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Diritto Civile Contemporaneo Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537 www.dirittocivilecontemporaneo.com Anno II, numero I, gennaio/marzo 2015 Responsabilità per naufragio colposo della compagnia di navigazione: una lucida rimeditazione giurisprudenziale del danno non patrimoniale da inadempimento Simone Alecci

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Diritto Civile Contemporaneo

Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537

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Anno II, numero I, gennaio/marzo 2015

 

Responsabilità per naufragio colposo della compagnia di navigazione: una lucida rimeditazione giurisprudenziale del danno non patrimoniale da inadempimento

Simone Alecci  

 

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Responsabilità per naufragio colposo della compagnia di navigazione: una

lucida rimeditazione giurisprudenziale del danno non patrimoniale da

inadempimento

di Simone Alecci

Trib. Palermo, 13 gennaio 2015, Est. Ciardo, contribuisce a delineare con

pregevole nitore argomentativo l’orizzonte della relazionalità – autentica essenza

del rapporto obbligatorio – sullo sfondo del quale la prestazione si insinua,

accanto ad una nutrita costellazione di obblighi di protezione, solo come una delle

possibili variabili.

La decisione dell’organo giudicante costituisce l’esito processuale sul versante

civile del grave incidente in cui rimasero coinvolti i passeggeri dell’aliscafo Ustica

Lines che la sera del 7 agosto 2008 solcava le acque del porto di Trapani. La

sentenza di condanna, che stringe nella tenaglia della tutela risarcitoria la società

armatrice ed il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nella veste di

successore della soppressa Autorità portuale locale, apre il varco a stimolanti- per

quanto sibillinamente evocate nel nucleo motivazionale- occasioni di riflessione

sul crinale della nozione normativamente rilevante di causalità e della “struttura

dogmatica assiologicamente orientata” degli obblighi di protezione (cfr., in questi

termini, L. MENGONI, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv.,

1986, 18).

Muovendo dal primo dei due prismi tematici evocati, cioè quello del linguaggio

eziologico, risalta immediatamente che la ricostruzione della dinamica del sinistro

non appare per nulla inficiata dai ricorrenti concettualismi che inquinano l’attuale

dibattito sulla correlazione causale tra inadempimento (già in sé evento lesivo) ed i

diversi pregiudizi ulteriori che di questo sono conseguenza immediata e diretta. In

altre parole, l’impalcatura metodologica del provvedimento sembra tradire

chiaramente la consapevolezza che il nesso di derivazione causale non rappresenta

un legame esistente in rerum natura, essendo la causalità né più né meno che una

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delle molteplici forme, logicamente pregnanti e di stampo puramente

naturalisitco-cognitivo e, dunque, pre-giuridico, della conoscenza umana (lo rileva,

con la consueta acribia, C. CASTRONOVO, Danno biologico. Un itinerario di diritto

giurisprudenziale, Milano, 1998, 206)

Il fermento dogmatico delle più diffuse teorie causali elaborate nell’arco del secolo

breve, del resto, testimonia che la traslitterazione della causalità sul piano giuridico

rappresenta sì un’operazione intellettiva complessa, ma pur sempre incardinata

entro gli steccati di uno statuto unitario (la cui edificazione più meditata su scala

internazionale risale al fortunatissimo volume di H. HART- T. HONORE’,

Causation in the Law, Oxford, 1959, tra le suggestioni del quale nessuno studioso

dell’epoca ha potuto fare a meno di imbattersi). Non è casuale, difatti, la

circostanza che persino la dottrina penalistica, pur al cospetto di una solenne

codificazione dell’istituto, non abbia quasi mai omesso di confrontarsi con i più

rilevanti apporti scientifici provenienti dalla dimensione civilistica (pioneristici gli

studi di P. TRIMARCHI, Causalità e danno, Milano, 1967 e di F. REALMONTE, Il

problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967).

La coerente disamina delle cause e delle concause dell’evento lesivo condotta dal

Tribunale sulla scia dell’accertata responsabilità colposa del comandante

dell’aliscafo, al netto di un utilizzo forse troppo disinvolto delle cosiddette prove

atipiche (che alcuni studiosi, tra cui G. MONTELEONE, Manuale di diritto

processuale civile, Padova, 2012, I, 428, per quanto nel pieno di un corso

giurisprudenziale di segno opposto, reputano utilizzabili entro margini molto più

ristretti di quelli diffusamente adottati), potrebbe dunque rappresentare

l’occasione propizia per tumulare una volta per tutte la distinzione- stancamente

riproposta dalla prevalente manualistica- tra causalità civile e causalità penale. Si

tratta, invero, di una diversificazione priva di qualunque valore sostanziale, in

quanto il linguaggio causale riflette un processo logico di cui si serve il diritto, al

pari delle scienze naturali, per collegare il prima al dopo.

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Ecco che allora, prendendo spunto da quel passaggio del sillogismo giudiziale nel

quale l’organo giudicante passa al setaccio i profili di concorrente responsabilità

dell’autorità governativa derivante dall’avere omesso (soprattutto alla luce di un

episodio analogo verificatosi un anno prima) di adeguare i dispositivi di sicurezza

alla normativa settoriale nonché di modificare specifiche disposizioni

regolamentari imponendo ai vettori limiti di velocità più stringenti anche nello

specchio d’acqua esterno al porto, si dovrebbe cominciare a rimarcare con

inequivocabile decisione che la presunta differenziazione tra causalità penale e

civile è ontologicamente inconsistente, in quanto riveste una valenza

eminentemente tassonomica o, come sono soliti esprimersi i penalisti con

riguardo al complesso problema del trattamento sanzionatorio della cooperazione

colposa, una funzione meramente di disciplina.

Essa, infatti, attiene in via esclusiva alla misurazione della relazione probabilistica

concreta tra comportamento ed evento dannoso che, pure in ambito civilistico, è

possibile ricostruire- sempre entro i limiti della regola del più probabile che non-

sulla base di modelli, come quello dello “scopo della norma violata” nell’alveo

della teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, squisitamente penalistici. Il che-

è appena il caso di specificarlo- caratterizza anche le coordinate del giudizio

prognostico effettuato dal giudice amministrativo chiamato a misurarsi con la

risarcibilità degli interessi legittimi “a risultato non garantito” (dimensione

mimetica in cui, come opportunamente messo in luce, tra gli altri, da C.

MARZUOLI, Conclusioni, in La responsabilità della pubblica amministrazione per lesioni di

interessi legittimi. Atti del LIV Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Milano,

2009, 467, non di rado alla discrezionalità astratta può corrispondere una

progressiva vincolatività della fattispecie concreta).

Una simile puntualizzazione sgombra il campo da equivoci in un momento storico

come quello attuale in cui il tema della causalità, soprattutto con riferimento alla

responsabilità medica per danno da nascita indesiderata, ha assunto una

connotazione modaiola di non poco momento che trascura palesemente di

considerare che il discorso causale vive e si articola in funzione del giudizio di

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responsabilità (lo rimarca senza perifrasi C. CASTRONOVO, Sentieri di

responsabilità civile europea, in Europa e dir. priv., 1998, 819).

Non dovrebbe prevalere, in buona sostanza, l’ambivalenza insita in un modello

compartimentato di perimetrazione del concetto normativamente rilevante di

causalità, come se il discorso eziologico potesse variare, ancor prima della

misurazione svolta dall’interprete, in funzione del giudizio nel quale confluisce. Da

questa prospettiva, non pare azzardato - ed in tale direzione si articola, d’altronde,

la notevole digressione di G. CRICENTI, Il danno da nascita indesiderata rimesso alle

Sezioni Unite (per le ragioni sbagliate), in Dir. civ. cont., 9 marzo 2015 - ritenere

convincente il criterio della regolarità causale di cui la giurisprudenza si serve per

assottigliare l’onere probatorio ricadente sulla gestante non informata delle gravi

malformazioni del feto, se non altro perché scindere la prova della causalità da

quella dell’omessa informazione (che nell’ipotesi specifica della nascita

indesiderata, prendendo le mosse dal postulato errato per cui il concepito si

duolerebbe della nascita e non della malattia, equivale a non considerare assolto

l’onere processuale semplicemente allegando la richiesta di diagnosi)

provocherebbe in controluce la riemersione della famigerata dicotomia

obbligazioni di mezzi- obbligazioni di risultato, viscosa astrazione di matrice

dottrinale che può avere un senso ove la si adoperi, anche qui, solo per misurare il

rapporto tra la componente del comportamento e quella del bene o dell’utilità

pulsanti nella struttura dell’obbligazione (cfr., sul punto, le illuminanti pagine di M.

GIORGIANNI, L’inadempimento, Milano, 1975, 227).

A ben vedere, peraltro, si rivela del tutto irragionevole perseverare nella

sovrapposizione della causalità materiale alla causalità giuridica, poiché- come

emerge plasticamente dal reticolo motivazionale della sentenza commentata- la

causalità è e non può che essere sempre giuridica. Ciò non significa, tuttavia,

negare che il linguaggio causale possa esibire un duplice aspetto, il primo legato al

fatto in sé ed alla sua riconduzione al soggetto responsabile (più prosaicamente, si

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tratta di rispondere alla domanda: chi ha commesso l’illecito?) ed il secondo

collegato all’evento e preordinato alla delimitazione delle conseguenze dannose

che da quello stesso evento si dipanano (detto altrimenti, quanto deve pagare il

responsabile). Sebbene la maggioranza degli interpreti stenti a rinunciare a questa

precisazione (fermamente contrari a tale sfumatura, reputata foriera di insidiosi

equivoci, sono A. BELVEDERE, Causalità giuridica?, in Riv. dir. civ., 2006, 7 e R.

SCOGNAMIGLIO, Responsabilità civile, in Responsabilità civile e danno, Torino, 2010,

76), non manca chi pone condivisibilmente l’accento sull’esigenza di non

confondere la duplicità funzionale del nesso causale con il rapporto di causalità,

che rimane in ogni caso uno soltanto (cfr., a tal proposito, la rigorosa riflessione di

A. IULIANI, Gli equivoci della giurisprudenza creativa, in Rivista di diritto dell’economia,

dei trasporti e dell’ambiente, 2013, 389, a margine delle funamboliche variazioni sul

tema dell’ontologia sociale ordite da Cass. Civ., 2 ottobre 2012, n. 16754).

Proprio questo snodo argomentativo consente di approdare al secondo corno

prospettico emergente dalla vicenda processuale, che è quello relativo al rilievo

che assume nella fenomenologia del rapporto obbligatorio la teorica degli

“obblighi di protezione”, posto che soltanto con riferimento a questi ultimi e ai

danni-conseguenza che evocano in chiave rimediale- e non anche al danno da

inadempimento cui la logica ed il linguaggio eziologico appaiono sonoramente

incongrui (è fin troppo ovvio che non possa esservi spazio per una

concatenazione causale tra il fatto dell’inadempimento ed il valore ad esso riferito

ed in esso inglobato delle perdite subite e del mancato guadagno) -l’accertamento

della causalità gioca un ruolo decisivo.

Ed infatti, nel condannare la società armatrice ed il Ministero delle Infrastrutture e

dei Trasporti solidalmente al risarcimento dei danni patrimoniali e non

patrimoniali subiti dall’attrice, l’organo giudicante sembra prender implicitamente

le mosse dalla constatazione per cui in qualunque obbligazione il bene dovuto è

sempre qualche cosa che va oltre l’atto del debitore e che, pertanto, l’interesse del

creditore, nel momento in cui penetra l’alone di un rapporto contrattuale, non è

diretto soltanto alla prestazione, bensì anche a non subire pregiudizio nella sfera

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della propria persona e delle proprie cose quando queste risultano circuitate nella

regolamentazione negoziale.

La peculiarità degli “obblighi di protezione” è rappresentata dall’autonomia che

esibiscono rispetto al nucleo del rapporto obbligatorio alla cui orbita, nondimeno,

rimangono mediatamente avvinti (il che, come puntualmente evidenziato da F.

PIRAINO, Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli, 2011, 682, vale a tenerli

distinti dalle mere regole di condotta, esterne al piano prospettico della funzione

realizzativa del diritto di credito). È noto che l’esigenza di rafforzare, oltre le

geometrie della concezione tradizionale dell’obbligazione, interessi che sarebbero

protetti solo attraverso la tutela aquiliana attecchisce in un ordinamento, come

quello tedesco, in cui quest’ultima è più debole rispetto a quella contrattuale. Nel

quadro ordinamentale italiano, d’altra parte, è addirittura lo stesso dettato

codicistico in materia di contratto di trasporto (art. 1681 c.c.) a distinguere

nettamente l’obbligo di prestazione propriamente inteso dai doveri di protezione

che si collocano oltre l’orizzonte dell’adempimento (cfr., in quest’ottica, C.

CASTRONOVO, Obblighi di protezione, in Jus, 1976, 145; L. MENGONI, La parte

generale delle obbligazioni, in Rivista critica di diritto privato, 1984, 510), il che lascia

emergere altrettanto chiaramente che l’essenza dei secondi riposa sul piano

dell’affidamento, colorato dalla buona fede in senso oggettivo, atto a cementare le

sfere di due o più soggetti che si relazionano in esecuzione o in occasione di una

dinamica negoziale.

Decifrata in questi termini, la complessità del rapporto obbligatorio assume rilievo

non tanto per il riconoscimento della responsabilità della società armatrice (stante

l’ancoraggio positivo assicurato dal combinato disposto degli artt. 1681 c.c. e 409

cod. nav.) quanto per l’annessione all’area del contratto di quella, ritenuta

concorrente, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Nonostante l’ordito motivazionale si limiti a richiamare l’art. 2055 c.c. (che, come

saggiamente rimarcato da Cass. Civ., Sez. Un., 15 luglio 2009, n. 16503, riproduce,

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esclusivamente dalla prospettiva del danneggiato, un dato normativo muto

rispetto alla natura ed al titolo delle concorrenti responsabilità), non sembra

avventato rintracciare nell’iter logico-giuridico disegnato dal giudicante i segni

della teoria, anch’essa di origine teutonica, degli “obblighi del traffico” (la cui

concettualizzazione si deve a VON BAHR, Verkeherspflichten, Köln, 1980),

congegnata per risolvere il problema dei contegni omissivi le cui conseguenze

possono rivelarsi pregiudizievoli nei confronti dei terzi. Articolate inizialmente in

prospettiva extracontrattuale, le suggestioni promananti da questa originale

astrazione dogmatica hanno aperto il varco ad una riconcettualizzazione del

rapporto obbligatorio incentrata sul postulato per cui colui il quale opera nel

traffico (in questo caso il Ministero) non è assimilabile al “passante” destinatario

del solo dovere generico di non ledere la sfera giuridica altrui, ma ad un soggetto

sul quale incombe uno specifico e determinato “obbligo di attenzione” che gli

deriva dal ruolo rivestito nel più ampio quadro di una vicenda contrattuale di cui

non è necessariamente parte integrante (e qui l’assonanza con il modello

penalistico del “reato omissivo improprio” imbastito attorno all’istituto della

“posizione di garanzia” è a dir poco immediata).

La morfologia dinamica degli obblighi di protezione, condensata nell’apparente

ossimoro racchiuso nel noto costrutto dell’obbligazione senza prestazione, si

spinge oltre atti di consenso liberamente manifestati sino a ricomprendere

situazioni di affidamento generate in esecuzione o, più semplicemente, in

occasione di un contatto negoziale (irriducibile, a meno di non voler generare

inopportuni moti centrifughi della responsabilità contrattuale, al mero contatto

sociale che, rievocando la configurazione approntata da LARENZ, Lehrbuch des

Schuldrechts, München, 1987, I, 104, richiama invece l’area del torto

extracontrattuale e della rarefazione, insuscettibile persino della più embrionale

forma di relazionalità, propria del quisque de populo).

La concorrente responsabilità dell’autorità governativa, ricostruita attraverso il

giudizio controfattuale di causalità omissiva, non può che colorarsi, allora, di una

venatura contrattuale: in prospettiva extracontrattuale, del resto, l’esito non

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avrebbe potuto essere analogo. Il prisma di convergenza rimediale nel quale

confluisce il concorso di responsabilità prende forma, dunque, proprio nell’art.

2055 c.c., il cui spettro normativo, a ben vedere, non rivela proprio nulla

sull’identità o diversità delle norme violate, postulando soltanto che il fatto

dannoso sia imputabile a più soggetti.

Il transito dalla logica aquiliana a quella contrattuale fondato sull’appassimento del

concetto stesso di prestazione (visto e considerato che il Ministero delle

Infrastrutture e dei Trasporti non ha stretto alcuna relazione contrattuale con il

soggetto danneggiato) esige inevitabilmente il ricorso al medium logico-normativo

della buona fede (cfr., testualmente, L. NIVARRA, Alcune precisazioni in tema di

responsabilità contrattuale, in Europa e dir. priv., 2014, 66, il cui approccio risente dei

sentieri arati dall’elaborazione dogmatica tedesca), che a sua volta permette di

approdare alla conclusione che la pubblica amministrazione non ha leso un

generico interesse giuridicamente protetto (il che aprirebbe le maglie della tipicità

in forma progressiva di cui all’art. 2043 c.c.), bensì è venuta meno all’osservanza di

un obbligo specifico e determinato.

Ma è sul versante più squisitamente rimediale della fattispecie concreta che tale

ricostruzione, implicitamente attingibile dall’impianto motivazionale, emerge in

tutta la sua coerenza endosistematica.

Ed infatti, nel procedere alla liquidazione del danno non patrimoniale patito dalla

passeggera dell’aliscafo, l’organo giurisdizionale si sottrae ammirevolmente

all’inconcepibile antinomia, sdoganata dalla catastrofe argomentativa delle Sezioni

Unite del 2008, di legare la risarcibilità di tale forma di pregiudizio al sistema della

responsabilità aquiliana (dunque, in buona sostanza, all’art. 2059 c.c.). La categoria

dell’ingiustizia del danno, del resto, ove innestata all’esterno del terreno della

responsabilità extracontrattuale, assume le sembianze di una clamorosa assurdità

logica, peraltro ingenerata dalla fallace convinzione che il sottosistema della

responsabilità da inadempimento sarebbe strutturalmente inadeguato alla

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rimozione dei danni non patrimoniali. In realtà- e l’estensore del provvedimento

emesso dal Tribunale di Palermo pare avvedersene soprattutto nella misura in cui

non avverte l’esigenza di agganciare la risarcibilità del danno non patrimoniale

nelle sue varie sfaccettature intracategoriali ai diritti costituzionalmente garantiti

mediante il varco offerto dall’art. 2059 c.c.- la monade contrattuale è tutt’altro che

inadatta ad ospitare simili meccanismi di tutela, in quanto è proprio attraverso il

piano degli “obblighi di protezione” e della clausola generale di buona fede e di

correttezza che i valori della persona lesi da eventi ulteriori rispetto

all’inadempimento acquisiscono dignità in prospettiva rimediale.

E se è vero, come ammesso da S. MAZZAMUTO, Rimedi specifici e responsabilità,

Perugia, 2011, 369, che la limpidità di questa ricostruzione non può comunque

prescindere da un appiglio positivo e che, al contempo, tale riferimento non può

agevolmente individuarsi né nell’art. 1223 c.c. (recante i segni della patrimonialità)

né tantomeno- a differenza di quanto argomentato da molti- nell’art. 1174 c.c.

(che, parafrasando C. CASTRONOVO, Danno esistenziale: il lungo addio, in Danno e

resp., 2009, 9 e E. BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1953, I, 51, altra

funzione non assolve oltre quella di rendere chiaro che l’interesse non

patrimoniale non è geneticamente contrastante con la natura essenzialmente

patrimoniale dell’obbligazione), non pare arduo riconoscere nell’art. 1218 c.c., che

nulla rivela d’altronde sul requisito della patrimonalità o della non patrimonalità, la

norma di fondazione e di giustificazione della risarcibilità di ogni pregiudizio

connesso all’inadempimento. Adottando queste coordinate ermeneutiche, appare

chiaro che anche la stessa disciplina consumeristica (ad esempio l’art. 47 del

codice del turismo sul danno da vacanza rovinata, comunque inapplicabile alla

fattispecie concreta) non sarebbe altro che la mera traduzione in ambito settoriale

di un principio già ricavabile su scala generale da una rilettura in chiave moderna-

e cioè arricchita dell’allusione dogmatica agli “obblighi di protezione”- del

concetto stesso di obbligazione.

Sotto quest’aspetto l’afflato teorico della sentenza di condanna avrebbe

probabilmente potuto mostrare maggiore incisività; d’altronde, la laconicità

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analitica con la quale procede all’enumerazione delle singole poste di danno lascia

integra la configurazione del rapporto obbligatorio in un’ottica complessa, ove

attorno al nucleo della prestazione pulsa una serie di obblighi che assicurano la

piena realizzazione di tutti gli interessi per il soddisfacimento dei quali il vincolo è

sorto.

Una fugace conclusiva osservazione si appunta, infine, sull’improprio utilizzo della

curiosa categoria del “danno da rimbalzo o di riflesso” con riguardo alla sfera delle

giovani figlie della danneggiata. Questo è forse il passaggio più friabile delle

coerenti argomentazioni del provvedimento, se non altro perché trascura di

considerare che la lesione sofferta dai familiari non può mai dirsi filtrata da quella

della vittima “primaria” dell’evento produttivo di danno (contrattuale o aquiliano

che sia), ma è essa stessa autonoma ed immediata (l’aveva finalmente compreso

Cass. Civ., 31 maggio 2003, n. 8828). Il che- si badi- non è il portato di un

manierismo puramente teorico o nominalistico, in quanto le ripercussioni che si

riverberano sul campo pratico sono tutt’altro che irrilevanti. Una per tutte:

l’inammissibilità dell’eccezione avanzata dal danneggiante nei confronti dei parenti

danneggiati dell’eventuale concorso di colpa della vittima “primaria”.

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Questa Nota può essere così citata:

S. ALECCI, Responsabilità per naufragio colposo della compagnia di navigazione: una lucida

rimeditazione giurisprudenziale del danno non patrimoniale da inadempimento, in Dir. civ.

cont., 13 marzo 2015