo non desta particolari questioni nella successione

a titolo universale (ove l’azienda resta inclusa nel patrimonio relitto, insieme al quale viene

trasmessa secondo le regole della successione ereditaria), più problematico è il caso di

trasferimento dell’azienda tramite una disposizione a titolo particolare (i.e. con un legato).

Per quest’ultima fattispecie, si pone la necessità di valutare l’applicazione analogica delle

regole sulla cessione di azienda con atto inter vivos (cfr. articolo 2556, cod. civ. e ss.),

eventualmente da coordinare con le regole sul legato (cfr. articolo 649 e ss., cod. civ). Ciò ha

dato luogo ad un risalente dibattito dottrinale, in particolare sul tema dell’eventuale

subentro del legatario nei debiti aziendali, cui è seguita nel 2016 una sentenza chiarificatrice

della Corte di Cassazione.

Le fattispecie di successione nell’azienda e il vuoto normativo in tema di legato di

azienda

L’azienda, intesa come “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (cfr. articolo

2555, cod. civ.), può essere trasferita dall’imprenditore medesimo con atto tra vivi, ovvero per successione

mortis causa (l’assunto è pacifico e trova una conferma normativa nell’articolo 2565, cod. civ., il quale, fra le

altre cose, si occupa del trasferimento della ditta nella “successione nell’azienda per causa di morte”).

Dal punto di vista normativo, a differenza che nella cessione con atto tra vivi (cfr. articolo 2556-2560,

cod. civ.), il Legislatore non ha dettato alcuna disciplina per la successione mortis causa.

Questo vuoto normativo non desta particolari problemi nella successione a titolo universale, poiché

l’azienda resta inclusa nel patrimonio relitto, insieme al quale viene trasmessa secondo le regole proprie

della successione ereditaria1.

1 Cfr. F. Ferrara, “La teoria giuridica dell’azienda”, Milano, 1982, pag. 379; P. Greco, “Corso di diritto commerciale. Impresa e azienda”, Milano, 1957,

pag. 311; G .E. Colombo, “L’azienda e il mercato”, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da Galgano, Padova,

1979, pag. 52.

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Se, invece, l’imprenditore dispone dell’azienda, sempre mortis causa, ma tramite una disposizione a titolo

particolare (i.e. con un legato), in assenza di espressa disciplina, si pone la necessità di valutare

l’applicazione analogica delle regole sulla cessione di azienda con atto inter vivos (cfr. articoli 2556,

cod. civ. e ss.), eventualmente da coordinare con le regole sul legato (cfr. articolo 649 e ss.); tutto ciò,

in particolare, con riguardo al tema del subentro del legatario nei beni, nei contratti, nei crediti e nei

debiti dell’azienda.

La successione del legatario nei beni, nei contratti e nei crediti aziendali: cenni

Si può affermare pacificamente che (salvo specifiche esclusioni: cfr. infra, al paragrafo conclusivo) il

legato di azienda comprende tutti i beni che, a suo tempo, il de cuius aveva destinati all’esercizio

dell’impresa. Ovviamente, la loro successione in favore del legatario deve essere formalizzata in

“osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda”,

come si ricava dall’applicazione analogica della disciplina della cessione di azienda con atto inter vivos

(cfr. articolo 2556, comma 1, cod. civ.)2.

Ci si è domandati, poi, se il legatario subentra o meno nei contratti stipulati dal de cuius, e non eseguiti

al momento della successione. Il quesito ha ricevuto risposta positiva, ancora una volta ritenendo

applicabile analogicamente la disciplina della cessione di azienda e, in particolare, l’articolo 2558,

comma 1, cod. civ., a norma della quale “l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per

l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale”3. Dunque il trasferimento nei contratti

avviene automaticamente e riguarda tutti quelli in corso al momento della successione, a prescindere

dalla conoscenza che il legatario abbia dell’esistenza e del contenuto dei contratti medesimi4.

Quanto ai crediti aziendali, l’inerente norma inclusa nella disciplina della successione per atto fra vivi

(cfr. articolo 2559, cod. civ.) stabilisce che il trasferimento dei crediti de quibus ha “effetto, nei confronti

dei terzi, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel Registro Imprese”; in questi termini, la norma

pone una deroga all’ordinario meccanismo di opponibilità ai terzi della cessione di crediti, che invece

2 Il legato di azienda può includere anche beni non di proprietà dell’imprenditore, bensì dell’onerato o di un terzo. A norma dell’articolo 651,

cod. civ., affinché la disposizione sia valida, è necessario che il testatore abbia dichiarato che “sapeva che la cosa legata apparteneva all’onerato

o al terzo”; in questo secondo caso (legato di cosa di un terzo), “l’onerato è obbligato ad acquistare la proprietà della cosa da terzo e a trasferirla

al legatario, ma è in sua facoltà di pagarne al legatario il giusto prezzo”. 3 Cfr. A. Butera, “Il codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle

donazioni”, Torino, 1940, pag. 333; L. Barassi, “Le successioni per causa di morte”, Milano, 1941, pag. 455; S. Satta, “Legato di azienda e

accettazione di eredità con beneficio di inventario”, in Foro it., 1955, pag. 290; G. E. Colombo, op. cit., pag. 53; E. Tradii, “Legato di azienda”, in

Notariato, 1999, pag. 263; G. Bonilini, “Dei legati”, in Cod. civ. comm., fondato da Schlesinger, Milano, 2006, pag. 455; G. Capozzi, “Successioni

e Donazioni”, Milano, 2009, pag. 1217. 4 È discusso se si applichi, al legato di azienda, anche il secondo comma dell’articolo 2558, cod. civ., a norma del quale, per effetto del

trasferimento dei contratti aziendali, il terzo contraente acquista il diritto di “recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento,

se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante”. Secondo G. Capozzi, op. cit., pag. 1217, tale responsabilità ricade

sugli eredi, che subentrano nella stessa posizione giuridica del testatore. Contra P. Greco, op. cit., pag. 311.

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4 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

richiederebbe la presenza di ulteriori condizioni (notifica al debitore o sua accettazione: cfr. articolo

1264, cod. civ.). L’iscrizione di cui parla la norma è quella di cui al precedente articolo 2556, comma 2,

cod. civ., il quale prevede che i contratti per la cessione di aziende di imprese soggette a registrazione

devono essere redatti “in forma pubblica o per scrittura privata autenticata” e, quindi, devono essere

“depositati per l’iscrizione nel Registro Imprese, nel termine di 30 giorni, a cura del notaio rogante o

autenticante”. Ciò premesso, in tema di legato di azienda – fermo restando il pacifico subentro del

legatario nei crediti aziendali5 – si è ipotizzato che la cessione operi automaticamente, senza che

occorra nemmeno adempiere alle formalità di cui agli articoli 2556-2559, cod. civ.6.

La successione del legatario nei debiti aziendali: esame delle principali tesi dottrinali

Decisamente più problematico è l’aspetto debitorio. Nel legato di azienda, infatti, onde determinare se

(ed in che misura) il legatario risponde dei debiti aziendali, occorre ricercare e delimitare il campo di

applicazione delle seguenti norme, entrambe astrattamente applicabili alla fattispecie:

− l’articolo 2560, comma 2, cod. civ., il quale, per le cessioni di azienda con atto inter vivos, stabilisce al

comma 1 che “L’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, anteriori al

trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito” e precisa al secondo comma che “Nel

trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente della azienda,

se essi risultano dai libri contabili obbligatori”7;

− l’articolo 671 cod. civ., norma successoria, secondo la quale “Il legatario è tenuto all’adempimento del

legato e di ogni altro onere a lui imposto entro i limiti del valore della cosa legata”.

La questione interpretativa è stata oggetto di intenso dibattito, che ha condotto alla prospettazione di

diverse soluzioni dottrinali, catalogabili in quattro linee di pensiero.

Una prima opinione, risalente alla fine degli anni ‘50, sostiene che i terzi creditori possono pretendere

dal legatario il pagamento di soli debiti risultanti dai libri obbligatori (come prevede l’articolo 2560,

comma 2, cod. civ.) ed unicamente entro il valore dell’azienda (come prevede l’articolo 671, cod. civ.).

5 Salvo l’autorevole opinione, rimasta però isolata, di G. E. Colombo, op. cit., pag. 54, che ritiene necessaria una espressa disposizione in tal

senso da parte del de cuius. 6 Cfr. E. Tradii, op. cit., pag. 266 e P. Greco, op. cit, pag. 313. Contra G. E. Colombo, op. cit., pagg. 53-54. In generale, si ritiene che le formalità

pubblicitarie previste dagli articoli 2556 e 2559, cod. civ. non sono applicabili al legato di azienda, stante la peculiarità della normativa

richiamata, avente carattere eccezionale per la cessione con atto fra vivi (con l’ovvia precisazione che, comunque, il legatario avrà l’onere di

rispettare le formalità pubblicitarie relative ai singoli beni aziendali e dovrà iscriversi personalmente nel registro delle imprese: cfr. G. Capozzi,

op. cit., pag. 1214). 7 La norma integra una sorta di accollo cumulativo ex lege a carico del cessionario dell’azienda. In dottrina, cfr. G. Campobasso, “Diritto

Commerciale. Diritto dell’impresa”, Torino, 2008, pag. 157; per la giurisprudenza, invece, cfr. Cassazione n. 4367/1998, in Giust. Civ., 1998, pag.

1857.

La giurisprudenza, peraltro, ritiene che l’iscrizione dei debiti nei libri contabili sia una condizione necessaria per l’applicabilità della norma,

non surrogabile altrimenti, nemmeno qualora il creditore possa dimostrare la conoscenza del debito da parte del cessionario: cfr. Cassazione

n. 25403/2009, in Foro it., 2010, pag. 2499.

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Ciò con la precisazione che, nei rapporti interni fra legatario e coeredi, le passività rimangono a carico

di questi ultimi (pro quota ai sensi dell’articolo 752, cod. civ., salvo ovviamente l’eventuale operatività

del beneficio dell’inventario), così che il legatario che effettua il pagamento di uno o più debiti aziendali

può rivalersi sugli eredi medesimi8.

Questa prima interpretazione discende da una concezione minoritaria della natura giuridica

dell’azienda, intesa come insieme di soli beni materiali ed immateriali, priva dunque di rapporti giuridici

(azienda come universitas facti)9. Per converso, le altre linee di pensiero che illustreremo in appresso si

appoggiano alla tesi maggioritaria che vede l’azienda come universitas iuris, comprensiva di rapporti

giuridici, attivi e passivi, e quindi anche di debiti10.

Negli anni ‘70, muovendo da quest’ultima concezione di azienda, la risalente interpretazione sopra

esposta è stata oggetto di revisione e si è affermato che, oltre ai rapporti esterni coi creditori, la

responsabilità del legatario per i debiti aziendali (purché risultanti dalle scritture contabili e nei limiti

di valore del legato) vale anche nei rapporti interni con gli eredi (in sostanza, entro quei limiti, il

legatario non ha rivalsa nei loro confronti)11.

Secondo un’ulteriore teoria sviluppatasi all’inizio degli anni ’8012, invece, l’articolo 2560, comma 2, cod. civ.

non è applicabile alla fattispecie in esame: secondo questa tesi, la norma ha lo scopo di proteggere i creditori

sociali dall’eventualità che il cessionario dell’azienda abbia una solidità patrimoniale inferiore rispetto a

quella del cedente, eventualità che però è da escludere nel caso di specie, poiché con la successione a causa

di morte l’intero patrimonio del de cuius viene devoluto a eredi e legatari. Ne viene tratta la conseguenza

che dei debiti aziendali (tutti, non solo quelli risultanti dalle scritture contabili) deve farsi carico il legatario,

nei limiti di cui all’articolo 671, cod. civ., e, per la parte eccedente, gli eredi pro quota.

Un’ultima opzione interpretativa risale alla fine degli anni ’80 ed estremizza la vis attrattiva delle regole

aziendali rispetto a quelle successorie, giungendo a risultati diametralmente opposti rispetto alle

precedenti. Secondo questa tesi, infatti, in materia di legato di azienda non solo è inoperante il limite

di cui all’articolo 671, cod. civ., ma addirittura il legatario risponde di tutti i debiti aziendali anche se

8 Cfr. G. Ferrari, “voce Azienda (dir. priv.)”, in Enc. Dir., Milano, 1959, pag. 735, poi ripreso da G. E. Colombo, op. cit., pag. 53. Nello stesso senso,

cfr. anche F. Ferrara, op. cit., pag. 375 e G. Campobasso, op. cit., pag. 158. 9 Cfr. Cfr. G. Ferrari, op. cit., pag. 727; G. E. Colombo, op. cit., pag. 53; P. Greco, op. cit., pag. 313. 10 Cfr. Casanova, “Impresa e azienda”, in Trattato di diritto civile italiano, a cura di Vassalli, Torino, 1974, pag. 823; G. Ferri, “Manuale di diritto

commerciale”, a cura di Angelici e Ferri, Torino, 2001, pag. 222; A. Genovese, “Il passaggio generazionale dell’impresa: la donazione di azienda e

di partecipazioni sociali”, in Riv. Dir. comm., 2002, pag. 718. 11 Cfr. F. Messineo, “Manuale di diritto civile e commerciale”, 1972, pag. 365. 12 Cfr. G. Azzariti, “Successioni e donazioni”, Padova, 1982, pag. 491. Così anche G. Metitieri, “I debiti aziendali e le disposizioni di ultima

volontà”. Relazione al convegno di studi “Azienda ed impresa individuale e collettiva nella successione mortis causa”, in Nuovi quaderni di

Vita Notarile, 1992, pag. 5.

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non risultanti dalle scritture contabili (come invece prevede l’articolo 2560, comma 2, cod. civ.) e senza

diritto di rivalsa contro gli eredi13.

(Segue:) la nuova tesi proposta da una recente sentenza della Corte di Cassazione

Il tema del subentro del legatario nei debiti aziendali è stato oggetto di una recente pronuncia di

legittimità (Cassazione n. 1720/2016, in giustizia civile massimario, 2016), la quale, dopo aver dato atto

che la “assenza di significativi precedenti giurisprudenziali» ha favorito lo «sviluppo di molteplici varianti

dottrinali”, ha tracciato un proprio autonomo percorso argomentativo.

In premessa, la Suprema Corte ha contestato il punto di partenza delle suddette opzioni dottrinali, che

“si orientano in riferimento alla natura giuridica dell’azienda, facendo leva sulla distinzione dell’azienda come

univeritas iuris o come universitas facti”, ritenendo che si tratti di una mera “operazione ermeneutica che

sovrappone alla volontà del testatore una concezione giuridica elaborata ad altro fine”. In effetti, prosegue

la sentenza, l’imprenditore “non può che intendere l’azienda destinata al legatario o a un erede per quello

che è, cioè come un insieme comprensivo di tutti i rapporti patrimoniali di debito-credito che ad esso fanno

capo. Né è concepibile che il significato di una disposizione venga fatto dipendere non dal senso comune

delle parole, ma dalla supposizione che a ogni testatore sia nota una sofisticata dottrina giuridica”.

Alla luce di questa “nozione comune di azienda che l’imprenditore assume allorquando, tacendo altre

disposizioni, ne fa oggetto di legato testamentario”, continua la Suprema Corte, la “dissociazione tra

attività e passività aziendali non ha … ragione di essere trasferita dalla normativa aziendalistica a quel la

successoria”.

La conclusione è che il legatario è tenuto a far fronte ai debiti aziendali (da intendersi come “componente

del bene attribuito …, così come ex articolo 668, cod. civ. se la cosa legata è gravata da una servitù o da altro

onere, il peso ne è sopportato dal legatario”), con la precisazione che “L’alveo successorio entro cui va letta

la vicenda, consente peraltro una “controtutela” per l’onorato, costituita dal disposto dell’articolo 671, cod.

civ., che limita la responsabilità del legatario inter vires, cioè nei limiti del valore della cosa legata”.

Tuttavia, la pronuncia in esame non chiarisce quale sia la sorte dei debiti che eccedono il valore del

legato e, a questo riguardo, sembra corretto affermare che gli stessi continuino a gravare sugli eredi,

non potendosi certo sostenere – se non altro, per evidenti ragioni di tutela dei creditori – che gli stessi

vengano automaticamente estinti.

In definitiva, si può affermare che la sentenza de qua – pur muovendo da una differente concezione

della natura giuridica dell’azienda – giunge alle stesse conclusioni della tesi dottrinale, sviluppatasi

13 Cfr. G. Auletta, “voce Azienda”, in Enc. Giur. Treccani, IV, Roma, 1988, pag. 24.

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all’inizio degli anni ’80, che aveva concentrato l’attenzione sul fenomeno successorio ritenendo che

anche il legato di azienda – in quanto tale – fosse soggetto solo alla ordinaria disciplina in materia di

legato (dunque ai limiti dell’articolo 671, cod. civ.), non già alla normativa aziendalistica.

Conclusioni

Sebbene la recente pronuncia della Suprema Corte abbia preso posizione nel dibattito dottrinale sulla

disciplina del legato di azienda, la materia, in assenza di una espressa normativa, resta incerta e

controversa.

Per tale ragione, onde evitare annose e dannose controversie, è opportuno che il testatore, in sede di

redazione della disposizione di legato, manifesti la propria volontà con previsioni dettagliate, in modo

da colmare il vuoto legislativo. È pacifico, infatti, che l’imprenditore può escludere dal legato beni,

contratti, crediti e persino debiti, purché nel complesso degli elementi rimasti inclusi permanga un

residuo di organizzazione che renda evidente la loro attitudine all’esercizio dell’impresa14 (sia pur, in

ipotesi, mediante una parziale integrazione da parte del cessionario: cfr. Cassazione n. 21481/2009, in

guida al diritto, 2010, 2, 66).

Infine, è il caso di ricordare che, quantomeno nei rapporti coi propri discendenti, l’imprenditore dispone

oggi di uno strumento alternativo al legato di azienda, che gli consente di stabilire le sorti della stessa

con atto inter vivos: si tratta del c.d. Patto di Famiglia (articolo 768-bis e ss., cod. civ.), tramite il quale

la successione nell’azienda viene attuata immediatamente, secondo le indicazioni e la supervisione

dell’imprenditore, tenendo conto anche della posizione dei “futuri eredi”, ciò che dovrebbe contribuire

a prevenire l’insorgere di guerre fratricide. Se invece l’imprenditore intendesse istituire quale proprio

successore nell’azienda un terzo (non già un discendente), l’unico strumento a propria disposizione

tornerebbe ad essere il legato.

14 Altrimenti la disposizione non sarebbe più qualificabile come legato di azienda, bensì come un insieme di legati aventi ad oggetto beni,

diritti e posizioni contrattuali: cfr. E. Tradii, op. cit., pag. 259.

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La c.d. “vendita” del voto: opinioni

tradizionali e recenti proposte di Davide Lapis - dottorando di ricerca in diritto internazionale, diritto privato e del lavoro presso l’Università

degli Studi di Padova, componente del Centro Ricerche dell’associazione di cultura giuridica Insignum

Con il presente breve contributo si intende offrire una panoramica delle diverse opinioni

espresse in dottrina come in giurisprudenza in ordine alla legittimità della c.d. ‘vendita’ del

voto (ossia di quel contratto di scambio in cui il socio si impegna a votare, o non votare, o

far votare altri per lui, in considerazione non del proprio convincimento ma di un

corrispettivo di qualunque genere) con l’obiettivo di evidenziare, in particolare, le ragioni in

base alle quali recenti prese di posizione in materia ritengano tendenzialmente ammissibile

il perfezionamento di un accordo di corrispondente tenore.

Le “convenzioni di voto” in generale

Il presente contributo intende indagare quali spazi si aprono alla stipulazione di accordi in cui si

disponga, dietro corrispettivo, del proprio voto in sede assembleare.

Il tema, raramente oggetto di specifici contributi dottrinali, è stato recentemente portato all’attenzione

di una pronuncia di merito1, la quale, facendo seguito a più risalenti sentenze della Corte di Cassazione2,

appare prestare il proprio contributo alla tesi che vede con favore questa particolare tipologia di

convenzione di voto.

In termini generali, infatti, si definisce “convenzione di voto” l’accordo intercorrente tra soci, o tra

soci e terzi, avente ad oggetto una qualche forma di regolamentazione del diritto di voto 3.

Ricostruita in questi termini, la convenzione di voto è a sua volta riconducibile al più ampio genus dei

c.d. patti o contratti parasociali4, ossia quegli accordi perfezionati dai soci al di fuori dell’atto costitutivo,

mediante i quali gli stessi dispongono dei diritti derivanti dal contratto sociale, regolando nei rapporti

1 Trattasi di Tribunale Milano 12 febbraio 2014 (ripresa da E. Del Prato, “Voto contro compenso”, Nuova Giur. Civ. Comm., 2015, II, pag. 170) la

quale si è pronunciata in ordine ad una convenzione sul diritto di voto degli obbligazionisti. 2 Il riferimento è a Cassazione n. 17585/2005 in Società, 2006, pag. 854 e ss.; Cassazione n. 9191/1996 in Giur. Comm., 1997, II, pag. 237 e ss.. 3 Vedi G. Rescio, “I sindacati di voto” in G. E. Colombo, G. B. Portale (Curr.), “Trattato delle società per azioni”, III.1, Utet, Torino, 1994, pag. 485. 4 Sul tema si veda ex multis, G. Fauceglia, “Voce “Patti parasociali””, Enc. Dir. Agg. V, Giuffrè, Milano, 2001, pag. 810 e ss.; G. A. Rescio, “I sindacati

di voto”, (3), pag. 485 e ss.; L. Farenga, “I contratti parasociali”, Guffrè, Milano, 1987; G. Santoni, “Patti parasociali”, Jovene, Napoli, 1985; G. Oppo,

“Contratti parasociali”, Giuffrè, Milano, 1942.

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interni, ovvero nei rapporti con la società, con gli organi sociali o con i terzi, determinate condotte

sociali, o determinati interessi di cui siano portatori5.

La soluzione all’interrogativo posto, pertanto, impone di valutare, alla luce delle riforme codicistiche e

degli ultimi approdi del dibattito in materia di accordi parasociali, entro che limiti possa affermarsi la

validità del patto tra soci o tra soci e terzi, avente ad oggetto l’assunzione dell’obbligo di esercitare il

diritto di voto secondo un certo indirizzo, dietro corrispettivo in denaro o in natura.

Nell’ordinamento italiano, il fenomeno delle convenzioni di voto – seguendo un approccio

interpretativo la cui evoluzione ha riguardato sostanzialmente la categoria dei patti parasociali nella

sua interezza – è stato per lungo tempo osteggiato dalla giurisprudenza prevalente, tanto di merito6

quanto quella di legittimità7, oltre che da una parte rilevante della dottrina tradizionale8.

In particolare, diffuso era il convincimento che tali accordi si ponessero in aperto contrasto con alcuni

principi fondamentali del diritto societario, e con i più basilari meccanismi di funzionamento di una

razionale governance dell’impresa collettiva.

Gli aspetti di maggiore criticità derivavano dal fatto che, a detta degli interpreti, la stipulazione di simili

convenzioni comportasse l’esautoramento dei poteri e delle funzioni assembleari, cui era correlata

anche la lesione del principio maggioritario, nonché la violazione della caratteristica indisponibilità del

diritto di voto.

In primo luogo, quindi, si censurava la sostanziale destituzione del metodo assembleare, e del principio

maggioritario9, ai quali era da sempre riconosciuto un ruolo insuperabile per il conseguimento dei

migliori assetti decisionali e della piena tutela delle minoranze (obiettivi garantiti, tra l’altro, dalla

necessità di osservare specifici vincoli procedimentali, oltre che dall’imposizione di un momento di

confronto e di dibattito tra i soci10).

5 Cfr. F. Galgano, “La società per azioni” in F. Galgano (cur.), Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, VII, Cedam, Padova,

1988, pag. 95. 6 Cfr. Tribunale Roma, 14 luglio 1914; Appello di Milano, 17 gennaio 1950, in Foro It., 1950, I, c. 175; Tribunale di Vicenza, 24 febbraio 1953

in Foro It., 1953, I, c. 726; Appello di Roma, 12 aprile 1954 in Dir. Fall., 1954, II, pag. 633; Tribunale di Milano, 19 dicembre 1986 in Foro It.,

1987, I, c. 3162; Tribunale di Milano, 14 aprile 1989 in Giur. Comm., 1998, II, pag. 158; Appello di Roma, 14 gennaio 1991 in Giur. Comm., 1991,

II, pag. 448. 7 In ordine all’orientamento per lungo tempo maggioritario si veda, tra le varie, Cassazione n. 2079/1949 in Foro it., 1949, I, c. 290 e 1950, 1,

c. 175 con nota di T. Ascarelli, “Limiti di validità dei sindacati azionari”; Cassazione n. 442/1954 in Giur. compl. Cass. civ., 1954, IV, pag. 511 con

nota di De Marco, “Osservazioni in tema di sindacati azionari”; Cassazione n. 2422/1958 in Banca borsa e tit. cred., 1958, II, pag. 384 e 550 con

nota di T. Ascarelli, “In tema di sindacati azionari”; Cassazione SS.UU., n. 2080/1962 in Foro it., 1962, I, c. 1888; Cassazione, n. 136/1967 in Riv.

dir. civ., 1967, II, pag. 20 con nota di F. Cavazzuti, “Sui limiti di validità delle convenzioni di voto”. 8 Cfr. G. Cottino, “Le convenzioni di voto nelle società commerciali”, Giuffrè, Milano, 1958, pag. 97 e ss.; C. Vivante, “Gli azionisti non possono

alienare o vincolare il loro diritto di voto”, Riv. Dir. Comm., 1914, I, pag. 173 e ss.; A. Scialoja, “Nullità degli accordi vincolanti la libertà del voto

nelle assemblee sociali” in Foro It., 1912, I, c. 181 e ss. (nota a Appello di Milano 12 dicembre 1911); G. Bonelli, “Ancora a proposito di nuove

forme contrattuali”, Riv. Dir. Comm., 1905, I, pag. 142 e ss. 9 Riprova di ciò, infatti, si ravvisava (vedi Cassazione n. 2079/1949, (7); Appello di Firenze 16 maggio 1931 in Foro It., 1932, I, c. 343 con nota

di C. Sequi, “Vincoli alla libertà del voto e sindacati azionari”) nella circostanza che sommando la minoranza battuta nel contratto di sindacato,

alla minoranza battuta in sede sociale si sarebbe ottenuto un rovesciamento dei rapporti di forza formalmente accertati. 10 Integrante la c.d. funzione ponderatoria dell’assemblea, su cui, per tutti, si veda S. Rossi, “Il voto extrassembleare nelle società di capitali”,

Giuffrè, Milano, 1997, pag. 158 e ss..

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Diritto e società

10 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Risultava, infatti, evidente, per i commentatori del tempo, che la predeterminazione degli esiti del voto,

raggiunta per il tramite di un accordo parasociale a latere, rendeva lo svolgimento dell’attività

assembleare un mero simulacro nell’ambito del quale ratificare e formalizzare una decisione già

assunta, in via preventiva, al di fuori dell’organo deputato a veicolarne la corretta formazione.

D’altro canto, la centralità del metodo assembleare era strettamente connessa alla circostanza che lo

stesso fosse visto come strumento ineludibile per garantire che l’esercizio del diritto di voto fosse

indirizzato al perseguimento dell’interesse sociale.

In ossequio ad una concezione fortemente istituzionalista dell’ente societario, si sosteneva, infatti, che

il socio, nell’accedere alle proprie prerogative assembleari, fosse chiamato a perseguire in via

prevalente l’interesse comune.

Date queste premesse, si comprende perché già sotto il codice di commercio del 1882 si fosse

affermato11, di conseguenza, il “mito dell’incommerciabilità del voto”12.

Invero, la dottrina del tempo (seguendo l’insegnamento di Cesare Vivante13) giustificava detto

convincimento principalmente sulla base di un principio d’ordine pubblico economico – direttamente

discendente dalla necessaria connessione, e corrispondenza, tra “potere di decidere in materia economica”

e “rischio che la decisione può comportare”14 – e della conseguente, rigida inerenza del voto alla proprietà

dell’azione15.

Ciò, come intuibile, contribuiva a enfatizzare quella concezione secondo cui l’esercizio del voto dovesse

atteggiarsi alla stregua di un dovere del socio, piuttosto che di un suo diritto, e a sanzionare la relativa

mercificazione come una attività contraria non solo alle sopra considerate regole economiche, ma

finanche a direttive di natura morale16.

Tuttavia, come noto, facendo seguito a sporadici interventi in singoli ambiti di legislazione speciale17

l’approvazione del D.Lgs. 58/1998 “Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria”

11 Per tutti cfr. G. Cottino, “Le convenzioni di voto nelle società commerciali”, Giuffrè, Milano, 1958, (8), pag. 232 e ss.; I. La Lumia, “La cessione ed

il vincolo del diritto di voto nelle società per azioni”, Riv. Dir. Comm., 1915, II, pag. 68 e ss.; G. Bonelli, “Ancora a proposito di nuove forme

contrattuali”, (8), pag. 142 e ss.. 12 G. Ferri, “Le società” in F. Vassalli (cur.), Trattato di diritto civile italiano, X, 3, Utet, Torino, 1987, pag. 614. 13 Vedi C. Vivante, “Gli azionisti non possono alienare o vincolare il loro diritto di voto”, (8), pag. 173-174. 14 Come evidenziato da E. Scimemi, “La vendita del voto. Nelle società per azioni”, Giuffrè, Milano, 2003, pag. 13 e ss.. 15 Tanto che non si esitava (cfr. I. La Lumia, “La cessione ed il vincolo del diritto di voto nelle società per azioni”, (11), pag. 71-72; C. Vivante,

“Gli azionisti non possono alienare o vincolare il loro diritto di voto”, (8), pag. 173; G. Bonelli, “Ancora a proposito di nuove forme contrattuali”,

(8), pag. 143; Appello di Milano, 12 dicembre 1911) ad attribuire al diritto di voto carattere non patrimoniale, in quanto tale insuscettibile di

esercizio in via sostitutiva al di fuori dei limitati spazi entro cui il codice consentiva la rappresentanza in assemblea (la cui disciplina specifica

sarebbe risultata superflua, laddove il diritto di voto si fosse atteggiato a componente meramente patrimoniale della partecipazione societaria). 16 Così A. Scialoja, “Nullità degli accordi vincolanti la libertà del voto nelle assemblee sociali”, (8), pag. 182. 17 Si ricordano l’articolo 2, L. 916/1981, sull’editoria; l’articolo 37, L. n. 223/1990 sulla disciplina del sistema radiotelevisivo; l’articolo 27, L. n.

287/1990 sulla tutela della concorrenza; L’articolo 4, L. 1/1991 sull’intermediazione mobiliare; l’articolo 10, L. n. 20/1991 sul controllo relativo

alle imprese assicurative; l’articolo 26, D.Lgs. 127/1991 sui bilanci consolidati; gli articoli 7 e 10, L. 149/1992 sulle offerte pubbliche di

acquisto; l’articolo 23, D.Lgs. 385/1993.

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11 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

(articolo 122), prima, e l’entrata in vigore della riforma del diritto delle società di capitali (articolo 2341-

bis e 2341-ter, cod. civ.), poi, hanno definitivamente consacrato sul piano legislativo, gli esiti di un

dibattito pluridecennale18 che ha condotto la dottrina maggioritaria, in primis, ma anche la

giurisprudenza, a riconsiderare liceità e meritevolezza dei patti aventi ad oggetto l’esercizio dei diritti

nascenti dalla partecipazione societaria, tra cui, soprattutto, quelli diretti alla regolamentazione del

diritto di voto in assemblea.

Già prima, infatti, che si giungesse al loro superamento, sul piano del diritto positivo, le argomentazioni

addotte dalla giurisprudenza dominante, per lungo tempo, come detto, contraria a riconoscere

legittimità ai patti extrasociali aventi ad oggetto la regolamentazione del voto in assemblea, erano

state sottoposte ad una penetrante critica.

Con riguardo alla supposta usurpazione della funzione assembleare e all’asserita violazione del

principio maggioritario, si era osservato, sotto un primo profilo, che il sindacato azionario di per sé non

incidesse in alcun modo sul procedimento assembleare e sul meccanismo di formazione della volontà

sociale19, stante, in particolare, l’efficacia meramente obbligatoria del vincolo20; sotto un altro, che, in

ogni caso, l’affermazione della necessaria formazione assembleare del convincimento del socio si

scontrasse, oltre che con la realtà delle dinamiche societarie, con lo stesso diritto positivo, il quale,

infatti, non esclude la possibilità di impartire al proprio rappresentante, e, dunque, predeterminare al di

fuori dell’assemblea, le direttive di voto.

A chi affermava, poi, la pretesa incommerciabilità del voto si eccepiva, da un lato, il superamento della

concezione del voto come diritto-funzione, anche sulla base delle esperienze di altri ordinamenti, e,

quindi, il riconoscimento in capo al socio della più ampia libertà di perseguire, tramite la titolarità

dell’azione, i propri interessi individuali (nel rispetto, come ovvio, dei limiti ordinamentali)21; dall’altro,

l’incongruenza in cui cadeva l’affermazione della inscindibilità tra voto e titolarità dell’azione (o, detta

altrimenti, tra potere e responsabilità), alla luce di un sistema positivo che tale scissione, invece, in più

occasioni ammette e disciplina (sul piano squisitamente contrattuale, casi emblematici sono

rappresentati dalle norme in tema di vincoli sull’azione ex articolo 2352, cod. civ., di contratto di riporto,

ex articolo 1550, cod. civ., di contratto di vendita a termine dell’azione, ex articolo 1531, cod. civ.)22.

18 Come dà conto G. Oppo, “Patto sociale, patti collaterali e qualità di socio nella società per azioni riformata”, Riv. Dir. Civ., 2004, pag. 58. 19 Cfr. Ferri, “Le società”, (12), pag. 614. 20 Considerazione questa che sembra già lumeggiata da A. Ascoli nelle considerazioni in risposta a G. Bonelli, “Ancora a proposito di nuove forme

contrattuali”, (8), pag. 145. 21 Per un quadro di sintesi circa il graduale spostamento di prospettiva, in materia di esercizio del voto, dalla dimensione istituzionale a quella

più strettamente contrattuale si veda per tutti R. Rordorf, “Minoranza di blocco ed abuso di potere nelle deliberazioni assembleari di Spa”, Corr.

Giur., 2007, pag. 1448 e ss.. 22 Cfr. le annotazioni di R. Weigmann, “Concorrenza e mercato azionario”, Giuffrè, Milano, 1978, pag. 126-127.

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Diritto e società

12 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

All’esito dell’evoluzione della legislazione in materia, quindi, il dibattito intorno a queste particolari

forme di espressione dell’autonomia privata si è spostato dal problema della loro liceità, pressoché

definitivamente sancita a livello normativo, a quello della loro pubblicità e trasparenza.

La “vendita” del voto in particolare

Natura giuridica

Come puntualmente osservato in dottrina23, l’introduzione degli articoli 2341-bis e 2341-ter, cod. civ.

non può, però, dirsi risolutiva di ogni questione concernente la rilevanza di patti che, pur collocati al di

fuori della contrattazione sociale, risultino “correlati al rapporto sociale”24.

Se da un lato, ancora oggi si pone all’attenzione dell’interprete la necessità di individuare i criteri per

distinguere gli accordi che attengono al piano dei patti sociali, da quelli che ne sono estranei, al fine di

evitare di estendere a quest’ultimi la disciplina dettata in via esclusiva per i primi (gli aspetti salienti

della quale possono rinvenirsi nella previsione del regime di pubblicità costitutiva e dei particolari

procedimenti di approvazione delle relative variazioni), dall’altro, dopo la riforma, emerge l’ulteriore

esigenza di distinguere i patti parasociali, così come definiti dalle disposizioni codicistiche, dagli altri

patti extrasociali, posto che solo ai primi e non ai secondi devono applicarsi le specifiche regole ora

segnate dal codice in materia di durata, pubblicità e trasparenza.

Si osserva, in altre parole, il superamento di un criterio meramente negativo, in forza del quale

delimitare la categoria dei patti extrasociali attraverso un procedimento di mera sottrazione alla

normativa dei patti sociali, e la necessità di distinguere, all’interno della fenomenologia della

contrattazione tra soci, i patti che sono ora delineati, in positivo, dal Legislatore, e quelli che invece non

lo sono, e che, dunque, devono ritenersi soggetti, ancora oggi, ai principi generali della materia dei

contratti25.

Approccio, questo, che riecheggia una distinzione da sempre chiaramente presente nel pensiero della

dottrina26 che si è occupata di quei patti parasociali aventi ad oggetto la regolamentazione del diritto di voto.

All’interno, infatti, della più ampia categoria delle convenzioni di voto, sopra sinteticamente delineata,

si è sin da subito ritenuto27 di poter isolare le convenzioni concernenti la titolarità del diritto di voto

dalle convenzioni concernenti l’esercizio del diritto di voto.

23 Vedi G. Rescio, “I patti parasociali nel quadro dei rapporti contrattuali dei soci” in P. Abbadessa, G. B. Portale (curr.), “Il nuovo diritto delle società”,

1, Utet, Torino, 2006, pag. 447-448. 24 G. Oppo, “Patto sociale, patti collaterali e qualità di socio nella società per azioni riformata”, (18), pag. 57. 25 Cfr ancora G. Rescio, “I patti parasociali nel quadro dei rapporti contrattuali dei soci”, (23), pag. 448-449. 26 Cfr. P.G. Jaeger, “Ammissibilità e limiti dell’accordo di “cessione” del voto in cambio di “corrispettivo”” (con considerazioni in merito alla c.d.

“vendita del voto”), Giur. Comm., 1997, II, pag. 242; G. Rescio, “I sindacati di voto”, (3), pag. 485 e ss.. 27 Per le considerazioni che seguono si veda in particolare G. Rescio, “I sindacati di voto”, (3), pag. 485 e ss..

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13 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Nell’ambito di queste ultime convenzioni, si è distinto ulteriormente tra i sindacati di voto in senso

stretto, diretti alla concertazione dell’esercizio del voto, finalizzati o alla stabilizzazione degli assetti

societari o alla tutela dei diritti di minoranze organizzate, e i sindacati di voto in senso lato, ossia i

contratti diretti a vincolare, in qualche modo, l’esercizio del diritto di voto, nella quale rientrerebbero,

precipuamente, i sindacati di voto con funzione di scambio, e, quindi, gli accordi aventi ad oggetto la

c.d. “vendita” del voto28.

Attraverso le 2 tipologie di contratti così considerati (sindacati azionari e convenzioni per la “vendita”

del voto) si individuano, dunque, delle specifiche, e rilevanti, differenze di regolamento negoziale.

Laddove i sindacati azionari si atteggiano come accordi mediante i quali concordare le modalità di

esercizio del diritto di voto in talune o in tutte le assemblee (c.d. sindacati di voto) ovvero impegnarsi

a rispettare regole convenzionali nella vendita dei pacchetti azionari della società (c.d. sindacati di

blocco), nella c.d. “vendita” del voto l’accordo intercorre tra un socio titolare del diritto e un altro

soggetto, anche non socio, il quale, verso il pagamento di un corrispettivo, riesce ad indirizzare le

modalità di espressione del voto da parte del suo titolare formale29.

A questa differenza di contenuto consegue, inevitabilmente, una differente ricostruzione sul piano della

struttura.

I sindacati di voto in senso stretto, infatti, sono qualificati come contratti plurilaterali fra soci, aventi

natura associativa-organizzativa30 e di durata31, normalmente accompagnati dalla previsione di

strumenti atti ad assicurarne l’esecuzione32.

Diversamente, le convenzioni per la ‘vendita’ del voto configurano veri e propri contratti commutativi

di scambio, in cui il socio si impegna a votare, o non votare, o far votare altri per lui, in considerazione

non del proprio convincimento personale (anche se, naturalmente, non si può escludere che il voto

28 Come puntualmente precisato in dottrina, non si tratta di un vero e proprio contratto traslativo, assimilabile alla vendita, quanto, piuttosto,

ad un contratto in base al quale “il socio si impegna a votare in un senso o in un altro non in forza di un convincimento in qualche modo riconducibile

ad interessi lato sensu funzionali all’interesse sociale o comunque rientranti nell’ambito dei rapporti societari ma a fronte di un corrispettivo di

qualunque genere” (E. Del Prato, “Voto contro compenso”, (1), pag. 167-168) secondo un modello di scambio del tipo ut des/do ut facias. 29 Cfr. F. Sporta Caputi, “Acconti di liquidazione e liceità della c.d. “vendita del voto””, Società, 2006, pag. 865-866. 30 Essendo discusso se diano luogo a iniziative collettive comunque imprenditoriali (come sembra ritenere L.C. Ubertazzi, “Sindacati azionari e

attività di impresa”, Dir. Banca e Mer. Fin., 1987, pag. 211 e ss.) ovvero tipicamente associative, ai sensi del libro I del cod. civ. (secondo G.

Campobasso, “Diritto commerciale”, 2. Diritto delle società, Utet, Torino, 1988, pag. 292 nota 2, ad esempio, i sindacati di voto danno vita ad

associazioni non riconosciute). 31 Invero, possono essere anche occasionali; se di durata possono atteggiarsi sia come accordi a tempo indeterminato (la cui stipulazione,

come riconosciuto da ultimo da Cassazione n. 6898/2010, implica il diritto di recesso ad nutum), sia come accordi tempo determinato. Sul

punto si veda G. Campobasso, Diritto commerciale, 2. Diritto delle società, (30), p. 293. 32 Lo strumento più comune è il rilascio a favore di un rappresentante comune dei soci (il c.d. direttore del sindacato) del mandato irrevocabile

a votare secondo quanto stabilito nel sindacato, col conseguente obbligo dei soci sindacati di conferire al predetto rappresentante le deleghe

per ciascuna assemblea sociale, provvedendo, altresì, (ove previsto) al tempestivo deposito delle azioni presso la sede sociale, seguito dalla

consegna dei c.d. biglietti di ammissione. Per blindare ancor di più il sindacato, si ricorre, in altri casi, all’intestazione diretta delle azioni a

favore di una società fiduciaria, conferitaria del mandato di esercitare il voto in assemblea secondo le indicazioni di volta in volta fornite

dall’assemblea o dalla direzione del sindacato; ovvero alla costituzione delle azioni in comproprietà, con conseguente obbligo di nomina di

un rappresentante comune, ai sensi dell’articolo 2372, cod. civ., chiamato ad esercitare il diritto di voto secondo le direttive derivanti

dall’adesione al sindacato. Per una panoramica sulle tecniche interessate si veda G. Rescio, “I sindacati di voto”, (3), pag. 654 e ss..

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14 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

venga influenzato pure da interessi particolari del socio stesso), ma di un corrispettivo, di qualunque

genere (e quindi non necessariamente pecuniario o economico) che gli venga dato o promesso33.

Il problema dell’ammissibilità: gli argomenti contrari

La “vendita” del voto, dunque, quale contratto atipico del tutto sconosciuto ai recenti articolo 2341-bis

e 2341-ter, cod. civ., risulta ancora soggetto ad un rigoroso giudizio di meritevolezza e liceità degli

interessi, nonché di non contrarietà del proprio contenuto alle norme imperative, all’ordine pubblico e

al buon costume, secondo quanto disposto dell’articolo 1346, cod. civ.34.

S’impone, dunque, un’attenta considerazione di tutti gli argomenti che sono stati via via sollevati contro

l’ammissibilità di pattuizioni tra soci, o tra soci e terzi, aventi simile tenore.

Tali argomenti risultano essere in larga parte coincidenti con quelli già utilizzati, in passato, per negare

la legittimità delle convenzioni di voto in generale o dei sindacati azionari35, sebbene, nel diverso

contesto, siano riproposti con specifico riguardo al contratto che miri a disporre del proprio diritto di

voto a favore di altri, con effetti reali ovvero obbligatori36.

In primo luogo, dunque, si afferma che la “vendita” del voto integri un contratto illecito a causa del

carattere indisponibile del relativo diritto.

A seconda delle ragioni addotte a fondamento di tale indisponibilità, infatti, si censura tale pattuizione

come contraria alla morale37 o al buon costume38 (alla luce, soprattutto, della costruzione del voto quale

diritto-funzione, da esercitarsi esclusivamente nell’interesse comune39) ovvero come lesiva di un

principio di ordine pubblico, da ravvisarsi nella necessaria correlazione tra potere e responsabilità40.

Ulteriormente, anche sulla base di argomenti di analisi economica del diritto41, legati alla

considerazione delle esternalità che una convenzione del genere è in grado di generare sugli altri soci

o su terzi, la “vendita” del voto è giudicata incompatibile con le direttive generali del diritto societario,

a causa della sua negativa interferenza con il procedimento di formazione della volontà assembleare -

33 Così, testualmente, P. G. Jaeger, “Ammissibilità e limiti dell’accordo di “cessione” del voto in cambio di “corrispettivo”” (con considerazioni in

merito alla c.d. “vendita del voto”), (26), pag. 243. 34 Come affermato da E. Del Prato, “Voto contro compenso”, (1), pag. 168 “in mancanza di una disciplina espressa, il problema va esaminato

sulla scorta di principi generali”. 35 Cfr. anche F. Sporta Caputi, “Acconti di liquidazione e liceità della c.d. “vendita del voto””, (29), pag. 866. 36 Cfr. E. Scimemi, “La vendita del voto. Nelle società per azioni”, (14), pag. 20 e ss.. 37 Vedi riferimento in nota 16. 38 Per questa opinione si veda G. Cottino, “Le convenzioni di voto nelle società commerciali”, (8), pag. 234. 39 Osserva, d’altronde, E. Scimemi, “La vendita del voto. Nelle società per azioni”, (14), pag. 31 che laddove si ritiene che “i soci, votando, non

possano perseguire i propri interessi ma debbano cercare di attuare “un qualche “interesse pubblico” o “bene comune””, la vendita del voto

diventa chiaramente ”immorale”, illecita, o comunque deprecabile, “poiché l’accettazione di un pagamento pecuniario è la prova definitiva che

l’individuo sta ricevendo un guadagno “privato” dal suo potere di partecipare” alla votazione in assemblea”. 40 Vedi riferimenti in note 11 e 13. 41 Cfr. E. Scimemi, “La vendita del voto. Nelle società per azioni”, (14), pag. 32 e ss..

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15 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

e, quindi, con il meccanismo maggioritario, a detrimento, più in generale, dell’intera democrazia

societaria42 – ovvero a causa degli effetti distorsivi che è in grado di determinare sulle condotte dei

soci (i quali, infatti, da un lato, possono essere indotti ad aderire ad una offerta generalizzata di acquisto

del voto “a qualunque prezzo maggiore di zero”43, mentre, dall’altro, possono essere tentati di osteggiare

artatamente una certa delibera, riconosciuta, in realtà, di interesse per la società, al solo fine di ricevere

offerte d’acquisto, con la conseguenza del tutto inefficiente di essere costretti a conservare detto

atteggiamento, e, quindi di votare in senso contrario alla stessa, in mancanza di offerte, al solo fine di

rendere credibile, per il futuro, il proprio comportamento – c.d. holdout44).

Il problema dell’ammissibilità: la posizione prevalente favorevole

In realtà, in ragione del menzionato parallelismo tra il dibattito sulla validità della “vendita” del voto, e

quello sull’ammissibilità delle convenzioni di voto in generale, la maggioranza delle summenzionate

obiezioni possono dirsi superate alla luce della disciplina legislativa dei sindacati di voto (e, quindi, in

ultima analisi, sulla base delle stesse argomentazioni che, a favore di questi, erano già state individuate,

prima della novella, dalla dottrina prevalente45).

Appare evidente, infatti, che qualsiasi asserito motivo di incompatibilità, che possa dirsi comune a tutto

il genus delle convenzioni di voto, ovvero alle ipotesi di sindacato azionario prese in considerazione

dagli articoli novellati del codice civile, sia stato reso definitivamente irrilevante dal riconoscimento

positivo di queste ultime.

Né esenti da criticità risultano essere gli argomenti più specificamente attinenti ai contratti di “vendita”

del voto.

Il riferimento è, anzitutto, ai supposti effetti distorsivi che tali accordi sarebbero in grado di innescare

sulle condotte dei soci46.

Per quel che riguarda il rischio che si produca un effetto coercitivo a danno del socio di minoranza,

42 Vedi G. Cottino, “Diritto commerciale”, I, t.2, Cedam, Padova, 1994, pag. 478. 43 Questo inconveniente, la cui analisi è riportata da E. Scimemi, “La vendita del voto. Nelle società per azioni”, (14), pag. 39 e ss.. (il quale la

attribuisce al Goshen), si traduce sostanzialmente in un effetto coercitivo a danno del socio titolare di un esiguo numero di azioni. Questi,

infatti, è spinto in ogni caso a cedere le proprie azioni (anche ad un soggetto che non miri al perseguimento dell’interesse societario, stante

lo scarso rischio che su di lui grava) per un verso, onde conseguire l’unico vantaggio certo, dato dal corrispettivo dell’“alienazione”, non essendo

comunque in grado di influire, in assemblea, sul processo decisionale; per un altro, per scongiurare il rischio, nell’ipotesi in cui sia l’unico a

non aderire all’offerta, di subire doppiamente un danno, tanto per il diminuito valore delle azioni, quanto per la perdita del corrispettivo. 44 Come precisato da E. Scimemi, “La vendita del voto. Nelle società per azioni”, (14), pag. 41-42, il comportamento in esame, consegue, in

sostanza, all’incentivo che ciascun socio ha a nascondere agli altri le proprie preferenze, al fine di ottenere una quota più grande del surplus

che la soluzione prescelta è in grado di assicurare. 45 Su cui si vede sopra nel testo. 46 Per le considerazioni che seguono si veda E. Scimemi, “La vendita del voto. Nelle società per azioni”, (14), pag. 37 e ss.. Considerazioni affini

possono trovarsi in M. Gargantini, “Identificazione dell’azionista e legittimazione all’esercizio del voto nelle Spa quotate”, Giappichelli, Torino, 2012,

pag. 261 e ss..

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16 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

nella direzione della vendita ad ogni costo del proprio voto, si osserva, da un lato, che tale rischio possa

dirsi attenuto, se non escluso, dal meccanismo di concorrenza tra gli acquirenti, e, dall’altro, che lo

stesso non sia comunque del tutto estraneo ad altre ipotesi di transazioni, certamente non vietate dal

nostro ordinamento (quali, ad esempio, gli scambi tra azioni ordinarie e azioni di risparmio).

Contro il timore, invece, che i soci siano incentivati ad adottare comportamenti di holdout, si evidenzia

il correttivo dato, a ben vedere, dallo stesso rischio che il socio ha, in forza di tali comportamenti, di

esporsi a quei potenziali danni sopra già considerati quale possibile causa dell’effetto opposto, ossia

quello di tipo coercitivo47.

Non appare cogliere nel segno nemmeno l’obiezione che collega alla “vendita” del voto il pericolo che

le sorti della società siano messe in mano a soggetti scarsamente interessati al suo buon andamento,

e, di conseguenza, non incentivati ad utilizzare il loro potere per massimizzare gli utili dell’impresa.

Questa impostazione, sostanzialmente riconducibile all’orientamento che afferma l’indisponibilità del

voto per l’inscindibilità del legame intercorrente tra decisione e responsabilità, non sembra trovare

riscontro nel sistema positivo: dell’interesse che la stessa mira a tutelare, infatti, non pare esservi traccia

nelle disposizioni in materia, come testimonia, in modo emblematico, la possibilità di delegare il voto,

ai sensi dell’articolo 2372, cod. civ..

D’altro canto, non è mancato, soprattutto nella letteratura giuridica di common law48, chi abbia

evidenziato, al contrario, quali interessi la presenza di un mercato del voto possa soddisfare, e, dunque,

quali effetti positivi sia in grado di realizzare.

Si è detto, infatti, che la possibilità di acquistare il voto, facilitando le scalate ostili, potrebbe incentivare

gli amministratori ad una più efficiente e corretta amministrazione, al fine di prevenire la diminuzione

di valore delle azioni, e la conseguente appetibilità delle stesse per soggetti esterni.

Ancora, è stato messo in luce il vantaggio che deriverebbe dal consentire, tramite la “vendita” del voto,

l’emersione della diversa intensità delle preferenze che ciascun socio esprime nei riguardi delle diverse

delibere, onde ottenere il maggior benessere complessivo.

Tra i vantaggi è stato anche annoverato il conseguimento di un maggior lucro per gli azionisti di

minoranza qualificata, cui sarebbe consentita, infatti, la realizzazione di un ritorno economico

dell’investimento, senza passare per la vendita delle azioni, e, quindi, la modifica della propria quota di

partecipazione.

Più in generale, è stato evidenziato che la creazione di un mercato del voto (oltre quello delle

47 Quanto meno nelle ipotesi, certamente frequenti, in cui ai soci di controllo siano garantiti ampi private benefits. 48 Per i riferimenti si veda E. Scimemi, “La vendita del voto. Nelle società per azioni”, (14), pag. 25 e ss.; M. Gargantini, “Identificazione

dell’azionista e legittimazione all’esercizio del voto nelle Spa quotate”, (46), 2012, pag. 261 e ss.

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Diritto e società

17 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

partecipazioni) potrebbe incentivare un maggior coinvolgimento dei piccoli azionisti nella vita

societaria.

Conclusioni: i recenti indirizzi e le opportune cautele

Anche a prescindere dall’effettiva attendibilità di queste ultime indicazioni di politica legislativa (su cui,

infatti, sono state avanzate diverse riserve49) ciò che appare opportuno evidenziare è che, alla luce dei

diversi argomenti sopra evidenziati, la tesi favorevole alla stipulazione di contratti di scambio aventi ad

oggetto l’esercizio del voto sia, allo stato attuale, senz’altro consolidata50.

A suo sostegno, infatti, non ricorrono solo le opinioni della dottrina più recente51, ma anche le uniche

due prese di posizione, sul punto, da parte della giurisprudenza di legittimità52.

Posizioni che, indubbiamente, sono rafforzate dall’assenza nella legislazione, civile quanto penale, di

un esplicito divieto in ordine alla “compravendita” del voto53; divieto che, al contrario, è preso

49 Vedi sempre E. Scimemi, “La vendita del voto. Nelle società per azioni”, (14), pag. 25 e ss.. 50 Questo il giudizio di sintesi offerto da E. Del Prato, “Voto contro compenso”, (1), pag. 168. 51 Vedi E. Del Prato, “Voto contro compenso”, (1), pag. 168; M. Gargantini, “Identificazione dell’azionista e legittimazione all’esercizio del voto nelle

Spa quotate”, (46), pag. 266; F. Sporta Caputi, “Acconti di liquidazione e liceità della c.d. “vendita del voto””, (29), pag. 868-869; P. G. Jaeger,

“Ammissibilità e limiti dell’accordo di “cessione” del voto in cambio di “corrispettivo”” (con considerazioni in merito alla c.d. “vendita del voto”), (26),

pag. 245 e ss. (con il caveat evidenziato nel testo); G. Rescio, “I sindacati di voto”, (3), pag. 570 e ss.; G. Campobasso, “Diritto commerciale, 2.

Diritto delle società”, (30), pag. 295. Opinioni più risalenti a favore si riscontrano anche in G. Ferri, “Le società”, (12), pag. 615; R. Weigmann,

“Concorrenza e mercato azionario”, (22), pag. 124 e ss.; S. Gatti, “La rappresentanza del socio in assemblea”, Giuffrè, Milano, 1975, pag. 186-187;

G. Romano Pavoni, “Le deliberazioni delle assemblee delle società commerciali”, Giuffrè, Milano, 1951, pag. 100. 52 In una prima sentenza (Cassazione n. 9191/1996, (2)) la Corte aveva stabilito, infatti, che “la legittimità di un compenso di carattere economico

per l’esercizio del diritto di voto … non può essere, in linea di principio, esclusa” (tanto che il principio di diritto era stato così massimato: “l’accordo

in base al quale un socio di società per azioni si impegni a votare a favore della ricapitalizzazione della società, al fine di evitarne la liquidazione,

ottenendone un corrispettivo economico, consistente nell’assegnazione al valore nominale di una parte delle azioni di nuova emissione non può essere

considerato nullo per illiceità della causa; anzi la legittimità di un simile accordo non è, in linea di principio, esclusa”). Quella successiva (Cassazione

n. 17585/2005, (2)) aveva bensì dichiarato la nullità della convenzione avente ad oggetto la “vendita” del voto, ma non per una supposta

illiceità della causa, quanto per violazione, nel caso concreto, di quelle norme imperative in tema di liquidazione della società definite

dall’articolo 2280, cod. civ. (implicitamente sancendone la validità, dunque, rispetto al predetto diverso profilo, attinente al piano causale).

Nello stesso senso, di recente, come già accennato, si è posta anche Tribunale di Milano, 12 febbraio 2014. 53 Lo appunta E. Del Prato, “Voto contro compenso”, (1), pag. 168. In ambito penale, peraltro, tale assenza appare ancora più rilevante a fronte

di norme incriminatrici che, nell’imporre la sanzione penale rispetto a condotte corrispondenti alla fattispecie qui definita di “vendita” del voto,

ne limitano la rilevanza a specifici contesti e soggetti: vedi l’articolo 2635, cod. civ. in materia di c.d. corruzione privata secondo cui “salvo che

il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci

e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per se' o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o

ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, sono

puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la stessa pena se il fatto è commesso da chi nell'ambito organizzativo della società o dell'ente

privato esercita funzioni direttive diverse da quelle proprie dei soggetti di cui al precedente periodo. Si applica la pena della reclusione fino a un anno

e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma. Chi, anche per

interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate nel primo e nel secondo comma, è punito con le pene

ivi previste. Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri

Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di

intermediazione finanziaria, di cui al D.Lgs. 58/1998, e successive modificazioni. Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi

una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi. Fermo quanto previsto dall'articolo 2641, la misura della confisca per valore

equivalente non può essere inferiore al valore delle utilità date, promesse o offerte” ovvero l’articolo 233, L.F. in materia di “mercato di voto”, a

tenore del quale “Il creditore che stipula col fallito o con altri nell'interesse del fallito vantaggi a proprio favore per dare il suo voto nel concordato

o nelle deliberazioni del comitato dei creditori, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a 103 euro. La somma o

le cose ricevute dal creditore sono confiscate. La stessa pena si applica al fallito e a chi ha contrattato col creditore nell'interesse del fallito”

(sull’irrilevanza di quest’ultima disposizione a fondare una generalizzata illiceità della “vendita” del voto si veda già G. Cottino, “Le convenzioni

di voto nelle società commerciali”, (8), pag. 232-233).

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Diritto e società

18 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

espressamente in considerazione in altri ordinamenti, anche a noi vicini54.

Invero, proprio la circostanza che in altre realtà giuridiche si riscontri un atteggiamento di apertura

verso il mercato dei voti55, pare rappresentare un ulteriore incentivo a non chiudersi all’interno di

impostazioni di puro principio, astratte da un qualsivoglia inquadramento della fattispecie nell’attuale

sistema positivo.

Vero è che alcune posizioni interpretative si oppongano ad una indiscriminata ammissibilità delle

convenzioni di ‘vendita’ del voto, individuando alcune condizioni ritenute imprescindibili per decretarne

l’effettiva legittimità.

Da una parte, infatti, vi è chi ritiene56 che il perseguimento, per effetto del voto “venduto”, di un interesse

personale ed extrasociale (inteso, cioè, come non rientrante nella pluralità delle possibili scelte

legittimamente consegnate alla discrezionalità dei soci) e, quindi, l’emersione di un conflitto di interessi,

a norma dell’articolo 2373, cod. civ.57, determini non solo l’impugnabilità della delibera, ma la stessa

invalidità dell’accordo alla base, per mancanza di causa58 ovvero per illiceità del motivo comune, ai

sensi dell’articolo 1345, cod. civ.59.

Dall’altra, si riscontrano diverse sentenze dei giudici di merito60 che, applicando, talvolta anche

inopportunamente61, il paradigma della causa in concreto alle pattuizioni cristallizzate nei sindacati

azionari espressamente riconosciuti dal legislatore, promuovono un giudizio particolarmente

penetrante sugli interessi regolati, tale da rendere ancor più elevato il rischio di un’indebita interferenza

tra quei piani – il sociale e l’extrasociale – che la teorica dei patti parasociali ha da sempre considerato,

tendenzialmente, non comunicanti62.

Tuttavia, nell’ipotesi in cui la convenzione avente ad oggetto la “vendita” del voto incida sulla

determinazione di una delle possibili opzioni organizzative ordinariamente rimesse alla discrezionalità

dei soci – laddove, dunque, il vincolo all’esercizio del voto sia funzionale a condurre la volontà del socio

54 Cfr. i rilievi comparatistici svolti da P. G. Jaeger, “Ammissibilità e limiti dell’accordo di “cessione” del voto in cambio di “corrispettivo”” (con

considerazioni in merito alla c.d. “vendita del voto”), (26), pag. 243. 55 Sul punto si veda E. Scimemi, “La vendita del voto. Nelle società per azioni”, (14), pag. 1 e ss.. 56 Vedi P. G. Jaeger, “Ammissibilità e limiti dell’accordo di “cessione” del voto in cambio di “corrispettivo”” (con considerazioni in merito alla c.d.

“vendita del voto”), (26), pag. 246 e ss.; E. Del Prato, “Voto contro compenso”, (1), pag. 169. Contra F. Sporta Caputi, “Acconti di liquidazione e liceità

della c.d. “vendita del voto””, (29), pag. 868 secondo cui non sarebbe legittimo trasporre un vizio della delibera sul piano della patologia del

contratto. 57 Il quale parrebbe da ritenere in re ipsa nel caso di “vendita” del voto in cui il corrispettivo sia versato dalla stessa società. 58 Così P. G. Jaeger, “Ammissibilità e limiti dell’accordo di “cessione” del voto in cambio di “corrispettivo”” (con considerazioni in merito alla c.d.

“vendita del voto”), (26), pag. 246 e ss.. 59 Così E. Del Prato, “Voto contro compenso”, (1), pag. 169. 60 Vedi Tribunale di Roma, 6 ottobre 2014; Tribunale di Torino, 11 aprile 2014 (entrambe commentate in Giur. It., 2015, III, pag. 658 con nota

di M. Spiotta, “Patti parasociali - pacta sunt servanda, ma non può pretendere il pagamento della penale chi per primo abbia trasgredito gli impegni

assunti)” Tribunale di Trieste 7 marzo 2014 in Giur. It., 2014, pag. 1613. 61 Cfr. le osservazioni di E. Gabrielli, “Causa in concreto e patti parasociali”, Giur. It., 2014, pag. 1617 e ss.. 62 Per tutti si veda F. Galgano, “La società per azioni”, (5), pag. 94-96.

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Diritto e società

19 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

in una delle possibili direzioni che la stessa è legittimata ad assumere, come può prospettarsi

nell’ipotesi in cui debba essere approvata una data modifica statutaria concernente, ad esempio, la

governance societaria – non sembra scorgersi la ricorrenza di quell’interesse individuale in conflitto, e

della correlata lesione dell’interesse sociale, su cui trovano fondamento le suddette interpretazioni

restrittive.

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Tributi e accertamento fiscale

20 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Stratificazione fiscale del patrimonio

netto dell’incorporante nella fusione

inversa: alcune riflessioni a seguito

della risoluzione n. 62/E/2017 di Fabio Landuzzi - dottore commercialista e revisore legale

Il principio di “equivalenza” della fusione “diretta” ed “inversa” affermato dal documento Oic

4 fa si che il valore complessivo del patrimonio netto contabile della società risultante dalla

fusione, e la differenza di fusione (avanzo o disavanzo) che si genera dall’operazione, non

debbano essere differenti a seconda della forma tecnica con cui la fusione viene compiuta.

Tuttavia, in ambito fiscale non era sinora stato chiarito se detta equivalenza dovesse

estendersi anche alla stratificazione del patrimonio netto della società post fusione, oppure

se a tale fine dovesse prevalere la composizione “qualitativa” del patrimonio netto così come

formata presso la società incorporante prima dell’effettuazione della fusione. Con la

risoluzione n. 62/E/2017 l’Amministrazione finanziaria si è espressa nel senso di ritenere

prevalente a tale ultimo fine il dato giuridico-formale e, quindi, a favore della conservazione

della stratificazione fiscale del patrimonio netto della incorporante così come essa è presente

prima dell’effettuazione della fusione. Tale soluzione interpretativa fa sì che l’equivalenza

fra le due forme di fusione “diretta” e “inversa” si possa così realizzare solo in modo

imperfetto, e desta perciò alcune perplessità tecniche ed operative.

La “imperfetta” equivalenza della fusione “inversa” e di quella “diretta”

Il documento Oic 4, § 4.6.2, in linea con quanto già era in precedenza sostenuto dalla dottrina prevalente

anche in mancanza di un’indicazione professionale ufficiale, afferma il c.d. “principio dell’equivalenza”

in forza del quale qualunque sia la modalità di attuazione della fusione, ovvero “diretta” oppure

“inversa”, non devono mutare gli effetti conclusivi sostanziali dell’operazione, né per i soci della

controllante-incorporata, né con riferimento all’iscrizione nelle scritture contabili della controllata-

incorporante di differenze positive o negative di fusione.

A questo ultimo riguardo, il suddetto principio si traduce, in concreto, nella seguente equazione:

disavanzo/avanzo da fusione “diretta” = disavanzo/avanzo da fusione “inversa”

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Tributi e accertamento fiscale

21 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Il documento Oic 4 non tratta, tuttavia, un ulteriore aspetto attinente alla composizione “qualitativa”

del patrimonio netto della società risultante dalla fusione; restava perciò aperta la questione se il

suddetto principio dell’equivalenza dovesse estendersi anche ai riflessi fiscali dell’operazione, con la

conseguenza che, in caso di risposta affermativa, anche la composizione “qualitativa” (stratificazione)

del patrimonio netto finale della società incorporante nella fusione inversa, una volta completate le

scritture di fusione, dovesse corrispondere alla composizione “qualitativa” che il medesimo patrimonio

netto – di pari importo complessivo, per via dell’equivalenza – avrebbe assunto in caso di effettuazione

della fusione in forma “diretta”.

La dottrina1 che si era occupata di questo tema, tutt’altro che irrilevante per la società e per i soci

quando, come accade non di rado, i patrimoni netti delle società partecipanti alla fusione presentano

una diversa e articolata composizione e natura fiscale (di capitale, di utile, e in sospensione di imposta),

si era espressa in senso favorevole all’estensione anche all’ambito fiscale dell’affermato principio

dell’equivalenza contabile.

In particolare, traendo spunto anche dalla precedente prassi dell’Amministrazione finanziaria2, e

coniugando il principio dell’equivalenza di estrazione contabile con il principio della neutralità di tipica

derivazione fiscale, si giungeva alla condivisibile conclusione secondo la quale il patrimonio netto della

società risultante dalla fusione doveva intendersi composto secondo la stratificazione fiscale del

patrimonio netto della controllante-incorporata, come d’altronde sarebbe avvenuto in caso di fusione

“diretta”.

In termini operativi, aderire a questa interpretazione consente di addivenire a una perfetta equivalenza

dei risultati della fusione a prescindere dalla forma “diretta” o “inversa” della sua realizzazione: con

riguardo alla determinazione in valore assoluto del patrimonio netto della società risultante dalla

fusione, in termini di quantificazione del disavanzo/avanzo di fusione e, infine, anche con riferimento

alla natura fiscale delle voci componenti il patrimonio netto della società risultante dalla fusione.

Quindi, in esito della fusione “inversa”, la controllata-incorporante avrebbe sostituito il proprio

patrimonio netto con quello della controllante-incorporata, e abbandonato la preesistente

stratificazione fiscale dello stesso per acquisire quella della controllante-incorporata; poi, in aderenza

al disposto di cui all’articolo 172, comma 5 e 6, Tuir, e al ricorrere dei relativi presupposti, la stessa

avrebbe dovuto ricostituire eventuali riserve in sospensione di imposta presenti nel proprio patrimonio

netto, come d’altronde avrebbe fatto l’incorporante in caso di fusione “diretta”.

1 G. Vasapolli, A. Vasapolli “La stratificazione fiscale del patrimonio netto nella fusione inversa”, Corriere Tributario n. 1/2011. 2 Risoluzione n. 111/E/2009.

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Tributi e accertamento fiscale

22 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Ebbene, di questo avviso non è, invece, l’interpretazione resa dall’Amministrazione finanziaria la quale,

in risposta ad un’istanza di interpello, con la risoluzione n. 62/E/2017, discostandosi dall’interpretazione

sopra esposta, ha ritenuto prevalente a questo riguardo il dato “giuridico formale” della fusione rispetto

a quello “sostanziale”.

In particolare, l’Amministrazione finanziaria parte dall’assunto che, proprio sotto il profilo giuridico

formale, il patrimonio netto che si conserva all’esito della fusione sarebbe “sempre quello della società

che sopravvive legalmente alla fusione, ossia quello della società incorporante”. Quindi, se la fusione si

realizza nella forma “inversa”, giocoforza il “patrimonio netto che sopravvive non può che essere quello

dell’incorporante/controllata”. E facendo leva su questo dato giuridico formale, secondo

l’Amministrazione finanziaria, “la stratificazione delle voci di patrimonio netto presente nella società che

sopravvive alla fusione segue l’imputazione giuridica sua propria”.

Le argomentazioni svolte e le conclusioni a cui giunge l’Amministrazione finanziaria nella citata

risoluzione n. 62/E/2017, tuttavia, non sono a nostro avviso del tutto convincenti e conducono a realizzare

una “imperfetta” rappresentazione dell’equivalenza della modalità di realizzazione della fusione.

Un caso: la fusione inversa di “Alfa Srl” in “Beta Srl”

Le ragioni economiche per cui si preferisce realizzare la fusione in forma “inversa” piuttosto che “diretta”

sono normalmente connesse all’opportunità di evitare appesantimenti burocratici e oneri

amministrativi, principalmente dovuti al fatto che mentre la controllante è una mera holding di

partecipazione, caratterizzata da poche operazioni e pochi assets, la società controllata è, invece,

sovente l’impresa “operativa” la cui incorporazione avrebbe perciò effetti significativi in termini di

comunicazioni ai terzi della variazione dei dati identificativi, di volturazione dei beni immobili, mobili

registrati e di proprietà intellettuali, sostenimento di maggiori oneri amministrativi, maggiore

complessità nella gestione dei sistemi informativi aziendali, etc..

Il caso più ricorrente in cui la scelta della modalità di realizzazione della fusione si orienta in favore

della “inversa” è perciò quello in cui:

− la controllante è una holding, sovente una società veicolo costituita per realizzare l’acquisizione della

controllata-target, nel cui patrimonio figura la partecipazione del 100% al capitale sociale della controllata;

− la controllante ha, in forza di quanto esposto al punto precedente, un patrimonio netto composto dal

capitale sociale, da riserve di capitale di importo consistente rappresentative dell’apporto dei soci e da

riserve di utili assai contenute; nel passivo figura normalmente il debito contratto per finanziare

l’acquisizione della partecipazione nella controllata-target;

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23 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

− la controllata è, invece, la società con uno stato patrimoniale più articolato, in forza della storia della

società stessa, così che nel suo patrimonio netto figurano riserve aventi diversa natura fiscale: utile,

capitale e in sospensione di imposta;

− infine, di norma il valore di carico della partecipazione è superiore al patrimonio netto contabile della

controllata, in quanto in sede di acquisizione il prezzo corrisposto ha tenuto conto dei plusvalori

inespressi nel bilancio della società target e del goodwill, così che la fusione produce l’emersione di un

disavanzo da annullamento.

Questa fattispecie può essere perciò rappresentata in termini numerici nell’esempio qui di seguito

riportato.

Società controllante - incorporata (Alfa Srl)

Attività Passività e Netto

Partecipazioni Beta 5.000.000 Capitale sociale 100.000

Attività 20.000 Riserve di utili 10.000

Riserve di capitale 1.000.000

Patrimonio netto 1.110.000

Debiti 3.910.000

Totale 5.020.000 Totale 5.020.000

Società controllata - incorporante (Beta Srl)

Attività Passività e Netto

Attività 8.100.000 Capitale sociale 20.000

Riserve di utili 2.000.000

Riserve di capitale 30.000

Riserva di rivalutazione 1.450.000

Patrimonio netto 3.500.000

Debiti 4.600.000

Totale 8.100.000 Totale 8.100.000

Ebbene, in caso di fusione “diretta” lo stato patrimoniale dell’incorporante Alfa post fusione sarebbe il

seguente (prima dell’allocazione del disavanzo di fusione).

Attività Passività e Netto

Attività Beta 8.100.000 Capitale sociale 100.000

Attività Alfa 20.000 Riserve di utili 10.000

Disavanzo di fusione 1.500.000 Riserve di capitale 1.000.000

Riserva di rivalutazione -

Patrimonio netto 1.110.000

Debiti Beta 4.600.000

Debiti Alfa 3.910.000

Totale 9.620.000 Totale 9.620.000

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Tributi e accertamento fiscale

24 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

In merito alla stratificazione fiscale del patrimonio netto dell’incorporante, detta società conserverebbe

la medesima composizione antecedente alla fusione; inoltre, poiché la Riserva di rivalutazione presente

nel patrimonio netto dell’incorporata Beta è di quelle in sospensione cd. “moderata”, l’incorporante non

sarebbe tenuta alla sua ricostituzione ai sensi del comma 5 dell’art. 172 del Tuir.

A. Fusione inversa attuata mediante annullamento delle “azioni proprie” della controllata-incorporante

Una prima modalità contabile con cui la fusione “inversa” può essere realizzata è quella che implica

l’annullamento delle azioni proprie della società controllata-incorporante una volta che queste entrano

a far parte del patrimonio di detta società, nell’istante immediatamente successivo all’aggregazione dei

dati contabili delle 2 società. I passaggi con cui questa modalità si realizza sono i seguenti:

1. Aumento del capitale sociale della Beta Srl (incorporante-controllata) al servizio della fusione, per

l’emissione di azioni destinate ai soci di Alfa Srl (incorporata-controllante).

L’incorporante-controllata Beta effettua l’aumento del proprio capitale sociale in misura corrispondente

al capitale sociale della incorporata-controllante Alfa al fine di mettere a disposizione dei soci di

quest’ultima le azioni che risulteranno sostituire quelle della stessa Alfa una volta che detta società

sarà stata incorporata.

Crediti v/soci di Alfa a Capitale sociale di Beta 100.000

2. Incorporazione contabile di Alfa (incorporata-controllante).

Diversi a Diversi

Azioni proprie di Beta 5.000.000

Attività Alfa 20.000

Crediti v/soci di Alfa 100.000

Riserve di utili (Alfa) 10.000

Riserve di capitale (Alfa) 1.000.000

Debiti di Alfa 3.910.000

3. Annullamento delle azioni proprie di Beta contro il proprio patrimonio netto contabile.

Diversi a Azioni proprie di Beta 5.000.000

Capitale sociale (Beta) 20.000

Riserve di utili (Beta) 2.000.000

Riserve di capitale (Beta) 30.000

Riserve di rivalutazione (Beta) 1.450.000

Disavanzo di fusione 1.500.000

Completate queste scritture, la situazione patrimoniale post fusione di Beta (incorporante-controllante)

risulta essere la seguente:

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Tributi e accertamento fiscale

25 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Attività Passività e Netto

Attività Beta 8.100.000 Capitale sociale 100.000

Attività Alfa 20.000 Riserve di utili 10.000

Disavanzo di fusione 1.500.000 Riserve di capitale 1.000.000

Riserva di rivalutazione -

Patrimonio netto 1.110.000

Debiti di Beta 4.600.000

Debiti di Alfa 3.910.000

Totale 9.620.000 Totale 9.620.000

La situazione patrimoniale post fusione “inversa” di Alfa (controllante) in Beta (controllata)

corrisponde alla situazione che, come abbiamo poc’anzi visto, si realizza in caso di fusione “diretta”

delle 2 società.

Il patrimonio netto della società risultante della fusione corrisponde infatti a 1.110.000 euro, ovvero lo

stesso importo della fusione diretta, e nella stessa composizione.

Ma è a questo punto che interviene l’indicazione contenuta nella risoluzione n. 62/E/2017 secondo cui,

come si è visto, “la stratificazione delle voci di patrimonio netto presente nella società che sopravvive alla

fusione segue l’impostazione giuridica sua propria”.

La stratificazione fiscale del patrimonio netto di Beta (incorporante-controllante) ante fusione era la

seguente:

Capitale sociale 20.000 0,57%

Riserve di utili 2.000.000 57,14%

Riserve di capitale 30.000 0,86%

Riserva di rivalutazione 1.450.000 41,43%

Patrimonio netto 3.500.000

Poiché post fusione “inversa” il patrimonio netto di Beta (incorporante-controllante), come abbiamo

visto, ammonta complessivamente a 1.110.000 euro – e tale deve essere in forza dell’equivalenza con

la forma “diretta” di fusione prescritta dall’Oic 4 e confermata anche dalla risoluzione n. 62/E/2017 –

l’asserita conservazione della stratificazione fiscale del patrimonio netto dell’incorporante non potrà

che realizzarsi in forma proporzionale e non assoluta; ovvero, si ritiene che aderendo alle indicazioni

della citata risoluzione, la composizione del patrimonio netto della incorporante-controllata Beta post

fusione “inversa”, pari in totale a 1.110.000 euro, sarà la seguente:

Natura di capitale 1,43% 15.857,14

Natura di utili 57,14% 634.285,71

In sospensione di imposta 41,43% 459.857,14

Patrimonio netto 100,00% 1.110.000

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Tributi e accertamento fiscale

26 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

B. Fusione inversa attuata mediante assegnazione delle azioni proprie ai soci della società

incorporata-controllante

Una seconda modalità contabile con cui la fusione inversa può essere realizzata è quella mediante la

quale le azioni proprie della incorporante-controllata sono assegnate ai soci della incorporata-

controllante in concambio delle loro partecipazioni al capitale di quest’ultima società che si estingue

in forza della fusione.

Vediamo di percorrere anche in questo caso, passo per passo, lo sviluppo contabile dell’operazione per

verificare se il risultato finale si realizzi in modo differente rispetto a quello sopra rappresentato in caso

di annullamento delle azioni proprie, ovvero se la rappresentazione finale della fusione nel patrimonio

netto della società superstite non muti.

1. Incorporazione di Alfa (incorporata-controllante) nella contabilità di Beta (incorporante-controllata).

Diversi a Diversi

Azioni proprie di Beta 5.000.000

Attività Alfa 20.000

Capitale sociale (Alfa) 100.000

Riserve di utili (Alfa) 10.000

Riserve di capitale (Alfa) 1.000.000

Debiti di Alfa 3.910.000

2. Assegnazione delle azioni di Beta (incorporante-controllata) ai soci di Alfa.

Come premesso, con questa modalità tecnica, le azioni della incorporante-controllata sono trasferite ai

soci della incorporata (Alfa) in concambio delle loro partecipazioni al capitale della società che si

estingue per effetto della fusione.

In contropartita di questa operazione, sarà perciò annullato il patrimonio di Beta (incorporante) ed il

capitale sociale di Alfa (incorporata) in misura corrispondente al capitale di Beta stessa, e la differenza

farà emergere il disavanzo di fusione nella stessa misura in cui questo si sarebbe formato in caso di

fusione “diretta”.

Diversi a Azioni proprie di Beta 5.000.000

Capitale sociale (Alfa) 20.000

Riserva di capitale (Alfa) -

Riserve di utili (Alfa) -

Riserve di utili (Beta) 2.000.000

Riserve di capitale (Beta) 30.000

Riserva di rivalutazione (Beta) 1.450.000

Disavanzo di fusione 1.500.000

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Tributi e accertamento fiscale

27 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

La situazione patrimoniale post fusione “inversa” di Alfa (controllante) in Beta (controllata) corrisponde

alla situazione che, come abbiamo poc’anzi visto, si realizza in caso di fusione “diretta” delle 2 società.

Attività Passività e Netto

Attività Beta 8.100.000 Capitale sociale (Beta) 2.000

Attività Alfa 20.000 Capitale sociale (Alfa) 80.000

Disavanzo di fusione 1.500.000 Riserve di capitale (Alfa) 1.000.000

Riserve di utili (Alfa) 10.000

Patrimonio netto 1.110.000

Debiti di Beta 4.600.000

Debiti di Alfa 3.910.000

Totale 9.620.000 Totale 9.620.000

Anche con questa modalità, quindi, se si aderisce alle indicazioni della citata risoluzione n. 62/E/2017,

la composizione del patrimonio netto della incorporante-controllata Beta post fusione “inversa”, pari in

totale a 1.110.000 euro, sarà la seguente:

Natura di capitale 1,43% 15.857,14

Natura di utili 57,14% 634.285,71

In sospensione di imposta 41,43% 459.857,14

Patrimonio netto 100,00% 1.110.000

In altri termini, indipendentemente dalla modalità tecnica adottata per lo sviluppo della fusione

“inversa”, il risultato finale presso la società risultante dalla fusione non deve essere differente; ciò,

riportato in termini di composizione “fiscale” del patrimonio netto, non potrà che avere la formazione

“proporzionale” come sopra rappresentata, essendo il patrimonio netto post fusione della società

incorporante corrispondente a quello della controllata-incorporata – in forza del principio di

equivalenza delle due forme di fusione - in valore assoluto inferiore a quello ante fusione

dell’incorporante stessa.

Conclusioni

Come si era anticipato, la soluzione a cui è pervenuta l’Amministrazione finanziaria nella risoluzione n.

62/E/2017 in merito alla composizione fiscale del patrimonio netto della incorporante-controllata non

è a nostro avviso pienamente convincente.

Questa soluzione interpretativa che, ai soli fini della stratificazione fiscale del patrimonio netto

intende dare rilevanza al dato giuridico-formale, porta a realizzare una sorta di “imperfetta

equivalenza” fra le due forme di fusione, “diretta” e “inversa”; l’equivalenza infatti sarebbe realizzata

solo in termini di valore assoluto del patrimonio netto della società risultante dalla fusione, il quale

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Tributi e accertamento fiscale

28 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

corrisponderebbe in termini complessivi all’importo del patrimonio netto contabile che si sarebbe

ottenuto in caso di fusione diretta.

Poiché difficilmente tale valore potrà nella pratica corrispondere a quello ante fusione della

incorporante-controllata – valore che corrisponderebbe alla asserita rilevanza del dato giuridico-

formale – il risultato finale a cui si perviene è una soluzione ibrida la quale obbliga, come si è visto

negli esempi riportati nel presente contributo, a un riproporzionamento della stratificazione fiscale

preesistente sulla composizione del patrimonio netto della società incorporante post fusione “inversa”.

Si tratta, quindi, di un doppio binario che, probabilmente, si sarebbe potuto evitare semplicemente

coniugando in modo più sostanziale il principio civilistico e contabile di equivalenza della fusione

“diretta” ed “inversa” con quello della neutralità della fusione.

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29 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

La pianificazione fiscale del passaggio

generazionale dell’impresa individuale di Fabio Giommoni - dottore commercialista e revisore legale

Il passaggio generazionale dell’impresa individuale si presenta particolarmente

problematico quando vi è una pluralità di eredi, perché in tal caso deve essere

necessariamente accompagnato dalla “trasformazione” dell’impresa individuale in società.

Questo obiettivo può essere raggiunto attraverso alcune operazioni aventi ad oggetto

l’azienda gestita dall’impresa individuale, quali la cessione, la donazione o il conferimento

in società.

Queste tre opzioni sono, tuttavia, caratterizzate da una diversa imposizione fiscale per

quanto riguarda le imposte sul reddito, le imposte indirette e le imposte di successione e

donazione.

Il passaggio generazionale dell’impresa individuale deve essere, pertanto, attentamente

pianificato in ottica fiscale.

Premessa

Nel nostro Paese buona parte delle imprese di una certa dimensione è gestita sotto forma societaria,

sia attraverso società di persone, che società di capitali. In questo caso il passaggio generazionale

dell’impresa si presenta abbastanza agevole in quanto può avvenire semplicemente mediante il

trasferimento, agli eredi, a titolo oneroso (cessione) o gratuito (donazione) delle partecipazioni

societarie.

Molte aziende, soprattutto quelle di piccole dimensioni, sono tuttavia ancora gestite sotto forma di

impresa individuale. Per queste il passaggio generazionale si presenta più complesso in quanto, in

presenza di una pluralità di eredi destinati a subentrare nella conduzione dell’azienda, il passaggio

generazionale deve essere necessariamente accompagnato da una trasformazione dell’impresa da

individuale a collettiva, ovvero in forma societaria.

Escludendo strutture più complesse, come, ad esempio, quelle che prevedono il ricorso a trust, il

passaggio generazionale dell’impresa individuale nei confronti di una pluralità di eredi, ovvero con il

risultato finale della creazione di una società commerciale, può avvenire attraverso i seguenti principali

schemi:

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Tributi e accertamento fiscale

30 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

− cessione dell’azienda da parte dell’imprenditore individuale ad una società precostituita dagli eredi;

− donazione dell’azienda da parte dell’imprenditore individuale agli eredi, i quali poi provvedono a

“conferire” la stessa in una società;

− conferimento dell’azienda da parte dell’imprenditore individuale in una società e successiva

cessione/donazione delle partecipazioni agli eredi.

Di seguito saranno analizzati i profili fiscali che caratterizzano le suddette opzioni, precisando che

saranno affrontate anche le ulteriori problematiche fiscali che si pongono qualora l’azienda sia gestita

sotto forma di impresa familiare.

Cessione dell’azienda da parte dell’imprenditore individuale a società precostituita

dagli eredi

Una prima opzione per realizzare il passaggio generazionale dell’impresa individuale nei confronti di

una pluralità di eredi prevede la costituzione da parte di questi di una società commerciale, la quale poi

provvede ad acquistare l’azienda dall’imprenditore individuale1.

Questa soluzione si presenta particolarmente adatta quando l’imprenditore non vuole realizzare un

trasferimento a titolo gratuito ma vuole “monetizzare” il valore dell’azienda, trasferendola ai figli a

titolo oneroso e, ovviamente, presuppone che la società precostituita da questi disponga, anche

mediante il ricorso al finanziamento bancario, delle risorse necessarie per effettuare l’acquisto2.

La cessione dell’azienda da parte dell’imprenditore individuale può essere realizzata anche a fronte di

un corrispettivo rappresentato dalla costituzione di una rendita vitalizia a favore dello stesso soggetto

alienante3.

L’operazione in oggetto è, tuttavia, caratterizzata da un regime fiscale oneroso sia dal punto di vista

delle imposte sul reddito che delle imposte indirette.

1 In tal caso anche lo stesso imprenditore individuale potrà inizialmente far parte della compagine sociale della nuova società, acquisendo

una quota di maggioranza o di minoranza, da trasferire successivamente agli eredi mediante cessione o donazione, oppure da far cadere in

successione in caso di morte. 2 Il pagamento può essere anche dilazionato nel tempo, in modo tale che l’acquisizione sia finanziata anche dagli utili che la società realizzerà

nella gestione dell’azienda acquisita. 3 Con detto contratto l’acquirente dell’azienda assume l’obbligo di corrispondere al cedente, con cadenza periodica, determinate somme di

denaro e, pertanto, l’onere a carico del cessionario si traduce in un’attribuzione patrimoniale a favore del cedente. Vi sono tuttavia i seguenti

profili di criticità, sotto l’aspetto dell’imposizione sui redditi, in particolare in ordine alle modalità di tassazione della plusvalenza da cessione

d’azienda:

- difficoltà di quantificazione del corrispettivo costituito da una rendita vitalizia, per sua natura di dubbia determinabilità;

- effetto di doppia tassazione che si verificherebbe in capo all’alienante, una prima volta per effetto della tassazione della plusvalenza da

cessione d’azienda (articolo 58 e 86, Tuir) e una seconda volta in dipendenza dell’imponibilità, tra i redditi assimilati a quelli di lavoro

dipendente, della rendita vitalizia (articolo 50, comma 1, lettera h), Tuir), nel momento in cui la stessa è percepita.

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Tributi e accertamento fiscale

31 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Ai fini delle imposte sul reddito, a norma dell’articolo 86, Tuir, costituisce plusvalenza la differenza tra

il corrispettivo di cessione dell’azienda e il suo costo fiscalmente riconosciuto in capo all’imprenditore

individuale. Detta plusvalenza concorre a formare il reddito di impresa dell’imprenditore individuale,

tassato ai fini Irpef in base alle aliquote progressive.

Al riguardo è opportuno tenere presente che, qualora la cessione abbia ad oggetto l’unica azienda

detenuta dall’imprenditore individuale, ovvero lo stesso, dopo la vendita dell’azienda, cessi l’attività di

impresa, si ritiene che non sia esercitabile l’opzione per la rateizzazione della plusvalenza in un

massimo di 5 esercizi, come previsto dal comma 4 dell’articolo 86, Tuir.

Infatti, il cedente, sebbene realizzi la plusvalenza nell’ambito dell’attività di impresa, perde, proprio in

conseguenza della cessione, lo status di imprenditore e, quindi, non dichiarerà per il futuro redditi di

impresa.

Conseguentemente la rateazione della plusvalenza non può essere applicata in quanto verrebbe a

mancare, in capo al cedente, la titolarità di quel reddito di impresa nell’ambito del quale dovrebbero

essere imputate le quote di plusvalenza “rinviate” ai successivi periodi di imposta4.

Invece, l’imprenditore individuale, se ne ricorrono le condizioni, può esercitare l’opzione per il regime

di tassazione separata della plusvalenza emergente dalla cessione d’azienda, come previsto dalla lettera

g), comma 1 dell’articolo 17, Tuir.

Detta disposizione ricomprende, infatti, tra i redditi suscettibili di tassazione separata, anche le

“plusvalenze, compreso il valore di avviamento, realizzate mediante cessione a titolo oneroso di aziende

possedute da più di cinque anni”.

La modalità di tassazione separata implica che la plusvalenza non confluisce nel reddito di impresa,

scontando le aliquote progressive Irpef, bensì viene tassata, sempre ai fini Irpef, sulla base di un’aliquota

fiscale determinata ai sensi dell’articolo 21, Tuir, il quale prevede che l’imposta è determinata

applicando alla plusvalenza imponibile l’aliquota corrispondente alla metà del reddito complessivo

netto del contribuente nei due periodi di imposta antecedenti.

L’aliquota deve essere, pertanto, determinata rapportando l’imposta del biennio (calcolata con le

aliquote marginali in vigore nel periodo in cui viene realizzata la plusvalenza) al reddito del biennio

ridotto della metà. Qualora in uno dei due anni anteriori non sia rilevabile alcun reddito imponibile si

applicherà l’aliquota corrispondente al reddito complessivo netto dell’altro anno; in mancanza di

reddito in ciascuno dei 2 anni, sarà invece applicata l’aliquota minima prevista ai fini Irpef.

4 In tal senso si è espressa l’Amministrazione finanziaria con la circolare n. 320/E/1997 (§ 1.4.1.1.).

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Tributi e accertamento fiscale

32 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Ai fini delle imposte indirette la cessione di azienda a titolo oneroso è esclusa dal campo di applicazione

dell’Iva, ex articolo 2, comma 3, lettera b), D.P.R. 633/1972, mentre è soggetta ad imposta di registro, ex

articolo 2 e 3, comma 1, lettera b), D.P.R. 131/1986, con le aliquote proporzionali applicabili in ragione dei

beni che compongono il complesso aziendale. La base imponibile, ai sensi dell’articolo 43, comma 1, lettera

a), D.P.R. 131/1986, è costituita dal valore venale del complesso dei beni che costituiscono l’azienda,

compreso l’avviamento, alla data dell’atto di cessione, considerato al netto delle passività aziendali.

Si applicano inoltre le imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale se nel complesso aziendale

sono compresi beni/diritti reali immobiliari. Da tenere presente che dette imposte si applicano sul

valore lordo dei beni immobili trasferiti, ovvero senza possibilità di scomputare le eventuali passività

imputabili agli immobili.

Donazione dell’azienda da parte dell’imprenditore individuale e successiva

regolarizzazione della società di fatto tra gli eredi

Il secondo schema di pianificazione del passaggio generazionale dell’impresa individuale prevede il

trasferimento a titolo gratuito dell’azienda agli eredi, mediante l’istituto della donazione5.

Successivamente gli eredi “trasformano” la comunione d’azienda in società commerciale6.

Nell’ambito delle imposte sui redditi, a norma dell’articolo 58, comma 1, Tuir, la “plusvalenza”

realizzata a seguito di trasferimento dell’azienda per atto gratuito (o per causa di morte) è esente dal

reddito del donante, a condizione che il soggetto beneficiario assuma i beni ricevuti allo stesso valore

fiscalmente riconosciuto in capo al dante causa7. In tal caso l’operazione di trasferimento d’azienda è

dunque effettuata in regime di neutralità fiscale ai fini delle imposte sul reddito e la plusvalenza, che

rimane latente, concorrerà alla formazione del reddito del donatario qualora questi dovesse ricedere

l’azienda a terzi8.

5 Per approfondimenti sugli aspetti civilistici della donazione d’azienda si veda G. Iervolino, “La donazione di azienda: analisi della disciplina

applicabile e dei riflessi successori”, in La rivista delle operazioni straordinarie, n. 12/2010. 6 Si esclude, invece, lo schema che prevede la donazione dell’azienda ad una società commerciale precostituita dagli eredi, per la pesante

tassazione che questa operazione comporterebbe. La società beneficiaria dovrebbe, infatti, rilevare una sopravvenienza attiva ex articolo 88,

Tuir pari al valore normale dell’azienda ricevuta a titolo gratuito ed inoltre risulterebbe dovuta l’imposta sulle successioni e donazioni con

l’aliquota massima dell’8%, perché la donazione di azienda a un soggetto societario non può godere dell’agevolazione di cui all’articolo 3,

comma 4-ter, D.Lgs. 346/1990, di cui si dirà oltre. 7 In assenza di detta norma la donazione d’azienda da parte di un imprenditore individuale realizzerebbe una fattispecie di “destinazione a

finalità estranee” ex articolo 86, comma 1, Tuir, con conseguente emersione di plusvalenze tassabili sulla base del valore normale, quali

componenti del reddito d’impresa dell’imprenditore donante. 8 Il trattamento fiscale della suddetta plusvalenza è differente a seconda che il soggetto cedente (il donatario) sia o meno imprenditore al

momento della cessione stessa:

- se il donatario non ha continuato l’esercizio dell’attività d’impresa la plusvalenza realizzata dà luogo ad un “reddito diverso” ai sensi della

lettera h-bis) dell’articolo 67, Tuir che viene tassato, con il criterio di cassa, in base al regime “naturale” della tassazione separata, salvo

rinuncia a norma del primo periodo del comma 3 dell’articolo 17, Tuir;

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Tributi e accertamento fiscale

33 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Anche per il donatario l’operazione risulta fiscalmente neutrale, indipendentemente dal grado di

parentela con il donante, purché assuma l'azienda ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti in capo

al donante.9

Per l’applicazione del regime di neutralità non è, invece, più richiesto che il donatario prosegua l’attività

di impresa, assumendo dunque la qualifica di imprenditore, potendo lo stesso anche cedere l’azienda

ricevuta per donazione o affittarla a terzi senza aver preventivamente avviato un’attività di impresa10.

Per quanto riguarda le imposte indirette la donazione d’azienda non è soggetta a Iva ai sensi

dell’articolo 2, comma 3, D.P.R. 633/1972, né ad imposta di registro proporzionale11.

La donazione d’azienda è, invece, soggetta alle imposte sulle successioni e donazioni, secondo le

aliquote e le franchigie previste dal D.L. 262/2006, ma può beneficiare del particolare regime di

esenzione di cui all’articolo 3, comma 4-ter, D.Lgs. 346/1990. In base a quest’ultima norma sono esenti,

dall'imposta sulle successioni e donazioni, i trasferimenti di aziende o rami di esse, di azioni e quote

sociali, attuati in favore dei discendenti e del coniuge mediante disposizioni mortis causa, donazioni, atti

a titolo gratuito o costituzione di vincoli di destinazione, nonché mediante patti di famiglia di cui

all’articolo 768-bis e ss., cod. civ., a condizione che gli aventi causa proseguano l'esercizio dell'attività

d'impresa per un periodo non inferiore a 5 anni dalla data del trasferimento. Per fruire dell'agevolazione

è necessario che gli aventi causa rendano apposita dichiarazione nell'atto di donazione circa la loro

volontà di proseguire l'attività di impresa.12

Detto regime di esenzione si applica, pertanto, solo se il trasferimento è realizzato in ambito familiare,

ovvero il beneficiario deve essere necessariamente un discendente o il coniuge del dante causa. Il

beneficiario deve inoltre continuare l’attività di impresa, per almeno un quinquennio.

- se il donatario ha continuato l’esercizio dell’attività d’impresa e, quindi, riveste lo status di imprenditore al momento della cessione, la

plusvalenza tassabile è determinata ex articoli 58 e 86, Tuir, concorrendo a formare il reddito di impresa con il criterio di competenza, con

facoltà di opzione per la tassazione separata. 9 La norma non precisa, tuttavia, se la neutralità si applica anche in capo al donatario quando questi sia già imprenditore individuale (e non lo

diventi, quindi, in seguito alla donazione dell’azienda) o sia una società commerciale. In tal caso, infatti, il valore dell’azienda ricevuta

(corrispondente al costo fiscale in capo al donante) potrebbe costituire per il donatario una sopravvenienza attiva, ai sensi dell’articolo 88,

comma 3, lettera b), Tuir, ferma restando la neutralità in capo al donante (e l’acquisizione da parte del donatario dell’azienda ai medesimi

valori fiscali che aveva in capo al donante). 10 La disposizione contenuta nel comma 2 dell’articolo 16, L. 383/2001, pur prevedendo il regime di neutralità anche al caso di donazione a

favore di soggetti diversi dai familiari, subordinava tuttavia l’agevolazione al fatto che il donatario avesse proseguito l’attività d’impresa (cfr.

risoluzione n. 237/E/2002). 11 Gli atti di donazione esenti o entro la franchigia dell’imposta sulle successioni e donazioni non scontano neppure l’imposta di registro in

misura fissa. 12 Il mancato rispetto della condizione di gestione quinquennale comporta la decadenza dal beneficio, il pagamento dell’imposta in misura

ordinaria, della sanzione amministrativa prevista dall’ articolo 13, D.Lgs. 471/1997, e degli interessi di mora decorrenti dalla data in cui

l’imposta medesima avrebbe dovuto essere pagata.

Il conferimento dell'azienda in società non è causa di automatica decadenza dell’agevolazione. Tale operazione, infatti, può essere considerata

un proseguimento (indiretto) dell'esercizio dell'attività d'impresa, per cui, l’agevolazione non decade se l’azienda è conferita:

a) in una società di persone (indipendentemente dal valore della partecipazione);

b) in una società di capitali e le azioni o quote assegnate a fronte del conferimento consentono di conseguire o integrare il controllo ai sensi

dell’articolo 2359, comma 1, n. 1), cod. civ..

Deve intendersi assolto il requisito della prosecuzione dell'attività d'impresa anche nell'ipotesi di trasformazioni, fusioni o scissioni.

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Tributi e accertamento fiscale

34 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Si ricorda infine che se nel complesso aziendale oggetto di donazione sono compresi beni immobili o

diritti reali immobiliari si rendono ordinariamente applicabili le imposte ipotecarie e catastali in misura

proporzionale (rispettivamente pari al 2% ed all'1%).

Tuttavia, in base all'espresso rinvio alla citata disposizione agevolativa di cui all'articolo 3, comma 4-

ter, D.Lgs. 346/199013, nell'ipotesi di donazione di azienda che rientra nel predetto regime di esenzione,

se nell’azienda stessa sono compresi beni immobili o diritti reali immobiliari, le relative formalità di

trascrizione e voltura catastale risultano esenti dalle imposte ipotecaria e catastale.

A seguito della donazione in favore di una pluralità di soggetti si crea una comunione d’azienda tra i

donatari e, nell’ipotesi in cui due o più donatari inizino ad esercitare l’azienda, quali imprenditori, si

viene a configurare tra questi una società di fatto che deve essere regolarizzata in una delle società

commerciali previste dal codice civile (società di capitali o società di persone).14

Secondo l’Amministrazione finanziaria (risoluzione n. 341/E/2007) a tale fattispecie si rendono

applicabili, ai fini delle imposte sul reddito, le disposizioni dettate dall’articolo 170, Tuir per la

trasformazione societaria, in base al quale “la trasformazione della società non costituisce realizzo né

distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore

di avviamento”.

Nell’ambito dell’imposizione diretta la regolarizzazione della società di fatto tra i donatari in una società

di capitali o in una società di persone è, dunque, fiscalmente neutra, subentrando la società risultante

dalla trasformazione nei valori fiscali dell’azienda che risultavano in capo al donante (i quali sono stati

acquisiti dai donatari ai sensi del citato articolo 58, comma 1, Tuir).

Ai fini delle imposte indirette la regolarizzazione della società di fatto tra gli eredi comporta il

pagamento dell'imposta di registro a tassa fissa pari a 200 euro.15

Anche le imposte ipotecarie e catastali, in presenza di immobili nell’ambito del complesso aziendale, si

applicano in misura fissa16.

13 Da parte dagli articoli. 1, comma 2, e 10, comma 3, D.Lgs. 347/1990. 14 In particolare, secondo la migliore dottrina, la mera contitolarità del complesso aziendale non è di per sé sufficiente a configurare una

società di fatto, essendo invece necessario l’effettivo esercizio, in forma comune, dell’attività economica da parte dei contitolari. La successiva

regolarizzazione della società di fatto consiste, nella sostanza, nella traduzione per iscritto del contratto societario concluso “di fatto” tra i

donatari, in forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, con successiva iscrizione dello stesso nel Registro Imprese. 15 L’articolo 4, comma 1, lettera e), Tariffa allegata al D.P.R. 131/1986 dispone infatti l’applicazione dell’imposta in misura fissa per la

“regolarizzazione di società di fatto, derivanti da comunione ereditaria di azienda, tra eredi che continuano in forma societaria l’esercizio dell’impresa”,

qualora l’atto di regolarizzazione sia registrato “entro un anno dall’apertura della successione” (oltre l’anno si applica in ogni caso l’imposta fissa,

ma maggiorata delle sanzioni). 16 Per l’imposta ipotecaria l’articolo 4 della Tariffa allegata al D.Lgs. 347/1990 prevede la misura fissa per le trascrizioni di “atti di

regolarizzazione di società di fatto derivanti da comunione ereditaria di azienda registrati entro un anno dall'apertura della successione”. Tuttavia se

gli atti di regolarizzazione sono registrati dopo un anno dall'apertura della successione si applica l'imposta proporzionale. Per l’imposta

catastale l'articolo 10, comma 2, D.Lgs. 347/1990 ne dispone l’applicazione in misura fissa per le volture “eseguite in dipendenza di atti di

regolarizzazione di società di fatto, derivanti da comunione ereditaria di azienda registrati entro un anno dall'apertura della successione”. Per

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Tributi e accertamento fiscale

35 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Conferimento dell’azienda da parte dell’imprenditore individuale e successiva

cessione/donazione delle partecipazioni agli eredi

Il terzo ed ultimo schema di pianificazione della successione dell’impresa individuale prevede il

conferimento dell’azienda da parte dell’imprenditore in una società commerciale e la successiva

cessione/donazione ai figli, in tutto o in parte, delle partecipazioni ricevute a seguito del conferimento17.

Ai fini delle imposte sui redditi l’operazione di conferimento è neutrale per l’imprenditore individuale

conferente, ai sensi dell’articolo 176, Tuir, il quale dispone che “i conferimenti di aziende effettuati tra

soggetti residenti nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese commerciali non costituiscono realizzo di

plusvalenze o minusvalenze”.

Il conferimento d’azienda è, quindi, un’operazione fiscalmente irrilevante ai fini della determinazione

delle imposte sul reddito, in quanto, indipendentemente dai valori di iscrizione dell’azienda nella

contabilità della società conferitaria, non si generano componenti positivi di reddito imponibili (né

componenti negativi deducibili). Tale regime si applica indifferentemente ai conferimenti effettuati nei

confronti di società di capitali e a quelli verso società di persone.

In conseguenza dell’applicazione del regime di neutralità, il soggetto conferente assume quale valore

della partecipazione ricevuta l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita e il

soggetto conferitario subentra, ai fini fiscali, nella posizione del conferente in ordine ai valori fiscali

degli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa18.

Nell’ambito delle imposte indirette l’atto di conferimento d’azienda sconta l’imposta di registro in

misura fissa, indipendentemente dai beni che compongono l’azienda conferita (articolo 4, Tariffa, D.P.R.

131/86).

Se l’azienda oggetto di conferimento comprende anche beni immobili o diritti reali immobiliari, si

applicano altresì le imposte ipotecarie e catastali in misura fissa (200 euro ciascuna) ai sensi

dell’articolo 10, D.Lgs. 347/1990 e degli articoli 4, 10, Tariffa, D.Lgs. 347/1990.

approfondimenti si rimanda allo Studio del Notariato n. 853-2014/T - “Regolarizzazione di società di fatto derivante da comunione di azienda nei

tributi sui trasferimenti”. 17 Stante la possibilità di costituire società unipersonali solo per le società a responsabilità limitata, la società conferitaria potrà rivestire detta

forma, con unico socio l’imprenditore individuale conferente dell’azienda; oppure la società conferitaria potrà essere rappresentata da una

società di persone o da una società per azioni a cui partecipano già dall’inizio anche gli eredi (ad esempio, a fronte di un minimo apporto in

denaro). 18 Fermo restando che quello di neutralità fiscale è l’unico regime attualmente applicabile ai conferimenti d’azienda, è prevista (comma 2-ter

dell’articolo 176, Tuir) la facoltà da parte della società conferitaria di optare per l’applicazione di un’imposta sostitutiva delle imposte sui

redditi e dell’Irap sugli eventuali maggiori valori attribuiti in sede di conferimento agli elementi dell’attivo costituenti immobilizzazioni

materiali ed immateriali, ottenendone, di conseguenza, il riconoscimento fiscale (c.d. affrancamento “ordinario”). Un’ulteriore disciplina di

affrancamento (c.d. “speciale”) è prevista dall’articolo 15, commi da 10 a 12, D.L. 185/2008, convertito dalla L. 2/2009, come modificato

dall’articolo 1, commi 95 e 96, L. 208/2015 (Legge di Stabilità per il 2016).

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Tributi e accertamento fiscale

36 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Il conferimento di azienda è, invece, fuori campo Iva, stante l’espressa esclusione di cui all’articolo 2,

comma 3, lettera b), D.P.R. 633/1972.

Una volta che l’imprenditore individuale ha conferito la propria azienda in una società commerciale il

passaggio generazionale dell’impresa nei confronti di più eredi potrà avvenire attraverso la cessione

delle partecipazioni della conferitaria agli eredi stessi oppure attraverso la donazione di dette

partecipazioni.

Nel caso della vendita delle partecipazioni si realizzeranno sostanzialmente le medesime finalità

perseguite con la cessione dell’azienda agli eredi in quanto l’imprenditore individuale monetizzerà, in

tutto o in parte, il valore dell’azienda, attraverso il corrispettivo percepito per la vendita delle

partecipazioni.

Nel caso della donazione delle partecipazioni, invece, la successione dell’azienda avverrà, ancorché

indirettamente, a titolo gratuito e dunque si realizzeranno sostanzialmente le stesse finalità perseguite

con la donazione dell’azienda evidenziata in precedenza.

Per quanto riguarda la cessione agli eredi delle partecipazioni della società conferitaria deve essere

ricordato che il comma 2-bis dell’articolo 176, Tuir prevede che, qualora il conferimento abbia ad

oggetto l’unica azienda dell’imprenditore individuale, la successiva cessione delle partecipazioni

ricevute a seguito del conferimento determina una fattispecie di reddito “diverso”, assoggettato a

tassazione ai sensi degli articoli 67, comma 1, lettera c) e 68, Tuir, assumendo come costo delle

partecipazioni l’ultimo valore fiscale dell’azienda conferita.

Pertanto, la successiva cessione a titolo oneroso delle partecipazioni da parte dell’imprenditore

individuale che ha conferito l’unica azienda è assoggettata a tassazione secondo il regime dei capital

gain previsto per le partecipazioni qualificate, ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera c), Tuir, a

prescindere dalla percentuale di possesso del conferente.

Ne deriva che dette plusvalenze, determinate come differenza tra il corrispettivo di cessione e il

predetto costo fiscale delle partecipazioni, concorreranno alla formazione del reddito Irpef complessivo

del cedente nei limiti di cui all’articolo 68, comma 3, Tuir, ovvero nella percentuale del 58,14% del loro

ammontare.19

L’imprenditore individuale che ha effettuato il conferimento, al fine di azzerare la plusvalenza sulla

successiva cessione di partecipazioni nella società conferitaria, potrà avvalersi, ricorrendone le

condizioni, di una eventuale riapertura dell’opzione per la rideterminazione del valore delle

partecipazioni stesse, mediante versamento di imposta sostitutiva, in applicazione delle disposizioni

19 Percentuale stabilita dal D.M. 26 maggio 2017, per le plusvalenze realizzate a partire dal 1° gennaio 2018.

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37 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

inizialmente introdotte dalla L. 448/2001 e nel tempo costantemente riproposte (da ultimo dalla Legge

di Bilancio 2017).

L'articolo 176, comma 3, Tuir sancisce espressamente la non elusività del conferimento d’azienda

seguito, da parte del conferente, dalla cessione della partecipazione nella conferitaria in regime di

esenzione ex articolo 87, Tuir (o in quello di cui agli articoli 58, comma 2 e 68, comma 3, Tuir).

Posto che l’operazione di conferimento d’azienda e successiva cessione della partecipazione non può

essere considerata elusiva ai fini delle imposte dirette, per espressa previsione normativa,

l’Amministrazione finanziaria ha invece ormai da tempo assunto una posizione che considera

l’operazione predetta elusiva ai soli fini dell’imposta di registro, in quanto per tale imposta non è

prevista una norma analoga a quella dell’articolo 176, comma 3, Tuir avente a oggetto le imposte

dirette. In particolare, gli uffici applicano l’imposta di registro proporzionale propria della cessione

d’azienda.

Il riferimento normativo posto a fondamento di questa linea accertativa ai fini dell’imposta di registro

è da ricercarsi nell’articolo 20, D.P.R. 131/1986, secondo il quale l’imposta di registro va applicata

tenendo conto “della intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione”.

Al riguardo gli uffici, suffragati da diverse pronunce favorevoli della Corte di Cassazione20, sostengono

che il fatto di porre in essere consecutivamente due atti (il conferimento e la cessione, a breve distanza,

della partecipazione di controllo nella conferitaria) evidenzia, in realtà, un’unica fattispecie contrattuale,

ancorché a formazione progressiva, produttiva di un unico effetto giuridico finale, da identificarsi nella

cessione dell’azienda previamente conferita. Da qui la possibilità di riqualificare l’atto di conferimento

d’azienda in atto di cessione d’azienda, con la conseguente applicazione dell’imposta di registro in

misura proporzionale, anziché nella misura fissa applicabile al conferimento d’azienda21.

Tale interpretazione è stata oggetto di forti critiche da parte della dottrina, la quale ritiene illegittimo

l’operato dell’Amministrazione finanziaria. Tuttavia resta il rischio di accertamento, ai fini dell’imposta

di registro, del conferimento d’azienda seguito a breve distanza dalla cessione delle partecipazioni di

controllo nella società conferitaria.

Qualora invece l’imprenditore individuale opti per donare le partecipazioni ricevute nella società

conferitaria si renderà applicabile anche in tale ambito la disposizione di cui all’articolo 3, comma 4-

ter, D.Lgs. 346/1990, il quale prevede l’esenzione per le imposte di successione e donazione anche per

i trasferimenti, effettuati a favore dei discendenti e del coniuge, di quote sociali e di azioni di società,

20 Si vedano, tra le ultime, Cassazione, sentenze n. 25487/2015, n. 9582/2016, n. 6758/2017. 21 Si veda, per approfondimenti, L. Ferrajoli, “La posizione della Cassazione sulla riqualificazione in cessione del conferimento d’azienda e del

successivo trasferimento delle quote nella conferitaria ai fini dell’Imposta Registro”, in La rivista delle operazioni straordinarie, n. 5/2017.

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Tributi e accertamento fiscale

38 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

ancorché limitatamente, per le società di capitali, alle partecipazioni mediante le quali è acquisito o

integrato il controllo ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, numero 1), cod. civ.. Il beneficio si applica a

condizione che gli aventi causa detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla

data del trasferimento, rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di

successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso22.

Per le quote delle società di persone non sono invece previsti limiti quantitativi per cui, come chiarito

dalla circolare n. 3/E/2008, se il trasferimento riguarda partecipazioni in società di persone, a

prescindere dalla percentuale di partecipazione al capitale trasferita, l’imposta sulle successioni e

donazioni non si applica purché́, ovviamente, ricorrano gli altri presupposti individuati dalla norma in

commento.

Cessione e conferimento dell’impresa familiare

Sovente può accadere che, sebbene l’azienda sia riconducibile a un’impresa individuale, questa venga

già gestita tramite il coinvolgimento dei figli, mediante l’istituto dell’impresa familiare23.

Nell’ambito delle problematiche relative alla successione dell’impresa individuale si pone pertanto

anche la specifica questione della tassazione della cessione (agli eredi stessi o a loro società)

dell’azienda gestita dall’impresa familiare, atteso che, in questo caso, pur trattandosi di un’impresa

individuale, è prevista una serie di diritti in capo ai familiari che collaborano con l’imprenditore.

Tra questi diritti, l’articolo 230-bis, cod. civ. prevede che al collaboratore familiare sia riconosciuta la

liquidazione dell’incremento di valore dell’azienda, registratosi nell’arco temporale durante il quale il

medesimo ha prestato il proprio lavoro in via continuativa24.

Si è posto, pertanto, il problema del corretto trattamento di tale liquidazione quando la stessa derivi

dalla cessazione dello status di collaboratore familiare proprio per l’avvenuta cessione dell’azienda,

ovvero se la plusvalenza realizzata in tale occasione debba essere imputata anche ai collaboratori

familiari dell’imprenditore individuale.

A tale riguardo, il Ministero delle finanze, con la nota n. 984/1997, si era espresso per la tesi secondo

la quale i collaboratori familiari devono essere assegnatari di una quota di plusvalenza in proporzione

alla qualità e quantità di lavoro prestato nell’impresa.

22 Per approfondimenti si veda S. Pellegrino, “Fattispecie particolari di applicazione dell’esenzione per i trasferimenti di aziende e partecipazioni”,

in La rivista delle operazioni straordinarie, n. 10/2016. 23 L’istituto dell’impresa familiare (articolo 230-bis, cod. civ.), prevede specifici diritti a favore dei collaboratori i quali, prestando la propria

opera prevalente e continuativa a supporto dell’attività del titolare, maturano specifici diritti all’imputazione, non solo dei redditi prodotti,

bensì anche alle eventuali somme ricavate dal trasferimento a terzi dell’intero compendio aziendale, anche in ordine all’avviamento. 24 Sulla questione si veda G. Valcarenghi, “Conseguenze fiscali della “circolazione” dell’impresa familiare”, in La rivista delle operazioni

straordinarie, n. 6/2016.

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39 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Tuttavia, con la successiva circolare n. 320/E/1997 (§ 2.7), seppure con riferimento alla fattispecie del

conferimento di azienda gestita in forma di impresa individuale, l’Amministrazione finanziaria aveva

precisato che la liquidazione attribuita ai collaboratori in occasione del conferimento di azienda non

avrebbe avuto rilevanza fiscale per gli stessi. Tale tesi è stata sostanzialmente confermata dalla

risoluzione n. 176/E/2008, con la quale l’Agenzia delle entrate ha affermato che l’attribuzione della

somma liquidata al collaboratore familiare, a titolo di quota ad esso spettante per l’incremento di valore

dell’azienda nel periodo di durata del rapporto, non costituisce in ogni caso presupposto imponibile in

capo al collaboratore uscente e non è deducibile dal reddito dell’ex impresa familiare.

A mettere in discussione una posizione ministeriale che sembrava ormai consolidata è intervenuta la

Cassazione che, con la sentenza n. 10017/2009, ha stabilito che le plusvalenze derivanti dalla cessione

di un’azienda gestita in regime di impresa familiare devono avere lo stesso trattamento previsto per i

redditi derivanti dall’esercizio della stessa, ovvero devono essere imputate ai singoli partecipanti a

prescindere dalla loro effettiva percezione.

Da ultimo, è nuovamente intervenuta l’Agenzia delle entrate con la risoluzione n. 78/E/2015, la quale,

discostandosi dalla posizione assunta dalla Cassazione, ha ribadito la rilevanza fiscale della plusvalenza

solo ed integralmente in capo al titolare, con conseguente assenza di proventi imputabili ai

collaboratori dell’impresa familiare.

Anche per quanto riguarda il conferimento in società di azienda gestita sotto forma di impresa familiare

si pone la questione del trattamento dei crediti dei familiari nei confronti dell’impresa, a norma

dell’articolo 230-bis, cod. civ., per gli incrementi di valore dell'azienda in proporzione alla quantità e

alla qualità del lavoro prestato.

Ci si chiede, in particolare, se, fermo restando che il conferimento dell’azienda è effettuato unicamente

dall’imprenditore individuale (unico proprietario della stessa), possano essere (separatamente) conferiti

in società anche i crediti vantati dai familiari25.

Questa operazione, infatti, consentirebbe ai familiari di divenire soci della società conferitaria, senza

esborso di denaro (e senza la preventiva liquidazione del loro credito).

Al riguardo la dottrina prevalente propende per considerare quello verso i familiari non come un debito

personale del titolare dell’impresa, bensì come un qualsiasi altro debito aziendale. A sostegno di

quest’ultima tesi, che risulta maggioritaria, vi è il fatto che il familiare presti la propria attività lavorativa

all’interno dell’impresa al fine di ottenere una futura liquidazione dei beni acquistati e dei relativi

25 Detti crediti, una volta conferiti, sarebbero oggetto di estinzione per confusione, in quanto la società conferitaria si troverebbe ad essere

titolare sia dei crediti, conferiti dai familiari, che dei rispettivi debiti, conferiti nell’ambito dell’azienda.

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40 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

incrementi così come, per converso, l’imprenditore benefici di tali prestazioni per una loro futura

liquidazione (con necessità di iscrivere il debito in oggetto nella contabilità della ditta individuale).

In tal senso il credito dei familiari sarebbe conferibile nella stessa società in cui viene conferita

l’azienda.

Tale tesi non è stata, tuttavia, condivisa dall’Amministrazione finanziaria che, con la risoluzione n.

176/E/2008, facendo riferimento alla precedente circolare n. 320/1997, ha precisato che, nell’ipotesi di

conferimento in società è il titolare dell’impresa familiare che acquisisce la partecipazione della società

conferitaria e dovrà liquidare i diritti di credito spettanti ai collaboratori familiari secondo le regole

civilistiche senza che da ciò derivino conseguenze fiscali in ordine al valore delle dette partecipazioni.

Anche in occasione della manifestazione “Telefisco 1998”, l’Agenzia delle entrate ha ribadito che il

debito verso i collaboratori non è dell'impresa, ma del titolare, per cui i collaboratori non diventano

creditori della società conferitaria, ma restano creditori del titolare26.

Rimangono comunque valide le opzioni alternative consistenti nella liquidazione del credito al

collaboratore familiare, il quale utilizzerà poi le somme ricevute per effettuare un conferimento in

denaro nella società, oppure la cessione delle quote della società conferitaria dal titolare al

collaboratore familiare, con pagamento effettuato mediante compensazione del credito vantato da

quest’ultimo verso il titolare.

Conclusioni

Nei paragrafi precedenti è stato evidenziato che ai fini del passaggio generazionale dell’impresa

individuale nei confronti di una pluralità di eredi, l’operazione che si presenta meno onerosa dal punto

di vista fiscale è quella che prevede il conferimento dell’azienda da parte dell’imprenditore individuale

in una società e il successivo trasferimento agli eredi delle partecipazioni nella società conferitaria,

mediante una cessione a titolo oneroso o mediante una donazione.

Invece, la cessione dell’azienda ad una società precostituita dagli eredi può essere conveniente dal

punto di vista fiscale soltanto se risultano di bassa entità sia la plusvalenza emergente in sede di

cessione, tassabile ai fini delle imposte sui redditi, sia il valore di mercato dell’azienda (al netto delle

passività), assoggettato ad imposta di registro proporzionale.

Il conferimento dell’azienda in società si presenta inoltre più agevole, dal punto di vista operativo,

rispetto all’ipotesi di donazione dell’azienda agli eredi e successiva “trasformazione” della comunione

26 Per approfondimenti si veda S. Gardini, “Il conferimento d’azienda con apporto di impresa familiare”, in La rivista delle operazioni straordinarie,

n. 12/2016.

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41 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

ereditaria in società commerciale, che pure è un’operazione da tenere in debita considerazione in

quanto anch’essa neutra ai fini delle imposte dirette ed indirette, ma che presuppone necessariamente

una passaggio generazionale interamente a titolo gratuito.

Invece, il conferimento d’azienda in società da parte dell’imprenditore individuale consente

all’imprenditore stesso sia l’opzione di realizzare il passaggio generazionale a titolo gratuito (mediante

donazione ai figli delle partecipazioni nella società conferitaria), sia a titolo oneroso (mediante cessione

ai figli delle partecipazioni nella società conferitaria), con applicazione del regime di parziale esenzione

(41,86%) delle plusvalenze (e azzeramento delle stesse in ipotesi di rideterminazione del valore delle

partecipazioni mediante imposta sostitutiva).

Tuttavia il conferimento d’azienda deve fare i conti con l’attuale situazione di incertezza normativa circa

la possibilità da parte dell’Amministrazione finanziaria di riqualificare l’intera operazione, ai fini

dell’imposta di registro, in cessione d’azienda, con conseguente applicazione dell’Imposta Registro in

misura proporzionale, oltre sanzioni ed interessi.

Tale problematica non si pone, invece, se le partecipazioni della società conferitaria sono oggetto di

donazione, anziché di cessione a titolo oneroso, in quanto, l’operazione sarebbe tutt’al più riqualificabile

in donazione d’azienda, la quale non è comunque soggetta ad imposta di registro in misura

proporzionale.

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La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

La nuova definizione di stabile

organizzazione “personale” contenuta

nell’Action 7 del Progetto Beps di Valerio Cirimbilla – avvocato

Marco Masi - dottore in giurisprudenza

Con l’approvazione del Report finale sull’Action 7 del Progetto Beps, l’Ocse ha modificato il

testo del § 5 dell’articolo 5 del Modello di Convenzione che, al fine di evitare illegittime

forme di elusione della tassazione nello Stato della fonte, renderà più facile la configurazione

della stabile organizzazione cosiddetta “personale”. Il che ovviamente dovrà essere tenuto

in forte considerazione dalle imprese multinazionali e nella strutturazione dei relativi

modelli di business. Particolare interesse, poi, continua ad avere il tema, sempre

particolarmente complesso, dell’attribuzione dei profitti alla stabile organizzazione

personale. Già al momento del lancio del Progetto Beps, nel luglio 2013, l’Ocse aveva programmato, tra le diverse

azioni di riforma e revisione dell’attuale Modello di Convenzione Ocse (di seguito, “Modello”), un

significativo intervento sulla definizione di stabile organizzazione al fine di prevenire l’utilizzo di

peculiari business model che consentivano di aggirarla1. In particolare, l’Ocse individuava 2 specifiche

forme di aggiramento della definizione di stabile organizzazione:

1. la progressiva trasformazione da parte delle imprese multinazionali delle società controllate estere

da distributori in commissionari, il cui modello consentirebbe una riduzione delle basi imponibili negli

Stati della fonte, senza che rispetto al modello di vendita dei distributori si riscontri un sostanziale

cambiamento delle funzioni svolte;2 e

2. la frammentazione delle attività in capo a più entità di un gruppo multinazionale al fine di beneficiare

delle “eccezioni” previste alla configurazione di una stabile organizzazione in caso di svolgimento di

attività preparatorie ed ausiliari.

1 Oecd Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting 7, pag. 19. 2 O. Salvini, “La nuova definizione di stabile organizzazione nel Beps”, in Rassegna Tributaria, n. 1/2016, pag. 76.

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Il Final Report dell’Action 7 “Preventing the Artificial Avoidance of Permanent Establishment Status” (di

seguito “Final Report”) affronta specificatamente tali criticità, proponendo, in particolare, alcune

modifiche all’attuale definizione di stabile organizzazione c.d. “personale” e alla nozione di “attività

preparatorie ed ausiliarie” codificate dall’articolo 5, § 4 e 5 del Modello e ai relativi paragrafi del

Commentario allo stesso articolo 5.

La nuova impostazione si ritiene debba essere vagliata con sempre maggiore attenzione dalle imprese

multinazionali, anche alla luce delle trasformazioni nei modelli di business che le stesse stanno

implementando. Come recentemente rilevato da Assonime3, infatti, le imprese che operano a livello

internazionale si caratterizzano sempre più per l’elevatissima specializzazione delle funzioni svolte da

ciascuna delle singole società del gruppo, le quali realizzano solo una delle attività tipiche dell’impresa

(ricerca, produzione, commercializzazione e vendita), laddove in passato ciascuna concentrava per

intero tutte le fasi dell’attività d’impresa.

Attuazione delle modifiche del Final Report

Come chiarito dallo stesso Final Report, le modifiche della definizione di stabile organizzazione e del

Commentario scaturite dai lavori svolti dall’Ocse nell’ambito dell’Action 7 hanno effetto solo per il

futuro4; pertanto, la nuova formulazione dell’articolo 5 e del relativo Commentario non sortisce alcuna

influenza sull’interpretazione delle precedenti versioni e dei trattati che avevano accolto tali versioni.

Il recepimento delle modifiche proposte dall’Ocse in seno al Progetto Beps è stato affidato ad uno

strumento pattizio multilaterale, la Multilateral Convention to Implement Tax Treaty Related Measures to

Prevent Base Erosion and Profit Shifting5 che avrà l’effetto di modificare simultaneamente tutte le

convenzioni bilaterali in vigore tra le Parti della stessa6.

La Convenzione Multilaterale è stata pubblicata sotto l’egida dell’Ocse il 24 novembre 2016 ed è stata

firmata il 7 giugno 2017 da quasi 70 paesi, tra cui l’Italia, ed entrerà in vigore il primo giorno del mese

successivo allo spirare dei 3 mesi dal deposito del quinto strumento di ratifica della stessa7. Con

3 Si veda Assonime, note e studi n. 17/2016 in cui si precisa anche che, si assiste oggi ad una cosiddetta “integrazione verticale” della struttura

del gruppo che si presenta come un’unica impresa sovranazionale al cui interno ogni entità locale svolge solo una piccola frazione del business

complessivamente considerato, a cui fa da contraltare la centralizzazione dei processi decisionali in organi centralizzati quali, ad esempio, i

cosiddetti “Group Management Committees” composti dai responsabili delle principali unità organizzative e dagli amministratori delegati delle

principali controllate, con compiti trasversali di valutazione e supporto nelle decisioni operative, al fine di consentire il rispetto della strategia

unitaria definita dalla società capogruppo. 4 Oecd Beps, Action 7 Final Report, Preventing the Artificial Avoidance of Permanent Establishment Status, § 4. 5 Anche la Commissione Europea aveva invitato, nel gennaio 2016, gli Stati membri ad inserire le nuove disposizioni dell’articolo 5 del Modello

nelle proprie convenzioni bilaterali (Raccomandazione (UE) 2016/136). Si veda E. TITO e G. GIUSTI, “La Commissione UE mette l’accento

sull’Action 6 e sull’Action 7 del Progetto Beps”, in Corriere Tributario, n. 17/2016, pag. 1289. 6 Articoli 1 e 2 della Convenzione Multilaterale. 7 Articolo 34, § 1, Convenzione Multilaterale.

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riferimento alle previsioni concernenti la stabile organizzazione8, la Convenzione avrà efficacia dal

periodo d’imposta successivo allo spirare dei 6 mesi dal giorno in cui è entrata in vigore per ciascuna

delle giurisdizioni interessate dalla convenzione bilaterale applicabile al caso concreto9.

Ciò posto, deve essere evidenziato come, in sede di sottoscrizione, l’Italia abbia formulato, tra le altre,

una “riserva” provvisoria all’articolo 12 della Convenzione che reca le modifiche all’articolo 5 del

Modello ora in argomento. Va detto che, ai sensi dell’articolo 28, § 2 della Convenzione, per essere

definitivamente efficaci, le riserve devono essere confermate dagli Stati che le hanno espresse in sede

di deposito dello strumento di ratifica. Pertanto, seppure risulta non del tutto comprensibile la logica

sottesa alla riserva (che è ben possibile che non verrà confermata), non può essere escluso che le

modifiche in parola non siano adottate direttamente dall’Italia10.

Da ultimo, va anche sottolineato che l’11 luglio 2017, l’Ocse ha pubblicato una bozza di modifiche che

si intende apportare tanto al Modello quanto al Commentario. Per quanto riguarda il Commentario

all’articolo 5, il testo delle novità da introdurre appare sostanzialmente conforme a quello approvato

con il Final Report, fatta salva la numerazione dei diversi paragrafi che risulta completamente diversa.

Nel prosieguo, tuttavia, anche in considerazione dello status di semplice proposta della suddetta bozza,

si farà riferimento alla numerazione recata nello stesso Final Report.

Le novità in tema di stabile organizzazione “personale”

Come anticipato, in materia di stabile organizzazione “personale”, l’Ocse ha inteso innanzitutto

contrastare quelle pratiche commerciali volte a sostituire i tradizionali modelli di business incentrati su

soggetti “distributori” direttamente controllati dall’impresa non residente con quelli che prevedono

l’impiego dei rapporti contrattuali di commissione (o di forme contrattuali equivalenti), i quali, a torto

o a ragione, vengono considerati un illegittimo aggiramento delle previsioni convenzionali sulla stabile

organizzazione personale.

Giova rammentare, in estrema sintesi, che ai sensi dell’attuale articolo 5, § 5 del Modello, costituisce

una stabile organizzazione “personale” la persona (fisica o giuridica) che, anche in assenza di alcuna

struttura materiale nel territorio dello Stato, abitualmente conclude contratti in nome e per conto di

8 Articoli 12-15, Convenzione Multilaterale. 9 Articolo 35, § 1, lettera b), Convenzione Multilaterale. 10 La perplessità nasce anche dalla constatazione che, come si vedrà meglio nel prosieguo, le modifiche apportate appaiano assolutamente in

linea con l’impostazione “sostanzialista” che la giurisprudenza italiana, per prima, ha avanzato con le (celebri) sentenze della Corte di

Cassazione concernenti il caso Philip Morris (n. 3367/2002, n. 3368/2002 e n. 3369/200, n. 7689/2002, n. 10925/2002, n. 17373/2002). Per

una accurata e dettagliata ricostruzione della posizione della giurisprudenza interna si veda P. Ruggiero, “La stabile organizzazione nella

giurisprudenza interna”, in La Stabile Organizzazione delle Imprese Industriali, a cura di S. Mayr e B. Santacroce, 2016, pag. 637 e ss..

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Tributi e accertamento fiscale

45 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

una impresa non residente, senza agire quale agente indipendente che opera nell’ambito del propria

ordinaria attività11.

Un accordo di commissione, come noto, si sostanzia nella vendita di prodotti da parte del

commissionario in nome proprio, ma per conto di altra impresa che rimane la proprietaria dei prodotti

venduti12. Secondo quanto nota il Final Report, attraverso tale accordo, un’impresa può vendere i propri

prodotti in un altro Paese senza configurare una stabile organizzazione (posto che il commissionario

agisce in nome proprio) alla quale i ricavi della vendita sarebbero imputati ed in capo alla quale i

medesimi sarebbero tassati. Il commissionario, infatti, non avendo la proprietà giuridica dei prodotti

venduti non può essere tassato sul ricavato della loro vendita, ma sulla sola remunerazione che

percepisce dall’impresa per la propria attività. Strategie simili, dunque, consentono che contratti di

vendita sostanzialmente negoziati in uno Stato non siano ivi conclusi, in quanto formalmente

autorizzati e finalizzati in un altro Stato.

Altra forma di aggiramento della definizione di stabile organizzazione “personale”, secondo l’Ocse,

contempla la qualificazione della persona che abitualmente esercita l’autorità di concludere i contratti

quale “agente indipendente”, figura alla quale si applica la previsione del § 6 dell’articolo 5 del Modello,

che esclude espressamente l’esistenza di una stabile organizzazione laddove l’agente che agisce nel

corso ordinario della propria attività sia indipendente dall’impresa estera13.

A fronte di queste pratiche ritenute elusive della definizione di stabile organizzazione, le misure messe

in campo dall’Ocse nel Final Report ruotano attorno al principio cardine a mente del quale, ogniqualvolta

un intermediario svolge in uno Stato attività dirette alla regolare conclusione di contratti alla cui

esecuzione è obbligata un’impresa ivi non residente, deve ritenersi che quest’ultima possieda un

collegamento con tale Stato sufficiente a giustificare l’imposizione in tale Stato (“sufficient taxable

nexus”), salvo che, in ogni caso, l’intermediario non si qualifichi effettivamente quale “agente

indipendente” i cui criteri di determinazione sono stati comunque modificati14.

11 Così recita l’attuale § 5: “Notwithstanding the provisions of paragraphs 1 and 2, where a person — other than an agent of an independent

status to whom paragraph 6 applies — is acting on behalf of an enterprise and has, and habitually exercises, in a Contracting State an authority

to conclude contracts in the name of the enterprise, that enterprise shall be deemed to have a permanent establishment in that State in

respect of any activities which that person undertakes for the enterprise, unless the activities of such person are limited to those mentioned

in paragraph 4 which, if exercised through a fixed place of business, would not make this fixed place of business a permanent establishment

under the provisions of that paragraph”. La formulazione recata dal comma 6 dell’articolo 162, Tuir è sostanzialmente identica, salvo che per

la precisazione secondo la quale i i contratti conclusi dall’agente dipendente devono essere “diversi da quelli di acquisto di beni”. 12 Nel nostro ordinamento l’articolo 1731, cod. civ. definisce il contratto di commissione come “un mandato che ha per oggetto l'acquisto o la

vendita di beni per conto del committente e in nome del commissionario”. 13 Così recita l’attuale § 6 “An enterprise shall not be deemed to have a permanent establishment in a Contracting State merely because it

carries on business in that State through a broker, general commission agent or any other agent of an independent status, provided that such

persons are acting in the ordinary course of their business”. 14 Oecd Beps, Action 7 Final Report, Preventing the Artificial Avoidance of Permanent Establishment Status, § 9.

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46 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Più in dettaglio, con le modifiche apportate al testo del § 5 dell’articolo 5, da un lato, viene introdotto

il riferimento al concetto del ruolo decisivo nella conclusione dei contratti sottoscritti senza materiali

modificazioni dall’impresa non residente (“the principal role leading to the conclusion of contracts that are

rutinely concluded without material modification”), dall’altro, il requisito della spendita del nome

dell’impresa estera non viene più considerato quale elemento decisivo per la configurazione della

stabile organizzazione, rappresentando ora solo uno delle 3 alternative fattispecie idonee a configurarla

(fermo restando che, in ogni caso, l’agente deve agire per conto dell’impresa non residente).

Secondo la nuova formulazione, infatti, i contratti sottoscritti per effetto dell’intervento dell’agente

dipendente, devono essere alternativamente:

a) conclusi direttamente “in nome” dell’impresa non residente; oppure

b) finalizzati a trasferire la proprietà o il diritto di uso di beni sui quali l’impresa non residente ha il

diritto di proprietà o il diritto di uso; oppure

c) finalizzata alla prestazione di servizi da parte dell’impresa non residente.

Pur ricorrendo tutte queste circostanze, tuttavia, le attività svolte da un soggetto per conto di un’impresa

non residente non configurerebbero una stabile organizzazione ove fossero limitate a quelle attività (a

carattere preparatorio o ausiliario) che, se esercitate attraverso un base fissa di affari, non darebbero

luogo ad una stabile organizzazione “materiale” ai sensi del § 4 dello stesso articolo 515.

Per effetto della nuova definizione, dunque, anche il commissionario che agisce senza spendere il nome

dell’impresa non residente potrà configurare una stabile organizzazione personale di quest’ultima posto

che, nella normalità dei casi, lo stesso svolge abitualmente un ruolo decisivo (principal role leading)

nella stipulazione di contratti che vengono poi firmati senza sostanziali modifiche dalla stessa impresa

estera per il trasferimento di beni.

Non a caso, il nuovo § 32.7 del Commentario all’articolo 5, chiarisce che lo scopo della inclusione delle

menzionate tre diverse fattispecie è proprio quello di garantire che il § 5 venga applicato non solo ai

contratti che generano diritti e obblighi direttamente in capo all’impresa estera (come succederebbe

qualora l’agente agisse in forza di un mandato con rappresentanza), ma anche a quelle ipotesi nelle

quali le obbligazioni contrattuali vengono sostanzialmente eseguite dall’impresa estera e non dal

15 Questo il nuovo testo del § 5: “Notwithstanding the provisions of paragraphs 1 and 2 but subject to the provisions of paragraph 6, where a

person is acting in a Contracting State on behalf of an enterprise and, in doing so, habitually concludes contracts, or habitually plays the

principal role leading to the conclusion of contracts that are routinely concluded without material modification by the enterprise, and these

contracts are a) in the name of the enterprise, or b) for the transfer of the ownership of, or for the granting of the right to use, property owned

by that enterprise or that the enterprise has the right to use, or c) for the provision of services by that enterprise, that enterprise shall be

deemed to have a permanent establishment in that State in respect of any activities which that person undertakes for the enterprise, unless

the activities of such person are limited to those mentioned in paragraph 4 which, if exercised through a fixed place of business, would not

make this fixed place of business a permanent establishment under the provisions of that paragraph”.

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soggetto che le ha formalmente assunte sottoscrivendo il contratto in proprio nome (come nel caso del

commissionario appunto)16.

Il nuovo § 32.5, inoltre, precisa che la frase “the principal role leading to the conclusion of contracts that

are rutinely concluded without material modification” riguarda proprio le situazioni in cui la conclusione

dei contratti rappresenta il diretto risultato dell’attività svolta da un soggetto nel territorio dello Stato

per conto di un’impresa non residente, anche se il contratto stesso non è formalmente concluso in

quello Stato. In altri termini, è necessario corroborare il dato prettamente formale della sottoscrizione

del contratto con un’indagine circa la sostanza delle attività concretamente svolte dall’agente, cosicché

assumano rilevanza anche i contratti che siano diretta conseguenza di quella stessa attività (anche se

viene considerato formalmente stipulato in un altro Stato).

L’attività dell’agente che porta alla conclusione di contratti, inoltre, deve svolgersi con continuità e non

sporadicamente o in casi isolati17. Ciò riflette uno dei principi fondamentali dell’articolo 5 del Modello

Ocse: l’impresa deve mantenere una presenza nello Stato estero più che meramente transitoria, a

seconda del tipo di attività espletata, affinché possa parlarsi di stabile organizzazione e, quindi, di

“presenza tassabile”.

L’Ocse fornisce anche una interpretazione dell’espressione “on behalf of an eneterprise” la quale

racchiude un altro requisito indispensabile alla configurazione della stabile organizzazione. Il nuovo §

32.3 del Commentario, infatti, considera esistente il potere dell’agente di agire “per conto” dell’impresa

estera quando lo stesso risulti in grado di coinvolgerla in una ben determinata misura nell’attività svolta

nell’altro Stato. Tale livello minimo di coinvolgimento deve essere almeno pari a quello che si

riscontrerebbe nelle ipotesi del mandatario che agisce per conto del mandante, ovvero del socio o

dell’amministratore che agisce per la società ovvero ancora dell’impiegato che agisce per il datore di

lavoro. Tale livello minimo, pertanto, deve essere in grado di far sorgere diritti e obblighi direttamente

in capo all’impresa non residente, da un lato, e alle parti terze, dall’altro, senza che nessun obbligo

16 Il § 32.8 del Commentario all’articolo 5 risulta ancora più esplicito: “A typical example would be the contracts that a “commissionnaire”

would conclude with third parties under a commissionnaire arrangement with a foreign enterprise pursuant to which that commissionnaire

would act on behalf of the enterprise but in doing so, would conclude in its own name contracts that do not create rights and obligations that

are legally enforceable between the foreign enterprise and the third parties even though the results of the arrangement between the

commissionnaire and the foreign enterprise would be such that the foreign enterprise would directly transfer to these third parties the

ownership or use of property that it owns or has the right to use”. Va anche rilevato come il successivo § 32.9 contenga un chiarimento

verosimilmente rivolto ai Paesi di common law che contemplano le ipotesi del cosiddetto “undisclosed principal”, vale a dire l’agente che, pur

agendo in nome di un principal ha la facoltà di astenersi dal dichiararne l’identità al contraente. Ebbene, il Commentario opportunamente

precisa che l’espressione “in the name of” non deve intendersi riferita ai soli contratti che sono letteralmente conclusi in nome di una impresa

non residente, ma anche a quelle particolari situazioni in cui il nome del principal non viene esplicitato nel contratto scritto. Sulle difficoltà

interpretative del § 5 dovute alle differenze esistenti tra i sistemi di common law e di civil law si veda P. Ruggiero, op. cit., pag. 649 e ss.. 17 Commentario all’articolo 5 del Modello Ocse, § 32.

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48 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

sorga in capo all’agente, in quanto il contratto deve essere adempiuto dall’impresa non residente per la

quale egli agisce18.

Anche l’espressione “conclusion of contracts” viene fatta oggetto di uno specifico chiarimento, laddove

viene precisato che deve aversi riguardo ai i tempi e i modi stabiliti dal diritto contrattuale di ciascuno

Stato. Tuttavia, in generale, un contratto può considerarsi concluso in un determinato Stato, anche se

poi lo stesso viene formalmente firmato all’estero, qualora siano stati negoziati nel primo Stato tutti gli

elementi e i dettagli dello stesso in maniera vincolante per il soggetto finalizzatore.

Per esercizio abituale dell’attività principale che porta alla conclusione di contratti, poi, deve intendersi

l’attività nella quale un soggetto agisce come forza-vendite dell’impresa non residente19. Tipicamente,

tale attività consiste nell’opera di convincimento di una parte terza a entrare in un rapporto contrattuale

con l’impresa (e.g. sollecito e ricezione di ordini che sono immediatamente girati agli stabilimenti dove

l’impresa approva ordinariamente le transazioni e da dove le merci di proprietà dell’impresa sono

spedite agli acquirenti), mentre non ricomprende la mera attività promozionale e di marketing. Proprio

al riguardo, il Commentario fa espressamente l’esempio dei rappresentanti delle imprese farmaceutiche,

i quali pubblicizzano il prodotto presso i medici che, a loro volta, prescrivono quel determinato prodotto

ai pazienti. In questo caso, il rappresentante non può costituire una stabile organizzazione personale

dell’impresa farmaceutica, in quanto la conclusione del contratto (con il paziente) non può essere

concretamente ricondotta alla sua attività nel territorio dello Stato.

Un chiarimento estremamente importante - anche alla luce delle contestazioni che sono state mosse

in passato a tale tipologia di business model – riguarda, infine, i cosiddetti “low-risk distributor”, ossia i

soggetti che vendono i prodotti acquistati dall’impresa non residente senza assumere rischi specifici

quali, in particolare, quelli di magazzino. In queste ipotesi, precisa il Commentario, posto che il

distributore agisce in nome proprio e per proprio conto, vendendo direttamente beni di cui ha acquisito

la proprietà, non è mai idoneo a configurare una stabile organizzazione personale dell’impresa non

residente che produce quei beni. Tale conclusione, tuttavia, resta valida solo nella misura in cui la

remunerazione del distributore sia data dalla differenza tra il prezzo di acquisto e quello di rivendita

dei beni. Se, infatti, il distributore si limitasse, ad esempio, a lucrare una commissione sulle vendite

effettuate, allora la sua attività potrebbe essere riqualificata come quella di un mero agente e non di

una impresa distributrice20. L’effettività del fatto che un soggetto concluda contratti ovvero svolga

18 Commentario all’articolo 5 del Modello, § 32.10. 19 Commentario all’articolo 5 del Modello, § 32.5. 20 Commentario all’articolo 5 del Modello, § 32.12.

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l’attività principale che porta alla loro conclusione deve essere determinata in relazione ad un’analisi

specifica della realtà commerciale e delle singole situazioni, non risultando sufficiente di per sé la sola

partecipazione del soggetto alle negoziazioni, ma dovendosi guardare le reali funzioni svolte in tale

contesto21.

L’agente indipendente

Come anticipato il Final Report riformula anche il testo del § 6 dell’articolo 5 del Modello che, come

noto, svolge la funzione di escludere la configurazione della stabile organizzazione personale quando

l’agente agisca in modo “indipendente” dall’impresa estera e nell’ambito della propria ordinaria attività

di impresa (anche se possiede il potere di concludere contratti in nome e per conto dell’impresa

estera)22. In tal caso, infatti, l’agente costituisce un’impresa del tutto autonoma da quella non residente

della quale non potrà costituire una diramazione.

La formulazione del § 6 sino ad oggi in vigore si limitava ad escludere la stabile organizzazione personale

in tutti i casi in cui l’impresa non residente agiva nell’altro Stato attraverso un broker, un commissionario

generale o un agente indipendente che operavano nell’ambito della loro ordinaria attività.

Nella versione riformulata dal Final Report, lo stesso paragrafo viene suddiviso in 2 sotto paragrafi23.

Nel primo (lettera a), da un lato, si conferma la non rilevanza degli agenti indipendenti dall’impresa

estera che, pur agendo per conto dell’impresa non residente, esercitano tale potere nel corso della loro

attività di impresa, dall’altro lato, si precisa che, quando l’agente indipendente opera esclusivamente, o

quasi esclusivamente, per una o più imprese straniere alle quali è strettamente collegato (“closely

related”), il requisito della indipendenza si considera non esistente24.

Il secondo sotto paragrafo (lettera b), invece, chiarisce quando un soggetto deve considerarsi closely

related con un altro (con la conseguenza che l’eccezione della lettera a) non si rende applicabile)25. In

particolare, ciò si verifica quando, sulla base di fatti e delle circostanze rilevanti, un soggetto:

1. possiede il controllo dell’impresa non residente;

21 Commentario all’articolo 5 del Modello, § 33. 22 Il testo del paragrafo attualmente in vigore è il seguente: “An enterprise shall not be deemed to have a permanent establishment in a

Contracting State merely because it carries on business in that State through a broker, general commission agent or any other agent of an

independent status, provided that such persons are acting in the ordinary course of their business”. 23 Va notato che nella bozza di aggiornamento del Modello pubblicata l’11 luglio 2017, non è stata mantenuta la tecnica dei sottoparagrafi, in

quanto la parte recata nella lettera a) è stata inserita nel § 6 dell’articolo 5, mentre il contenuto della lettera b) è stato incluso nel successivo

§ 8 (il § 7, invece, è rimasto immutato). 24 “Paragraph 5 shall not apply where the person acting in a Contracting State on behalf of an enterprise of the other Contracting State carries

on business in the first mentioned State as an independent agent and acts for the enterprise in the ordinary course of that business. Where,

however, a person acts exclusively or almost exclusively on behalf of one or more enterprises to which it is closely related, that person shall

not be considered to be an independent agent within the meaning of this paragraph with respect to any such enterprise”. 25 È utile sottolineare come il § 38.9 del Commentario all’articolo 5, precisi chiaramente che il concetto di “person closely related to an enterpise”

deve distinguersi da quello di “associated enterprises” di cui all’articolo 9 del Modello che, come noto, assume rilievo ai fini del transfer pricing.

Sebbene siano espressioni per certi versi simili, le stesse non devono dunque considerarsi equivalenti.

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2. è controllato dall’impresa non residente; ovvero

3. è controllato dallo stesso soggetto che controlla l’impresa non residente.

In ogni caso, tale rapporto si considera sussistere ove il controllo (come aggregato della percentuale

dei diritti di voto e di partecipazione al capitale della società) superi il 50%26.

L’indipendenza o meno dell’agente discende direttamente dall’estensione degli obblighi che il soggetto

ha nei rapporti con l’impresa non residente. Secondo quanto chiarisce il Commentario, qualora lo

svolgimento dell’attività dell’agente è soggetto alle direttive dettagliate da parte dell’impresa o al suo

pervasivo controllo, difficilmente l’agente potrà considerarsi indipendente, così come difficilmente sarà

considerato indipendente colui che non sopporti in proprio il rischio imprenditoriale dell’attività che

svolge. L’agente risulta effettivamente indipendente, infatti, solo quando è del tutto libero nella scelta

delle modalità di attuazione e dei mezzi impiegati nell’esecuzione dell’attività richiestagli.

Normalmente, pur assumendo direttamente la responsabilità della propria attività nei confronti del

principal, l’agente indipendente non è soggetto ad alcun controllo e non è obbligato a seguire le

direttive impartite dal principal stesso, il quale si affida alle peculiari caratteristiche dell’agente27.

Circostanza di rilievo (anche se non decisiva) è rappresentata, poi, dal numero di imprese per cui l’agente

agisce. È evidente, infatti, che più sono i soggetti rappresentati, maggiori sono le probabilità che

l’agente svolga autonomamente da ciascuno di essi la propria attività imprenditoriale. Tuttavia,

sottolinea il Commentario, la dipendenza dell’agente potrebbe comunque sussistere laddove fosse

dimostrabile che i diversi principal agiscono in modo coordinato tra loro, così da controllare gli atti e il

lavoro dell’agente28.

Il secondo requisito indispensabile per escludere la configurazione della stabile organizzazione

personale è la circostanza che l’agente indipendente agisca nell’ambito della propria attività tipica, nel

senso che l’attività svolta per l’impresa non residente deve essere connessa a quella tipica dell’agente.

Come visto, l’ultima parte della lettera a) prevede che non si consideri indipendente il soggetto che

agisce esclusivamente (o quasi esclusivamente) per una o più imprese con le quali è strettamente

collegato. Si pone, quindi, una presunzione di dipendenza che, a nostro avviso, dovrebbe sempre

26 “For the purposes of this Article, a person or enterprise is closely related to an enterprise if, based on all the relevant facts and circumstances,

one has control of the other or both are under the control of the same persons or enterprises. In any case, a person or enterprise shall be

considered to be closely related to an enterprise if one possesses directly or indirectly more than 50 per cent of the beneficial interest in the

other (or, in the case of a company, more than 50 per cent of the aggregate vote and value of the company’s shares or of the beneficial equity

interest in the company) or if another person or enterprise possesses directly or indirectly more than 50 per cent of the beneficial interest (or,

in the case of a company, more than 50 per cent of the aggregate vote and value of the company’s shares or of the beneficial equity interest

in the company) in the person and the enterprise or in the two enterprises”. 27 Commentario all’articolo 5 del Modello, § 38.1. 28 Sugli orientamenti di alcune corti di merito, di poco anteriori alla pubblicazione del Final Report, si vedano E. Della Valle, “Per la stabile

organizzazione occulta deve essere accertata la dipendenza soggettiva - Stabile organizzazione e Commissionario”, in GT-Rivista di

Giurisprudenza Tributaria n. 5/2017, pag. 455 e ss. e A. Della Carità e V. Perrone, “Commissionario monomandatario e stabile organizzazione:

un modello in cerca di definizione”, in Fiscalità & Commercio Internazionale, n. 5/2017, pag. 13-18.

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Tributi e accertamento fiscale

51 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

consentire la prova contraria. Nulla impedisce, ci pare, che un agente operari in via del tutto

indipendente ed autonoma dalle imprese committenti a cui pure è closely related. Non a caso, peraltro,

il Commentario tiene a precisare che l’esclusione in parola non opera automaticamente laddove

l’agente agisca per una o più imprese con le quali non è strettamente collegato29. Uno spunto in tal

senso potrebbe essere colto anche dal § 38.12 del Commentario ove si precisa che la circostanza che

tanto l’ultima parte della lettera a) quanto l’intera lettera b) contemplino l’ipotesi della società che

controlla (ovvero è controllata da) un’altra società non limita in alcun modo la previsione del § 7

dell’articolo 5 che, come noto, esclude l’automatica configurazione di una stabile organizzazione

personale nei casi di relazione parent-subsidiary30. È, infatti, ben possibile che la società controllata

agisca quale agente dipendente della controllante. Ciò, tuttavia, non significa che la relazione

controllante-controllata sia sufficiente a considerare automaticamente soddisfatti i requisiti comunque

richiesti dall’articolo 5.

Attribuzione del reddito alla stabile organizzazione personale

Da ultimo, ci pare opportuno evidenziare come il nuovo § 35.1 del Commentario si soffermi su un

aspetto come quello dell’attribuzione dei profitti alla stabile organizzazione che, a rigor di logica, non

dovrebbe attenere gli aspetti meramente qualificatori della stabile organizzazione propri dell’articolo

5. Il paragrafo, in particolare, sottolinea che, benché uno degli effetti dell’applicazione del § 5,

dell’articolo 5 sia quello di attribuire alla stabile organizzazione i diritti e gli obblighi derivanti dai

contratti conclusi, tuttavia, “ciò non significa che tutti i profitti derivanti dall’esecuzione di tali contratti

siano attribuibili alla stabile organizzazione”. È appena il caso di rammentare, infatti, che il reddito

attribuibile alla stabile organizzazione deve essere determinato seguendo le regole dell’articolo 7 del

Modello, il che significa, tra l’altro, che il profitto attribuibile è pari a quello che “avrebbe generato se

fosse una impresa separata e indipendente che svolge le medesime attività che il § 5 attribuisce alla stabile

organizzazione”31.

29 Commentario all’articolo 5 del Modello Ocse (nuova formulazione), § 38.7. 30 “The fact that a company which is a resident of a Contracting State controls or is controlled by a company which is a resident of the other Contracting

State, or which carries on business in that other State (whether through a permanent establishment or otherwise), shall not of itself constitute either

company a permanent establishment of the other”. 31 “The determination of the profits attributable to a permanent establishment resulting from the application of paragraph 5 will be governed by the

rules of Article 7; clearly, this will require that activities performed by other enterprises and by the rest of the enterprise to which the permanent

establishment belongs be properly remunerated so that the profits to be attributed to the permanent establishment in accordance with Article 7 are

only those that the permanent establishment would have derived if it were a separate and independent enterprise performing the activities that

paragraph 5 attributes to that permanent establishment”.

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Il Final Report, dunque, ha ritenuto di dover inserire nella nuova formulazione del Commentario

all’articolo 5 una precisazione che risulta del tutto pleonastica e fuori contesto, ma che evidentemente

risulta tesa a evitare quelle interpretazioni (seguite molto di frequente in particolare dalle

Amministrazioni finanziarie) che tendono (erroneamente) ad attribuire l’intero o la maggior parte del

reddito derivante dai contratti conclusi dall’agente all’agente stesso, rammentando anche in tale

contesto un principio fondamentale nella tassazione dei redditi di impresa transnazionali.

Si è dell’avviso, che, nella allocazione dei diritti impositivi tra lo Stato della fonte e quello della

residenza sui redditi di impresa, il ruolo centrale debba essere attribuito alla previsione dell’articolo 7

del Modello (che stabilisce le regole da seguire per l’attribuzione del reddito alla stabile organizzazione)

piuttosto che all’articolo 5. Proprio alla luce di tale considerazione, dunque, si deve ritenere che le

novità appena commentate non saranno in grado di soddisfare in pieno le esigenze, esplicitamente

manifestate da alcuni Stati, di partecipare maggiormente alla tassazione dei profitti generati in

particolare dalle imprese operanti nella cosiddetta “economia digitale”.

Invero, giova rammentare che, proprio in materia di attribuzione dei profitti alla stabile organizzazione,

si sono succeduti 2 specifici report dell’Ocse “Report on the Attribution of Profits to Permanent

Establishments” nel 2008 e nel 2010, i cui risultati sono sfociati nella modifica del Commentario

all’articolo 7 apportate nel 2010.

In estrema sintesi, l’impostazione accolta ed esplicitata nell’articolo 732 è quella che segue il modello

del “single entity approach” secondo cui, nella determinazione del reddito, è necessario operare una vera

e propria finzione che conduca ad ipotizzare la stabile organizzazione quale impresa distinta ed

indipendente dalla casa madre che, per tale ragione, opera nei rapporti con la stessa casa madre (o con

altre imprese consociate) secondo il principio dell’arm’s length così come delineato nelle Transfer Pricing

Guidelines (il cosiddetto Authorized Oecd Approach o “Aoa”). Il reddito attribuibile alla stabile

organizzazione, quindi, coincide con quel reddito che sarebbe stato conseguito da una impresa

autonoma e indipendente che svolge le stesse funzioni, impiega i medesimi assets e assume gli stessi

rischi della stabile organizzazione. In conseguenza di tale approccio, la determinazione del reddito deve

essere necessariamente preceduta da un’analisi funzionale e fattuale (functional and factual analysis), da

32 Il § 2 dell’articolo 7 del Modello prevede “the profits that are attributable in each Contracting State to the permanent establishment referred

to in paragraph 1 are the profits it might be expected to make, in particular in its dealings with other parts of the enterprise, if it were a

separate and independent enterprise engaged in the same or similar activities under the same or similar conditions, taking into account the

functions performed, assets used and risks assumed by the enterprise through the permanent establishment and through the other parts of

the enterprise”.

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Tributi e accertamento fiscale

53 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

condurre secondo le TP Guidelines, finalizzata proprio ad individuare quali siano in concreto le funzioni

svolte, i beni utilizzati e i rischi assunti tanto dalla casa madre quanto dalla stabile organizzazione33.

Con riferimento alla stabile organizzazione personale, poi, valgono considerazioni del tutto specifiche

in ragione delle peculiarità che la caratterizzano. Una sezione dei suddetti Report, infatti, è

espressamente dedicata alle modalità di applicazione dell’Aoa all’agente dipendente34. In tali sezioni si

sottolinea, tra l’altro, come l’analisi fattuale e funzionale debba essere tesa anche ad individuare quanta

parte dell’attività dell’agente dipendente viene svolta per proprio conto (e quindi per la propria impresa)

e quanta per conto della casa madre35. Ciò segnatamente in quanto dal reddito della stabile

organizzazione deve essere dedotto il costo dei servizi che l’agente stesso presta nei confronti della

casa madre36. E proprio in conseguenza di tale deduzione che i Report dell’Ocse si interrogano

addirittura sulla possibilità che residui un reddito da attribuire all’agente dipendente. La conclusione a

cui si giunge è che la risposta dipende sostanzialmente dagli esiti dell’analisi fattuale e funzionale del

caso concreto, con ciò ammettendo che il reddito dell’agente ben potrebbe risultare del tutto irrilevante

se non nullo37. Circostanza, questa, peraltro chiaramente esplicitata dal Report del 2008, laddove, nello

spiegare i motivi che hanno portato a prevedere una specifica sezione dedicata alla stabile

33 L’impostazione in parola, peraltro, è integralmente recepita nell’ordinamento italiano ed ora espressamente esplicitato dell’articolo 152,

Tuir radicalmente modificato introdotte dal D.Lgs. 147/2015 (rubricato “Reddito di società ed enti commerciali non residenti derivante da attività

svolte nel territorio dello Stato mediante stabile organizzazione”). In particolare, il secondo comma prevede espressamente che, al fine di

determinare il reddito, “la stabile organizzazione si considera entità separata e indipendente, svolgente le medesime o analoghe attività, in condizioni

identiche o similari, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati”.

La Relazione Illustrativa al D.Lgs. 147/2015, peraltro, è assolutamente esplicita nell’affermare che il comma 2 in argomento “conferma ed

esplicita l’applicazione del principio/finzione elaborato in ambito Ocse che vede la stabile organizzazione quale “functionally separate entity”,

impresa indipendente, distinta e separata dalla casa madre da cui promana, operante sul libero mercato, in condizioni identiche o similari.

Tale comma, dunque, conferma che il reddito attribuibile alla stabile organizzazione, così come l’entità del fondo di dotazione, sia quello che

scaturisce dall’analisi funzionale e fattuale volta ad individuare le funzioni svolte, i rischi assunti e i beni impiegati secondo un approccio di

assoluta centralità in ambito Ocse e nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni, espresso nell’articolo 7 del modello Convenzione Ocse e

declinato nel Report sull’attribuzione di utili e perdite alla stabile organizzazione (versioni 2008 e 2010) elaborato sempre in ambito Ocse”. 34 § da 263 a 283 del Report del 2008. 35 È appena il caso di rammentare che il reddito prodotto non va imputato all’agente dipendente (che, in linea di principio, già viene tassato

nello Stato della fonte), ma alla casa madre non residente che agisce nello Stato della fonte attraverso il “patrimonio separato” che è dentro

l’agente dipendente (si veda G.FORT, La determinazione del reddito della stabile organizzazione secondo il Tuir e il modello Ocse, in La Stabile

Organizzazione cit., 2016, pag. 468). 36 Il § 270 del Report del 2008 è molto chiaro al riguardo: “In calculating the profits attributable to the dependent agent PE it would be

necessary to determine and deduct an arm’s length reward to the dependent agent enterprise for the services it provides to the non-resident

enterprise (taking into account its assets and its risks if any)”. 37 “Issues arise as to whether there would remain any profits to be attributed to the dependent agent PE after an arm’s length reward has been

given to the dependent agent enterprise. In accordance with the principles outlined above (and illustrated in the example below) the answer

is that it depends on the precise facts and circumstances as revealed by the functional and factual analysis of the dependent agent and the

non-resident enterprise. However, the authorised OECD approach recognises that it is possible in appropriate circumstances for such profits

to be attributed to the dependent agent PE”. Il Report sul punto rigetta espressamente l’impostazione, sostenuta da alcuni e definita “single

taxpayer approach” ovvero “zero sum game”, a mente della quale il reddito imponibile delle stabili organizzazioni di cui all’articolo 5 (§ 5) del

Modello deve ritenersi essere sempre pari a zero, posto che nessun altro reddito sarebbe ad esse attribuibile dopo la determinazione arm’s

length della remunerazione dei servizi prestati dall’impresa dell’agente. Diverse sono le ragioni addotte nel Report per rigettare l’approccio

tra le quali spicca quella per cui lo stesso renderebbe nella sostanza del tutto inutile e privo di qualsivoglia effetto lo stesso § 5 dell’articolo

5 (si vedano i § da 271 a 275 del Report del 2008). La dottrina, invece, si è dimostrata favorevole all’applicazione di detto principio: tra gli altri

P. Baker, R. Collier, 2008 Oecd Model, Changes to the Commentary on Article 7 and the Attribution of Profits to Permanent Establishments, in

Bulletin For International Taxation, Ibfd, May/June 2009.

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Tributi e accertamento fiscale

54 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

organizzazione personale, precisa che la scelta risulta finalizzata ad evitare che si affermi la prassi di

allocare in modo automatico alla stabile organizzazione tutti i profitti generati dai contratti conclusi

attraverso l’attività dell’agente dipendente, sottolineando anche che non esiste alcuna presunzione

assoluta che i profitti siano da allocare integralmente alla stabile38.

Sul punto, è bene notare che, proprio a seguito dell’approvazione del Final Report e delle modifiche

apportate all’articolo 5 del Modello, l’Ocse ha ritenuto opportuno fornire ulteriori precisazioni

sull’applicazione dell’Aoa alla stabile organizzazione personale, nonostante fosse stato riconosciuto

espressamente che non sarebbe stato necessario apportare radicali modificazioni alle indicazioni già

fornite. Il 4 luglio 2016 è stato pubblicato un Public Discussion Draft dal titolo Additional Guidance on

the Attribution of Profit to Permanent Establishments, al quale è seguito un secondo dal medesimo titolo

pubblicato il 22 giugno 2017.

Il § 19 del Discussion Draft ribadisce il concetto secondo cui elemento chiave nella determinazione del

reddito è rappresentato dalla corretta quantificazione della retribuzione dell’agente dipendente che

deve essere dedotta dal reddito della stabile organizzazione, con la conseguenza che il reddito tassabile

in capo a quest’ultima può anche essere pari a zero o addirittura negativo. Se infatti, continua lo stesso

Discussion Draft, l’analisi funzionale e fattuale evidenzia che tutti i rischi della transazione sono

sopportati dall’impresa dell’agente, allora il reddito della stabile organizzazione sarà minimo o,

addirittura, nullo39. Significativo al riguardo appare uno dei (molti) esempi numerici riportati nel

Discussion Draft del giugno 201640 (non riproposto, tuttavia, nella versione pubblicata nel giugno 2017)

che, per ragioni di spazio, non possiamo riportare per intero ma che, in estrema sintesi, riguarda l’ipotesi

dell’agente dipendente che per l’attività svolta per la casa madre non sopporta alcun rischio e non gli

viene attribuito alcun asset in ragione delle funzioni svolte. Proprio per tale ragione, il risultato a cui

giunge l’esempio è che nessun reddito può essere attribuito alla stabile organizzazione personale.

In conclusione, la riflessione che si vuole porre all’attenzione verte sull’effettiva utilità

dell’“abbassamento” dei limiti minimi per la configurazione di una stabile organizzazione personale che

il Progetto Beps ha apportato, posto che può risultare frequente l’ipotesi che il reddito attribuibile alla

stessa stabile organizzazione personale sia minimo (se non addirittura inesistente)41. Si pensi, ad

38 § 264 del Report del 2008. 39 “Depending on the facts and circumstances of a given case, the net amount of profits attributable to the PE may be either positive, nil or

negative (i.e., a loss). In particular, when the accurate delineation of the transaction under the guidance of Chapter I of the TPG indicates that

the intermediary is assuming the risks of the transactions of the non-resident enterprise, the profits attributable to the PE could be minimal

or even zero”. 40 Pag. da 9 a 13 del documento. 41 Significative al riguardo appaiono le parole di H. PIJL, The Zero-Sum Game, the Emperor’s Beard and the Authorized Oecd Approach, in

European Taxation, Ibfd, 46/2006, pag. 29 e ss. secondo cui “if the remuneration received by the agent from the enterprise is at arm’s length

…, then the remuneration received by the PE in respect of these functions in the context of Art. 7 of the OECD Model is equal to the same

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esempio, alla figura del commissionario che, a seguito delle descritte modifiche all’articolo 5 (§ 5), potrà

costituire una stabile organizzazione del principal: prima lo Stato della fonte tassava la commissione

che spettava al commissionario determinata ad arm’s length. Dopo le modifiche, e considerato che nella

normalità dei casi il commissionario non svolge funzioni ulteriori e non assume rischi che non siano già

retribuiti dalla suddetta commissione, ci si chiede quale potrebbe essere l’ulteriore reddito che lo Stato

della fonte avrebbe effettivamente il diritto di assoggettare a tassazione.

Proprio in virtù di tali considerazioni, con specifico riguardo alle modalità operative delle imprese

dell’economia digitale e alla facilità con le quali esse riescono ad attenuare la tassazione nei Paesi della

fonte (che pure va detto risultano essere state significativamente “colpite” anche dalle modifiche

introdotte al § 4 dello stesso articolo 5), si è dell’avviso che i tradizionali criteri di collegamento fondati

sulla residenza e sulla stabile organizzazione non appaiono più del tutto funzionali a garantire una equa

distribuzione dei “taxing rigths” tra i Paesi in cui le stesse operano. Come del resto discusso nel Final

Report dell’Action 1 “Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy Beps”42 e come dimostra la

recente discussione sulla introduzione di una web tax europea, sembrerebbe più funzionale alla

suddetta finalità l’adozione di criteri che prendano maggiormente in considerazione il luogo in cui si

trova il “mercato” dell’impresa, vale a dire dove i clienti materialmente acquistano i beni prodotti o i

servizi prestati.

amount as the agent receives, leading to a zero net profit for the PE”. Sulla effettive conseguenze dell’utilizzo dell’AOA nell’allocazione dei

profitti alle stabili organizzazioni “personali” si veda più di recente J. Muller, “The problem with taxing ghosts: Agency PE’s and spookiness at

a distance”, in Kluwer International Tax Blog, 23 marzo 2017. 42 Si vedano, in particolare, i § 284 - 308.

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La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Modalità applicative della branch

exemption alla luce del provvedimento

dell’Agenzia delle entrate n. 165138/2017 di Roberto Moro Visconti - professore di Finanza aziendale nell’Università Cattolica - dottore

commercialista e revisore legale

Matteo Maria Renesto - dottore commercialista e revisore legale

Il recente provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate n. 165138/2017, pubblicato

in versione definitiva sul sito internet dell’Agenzia il 28 agosto 2017 e qui illustrato in sintesi,

fornisce le modalità applicative dell’opzione relativa all’esenzione degli utili e delle perdite

delle stabili organizzazioni di imprese residenti (c.d. “branch exemption”), prevista

dall’articolo 168-ter, Tuir, così come introdotta dal D.Lgs. 147/2015 (c.d. “Decreto

Internazionalizzazione”).

Branch exemption: previsioni normative

L’articolo 14, D.Lgs. 147/2015 – contenente disposizioni finalizzate a favorire la crescita e

l’internazionalizzazione dei soggetti economici operanti in Italia, in applicazione delle

raccomandazioni degli organismi internazionali e dell’Unione europea – ha introdotto l’articolo

168-ter, Tuir, che attribuisce la facoltà, alle imprese residenti nel territorio dello Stato, di optare

per l’esenzione degli utili e delle perdite attribuibili a tutte le proprie stabili organizzazioni

all’estero (c.d. branch exemption)1.

La tassazione avverrà, quindi, nel solo Stato dove è localizzata la stabile organizzazione; tale regime

rappresenta un'eccezione a quello per cui il reddito della branch è tassato prima nello Stato estero e

poi in Italia con riconoscimento del credito per le imposte estere.

Ai sensi del citato articolo 168-ter, Tuir, un’impresa residente nel territorio dello Stato può optare per

l’esenzione degli utili e delle perdite attribuibili a tutte le proprie stabili organizzazioni all’estero, in

1 Per approfondimenti, in dottrina, si veda: F. Di Cesare, “Il nuovo regime di branch exemption”, in La gestione straordinarie delle imprese, 6,

2015, pag. 122-129; S. M. Galardo, “La “branch exemption” nell’ambito del metodo dell’esenzione”, in Corriere tributario, 39, 15, 2016, pag. 1165-

1170; F. Giommoni, “Il nuovo regime di branch exemption per le stabili organizzazioni estere di imprese italiane”, in Rivista delle operazioni

straordinarie, n. 12/2015, pag. 33-38; A. Trabucchi, F. Cerulli Irelli, “Il regime opzionale di ‘”branch exemption”” in Corriere tributario, 38, 21,

2015, pag. 1610-1617. Per un esame delle criticità, si veda invece R. Spaziani, G. Albano, “La “Branch exemption” fra criticità e prospettive”, in

Corriere tributario, 40, 18, 2017, pag. 1403-1409.

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57 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

base al principio totalitario già previsto per la tassazione del consolidato mondiale, meglio conosciuto

come “all-in, all-out” (comma 1).

L’opzione è irrevocabile ed è esercitata al momento di costituzione della stabile organizzazione, con

effetto dal medesimo periodo d’imposta (comma 2).

L’esenzione da tassazione può essere validamente esercitata solo qualora la stabile organizzazione

non sia localizzata o residente in Paesi a fiscalità privilegiata, ex articolo 167, comma 4, Tuir, a meno

che il contribuente non faccia valere le esimenti previste per la disapplicazione della CFC rule (commi

3 e 4).

Al fine di consentire alle imprese di adeguare i propri sistemi contabili al nuovo regime, è riconosciuta

la possibilità di esercitare l’opzione per la branch exemption entro il secondo periodo d’imposta

successivo a quello di entrata in vigore della norma, con effetto dal periodo d’imposta “in corso a quello

di esercizio della stessa” (comma 6).

Quanto alle modalità di determinazione del reddito della stabile organizzazione in vigenza della branch

exemption, si prevede che questo deve essere calcolato secondo i principi ed i criteri indicati nell’articolo

152, Tuir (comma 10)2.

Il provvedimento n. 165138/2017

Con il provvedimento n. 2017/165138 del direttore dell’Agenzia delle entrate del 28 agosto 20173 sono

state disposte le modalità applicative del regime della branch exemption.

Come illustrato nelle motivazioni, il citato provvedimento contiene le disposizioni operative

relative all'accesso e all'uscita dal regime, regolando l'esercizio dell'opzione, di cui precisa i dettagli

dichiarativi, la tempistica e i requisiti di validità, le ipotesi e le conseguenze della cessazione di

efficacia dell'opzione e i criteri rilevanti ai fini dell'eventuale istanza di interpello per la

qualificazione della stabile organizzazione, nonché le regole di determinazione dell'imponibile

della stabile organizzazione per cui è esercitata l'opzione per consentire l'esenzione degli utili e

delle perdite ai fini Ires e Irap.

Il provvedimento, inoltre, disciplina le modalità applicative del sistema di partecipazione dei redditi

realizzati dalla stabile organizzazione esente al reddito imponibile di casa madre, anche nel caso di

2 Tale norma, di cui si parlerà infra, richiama ed esplicita il principio elaborato in sede Ocse, che individua la stabile organizzazione quale

“functionally separate entity”. 3 Lo schema di provvedimento era stato pubblicato sul sito web dell’Agenzia delle entrate il 26 febbraio 2016, in consultazione pubblica sino

al 31 marzo 2016 per l’invio di osservazioni. Per un confronto rispetto alla precedente bozza di provvedimento, si veda in dottrina G. Albano,

“La bozza di provvedimento attuativo del regime di “branch exemption” tra conferme e novità”, in Corriere tributario, 39, 13, 2016, pag. 982-990.

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58 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

adesione al regime di consolidato, fino a concorrenza delle perdite fiscali nette prodotte dalla medesima

branch nei 5 periodi d’imposta antecedenti all’esercizio dell’opzione.

Sono rese le disposizioni in materia di recapture anche in ipotesi di trasferimento della branch, sia a

soggetti appartenenti al gruppo che a soggetti esterni.

Viene disciplinato, altresì, il trattamento delle operazioni interne pregresse e delle operazioni

straordinarie.

Sono, quindi, regolate le interazioni con il regime di cui all'articolo 167, Tuir4 e le ipotesi di imposizione

degli utili realizzati in un regime fiscale privilegiato.

Infine, per quel che concerne le conseguenze sul regime dei fenomeni di doppia esenzione o di doppia

deduzione derivanti da disallineamenti normativi tra Stati, il provvedimento rimanda alla pubblicazione

sul sito istituzionale dell’Agenzia delle entrate di fattispecie ritenute elusive delle disposizioni in

materia di branch exemption.

Verranno di seguito esaminati gli aspetti principali trattati dal provvedimento (tra parentesi sono

indicati i riferimenti ai paragrafi), nonché i dubbi che permangono relativamente ad alcuni aspetti.

Esercizio e cessazione dell’opzione (§ 2 e 3)

L’impresa esercita l’opzione per il regime di esenzione degli utili e delle perdite attribuibili alle proprie

stabili organizzazioni nella dichiarazione dei redditi riferita al periodo d’imposta di costituzione della

branch, a partire dal quale è efficace il regime di branch exemption (2.1).

L’opzione è efficace a condizione che sia configurabile una stabile organizzazione nello Stato estero di

localizzazione ai sensi della Convenzione contro le doppie imposizioni tra quest’ultimo e l’Italia, ove in

vigore, ovvero, in mancanza di una Convenzione, dei criteri di configurazione della stabile

organizzazione dettati dall’articolo 162, Tuir, “a meno che, in ogni caso, lo Stato estero non ravvisi

l’esistenza di una stabile organizzazione ai sensi della sua legislazione domestica” (2.4).

Secondo tale articolo (comma 1), per “stabile organizzazione” si intende “una sede fissa di affari per

mezzo della quale l'impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello

Stato”5.

L’ultimo inciso del § 2.4. del provvedimento sembrerebbe presupporre che l’esistenza di una stabile

organizzazione secondo la normativa dello Stato di localizzazione sia requisito sufficiente ai fini del

4 In tema di “Disposizioni in materia di imprese estere controllate”. 5 L'articolo 14, comma 4, D.Lgs. 147/2015 prevede la facoltà, per l'impresa residente, di presentare istanza di interpello ordinario qualificatorio,

ai sensi dell'articolo 11, comma 1, lettera. a), L. 212/2000, in merito alla sussistenza di una stabile organizzazione all'estero, ai fini

dell'inclusione nel perimetro di esenzione.

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regime opzionale, ponendo così in subordine le previsioni convenzionali di cui al citato l’articolo 162,

Tuir6.

Se lo Stato estero accerta l’esistenza di una stabile organizzazione, il contribuente può esercitare

l’opzione per l’esenzione degli utili e delle perdite attribuibili alla stessa, ovvero, se già in regime di

branch exemption, deve includere la stabile organizzazione nel perimetro di esenzione (2.5).

Pare dunque essenziale che, analogamente a quanto avviene per il riconoscimento del credito di

imposta (articolo 165, Tuir), sia anzitutto necessaria l’esistenza di una stabile organizzazione secondo

la normativa dello Stato estero di localizzazione e che la stessa debba essere conforme alle previsioni

convenzionali di cui al sopracitato articolo 162, Tuir.

L’opzione per il regime di branch exemption ha effetto nei confronti di tutte le stabili organizzazioni

dell’impresa esistenti al momento dell’esercizio, nonché per quelle costituite successivamente senza

che sia necessaria una nuova opzione (2.6).

Il mancato esercizio dell’opzione nei termini previsti dalle disposizioni di cui ai punti precedenti non

impedisce all’impresa di accedere successivamente al regime di branch exemption ogni volta che

costituisce una nuova branch (2.7).

L’efficacia dell’opzione cessa a seguito della chiusura, anche per liquidazione o cessione, di tutte le

branch esenti, oltre che a seguito di un’operazione straordinaria (3.1).

Recapture delle perdite fiscali pregresse (§ 4 e 5)

Il Provvedimento disciplina il “recapture” delle perdite fiscali della stabile organizzazione realizzate nel

quinquennio precedente all’esercizio dell’opzione.

I redditi realizzati dalla stabile organizzazione in regime di branch exemption partecipano alla

formazione del reddito imponibile di casa madre fino a concorrenza delle perdite fiscali nette pregresse

prodotte dalla medesima stabile organizzazione. Le eventuali perdite fiscali conseguite dalla stessa

branch in vigenza dell’opzione non hanno alcuna rilevanza (4.1).

Rilevano solo i redditi imponibili e le perdite fiscali della stabile organizzazione, determinati ai sensi

delle disposizioni fiscali italiane, che hanno concorso a formare il reddito dell’impresa nel suo

6 A. Saini, “La “branch exemption” mette sotto la lente la stabile organizzazione”, in Quotidiano del Fisco, 2017, 16 settembre 2017, ritiene che

tale conclusione sia da escludere, “in quanto in contrasto con principi ormai consolidati nella stessa prassi dell’Amministrazione finanziaria

(tra le altre, circolare n. 9/E/2015, risoluzione n. 277/E/2008 e n. 104/E/2001), secondo i quali non è ammesso il riconoscimento del “foreign

tax credit” - e quindi l’adozione dello speculare regime della “branch exemption” … in presenza di una stabile organizzazione estera non

conforme alle previsioni pattizie ovvero all’articolo 162, Tuir”.

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60 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

complesso. La parte non utilizzata non concorre a formare le perdite fiscali di casa madre riportabili da

quest’ultima ai sensi dell’articolo 84, Tuir7 (4.2).

Le perdite fiscali della stabile organizzazione, si considerano utilizzate quando hanno compensato in

tutto o in parte il reddito imponibile di casa madre. Le perdite fiscali conseguite dall’impresa si

considerano prioritariamente utilizzate (4.3).

Innovando rispetto al precedente schema di Provvedimento, ai fini della determinazione e del

riassorbimento del recapture, la casa madre calcola il recapture per singolo Stato o territorio estero,

assumendo che in ciascuno esista una sola stabile organizzazione, anche se div isa in più siti

produttivi (4.4).

Il recapture per singolo Stato o territorio rileva ai fini dello scomputo dalla relativa imposta

italiana delle eventuali eccedenze di imposta estera riportabili ai sensi dell’articolo 165, comma

6, Tuir, maturate in capo alla casa madre negli 8 esercizi precedenti a quello di efficacia

dell’opzione (4.5).

In caso di trasferimento, a qualsiasi titolo, di una branch esente soggetta a recapture a favore di un

soggetto appartenente al medesimo gruppo di casa madre , l’eventuale plusvalenza o minusvalenza

conseguita a seguito del trasferimento della stabile organizzazione concorre alla formazione del

recapture che prosegue nei confronti dell’avente causa, purché quest’ultimo sia residente nel territorio

dello Stato e in regime di branch exemption o eserciti la relativa opzione anche successivamente al

trasferimento (4.6).

In caso di cessione di una branch esente soggetta a recapture a favore di un soggetto non residente o

non appartenente al medesimo gruppo, il dante causa scomputa il recapture, ove esistente,

dall’eventuale plusvalenza esente realizzata e fino a concorrenza della stessa (4.7).

In caso di adesione dell’impresa al consolidato fiscale, la casa madre può scegliere di considerare

definitivamente utilizzate le perdite fiscali realizzate dalla stabile organizzazione nei 5 periodi

d’imposta antecedenti a quello in cui ha effetto l’opzione, nell’ipotesi in cui, non avendo utilizzato essa

stessa dette perdite, siano state trasferite al regime di consolidato (5.1).

Se, a seguito dell’interruzione o del mancato rinnovo dell’opzione per il consolidato nazionale, alla casa

madre o alla consolidante sono attribuite delle perdite fiscali e una parte di queste è stata realizzata

7 Il quale al comma 1 prevede che: “La perdita di un periodo d'imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del

reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d'imposta successivi in misura non superiore all'ottanta per cento del

reddito imponibile di ciascuno di essi e per l'intero importo che trova capienza in tale ammontare …”.

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Adempimenti e procedure

61 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

da una stabile organizzazione nei cinque periodi d’imposta antecedenti a quello in cui ha effetto

l’opzione per la branch exemption, il soggetto cui sono attribuite le perdite fiscali può utilizzare l’intero

ammontare delle stesse a condizione che il recapture sia già avvenuto (5.2).

Determinazione del reddito della stabile organizzazione esente (§ 7)

Anche in assenza di specifiche disposizioni di una Convenzione contro le doppie imposizioni8 tra lo

Stato italiano e lo Stato di localizzazione della stabile organizzazione esente, il reddito di quest’ultima

è determinato in base all’Approccio Autorizzato Ocse, secondo cui la stabile organizzazione è

considerata come un’entità separata e indipendente, svolgente le medesime o analoghe attività, in

condizioni identiche o similari, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni

utilizzati (7.1).

Gli utili e le perdite attribuibili alla stabile organizzazione esente devono risultare dall’apposito

rendiconto economico e patrimoniale redatto secondo i criteri dettati dall’articolo 152, Tuir (7.3).

Al risultato di detto rendiconto vanno apportate le variazioni in aumento e diminuzione relative

alla singola branch previste dalle disposizioni in materia di reddito d’impresa per i soggetti

residenti nel territorio dello Stato al fine di determinare il reddito o la perdita della stabile

organizzazione esente, da indicare separatamente nella dichiarazione dei redditi dell’impresa nel

complesso (7.4).

I componenti di reddito attribuibili alla stabile organizzazione esente derivanti dalle transazioni e dalle

operazioni intercorse tra detta branch e la casa madre oppure tra tale branch e le altre stabili

organizzazioni, in esenzione e non, della casa madre sono rilevati nel rendiconto al valore di cui

all’articolo 110, comma 7, Tuir9 (7.5).

Il Provvedimento chiarisce inoltre l’applicabilità alle branch esenti della normativa in tema di transfer

pricing e Documentazione Nazionale (7.7) e dell’agevolazione Ace (7.8).

8 Per approfondimenti su tale argomento, si veda A. Saini, P. Mandarino, “Branch exemption” e stabile organizzazione tra norma interna e

convenzioni contro le doppie imposizioni”, in Fiscalità & Commercio Internazionale, 10, 2016, pag. 25-29. 9 Secondo cui: “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o

indirettamente controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa, sono valutati in base

al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del

reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con

le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali "procedure amichevoli" previste dalle convenzioni internazionali contro le

doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel

territorio dello Stato per conto delle quali l'impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o

lavorazione di prodotti”.

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Adempimenti e procedure

62 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Disposizioni in materia di Controlled Foreign Companies (Cfc) (§ 8)

In caso di esercizio dell’opzione per l’esenzione, alla stabile organizzazione estera si applicano, al

ricorrere dei presupposti, le disposizioni previste dall’art. 167 del TUIR in materia di Controlled Foreign

Companies (“CFC”) (8.1).

Secondo il comma 1 del suddetto articolo 167, “se un soggetto residente in Italia detiene, direttamente

o indirettamente, anche tramite società fiduciarie o per interposta persona, il controllo di un'impresa, di

una società o altro ente, residente o localizzato in Stati o territori a regime fiscale privilegiato (…), diversi

da quelli appartenenti all'Unione europea ovvero da quelli aderenti allo Spazio economico europeo con i

quali l'Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni, i redditi

conseguiti dal soggetto estero controllato sono imputati, a decorrere dalla chiusura dell'esercizio o periodo

di gestione del soggetto estero controllato, ai soggetti residenti in proporzione alle partecipazioni da essi

detenute …”.

La dimostrazione delle circostanze esimenti di cui ai commi 510 e 8-ter11 dell’articolo 167, Tuir è data

separatamente per ciascuna branch a cui si applica la disciplina Cfc, anche nell’ipotesi di cui al punto

precedente in cui si configurano più stabili organizzazioni nel medesimo Stato estero (8.3).

In assenza delle esimenti disciplinate dai commi 5 e 8-ter dell’articolo 167, Tuir, il reddito della stabile

organizzazione estera è determinato ai sensi delle disposizioni del comma 6 di tale articolo12, dopo aver

attribuito a detta branch gli utili e le perdite come se fosse un’entità separata (8.4).

Se la casa madre ha esercitato l’opzione, il possesso di una stabile organizzazione alla quale si

applicano le disposizioni dell’articolo 167, Tuir va segnalato dall’impresa nella dichiarazione dei

redditi (8.5)13.

Qualora alla stabile organizzazione esente sia imputata una partecipazione che soddisfa i criteri di

applicazione di cui all’articolo 167, Tuir, il regime Cfc trova applicazione in capo alla casa madre (8.6).

10 Le disposizioni sulle CFC non si applicano se “il soggetto residente dimostra, alternativamente, che: a) la società o altro ente non residente

svolga un'effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello stato o territorio di insediamento; per le

attività bancarie, finanziarie e assicurative quest'ultima condizione si ritiene soddisfatta quando la maggior parte delle fonti, degli impieghi o

dei ricavi originano nello Stato o territorio di insediamento; b) dalle partecipazioni non consegue l'effetto di localizzare i redditi in Stati o

territori a regime fiscale privilegiato”. 11 Le disposizioni sulle CFC non si applicano altresì se “il soggetto residente dimostra che l'insediamento all'estero non rappresenta una

costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale”. 12 Secondo cui, “i redditi del soggetto non residente, imputati ai sensi del comma 1, sono assoggettati a tassazione separata con l'aliquota

media applicata sul reddito complessivo del soggetto residente e, comunque, non inferiore all'aliquota ordinaria dell'imposta sul reddito delle

società. I redditi sono determinati in base alle disposizioni applicabili ai soggetti residenti titolari di reddito d'impresa (…). Dall'imposta così

determinata sono ammesse in detrazione, ai sensi dell'articolo 165, le imposte pagate all'estero a titolo definitivo”. 13 Tale obbligo non sussiste quando la casa madre ha ottenuto parere favorevole all’interpello presentato ai sensi dell’articolo 11, comma 1,

lettera b), L. 212/2000.

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63 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

La cessazione dell’efficacia dell’opzione comporta anche la cessazione del regime di cui all’articolo 167,

Tuir per le stabili organizzazioni che ne presentino i requisiti (8.7).

Utili provenienti da branch esenti (§ 9)

Gli utili e le perdite provenienti dalle stabili organizzazioni incluse nel perimetro di esenzione non

concorrono alla determinazione del reddito imponibile della casa madre (9.1).

Gli utili della stabile organizzazione esente si intendono percepiti dalla casa madre all’atto della

riduzione del fondo di dotazione da parte della branch per l’attribuzione all’impresa, anche per effetto

di una riallocazione di funzioni, asset e rischi (9.2).

Gli utili provenienti dalla branch esente localizzata in Stati o territori a regime fiscale privilegiato

concorrono integralmente a formare il reddito imponibile dell’impresa al momento della distribuzione

degli stessi ai soci della casa madre (9.3).

Se alla branch esente sono attribuite partecipazioni in società localizzate in Stati o territori a regime

fiscale privilegiato di cui all’articolo 167, comma 4, Tuir14, la parte di utili della branch che si compone

di utili derivanti o plusvalenze realizzate da tali partecipazioni concorre alla formazione del reddito

della casa madre (9.5).

Operazioni straordinarie (§ 10)

Le operazioni straordinarie non determinano l’interruzione del regime di branch exemption quando

l’incorporante, la società risultante dalla fusione, il conferitario o il beneficiario è già in regime di branch

exemption o sceglie di esercitare l’opzione nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta

di efficacia giuridica dell’operazione straordinaria. In tali casi, l’avente causa subentra nel regime di

branch exemption ed assume le attività e le passività della stabile organizzazione esente, sulla base di

funzioni e rischi a essa connessi, all’ultimo valore fiscale che avevano presso l’incorporata, la società

partecipante alla fusione, la conferente o la scissa (10.1).

In caso di trasferimento, a qualsiasi titolo, di una stabile organizzazione o di parte di essa ad altra

impresa del gruppo, non possono essere riconosciute duplicazioni di benefici e non possono verificarsi

penalizzazioni, ivi inclusa la doppia imposizione (10.2).

14 Che prevede quanto segue: “I regimi fiscali, anche speciali, di Stati o territori si considerano privilegiati laddove il livello nominale di

tassazione risulti inferiore al 50% di quello applicabile in Italia”. Per un elenco aggiornato, si veda il decreto del 21 novembre 2001 – Ministero

dell’economia e finanze, in https://cdn.fiscoetasse.com/upload/DM-21-11-2001-black-list-CFC-ggiornato.pdf.

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64 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

In caso di cessione della branch esente, se l’avente causa è residente nel territorio dello Stato,

appartiene al medesimo gruppo del cedente e non è in branch exemption, né esercita la relativa opzione

a seguito dell’acquisto, il corrispettivo si assume pari al valore normale, determinato ai sensi

dell’articolo 110, comma 7, Tuir (10.3).

Quando oggetto di cessione è una stabile organizzazione non esente e l’avente causa, residente nel

territorio dello Stato, appartiene al medesimo gruppo del cedente ed è già in branch exemption o esercita

l’opzione a seguito dell’acquisto, il corrispettivo si assume pari al valore normale, determinato ai sensi

del citato articolo 110, comma 7, Tuir (10.4).

Compilazione del Modello Redditi

I soggetti che intendono aderire al regime di branch exemption devono compilare15 l'apposito modulo

del quadro RF del modello Redditi SC16, ovvero il quadro RF o RG di Redditi SP17.

La casa madre deve, a tal fine, escludere dal risultato di bilancio gli utili e le perdite realizzati dalle

stabili organizzazioni estere; la somma algebrica degli utili e delle perdite risultanti dall'apposito

rendiconto economico e patrimoniale va riportata:

− se negativa, nel rigo RF 31 (codice 45), tra le variazioni in aumento;

− se positiva, nel rigo RF 55 (codice 41), tra le variazioni in diminuzione.

La casa madre deve compilare il quadro RF, indicando nel rigo RF130:

− nella colonna 1, il numero progressivo che individua la stabile organizzazione;

− nella colonna 2, il codice di identificazione fiscale della stabile organizzazione, ove attribuito

dall'autorità fiscale del Paese di localizzazione, ovvero il codice identificativo rilasciato da un'Autorità

amministrative, se attribuito;

− nella colonna 3, il codice dello Stato o territorio estero (desunto dalla tabella "Elenco dei Paesi e

territori esteri");

− nella colonna da 4 a 8, per le stabili organizzazioni già esistenti, i redditi e le perdite (precedute dal

segno meno) attribuibili alla stabile organizzazione nei cinque periodi d'imposta antecedenti a quello

di effetto dell'opzione;

15 Per maggiori approfondimenti, si veda G. Valente, “Regime di esenzione delle stabili organizzazioni all’estero di imprese residenti (c.d.

“branch exemption”)”, Quaderno Eutekne n. 129, 2016, pag. 331-342. 16http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/content/Nsilib/Nsi/Home/CosaDeviFare/Dichiarare/DichiarazioneredditiSoc_Enti/Redditi+societa+di+

capitali+2017/Modelli+Redditi+SC2017/. 17http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/content/Nsilib/Nsi/Home/CosaDeviFare/Dichiarare/DichiarazioneredditiSoc_Enti/Redditi+di+societa+

di+persone+2017/Modello+Redditi+Sp2017/.

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Adempimenti e procedure

65 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

− nella colonna 9, la perdita netta (non preceduta dal segno meno), pari alla somma algebrica, se

negativa, dei redditi e delle perdite indicati nelle colonne da 4 a 8;

− nella colonna 10, il reddito imponibile pari al minore importo tra il reddito della stabile

organizzazione prodotto nel periodo d'imposta oggetto della dichiarazione (importo di rigo RF63 del

modello Redditi SC o RF66 di Redditi SP, se positivo) e la perdita netta di colonna 9;

− nella colonna 11, la perdita netta residua;

− nella colonna 12, l'ammontare della perdita netta residua di colonna 11 trasferita all'impresa

cessionaria a seguito del trasferimento a qualsiasi titolo della stabile organizzazione o parte della stessa

ad altra impresa del gruppo che fruisce dell'opzione per il regime di branch exemption.

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66 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

La detrazione Iva per le holding di Marco Peirolo - dottore commercialista, revisore legale e componente del Fiscal Committee della

Confédération Fiscale Européenne

Per le holding si pone il problema di stabilire se ed in quale misura sia detraibile l’Iva assolta

sull’acquisto di beni e servizi utilizzati nell’ambito della propria attività, in particolar modo

quando si tratta di società che non si limitano a detenere le partecipazioni, ma effettuano

operazioni nei confronti delle partecipate o, come nel caso delle holding “miste”, attività di

produzione e vendita di beni.

I disallineamenti della normativa interna rispetto a quella unionale sulla soggettività

passiva delle holding e sull’esercizio della detrazione

Come già evidenziato1, esiste un disallineamento tra la normativa interna e quella unionale in merito

alla soggettività passiva Iva delle holding, al quale si aggiunge – come si dirà nel prosieguo – un

ulteriore profilo di incompatibilità relativo alle condizioni di esercizio del diritto di detrazione dell’Iva,

che si riflette sull’operatività di tali società.

La soggettività passiva delle holding è subordinata all’effettuazione, nei confronti delle

partecipate, di operazioni soggette a Iva. L’attività economica, per tali soggetti, non si configura,

infatti, con il mero esercizio dell’attività di direzione e coordinamento se ad essa non si

accompagna l’effettuazione di operazioni rilevanti ai fini dell’Iva, quali le prestazioni di servizi

amministrativi, finanziari, commerciali e tecnici.

Nella disciplina nazionale2, come interpretata dall’Amministrazione finanziaria3, la holding

assume lo status di soggetto passivo Iva se possiede una struttura preordinata ad esercitare

un’attività finanziaria o un’organizzazione idonea a gestire le partecipate, senza che sia

espressamente richiamata la condizione, prevista dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia4,

relativa all’effettuazione di operazioni rilevanti ai fini Iva nei confronti delle partecipate,

considerata indispensabile affinché si realizzi quell’interferenza, anche solo indiretta, nella

gestione delle partecipazioni che i giudici dell’unione richiedono ai fini dell’acquisizione della

soggettività d’imposta, definita sul piano normativo dall’articolo 9, Direttiva 2006/112/CE.

1 Cfr. M. Peirolo, “Regime Iva della cessione di partecipazioni per le holding”, in La rivista delle operazioni straordinarie, n. 7/2017, pag. 27 e ss.. 2 Cfr. Articolo 4, comma 5, ultimo periodo, lettera b), D.P.R. 633/1972. 3 Cfr. circolare n. 328/E/1997 (§ 1.2.3). 4 Si veda, da ultimo, sentenza cause riunite C-108/14 e 109/14 del 16 luglio 2015, Larentia + Minerva e Marenave Schiffahrts.

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67 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Più recentemente, nella circolare dell’Agenzia delle entrate n. 6/E/2016, avente per oggetto il

trattamento fiscale delle operazioni di acquisizione con indebitamento, il richiamo delle pertinenti

disposizioni della Direttiva n. 2006/112/CE e delle indicazioni della Corte di Giustizia porterebbe a

ritenere che le condizioni previste dall’articolo 4, comma 5, ultimo periodo, lettera b), D.P.R. 633/1972

debbano essere necessariamente interpretate in chiave unionale, cosicché la holding non può

considerarsi un soggetto passivo Iva se, pur essendo dotata di una struttura preordinata ad esercitare

un’attività finanziaria o di un’organizzazione idonea a gestire le società partecipate, non effettua

operazioni soggette ad imposta nei loro confronti.

L’ulteriore profilo di incompatibilità è quello riguardante l’esercizio del diritto di detrazione dell’Iva

sugli acquisti di beni e servizi.

L’articolo 19, comma 1, D.P.R. 633/1972 dispone che, “per la determinazione dell’imposta dovuta a norma

del primo comma dell’articolo 17 o dell’eccedenza di cui al secondo comma dell’articolo 30, è detraibile

dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal

soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati

nell’esercizio dell’impresa, arte o professione”. Il secondo comma dello stesso art. 19 stabilisce, però, che “non

è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o

comunque non soggette all’imposta …”, salvo che si tratta di operazioni che, ai fini della detrazioni, sono

considerate assimilate a quelle imponibili ex articolo 19, comma 3, D.P.R. 633/1972.

Ne discende che la detrazione è riconosciuta in funzione dell’utilizzo dei beni e servizi acquistati

nell’esercizio dell’attività economica, sempreché tale utilizzo non si concretizzi con l’effettuazione di

operazioni esenti o non soggette ad imposta.

Diversamente, l’articolo 168, Direttiva 2006/112/CE, nel disporre che il soggetto passivo può esercitare

la detrazione “nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad

imposta”, implica che la detrazione non è ammessa se, a valle, non sono effettuate operazioni imponibili

o ad esse assimilate ai sensi del successivo articolo 169 della stessa Direttiva.

Dall’interpretazione letterale delle previsioni richiamate si desume che, nella disciplina interna, la

holding potrebbe non solo considerarsi soggetto passivo Iva pur non svolgendo, nei confronti delle

partecipate, operazioni rilevanti ai fini impositivi, ma potrebbe anche ritenere che, in tale situazione,

la detrazione sia ammessa, essendo subordinata unicamente alla soggettività d’imposta. Laddove,

infatti, non siano poste in essere operazioni esenti o non soggette, per le quali la detrazione è preclusa

in re ipsa, l’articolo 19, comma 1, D.P.R. 633/1972 stabilisce, come detto, che la detrazione è ammessa

se i beni e servizi acquistati sono riconducibili all’impresa, arte o professione.

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68 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

I limiti oggettivi e soggettivi alla detrazione dell’iva per le holding

Le più recenti pronunce della Corte di Giustizia in materia di soggettività Iva delle holding sono dirette

a stabilire se sia detraibile l’imposta assolta “a monte” in caso di cessione delle partecipazioni5.

Come precedentemente esposto, la detraibilità dipende dallo status assunto dalla holding in

relazione all’attività di gestione delle partecipazioni oggetto di cessione, che assume rilevanza ai

fini Iva solo se le partecipazioni sono detenute in una prospettiva “dinamica”, cioè con

un’interferenza nella gestione delle controllate, realizzata per mezzo delle prestazioni di servizi

ad essa rese dalla controllante.

Ne discende che il requisito dell’interferenza, così inteso, deve essere verificato in relazione alla

fase del possesso della partecipazione acquistata, in modo da distinguere la detenzione della

partecipazione attratta nell’ambito impositivo (holding dinamica) da quella che, al contrario, vi

resta esclusa in difetto del presupposto soggettivo (holding statica).

Con specifico riguardo alla detraibilità, dall’analisi della giurisprudenza unionale si evince che

l’indagine sul nesso di inerenza deve essere operata ad un doppio livello.

Nell’ipotesi di “interruzione della catena dell’Iva”, vale a dire quando l’acquisto persegue come

unico scopo, si può dire di “primo livello”, l’effettuazione di un’operazione attiva detassata, qual

è la cessione di una partecipazione, esente da Iva ai sensi dell’articolo 135, § 1, lettera f), Direttiva

2006/112/CE e del corrispondente articolo 10, comma 1, n. 4), D.P.R. 633/1972, la detrazione non

può essere esercitata, in quanto l’indetraibilità discende dall’utilizzo del bene/servizio acquistato

per compiere, a valle, l’operazione esente o esclusa da imposta; l’indetraibilità deriva, pertanto,

dalla destinazione specifica del bene/servizio acquistato al compimento dell’operazione esente o

esclusa, in linea con il divieto previsto dall’articolo 168, Direttiva 2006/112/CE e, sul fronte

nazionale, dall’articolo 19, comma 2, D.P.R. 633/1972.

Al contrario, se l’acquisto è diretto ad uno scopo di “secondo livello”, inserendosi nel contesto più

generale dell’attività economica del soggetto passivo, necessariamente imponibile, la detrazione

resta ammessa in quanto il costo dei beni/servizi acquistati, facendo parte delle spese generali

del soggetto passivo, concorre a formare il prezzo dei beni/servizi venduti.

L’Amministrazione finanziaria si è adeguata a tale impostazione, ammettendo la detrazione anche per

i beni/servizi destinati ad effettuare operazioni escluse da imposta, se “indirettamente e funzionalmente

5 Si veda, da ultimo, la sentenza cause riunite C-108/14 e 109/14 del 16 luglio 2015, cit.

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69 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

ricollegabili ad altre operazioni imponibili o ad esse assimilate ai fini della detrazione”6. In via

esemplificativa, vengono richiamate “le consulenze tese ad attuare una riorganizzazione dell’assetto

societario, o a pervenire ad una transazione, a ottenere un risarcimento danni afferenti beni o attività

dell’impresa, come pure per la concessione di beni in comodato a clienti, sempreché naturalmente s’inquadri

nell’ordinaria attività dell’impresa volta a porre in essere operazioni che danno diritto a detrazione”7.

Al di là del doppio livello di cui si è detto, occorre considerare ulteriormente una duplice

situazione che potrebbe ricorrere in capo alla holding, ossia che:

− le spese sostenute per gli acquisti di beni e servizi si riferiscono anche a controllate non gestite

dalla holding, nel qual caso la detrazione deve essere operata in proporzione alle spese relative

all’attività economica, da individuare oggettivamente, cioè in base all’articolo 19, comma 4, D.P.R.

633/1972;

− le spese sostenute per gli acquisti di beni e servizi si riferiscono esclusivamente a controllate

gestite dalla holding, ma alcune operazioni effettuate a valle sono esenti da Iva, nel qual caso si

tratta di stabilire quando la detrazione debba essere operata in applicazione del metodo del pro

rata di cui all’articolo 19, comma 5, D.P.R. 633/1972, vale a dire in proporzione alle operazioni

attive che danno diritto alla detrazione.

Acquisti di beni e servizi in parte relativi a controllate non gestite dalla holding

In merito alla prima situazione considerata, è opportuno richiamare i fatti all’origine della sentenza

Larentia + Minerva e Marenave Schiffahrts, di cui alle cause riunite C-108/14 e 109/14.

Nella causa (C-108/14), la Larentia + Minerva detiene, in veste di socio accomodante, il 98% delle quote

di due controllate, costituite sotto forma di società di persone a responsabilità limitata in accomandita

(GmbH & Co. KG) che gestiscono ciascuna una nave. La Larentia + Minerva, in qualità di holding, ha

fornito a tali controllate prestazioni di servizi amministrativi e commerciali a titolo oneroso,

assoggettandole a Iva.

Nella seconda causa (109/14), la Marenave ha aumentato il proprio capitale sociale e, in veste di

holding, ha acquistato una quota di partecipazione in quattro compagnie di navigazione, costituite in

forma di società di persone, partecipando alla loro gestione a fronte di un compenso.

Le Autorità fiscali tedesche hanno ritenuto che entrambe le società non hanno diritto alla detrazione

integrale dell’Iva assolta, rispettivamente, sul finanziamento ottenuto per l’acquisto delle quote di

6 Così la circolare n. 328/E/1997 (§ 3.1), cit. 7 Si veda la nota precedente.

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70 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

partecipazione delle due controllate e sulle spese sostenute per l’aumento del capitale sociale. In

pratica, trattandosi di holding, le società in esame svolgono principalmente un’attività non economica,

volta all’acquisizione e alla detenzione/gestione di partecipazioni, cosicché la detrazione spetta nei

limiti dell’attività economica, nella specie rappresentata dalle prestazioni di servizi amministrativi e

commerciali rese a favore delle controllate.

L’avvocato generale, nelle conclusioni presentate il 26 marzo 2015 relativamente alle cause riunite in

esame, ha affermato che i giudici comunitari, nelle varie pronunce sulla materia, non avrebbero ignorato

che le holding, per loro stessa natura, gestiscono anche partecipazioni che non danno luogo ad

un’interferenza nella gestione delle controllate, osservando che l’approccio adottato dalla Corte di

Giustizia implica che le spese sostenute a monte (nella specie, per l’acquisizione delle partecipazioni)

siano considerate inerenti all’attività economica, con detrazione spettante in misura integrale, in

applicazione dell’articolo 17, § 2, VI Direttiva CEE (ora articolo 168, Direttiva 2006/112/CE), salvo –

ovviamente – che le operazioni attive siano esenti da imposta, nel qual caso la detrazione deve essere

operata con il metodo del pro rata di cui all’articolo 17, § 5, VI Direttiva (ora articolo 173, Direttiva

2006/112/CE).

Lo stesso approccio, sempre secondo l’avvocato generale, è applicabile alle spese relative alle

operazioni in conto capitale effettuate dalle holding, come l’aumento del capitale sociale, utilizzato –

come nella fattispecie di cui alla causa C-109/14 – per finanziare l’acquisizione e la gestione di navi

per il trasporto marittimo.

In proposito, la Corte ha affermato che l’emissione di azioni non rientra, di per sé, nell’ambito di applicazione

della Direttiva Iva, ma può essere effettuata da una società per rafforzare il proprio capitale a vantaggio

della sua attività economica generale, con la conseguenza che i costi sostenuti nell’ambito dell’operazione

di cui trattasi rientrano nelle spese generali e sono, in quanto tali, elementi costitutivi del prezzo dei propri

prodotti. Anche i suddetti costi, in linea di principio, presentano pertanto un nesso immediato e diretto con

il complesso dell’attività economica della holding e, quindi, danno diritto alla detrazione8.

Alla luce delle considerazioni esposte, l’avvocato generale ha concluso affermando che “le spese

inerenti a transazioni in conto capitale effettuate da una società holding che interviene, direttamente o

indirettamente, nella gestione delle proprie controllate presentano un nesso immediato e diretto con il

complesso dell’attività economica di tale suddetta holding” e che, di conseguenza, “non bisogna …

procedere a una ripartizione dell’Iva versata a monte su tali spese fra le attività economiche e quelle non

economiche”.

8 Cfr. sentenza causa C-465/03 del 26 maggio 2005, Kretztechnik.

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Adempimenti e procedure

71 La rivista delle operazioni straordinarie n. 08-09/2017

Disattendendo tali conclusioni, la Corte europea ha stabilito che

“le spese connesse all’acquisizione di partecipazioni nelle sue controllate, sostenute da una società

holding che partecipa alla gestione unicamente di alcune di esse e che, riguardo alle altre, non esercita

invece alcuna attività economica devono essere considerate come solo in parte rientranti nelle sue

spese generali, di modo che l’Iva assolta su tali spese può essere detratta soltanto in proporzione di

quelle relative all’attività economica, secondo criteri di ripartizione definiti dagli Stati membri che,

nell’esercizio di tale potere, devono tener conto - circostanza che spetta ai giudici nazionali verificare

- dello scopo e dell’impianto sistematico della sesta direttiva e, a tale titolo, prevedere un metodo di

calcolo che rifletta oggettivamente la quota di imputazione reale delle spese a monte all’attività

economica e all’attività non economica”.

La disciplina nazionale, sul punto, prevede che si utilizzi il metodo della detrazione “pro quota”. Rileva,

in particolare, l’articolo 19, comma 4, D.P.R. 633/1972, in base al quale, “per i beni ed i servizi in parte

utilizzati per operazioni non soggette all’imposta la detrazione non è ammessa per la quota imputabile a tali

utilizzazioni e l’ammontare indetraibile è determinato secondo criteri oggettivi, coerenti con la natura dei

beni e servizi acquistati”. La norma prosegue stabilendo che “gli stessi criteri si applicano per determinare la

quota di imposta indetraibile relativa ai beni e servizi in parte utilizzati per fini privati o comunque estranei

all’esercizio dell’impresa, arte e professione”.

Acquisti di beni e servizi relativi a controllate gestite dalla holding, ma in parte ad

operazioni attive esenti da Iva

In merito alla seconda situazione sopra richiamata, in cui la holding effettua, nel contempo, operazioni

attive imponibili ed esenti, occorre verificare quando la detrazione debba essere operata con il sistema

del pro rata di cui all’articolo 19, comma 5, D.P.R. 633/1972, vale a dire in proporzione alle operazioni

che danno diritto alla detrazione9.

Almeno nella prospettiva nazionale, l’occasionale effettuazione di operazioni esenti da parte di

un contribuente che svolge essenzialmente un’attività soggetta a Iva - come pure l’occasionale

effettuazione di operazioni imponibili, da parte di un soggetto che svolge essenzialmente

un’attività esente - non dà luogo all’applicazione del pro rata.

9 Sulla conformità al diritto unionale delle regole in tema di pro rata previste dalla normativa italiana si è espressa la Corte di Giustizia con la

sentenza causa C-378/15 del 14 dicembre 2016, Mercedes Benz Italia.

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Adempimenti e procedure

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In tali casi torna, naturalmente, applicabile, ai fini della determinazione dell’imposta detraibile, il

criterio generale dell’utilizzazione specifica dei beni e servizi, con indetraibilità dell’imposta afferente i

beni e servizi impiegati nelle operazioni esenti, così come stabilito dall’articolo 19, comma 2, D.P.R. n.

633/1972.

Tale conclusione è confermata dall’Amministrazione finanziaria, secondo cui “la regola del pro rata è

comunque applicabile qualora il soggetto ponga in essere sistematicamente, nell’ambito di una stessa attività,

sia operazioni imponibili sia operazioni esenti, come, ad esempio, si verifica nei confronti di una casa di cura,

la quale effettui sia prestazioni esenti in regime di convenzione sia prestazioni imponibili”10.

L’articolo 19-bis, comma 2, D.P.R. 633/1972, inoltre, esclude dal calcolo del pro rata, tra le altre, le

operazioni esenti di cui ai n. da 1) a 9) dell’articolo 10, D.P.R. 633/1972 “quando non formano oggetto

dell’attività propria del soggetto passivo o siano accessorie alle operazioni imponibili”.

Tali operazioni, che non concorrono alla determinazione del pro rata, danno luogo all’indetraibilità

specifica prevista dall’articolo 19, comma 2, D.P.R. 633/197211.

È, pertanto, con riferimento alle richiamate disposizioni che si pone il problema di individuare i criteri

di detrazione applicabili nel caso in cui un soggetto passivo d’imposta (nella specie, una holding), che

normalmente svolge un’attività con Iva a monte detraibile, realizzi anche operazioni esenti, quali quelle

di carattere finanziario, che invece non danno diritto alla detrazione.

Nell’approfondimento n. 1 del 2014, Assonime ha preso in considerazione i riflessi sul pro rata della

cessione di partecipazioni effettuata in via meramente occasionale da parte di una società holding

operativa, la cui attività propria è essenzialmente imponibile. Ad avviso dell’Associazione, tale

operazione non influisce sul calcolo della percentuale di detrazione, ma – come sopra specificato – la

cessione di partecipazioni comporta, in quanto esente, l’indetraibilità specifica dell’Iva afferente gli

acquisti di beni e servizi utilizzati per realizzare l’operazione stessa, a norma dell’articolo 19, comma 2,

D.P.R. 633/1972.

La rilevanza, ai fini del calcolo della percentuale di detraibilità, delle operazioni esenti deve essere

verificata avuto riguardo all’oggetto dell’attività propria dell’impresa.

Per le operazioni finanziarie di cui ai n. da 1) a 4) dell’articolo 10 (operazioni di credito e

finanziamento, cessioni di titoli pubblici ed obbligazionari) poste in essere da imprese industriali

o commerciali non assume rilievo il loro aspetto quantitativo - e cioè la loro frequenza, o la loro

entità - se esse risultano meramente strumentali alla gestione delle risorse finanziarie di tali

10 Cfr. circolare n. 328/E/1997 (§ 3.3), cit.. 11 Lo prevede espressamente la norma e lo conferma la circolare n. 328/E/1997 (§ 3.3.1), cit..

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imprese (risorse, cioè, derivanti dalle loro attività industriali o commerciali). Le operazioni in

questione, dunque, non possono ritenersi svolte nell’esercizio dell’attività propria di tali imprese,

né possono avere rilievo ai fini del pro rata, laddove non si traducano in una autonoma e visibile

attività finanziaria esercitata nei confronti del pubblico in aggiunta a quelle industriali o

commerciali.

Come, infatti, affermato dalla Corte di Cassazione, il concetto di “attività propria del soggetto passivo”

non può che essere inteso in senso lato, facendovi rientrare “non solo gli atti che tipicamente esprimano

raggiungimento del fine produttivo o commerciale dell’impresa individuale o societaria, ma anche gli

atti ulteriori che configurino strumento normale e non meramente occasionale per il conseguimento

del fine produttivo”12; di contro, “vanno escluse tutte quelle attività che pur se previste nell’atto

costitutivo, siano eseguite solo in modo occasionale o accessorio per un migliore svolgimento

dell’attività propria dell’impresa”13.

Anche l’Amministrazione finanziaria è intervenuta sul tema, chiarendo che la nozione di attività propria

deve essere assunta sotto un profilo meramente qualitativo e deve essere intesa come quella “diretta a

realizzare l’oggetto sociale e quindi a qualificare sotto l’aspetto oggettivo l’impresa esercitata e sotto

tale aspetto proiettata sul mercato e, quindi, nota ai terzi”14.

Un ulteriore criterio di riferimento di cui avvalersi per definire l’esercizio della detrazione in presenza

dell’esercizio di un’attività imponibile e della contemporanea effettuazione di operazioni esenti è

anch’esso desumibile dal testo dell’articolo 19-bis, comma 2, D.P.R. 633/1972.

Come ricordato, tale norma dispone che per il calcolo della percentuale di detrazione non si tiene conto,

tra l’altro, delle operazioni esenti indicate dai numeri da 1) a 9) dell’articolo 10, D.P.R. 633/1972 quando

sono accessorie alle operazioni imponibili.

È stato precedentemente specificato che l’attività propria è quella compresa nell’ordinaria sfera di

azione dell’impresa che realizza l’oggetto proprio ed istituzionale. Non rientrano, pertanto, nell’attività

propria le operazioni svolte non in via principale, vale a dire come direttamente rivolte al

conseguimento delle finalità proprie dell’impresa, ma in via meramente strumentale, accessoria o

occasionale15.

12 Cfr. Cassazione n. 11085/2008. Nello stesso senso, si vedano: Cassazione n. 9762/2003 e n. 912/2006. 13 Si veda la nota precedente. 14 Cfr. circolare n. 71/461507/1987. 15 Cfr. circolare n. 25/364695/1979 e n. 71/461507/1987, cit..

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La norma è diretta ad evitare che le suddette operazioni riducano la detrazione spettante al

soggetto passivo in relazione alla sua attività ordinaria imponibile o ad essa assimilata ai fini

dell’esercizio della detrazione16.

Sulla scorta della posizione espressa dalla Corte di Giustizia17, l’Agenzia delle entrate ha precisato

che le operazioni esenti si considerano strumentali, accessorie o occasionali se implicano un uso

estremamente limitato di beni e servizi soggetti a Iva, tale da non integrare un’organizzazione

specifica per la gestione della relativa attività; di contro, è irrilevante la circostanza che da tali

operazioni derivino redditi anche superiori a quelli riferibili all’attività principale18.

È il caso, infine, di ricordare che, laddove le operazioni esenti poste in essere fossero rilevanti ai fini del

calcolo del pro rata, la holding potrà optare per la separazione delle attività, ex articolo 36, D.P.R.

633/1972, in modo da evitare gli effetti penalizzanti dell’indentraibilità sul totale degli acquisti e,

quindi, imputando specificamente a ciascuna attività (imponibile ed esente) i relativi acquisti.

16 Cfr circolare. n. 25/364695/1979, cit.. 17 Cfr. sentenza causa C-77/01 del 29 aprile 2004, EDM. 18 Cfr. risoluzioni n. 305/E/2008 e n. 41/E/2011.

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