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DIRITTO AMMINISTRATIVO Mazzaroli Pericu, Romano Roversi Monaco Scosa, 2005 Università degli Studi di Milano Facoltà di Scienze Politiche Corso di Scienze dell’Amministrazione INTRODUZIONE 1. Il ruolo e le funzioni dell'Amministrazione. Le manifestazioni del diritto pubblico che più immediatamente vengono percepite, sicuramente sono la legge e la sentenza. La LEGGE: come norma oggettivamente vincolante tutti i soggetti dell’ordinamento. Come norma che disciplina i rapporti civili anche riconoscendo efficacia alle azioni di quei medesimi soggetti. Come norma che definisce dei comportamenti individuali come illeciti di carattere anche penale. Infine come norma che disciplina le attività giudiziarie, e processuali in genere, mediante le quali dovrebbe essere garantita applicazione ed effettività alle norme stesse. La SENTENZA: come pronuncia per mezzo della quale vengono risolte le liti tra i soggetti dell’ordinamento concernenti l’assetto dei loro rapporti civili; o vengono inflitte le sanzioni penali. Lo Stato, però, perseguendo tutta una gamma di interessi e di fini che debbono qualificarsi come pubblici ma che per i loro tratti quantitativi e qualitativi non possono essere raggiunti solo mediante leggi e sentenze come descritti sopra, opera attraverso altre manifestazioni del diritto pubblico. Per il raggiungimento di questi altri scopi sono indispensabili quelle manifestazioni del diritto pubblico che attengono all’area dell’Amministrazione, intesa in senso oggettivo, e che pertanto sono dette di diritto amministrativo. I PROVVEDIMENTI: atti che costituiscono effetti giuridici in casi particolari e in riferimento a singoli individui. Di carattere pubblico poiché non trovano riscontri nell’ordinamento di diritto privato, contrariamente al quale non si configurano in base alla bilateralità e consensualità delle parti, e avendo proprie quelle caratteristiche di unilateralità e imperatività proprio dell’autorità pubblica. Questi provvedimenti operano concretamente modificazioni giuridiche in relazione a casi ed individui singolari; sulla base di questa argomentazione muove la distinzione dalle norme che, almeno tendenzialmente, sono generali e astratte. Inoltre, rispetto alle sentenze che costituiscono applicazioni neutrali del diritto, sono azioni finalizzate al conseguimento di obiettivi specifici demandati dalle norme alle istituzioni amministrative. Oltre a questa distinzione classica è necessario annoverare tra gli atti di rilevanza amministrativa anche i provvedimenti pubblici di accordo consensuale tra due o più parti nel caso una o più di esse sia un soggetto di natura pubblica. Infine vi sono atti che non pregiudicano o modificano situazioni in essere ma che si limitano ad attestarli con la forza e l’autorevolezza propria dell’istituzione pubblica e certamente con maggiore efficacia che atti similari di natura privata. E inoltre atti che sono propedeutici alla

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DIRITTO AMMINISTRATIVOMazzaroli Pericu, Romano Roversi Monaco Scosa, 2005

Università degli Studi di MilanoFacoltà di Scienze PoliticheCorso di Scienze dell’Amministrazione

INTRODUZIONE

1. Il ruolo e le funzioni dell'Amministrazione.

Le manifestazioni del diritto pubblico che più immediatamente vengono percepite, sicuramente sono la legge e la sentenza.

La LEGGE: come norma oggettivamente vincolante tutti i soggetti dell’ordinamento. Come norma che disciplina i rapporti civili anche riconoscendo efficacia alle azioni di quei medesimi soggetti. Come norma che definisce dei comportamenti individuali come illeciti di carattere anche penale. Infine come norma che disciplina le attività giudiziarie, e processuali in genere, mediante le quali dovrebbe essere garantita applicazione ed effettività alle norme stesse.

La SENTENZA: come pronuncia per mezzo della quale vengono risolte le liti tra i soggetti dell’ordinamento concernenti l’assetto dei loro rapporti civili; o vengono inflitte le sanzioni penali.

Lo Stato, però, perseguendo tutta una gamma di interessi e di fini che debbono qualificarsi come pubblici ma che per i loro tratti quantitativi e qualitativi non possono essere raggiunti solo mediante leggi e sentenze come descritti sopra, opera attraverso altre manifestazioni del diritto pubblico. Per il raggiungimento di questi altri scopi sono indispensabili quelle manifestazioni del diritto pubblico che attengono all’area dell’Amministrazione, intesa in senso oggettivo, e che pertanto sono dette di diritto amministrativo.

I PROVVEDIMENTI: atti che costituiscono effetti giuridici in casi particolari e in riferimento a singoli individui. Di carattere pubblico poiché non trovano riscontri nell’ordinamento di diritto privato, contrariamente al quale non si configurano in base alla bilateralità e consensualità delle parti, e avendo proprie quelle caratteristiche di unilateralità e imperatività proprio dell’autorità pubblica. Questi provvedimenti operano concretamente modificazioni giuridiche in relazione a casi ed individui singolari; sulla base di questa argomentazione muove la distinzione dalle norme che, almeno tendenzialmente, sono generali e astratte. Inoltre, rispetto alle sentenze che costituiscono applicazioni neutrali del diritto, sono azioni finalizzate al conseguimento di obiettivi specifici demandati dalle norme alle istituzioni amministrative.

Oltre a questa distinzione classica è necessario annoverare tra gli atti di rilevanza amministrativa anche i provvedimenti pubblici di accordo consensuale tra due o più parti nel caso una o più di esse sia un soggetto di natura pubblica. Infine vi sono atti che non pregiudicano o modificano situazioni in essere ma che si limitano ad attestarli con la forza e l’autorevolezza propria dell’istituzione pubblica e certamente con maggiore efficacia che atti similari di natura privata. E inoltre atti che sono propedeutici alla

formazione di provvedimenti, e che pertanto, pur non avendone la forza giuridica, sono essi stessi parte del processo pubblico e costituiscono quindi atti amministrativi.

Oggi si ritiene anche che le Amministrazioni pubbliche siano dotate pure di capacità di diritto privato tendenzialmente generale. Quindi le Amministrazioni possono essere al contempo titolari di rapporti e diritti privatistici e soggetti al codice civile.

Vi sono anche azioni delle Amministrazioni che consistono nel compimento non di atti ma di fatti determinati, non sempre, da atti di natura pubblica o amministrativa.

Si fanno rientrare, poi, nel diritto amministrativo anche gli istituti attraverso cui si compongono le controversie tra Amministrazione e privati e si dà tutela ai diritti e agli interessi di questi ultimi: la Giustizia amministrativa.

Fanno parte della giustizia amministrativa: i ricorsi amministrativi, le regole con le quali è disciplinato il processo amministrativo e infine un’intera giurisdizione costituita da giudici amministrativi facenti capo a un ordine a se stante.

2. L’Amministrazione e l'ordinamento generale.

Il concetto di Amministrazione può essere inteso in modo vario. Dal precedente paragrafo si può rilevare che il profilo che più lo caratterizza è quello oggettivo, che poi, si traduce in quello funzionale: un complesso di attività distinte dalla legislazione e dalla giurisdizione, finalizzate al perseguimento di concreti interessi pubblici o meglio collettivi.

Ma è intuitivo che a questa nozione oggettiva e funzionale non può non corrisponderne una soggettiva: a tale complesso di attività, non possono non corrispondere dei soggetti deputati ad esplicarla. Un modo per indicare le Amministrazioni pubbliche in genere, in una rapida e essenziale sintesi, è: l’insieme degli organi amministrativi che fanno capo allo Stato inteso come soggetto dell’ordinamento generale. In questa categoria rientrano le authority, gli enti locali (art. 114 Cost.) e gli enti pubblici definiti in relazioni ai fini collettivi oppure i soggetti privati istituiti con i medesimi fini.

Da mettere in evidenza è come l’Amministrazione, per quanto largamente intesa, è tutta inquadrata in un ordinamento con molteplici funzioni. Il regime delle fonti è composto principalmente da leggi in senso formale e da atti equiparati. Al di sopra di questo, quantitativamente meno significative, trovano spazio le disposizione contenute nella Costituzione formale. A loro volta recentemente si inseriscono, ad un livello ancora superiore, le norme a carattere sopranazionale principalmente rappresentate dalla normativa comunitaria.

Il ruolo fondamentale che si è delineato dell’ordinamento generale è di definizione delle soggettività e delle capacità giuridiche di tutti i suoi soggetti e di determinazione dei loro rapporti reciproci, siano essi diretti (ex lege) oppure indiretti (negoziali). Non si potrebbe d’altronde pensare che questi assetti siano definiti da disposizioni regolamentari, fatta eccezione per quelle direttamente richiamate da norme primarie. Anche se ben altra è l’imponenza della normazione secondaria, che è prodotta da soggetti di Amministrazione: i regolamenti in generale e gli statuti degli enti pubblici.

3. L’autonomia dell'Amministrazione (e il suo ordinamento particolare).

L’ordinamento generale istituisce o riconosce le Amministrazioni come soggetti di diritto, determina la loro capacità, tanto quella privatistica che quella pubblicistica, e, in particolare, attribuisce poteri che fanno parte di quest’ultima; nel senso che attribuisce poteri ad un livello normativo che di solito è quello legislativo o che comunque non può essergli inferiore.

Perciò le Amministrazioni risultano essere soggetti di autonomia: nel senso che possono dare assetto a situazioni giuridiche e a rapporti oggetto di tali poteri con provvedimenti oppure possono operare analogamente esplicando le loro capacità di diritto comune.

In ambedue le ipotesi, l’autonomia delle Amministrazioni, attribuita (per i poteri pubblicistici) o riconosciuta (per la capacità negoziale di diritto comune), dall’ordinamento generale è da questo intrinsecamente delimitata. Infatti non è possibile che l’ordinamento possa attribuire un potere senza definirlo in tutti i suoi elementi essenziali: soggettivo, oggettivo, contenutistico, formale e talvolta anche causale.

Se le Amministrazioni hanno i poteri unilaterali e autoritativi che sono loro attribuiti dall’ordinamento generale almeno a livello legislativo, è ovvio che non possano adottare provvedimenti che ne superino i limiti. Se lo fanno eccedono i limiti dei loro poteri e quindi della loro autonomia: emerge così la nozione di provvedimento in carenza di potere.

Da queste considerazioni risulta chiaro che, per i provvedimenti e i comportamenti in genere di diritto pubblico delle Amministrazioni, vi è un primo parametro di valutazione della loro giuridicità: il rispetto dei limiti di potere e autonomia di cui sono espressione, ovvero la loro liceità.

Però l’autonomia delle Amministrazioni, se è attribuita dall’ordinamento generale e delimitata come per qualsiasi altro soggetto, presenta un suo ulteriore carattere specifico ed essenziale: è altrettanto intrinsecamente finalizzata. Finalizzata al perseguimento dei fini collettivi, per cui è istituita, queste ne costituiscono la giustificazione giuridica. Per questo, anche quando non è vincolata da altre disposizioni, non è mai libera quanto l’iniziativa privata. L’autonomia delle Amministrazioni si dice discrezionale, cioè quantomeno vincolata a un fine.

Rispetto al campo privato, le Amministrazioni hanno un parametro in più per la valutazione delle proprie azioni. I loro provvedimenti devono essere non solo leciti ma anche legittimi. Questa finalizzazione intrinseca dei poteri che l’ordinamento generale attribuisce all’Amministrazione è assicurata da una serie di norme che essa deve rispettare. Da norme che sono disomogenee rispetto a quelle che delimitano quei poteri medesimi. Sono norme sull’organizzazione delle varie Amministrazioni, sulla composizione dei loro organi e sui relativi riparti di competenza e infine sui procedimenti mediante i quali i poteri suddetti devono essere esercitati. La violazione di queste disposizioni da parte dei provvedimenti comporta la loro illegittimità per vizi sindacabili dalla giurisdizione amministrativa.

Norme del genere tendono ad orientare l’esercizio della discrezionalità dell’Amministrazione: è evidente quanto influiscano sulle scelte finali, concretate nei provvedimenti espressione dei loro poteri. Ma tali norme, se orientano la discrezionalità delle scelte finali delle Amministrazioni, almeno in linea di principio non arrivano ad eliderla totalmente.

D’altra parte le Amministrazioni, neppure nell’esercizio di questa loro discrezionalità residua, possono auto-determinarsi con quella libertà che è tipica dei soggetti privati nell’esplicazione delle loro autonomie. Anche in questo residuo è immanente il vincolo funzionale dei loro poteri, che si traduce nel dovere di osservare una serie di criteri che lo garantiscono: razionalità, congruità, proporzionalità e altri minori. La mancanza di questi criteri comporta un vizio di illegittimità. Anche se queste norme non sono formulate in precise disposizioni esse hanno una intrinseca natura giuridica di norma giuridica.

Come per le norme che attribuiscono, e quindi, delimitano i poteri dell’Amministrazione, anche per quelle che solo ne regolano l’esercizio deve essere accennato un collegamento col sistema delle fonti. Per le prime si è rilevato il nesso con il livello della legislazione primaria. Le seconde possono essere formulate dal medesimo legislatore (prassi diffusa fino ai primi anni ’90, fino all’inizio del processo di delegificazione) oppure attraverso la predeterminazione ex ante (regolamentazione interna e statuti).

Questi fattori fanno intravedere che, se tali norme funzionali di disciplina dell’esercizio dei poteri dell’Amministrazione venissero inquadrate nella prospettiva della teoria istituzionale, e della pluralità degli ordinamenti giuridici, essere verrebbero a costituire un ordinamento particolare delle Amministrazioni medesime, distinto, anche se derivato, da quello generale:

• perché regolano il comportamento solo di esse;• perché largamente espressione della loro autonomia normativa;• perché anche quando poste dal legislatore, questo pare operare come il massimo

organo di indirizzo dell’Amministrazione come istituzione e non come regolatore dei suoi rapporti con altri soggetti;

D’altra parte, alla duplicazione prima delineata, dei piani di valutazione della giuridicità degli atti e dei comportamenti delle Amministrazioni, corrispondeva pure una duplicazione delle giurisdizioni davanti alle quali esse anche attualmente possono essere parti. Rispettivamente, il giudice civile, ovvero il giudice di tutti per la tutela dei diritti soggettivi dei privati e per i limiti dell’Amministrazione, e il giudice amministrativo, ovvero il giudice degli interessi legittimi per i vincoli funzionali intrinseci all’autonomia della Amministrazioni.

Gradatamente, e più incisivamente dal 1998 e dal 2000, nonostante una sentenza della Corte Costituzionale (204/04) quest’ultimo giudice ha assorbito molto della tutela anche dei diritti soggettivi, una volta riservata alla giustizia civile.

Capitolo 1. FONTI, LINEE GENERALI

1. Le linee generali

Le norme costituzionali che riguardano più specificamente il diritto amministrativo, oltre all’art. 97, e ad altre disposizioni che riguardano direttamente l’Amministrazione, peraltro piuttosto scarse e disorganiche, sono quelle sui diritti individuali, sulla funzione giurisdizionale specie nei confronti delle Amministrazioni medesime, e sulle regioni e autonomie territoriali più in particolare.

2. La funzione legislativa: considerazioni generali.

A questo proposito è utile ricordare che il diritto amministrativo solo in parte consiste in una normazione primaria derivante dal sistema di fonti interne delineato direttamente dalla Costituzione: perché in misura sempre più larga ha una derivazione extra-nazionale, in particolare comunitaria. Inoltre nel nostro sistema interno delle fonti, oggi la competenza legislativa è largamente decentrata alle regioni.

Il funzionamento del sistema delle fonti, rispetto alle originarie previsioni costituzionali, si è fortemente trasformato, soprattutto dai primi anni ’90 a oggi. E ciò secondo due direttrici principali, a loro volta ciascuna scomponibile su due piani, per linee evolutive tutte rilevanti dal punto di vista del diritto amministrativo. La prima direttrice si è manifestata relativamente alla distribuzione della produzione normativa all’interno delle competenze spettanti allo Stato: nel senso di uno spostamento del baricentro di essa dal Parlamento al Governo, con una conseguente notevole alterazione del disegno del rapporto tra tali organi che la Costituzione aveva delineato.

Per quanto riguarda la normazione secondaria di competenza statale, lo spostamento di cui sopra ha comportato la tendenza a disciplinare con molta larghezza solo al livello secondario mediante regolamenti governativi e ministeriali molti aspetti delle attività delle pubbliche amministrazioni. Soprattutto la loro organizzazione e i procedimenti, ossia le modalità di esercizio dei poteri attribuiti dalla normazione primaria. La collocazione della normazione secondaria è d’altronde coerente con la natura sostanzialmente secondaria dell’oggetto normato. Il proprium di una simile normazione secondaria sta non solo nella sua subordinazione a quella primaria, ma anche nella sua provenienza dalle Amministrazioni medesime e non dal legislatore. Quindi aver devoluto all’Amministrazione la disciplina degli aspetti organizzativi e procedimentali implica pure aver reso questa funzionale agli interessi di tali amministrazioni. Concludendo, la normazione secondaria è diventata ormai espressione della loro autonomia: più precisamente dell’autonomia di ciascuna di esse.

Occorre aggiungere un altro riferimento a questo sviluppo della normazione secondaria statale il cui ampliamento si è basato soprattutto sulla nuova formulazione dei poteri regolamentari governativi e ministeriali dettata dall’art. 17 della l. 400/88. Tale normazione secondaria è venuta a incidere su materie che avevano già una propria disciplina, naturalmente, di livello primario. Quindi tale sviluppo ha comportato una larga sostituzione detta delegificazione per la cui attuazione è stata introdotta nel nostro ordinamento la figura dei regolamenti delegificanti.

La seconda direttrice di profonda alterazione del sistema delle fonti interne delineato dalla Costituzione del 1948, si è concretata in un grande sviluppo della normazione non statale, correlata all’ampliamento delle autonomie territoriali.

Per quel che riguarda il decentramento della normazione secondaria, l’art. 117 comma 6 nel testo del 2001 attribuisce alle regioni una generale competenza, riservandone allo Stato solo per le materie di sua legislazione esclusiva. Peraltro la medesima legge di riforma costituzionale ha garantito ampi spazi all’autonomia normativa, ovviamente solo secondaria, anche degli enti territoriali minori. In particolare l’art. 114 comma 2 prevede che i comuni, le province e le città metropolitane abbiano abbiano una potestà statutaria. Il successivo art. 117 comma 6 dispone che tali enti territoriali abbiano “…potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.

3. Le Regioni e gli altri enti territoriali.

Il Titolo V si apre con l’art. 114, il cui testo originario, composto da un solo comma, disponeva lapidariamente che “la Repubblica si riparte in regioni, province e comuni”. Per contro, il testo vigente del medesimo articolo è composto da tre commi, di cui il primo suona: “La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato”.

La più incisiva differenza tra i due testi è costituita dall’inversione dell’ordine nel quale tali enti sono enumerati. Secondo il testo originario è decrescente: lo Stato non è neppure nominato ed è quindi presupposto come ordinamento sovrano da cui gli altri derivano. Gli enti derivati sono quindi autonomi secondo una definizione per la quale il termine contrassegna capacità e poteri etero-attribuiti da un ordinamento maggiore ad un ente minore e non auto-attribuiti.

Il comma 2 dello stesso articolo dice: “I comuni, le province, le città metropolitane e le regioni, sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondi i principi fissati dalla Costituzione”. La norma chiarisce che questi enti sono autonomi nel senso derivato del testo originario della Costituzione. Dello Stato non vi è menzione, quasi a sottolineare che è più di autonomo e derivato: è sovrano e derivante.

Gli enti pubblici enumerati dall’art. 114 presentano una caratteristica comune: appartengono alla categoria degli enti pubblici territoriali, intesi come quegli enti per i quali il territorio svolge il ruolo non solo di limite, appunto territoriale, delle loro competenze, ma addirittura di elemento costitutivo. Questa notazione può essere compresa solo attraverso un rilievo intermedio: essi presentano un carattere preminentemente associativo.

Da questo carattere degli enti pubblici territoriali deriva tutta una serie di precise conseguenze. Anzitutto sarebbe incongruo che l’ordinamento generale riducesse le loro funzioni a singoli fini specifici. Infatti gli enti pubblici territoriali comprendono i residenti in un medesimo territorio e quindi associano persone fra loro legati da un’intera comunanza di interessi che deriva dalla loro comune residenza. Ed è naturale che tali enti estendano il loro ruolo fin dove è richiesto da questo insieme dei bisogni dei loro associati. Va da sé che in un ordinamento che pone come uno dei suoi principi fondanti quello democratico (art. 1 della Costituzione), il modo più coerente per la composizione degli organi degli enti territoriali è costituito dalla loro elezione da parte degli associati.

D’altra parte, la rilevata connessione tra le funzioni degli enti territoriali e i bisogni comuni ai loro associati, porta come conseguenza che tali funzioni possano variare in correlazione della diversità delle dimensioni degli enti stessi. Inoltre va anche considerato che in un sistema di enti territoriali i cui organi sono eletti democraticamente, ciascuno di essi è legittimato democraticamente a curare solo gli interessi che sono propri della sola comunità di cui è esponente, ovvero da cui è stato specificamente eletto, e non di altri condivisi da comunità più ampie a loro volta rappresentate in organi facenti riferimento a enti di livello superiore.

Nel nostro ordinamento il criterio prevalente di determinazione delle competenze degli enti territoriali, almeno apparentemente, consiste nella enumerazione delle materie. Ma il buon funzionamento del sistema è condizionato da clausole che lo rendano flessibile: che permettano il contemperamento del criterio della enumerazione delle materie con quello del livello di interesse. Che consentano, cioè, di attribuire ad enti territoriali minori di operare in determinate e correlate fasce di materie di per sé di competenza di enti territoriali maggiori o dello Stato, come pure consentano ad enti maggiori di intervenire in materie di per sé di competenza dei minori.

Il problema era già percepito quando vigeva il testo originario del titolo V della Costituzione. Ed era risolto col ricorso al criterio del livello di interesse: per il riparto delle competenze legislative, e conseguentemente di quelle amministrative, tra Stato e regione e per la determinazione delle competenze amministrative dei comuni e delle province.

Attualmente la soluzione di questi problemi è cercata mediante l’applicazione del principio di sussidiarietà. Questo principio è rintracciabile nei trattati istituenti la Comunità Economica Europea dove è inteso in senso verticale: come criterio di riparto di competenze tra autorità, o enti, o ordinamenti maggiori e minori e viceversa.

Nel vigente Titolo V non c’è un richiamo esplicito al principio suddetto per quel che riguarda il riparto di competenze legislative tra Stato e regioni. Come pure è scomparso ogni riferimento all’interesse nazionale come fattore di coordinamento e limite delle scelte autonomistiche. Invece vi è un richiamo esplicito al principio di sussidiarietà per i problemi che riguardano l’attività degli enti territoriali, che anche formalmente è amministrativa. L’art. 118 comma 1 recita: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurare l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane e Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.

La norma sembrerebbe simile a quella comunitaria anche se l’analogia è effettiva solo per un profilo: la verticalità in cui è inteso il principio. Per il resto la norma comunitaria è finalizzata all’accentramento mentre quella costituzionale al decentramento.

Rimane da fare un breve cenno del principio di sussidiarietà, inteso in senso orizzontale. Tale principio, in questa prospettiva, acquista un diverso significato: come criterio di limite delle funzioni pubbliche, a salvaguardia del ruolo dell’iniziativa privata, e non di riparto di competenze tra enti diversi. Attualmente l’art. 118 comma 4 del nuovo testo Costituzionale richiama il principio di sussidiarietà inteso orizzontalmente: “…favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

4. La disciplina costituzionale della funzione giurisdizionale, specie nei confronti dell'amministrazione; la riserva di giurisdizione.

Gli organi giurisdizionali hanno una grande rilevanza nel sistema delineato dalla Costituzione, la quale dedica loro varie disposizioni; di queste si considereranno soprattutto quelle di maggiore importanza dal punto di vista del diritto amministrativo.

La Costituzione attribuisce l’esercizio della funzione giurisdizionale a “…magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario” (art. 102). Al quale sono riservati i provvedimenti in materia di libertà personale, domicilio e stampa (artt. 13, 14 e 21).

La Costituzione quindi delinea una preferenza per l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte del giudice ordinario. Ma non la traduce in una vera e propria riserva, se non solo in linea di principio: perché prevede essa stessa esplicitamente altri organi aventi la medesima funzione. D’altra parte vieta al legislatore l’istituzione non solo di giudici straordinari, ma anche di nuovi giudici speciali, consentendo solo quella di sezioni specializzate.

E’ di particolare importanza per il diritto amministrativo l’art. 103 comma 1 che delinea il Consiglio di Stato e gli organi di giustizia amministrativa, come organi diversi dai giudici ordinari, ma parimenti aventi funzioni giurisdizionali. Tale norma devolve alla giurisdizione di questi giudici la tutela degli interessi legittimi. Il medesimo primo comma dell’art. 103 Cost. consente al legislatore ordinario di attribuire ai giudici amministrativi la tutela dei diritti soggettivi verso l’amministrazione, anche se solo su materie particolari, configurando così un giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi sull’Amministrazione.

Anche la previsione dell’art. 103 secondo comma è di particolare importanza per il diritto amministrativo. Tale disposizione si riferisce alla Corte dei conti, alla quale riserva la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica. La giurisdizione che l’art. 103 riserva alla Corte dei conti appare avere per oggetto questioni di diritto soggettivo che altrimenti rientrerebbero in quella del giudice ordinario. Questa norma è effettivamente e radicalmente derogatoria rispetto a quanto stabilito dall’art. 102 primo comma.

Per completezza, si deve ricordare che ai due organi giurisdizionali qui citati per che riguarda le loro funzioni giurisdizionali, il Consiglio di Stato e la corte dei conti, la Costituzione (art. 100) attribuisce anche funzioni amministrative: di consulenza giuridico-amministrativa e di controllo preventivo di legittimità sugli atti di governo.

L’art. 113 comma 1 dichiara: “Contro tutti gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giustizia ordinaria o amministrativa” sulla falsariga della clausola generale dell’art. 24 comma 1: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.

5. Il ruolo del legislatore nella costruzione dell'ordinamento generale, e l'Amministrazione; la problematicità della nozione di riserva di

amministrazione.

In un sistema caratterizzato dal vincolo imposto al legislatore ordinario di conformarsi alla Costituzione a pena di invalidità delle sue leggi, la Costituzione stessa può essere vista come un insieme di disposizioni di livello superiore che circoscrive le scelte della legge. Ma questa prospettiva è riduttiva: in realtà la carta assegna alla legislazione un fondamentale ruolo positivo. Quale questo ruolo sia lo si può intravedere dalle molteplici riserve di legge, assolute o relative, che il testo costituzionale prevede espressamente. Assolute che richiedono atti aventi forza di legge e relative che richiedono che la disciplina sia stabilita sulla base di atti primari.

Per quel che riguarda specificatamente l’amministrazione si deve cominciare col notare che già le riserve di legge relative la investono di un particolare ruolo: completare con disposizioni statutarie e regolamentari la indispensabile disciplina primaria di base. Si deve comunque ritenere, a prescindere dai casi palesemente espressi dalla Costituzione, che sia implicito nel nostro sistema il principio per il quale l’attribuzione di poteri all’amministrazione deve avvenire per legge o almeno in base a una legge.

Questo principio sembra tollerare un’unica eccezione: quando i poteri dell’amministrazione derivano addirittura da livelli ancora superiori dell’ordinamento: la Costituzione. Riassumendo: nel nostro attuale sistema costituzionale tutte le libertà e le autonomie, tutti i poteri e i diritti, ma anche, in necessaria correlazione, tutti i doveri e gli obblighi, di tutti i soggetti dell’ordinamento generale, pubblici e privati che siano,

devono essere delimitati dalla legge. Da questa regola consegue questa affermazione: il nostro attuale sistema assegna alla legislazione il ruolo positivo di attribuire, o riconoscere, e comunque delimitare, tutte le disposizioni e situazioni soggettive anzidette.

In una prospettiva opposta a quella della così ampia subordinazione dell’Amministrazione all’ordinamento generale e alla legislazione, rimane da considerare un problema di fondo: se dal ruolo che il nostro ordinamento assegna all’Amministrazione, già a livello costituzionale, se non ad uno addirittura superiore, consegua anche la garanzia per essa di spazi di scelte e di attività che gli altri poteri dello Stato devono rispettare. In altre parole, se in questo nostro ordinamento esiste quella che si chiama “riserva di amministrazione”, specialmente nei confronti dell’amministrazione.

Malgrado poche sentenze della Corte Costituzionale la risposta che si dà al problema della configurabilità nel nostro ordinamento di una riserva di Amministrazione è tendenzialmente negativa, pur se in termini variabili in relazione ai vari significati che l’espressione può assumere.

Capitolo 2. LE FONTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

1. La legislazione regionale e il concetto di legge.

Le recenti riforme istituzionali, ancorché siano rimaste fino ad ora quasi esclusivamente sulla carta, hanno profondamente modificato il quadro della legislazione regionale, anzi, hanno radicalmente modificato lo stesso concetto di “legge” e di funzione legislativa, rispetto al precedente testo costituzionale.

Se infatti, fino alla legge costituzionale n. 3/2001 si poteva tranquillamente affermare che la legge statale rappresentasse il genus nella sua essenza, oggi, stando almeno al nuovo testo costituzionale, questa affermazione non è più possibile e deve dirsi invece che, nell’ordinamento italiano, la categoria della legge è rappresentata, insieme, dalla legge statale e dalle legge regionale.

Questo risulta per tabulas dal primo comma del nuovo art. 117 Cost. che recita: “La podestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Da tale disposizione si deduce:• che Stato e Regioni sono entrambi titolari, al medesimo titolo, della podestà

legislativa;• che la podestà legislativa regionale è fondamentalmente equiordinata a quella

statale, avendo come soli limiti intrinseci quegli stessi della legislazione statale: la Costituzione, l’ordinamento comunitario e gli obblighi internazionali;

Non v’è dubbio che l’attuale ordinamento, nella sua effettività, sia ben lungi dall’essersi adeguato a questa situazione di equivalenza tra legge statale e legge regionale (come del resto sul piano organizzativo il disegno autonomistico della riforma costituzionale del 2001 è ben lungi dall’essersi realizzato).

2. I TIPI DELLA LEGISLAZIONE REGIONALE

Nel precedente assetto costituzionale, la podestà legislativa regionale si ripartiva nei seguenti tipi: podestà legislativa esclusiva, podestà legislativa concorrente e podestà legislativa delegata.

La podestà legislativa esclusiva era propria soltanto delle Regioni a Statuto speciale (ed in particolare della Regione siciliana); essa consisteva nella possibilità che la Regione emanasse, in talune materie, leggi soggette esclusivamente alla Costituzione e al rispetto di alcuni limiti ulteriori dell’ordinamento giuridico.

La podestà legislativa concorrente era attribuita anche alle Regioni a Statuto ordinario, nelle materie dell’originario art. 117 della Costituzione e dovevano essere esercitate dalle Regioni nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale vigente.

La potestà legislativa delegata era attribuita alle Regioni dalla legislazione statale, ai sensi dell’art. 117, e poteva essere esercitata nei limiti posti dalla stessa legge di delegazione.

Questo quadro tipologico è stato profondamente modificato dalla riforma costituzionale del 2001. In forza al quarto comma del nuovo art. 117, appartiene alle Regioni la podestà legislativa in qualsiasi materia che non sia espressamente riservata dalla Costituzione alla podestà legislativa statale.

Vengono inoltre enunciate le seguenti regole di ripartizione:• lo Stato ha podestà legislativa esclusiva nelle materie indicate dal comma

secondo;• lo Stato e le Regioni sono titolari di podestà legislativa concorrente nelle materie

indicato nel comma terzo dell’art. 117;• in tutte le altre materie sussiste la podestà legislativa esclusiva delle Regioni.

PODESTA’ LEGISLATIVA REGIONALE ESCLUSIVA. Questo tipo di podestà legislativa appartiene oggi tanto alle Regioni a Statuto ordinario che alle regioni a Statuto speciale. Queste ultima, già titolari di podestà legislativa esclusiva nelle materie indicate dai rispettivi statuti, lo sono oggi anche nelle materie non elencate dal nuovo art. 117. Infatti ai sensi dell’art. 10 della legge di riforma costituzionale si applica alle Regioni a Statuto speciale la disciplina di maggior favore che le nuove norme costituzionali dettano per le Regioni a Statuto ordinario.

Il legislatore costituzionale del 2001, nel prevedere la generale potestà legislativa esclusiva delle Regioni, non ha espressamente indicato alcun limite se non quelli generali validi per tutta la legislazione. Malgrado il silenzio costituzionale, l’opinione prevalente sembra indirizzata a riconoscere tuttora l’esistenza dei limiti di osservanza della legislazione statale e dell’ordinamento giuridico.

D’altronde la totale equiparazione di legge statale e legge regionale non sembra potersi dedurre dallo stesso testo riformato della Costituzione. Si consideri il comma secondo del 117, lettera m) che nella nuova formulazione affida alla potestà legislativa esclusiva dello Stato determinare i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.

Tale silenzio del legislatore costituzionale dovrebbe infatti valere come criterio ermeneutico ed implicare l'assoluta eccezionalità dei limiti alla norma costituzionale, la cui positiva individuazione dovrebbe avvenire sulla base di una interpretazione fortemente restrittiva.

POTESTA' LEGISLATIVA CONCORRENTE. Tale forma di potestà legislativa regionale era quella ordinaria prima della riforma costituzionale del 2001. Oggi, come si è visto, essa assume carattere speciale e vige solo nei casi previsti.

Nelle materie devolute alla legislazione concorrente spetta allo Stato la formulazione dei principi fondamentali della disciplina, mentre resta alle Regioni la normazione di dettaglio. Il limite dei principi fondamentali, ancora una volta, sembra quindi dover essere desunto dalla legislazione statale nel suo complesso e non dovrebbe discendere da leggi statali dettate ad hoc.

POTESTA' LEGISLATIVA DELEGATA. Tale norma di potestà legislativa regionale è stata abrogata dalla riforma del 2001. Essa potrebbe forse ritenersi ancora attuabile nell'ambito della potestà legislativa esclusiva dello Stato, ma lo stesso art. 117 comma sesto sembra privilegiare la delega a regolamentare.

Capitolo 3. LA NORMAZIONE SECONDARIA

SEZIONE I: PROFILO GENERALE

1. Introduzione.

Malgrado la sua importanza, e nonostante che essa possa, in teoria, saturare senza riserve lo spazio normativo, la legge non costituisce l'unica fonte del diritto amministrativo; anzi, quanto meno sotto l'aspetto quantitativo, non ne rappresenta neppure la fonte più cospicua.

Le esigenze di una società moderna, le cui fonti disciplinari devono sempre più soddisfare requisiti di snellezza operativa e rapidità d'intervento che la legge non possiede, convergono nel lasciare ampio margine (e creare anzi sempre nuovo spazio) per l'intervento di fonti normative di matrice amministrativa, cui è in gran parte affidata, la disciplina di importantissimi settori del nostro ordinamento.

Questa normazione amministrativa, globalmente etichettata come “secondaria”, costituisce un fenomeno vasto, vario e complesso, su cui non è facile condurre un discorso unitario. Le sue varie fonti hanno ben poco in comune: nemmeno il carattere della “secondarietà”, giacché molte di esse sono di grado inferiore al secondo. Ciò che le caratterizza in fondo è solo un dato negativo: quello di non essere leggi in senso formale.

Il rapporto tra le norme e le leggi costituisce il punto nodale della disciplina positiva della normazione secondaria. Le tipologie di quest'ultima non sono chiaramente ed univocamente definite, anche se esistono alcuni tipi di atti normativi secondari che sono ormai consacrati sul piano normativo, dottrinario e giurisprudenziale. Essi sono i regolamenti e gli statuti.

Separata considerazione, per importanza pratica e per l'ampiezza del dibattito da esse sollevato, meritano anche le circolari (norme interne) e la prassi amministrativa.

2. L'atto normativo. Concetto e individuazione.

a) Il concetto di atto normativo e la sua rilevanza pratica.Se la frammentazione della fonte “legge”, un tempo genus coerente ed unitario, costituisce un fenomeno relativamente recente, l'eterogeneità della normazione genericamente definibile come secondaria è invece un dato di lungo e costante acquisizione.

Nel campo del diritto amministrativo sono molteplici gli atti dell'Amministrazione che dettano disposizioni che concorrono a regolare la condotta dei consociati; tali atti, inoltre, non possono ricondursi ad unità sotto il profilo formale, essendo diversi sia i soggetti che li emanano sia i procedimenti di formazione.

In una sua accezione, ispirata da intenti di ricostruzione logica e teorico-generale della nozione, l'atto normativo è caratterizzato dalla novità del precetto che esso pone, precetto che modifica la realtà giuridica preesistente creando un “diritto nuovo”. In tale ottica, tra una legge, una sentenza, un provvedimento amministrativo, un negozio giuridico di diritto privato, si riscontrano distinzioni di grado e di origine ma non di sostanza, trattandosi sempre e comunque di atti “normativi”. In quest'ottica la nozione di atto normativo finisce col coincidere con quella di atto giuridico negoziale.

b) I tentativi di costruire la nozione sul piano materialeAl fine di identificare gli atti normativi, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti si affidano al tradizionale criterio della generalità ed astrattezza (caratteri già considerati propri dalla legge in senso materiale). Ma tale criterio è stato adeguatamente circoscritto e precisato, perché esistono numerosi provvedimenti amministrativi di carattere generale, di cui risulta ardua la distinzione dagli atti normativi.

In considerazione di queste difficoltà, le teorie dominanti pongono l'accento essenzialmente sul carattere dell'astrattezza, unico connotato ritenuto peculiare ed esclusivo degli atti normativi veri e propri. L'intuizione di fondo che sottende tali concezioni, è quella per cui altro è il disporre, altro è il provvedere: una cosa è dettare, in via preventiva, le regole di composizione degli interessi consociati e cosa diversa è dare un assetto concreto e puntuale a tali interessi, sia pure in termini generali.

La distinzione – teoricamente ben netta ed accolta da numerosi ed autorevolissimi studiosi – è poi, nella pratica, di ardua applicazione; basti pensare alle ricorrenti difficoltà di qualificare, in senso normativo o provvedimentale, gli atti amministrativi a contenuto generale, ed in specie gli atti programmatici (pensiamo al PRG).

Con l'istituzione delle Regioni ordinarie, fino alla modifica costituzionale del 1999, il problema si è acuito. Poiché il vecchio comma secondo dell'art. 121 Cost. riservava al Consiglio Regionale l'emanazione dei regolamenti (atti normativi) regionali mentre le Giunte comunque emanavano atti amministrativi anche di carattere normativo. Con l'adozione dei nuovi statuti regionali che possono rimodulare le competenze tra Consiglio e Giunta e l'elezione diretta del Presidente della Giunta, la questione si è normalizzata.

Le teorie dominanti hanno sostanzialmente tenuto fermo il criterio dell'astrattezza, il cui senso è stato peraltro specificato e precisato, sostenendosi così che sia atto normativo quello le cui previsioni posseggano il carattere della indefinita ripetibilità ed applicabilità a fattispecie concrete. Ma la distinzione tra il disporre e il provvedere viene desunta così

più da fattori che determinano la volizione provvedimentale, che dai connotati intrinseci delle statuizioni in sé e per sé considerate. D'altronde però la tesi che ravvisa nella intrinseca “politicità” il connotato distintivo delle fonti del diritto, ancorché possa vantare una notevole aderenza alla realtà, non sembra offrire un criterio di giudizio apprezzabilmente certo, poiché è evidente l'opinabilità estrema di simili valutazioni.

c) L'individuazione dell'atto normativo sul piano formale.V'è da osservare che il nostro diritto positivo sembra indirizzarsi verso tutt'altro genere di soluzioni e che si sta avviando un processo di identificazione degli atti normativi su base squisitamente formale, che toglierebbe, una volta completato, molta attualità e pratica ragion d'essere alle dispute in materia.

Una razionalizzazione di questa complessa materia (densa di politicità) è stata infatti tentata dalla legislazione più recente, almeno per quanto concerne gli atti normativi dello Stato Richiamiamo brevemente:

● legge 11 dicembre 1984, n. 839 sulla pubblicazione in GU degli atti normativi secondari;

● d.p.r. 28 dicembre 1985, n.1092 sulla regolamentazione dei decreti adottati dal Capo dello Stato;

● legge 23 agosto 1988, n. 400 all'articolo 17 sul procedimento dei decreti ministeriali;

V'è da osservare però che, proprio in ragione della rigorosa sottoposizione degli atti normativi ministeriali ad un procedimento particolare, che ne assoggetta l'emanazione ad un controllo non soltanto giuridico-formale ma anche politicio, i primi anni di attuazione della 400/88 hanno fatto registrare una fuga da tale disciplina.

Da tale punto di vista la legge 241/90 rappresenta un'occasione perduta: il legislatore ha infatti equiparato atti normativi, atti generali e atti programmatici, esentando tutti dall'osservanza delle norme in tema di partecipazione e di motivazione. Se, al contrario, tale esenzione fosse stata disposta per i soli atti normativi, ne sarebbe conseguito un serio incentivo alla normazione secondaria rispetto alla normazione amministrativa di carattere generale.

3. Ordinanze; bandi militari; atti amministrativi generali.

Le considerazioni fin qui svolte in ordine al concetto di atto normativo evidenziano la difficoltà non solo di enucleare una nozione universalmente valida, ma anche di indicare un unico criterio di riferimento allo scopo. Si può anzi affermare che, nel nostro diritto positivo, gli atti normativi siano contraddistinti talora da elementi di carattere formale, talora da elementi materiali.

Questa molteplicità metodologica è particolarmente evidente nel campo della normazione secondaria.

a) Ordinanze di necessità e urgenza.Il nome di ordinanza veniva dato, nello Stato assoluto ed in quello costituzionale puro, ad ogni manifestazione di volontà precettiva da parte del Monarca e dell'esecutivo. Quest'uso legato alla concezione eminentemente soggettiva degli atti governativi si è perpetuato in parte ancora oggi.

Per generale consenso le ordinanze in senso stretto vanno più propriamente qualificate come ordinanze di necessità e d'urgenza e consistono in una particolare categoria di ordini che talune autorità amministrative sono autorizzate ad emanare, sul presupposto della necessità e dell'urgenza di provvedere, con contenuto non predeterminato, appunto per poterlo adattare a quanto le circostanze di volta in volta richiedono.

Il dato comune di questi provvedimenti è di non avere un contenuto predeterminato, ma di trovare nella legge autorizzativa soltanto l'indicazione dei presupposti (necessità e urgenza) e del fine (tutela dell'ordine, della salute, dell'igiene o dei diritti costituzionali...): è questo un carattere distintivo delle ordinanze rispetto ai provvedimenti amministrativi d'urgenza.

Le ordinanze in questione possono avere contenuto generale ed astratto ovvero particolare e concerto: nel primo caso, adottando il criterio materiale di individuazione di atti normativi, si afferma che esse hanno appunto carattere di norma.

In questa prospettiva, si indicano pure i limiti del potere di ordinanza, limiti costituiti in primissimo luogo, come per ogni atto normativo, dalla necessità di rispettare la Costituzione e le leggi costituzionali. Da qui discende l'impossibilità di emanare ordinanze in campi coperti da riserva di legge assoluta.

Si aggiunge poi l'ulteriore limite del rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico, limite inteso ad evitare che le ordinanze possano assumere contenuto abnorme e del tutto contrario alle regole della convivenza civile.

Nelle materie non coperte da alcuna riserva di legge, il potere di ordinanza può invece svolgersi liberamente (salvo quanto già esposto). E' possibile quindi esercitare il potere stesso, non soltanto prater legem (al di fuori delle previsioni del legislatore), ma anche contra legem (in contrasto con la disciplina ordinaria).

Contrasti sorgono invece circa il carattere normativo delle ordinanze: se abbiano o meno forza di legge. Chi sostiene la tesi affermativa osserva che le disposizioni in deroga innovano comunque, sia pur in periodi di tempo circoscritti, la disciplina vigente. Le ordinanze avrebbero forza di legge ma non valore, non essendo soggette alla Corte costituzionale ma al giudice amministrativo.

Chi sostiene la tesi negativa ritiene invece che la forza di legge sia tale solo se modifica definitivamente l'ordinamento e che pertanto non la posseggano atti per definizione derogatori.

b) Bandi militari.Ad un'ispirazione in fondo analoga a quella che impone la conservazione del potere di ordinanza, rispondono i bandi militari, provvedimenti normativi che le autorità militari sono autorizzate ad emanare in tempo di guerra; essi valgono limitatamente alla zona di operazioni, alla parte del territorio di altro Stato soggetto ad un pericolo esterno, alla porzione del territorio di altro Stato eventualmente occupata da truppe italiane.

I bandi militari hanno, per espressa disposizione, forza di legge. Oggetto di discussione è invece la costituzionalità della loro previsione da parte della legge di guerra (r.d. 1415/38) e del codice penale militare di guerra. Si sostiene autorevolmente che simili poteri spettino solo al Governo, cui siano stati conferiti dalle Camere i poteri necessari per lo stato di guerra, ex art. 78 della Costituzione. Non vi sarebbe spazio per un'altra attività normativa svolta direttamente dalle autorità militari.

Chi afferma la permanente validità di tali atti normativi, pur dopo l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, ne rinviene il fondamento nello stesso articolo 78 leggendo il termine “Governo” come riferito all'esecutivo nel suo complesso, ovvero nel carattere costituzionale delle stesse leggi che prevedono i bandi militari.

Della legge i bandi militari non hanno soltanto la forza, ma anche il valore e quindi sono assoggettati al giudizio della Corte costituzionale.

c) Atti amministrativi generali.Sono gli atti che si rivolgono ad una pluralità di destinatari, indeterminati ed indeterminabili; ciò li differenzia dagli atti plurimi, che hanno si una pluralità di destinatari, ma specificatamente individuati a priori.

Questo stesso dato li accomuna invece agli atti normativi, dai quali li separa tuttavia un distinto regime giuridico che si concreta nelle seguenti note caratterizzanti:

● gli atti amministrativi generali possono emanarsi purché l'autorità competente abbia, in materia, potestà amministrativa;

● gli atti amministrativi generali non hanno efficacia erga omnes, ma solo nei confronti dei soggetti da essi contemplati, né possono quindi essere da altri invocati.

La distinzione tra atti amministrativi generali ed atti normativi è assai ardua, ed anzi deve riconoscersi che a tutt'oggi non è stato individuato un criterio generalmente valido.

Così avviene, per esempio, per il piano regolatore generale urbanistico o per i provvedimenti determinativi dei prezzi. In questi casi, o esistono rigorosi criteri distintivi formali, o le soluzioni concrete, nell'uno e nell'altro senso, finiscono con l'essere positivizzate con la formazione di un indirizzo giurisprudenziale consolidato, che lascerà sempre dubbi dogmatici, ma che avrà almeno i pregio di orientare senza incertezze gli operatori del diritto.

Con questa doverosa premessa, e con l'ulteriore avvertenza che la giurisprudenza, pur normalmente propensa ad adottare il criterio basato sulla generalità ed astrattezza delle prescrizioni, non di rado si avvale anche di altri indici, si enunciano qui di seguito quelli che sembrano al momento gli indirizzi prevalenti in ordine al carattere normativo o meno di taluni atti amministrativi di particolare rilievo:a) Piano regolatore generale urbanistico. Si ritiene che abbia natura mista. Per la precisione si riconosce carattere normativo alle statuizioni generali e astratte contenute nelle norme d'attuazione. Mentre si attribuiscono valore di provvedimenti generali alle previsioni relative alle localizzazioni e zonizzazioni, aventi carattere generale ma concreto;b) Provvedimenti di determinazione di prezzi e tariffe. Si inclina a ritenerne la natura non normativa. Si sostiene la natura generale ma concreta delle relative statuizioni che non creano una disciplina astratta ma determinano il prezzo di beni o merci o servizi in relazione ad un interesse pubblico;c) Bandi di gara e di concorso. Ancorché li si definisca correntemente leggi speciali della gara o del concorso, i relativi bandi non hanno natura di atti normativi. Infatti, nonostante abbiano carattere generale (rivolgendosi ad una indeterminata pluralità di soggetti), essi non posseggono il requisito dell'astrattezza riguardano la singola procedura cui si riferiscono;d) Ordinanze ministeriali in materia di pubblica istruzione. Per il conferimento di incarichi e supplenze, come pure per il trasferimento del personale docente della scuola;

SEZIONE II: LA NORMAZIONE SECONDARIA E LA LEGGE

1. Il principio di legalità – lineamenti generali.

Il problema dei rapporti tra la legge e la normazione secondaria si può riassumere essenzialmente in quello della vigenza e della portata del principio di legalità. Si definisce tale, in termini generalissimi, il principio per cui una pubblica funzione deve trovare il proprio fondamento in una norma di legge, che genericamente l'autorizzi e giustifichi il vigore imperativo degli atti cui essa s'esprime.

Secondo una concezione largamente diffusa la legalità costituisce l'equivalente moderno del charisma divina: così come questo era ritenuto indispensabile perché il Sovrano potesse pretendere obbedienza e rispetto dai sudditi, la legalità è oggi necessaria perché il potere pubblico possa godere del consenso dei cittadini.

L'esistenza di una norma di legge che autorizzi il pubblico potere è stata quindi considerata addirittura come requisito indispensabile per la legittimazione politica del potere stesso, ossia come necessario fondamento della pretesa di obbedienza che esso avanza nei confronti dei cittadini.

L'esaltazione del valore della legalità è storicamente sopravvissuta al contesto politico-istituzionale da cui essa traeva origine e riaffiora nella scienza giuridica. Questo valore nasce nel periodo di egemonia della classe borghese la quale trova nel parlamento il punto di emersione e di riferimento all'interno dell'apparato statale.

La riduzione delle altre funzioni dello Stato a mera proiezione ed esecuzione della legge si è pienamente attuata solo nei confronti della funzione giurisprudenziale, nella quale indubbiamente il valore della legalità assume carattere tendenzialmente assoluto.

Ben più complessa la vicenda per quanto riguarda l'Amministrazione, nel cui ambito il principio di legalità si è affermato in modo non sempre uguale, né per estensione né per intensità. Le amministrazioni di stampo burocratico, prive come sono di un diretto legame con la comunità civile, tendono a ritrarre integralmente dalla legge la legittimazione politica della propria autorità, mentre, per contro, le amministrazioni autonome, specie se a base territoriale (Regioni, Provincie e Comuni), si configurano come emanazione della collettività da esse amministrate, ed hanno dunque un titolo di legittimazione politica in gran parte indipendente dalla legge.

Del principio si può dare una versione bilaterale (o costituzionale) ed una trilaterale. La prima coglie il significato del principio nella totale subordinazione dell'attività amministrativa alla legge, di cui si configura come mera attuazione. La versione trilaterale ritiene invece che il principio sia funzionale alla tutela del cittadino, o meglio delle situazioni giuridiche di quest'ultimo.

Egualmente vario il quadro relativo all'intensità applicativa del principio, del quale si predicano un'accezione formale ed una sostanziale. La prima di esse intende il valore del principio di legalità in termini di mera conformità intrinseca tra la legge e l'attività amministrativa, la seconda vi scorge invece un significato più forte e pone l'esigenza che il rapporto tra le due si ispiri ad una conformità intrinseca o contenutistica.

Affrontando il tema che qui specificatamente interessa, sembra di poter dire che, per quanto concerne l'attività normativa secondaria dell'esecutivo, il principio di legalità da un lato richiede che ogni manifestazione di funzione normativa secondaria abbia un fondamento legislativo, e sia pertanto autorizzata da una legge, dall'altro che esso

consenta che la legge si limiti ad autorizzare tout court ed in via generale l'esercizio della potestà normativa secondaria, indicando l'organo cui spetta e le materie per cui la stessa è attribuita. Entrambe queste affermazioni sono state oggetto di discussione.

In ordine alla prima (necessità dell'interpositio legislatoris per l'esercizio del potere normativo secondario), si è autorevolmente affermato che la nostra Costituzione offre essa stessa un diretto riconoscimento al potere regolamentare. Senonché se è vero che tale norma presuppone e legittima in astratto la potestà normativa secondaria, è vero anche che essa nulla afferma in ordine alla modalità ed ai presupposti del suo esercizio, e che l'interpositio legislatoris attiene appunto a questo profilo.

Egualmente contestata, poi, l'affermazione del (possibile) carattere solo formale della necessaria autorizzazione legislativa, che – si sostiene – deve spingersi fino a disciplinare il contenuto del potere attribuito. Questo deriverebbe dal principio che la “giustiziabilità” dei diritti e degli interessi del cittadino è garantita solo dalla “raffrontabilità” dell'attività amministrativa ad un modello legale quanto più possibile esatto e completo.

Questa tesi non ha peraltro raccolto decisivi consensi nella dottrina, in cui sono invece prevalenti le tesi opposte, per la quale la nostra Costituzione ammette la vigenza formale del principio nei confronti della normativa secondaria. Non v'è dubbio – lo si vedrà più oltre – che ciò corrisponda a ben precise esigenze delle società contemporanee in materia di ordinamento e ripartizione di competenze tra le fonti del diritto, ma tale considerazione non può ovviamente non risultare decisiva sul piano dell'interpretazione giuridica.

E' vero piuttosto che l'attività amministrativa non può considerarsi integralmente come proiezione ed esecuzione della legge, perché l'Amministrazione, nel suo complesso e comunque in alcune sue importanti articolazioni (per esempio le autonomie locali), ha un profondo e diretto radicamento nel corpo sociale, che ne legittima di per sé la veste autoritaria, senza bisogno che la sua attività trovi, in ogni suo aspetto, un preciso riscontro legislativo.

2. Riserva di legge e preferenza di legge.

Non è possibile iniziare una, sia pur breve, descrizione dei principi di riserva e preferenza di legge, senza dar conto della riforma del titolo quinto, parte seconda della Costituzione. Essa ha, tra l'altro, determinato l'equiordinazione (e la separazione) della legislazione statale e di quella regionale, sottoposte ai medesimi limiti interni e internazionali.

Ad imporsi, in tendenziale sostituzione al principio di gerarchia, è il principio di attribuzione delle competenze, individuate a livello costituzionale con determinazione di materie di competenza statale e concorrente. Tuttavia, le materie si presentano in concreto intrecciate e parzialmente sovrapposte: ciò implica che le linee distintive fra i tre ambiti di azione (competenza legislativa esclusiva statale, concorrente e residuale regionale) non siano affatto nette. La logica vorrebbe un passaggio da un'Amministrazione per atti a un'Amministrazione per risultati, quindi da una normazione per atti a una normazione per risultati.

Molto stretti i rapporti intercorrenti tra il principio di legalità e riserva di legge, che taluno, in dottrina, ha voluto addirittura identificare; nel senso che l'insieme delle riserve di legge previste dalla Costituzione esaurirebbe l'ambito di applicazione del principio di legalità.

Richiamando brevemente alcune nozioni, ricordiamo che si definisce riserva di legge assoluta quella previsione costituzionale per cui una certa materia può essere disciplinata solo dalla legge, mentre la riserva relativa è quella che impone al legislatore di dettare la disciplina generale della materia considerata, che può dunque, per il resto, esser lasciata alla normazione secondaria.

Lo spazio che le norme costituzionali consentono all'esercizio della potestà normativa secondaria è quindi assai diverso: nel caso di riserva assoluta, la normazione di secondo grado, se non addirittura vietata, deve comunque ritenersi strettamente limitata alla disciplina di aspetti meramente esecutivi e specificativi rispetto a quelli regolati dalla legge (in concreto ciò significa che nelle materie coperte da riserve assolute sono ammessi solo i c.d. Regolamenti d'esecuzione); nel caso della riserva relativa, la normazione secondaria può invece coprire tutta l'area della disciplina di dettaglio, nell'ambito e sulla base di principi che devono comunque essere dettati dalla legge (in materie coperte da riserva di legge relativa non sono dunque ammissibili i c.d. Regolamenti indipendenti).

Circa i requisiti della disciplina legislativa necessaria a soddisfare la riserva di legge, sorgono ovviamente vari problemi. Un criterio spesso seguito dalla Corte Costituzionale afferma che costituisce disciplina legislativa “sufficiente” quella che elimina ogni discrezionalità dell'Amministrazione, criterio tuttavia nel quale è fin troppo palese la confusione tra discrezionalità o libertà. Il regime della riserva di legge massimizza il principio della c.d. “preferenza di legge”, che ha però ambito più ampio.

In una diffusa accezione, la “preferenza di legge” esprime la più alta collocazione della legge stessa nella gerarchia delle fonti, ergo: la subordinazione ad essa degli atti di normazione secondaria. Si parla così di un aspetto attivo della preferenza, concretantesi nell'immediata abrogazione delle norme poste dalla fonte sottordinata non appena la materia da esse regolate sia disciplinata da legge. Analogamente, se ne scorge un aspetto passivo consistente nell'impossibilità che la disciplina legislativa previgente sia posta nel nulla da una successiva contrastante normazione secondaria.

Nella prima accezione, il principio di preferenza di legge esprime l'inammissibilità di riserve a favore della normazione secondaria, la quale non potrebbe mai opporsi a che quanto essa disciplina sia oggetto di regolamentazione da parte della legge.

Con la modifica costituzionale del 2001, l'attenzione si rivolge fondamentalmente agli statuti e ai regolamenti degli enti locali. La legge cost. 3/2001 porta a compimento una parabola avviata dalla legge n. 142/90 (TUEL) e proseguita con la 265/99, con la quale gli statuti erano chiamati a determinare le disposizioni fondamentali relative all'organizzazione dell'ente. Con la sostituzione dell'art. 114 si è sancito che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti ... secondo i principi fissati dalla Costituzione”.

Muta quindi, e si fa più labile, il principio della preferenza di legge. Specie con riguardo agli enti locali si dequota quella tesi che vede lo Statuto come fonte subprimaria e configura la riserva di Statuto nel quadro dei principi fissati dalle leggi generali della Repubblica. Il nuovo 114 e l'abrogazione del 128 comportano una vera e propria riserva di normazione statutaria, tanto che si arriva a parlare degli Statuti come fonti primarie, o quanto meno fonti primarie atipiche, non essendo suscettibili di sindacato di costituzionalità davanti alla Corte Costituzionale.

SEZIONE III: I REGOLAMENTI

1. I regolamenti governativi, introduzione

Il tipo di atto normativo secondario di gran lunga più diffuso e più importante è il c.d. Regolamento. Questo nome, a dire il vero, designa una serie del tutto eterogenea di atti normativi, alcuni dei quali si collocano indiscutibilmente ad un livello primario nella gerarchia delle fonti. I regolamenti parlamentari e i regolamenti comunitari, per esempio, non possono certo ascriversi al novero delle fonti secondarie.

E' solo attenendoci al lessico comune (senza alcuna pretesa di precisione tecnica) che affermiamo che il regolamento costituisce il tipo prevalente di atto normativo secondario. Di esso esistono, nel nostro diritto positivo, numerose specie, classificate primariamente in ragione dell'autorità da cui essi promanano: abbiamo così regolamenti governativi, regolamenti ministeriali, regolamenti degli enti pubblici. Questi tre tipi regolamentari possono poi esser ulteriormente suddivisi in varie figure, distinte ora sulla base della materia disciplinata, ora sulla base dell'ampiezza del potere normativo che vi si esprime.

Con il termine regolamenti, senza ulteriore aggettivazione, ci si intende riferire (sempre nel lessico comune) ai regolamenti governativi, che rappresentano senz'altro la specie più rilevante dell'intero genus, nonché quella più tormentata e tuttora più discussa.

Il regolamento governativo costituisce l'espressione principale del potere normativo del Governo, anzi ne rappresenta l'unica vera manifestazione, perché il potere regolamentare è il solo di diretta pertinenza dell'esecutivo. La varia configurazione dei rapporti tra il regolamento e la legge trova quindi piena spiegazione solo se la si colloca nell'ambito dei rapporti, mutevoli e non sempre univoci, tra il potere legislativo e quello esecutivo. L'evoluzione di tali rapporti, nel nostro ordinamento, passa attraverso quattro fasi: la prima attiene al periodo monarchico-costituzionale; la seconda all'epoca del c.d. predominio parlamentare; la terza, al regime fascista; la quarta è quella aperta dalla Costituzione repubblicana.

Con la modifica del titolo quinto della Costituzione ci si avvia probabilmente verso una quinta fase contraddistinta dal fatto che i mutevoli rapporti fra legge e e regolamento debbono a loro volta essere configurati alla luce del sopra detto ampliamento della competenza legislativa regionale, che comporta l'allargamento della potestà regolamentare regionale. Infatti ai sensi dell'art. 117 comma 6, lo Stato mantiene potestà regolamentare nelle sole materie assegnate alla sua competenza legislativa esclusiva, salvo delega alle regioni.

Si consideri, peraltro, come in tale processo di moltiplicazione dei centri di produzione normativa, sempre maggior rilievo, quantitativo e qualitativo, assumono i poteri regolamentari attribuiti dalla legge alle c.d. Autorità indipendenti. Evidentemente l'attribuzione di poteri regolamentari a tali soggetti determina problemi di carattere costituzionale di estrema rilevanza. Essi sono sostanzialmente riconducibili alla dubbia natura ed al dubbio fondamento delle Autorità indipendenti che, tendenzialmente estranee al circuito di rappresentanza politica, e quindi in costante tensione col principio di legalità, con tali poteri normativi si trovano sovente a incidere su posizioni soggettive del cittadino.

2. Segue: profilo storico

Nella prima fase, i rapporti tra legge e regolamento non sono improntati alla gerarchia ma alla competenza. Ciò risponde alla stessa costituzione materiale di un tale tipo di Stato, in cui tra le forze liberali e le forze monarchico-aristocratiche esiste un compromesso tendente alla ripartizione del potere politico in misura pressoché uguale. Questa situazione politico-istituzionale favorisce inoltre una ripartizione di competenze normative tra legge e regolamento (ergo: tra Parlamento e Governo) di carattere sostanzialmente orizzontale piuttosto che verticale: è solo una ripartizione orizzontale a garantire infatti il minimo di interferenza e sovrapposizione tra le due sfere di competenze; la distinzione avviene dunque per materia, ossia attraverso la individuazione di una sfera di rapporti la cui regolamentazione è riservata a ciascuna delle due fonti.

Questo discende dal fatto che la materia legis (ossia la sfera di rapporti riservata alla disciplina del legislatore) venne naturalmente individuata nella regolamentazione di quelli che apparivano allora come i fondamentali diritti del cittadino, compendiati nelle endiadi “proprietà e libertà”. Oltre a ragioni economiche (determinanti), spingevano a questa soluzione anche elevatissime e fortissime istanze ideali, che hanno poi trovato concretizzazione giuridica nel regime delle libertà personali disegnato dalle costituzioni rigide (la cui rigidità è appunto funzionale alla protezione del cittadino dei confronti dei suoi onnipotenti rappresentanti parlamentari).

Il successivo mutamento della Costituzione materiale porta all'esaltazione del ruolo del Parlamento sul Governo e sulla Corona, trasformando il sistema dualistico in monistico. Analogamente muta il rapporto tra legge e regolamento, attraverso un processo di espansione della prima, cui nessuna materia è più istituzionalmente preclusa: si verifica quindi una rapida “legificazione” del campo normativo, ed il conseguente assoggettamento della fonte regolamentare alla legge formale.

Anche questa trasformazione ha importanti conseguenze sistematiche: basti accennare all'appannamento dei connotati “materiali” della legislazione, che, intervenendo sempre più di frequente in campi prima riservati all'esecutivo, verrà via via assumendo caratteri spiccatamente provvedimentali (amministrativizzazione della legge).

Questo processo di esaltazione del ruolo della legge, che determina la definitiva degradazione del regolamento a fonte secondaria, non si compie tuttavia senza ambiguità. E' in questo stesso torno di tempo che si afferma il carattere generale del potere regolamentare del Governo. La legge si colloca alla base della potestà regolamentare in modo non episodico né tanto meno specifico, ma come autorizzazione ampia e perenne.

Ad imporre il riconoscimento dell'importanza della normazione dell'esecutivo concorrono molti fattori, tra i quali essenzialmente due: il primo, fondamentale, è costituito dalla totale perdita di peso politico delle aristocrazie nobiliari, che si identificavano un tempo con l'esecutivo stesso. Quindi non vi era più motivo di svilire e negare il ruolo di un potere esecutivo che non si configurava più come politicamente alieno e contrapposto a quello legislativo. L'istituzione di un legame fiduciario tra Parlamento e gabinetto favorisce poi l'identificazione di quest'ultimo con la maggioranza parlamentare, della quale il Governo viene a configurarsi come longa manus.

Si consideri che l'eccessiva concentrazione della funzione normativa nel Parlamento ha effetti deleteri sulla funzionalità di questo stesso organo. Nato per dibattere e decidere grandi questioni di fondo, il Parlamento non può disperdersi in un'attività di normazione minuta, senza con ciò rimetterci in prestigio ed in capacità operativa concreta.

Il nuovo assetto dei rapporti tra legge e regolamento, determinatosi nel periodo di onnipotenza parlamentare, viene in qualche misura codificato nel nostro ordinamento dalla legge 100/26, la quale per la prima volta attribuisce una base legislativa al potere regolamentare del Governo (prima riconosciuto dalla Statuto Albertino). In tal modo il potere regolamentare non può più vantare un autonomo titolo di legittimazione, indipendentemente dalla legge, ma affonda proprio in quest'ultima le sue radici.

La legge prevedeva che il Governo potesse emanare regolamenti in tre casi, ossia per disciplinare: 1) l'esecuzione delle leggi; 2) l'uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo; 3) l'organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche.

L'avvento della Costituzione repubblicana apre una stagione di profonda incertezza nei rapporti tra legge e regolamento. Causa prima di ciò è la stessa laconicità della carta costituzionale, che si limita, nell'art. 87, a prevedere che il Capo dello Stato “emana i regolamenti”, senza null'altro aggiungere in ordine a tale fonte normativa, mentre una espressa disciplina viene dettata per i regolamenti regionali. Nella stessa costituzione si rinvengono norme (artt. 95 e 97) che contengono esplicite riserve di legge e impostano in maniera del tutto nuova il tema dei rapporti tra legge e regolamento in materie di fondamentale importanza e di grande estensione.

Senza alcuna pretesa di un'impossibile completezza ci limitiamo a fornire un quadro sintetico delle questioni più dibattute, con riferimento ai singoli tipi regolamentari noti al precedente ordinamento.

A) REGOLAMENTI ESECUTIVI. Ne viene generalmente ammessa la sopravvivenza, soprattutto perché si tratta – come si è visto – della specie che meno si discosta dal principio di legalità. Piuttosto se ne discute il fondamento: mentre prima il relativo potere si riteneva conferito in via generale al Governo dallo Statuto e dalla legge 100/26, ora, sicuramente abrogato lo Statuto, è sorto il problema della sopravvivenza della disciplina legislativa del 1926.

Se anch'essa dovesse considerarsi caducata ad opera dell'entrata in vigore della Costituzione, infatti, difetterebbe un titolo di legittimazione generale della potestà regolamentare esecutiva del Governo, con la conseguenza che l'esercizio della potestà stessa dovrebbe essere autorizzato, volta per volta e singulatim, dalla stessa legge cui si vuole dare esecuzione, attraverso la cd. “clausola a regolamentare”.

B) REGOLAMENTI INDIPENDENTI. Categoria molto discussa questa, della cui compatibilità col sistema costituzionale repubblicano non pochi autori dubitano. La dottrina prevalente è peraltro indirizzata in senso favorevole all'ammissibilità dei regolamenti indipendenti dei quali sostiene per lo più, a tal fine, la differenza solo quantitativa e non qualitativa rispetto ai regolamenti d'esecuzione. Secondo tale concezione mentre i regolamenti esecutivi intervengono a disciplinare una materia già organicamente trattata da atti legislativi, i regolamenti indipendenti si svolgono in un campo che la legge non disciplina o che disciplina sommariamente.

C) REGOLAMENTI D'ORGANIZZAZIONE. La riserva di legge posta in materia d'organizzazione degli uffici pubblici dell'art. 97 della Cost., ha carattere relativo. La necessaria predisposizione di una base legislativa lascia pertanto intatta la possibilità di una disciplina di dettaglio da parte della fonte regolamentare. E' dunque opinione corrente che i regolamenti d'organizzazione siano passati, con l'entrata in vigore della Carta repubblicana, dal novero dei regolamenti indipendenti a quello dei regolamenti esecutivi.

D) REGOLAMENTI DELEGATI. Molto discussi pure i regolamenti delegati, dei quali parte della dottrina contesta l'ammissibilità fondandosi sulla considerazione che la Costituzione conosce una sola forma di delega di attività normativa al Governo: quella di cui all'art. 76, i cui limiti potrebbero in concreto essere elusi da una delegazione a regolamentare.

Sotto altro, ma parallelo, profilo si è affermato che l'ammissibilità dei regolamenti delegati ne postula tuttavia la sottoposizione al sindacato di legittimità costituzionale, in quanto si tratta di atti produttivi di norme di livello primario, del tutto equiparabili alla legge.

Ma – come già per i tipi regolamentari esaminati in precedenza – anche per i regolamenti delegati l'orientamento prevalente è favorevole alla loro ammissibilità (si tratta peraltro di un fenomeno di imponente portata), riconducendoli – sia pur talora con una certa fatica – all'interno del sistema costituzionale.

I problemi più gravi sono posti dai c.d. “regolamenti di delegificazione” , e da quelli “in deroga”. Questi ultimi sono regolamenti espressamente autorizzati, dalla legge che li prevede, a derogare a singole e specifiche norma legislative; i primi, più importanti, sono regolamenti cui la legge di autorizzazione consente di disciplinare ex novo materie già oggetto di normazione legislativa, dalla quale l'esecutivo è del pari autorizzato a discostarsi.

La deroga a norme legislative nominate e specifiche, apportata dal regolamento, viene usualmente giustificata asserendo che non si tratta di abrogazione, bensì di semplice e circoscritta sospensione della disposizione derogata, la quale rimane in vigore e riacquista automaticamente pienezza dispositiva ove venga meno la norma regolamentare derogante.

La c.d. “delegificazione “ viene invece spiegata riportando l'abrogazione delle leggi vigenti in materia alla stessa legge che autorizza l'esercizio del potere regolamentare; l'emanazione del regolamento costituirebbe quindi il fatto giuridico al verificarsi del quale acquista efficacia la disposizione abrogativa implicitamente contenuta nella legge di autorizzazione. Il regolamento, pertanto, non abrogherebbe in realtà la legislazione previgente in materia e non si opererebbe, quindi, una parificazione del regolamento stesso alla legge.

3. Segue: i regolamenti governativi nella l. 400/88

A questa situazione di incertezza, nella prospettiva di un rilancio e di una sistemazione dell'attività normativa del Governo, ha inteso porre rimedio la l. 400/88 il cui art.17 disciplina in maniera organica la potestà regolamentare.

Con l'entrata in vigore di questa disciplina, inoltre, molti dei problemi di cui si è accennato trovano piena soluzione; in particolare risulta ormai superata ogni questione inerente la sopravvivenza della l. 100/26, la cui disciplina è ora integralmente sostituita dalla novella del 1988.

Il disegno legislativo vede così articolata la materia regolamentare: regolamenti esecutivi (art. 17, lett. a); regolamenti attuativi ed integrativi (art. 17, lett b); regolamenti “indipendenti” (art. 17, lett. c); regolamenti “di delegificazione” (art. 17, comma 2°). Vengono altresì menzionati i regolamenti d'organizzazione (art. 17, lett d) e, fino alla riforma del pubblico impiego disposta dal d.lgs. 29/99 – che ha disposto la

contrattualizzazione della materia – i regolamenti relativi al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti (art. 17, lett. e).

Una disciplina specifica è stata introdotta dalla l. 59/97, che ha aggiunto all'art. 17 in esame il comma 4° bis, relativamente alla organizzazione e disciplina degli uffici dei Ministeri.A) REGOLAMENTI ATTUATIVI. La loro esplicita previsione in una norma di legge successiva all'entrata in vigore della Costituzione, ne munisce l'emanazione di una sicura autorizzazione legislativa generale. Non hanno più ragion d'essere i dubbi circa la necessità che l'esercizio della relativa potestà da parte del Governo debba essere autorizzato volta per volta da ogni singola legge.

B) REGOLAMENTI ATTUATIVI ED INTEGRATIVI. Si era accennato più sopra ai dubbi che possono sorgere circa l'estensione del concetto di esecuzione, ed alla difficoltà di ricomprendervi discipline di respiro più ampio della semplice normazione di dettaglio. Proprio per tagliar corte con tale problematicità, la l. 400/88 ha previsto espressamente la potestà generale del Governo di emanare regolamenti di “attuazione ed integrazione” delle leggi recanti norme di principio.

La norma pone un limite generale a tale potestà: che non si versi in materia riservata alla competenza legislativa regionale. Va inoltre sottolineata la sicura esistenza di un altro limite generale, che stranamente l'art. 17 lett. B invece non menziona: quello della vigenza di una riserva di legge assoluta, che impedisce al legislatore di limitare il proprio intervento normativo nella materia alla semplice prefissione dei principi cui deve informarsi la normazione secondaria.

C) REGOLAMENTI INDIPENDENTI. L'art. 17, lett. c) della legge 400/88 autorizza in via generale il Governo ad emanare regolamenti nelle materie del tutto sprovviste di disciplina legislativa, salvo che esse non siano coperte da riserva di legge (assoluta o relativa). La disposizione in esame appare dotata di enormi potenzialità espansive, ben al di là di quanto si riteneva finora potesse avvenire coi regolamenti indipendenti.

Basti riflettere su due possibili conseguenze: la prima, che una semplice disposizione di legge ordinaria la quale abrogasse, senza minimamente sostituirla, l'intera disciplina legislativa di un settore, aprirebbe ipso facto il campo alla regolamentazione governativa. La seconda, che, data l'intrinseca labilità definitoria delle varie materie, il cui contenuto è soggetto a molteplici e rilevanti mutamenti, potrebbe non risultare difficile, al Governo, individuare nuove materie, ritagliandole in modo vario da quelle preesistenti, ed aprirsi così autonomamente spazi per esercitare il potere regolamentare.

D) REGOLAMENTI C.D. “DI DELEGIFICAZIONE” O “AUTORIZZATI”

Nel secondo comma dell'art. 17, si prevede che il Parlamento, con legge di delegazione recante le norme generali regolatrici della materia, possa autorizzare il Governo a disciplinare materie non coperte da riserva di legge assoluta, abrogando nel contempo, con effetto dall'entrata in vigore delle norme regolamentari, la disciplina legislativa previgente.

La norma è stata accolta con comprensibile favore dalla dottrina: essa da un lato equipara, almeno quanto alla fissazione dei principi direttivi della materia “delegificata”, la delegazione regolamentare a quella legislativa, dall'altro chiarisce in maniera definitiva che è la legge delegante, con disposizione espressa, a dover abrogare la legislazione previgente, sia pure con effetto dall'emanazione dei regolamenti autorizzati.

L'art. 20 della legge 59/97 ha recentemente introdotto una forma speciale di regolamento autorizzato, che verrà utilizzata soprattutto per la semplificazione delle procedure amministrative. Il meccanismo prevede la presentazione entro il 31 gennaio di ogni anno, da parte del Governo, di un disegno di legge per la delegificazione delle norme riguardanti i procedimenti amministrativi. I regolamenti così autorizzati sono adottati con la procedura consueta, arricchita dal parere delle Commissioni parlamentari competenti e, se del caso, da riunioni con le Amministrazioni interessate.

Sulla scia del processo avviato dalla l. 59/97, sono state poi approvate la 50/99 (Bassanini-quater) e la 340/00. Tali leggi hanno ampliato il novero delle materie sottoposte a delegificazione ed hanno all'uopo introdotto peculiari procedimenti (come quello per la realizzazione di TU).

Con riguardo ai regolamenti di delegificazione, il novellato art. 117 della Cost., assegnando come si è visto allo Stato il potere di regolamentare, salvo delega, nelle sole materie di competenza esclusiva, dovrebbe precludere la possibilità di delegificazione – e di adozione di testi unici- nelle materie di competenza residuale e concorrente delle regioni.

E) REGOLAMENTI DELEGATI. L'espressa previsione di una specifica forma di delegazione a regolamentare nei confronti del Governo e la contemporanea mancanza di ogni cenno in ordine alla possibilità di far luogo ad altre modalità di autorizzazione all'esercizio del potere regolamentare, dovrebbero esser sufficienti ad escludere l'ulteriore ammissibilità dei c.d. Regolamenti delegati, se non appunto nelle forme del regolamento “di delegificazione”.

In sintesi conclusiva, il quadro dei rapporti di legge e regolamento può così ricostruirsi, secondo un ordine crescente di libertà e di ampiezza della potestà normativa secondaria:

a) regolamenti esecutivi, ridotti a mera proiezione e specificazione della legge;b) regolamenti attuativi, che possono sviluppare liberamente i principi posti dalla

legge secondo un modello che si riporta a quello della competenza legislativa ripartita ex. 117 Cost.;

c) regolamenti “di delegificazione”, che operano sulla base dei criteri direttivi della legge delegante, secondo uno schema riportabile a quello dei rapporti tra legge di delegazione e decreti legislativi;

d) regolamenti indipendenti, che operano in campi in cui manca affatto una disciplina legislativa, anche solo limitata ai principi;

Con tutto ciò, non vi è dubbio che la distinzione tra le varie forme fin qui esaminate, non sostenuta da alcun criterio formale, sia tutt'altro che netta, e che possa risultare in pratica assai difficile individuare la specie cui il singolo regolamento appartiene. Va anzi osservato, conclusivamente, che i vari regolamenti potrebbero in concreto appartenere contemporaneamente a più specie: che cioè, ad esempio, un regolamento potrebbe recare norme di carattere esecutivo ed altre più propriamente attuative- integrative rispetto alla legge.

4. Segue: i regolamenti d'organizzazione

I regolamenti d'organizzazione non presentano caratteri particolari rispetto ai tipi già esaminati, potendo in concreto riportarsi ad uno qualsiasi di essi.

La loro autonoma previsione nel comma primo dell'art. 17 si deve presumibilmente, più che ad un omaggio del legislatore nei confronti della tradizione, alla volontà di proporre

un modello di ripartizione della normazione in materia tra legge e regolamento sostanzialmente analogo a quello di chi prefigura una “riserva di Amministrazione” nel campo organizzativo. Tuttavia, la posizione di un qualsiasi limite alla normazione primaria non può derivare da una norma di livello a sua volta primario, ma deve necessariamente derivare da una norma di livello di grado superiore. Se dunque vi era nel legislatore del 1988 un intento di tal genere, lo strumento adoperato si rivela del tutto inidoneo allo scopo, sicché le previsioni della lettera d) dell'art. 17 appaiono sostanzialmente confermative dello status quo e prive di qualsiasi portata innovativa.

La tendenza a disciplinare essenzialmente per regolamento la materia dell'organizzazione amministrativa ha trovato recentemente sfogo nelle disposizioni dell'art. 1 della legge 537/93 che hanno demandato in vario modo al Governo un'ampia potestà regolamentare al fine di riorganizzare profondamente la P.A.

Tale disciplina, che ha sollevato numerosi interrogativi, dimostra inoltre la tenuità del disegno di razionalizzazione dei rapporti tra legge e regolamento della 400/88, anche in questo caso forzato dallo stesso legislatore.

5. Segue: i regolamenti di recepimento degli accordi sindacali

Al precipuo fine di dissipare ogni dubbio circa il carattere regolamentare dei decreti presidenziali di ricezione degli accordi sindacali per il pubblico impiego previsti dalla l. 93/83, la 400/88 faceva infine menzione di tali atti.

La materia è ora compiutamente disciplinata dal d.lgs 29/93, le cui disposizioni hanno abrogato in questo campo quanto previsto dalla 400/88.

Nel generale ambito dell'organizzazione degli uffici amministrativi, la disciplina dello status giuridico ed economico del personale ha sempre rivestito un grande rilievo, tanto da costituire il nucleo stesso della riserva d'Amministrazione in materia organizzativa.

Ogni datore di lavoro (ogni ente) pubblico, in assenza di un intervento generale del legislatore, ha quindi fatto valere la pretesa di regolamentare in piena autonomia i propri rapporti di lavoro. Il settore presentava quindi una marcata eterogeneità, accentuata dalla frammentazione dell'organizzazione amministrativa conseguente all'instaurarsi del pluralismo istituzionale tipico dello stato contemporaneo.

Ogni ente pubblico vi provvedeva attraverso una propria disciplina, che solo per i titolari di potestà legislativa si svolgeva, almeno in parte, al livello della normazione primaria. Altrove imperava la fonte regolamentare: la gran parte degli enti pubblici disciplinava lo status giuridico e (soprattutto) economico dei propri dipendenti attraverso la predisposizione del “regolamento organico e del personale”. Questa situazione fino a non molti anni fa.

La forte avanzata del movimento sindacale verificatasi negli anni '70 investiva, dopo quello privato, anche il settore pubblico; le richieste erano di razionalizzazione e unificazione dei trattamenti da una parte e di collettivizzazione della contrattazione dall'altra.

Nel corso degli anni '70 il combinarsi di tali due istanze portò alla stipula di accordi nazionali di lavoro per singole branche del pubblico impiego. Questi accordi non avevano, di per sè, alcuna forza normativa, né potevano essere direttamente inseriti nel sistema delle fonti della disciplina del pubblico impiego.

Il meccanismo cui si fece allora ricorso fu quello della ricezione dell'accordo, con apposito atto, da parte dei vari enti compresi dall'accordo stesso. Le statuizioni dell'accordo venivano applicate in quanto e perché norme regolamentari del singolo ente.

Si passa poi dal regime della contrattazione informale a quello della contrattazione formale, attraverso la l. 93/83. Il contenuto della legge può essere così riassunto:

a) viene demandata alla contrattazione collettiva la disciplina delle seguenti materie: retribuzione; organizzazione del lavoro; mansioni; distribuzione dell'orario di lavoro; istruzione professionale ed addestramento; guarantigie del personale; mobilità;

b) si individuano settori omogenei d'impiego pubblico, i c.d. “comparti”;c) nell'ambito delle materie di cui sopra, si procede alla formazione di accordi

sindacali a vario livello: generale, per comparti e decentrato per singoli enti;d) gli accordi vengono deliberati dal CdM, cui compete la sola verifica della

compatibilità finanziaria e la decisione sulle eventuali osservazioni; quindi essi vengono sottoposti al visto della Corte dei Conti cui segue l'emanazione del Presidente della Repubblica;

Con questo sistema, gli accordi collettivi vengono trasfusi in un atto regolamentare del Governo, e ne acquistano quindi la forza.

6. Segue: i regolamenti d'attuazione della normativa comunitaria

Il quadro del potere regolamentare del Governo è stato recentemente completato (ed arricchito) con la l. 86/89. Rinviando ad altra parte del presente Manuale l'esposizione e il commento approfondito del disegno generale della legge, ci limitiamo a trattare qui dell'attuazione in via regolamentare delle direttive, o raccomandazioni comunitarie.

Tale attuazione può esser consentita con la stessa legge che, annualmente, deve essere presentata alle Camere dal Governo per adeguare alla disciplina comunitaria il diritto interno (c.d. “legge comunitaria”). L'autorizzazione al Governo può essere conferita per regolamentare materie già disciplinate con legge, ma non riservate alla legge.

La stessa “legge comunitaria”, autorizzando il Governo ad attuare le direttive comunitarie tramite regolamento, detta le norme indispensabili a circoscrivere il potere così conferito, ed in particolare: compie le scelte circa le varie modalità d'attuazione eventualmente consentite dalla direttiva; introduce le sanzioni penali e/o amministrative se del caso necessarie; individua gli organi amministrativi competenti ad applicare la nuova disciplina.

Il regolamento d'attuazione è emanato con una procedura speciale, che vede l'intervento delle commissioni legislative permanenti competenti per materia di Camera e Senato, cui compete di render un parere in merito allo schema di decreto, e prevede, il normale procedimento ex art. 17 della 400/88.

Si tratta in questo caso, come per i regolamenti di ricezione degli accordi collettivi di lavoro, di una fonte regolamentare atipica, insuscettibile di modificazioni se non attraverso una nuova manifestazione del medesimo potere.

Il regolamento così emanato è dunque assimilabile ai regolamenti “autorizzativi”, pur essendo espressione di un potere governativo globalmente minore, in ragione del fatto

che la “legge comunitaria” di autorizzazione deve compiere essa stessa tutte le scelte significative, lasciando in facoltà dell'esecutivo solo opzioni di minore momento e di carattere quai esclusivamente esecutivo.

Altra questione se sia o meno ammissibile l'attuazione in via regolamentare degli obblighi comunitari, posta in eventuale violazione della riserva di legge. La Corte Costituzionale pare ammettere tale possibilità, ma limitatamente ai casi di mera riserva relativa di legge.

7. Segue: osservazioni conclusive sulla potestà regolamentare del Governo

Sul fondamento del potere regolamentare del Governo, abbiamo accennato al fatto che le prime tesi formulate al riguardo ritenevano che tale fondamento risiedesse nello stesso potere discrezionale della P.A., la quale, così come poteva, in virtù della sua discrezionalità, dettare regole di condotta ai singoli, aveva facoltà di provvedere analogamente nei confronti della generalità dei cittadini.

Con il progressivo assoggettamento dell'esecutivo al legislativo, e la conseguente affermazione dei principi di legalità e di preferenza di legge, a questa tesi viene sostituendosi quella per cui il potere regolamentare sussiste solo in presenza di un'apposita autorizzazione legislativa.

Questa tesi deve tuttora tenersi per valida, anche se la nostra Costituzione riconosce certamente la potestà regolamentare del Governo.

Inoltre, il ruolo dell'esecutivo nella produzione di norme appare tutt'altro che secondario: il Governo infatti può:

a) emanare decreti-legge e decreti legislativi;b) emanare regolamenti;c) esercitare un potere di iniziativa legislativa particolarmente penetrante ed

efficace;d) attraverso l'ufficio centrale per il coordinamento dell'iniziativa legislativa e

dell'attività normativa del Governo, svolgere una periodica revisione della normativa legislativa e regolamentare vigente, al fine di coordinare le varie disposizioni e promuovere le opportune iniziative necessarie allo scopo;

Il disegno complessivo che sembra emergere dalle recenti leggi sul potere regolamentare è quello di una ripartizione delle competenze normative tra Parlamento e governo che vede affidate al primo le scelte di fondo della disciplina, mentre la normativa attuativa dei principi stessi è emanata ora dall'esecutivo, ora dalle Regioni.

In questa medesima logica si spiega l'uso corrente di designare come “delegificazione” non soltanto l'affidamento di taluni rami disciplinari alla normazione secondaria, ma anche l'ampliamento delle potestà legislative delle Regioni.

8. I regolamenti ministeriali

La potestà regolamentare, nell'ambito del Governo, non compete solo al Consiglio dei Ministri, ma anche al Presidente del Consiglio ed ai Ministri (singolarmente ovvero insieme ad altri membri del gabinetto), su autorizzazione legislativa.

I regolamenti così emanati assumono la denominazione di regolamenti ministeriali (ed anche “interministeriali”). Malgrado vanti una lunga e costante tradizione nel nostro ordinamento, il potere regolamentare dei ministri è stato ancora più discusso e indefinito della potestà regolamentare del Governo.

Il potere regolamentare dei ministri è noto da lungo tempo, ma non aveva mai formato oggetto di specifica disciplina legislativa fino alla legge 400/88. Le disposizioni in essa contenute prevedono espressamente che i regolamenti ministeriali, soggetti ai regolamenti governativi, siano emanati dal ministro nelle materie di sua competenza ed in base ad apposita previsione legislativa. Essi sono adottati previo parere (obbligatorio ma non vincolante) del Consiglio di Stato, che deve pronunciarsi entro 90 giorni dalla richiesta. Prima della loro emanazione, i regolamenti ministeriali devono esser comunicati al Presidente del Consiglio dei ministri. Essi sono soggetti al visto ed alla registrazione della Corte dei Conti. Sono pubblicati sulla gazzetta ufficiale, dopo l'inserzione nella raccolta ufficiale degli atti normativi.

Esaminiamo ora, sinteticamente, il significato di queste previsioni:a) la potestà regolamentare dei ministri può esser esercitata solo su espressa

specifica autorizzazione legislativa, e nelle materie di competenza del ministro. Vengono così risolte negativamente in radice le due principali questioni dibattute in dottrina prima della novella: se cioè si potesse autorizzare l'esercizio della potestà regolamentare del ministro in via generale ed una volte per tutte, e se gli si potesse conferire tale potestà anche al di fuori delle specifiche competenze del ministro stesso;

b) il regolamento ministeriale è sottoordinato rispetto ai regolamenti governativi;c) il regolamento ministeriale deve esser preceduto dal parere del Consiglio di Stato,

e deve esser vistato e registrato dalla Corte dei Conti, e pubblicato infine sulla gazetta ufficiale;

d) prima della sua emanazione, il regolamento ministeriale deve esser comunicato al Presidente del Consiglio dei Ministri;

La prassi precedentemente instauratasi al riguardo vedeva l'esercizio del potere regolamentare da parte del singolo ministro del tutto sganciato da un qualsiasi riscontro inteso a coordinarlo con l'indirizzo generale del Governo. Adesso questo non è più possibile: attraverso la comunicazione dello schema di regolamento, il Presidente del Consiglio può: richiedere notizie, dati, atti e documenti; avanzare proposte ed osservazioni; verificare la rispondenza dello schema di decreto agli indirizzi governativi; controllare la compatibilità con i regolamenti del Governo; etc. etc. Si tratta in definitiva di poteri particolarmente penetranti, tali da incidere profondamente sul concreto assetto della potestà regolamentare dei ministri. Ciò spiega il fenomeno di “fuga” dalla disciplina, e, in genere, dalle norme tendenti a razionalizzare, anche sul piano formale, l'attività normativa dei singoli ministri.

9. Segue: i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri

L'attribuzione di potestà regolamentare ai singoli ministri comporta, per generale opinione, il necessario riconoscimento di analoga potestà al Presidente del Consiglio. Problematica è l'assimilazione, che pure comunemente si opera, tra potere regolamentare ministeriale e potestà normativa secondaria del Presidente del Consiglio.

A prescindere da ogni questione circa la parificazione del Capo del Governo ad un qualsiasi ministro, infatti, in alcune delle materie affidate al potere regolamentare presidenziali, i relativi atti sembrano collocarsi ad un livello gerarchico superiore a quello

(terziario) proprio dei regolamenti ministeriali, talvolta secondario e talaltra addirittura primario.

La tendenza a fare dei d.p.c.m. fonti normative equiparate ai regolamenti governativi ha poi trovato significativo sbocco nella prassi in cui non è infrequente che essi siano preceduti da una deliberazione del CdM.

Particolare rilievo assumono oggi i d.p.c.m. in tema di organizzazione degli uffici di presidenza del Consiglio e in ordine alla effettiva determinazione della tempistica procedurale volta alla riforma dei ministeri.

10. Segue: le direttive ministeriali

Si dice “direttiva”, in un'accezione molto generica, l'atto con cui un organo sovraoordinato detta regole di comportamento agli organi ad esso sottoposti; la direttiva, secondo l'opinione tradizionale, si differenzia dall'ordine gerarchico perché, al contrario di quest'ultimo, essa consente margini di scelta circa il comportamento da seguire e, al limite, circa la stessa osservanza del comando ricevuto, che potrebbe esser addirittura disatteso, purché con adeguata motivazione.

La dottrina conosce anche il fenomeno delle direttive avente carattere materialmente normativo, che tuttavia viene ricondotto nell'ambito dell'ordinamento amministrativo: le norme eventualmente dettate con la direttiva sono sempre e soltanto “norme interne”, irrilevanti come tali per l'ordinamento generale.

In ogni caso le direttive, per la loro eterogeneità, non potrebbero avere natura normativa ex se, ma solo in ragione del loro eventuale contenuto. Se dunque si seguisse un criterio formale di riconoscimento degli atti normativi, le direttive dovrebbero sicuramente escludersi da tale novero.

SEZIONE IV: Statuti e regolamenti degli enti pubblici

1. Generali

La potestà normativa secondaria (al pari di quella primaria o legislativa) non è riservata allo Stato, ma è propria, in misura più o meno ampia, anche degli enti pubblici: essa costituisce espressione della c.d. autonomia normativa, che rappresenta, a sua volta, il principale contenuto della autonomia pubblica.

Non tutti gli enti pubblici ne sono peraltro dotati, e, soprattutto, non tutti ne sono dotati in egual misura: si va dalla massima autonomia attribuita alle Regioni, a quella, minore, degli enti locali, a quella, ancor più ristretta dei c.d. enti strumentali.

A prescindere dall'autonomia normativa regionale, gli altri enti pubblici esercitano tuttavia la propria potestà normativa nelle medesime forme: statuti e regolamenti, inquadrabili entrambi nel novero delle fonti secondarie.

Intendiamo dar qui brevemente conto delle linee generali dell'autonomia statutaria e della potestà regolamentare degli altri enti pubblici.

2. Statuti e potestà statutaria

Al contrario dei regolamenti, che possono avere ad oggetto le più varie materie, gli statuti atti – fonte contraddistinti proprio dal loro contenuto, che è rappresentato, in tutti i casi, dalle norme organizzative fondamentali delle strutture cui si riferiscono.

Lo statuto è dunque definibile come la “legge fondamentale” di un determinato organismo, ed in tale genus rientra la stessa carta costituzionale. La denominazione e più ancora il fenomeno stesso dello statuto non sono peraltro propri del solo diritto pubblico, ma si presentano sostanzialmente identici anche nell'ambito privato.

In diritto positivo assumono tale denominazione sia norme promananti dallo stesso organismo che esse sono volte a disciplinare (c.d. statuti autonomi), sia norme poste da altra autorità (statuti eteronomi).

Non il possedere uno statuto, ma il possedere autonomia statutaria può ritenersi (semmai) sintomo della natura ordinamentale dell'organismo che ne sia dotato: ciò in quanto l'autonomia statutaria non è totalmente equiparabile all'autonomia organizzativa, né se ne differenzia esclusivamente sotto un profilo quantitativo, ma si rivela qualitativamente diversa, se è vero che disegnare l'organizzazione di vertice di una struttura significa imprimervi un sia pur lato indirizzo politico.

L'autonomia statutaria dunque – se non è tale soltanto di nome – implica del pari un'accentuata autonomia politica dell'organismo che ne è dotato, e tale capacità di autodeterminazione dei propri fini costituisce un sintomo sicuro della consistenza ordinamentale dell'organismo stesso, segnandone la separatezza e l'individualità rispetto alle altre realtà istituzionali.

Dal punto di vista dell'autonomia statutaria, si distinguono così: a) pseudo-statali, coincidenti in toto con quelli eteronomi; b) statuti – tipo, nei quali il modello di base è designato da norme statali, ed all'ente spetta semplicemente il compito di colmare i vuoti; c) statuti esecutivi, in cui lo Stato pone le norme di base, cui l'ente, attraverso lo Statuto deve solo dare attuazione e specificazione; d) statuti di autorganizzazione, in cui all'ente è invece attribuita una effettiva possibilità di forgiare come meglio ritenga la propria organizzazione di vertice.

Quest'ultima forma comincia a divenire più frequente: a parte il caso degli enti locali, un'autonomia statutaria di un certo rilievo è stata attribuita alle università.

3. I regolamenti regionali

La disciplina dei regolamenti regionali è radicalmente diversa nelle Regioni a statuto ordinario ed in quelle a statuto speciale. La Costituzione, pressoché silente sui regolamenti governativi, è invece piuttosto diffusa su quelli delle Regioni a statuto ordinario, per cui detta una disciplina abbastanza precisa.

Da essa si desume che i regolamenti regionali erano elaborati dal Consiglio Regionale, fino a diversa disposizione statutaria, resa possibile dalla revisione del 1999, la quale in particolare ha cancellato la riserva consiliare per l'adozione dei regolamenti, prima preclusa alla Giunta, in futuro presumibilmente organi titolare della potestà regolamentare nella Regione.

I regolamenti sono emanati dal Presidente della Giunta, e vengono pubblicati secondo le modalità previste nello Statuto regionale. Fino alla modifica del 99, sorgevano due ordini

di problemi. Il primo concerne la distinzione tra legge e regolamento regionale, finché essi promanano dal medesimo organo e sono approvati con la medesima procedura. Il rilievo della distinzione attiene alla sottoposizione al controllo governativo, perché il visto del commissario del Governo è previsto solo per le leggi e non per i regolamenti regionali, sottoposti invece al controllo previsto per gli atti amministrativi.

Esiste, secondo i più, una riserva relativa di legge regionale nelle materie di cui al 117 della Costituzione, sicché, in tale ambito, la Regione dovrebbe comunque dettare con legge la disciplina di base, mentre il regolamento potrebbe assumere solo carattere esecutivo. Non sarebbero quindi ammissibili regolamenti regionali “delegati” o “indipendenti”.

Il secondo problema che è emerso in passato attiene alla necessità di distinguere, nell'ambito degli atti della giunta regionale, quelli di natura regolamentare e quelli amministrativi di carattere generale.

Nelle Regioni a statuo speciale, la distribuzione del potere normativo è sin dall'origine invece del tutto simile a quella statale: mentre le Assemblee regionali godono del potere legislativo, quello regolamentare è attribuito alla Giunta.

Alle considerazioni svolte, bisogna aggiungere che la legge costituzionale 3/01 ha fortemente inciso sullo spazio riservato alla potestà regolamentare. Infatti, ai sensi del 117 “la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia”.

I punti più dibattuti appaiono essenzialmente due: a) le tipologie di regolamenti ammissibili; b) se sia possibile con Statuto delineare nuove tipologie di regolamenti. Nessun dubbio dovrebbe sussistere circa l'adottabilità di regolamenti esecutivi e attuativi – integrativi. Piuttosto, un problema si può porre quanto al rapporto fra regolamenti attuativi – integrativi e legislazione regionale concorrente.

Infine, si dubita che la fonte statutaria possa autonomamente riservare a regolamenti la disciplina esclusiva di talune materie, ambito che spetterebbe più che alla legge fondamentale dell'ente (statuto) alla riserva di legge, e si auspica che proprio con legge regionale si integrino i meri “principi fondamentali di organizzazione e funzionamento” dettati dallo Statuto, magari attraverso la disciplina del procedimento per l'emanazione del regolamento e prevedendo una fase consultiva sulla legittimità del regolamento di cui si lamenta la carenza.

4. Regolamenti degli enti pubblici

Oltre che potestà statutaria. Alcuni enti pubblici hanno anche potestà regolamentare, per lo più di tipo esclusivamente organizzativo. I regolamenti che gli enti pubblici possono emanare attengono infatti in massima parte alla struttura degli uffici ed al rapporto con il personale.

Non tutti i regolamenti degli enti pubblici hanno natura normativa: secondo la dottrina prevalente molti di tali regolamenti sono validi esclusivamente nell'ambito dell'ente, e non hanno effetti nei confronti dei cittadini. I regolamenti aventi carattere realmente normativo sarebbero così esclusivamente “regolamenti esterni”, ossia i regolamenti organizzativi e quelli che disciplinano l'erogazione dei servizi che l'ente presta alla collettività.

I regolamenti degli enti pubblici hanno rango terziario e non già secondario: oltre che alle leggi essi sono sottoordinati anche ai regolamenti governativi.

SEZIONE V: Statuti e regolamenti degli enti locali

1. La potestà normativa degli enti locali prima della 142/90

Ci è sembrato opportuno riservare un'apposita sezione alla potestà normativa secondaria degli enti locali, perché, con l'esclusione di quella spettante al Governo, essa è di gran lunga la più importante.

L'inusitata ampiezza di potestà disciplinari deriva, come ben si intende, dalla intrinseca natura ordinamentale del comune, nel quale trova espressione una comunità originaria, preesistente allo stesso Stato: è quindi del tutto naturale che l'ente esponenziale di un tale ordinamento provveda direttamente alle necessità primarie della vita associata. E' nel quadro complessivo della riforma costituzionale del titolo V che è ormai più direttamente enucleabile una generale e piena autonomia normativa di Comuni, Province e Città metropolitane.

Tutto ciò costituisce un corollario del principio d'autonomia, la cui forza espansiva è tale da comportare un ampliamento tendenzialmente illimitato degli ambiti della potestà normativa locale, nel senso che tutto ciò che attiene alla vita delle comunità di cui gli enti locali sono espressione, è pure tendenzialmente oggetto della competenza normativa degli enti stessi. A quest'ultima conclusione la dottrina prevalente non riteneva di poter pervenire: prima della 142/90, gli orientamenti dominanti tendevano a riconoscere la potestà normativa degli enti locali solo in presenza di una esplicita attribuzione legislativa in tal senso.

Le numerose ipotesi in cui la legge attribuiva al comune la potestà di emanare regolamenti venivano variamente classificate:a) una prima distinzione riguardava quelli che si ritenevano regolamenti in senso proprio e quelli che tali non venivano invece considerati;b) una seconda distinzione riguardava i regolamenti interni e quelli esterno;

2. La potestà normativa degli enti locali nella 142/90 (ora d.lgs 267/00). L'autonomia statutaria anche alla luce della riforma del Titolo V.

La legge 142/90, venendo incontro ai voti di gran parte della dottrina e dell'opinione pubblica, ha riconosciuto a comuni e province autonomia statutaria.

Abbiamo già accennato al fatto che la mancanza di potestà statutaria negli enti locali, dopo l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, aveva suscitato critiche sempre più forti: sia sotto l'aspetto giuridico (mancato riconoscimento dell'autonomia politica con lo Statuto) sia dal punto di vista dell'efficienza amministrativa (medesima normazione per enti molto diversi tra loro).

Le tesi che si confrontavano erano in sostanza tre: la prima voleva che ai comuni fosse riconosciuta un'autonomia statutaria integrale, e che pertanto ciascun ente potesse decidere liberamente quale forma di governo adottare; la seconda voleva che la legge

indicasse alcuni modelli di governo, lasciando all'autonomia dei singoli comuni la scelta del modulo preferito; la terza, infine, riteneva necessaria la predisposizione legislativa di un unico disegno organizzativo di massima, che ciascun ente potesse quindi integrare, ma non modificare radicalmente.

Nonostante che le due prime soluzioni fossero avallate dalla migliore dottrina e nonostante che la seconda di esse fosse già stata sperimentata con successo in Spagna, la scelta del legislatore è caduta sulla terza soluzione.

La ragione non è né tecnico-giuridica, né tanto meno ispirata all'efficientismo organizzativo, ma è puramente politica e consiste nella ritenuta necessità di omogeneizzare la forma di governo degli enti locali, per evitare un'eccessiva frammentazione municipalistica.

Bisogna dunque, prima di ogni altra considerazione, esaminare le disposizioni dettate dalla 142/90 in tema di potestà statutaria comunale, per verificare se esse consentano agli enti locali un'effettiva autonomia nella determinazione del proprio assetto organizzativo di vertice. Su questo punto, l'opinione prevalente è senz'altro negativa, e si ritiene pertanto che la 142/90 non offra all'autonomia locale spazi adeguati.

Quanto agli organi, essi non solo sono individuati dalla legge nel tradizionale numero di tre (Consiglio Comunale, Giunta e Sindaco), ma vengono disciplinati dallo stesso legislatore in maniera quasi totale. Dalla 142/90 emerge infatti abbastanza chiaramente un disegno complessivo che vede il Consiglio comunale (eletto direttamente dal corpo elettorale) come organi di indirizzo e di controllo (con competenze “bloccate”), mentre il potere gestionale è concentrato nella giunta, organi a competenza generale residuale. La riforma del 1990 è stata accolta da taluno con profonda delusione, quasi essa non abbia apportato alcuna sostanziale novità. Si è anche dubitato della rispondenza di questa legge ai dettami costituzionali.

Il raffronto con la legge costituzionale 3/01 non fa che accentuare i rilievi critici sinora sollevati. Ed infatti si fa strada la tesi maggiormente condivisibile secondo cui la costituzionalizzazione dell'autonomia statutaria comporti significative innovazioni, specie sul piano dei rapporti con la vigente legislazione in materia di ordinamento degli enti locali.

In ogni caso, anche al di là delle dispute subito sorte sull'eventuale incostituzionalità sopravvenuta delle norme del TUEL non più rientranti sotto la copertura costituzionale dell'art. 17, dispute che hanno interessato altri ambiti qualificanti i rapporti tra i diversi livelli istituzionali nel rinnovato assetto costituzionale, vi è da sottolineare che l'art. 2 della legge 131/03 ha delegato il Governo ad adottare decreti legislativi con cui provvedere, nell'ambito della competenza legislativa dello Stato, alla revisione delle disposizioni in materia di enti locali per adeguarle alla legge costituzionale 3/01.

3. Lo statuto comunale e provinciale

Veniamo ora a trattare i problemi specifici sollevati dallo statuto comunale e provinciale, il primo dei quali è certamente quello della collocazione dello statuto stesso nella gerarchia delle fonti.

a) il quesito fondamentale che si pone al riguardo, attiene al rango primario o secondario della normativa statutaria, ossia ai rapporti che corrono tra lo statuto e la legge. L'opinione di gran lunga prevalente era che lo statuto comunale, al pari di quanto suole normalmente avvenire per gli statuti degli enti pubblici, fosse una fonte di grado

secondario, e stesse pertanto in rapporto di subordinazione gerarchica rispetto alla legge.

Già prima della riforma del Titolo V si fecero strada alcune correnti di pensiero che inclinavano ad attribuire allo statuto carattere di fonte atipica, di rango sub-primario piuttosto che secondario tout court.

Si sosteneva al riguardo che la potestà statutaria degli enti autonomi non fosse integralmente ed esclusivamente di derivazione legislativa, ma avesse un suo preciso fondamento costituzionale negli art. 5 e soprattutto 128 della Costituzione, che la riconoscevano implicitamente limitando alla sola enunciazione dei principi il contenuto delle leggi generali della Repubblica in materia di autonomie locali.

Alla luce del novellato art. 14, e della soppressione dell'art. 128, che come si è visto ha costituito la base positiva fondamentale intorno alla quale operare il posizionamento dello statuto comunale e provinciale nel sistema delle fonti, si può oggi finalmente affermare che dalla riforma costituzionale discenda la natura di fonte primaria (ergo: atto con forza di legge) dell'ordinamento repubblicano degli statuti, che dettano le norme principali dell'ordinamento locale, divenendo obsoleti i rapporti interistituzionali di gerarchia, là dove il sistema delle fonti si configura come multilevel system e si modifica così la stessa forma dello Stato.

b) per quanto concerne il contenuto dello statuto, la dottrina è in genere concorde nel riconoscere che vi sono da un lato contenuti obbligatori, dall'altro contenuti facoltativi. I primi, che non possono assolutamente mancare (tanto che il loro eventuale difetto si tradurrebbe in vizio di legittimità dello statuto), sono definiti dall'art. 6, comma 2° del testo unico , e sono:

1) le “attribuzioni degli organi”. E' stata rilevata al riguardo una certa improprietà del legislatore: infatti, la ripartizione delle competenze tra i vari organi del comune è già definita per legge, nel senso che tutto ciò che la stessa non attribuisce al Consiglio o al Sindaco è appannaggio della giunta, se altrimenti non disposto dallo statuto;

2) l'ordinamento degli uffici. La relativa disciplina dovrebbe, auspicabilmente, ridursi ad enunciazioni di principi-guida, che dovrebbero quindi trovare concretizzazione e specificazione in norme regolamentari. È appena il caso di ricordare che la potestà statutaria in materia-giuridico del personale, almeno per la parte di esso riservata alla contrattazione collettiva;

3) l'ordinamento dei servizi pubblici, ed in particolare le aziende ed istituzioni, per la gestione di quelli a rilevanza imprenditoriale e sociale;

4) le “forme di collaborazione” tra comuni e province;5) gli istituti di partecipazione, la disciplina dei quali da parte dello statuto deve

peraltro ritenersi accessoria rispetto a quella già dettata dalla legge. Le norme statutarie più rilevanti sono quelle attinenti al difensore civico e al referendum consultivo;

6) il decentramento, ossia la creazione di consigli circoscrizionali con compiti di Amministrazione attiva;

7) l'accesso dei cittadini agli atti ed alle informazioni di cui l'Amministrazione dispone. Anche in questo caso vi è una certa sovrapposizione con la legge 241/90;

E' ovviamente impossibile indicare il contenuto facoltativo dello statuto, che in linea di massima, dovrebbe essere determinato da scelte non soltanto politiche, ma relative anche alla ripartizione della normazione comunale tra statuto e regolamento.

c) il procedimento di formazione dello statuto è tale da distinguerlo nettamente, sul piano formale, dai regolamenti. Almeno in ambito locale la tesi che la potestà statutaria si riduca ad una species di quella regolamentare non è sicuramente sostenibile.

Lo statuto è approvato dal Consiglio comunale (e provinciale). Tanto per lo statuto che (ovviamente) per le modifiche statutarie, il testo unico richiede la maggioranza qualificata dei due terzi dei consiglieri assegnati; se tale maggioranza non si raggiunge, lo statuto è approvato se, in due sedute successive da tenersi entro trenta giorni, esso ottiene il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati all'ente locale.

Una volta superato il controllo, lo statuto, in quanto atto normativo, viene pubblicato sul bollettino ufficiale della regione. Esso viene altresì affisso all'albo dell'ente locale per trenta giorni consecutivi, ed entra in vigore trenta giorni dopo tale pubblicazione; l'atto è inoltre trasmesso al Ministero degli interni, perché venga inserito nella raccolta ufficiale degli statuti ivi istituita.

4. La potestà regolamentare degli enti locali

La potestà regolamentare già attribuita agli enti locali dalla legislazione previgente, è stata confermata ed ampliata dalla 142/90, che peraltro ne subordina l'esplicazione, oltre alla legge, anche al rispetto della normativa statutaria.

Il potere regolamentare degli enti locali è stato finalmente costituzionalizzato dalla legge costituzionale 3/2001. L'art. 117 comma 6° recita: “ i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. Ci si interroga se tale norma sia da intendere come una mera copertura costituzionale del d.lgs 267/2000, oppure se essa abbia introdotto una riserva di regolamento locale.

In ogni caso bisogna riconoscere come il campo della potestà regolamentare locale sia già stato ampliato dalla legge; oltre a quelle già legislativamente riconosciute, sono infatti state attribuite all'autonomia normativa degli enti locali anche le seguenti materie: la disciplina interna degli organi istituzionali; l'organizzazione e il funzionamento delle circoscrizioni; la disciplina delle istituzioni; l'accesso ai documenti; la disciplina degli istituti di partecipazione; la disciplina dei contratti comunali; la contabilità locale.

I regolamenti comunali e provinciali sono approvati dal Consiglio, e sono pertanto sottoposti al controllo di legittimità da parte del comitato regionale di controllo, ad eccezione di quelli attinenti all'autonomia organizzativa e contabile.

Persiste poi l'incertezza circa l'esatta collocazione del regolamento locale nella gerarchia delle fonti, incertezza che deriva dallo stesso dubbio inquadramento in tale gerarchia dello statuto: se si ritiene che quest'ultimo sia pienamente riconducibile all'attività normativa secondaria, il regolamento verrà allora ad esser qualificato come terziario; se si ritiene che lo statuto costituisca una fonte atipica sub-primaria, allora si può sostenere il rango secondario del regolamento. Quest'ultima tesi pare da condividere: si noti in tal senso come lo statuto sia stato posto al centro del nuovo assetto della Repubblica delle autonomie dall'art. 114 Cost.

SEZIONE VI: Circolari, norme interne e prassi amministrativa

1. Le circolari amministrative

L'inquadramento delle circolari amministrative tra le fonti del diritto è stato oggetto, in anni recenti, di radicale contestazione, sì che, al giorno d'oggi, esso non è più condiviso dalla maggioranza degli studiosi.

Ciò malgrado, la trattazione dell'argomento nel capitolo dedicato alle fonti secondarie non può essere omessa, per due valide ragioni: perché la giurisprudenza e la burocrazia continuano ad aderire ad una simile concezione e perché la dottrina che ravvisava nelle circolari atti – fonte del diritto, ha avuto una notevole importanza nello sviluppo della teoria dell'ordinamento interno amministrativo, le circolari venendo identificate appunto come le fonti “normative interne”.

La “circolare”, all'origine è il mezzo attraverso cui un comando militare diffonde un proprio ordine tra gli ufficiali subalterni a capo dei singoli corpi dislocati su un fronte bellico: è infatti una staffetta circolare che reca l'ordine alle varie unità; dal mezzo, il termine passa quindi a designare lo stesso ordine. E poiché l'organizzazione amministrativa dello Stato liberale si uniforma agli inizi al modello militare, il vocabilo “circolare” viene inteso come sinonimo del comando superiore impartisce a tutti gli uffici ad esso sottoposti. E' dalla rilevazione di tale fenomeno che la dottrina dell'inizio del secolo trae quindi la definizione delle circolari come “atti di un'autorità superiore che stabiliscono in via generale ed astratta regole di condotta di autorità inferiori nel disbrigo degli affari d'ufficio”.

Successivamente, con il consolidarsi delle tesi che sostengono che il complesso organizzativo della p.A. Costituisca un ordinamento giuridico particolare, le circolari vennero assunte quali fonti delle c.d. “norme interne”, ossia di quelle norme valevoli esclusivamente nell'ambito dell'ordinamento amministrativo. Questa nozione di circolare era contrassegnata da due profili, entrambi di eguale rilievo: l'affermazione del carattere normativo del comando, e quella del valore esclusivamente interno di tale norma.

Di fronte al diffondersi di circolari con un contenuto con carattere non limitatamente interorganico ma positivamente orientato verso i cittadini, la dottrina ha reagito rivedendo la nozione stessa di circolare, della quale si è riscoperta l'originaria natura di semplice strumento di comunicazione, del tutto distinto quindi dall'oggetto della comunicazione stessa: la “circolare” non è altro che una misura di conoscenza, dai contenuti più vari, ma non un atto amministrativo, né tanto meno un atto normativo. Tale è oggi l'opinione dominante, che ha aperto la via ad una riconsiderazione del problema delle circolari, attraverso una classificazione dei loro possibili, vari contenuti.

La dottrina contemporanea, quindi, senza pretendere di esaurire la materia, ha individuato taluni tipi di circolari, in ragione del loro contenuto e della loro funzione. I più importanti sono:a) circolari interpretative. Attraverso di esse gli organi di vertice dell'Amministrazione intendono conseguire il risultato di un'applicazione uniforme del diritto obiettivo. Assai discussa è la vincolatività delle circolari interpretative: ci sembra preferibile la tesi che non si sia in presenza di un vero e proprio comando, da parte del superiore gerarchico, ma di un ausilio all'interpretazione che della norma lo stesso ufficio sottoordinato è tenuto a dare. Le circolari interpretative costituiscono peraltro un

prezioso orientamento per gli operatori giuridici, tanto che ne è possibile, su richiesta del competente ministro, la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale;b) circolari normative. Attraverso di esse, l'organo sovraordinato prescrive a quelli sottoposti di tenere un certo comportamento nell'espletamento delle loro attività. Deve trattarsi dell'esercizio di poteri discrezionali, perché, se ci si trova invece di fronte ad attività vincolante, l'ufficio sovraordinato non potrà che emanare una circolare interpretativa. Le circolari normative sono dunque lo strumento attraverso cui l'organo superiore esercita il proprio potere di indirizzo politico-amministrativo nei confronti dei sottoposti;c) circolari informative. Attraverso di esse, l'organo emittente si limita a comunicare agli uffici fatti o notizie che ritiene utili per l'espletamento dei compiti d'istituto. Ovviamente, le circolari di tal fatta non pongono problemi di osservanza da parte degli uffici destinatari;d) circolari intersoggettive. Oltre che ad organi e uffici dello stesso ente, le circolari possono essere indirizzate ad organi ed uffici appartenenti ad un ente diverso da quello dell'autorità emanante. In tal caso esse assumono, per definizione, rilevanza intersoggettiva. La vincolatività delle circolari intersoggettive va diversamente valutata in ragione dei vari rapporti che legano autorità emanante e uffici destinatari;e) circolari regolamento. Prima della 400/88, alcuni autori, rilevando la mancanza di una qualsiasi disciplina formale della potestà regolamentare dei ministri, ritenevano che essa potesse estrinsecarsi anche nella forma della circolare;

2. Norme interne

Tutti gli ordinamenti giuridici particolari sono dotati, per definizione, di autonomia normativa, ossia producono, in misura più o meno ampia, norme proprie. Alcune di esse sono riconosciute dall'ordinamento generale, ed entrano quindi a comporre il sistema delle fonti del diritto; altre vigono invece esclusivamente all'interno dell'ordinamento che le produce, e non assumono, pertanto, il carattere di fonti del diritto nell'ordinamento generale: queste ultime vengono appunto designate come “norme interne”.

Un tempo confusa con il problema delle circolari, la tematica delle norme interne se ne è ormai definitivamente affrancata, sì che qualificare o meno le circolari come fonti del diritto, nulla implica in ordine al riconoscimento dell'esistenza della normazione “interna”, che pone oggi tutt'altri problemi.

La versione più accreditata vedeva nella normazione interna una disciplina peculiare dell'ordinamento degli uffici intesa a realizzare il buon andamento dell'Amministrazione. Tutto questo, se non proprio tramontato, è oggi molto meno sicuro. Da un lato il crescente pluralismo istituzionale ha posto in crisi la stessa idea di separatezza dell'ordinamento amministrativo: i rapporti che vi si instaurano assumono sempre più spesso consistenza intersoggettiva, tanto da ottenere tutela giurisdizionale; i principi dell'ordinamento generale tendono a trovare applicazione nell'ambito organizzativo, non più dominio dei rapporti di c.d. “supremazia speciale”. Dall'altro, l'emersione prepotente del carattere procedimentale dell'attività amministrativa, ha portato ad attribuire rilevanza esterna tendenzialmente a tutti i comportamenti dell'Amministrazione, abbattendo il diaframma che prima si riteneva separasse l'operato interno degli uffici.

3. La prassi amministrativa

L'ufficio amministrativo che, nell'esercizio di un potere discrezionale, si attenga per lungo tempo ad una medesima linea di condotta, dà luogo alla c.d. “prassi

amministrativa”, in forza della quale l'ufficio stesso può poi difficilmente discostarsi dall'atteggiamento assunto, in casi analoghi a quelli già tentati.

Anche se, in accordo con la prevalente dottrina, si volesse comunque negare il carattere normativo della prassi, sarebbe tuttavia riduttivo attribuirvi valore semplicemente “materiale” e non giuridico: l'inosservanza della prassi, ancorché inidonea di per sé a violare una norma giuridica, si traduce pur sempre, se non è accompagnata da un'idonea motivazione, nella violazione del dovere di coerenza che incombe sull'Amministrazione come regola deontologica da osservare nell'esercizio del potere discrezionale.

Capitolo 4. I SOGGETTI E LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE DEL DIRITTO

AMMINISTRATIVO

SEZIONE I. I soggetti del diritto amministrativo

1. I soggetti dell'ordinamento generale. In particolare: la soggettività dei soggetti di diritto privato.

Come si è già anticipato, possono essere soggetti per ogni ordinamento giuridico, e quindi, per l'ordinamento generale del nostro Stato, solo le figure soggettive che esso stesso istituisce come tali, o di cui come tali riconosce o presuppone l'esistenza.

Tra la nozione di soggetto e quella di ordinamento giuridico, quindi, vi è un nesso inscindibile. E la prima presuppone sempre la seconda, anche perché il concetto di soggetto di diritto implica sempre una qualificazione appunto giuridica: che solo un ordinamento avente questo carattere può compiere, che solo in un simile ordinamento può acquistare significato.

Per quel che riguarda i soggetti di diritto privato, per le persone fisiche, l'art. 1 c.c., primo comma, dispone che “la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita”; e, quindi, a fortiori, la soggettività giuridica, di cui tale capacità è misura. Per quel che riguarda la soggettività delle persone giuridiche, sempre di diritto privato, la Costituzione non vi dedica disposizioni particolari, se non sporadicamente.

Certamente, la Costituzione prevede come diritto individuale fondamentale la libertà di associazione. Ma dato questo diritto non deriva la necessità della personalità giuridica autonoma della entità che risulti dal suo esercizio. E, oltretutto, non solo le associazioni, ma anche le fondazioni possono porsi come il substrato della soggettività giuridica di diritto privato.

Si deve concludere, quindi, che la disciplina del riconoscimento o dell'acquisto della personalità giuridica di diritto privato, nonché delle sue varie modulazioni e rilevanze, è costituzionalmente devoluta, nella sostanza, alla legislazione ordinaria: questa la ha regolata con numerose norme, inserite nel codice civile o in leggi speciali.

2. Segue; in particolare: la soggettività delle pubbliche Amministrazioni.

Per quel che riguarda la soggettività giuridica delle pubbliche Amministrazioni, vanno accennate subito due considerazioni preliminari.

La prima: la locuzione “ente pubblico” consta di un sostantivo e di un aggettivo, che si riferiscono a loro tratti ugualmente caratterizzanti ed essenziali. Con l'aggettivo, si richiama una loro qualità, peraltro di difficile e sfuggente definizione, che li differenzia dalle persone giuridiche di diritto privato. E col sostantivo, si sottolinea che essi sono dotati di personalità giuridica propria.

Conseguentemente, e questa è la seconda considerazione preliminare, tale personalità si correla alla nozione di ente, e non ad un'altra, che pure le è profondamente connessa: la nozione di organo, che la figura che è stata delineata per descrivere il modo del suo operare. La teoria organica, infatti, è stata elaborata al fine di disporre di un concetto che serva a spiegare l'imputazione all'ente stesso, di atti o comportamenti i quali, da un lato, sono espressione di poteri, diritti, facoltà, ecc..., che l'ordinamento generale gli attribuisce: attribuisce direttamente ad esso, e non alle persone fisiche che operano per esso; ma i quali atti e comportamenti, dall'altro lato, ovviamente non possono essere posti concretamente in essere che da persone fisiche.

Quindi, è per definizione che ad una struttura amministrativa che venga qualificata come organo, e come organo, naturalmente, di un ente, le sia per ciò stesso negata la soggettività giuridica: che spetta solo a tale ente. Così che è questo ente che viene definito come il fattore cui l'ordinamento generale attribuisce poteri, diritti, doveri, e quant'altro: mentre i suoi organi sono, molto più modestamente, solo competenti pro parte al loro esercizio.

Tutto ciò premesso, si deve notare che la descrizione del riconoscimento o dell'attribuzione della personalità giuridica agli enti di amministrazione, deve essere articolata secondo le loro categorie. Per quel che concerne l'Amministrazione dello Stato, la Costituzione non la prevede esplicitamente, ma evidentemente la presuppone in tante sue norme. Per quel che riguarda gli enti territoriali, si deve ricordare che secondo l'attuale art. 114 “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni, sono enti autonomi...”.Già queste disposizioni costituzionali, dunque, paiono risolvere in modo positivo il problema della soggettività giuridica propria di tali enti. E anzi, con norme che, almeno per quel che riguarda i comuni, appaiono di nuovo, più che di carattere costituivo, di solo riconoscimento di realtà storiche preesistenti.

In ordine agli enti pubblici, infine, abbiano essi substrato associativo o istituzionale, non si rinvengono disposizioni costituzionali esplicite. Così che, anche per gli enti pubblici non territoriali, si deve arrivare alla medesima conclusione già accennata per le persone giuridiche di diritto privato: la Costituzione devolve sostanzialmente all'inferiore livello della legislazione ordinaria, la disciplina del riconoscimento o dell'acquisto della loro personalità giuridica, nonché delle sue varie modulazioni e rilevanze.

Questa disciplina deve essere trovata necessariamente almeno a tale livello normativo. O nel senso che è la legge stessa che istituisce i singoli enti pubblici: come successo in un gran numero di casi, con disposizioni, perciò, largamente frammentarie. O nel senso che è la legge stessa che istituisce intere categorie di enti pubblici. O nel senso che è la legge che attribuisce ad enti amministrativi, il potere di costituirne altri.

3. Segue; in particolare: l'attribuzione della personalità giuridica agli enti pubblici non territoriali.

Queste varie ipotesi di istituzione al livello della legislazione ordinaria degli enti pubblici non territoriali, possono essere ricondotte alla previsione esplicita già dell'art. 4 della legge 70/75, “Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici” che recita: “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”, ora da intendersi sicuramente anche regionale, per le considerazioni prima accennate.

In ogni caso, tale norma, intesa sia nel suo tenore letterale che con l'estensione ora prospettata, in quanto richiama comunque come fondamento diretto o indiretto dell'attribuzione della personalità giuridica di un ente pubblico, è meramente cognitiva di un principio già immanente nella nostra legislazione: perché non può non essere riservato almeno al suo livello legislativo, il riconoscimento di chi sia soggetto dell'ordinamento generale, e, quindi, eventualmente, la sua istituzione. Perciò si deve ritenere che anche anteriormente alla 75/70, gli enti pubblici non territoriali dovevano essere istituiti per legge, o in base alla legge. E che lo devono, e lo dovranno essere; indipendentemente dalla norma richiamata.

Ma con queste precisazioni: anzitutto, che debba essere almeno la legislazione a prevedere, direttamente o indirettamente, la soggettività autonoma degli enti pubblici, non implica affatto la necessità che la debba prevedere con disposizione espressa: tale soggettività può essere desunta benissimo mediante l'interpretazione sistematica, purché sia almeno di livello legislativo il quadro normativo di cui si tiene conto.

4. Segue; in particolare: gli indici della loro pubblicità.

Per quel che riguarda la rilevazione del carattere pubblico, e non privato, di enti la cui soggettività debba essere sistematicamente desunta, si deve notare che il problema ha perso molto della sua importanza pratica.

Fino ai primi anni '90 dal carattere pubblico di un ente derivava pure l'analogo carattere pubblico della disciplina dei rapporti di impiego con i suoi dipendenti e, quindi, l'individuazione del giudice amministrativo come del giudice avente giurisdizione sul relativo contenzioso. Soprattutto la questione di giurisdizione era di frequente emersione; e perciò era anche assai ricca la casistica giurisprudenziale che, dovendola risolvere, doveva ricostruire la natura pubblica o privata dell'ente datore di lavoro.

D'altra parte come si definisca la soggettività pubblica, distinta da quella privata, è problema che mantiene ancora oggi una grande rilevanza per la ricostruzione del sistema: vi si riconnettono molti dei maggiori problemi concettuali del diritto amministrativo, a cominciare da come si debba intendere la nozione di Amministrazione, in questi anni di sua profonda trasformazione; di Amministrazione in senso oggettivo, ma poi anche in senso oggettivo.

A suo tempo, peraltro, si è osservato che gli enti possono e debbono dirsi pubblici, quando siano funzionalizzati al perseguimento di determinati interessi della società. L'individuazione di tale funzionalizzazione come tratto essenziale degli enti pubblici, in primo luogo rende possibile profilare una loro costruzione unitaria, almeno in riferimento a questo loro elemento comune: al di là delle tantissime differenziazioni che, per classi generali o per casi particolari, e da una molteplicità di punti di vista, sono poi da

tracciarsi all'interno della loro nozione. E ricostruire un corpus unitario di regole cui tutti tali enti sono assoggettati, per il solo di essere funzionalizzati e pubblici: corpus unitario di norme, il rispetto o la violazione delle quali, è oggetto del sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo, così come lo ha elaborato la sua giurisprudenza più che secolare.

Ma non è affatto detto che tutti gli enti che pur debbano definirsi pubblici, siano dotati di poteri pubblicistici. Il che equivale a dire che la mancata attribuzione ad un ente di poteri del genere, il conseguente riconoscimento solo della sua capacità di diritto privato, non esclude affatto che, ciò nonostante, esso debba essere qualificato come pubblico.

Il quadro dei soggetti attivi di Amministrazione non si esaurisce nei soli enti pubblici, perché il nostro ordinamento ha sempre conosciuto l'esercizio di funzioni e servizi pubblici da parte di soggetti privati. La vicenda più tradizionale è quella nella quale l'esercizio di un potere pubblico è attribuito ad un soggetto privato sulla base di un provvedimento amministrativo di tipo concessorio.

5. I problemi più attuali relativi alla distinzione degli enti pubblici da quelli privati; i c.d. organismi di diritto pubblico.

Ma è soprattutto a partire dai primi anni '90 che sono emersi temi e problemi i quali hanno assai ampliato la prospettiva entro la quale era tradizionalmente dibattuta la distinzione tra soggettività pubbliche e soggettività private. Il primo di questi fattori è costituito dalla c.d. Privatizzazione: questa viene ora considerata sotto il profilo non delle attività, ma sotto quello dei soggetti. Più precisamente, dal punto di vista della trasformazione di enti pubblici in soggetti di diritto privato.

La seconda direttrice di privatizzazione di enti pubblici è quella della loro trasformazione in società di capitali, quasi sempre nella forma di società per azioni. Ed è soprattutto a questo proposito che si distingue una privatizzazione formale da quella sostanziale: secondo che il capitale, cioè le partecipazioni azionarie rimangano di un soggetto pubblico o vengano collocate sul mercato, venendo cioè acquisite da soggetti privati.

A tal proposito deve considerarsi ormai acquisito anche nella giurisprudenza, a cominciare da quella comunitaria, un dato concettuale assai importante: non vi è assoluta inconciliabilità tra il carattere pubblico di un ente e la sua natura di società di capitali; in altre parole può doversi riconoscere una soggettività pubblica anche a persone giuridiche così strutturate proprio quando risultino intrinsecamente funzionalizzate al pubblico.

Profondamente connessi con questi problemi, definitori e applicativi, della nozione di ente pubblico, sono anche quelli, analoghi, relativi alla figura di origine comunitaria di “organismo di diritto pubblico”. Anche se, i due concetti, pur reciprocamente implicati, devono essere tenuti distinti, perché derivati da esigenze diverse:a) quella di individuare soggetti sì diversi dagli enti pubblici tradizionali, ma funzionalizzati a fini analoghi a quelli propri di questi, e perciò da doversi considerare ugualmente pubblici, anche oltre le loro eventuali forme privatistiche;b) quella di garantire l'effettiva applicazione delle direttive comunitarie sugli appalti, anche a soggetti i quali, pur non essendo necessariamente pubblici, non siano indotti ad operare i loro acquisti secondo la regola della convenienza economica e, quindi, utilizzando i meccanismo di un mercato concorrenziale;

La sottoposizione alla normativa comunitaria sugli appalti di opere, forniture e servizi, è imposta in primo luogo alle amministrazioni tradizionali: Stato, Regioni, minori enti territoriali, enti pubblici funzionali ecc... . Però è stata estesa anche ad altri enti, i quali si presentano sul mercato nella veste di grandi acquirenti, ma che, indipendentemente dalla loro qualificazione come pubblici o privati da parte dell'ordinamento interno, possono risultare ugualmente poco sensibili all'esigenze di selezione le offerte utilizzando i meccanismi concorrenziali: il c.d. organismi di diritto pubblico, appunto.

La normazione comunitaria qualifica tali enti nei quali siano comunque compresenti tre tratti essenziali: a) siano istituiti per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale, che, però, abbiano carattere non industriali o commerciale; b) abbiano personalità giuridica propria; c) siano finanziati in modo maggioritario dallo Stato o da altri enti pubblici oppure da altri organismi di diritto pubblico.

SEZIONE II: Le situazioni giuridiche soggettive del diritto amministrativo.

1. La teoria delle situazioni giuridiche soggettive.

L'affermata correlazione tra la nozione di soggetto di diritto e la nozione di situazione giuridica soggettiva, può essere compresa solo sulla base della precisazione del ruolo che questa svolge nel quadro dei concetti propri della nostra cultura giuridica. La quale presuppone che il contenuto delle norme che è suo compito descrivere e sistematizzare, possa essere rappresentato, anzitutto, in riferimento ai comportamenti dei soggetti che essi regolano: facoltizzandolo, imponendolo o vietandolo loro; a soggetti in primo luogo persone fisiche e inoltre con l'utilizzazione del notevole sforzo di teorizzazione di cui è frutto la nozione di persone giuridiche, anche a queste ultime.

Così, in relazione alle norme che rendono possibili a soggetti giuridici determinati comportamenti, vengono definite situazioni di quei soggetti stessi, loro situazioni appunto giuridiche, che con varia terminologia sono dette favorevoli, o attive, o positive. Delle quali quella per così dire esemplare è il diritto, il diritto soggettivo. Ma accanto a questo, ne sono state profilate delle altre: per esempio, la facoltà, e soprattutto il potere giuridico.

In relazione alle norme che viceversa vincolano in diverso modo comportamenti soggettivi, vengono definite situazioni giuridiche soggettive dette per contro, con terminologia altrettanto varia, sfavorevoli, o passive, o negative. Delle quali sono fondamentali il dovere e l'obbligo.

2. L'elaborazione privatistica.

Per lo studio della materia, per l'impostazione dei relativi problemi come per le proposte di loro possibili soluzioni, siamo debitori soprattutto della cultura e della dottrina del diritto privato.

Richiamiamo la fondamentale distinzione tra diritti reali e diritti di obbligazione. In questi ultimi, la norma vincola un soggetto a tenere o anche non tenere un determinato comportamento nei confronti di un altro soggetto: così collocandolo in una situazione giuridica corrispondente concettualizzata, detta obbligo, o obbligazione. E, correlativamente, attribuendo al soggetto avvantaggiato una situazione giuridica

corrispondentemente detta diritto di obbligazione. Ossia delineando tra i due quel che è immediatamente percepibile come un rapporto intersoggettivo, un rapporto di carattere giuridico.

Per i diritti reali (es. la proprietà), il contenuto più evidente della norma che li regola è l'attribuzione diretta ed esclusiva ad un soggetto della possibilità di utilizzare una determinata cosa. Quindi la costituzione di una relazione altrettanto diretta ed esclusiva tra tale soggetto e tale cosa.

I diritti reali, quindi, si configurano come assoluti poiché non pongono il loro titolare, come viceversa è intrinseco in quelli di obbligazione, in uno specifico rapporto giuridico con un determinato soggetto: perché essi sono protetti dall'ordinamento a favore del loro titolare, nei confronti, viceversa, di tutti i suoi soggetti.

3. Le situazioni giuridiche soggettive in diritto amministrativo. In particolare: il ruolo dell'Amministrazione.

Se l'elaborazione della teoria delle situazioni giuridiche soggettive, come si è detto, ha in primo luogo una matrice privatistica, essa trova applicazione anche nel diritto pubblico in generale, e nel diritto amministrativo in particolare: la cui cultura, la cui dottrina, anzi, le hanno anche recato apporti assai notevoli; soprattutto per quel che riguarda la figura del potere giuridico, di cui si dirà poi, e quella dell'interesse legittimo, del diritto amministrativo posizione peculiare.

Il primo dei vari profili sotto i quali la teoria delle situazioni giuridiche soggettive trova applicazione nel diritto amministrativo, oltre che pubblico in genere, concerne la configurazione alla sua stregua del ruolo che l'Amministrazione occupa nell'ordinamento generale. Si era notato che l'Amministrazione è un fattore istituzionale ormai ricondotto totalmente all'interno dell'ordinamento generale in forza della progressiva applicazione del principio di legalità. Adesso si può precisare che tale teoria è stato lo strumento concettuale che ha reso possibile la rappresentazione di questa sua riconduzione; quanto meno, lo strumento concettuale che in concreto è stato utilizzato a tal fine.

L'applicazione all'Amministrazione della teoria delle situazioni giuridiche soggettive è il mezzo mediante il quale è descritto il suo assoggettamento ai principi generali dell'ordinamento: che trovano espressione e elaborazione soprattutto nel diritto privato, ma che non possono non valere per tutti i soggetti dell'ordinamento medesimo, compresi quelli pubblici.

Il generale dovere di rispetto dei diritti, delle sfere giuridiche e delle autonomie altrui, cui consegue la responsabilità per danno ingiusto (art. 2043 c.c.), incombe pure sull'Amministrazione. Inoltre, anche per l'Amministrazione vale il principio generale dell'obbligo di adempimento di quelle che, appunto, sono definite le sue obbligazioni: anche qui, indipendentemente dal carattere privato o pubblico di queste, o, almeno, della loro fonte, e dei soggetti titolari dei correlati diritti. E conseguentemente il principio di responsabilità per danni in caso di inadempimento (art. 1218 c.c.).

4. Segue; in particolare: le situazioni giuridiche di diritto comune dei soggetti privati.

L'applicazione al diritto amministrativo della teoria delle situazioni giuridiche soggettive ha inciso notevolmente pure nella definizione del ruolo complessivo che nell'ordinamento hanno i soggetti privati, e delle loro specifiche posizioni.

5. Segue: e quelle di diritto amministrativo.

D'altra parte, l'applicazione al diritto amministrativo della teoria delle situazioni giuridiche soggettive, ha comportato pure un'altra serie di conseguenze di grande rilevanza, relativamente alla determinazione delle posizioni di soggetti privati: la possibilità di definire così, posizioni di tali soggetti che solo in tale diritto sono configurabili; anche se di definirle, correlativamente, in modo da porre in evidenza e precisare le loro peculiarità.

E' specifico del diritto amministrativo l'atteggiarsi del diritto di proprietà, rispetto alle sue limitazioni che sono di diritto pubblico. O alla possibilità di esercizio da parte dell'Amministrazione, di suoi poteri che ne circoscrivono o ne condizionano in vario modo l'esercizio: come quelli di regolare l'utilizzazione edilizia dei suoli, o di vincolare gli immobili per esigenze di tutela del paesaggio, ecc...

Ma soprattutto i casi più tipici delle situazioni di diritto pubblico di soggetti privati, cui è dedicato il presente paragrafo, sono quelli che non hanno alcun nesso con loro situazioni di diritto comune. Situazioni di diritto pubblico di soggetti privati, del tutto indipendenti da loro situazioni di diritto comune, possono essere individuate, in particolare i diritti di proprietà, specie immobiliare, nella contiguità con aree demaniali: si pensi alle possibilità di passaggio, di affaccio, e simili, che non possono essere confuse con le analoghe servitù privatistiche. E nelle posizioni costituite per effetto di provvedimenti che, in quella sede, saranno classificati, come tipo concessorio.

Nell'esposizione, per quanto schematica e sommaria, del quadro delle situazioni giuridiche pubblicistiche di soggetti privati, per quanto si sia fatto riferimento il più possibile ai provvedimenti che in vario modo rilevano positivamente per esse, o vi incidono negativamente, non si è potuto fare a meno di richiamare continuamente i poteri dell'Amministrazione: inevitabilmente perché tali poteri sono espressione di tali poteri; e perché tali poteri sono le possibilità giuridiche di emanare tali provvedimenti.

Quindi le situazioni di soggetti privati rilevano in contrapposizione ai poteri dell'Amministrazione di cui quei suoi provvedimenti sono esplicazione: nelle varie e differenziate relazioni nelle quali si pongono nei loro confronti. Sono questi poteri che ora emergono nel quadro delle situazioni giuridiche soggettive nel diritto amministrativo: con rilievo dominante rispetto a quelle, anche pubblicistiche, dei soggetti privati. Ed è sulla figura del potere giuridico che adesso si deve spostare l'attenzione: come fattore necessario per ogni più precisa loro definizione.

6. La dinamica delle situazioni giuridiche soggettive: il potere giuridico e l'effetto ex lege.

Il potere giuridico di un soggetto di diritto è (in primo luogo) la sua possibilità di determinare la dinamica delle concrete situazioni giuridiche, privatistiche o pubblicistiche di diritto, obbligo ecc...

Ossia la sua possibilità di costituirle, modificarle o estinguerle. E la precisazione dei suoi caratteri implica un ragionamento a due poli: l'accennata teorizzazione come poteri

della possibilità di incidere su tali situazioni giuridiche stesse, da un lato, e il rapporto che con le vicende di queste ha viceversa la norma, dall'altro.

Riceviamo dalla dottrina del diritto privato, alle cui trattazioni anzitutto istituzionali si rinvia in proposito, la nozione di fatto giuridico: come dal fatto al cui realizzarsi quelle vicende si ricollegano. E le principali sue classificazioni: fatto naturale, comportamento umano. E tra i comportamenti umani, anche l'atto giuridico come un atto al cui compimento da parte di un soggetto, come al verificarsi di ogni altro fatto giuridico, l'ordinamento ricollega le conseguenze giuridiche che predetermina. Atto giuridico che può essere di diritto privato; oppure che di diritto amministrativo: può essere un atto amministrativo. In tutti questi casi, compreso quello in cui il fatto giuridico sia costituito da atto, gli effetti che si producono in concreto sono definiti imperativamente dalla norma; e per di più derivano giuridicamente da essa, in modo immediato e automatico: così che essi devono essere qualificati effetti ex lege.

Però la dottrina, e di nuovo in primo luogo quella privatistica, o, almeno, larga parte di essa, ha individuato un diverso modo di produzione giuridica di effetti: di costruzione, modificazione o estinzione di situazioni giuridiche, in particolare soggettive. Quando questi effetti paiono derivare, piuttosto, dalla volontà di un soggetto. E quando tali effetti anzitutto sono definiti da questo soggetto, e non dall'ordinamento giuridico, sia pure entro margini che questi medesimo circoscrive; e, inoltre, sono prodotti dall'alto di quel soggetto, e non da una norma dell'ordinamento giuridico stesso, che, in realtà, si limita solo a riconoscerli.

Un simile riconoscimento della volontà privata da parte dell'ordinamento generale, è passaggio ineludibile per un'ulteriore conseguenza di importanza decisiva: la garanzia di effettiva volontà che l'ordinamento medesimo le presta; e che gliela presta, assicurandogliela mediante i propri apparati giurisprudenziali e repressivi.

7. La dinamica delle situazioni giuridiche soggettive: l'autonomia e il potere giuridico.

Questo modo di peculiare di produzione e determinazione degli effetti di un atto giuridico, questo modo peculiare di suo riconoscimento da parte dell'ordinamento generale, costituisce l'essenziale della nozione di autonomia che si è già anticipata: dell'autonomia di un soggetto intesa come la sua capacità di disciplinare il proprio comportamento con proprie decisioni; con decisioni, appunto, autonome. Quindi, in un certo senso, di darsi autonomamente un proprio ordinamento.

Di questa particolare rilevanza giuridica di certi atti, è segno la particolare denominazione in diritto privato: negozi; in contrapposizione agli altri atti alla cui adozione si verificano effetti ex lege, qualificati come atti non negoziali, o meri atti giuridici. Sarebbe però assai riduttivo e fuorviante vedere i negozi solo come una specie di atti: perché questa loro classificazione verrebbe a mettere in ombra che essi producono i loro effetti secondo moduli concettuali completamente diversi, anzi opposti, rispetto alla definizione e alla consequenzialità meramente ex lege propria degli atti non negoziali, e dei fatti giuridici in genere.

Non vi è dubbio che le conseguenze più importanti dell'applicazione al diritto amministrativo dei concetti delineati, riguardino l'inquadramento degli atti dell'Amministrazione, e della sua autonomia.

Anche nell'ambito degli atti amministrativi, la dottrina ha enucleato la categoria dei c.d. provvedimenti: come atti produttivi di effetti giuridici; come atti che costituiscono,

modificano o estinguono situazioni soggettive o rapporti giuridici. E produttivi di tali effetti in conformità di scelte che l'ordinamento demanda ai soggetti di Amministrazione. Tipicamente: espropriazioni, ordinanze, autorizzazioni, concessioni.

I provvedimenti si contrappongono agli atti amministrativi non provvedimentali, ai meri atti amministrativi che non producono effetti del genere. O perché si pongono in una posizione meramente strumentale rispetto all'emanazione di provvedimenti, o perché, pur avendo di per sé rilevanza giuridica compiuta, hanno una funzione giuridica diversa da quella di produrre gli effetti suddetti: per esempio, certificazioni, attestati, ecc...

8. I poteri giuridici tra capacità del soggetto e le sue situazioni soggettive.

All'origine del grande sviluppo della nozione di potere giuridico, sembra che si debbano individuare il rilievo di una distinzione e una tendenza ad approfondirla. Il rilievo della profonda eterogenità che deve essere ravvisata, tra la possibilità del titolare di una concreta situazione di vantaggio, di goderne in fatto, e quella di disporne giuridicamente: tra la possibilità per il proprietario di un appartamento di abitarlo e quella di venderlo o affittarlo.

Con un'implicazione inevitabile: se la facoltà di godere in fatto di una cosa non può essere espunta dal contenuto di quel che è definito come il diritto di proprietà, è la possibilità di disporne giuridicamente allora che viene ad essere percepita come una situazione giuridica differente e ulteriore.

Così il potere negoziale di un soggetto privato in ordine a diritti reali, va delineato come estrinseco a questi diritti stessi; come essenzialmente unitario, pur essendo esercitabile nei confronti di tutti questi diritti e quindi come determinabile solo ad un livello più elevato rispetto ad essi.

Si dice che ha prevalso la denominazione della possibilità di costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche concrete, come un potere: un potere che, in quanto attribuito ad un soggetto, o riconosciutogli dall'ordinamento giuridico, è un potere giuridico.

Talvolta si usa anche il termine di potestà: che, quando non è inteso come un suo sinonimo, sembra individuare piuttosto una sua specie, contrassegnata da una sua funzionalizzazione intrinseca, ma, per altro verso, anche dalla sua autorietà.

Il potere giuridico, un potere giuridico, allora, trascende le singole situazioni giuridiche sulle quali incide. Che d'altra parte sono infinite, almeno potenzialmente. E se non si esaurisce in ciascuna di esse, neppure può risolversi nel loro complesso: perché più che una loro manifestazione si atteggia come un attributo del suo titolare. E se non pare esatto identificarlo puramente e semplicemente con la capacità giuridica di questo, di sicuro di questa sua capacità è espressione immediata: più immediata dei diritti e delle facoltà che gli possono spettare e in ordine alle quali il suo potere può essere esercitato. Se la capacità di un soggetto di essere titolare di situazioni giuridiche, la sua capacità giuridica, cioè, è il modo e la misura della sua soggettività nell'ordinamento, che l'ordinamento gli attribuisce o gli riconosce, allora è innanzitutto la titolarità da parte sua di poteri, che connota il ruolo che l'ordinamento medesimo gli assegna; e il rilievo è particolarmente pertinente alla figura delle Amministrazioni come soggetti dell'ordinamento, la cui soggettività di diritto pubblico è delineata in primo luogo dai poteri di adottare atti unilaterali e autoritativi, di cui esso l'investe: dai suoi poteri di emanare provvedimenti.

9. Titolarità ed esercizio del potere giuridico.

Di tale nozione di potere giuridico, e proprio per l'importanza e l'utilità delle implicazioni che ne derivano, deve essere sottolineato subito un aspetto che è già emerso come essenziale: la distinzione dell'esercizio del potere medesimo dalla sua esistenza e titolarità.

Il potere giuridico si presenta come una situazione eminentemente dinamica; ma la scissione del suo esercizio dalla sua titolarità permette, ciò malgrado, di ascrivere questa alla capacità giuridica e non a quella di agire, del soggetto cui spetta: come la titolarità di ogni altra situazione giuridica soggettiva. Con l'implicazione che l'attribuzione della titolarità di un potere, postula la soggettività giuridica dell'entità cui è attribuito: di nuovo, come, l'attribuzione della titolarità di ogni altra situazione giuridica soggettiva.

Ora, le pubbliche Amministrazioni in quanto enti non possono che operare per mezzo di persone fisiche che si pongano come loro agenti. Ma, anche, almeno quando operano mediante provvedimenti, esprimono poteri di cui non possono non essere o non rimanere uniche titolari, perché ineriscono alla loro particolare capacità di diritto pubblico: pur se agiscono mediante l'azione di tali persone fisiche, di tali agenti. Perché tali poteri trascendono la capacità giuridica delle persone fisiche, la quale, viceversa, non può essere che quella di diritto comune.

Questa specificità dell'attribuzione alle Amministrazioni impone, tra l'altro, che le sia imputata direttamente addirittura l'azione giuridica delle persone fisiche loro agenti, e non solo i suoi effetti, come sarebbe proprio del rapporto di rappresentanza. Ed è a questa esigenza che risponde la costruzione del rapporto organico: perché suo tratto essenziale è la c.d. immedesimazione con l'ente delle persone fisiche agenti; ed è tale compenetrazione di queste con quello, l'unico fattore in grado di spiegare come gli vengono imputati non soltanto gli effetti dei loro provvedimenti, ma i loro provvedimenti medesimi.

10. Poteri giuridici e atti giuridici.

Fin qui di potere giuridico si è parlato in relazione alla possibilità di un soggetto, persona fisica o giuridica che sia, di costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche soggettive. Ma la nozione di potere è suscettibile anche di ben diversi e maggiori contenuti; e la sua denominazione può esser intesa pure in una pluralità di altri sensi.

Si parla spesso, per esempio, di potere legislativo: anzitutto inteso come uno specifico potere normativo. Che però, oltre che determinare le vicende di singole situazioni giuridiche soggettive, le prevede, le modella e le disciplina in generale.

D'altra parte, potere legislativo è espressione che contrassegna pure un'intera funzione fondamentale dello Stato: con un significato notevolmente diverso, e più ampio, di quello attribuibile al potere normativo specifico che si è detto: pur se questo ne costituisce la manifestazione più saliente. E anche se viene circoscritto ai suoi aspetti oggettivi, escludendone quelli soggettivi, in questo senso si parla anche di potere giurisdizionale o giudiziario. E anche di potere amministrativo come sintesi complessiva di tutte le possibilità di agire che l'ordinamento attribuisce o riconosce all'Amministrazione in quanto tale.

Il significato principale che alla nozione e al nome di potere giuridico è generalmente attribuito è il seguente: correlazione biunivoca tra il concetto di atto giuridico e potere giuridico; nel senso che deve definirsi tale ogni di adottare o pattuire ogni atto giuridico, come nel senso che ogni atto giuridico consiste nell'esercizio di un potere giuridico.

11. Le principali categorie di provvedimenti amministrativi e dei correlati poteri. I provvedimenti sfavorevoli.

Poteri giuridici e atti giuridici, poteri giuridici dell'Amministrazione e atti amministrativi risultano così intrinsecamente correlati. E tra questi atti amministrativi, sono i provvedimenti quelli di maggiore rilevanza. Ne deriva, allora, che nell'esposizione della soggettività che l'ordinamento attribuisce o riconosce alle Amministrazioni stesse, bisogna dare maggiore spazio a quei loro poteri di cui questi costituiscono espressione.

In questa prospettiva, vanno ricordati anzitutto i poteri e i provvedimenti dell'Amministrazione, che hanno conseguenze negative a carico dei loro destinatari: perché costituiscono doveri e obbligazioni, come accade per i provvedimenti che infliggono sanzioni amministrative, specie pecuniarie; o perché incidono sfavorevolmente su posizioni di vantaggio altrui, normalmente aventi carattere di diritto soggettivo.

Essi incidono su diritti che su certi beni abbiano altri soggetti, normalmente privati, i quali di regola hanno carattere reale; ma talvolta pure solo di obbligazione. E sottraggono ai titolari di tali diritti, la proprietà sul bene, o il possesso, o, comunque, la sua utilizzabilità. Perciò sono detti propriamente ablativi.

Vi sono altri poteri e provvedimenti dell'Amministrazione che incidono sfavorevolmente su posizioni di vantaggio di una rilevanza che è, o può essere, ancora maggiore di quella dei diritti su beni: i poteri e i provvedimenti che vincolano comportamenti individuali altrimenti liberi: si pensi aòòe determinazioni imperative sui prezzi oppure comandi e divieti che discendono da svariate ordinanze in materia di sicurezza, igiene, sanità, circolazione, ecc...

Questi poteri e provvedimenti possono essere considerati unitariamente almeno sotto in loro comune profilo saliente: essi pregiudicano posizioni di vantaggio di altri soggetti, delle quali l'ordinamento delinea una particolare rilevanza. Questa: essi pregiudicano posizioni di vantaggio che l'ordinamento attribuisce e riconosce, o comunque protegge e tutela giurisdizionalmente.

I poteri di incidere su libertà e diritti individuali che l'ordinamento attribuisce all'Amministrazione, dunque, sia pure delimitandoli, sono il mezzo che l'ordinamento medesimo adotta per risolvere contrasti che talvolta possono sorgere tra situazioni di vantaggio soggettive, protette in generale, e interessi pubblici in casi particolari e comunque con carattere episodico e accidentale.

Episodicità e accidentalità che consentono di configurare tali poteri amministrativi come estrinseci rispetto al contenuto di tali situazioni di vantaggio.

12. Segue: i provvedimenti favorevoli; le autorizzazioni.

Ai provvedimenti sfavorevoli, nelle più comuni classificazioni si contrappongono quelli favorevoli. Che tradizionalmente vengono distinti in due grandi categorie: i provvedimenti di tipo autorizzativo e i provvedimenti di tipo concessorio.

I primi sono definiti come i provvedimenti i quali incidono su preesistenti situazioni altrui di vantaggio. Ma che riguardano limiti di queste, i quali vengono imposti loro già dalla legge e, perciò, a differenza di quanto visto nel paragrafo precedente, sono ad essa intrinseci.

La differenza rilevante è che il provvedimento favorevole interviene non attribuendo una posizione di vantaggio ex novo al beneficiario. Perché quel provvedimento opera all'interno del diritto di proprietà che il suo titolare già aveva rimuovendo un limite ad esso intrinseco. Ed è questa l'essenza del regime autorizzatorio anche in antitesi a quello concessorio.

Quando l'ordinamento, in date situazioni di vantaggio che pure attribuisce, tutelandole, a soggetti individuali, rileva come intrinseco il contrasto potenziale di loro eventuali utilizzazioni con interessi pubblici contrapposti, le fa oggetto di un'ulteriore disciplina generale, di regola a livello legislativo. Disciplina che consiste nell'imposizione di un limite interno ai diritti, per il quale certi comportamenti non possono essere esercitati previo consenso dell'Amministrazione.

In tal modo l'Amministrazione viene investita di poteri tramite cui può intervenire costantemente, e non episodicamente, nei confronti di situazioni di vantaggio soggettive.

13. Segue: i provvedimenti favorevoli; autorizzazioni e discrezionalità.

Dei provvedimenti di carattere autorizzativo, dell'esercizio dei poteri che ne sono esplicazione, la rimozione in un caso concreto del limite generale suddetto costituisce l'effetto tipico: tratto loro comune, che consente la costruzione di una corrispondente categoria da questo punto di vista unitaria, e che impone la loro ascrizione a questa.

Dal punto di vista dei caratteri dei poteri di cui sono espressione i provvedimenti di tipo autorizzativo, è necessario che già qui si accenni, sia pure a larghi tratti, almeno ai più importanti dei profili in base ai quali essi si possono suddividere ulteriormente. A questo proposito si indicheranno gli elementi che l'Amministrazione autorizzante, nell'esercizio dei suoi poteri, deve fare oggetto delle sue valutazioni caso per caso.

E' poi da considerare la natura delle valutazioni che l'Amministrazione deve operare nelle varie ipotesi. Al riguardo, il problema più rilevante cui si deve accennare, concerne il tasso della loro discrezionalità. Nei poteri di tipo autorizzatorio, il loro esercizio è in linea di massima discrezionale, e solo raramente vincolato. E' vero che, al pari dei poteri amministrativi in genere, vi sono poteri autorizzatori il cui esercizio è discrezionale e viceversa.

E' questo atteggiarsi della discrezionalità nell'esercizio dei poteri di tipo autorizzatorio, fino alla sua possibile totale mancanza, il fattore che più degli altri occorre qui considerare, per una riflessione finale sul significato della loro attribuzione all'Amministrazione da parte dell'ordinamento, e della sottoposizione ad essi di determinate attività individuali; e ciò anche alla luce non solo dei vantaggi ma anche dei costi che si è visto implicare, per i singoli come per la collettività un simile assetto dei loro rapporti reciproci.

Gli impegni e gli oneri conseguenti all'attribuzione all'Amministrazione di tali poteri, e alla sottoposizione ad essi di tali attività individuali, sono più comprensibili quando l'Amministrazione medesima che ne sia così titolare deve compiere una vera e propria valutazione caso per caso. Quando, cioè, l'Amministrazione può esercitare quei poteri medesimi, con margini non insignificanti di discrezionalità.

14. Segue: i provvedimenti favorevoli; le concessioni.

L'altra tradizionale grande categoria di provvedimenti favorevoli, comprende le concessioni: i provvedimenti di carattere concessorio. I quali manifestano una positività più accentuata di quella rilevata a proposito delle autorizzazioni: perché non incidono, seppure favorevolmente, su situazioni di vantaggio preesistenti; ma addirittura costituiscono o assegnano situazioni di vantaggio del genere: di cui il beneficiario di tali provvedimenti non era già titolare.

Per la comprensione del fenomeno sostanziale, si deve cominciare col notare che la sottoposizione di situazioni giuridiche soggettive favorevoli ad un regime autorizzativo, costituisce un modo relativamente misurato di contemperare gli interessi dei loro titolari, con gli interessi pubblici almeno potenzialmente contrastanti: perché questi non hanno precluso l'attribuzione a soggetti privati di quelle loro situazioni di vantaggio, così come sono state delimitate.

15. Segue: i provvedimenti favorevoli; le concessioni: in particolari, di beni e di servizi.

La vicenda può essere illustrata col riferimento alla utilizzazione dei beni pubblici. Quando, per ragioni storiche risalenti anche molto nel tempo, o per scelte politiche più recenti, ha prevalso e prevale tutt'ora l'esigenza di gestione, o sfruttamento, o uso pubblico di beni appartenenti a date categorie, questi sono stati sottratti alla disponibilità da parte di soggetti privati, e devoluti a corrispondenti poteri dell'Amministrazione. Anche se con tecniche diverse.

In tutti questi casi, l'uso di tali beni da parte di soggetti privati, quando non sia generale, deve avvenire sulla base di un provvedimento dell'Amministrazione: che non può che avere natura concessoria.

16. Segue: i provvedimenti favorevoli; autorizzazioni e concessioni: ulteriori precisazioni.

Finora la distinzione tra regime autorizzatorio e regime concessorio, è stata prospettata in termini di netta contrapposizione dell'uno all'altro. Così che la definizione di questi due regimi, in realtà si rivela essere piuttosto quella di modelli classificatori cui le numerosissime discipline settoriali appaiono conformi entro limiti di volta in volta variabili; in cui spesso solo tendenzialmente, perciò, possono venire ricomprese.

17. Poteri dell'Amministrazione, e situazioni giuridiche individuali.

Dalla descrizione finora accennata, delle principali categorie dei poteri dell'amministrazione, dovrebbe già risultare chiara questa esigenza concettuale: la definizione delle situazioni giuridiche individuali, che siano loro contrapposte, o almeno con loro connesse, non può procedere che contestualmente alla definizione di quei medesimi: che, sicuramente, le condizionano; ma da cui, non meno sicuramente, sono anche condizionati.

Le situazioni giuridiche soggettive connesse con i poteri dell'Amministrazione, dunque, si possono definire solo in relazione con questi; e viceversa. Con questa ulteriore implicazione: la loro tipicità. E' comunemente rilevata, come si è detto più di una volta, la correlazione tra i poteri e i provvedimenti, i negozi, gli atti giuridici in genere, che ne sono espressione. Tale correlazione deve essere estesa alla corrispondenza dei loro tratti: nel senso che a quelli degli uni corrispondono quelli degli altri.

Quindi, come i soggetti pubblici, per quel che riguarda la loro capacità specifica, hanno solo poteri tipici, l'ordinamento non può che tipizzare in modo corrispondente, le situazioni giuridiche che i soggetti privati possono vantare correlativamente: prima, e dopo, e in forza del loro esercizio.

18. Poteri amministrativi, diritti soggettivi e interessi legittimi individuali.

Le situazioni giuridiche soggettive nel privato nel diritto amministrativo, e più precisamente, quello che esso può vantare nei confronti dell'Amministrazione, nella nostra elaborazione della materia sono delineate secondo la fondamentale bipartizione in diritti soggettivi e in interessi legittimi; e corrispondentemente classificate, pur tenendo conto di ulteriori loro varianti.

Di questo orientamento della nostra cultura giuridica in materia, vi è una causa chiara e certa: l'istituzione nel nostro ordinamento di un sistema di giustizia amministrativa, articolato su due ordini di giudici che hanno giurisdizione nei confronti dell'Amministrazione. Così dualistico era tale nostro sistema, nella configurazione che assunse fin dall'ultimo decennio dell'800, e in quello successivo; e così basato su tale bipartizione, era quello che si sviluppò per quasi tutto l'arco del '900; ma oggi è largamente superato, specie per effetto della 80/98.

L'allegato E della 2248/1865 (Abolizione del contenzioso amministrativo) deve considerarsi tutt'ora come la pietra angolare del nostro sistema di giustizia amministrativa, la cui perdurante vigenza e rilevanza dominante è stata ribadita dalla Corte Costituzionale. L'art. 2 ha attribuito e attribuisce al giudice ordinario, al giudice di diritto comune dei rapporti tra i soggetti privati dell'ordinamento, anche la tutela delle situazioni giuridiche di questi nei confronti dell'Amministrazione, che si atteggino come “diritti politici e civili” e, si noti, “[...] ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o della autorità amministrativa [...]”. E' dalla interpretazione giurisdprudenziale e dalla elaborazione dottrinale di tale formula “diritti civili e politici”, che è progressivamente derivato l'attuale concetto di “diritto soggettivo”: s'intende, nei confronti dell'Amministrazione stessa. Dei diritti soggettivi che, nei modi che si diranno, si contrappongono perfino ai suoi poteri pubblicistici, autoritari e imperativi: rimanendo pure per essi intangibili, almeno entro certi limiti.

D'altra parte il nostro sistema fu completato con la 5992/1889 che istituì la quarta sezione del Consiglio di Stato, della quale con lenta evoluzione derivò l'attuale organizzazione giurisdizionale amministrativa. E che le ha attribuito la competenza a: “[...] decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di

legge, contro atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici”. Ossia, sui ricorsi per vizi del procedimento, che vengono correntemente sintetizzati nel concetto della sua legittimità: come conseguenza della violazione da parte sua di una qualche norma, anche secondaria, che lo regoli; purché questa sia giuridica. Cui si contrappone il concetto della sua legittimità: come assenza in esso, di quei vizi stessi, come sua conformità ad ogni norma parimenti giuridica che lo disciplini.

Sembra che a tale concetto di illegittimità del provvedimento, che alla definizione delle norme pur giuridiche dalla cui violazione deriva, non possa non inerire un limite intrinseco: la norme citata, come quelle che successivamente l'hanno riprodotta, hanno sempre fatto salva la giurisdizione del giudice ordinario, a tutela dei diritti soggettivi dal provvedimento lesi, o, comunque, al provvedimento connessi.

Accanto al diritto soggettivo, oggetto della tutela giurisdizionale del giudice ordinario, è così gradatamente emersa una situazione giuridica soggettiva in un certo senso simmetrica, la cui tutela, sia pure in una diversa struttura processuale, è affidata alla giurisdizione amministrativa. A tale situazione giuridica soggettiva, la dottrina, seguita dalla giurisprudenza, ha dato la denominazione di “interesse legittimo”.

19. I diritti soggettivi e gli interessi legittimi.

I caratteri dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi che i soggetti individuali possono vantare nei confronti dell'Amministrazione e dei suoi provvedimenti, i loro tratti differenziali, sono stati oggetto di una imponente elaborazione da parte della nostra cultura giuridica.

D'altra parte, malgrado le esigenze di sinteticità, a questo paragrafo si è dovuta premettere necessariamente la descrizione dei poteri dell'Amministrazione e delle loro principali categorie, nonché dei nessi che li collegano alle situazioni giuridiche individuali in genere. Giacché tanto i diritti soggettivi che gli interessi legittimi, si definiscono soprattutto nei loro confronti. E si connotano diversamente, soprattutto perché nei loro confronti vengono a collocarsi in posizione diverse. Anzi opposte. Nel senso che la sussistenza di un diritto soggettivo individuale in ordine ad un dato bene, preclude che su di esso possa sussistere un potere dell'Amministrazione; e viceversa. Mentre l'interesse legittimo è una situazione soggettiva individuale totalmente assoggettato al potere dell'Amministrazione: non sarebbe neppure configurabile, se non fosse configurabile questo potere medesimo, e questo sua assoggettamento a questo.

Ad integrazione della tradizionale figura del diritto soggettivo, gli amministrativisti hanno dovuto sottolineare un suo aspetto, che soprattutto per la loro materia è di importanza decisiva: il carattere assoluto della protezione che accorda all'interesse del suo titolare; il carattere assoluto della protezione di questo interesse, nella quale esso consiste.

Quando l'ordinamento protegge sostanzialmente in questo modo così assoluto un interesse individuale nei confronti dell'Amministrazione e dei suoi poteri, significa che non lo subordina agli interessi pur pubblici che tale Amministrazione, con l'esercizio di tali suoi poteri, deve istituzionalmente perseguire: agli interessi, pur pubblici, che a tale Amministrazione, attribuendole tali poteri, gli ha demandato e imposto di perseguire istituzionalmente.

Anzi, a tale interesse individuale, l'ordinamento stesso, entro i limiti nei quali lo protegge in quel modo così assoluto, rispetto a quegli interessi pubblici, assicura addirittura la prevalenza.

Naturalmente, la ricostruzione in questi termini della relazione tra potere amministrativo e diritto soggettivo individuale, richiede il chiarimento di una questione decisiva: la spiegazione del perché e del come l'ordinamento possa proteggere interessi individuali contro, e quindi, a preferenza degli interessi di cui, d'altra parte, demanda la cura all'Amministrazione; e che, se non altro per questo solo fattore, non possono non dirsi pubblici. Il problema deve essere risolto dalla considerazione della grande ambiguità del concetto di pubblico e della molteplicità delle possibili articolazioni di questo carattere.

Che può inerire con diversa intensità a diverse componenti anche strutturali dell'ordinamento generale. “Pubblico” è, per definizione, anzitutto lo Stato. Ma anche l'ordinamento generale. Pure, con pari sicurezza sebbene già con una notevole parzialità, la “sua” Amministrazione.

Il carattere “pubblico” non può che graduarsi diversamente, in correlazione ai diversi livelli normativi dell'ordinamento cui si ricollega: nel senso che le norme di un livello subordinato, come le leggi rispetto alla Costituzione, e i regolamenti rispetto alle leggi, sono in funzione di interessi i quali, per quanto siano tutti del pari genericamente “pubblici”, non possono che essere di rilievo minore di quelli in funzione dei quali si pone il livello normativo sovraordinato.

La legislazione che riconosce o attribuisce, definendole e commisurandole, i diritti di tutti i soggetti non può che porsi come la sintesi che politicamente ha prevalso, degli interessi di loro tutti. Con l'inevitabile implicazione che anche agli interessi delle Amministrazioni, per quanto pubblici, per quanto collettivi, per quanto superindividuali, deve necessariamente assegnare in ruolo di interessi solo di “parte”, di parte di un tutto; di parte, perché è di un tutto.

20. Segue; in particolare: l'interesse legittimo.

Se, dunque, è in questi termini che va ricostruito il concetto di diritto soggettivo individuale nel suo rapporto col potere dell'Amministrazione, discorso opposto va fatto per l'interesse legittimo. Quando un interesse individuale è giuridicamente protetto nei confronti dell'Amministrazione solo come tale, e non come un diritto soggettivo; quando, cioè, esso non è protetto nel modo assoluto che si è detto, nei confronti degli interessi pubblici che l'Amministrazione medesima deve curare, la conseguenza rispetto alla sua rilevanza giuridica è inequivoca: la sua sorte è condizionata da questi. Cui viene subordinato: nel senso che l'Amministrazione, curandoli, può sacrificarlo ad essi; anche se, ben s'intende, solo in quanto ed entro i limiti nei quali la loro cura lo richieda.

Questa ricomprensione da parte dell'ordinamento generale, degli interessi legittimi individuali nell'ambito dei poteri che attribuisce all'Amministrazione, d'altra parte non implica affatto che essi risultino privi di protezione sostanziale.

In conclusione l'interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva, sostanziale che l'ordinamento generale non protegge prioritariamente rispetto agli interessi pubblici di cui demanda all'Amministrazione la cura; che, perciò, con le proprie norme di definizione dei poteri che le assegna a tal fine, ricomprende nei loro limiti; la cui sorte è devoluta alle sue scelte nel loro esercizio; ma che, ciò nonostante, è protetta ugualmente già sul piano sostanziale, sia pure un questo diverso modo: perché l'Amministrazione,

esercitando tali suoi poteri, è vincolata all'osservanza delle ulteriori norme funzionali cui è specificatamente assoggettata.

L'importanza dell'interesse legittimo nel diritto amministrativo, non è data solo dalla circostanza per la quale un'intera componente del nostro sistema di giustizia amministrativa, tutta la giurisdiziona amministrativa è stata organizzata per dargli tutela giurisdizionale.

L'interesse legittimo è una situazione sostanziale di vantaggio protetta soltanto in questo modo indiretto, che può dirsi tale solo entro limiti ben precisi: solo in quanto alle norme funzionali che vincolano l'esercizio dei poteri dell'Amministrazione, possa riconoscersi carattere giuridico. La nozione di interesse legittimo è stata elaborata e progressivamente definita per costruire come una situazione giuridica soggettiva l'interesse individuale che può trovare tutela nella giurisdizione amministrativa generale di legittimità: la sua sola legittimità.

Se sono varie le classificazione che si possono tracciare tra gli interessi individuali in vario modo rilevanti nei confronti dei poteri dell'Amministrazione e del loro esercizio, non mancano le distinzioni che si possono delineare anche all'interno degli interessi legittimi veri e propri. Cominciamo dalla distinzione tra interessi legittimi “oppositivi” e interessi legittimi “pretensivi”.

Ricorrono i primi quando il soggetto era già titolare di una situazione giuridica di vantaggio, sacrificata dal provvedimento contro il quale oppone. Ricorrono i secondi, quando il soggetto pretende di acquisire una situazione di vantaggio di cui non è titolare.

21. Segue; in particolare: la risarcibilità della lesione degli interessi legittimi.

Per decenni la Cassazione ha fermamente negato la risarcibilità dell'interesse legittimo: fino ad una sentenza che ha acquistato subito la massima notorietà. E questo suo originario atteggiamento negativo era fortemente criticato dalla dottrina di gran lunga maggioritaria, che quella risarcibilità auspicava vivacemente da tempo.

Non bisogna credere che la precedente giurisprudenza restrittiva della Cassazione impedisse sempre il ristoro del pregiudizio causato da un provvedimento illegittimo La Cassazione, quando un provvedimento del genere incide su un diritto soggettivo, quando, quindi, viene ad atteggiarsi come un interesse legittimo di tipo oppositivo, teneva sì ferma la necessità della sua previa impugnazione davanti al giudice amministrativo; ma rilevava che la sua decisione di accoglimento del ricorso annulla il provvedimento con effetto retroattivo: nella situazione giuridica che ne deriva è come se non fosse mai esistito. Quindi il diritto leso riemerge ex tunc e questo diritto soggettivo impugnato civilmente veniva già dalla Cassazione risarcito. Ma non considerava risarcibili gli interessi legittimi in quanto tali. Quindi il titolare del diritto leso doveva prima sottoporre al giudice amministrativo il provvedimento e solo dopo averne ottenuto l'annullamento poteva richiedere al giudice ordinario il risarcimento per il comportamento di fatto dell'Amministrazione nei suoi confronti non supportato, appunto, dal principio di legittimità.

E' nel nuovo quadro dei riparti di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, secondo il quale è diventato questo, ed ha cessato di essere quello il giudice naturale sulle pretese risarcitorie nei confronti dell'Amministrazione, che va considerata la già citata sentenza.

Deve considerarsi che molto opportunamente è divenuto diritto positivo la risarcibilità della lesione di una gamma di posizioni individuali nettamente più ampia di quella delle situazioni che tradizionalmente si definivano come diritti soggettivi.

22. Provvedimenti sfavorevoli e diritti soggettivi. Per quel che riguarda le situazioni giuridiche individuali che si contrappongono ai poteri dell'Amministrazione di emanare provvedimenti sfavorevoli, la premessa di queste ulteriori osservazioni è posta in modo indiscutibile dalle conclusioni prima tratte: i provvedimenti che ne sono espressione, vengono a incidere su posizioni individuali di vantaggio cui non si può non riconoscere carattere di diritto soggettivo pieno. Apparentemente contraddittorio con quanto visto, il problema si supera osservando che il diritto soggettivo, come del resto l'interesse legittimo, sono situazioni giuridiche che non hanno valore assoluto: sono solo relative. Nel senso che si definiscono solo all'interno di una relazione: in particolare della relazione con uno specifico potere amministrativo.

Non è contraddittorio configurare la proprietà come un diritto soggettivo sotto tutti i profili tranne che quello della sua relazione col potere di espropriazione. Che la qualificazione delle situazioni giuridiche individuali non possa essere relativa deve risultare evidente già sulla base di un'osservazione del tutto banale: ciascuna di esse può essere oggetto di una pluralità di poteri amministrativi.

La relatività delle situazioni soggettive individuali rispetto ai poteri dell'Amministrazione, va analizzata soprattutto in riferimento al rapporto di una sola di queste situazioni con uno solo di questi poteri: ricostruendo l'assetto che gli ha impresso l'ordinamento generale, quando ha attribuito ai rispettivi soggetti l'una e l'altro, fissandone la reciproca delimitazione.

Ad ogni modo nel rapporto con uno specifico potere dell'Amministrazione, un diritto soggettivo non possa, o non possa più dirsi tale, esso mantiene il suo carattere di protezione assoluta che l'ordinamento generale accorda al relativo interesse individuale, non solo in tutte le sue relazioni con tutte le situazioni giuridiche dei soggetti di diritto comune; ma anche nei confronti dell'Amministrazione medesima: in tutte le sue manifestazioni, in tutte le sue attività giuridiche o di fatto, che a quel potere non possano ricollegarsi.

23. Provvedimenti sfavorevoli e interessi legittimi.

Nei confronti di provvedimenti dell'Amministrazione che siano espressione di un potere di cui non superano i limiti, per contro, esplica intera la sua rilevanza giuridica il principio già precisato: per il quale, già prima della loro emanazione, il diritto soggettivo inciso non può atteggiarsi come tale nel suo rapporto con quel potere medesimo. E il suo titolare contro tali provvedimenti non può rivolgersi al giudice ordinario che su di essi non ha giurisdizione. Questo non significa affatto che tale titolare nei confronti di tali provvedimenti, della sua situazione soggettiva di vantaggio, non abbia protezione sostanziale e conseguentemente tutela giurisdizionale.

Sul piano sostanziale gioca il carattere funzionale dell'autonomia dell'Amministrazione per il quale i suoi provvedimenti non solo non devono eccedere i limiti dei poteri di cui sono espressione, ma anche devono porsi in funzione degli interessi pubblici per la cui cura l'ordinamento generale glieli ha attribuiti. Il titolare di quella situazione di

vantaggio riceverebbe la protezione sostanziale di questa, che deriva dal dovere dell'Amministrazione di esercitare il potere che vi incide, con l'osservanza di tutta tale ulteriore normativa; anche se godrebbe solo di questa protezione relativa, e non di quella assoluta.

Secondo le considerazioni prima esposte manterrebbe tale sua situazione sul piano sostanziale viene protetta come un interesse legittimo: almeno come un interesse legittimo. Del quale potrebbe sempre chiedere tutela giurisdizionale: contro i provvedimenti che la ledessero da un lato e che dall'altro violassero una qualsiasi delle norme funzionali suddette. Utilizzando la norma garantita dal giudice amministrativo.

I diritti soggettivi che si contrappongono a provvedimenti sfavorevoli dell'Amministrazione, quando i relativi poteri abbiano lo stesso loro oggetto, nei loro confronti si atteggiano come interessi legittimi. Si è identificata una prima categoria di interessi legittimi: quella che in tali diritti trovano fondamento. E che questi interessi legittimi trovino fondamento addirittura in diritti soggettivi è fattore tutt'altro che irrilevante per il loro completo regime giuridico: perché tale loro base acquista rilievo sotto vari profili.

Il nostro processo amministrativo tipico è di annullamento: l'effetto essenziale della decisione giurisdizionale amministrativa che sia di accoglimento del ricorso, è la demolizione del provvedimento così impugnato; demolizione che ha effetto retroattivo.

24. Provvedimenti sfavorevoli e gli interessi diffusi, collettivi e di associazioni.

La legittimazione al ricorso al giudice amministrativo, almeno nella sua giurisdizione generale di legittimità, peraltro, è assicurata dal nostro sistema di giustizia amministrativa, solo a tutela di interessi legittimi che siano davvero tali. Sostanzialmente l'esigenza, per la configurabilità dell'interesse legittimo, che l'interesse individuale sia giuridicamente soggettivizzato dall'ordinamento; e dall'ordinamento giuridicamente connesso con un potere dell'Amministrazione.

Spesso vi sono interessi individuali che sono rilevanti con sicurezza solo in fatto; ma di cui è problematica la loro definizione pure come situazioni giuridiche soggettive. Anzitutto gli interessi che, pur essendo individuali, sono comuni ad una generalità di soggetti: gli interessi diffusi, che possono ben essere esemplificati da quelli degli abitanti di un'intera zona. E quelli che sono comuni almeno agli appartenenti ad una intera categoria: interessi collettivi. Inoltre la moltiplicazione dei soggetti individuali cui pertengono medesimi interessi, provoca la manifestazione di fenomeni associativi, molto frequenti specie da un paio di decenni: stimola alla formazione di strutture che, in forme molto diverse, colleghino tali soggetti e si diano carico in loro sostituzione del perseguimento degli interessi loro comuni.

Il più frequente angolo visuale dal quale tutti questi problemi emergono è la delimitazione della situazione giuridica soggettiva legittimante al ricorso al giudice amministrativo (di sola legittimità). La rilevazione anche della giuridicità della pertinenza soggettiva di determinati interessi fattualmente individuali, e la precisazione della loro sottoposizione ad un potere dell'Amministrazione, dalla quale deriva la loro protezione come interessi legittimi, sono operazioni logiche che appartengono al piano del diritto sostanziale. In questi decenni si è accentuata la percezione della pertinenza soggettiva anche giuridica di larghe gamme di interessi individuali precedentemente considerati di mero fatto, e dei loro nessi parimenti giuridici con poteri dell'Amministrazione.

25. Provvedimenti favorevoli, diritti soggettivi e interessi legittimi. Le situazioni costituite dalle concessioni.

Le altre considerazioni giuridiche soggettive che occorre ora considerare sono quelle che si contrappongono ai provvedimenti favorevoli e ai poteri di cui questi sono espressione. Le situazioni giuridiche soggettive costituite da provvedimenti di tipo concessorio, presentano tratti simili a quelli delle analoghe situazioni privatistiche pregiudicate da provvedimenti sfavorevoli.

Le situazioni di vantaggio del concessionario, considerate in sé e per sé, come nel rapporto con i poteri dell'Amministrazione, risultano atteggiarsi nello stesso modo nel quale si pongono i diritti soggettivi privatistici, in sé e per sé, come nel loro rapporto con i poteri attribuiti all'Amministrazione medesima, di adottare provvedimenti che li pregiudichino.

Da questo loro duplice modo di porsi, secondo i criteri prima delineati, deriva la duplicità delle giurisdizioni alle quali il loro titolare può chiedere tutela contro i provvedimenti espressione di quei poteri, che la ledano: rispettivamente, la giurisdizione civile o quella amministrativa. O meglio: derivava. Poiché in questa materia è stato particolarmente esteso l'ampliamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

26. Le aspettative di concessione.

Se il massimo dell'analogia con le situazioni giuridiche soggettive privatistiche incise da provvedimenti sfavorevoli può essere rintracciato nelle situazioni giuridiche costituite da provvedimenti concessori, ovviamente già rilasciati, il massimo della contrapposizione con esse deve essere individuato nelle posizioni di chi, viceversa, può solo tendere al loro rilascio. Posizioni che possono essere le più diverse, ma che, per essere orientate comunque verso l'ottenimento del provvedimento favorevole, almeno in linea di principio non possono non presentare sempre un profilo: quello di atteggiarsi come un'aspettativa di esso.

Nella ricostruzione dei tratti delle aspettative di concessioni, e quindi, degli interessi pretensivi che vi si connettono, conviene considerare separatamente due diversi versanti: da un lato il vincolo dell'Amministrazione ad assentire tali provvedimenti; dall'altro gli elementi giuridici in cui esse consistono.

Quanto al primo aspetto, il vincolo dell'Amministrazione più rilevante è quello che si dirà sostanziale: che ha per oggetto, in positivo, l'assenso o il diniego del provvedimento. Ma ne è individuabile pure un altro che è preliminare: quello, strumentale, di valutare se assentirlo o meno.

Per quel che riguarda il vincolo sostanziale dell'Amministrazione ad assentire il provvedimento favorevole, si deve considerare in primo luogo se ad esso possa contrapporsi un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenerlo di chi lo ha chiesto. Tuttavia, occorre anzitutto distinguere l'eventuale diritto dell'istante ad ottenere la concessione che richiede, da altri diritti che i soggetti privati possono rivendicare nei confronti dei poteri amministrativi di tipo concessorio: i quali si connettono ai limiti che l'ordinamento pone loro.

D'altra parte chi richieda all'Amministrazione una determinata concessione, già viene ad ammettere che l'attività, il bene o quant'altro in ordine al quale la domanda, non appartenga di per sé alla sua autonomia, alla sua sfera giuridica ma possa, appunto, essere oggetto di un provvedimento avente una così forte connotazione costitutiva. Anche da questo punto di vista è profilabile un suo diritto soggettivo, come affermazione della sussistenza di un vero e proprio obbligo dell'Amministrazione ad assentirgli il provvedimento favorevole richiestole. Ma sono casi rari.

E' chiaro che, in via generale, l'interesse del potenziale beneficiario della concessione ad ottenerla è protetto giuridicamente sul piano sostanziale dall'ordinamento solo mediante l'imposizione all'Amministrazione del dovere di osservare tali disposizioni e tali criteri: solo mediante vincoli posti all'esercizio di un potere altrui. Quindi, di nuovo, solo come un interesse legittimo.

Il loro titolare potrà chiederne tutela al giudice amministrativo. Ma perché il titolare di un'aspettativa possa impugnare davanti a tale giudice i provvedimenti che lo pregiudichino, non basta che sia disciplinato giuridicamente l'esercizio del potere che ha portato alla loro emanazione: occorre ce l'ordinamento attribuisca a tale interesse una rilevanza giuridicamente.

E' difficile delineare i tratti giuridici della specifica aspettativa di concessione. In proposito si possono accennare solo alcune considerazioni generiche. Sicuramente devono costituire tale aspettativa, i requisiti soggettivi del titolare, inquadrati in un contesto fattuale e giuridico nel quale sussistano tutti i presupposti entro i termini previsti.

27. Autorizzazioni, diritti soggettivi e interessi legittimi.

Le situazioni giuridiche soggettive connesse con i poteri e i provvedimenti di tipo autorizzatorio, partecipano ora di quelle connesse con provvedimenti sfavorevoli, ora di quelle connesse con provvedimenti concessori.

Per quel che riguarda l'aspettativa del titolare del diritto soggettivo di poterlo esplicare liberamente, e gli interessi pretensivi al rilascio delle relative autorizzazioni, devono essere richiamati integralmente i rilievi accennati sulle aspettative di concessione e sugli interessi pretensivi all'esercizio positivo dei pertinenti poteri dell'Amministrazione.

Per quel che riguarda le nuove situazioni costituite da provvedimenti di tipo autorizzatorio, esse sicuramente hanno natura di diritto soggettivo: in analogia, da un lato, con quelle costituite da provvedimenti di tipo concessorio e dall'altro con le posizioni di base cui ineriscono le facoltà autorizzate, già pertinenti alla sfera giuridica, all'autonomia del loro benificiario.

Capitolo 5 Diritto europeo e diritto amministrativo nazionale

1. Gli accordi internazionali e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Il diritto amministrativo si è in passato disinteressato delle fonti non tipicamente nazionali. E ciò per il tradizionale convincimento che gli accordi internazionali o sovranazionali atterrebbero prevalentemente a rapporti interstatali e si occuperebbero di materia comunque estranee all'azione della pubblica Amministrazione. Si tratta di impostazione insostenibile e del resto da tutti ormai abbandonata.

Gli accordi internazionali si occupano sempre più spesso di rapporti interindividuali, ma soprattutto taluni di essi disciplinano settori amplissimi del diritto amministrativo. Sicché non è possibile operare una trattazione generale dello stesso, che ne prescinda e non tenga conto delle rilevantissime innovazioni così introdotte.

La Convenzione europea dei diritti dell'uomo contiene tra l'altro prescrizioni in ordine alla tutela giurisdizionale giusta, celere ed effettiva che sono applicabili anche al nostro processo amministrativo. E contiene anche precetti che coinvolgono variamente l'azione amministrativa, in relazione a libertà e a diritti fondamentali, ivi compreso il diritto di proprietà.

Si tratta di precetti che non sono dissimili da quelli espressi dalla nostra Carta Costituzionale. Tuttavia occorre considerare che la Convenzioni europea dei diritti dell'uomo ha anche istituito un'apposita Corte, con sede a Strasburgo, per assicurare il rispetto degli impegni presi dagli stati contraenti e con competenza espressamente estesa a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli.

Tradizionalmente presso di noi tutti gli accordi internazionali hanno avuto, nel sistema delle fonti, il medesimo rango che presenta l'atto (interno) che vi ha dato esecuzione nel nostro ordinamento. Oggi il quadro risulta mutato. Con il nuovo testo dell'art. 117 comma 1° la potestà legislativa, statale e regionale, deve essere esercitata anche nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, conferendo così a qualunque accordo internazionale il rango di norma interposta a norma costituzionale e pertanto ad essa equiparabile.

Altro e diverso problema è quello dell'efficacia diretta o meno delle norme degli accordi internazionali. Si tratta di stabilire se le singole disposizioni creano immediatamente posizioni soggettive in capo ai cittadini, ovvero debbano essere tradotte in norme interne ulteriori, per costituire posizioni azionabili in giudizio.

2. I trattati comunitari.

Ma sono soprattutto i Trattati comunitari ad interessare il diritto amministrativo. E ciò per le numerose disposizione in essi contenute che riguardano direttamente e indirettamente l'azione dell'Amministrazione pubblica.

Il Trattato di Maastricht, oltre ad interventi di natura economica e monetaria, sulla cittadinanza e in altri campi, ha sancito il principio di sussidiarietà. In base al quale: “nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene ... soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri e, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, possono essere realizzati meglio a livello comunitario”.

Il principio di sussidiarietà riguarda essenzialmente il rapporto dinamico tra normazione della Comunità e normazione dei singoli Stati membri. Tuttavia esso ha assunto la valenza di un principio generale anche dell'azione e dell'organizzazione amministrativa, all'interno di ciascun stato membro. E il novellato art. 118 della Costituzione basa

proprio su tale principio sia la distribuzione delle funzioni amministrative tra i vari enti territoriali, sia l'intervento amministrativo rispetto all'autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale.

Sul piano più strettamente amministrativo ancor più estese e penetranti discipline si rinvengono negli atti c.d. normazione derivata. E cioè, nelle varie manifestazioni di potere normativo, che, in base ai Trattati, gli organi comunitari sono abilitati ad emettere ed hanno in concreto emesso, con sempre maggiore incidenza quantitativa e qualitativa negli ordinamenti degli Stati membri.

Di tali atti di normazione derivata si dirà nei paragrafi che seguono. Qui val la pena di anticipare che tale tipo di normazione non convenzionale – non risultante da accordi presi volta per volta dagli stati membri – ha posto gravi problemi giuridici nel nostro ordinamento, che finiscono per ripercuotersi sul ruolo medesimo, che occorre riconoscere ai Trattati comunitari – e, in futuro, alla nuova Costituzione – nell'ambito del nostro sistema delle fonti.

Essa infatti ha comportato evidenti ed importanti deroghe al nostro sistema costituzionale, se non altro perché presuppone il trasferimento agli organi comunitari di vasti poteri normativi, che risultano così sottratti al legislatore italiano. E ciò nonostante i Trattati comunitari siano stati resi esecutivi presso di noi con legge ordinaria e non costituzionale. Quando però la Corte Costituzionale italiana ha dovuto riconoscere che almeno taluni atti di normazione comunitaria derivata (i regolamenti) esplicano effetti immediati e diretti nell'ambito degli Stati membri e nei confronti delle istituzioni di questi ultimi e dei relativi cittadini, senza necessità di leggi di ricezione e adattamento, è apparso chiaro che si era verificata una radicale deroga al sistema costituzionale.

La soluzione accolta è che tale vicenda trova fondamento nell'art. 11 della Costituzione, che consente limitazioni di sovranità del nostro Stato, giustificate dalla partecipazione ad ordinamenti sovranazionali che assicurino la pace e la giustizia tra le Nazioni.

Inoltre con il nuovo testo dell'art. 117 che impone alle leggi nazionali l'osservanza anche dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, l'eventuale uscita dell'Italia dal sistema comunitario non potrebbe che avvenire con legge costituzionale. E non potrà essere escluso il sindacato di legittimità costituzionale in ordine alle leggi contrastanti con la disciplina comunitaria, a cominciare da quella portata dai Trattati.

3. Le istituzioni dell'Unione e il sistema di giustizia amministrativa comunitaria (cenni).

Non si possono apprezzare le ripercussioni di tali fonti e dell'attività amministrativa dell'Unione europea, senza ricordare, sia pur sinteticamente, taluni caratteri strutturali e funzionali di dette istituzioni, la cui composizione e i cui compiti sono ora precisati dal più recente trattato di Nizza, che tiene conto dell'allargamento ai paesi dell'est, e, da ultimo, della Costituzione europea.

Si è parlato di Unione europea, anche se si è avvertito che non si tratta di autonoma organizzazione sovranazionale, dato che si avvale degli organi della Comunità, che è la sola ad avere sicura e conclamata personalità giuridica. Tuttavia non solo nel linguaggio comune, ma anche in precisi testi normativi, l'Unione europea è evocata come un soggetto autonomo e comprensivo della Comunità europea, finendo per sostituirsi ad essa tutte le volte in cui sono in gioco i rapporti con gli Stati membri.

In realtà, l'unico organi istituito dal Trattato dell'Unione, e diverso dagli organi comunitari, è il Consiglio europeo. Cioè il consiglio che “riunisce i Capi di Stato o di Governo degli Stati membri nonché il Presidente della Commissione” e che dà all'Unione “l'impulso necessario al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici generali”.

Il consiglio europeo non deve essere confuso con il Consiglio CE, da parecchio tempo organi portante della Comunità, formato “da un rappresentante di ciascuno stato membro a livello ministeriale, abilitato ad impegnare il governo di detto Stato membro”.

E' importante ricordare che le deliberazioni del Consiglio sono – salvo eccezioni – prese a maggioranza qualificata e che il voto non ha lo stesso peso per i vari suoi componenti. Vige la regola del voto ponderato, per il quale, ben maggior perso ha il voto dei rappresentanti di Italia, Francia, Germani e Regno Unito rispetto al voto del rappresentante del Granducato di Lussemburgo.

Detto Consiglio è sovente definito “organo di Stati”, in quanto i singoli componenti rappresentano i rispettivi Stati membri e i relativi interessi. Ed è organo fondamentale della Comunità, perché costituisce ancora adesso il principale organo con poteri normativi.

Il Parlamento europeo, eletto a suffragio universale sin dal 1979 e costituito dai “rappresentanti dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità” è organo anzitutto di controllo. Solo le più recenti modifiche ai Trattati hanno conferito al Parlamento un'influenza importante nel processo di formazione normativa, contribuendo così ad una maggiore democraticità dell'intera Unione.

Altro organo fondamentale è la Commissione, i cui membri “esercitano le loro funzioni in piena indipendenza nell'interesse generale della Comunità”. La commissione – che è sottoposta all'approvazione da parte del Parlamento e che ha anche un importante potere di iniziativa normativa, avviando il processo decisionale del Consiglio, in collaborazione, secondo procedure, di volta in volta diverse, con il Parlamento – rappresenta il principale potere esecutivo della Comunità. Infatti la Commissione: a) vigila sull'applicazione delle disposizione dei Trattati; b) formula raccomandazioni e pareri; c) dispone di un proprio potere di decisione; d) esercita le competenze che le sono conferite dal Consiglio per l'attuazione delle norme da esso stabilite;

Alla Commissione fanno capo le varie Direzioni generali e i vari servizi che rappresentano, settore per settore, la complessa macchina burocratica degli uffici comunitari. La quale si è mantenuta entro dimensioni tutto sommato contenute, grazie al criterio della c.d. esecuzione indiretta e, cioè, al principio secondo cui l'applicazione amministrativa del diritto comunitario compete essenzialmente agli Stati membri, sotto la vigilanza delle Istituzioni comunitarie.

Le raccomandazioni e i pareri sono equiparabili a figure di atti amministrativi, ben note nel nostro ordinamento. In particolare le raccomandazioni – ancorché prive di effetti vincolanti – non sono giuridicamente irrilevanti, in quanto impongono ai giudici nazionali di tenerne conto nell'interpretazione degli atti comunitari e nazionali.

Ma la principale espressione del potere amministrativo è costituita dalla “decisione”, che “è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati”. La decisione è un vero e proprio provvedimento amministrativo, con connotati e regime analoghi a quelli dei provvedimenti amministrativi degli Stati membri.

La coerenza dell'intero sistema è poi assicurata dalla Corte di Giustizia, che con il Tribunale di primo grado costituisce l'autorità giurisdizionale della Comunità. A tal fine

ha competenza in ordine al vaglio di legittimità degli atti delle istituzioni, in ordine ai ricorsi presentati dalla Commissione per far constatare l'inadempienza di uno Stato membro agli obblighi comunitari ed ha competenza a pronunciarsi in via pregiudiziale – sulla base di un rinvio operato dai Giudici dei vari Stati membri – sulla validità ed interpretazione degli atti delle istituzioni e sulla interpretazione del trattato.

Un cenno aggiuntivo merita, per le indubbie affinità col nostro sistema di giustizia amministrativa, il ricorso avverso le decisioni comunitarie, che qualunque persona fisica o giuridica, che ne sia destinataria, può proporre direttamente al Tribunale di primo grado. Si tratta di ricorsi per vizi di legittimità.

Il sistema di giustizia amministrativa comunitaria si estende anche agli atti normativi, che possono essere oggetto di ricorsi proposti da uno Stato membro o da altre Istituzioni. E ciò accresce l'impronta amministrativa, riconoscibile in tutti gli atti comunitari.

Completano il quadro delle istituzioni, che in qualche modo interessano il diritto comunitario, la Corte dei conti, il COREPER – Comitato costituito dai rappresentanti permanenti degli Stati membri con funzione di preparazione, supporto ed esecuzione dell'attività del Consiglio - e il Comitato delle Regioni con funzioni consultive.

Né si può dimenticare il recente fenomeno della istituzione di Agenzie comunitarie che hanno propria personalità giuridica e che rappresentano una sorte di equivalente degli enti pubblici nei sistemi nazionali. Tali agenzie, che svolgono talora veri e propri compiti di Amministrazione attiva, costituiscono un nuovo modello di esercizio congiunto delle funzioni pubbliche comunitarie.

4. I regolamenti comunitari.

Ai sensi dell'art. 249, comma 2°, del trattato CE “il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”. Lo studio dei regolamenti comunitari interessa specificamente il diritto amministrativo sotto almeno un duplice profilo. Sia per la disciplina sostanziale che da essi promana, sia per i rapporti che intercorrono con gli atti amministrativi e con gli atti normativi secondari, che sono di competenza delle pubbliche amministrazioni.

Sotto il primo profilo è noto che sono ormai numerosi i regolamenti comunitari che disciplinano settori propri del diritto amministrativo e forniscono le regole di condotta dell'azione amministrativa in tali settori. Sotto il secondo profilo occorre stabilire il ruolo che la normativa regolamentare comunitaria riveste nell'ambito del sistema e, dunque, anzitutto i rapporti che sussistono con le fonti tipicamente nazionali.

A questo proposito son risultati contrapposti due principali filoni interpretativi. L'uno, seguito – almeno in passato – dalla Corte costituzionale, inquadra i rapporti tra gli ordinamenti sotto lo schema della “separazione”, sia pure con coordinamento (concezione tipica del diritto internazionale, sistemi giuridici autonomi e indipendenti). L'altro, seguito in particolare dalla Corte di giustizia, inquadra detti rapporti sotto lo schema della “integrazione” (concezione tipica del modello federale, unico sistema integrato delle fonti).

Il conflitto delle due Corti, imperniato in definitiva sull'autorità competente a sindacare il contrasto tra regolamento comunitario e legge nazionale, è stato in parte superato più di recente, allorché il nostro giudice costituzionale ha convenuto che il regolamento comunitario deve comunque essere applicato dal giudice adito, anche procedendo alla

disapplicazione della legge italiana con esso incompatibile. In tal caso la legge italiana sarebbe valida e vigente, ancorché inapplicabile, perché la fattispecie risulterebbe ricadente in un ambito di disciplina riservato al (separato) ordinamento comunitario.

Tali risultati, del tutto soddisfacenti sul versante comunitario, hanno aperto ulteriori problemi di regime degli atti sul versante interno. Parallelamente, infatti, si dovrebbe ritenere che gli atti amministrativi nazionali, contrastanti con la normativa comunitaria, siano validi ed esecutivi, ancorché inapplicabili.

Ma una volta acquisito che il regolamento comunitario vincola non solo il legislatore, ma anche i cittadini, i giudici e le amministrazioni, era davvero difficile continuare a sostenere che le norme poste da detto regolamento non integrino l'ordinamento di tali Stati e, in particolare, l'ordinamento italiano. Tanto più se si considera che la disciplina comunitaria (derivata) è stata sovente utilizzata anche come canone interpretativo della legge italiana: il che presuppone l'appartenenza allo stesso sistema normativo e non ad ordinamenti separati, ancorché coordinati.

In siffatto diverso contesto ricostruttivo devono essere modificate anche le conclusioni in ordine al regime della legge italiana incompatibile con un precedente regolamento comunitario. Tale legge è disapplicabile non già perché valida e vigente, ma appartenente ad un ordinamento separato, ma perché è illegittima, in quanto in violazione di una norma di rango superiore.

Quel che appare poi certo è che la norma regolamentare comunitaria, in quanto integrativa dell'ordinamento italiano, finisce per costituire parametro di legittimità dell'atto amministrativo, sia esso di tipo normativo, sia esso di tipo provvedimentale.

5. Le direttive comunitarie.

Altra fonte normativa prevista dall'art. 249 del Trattato CE è costituita dalle direttive. Le direttive interessano in modo particolare il diritto amministrativo. Anzitutto perché è ormai imponente il numero di esse che disciplina settori tipici d'azione amministrativa. In secondo luogo, perché l'Amministrazione pubblica è in taluni casi chiamata a dare attuazione alle direttive e in altri casi è tenuta a darvi esecuzione, come se si trattasse di veri e propri regolamenti.

A quest'ultimo proposito occorre tener presente che la direttiva “vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere; salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”. Così si tratta di atto normativo comunitario che necessita di “attuazione” all'interno del singolo Stato membro, attraverso ulteriori atti normativi, di tipo legislativo o regolamentare, ovvero attraverso atti amministrativi generali.

La direttiva non esplica in linea di principio effetti diretti e in ciò si differenzia precipuamente dal regolamento comunitario. La giurisprudenza della Corte di giustizia, cui ha aderito la nostra Corte costituzionale, ha infatti da tempo elaborato la categoria delle direttive immediatamente applicabili. Il che si verifica quando una singola direttiva – non ancora attuata, ma per la quale è decorso il tempo assegnato per darvi attuazione – contenga “precetti compiuti e non condizionati”. Comunque anche nel caso gli effetti diretti sarebbero limitati alle autorità dello Stato membro cui la direttiva punto (effetti verticali) e non ai cittadini (effetti orizzontali).

Valgono, in conclusione, per le direttive immediatamente applicabili le stesse considerazioni svolte a proposito dei regolamenti comunitari e la costruzione già proposta.

6. Le altre fonti normative comunitarie (in particolare: accordi, giurisprudenza della Corte di Giustizia e casi di soft law).

I regolamenti e le direttive non esauriscono le fonti normative comunitarie. Altra fonte normativa, che negli ultimi tempi ha assunto sempre maggior importanza, è costituita dagli accordi e dalle convenzioni internazionali stipulate dalla Comunità con paesi terzi e che, esplicano, nei confronti degli Stati membri gli effetti tipici della normativa comunitaria.

Spettando alla Corte di giustizia interpretare ed assicurare l'applicazione in modo uniforme del diritto comunitario presso tutti gli Stati membri, si è dedotto che qualsiasi sentenza che precisa formalmente il significato di una norma comunitaria, con l'efficacia erga omnes che è tipica di tali tipi di sentenze, assume anche carattere integrativo del diritto comunitario stesso, in quanto ne determina in definitiva l'ampiezza e il contenuto.

A tal proposito è stato rilevato che il diritto comunitario finisce col presentare caratteristiche proprie di common law. Ma, indipendentemente da questo, ciò che rileva sottolineare è il ruolo svolto dalla Corte di giustizia nel processo di integrazione tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali. Essa, infatti, quale interprete qualificata del diritto comunitario, ne ha elaborato i principi generali, contribuendo in modo assai significativo all'armonizzazione dei sistemi amministrativi dei vari Stati membri.

Tra tali principi, che interessano in particolare la nostra materia, val la pena di menzionarne almeno tre:

● il principio c.d. dell'estoppel, secondo il quale “lo Stato membri che non abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti di attuazione imposti dalla direttiva, non può opporre ai singoli l'inadempimento da parte sua degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa;

● il principio del legittimo affidamento, che appresta tutela alla posizione di chi confida nella stabilità della situazione creata da atto normativo o amministrativo, ovvero nelle aspettative ingenerate dai comportamenti dell'Amministrazione; si tratta di principio da tempo presente anche nel nostro diritto amministrativo e che ha trovato la sua applicazione soprattutto a proposito dei limiti di revoca o all'annullamento degli atti amministrativi;

● il principio di proporzionalità che “esige che ogni provvedimento adottato sia al tempo stesso necessario ed adeguato rispetto agli scopi perseguiti. Uno Stato membro nella scelta dei provvedimenti da adottare, deve ricorrere a quelli che comportino le minori turbative per l'esercizio di un'attività economica;

Vi sono poi tutta una serie di atti atipici (libri verdi, codici di condotta, note della Commissione) che costituiscono quell'incerta galassia definita soft law, data che non risulta accreditata di efficacia giuridica vincolante.

7. Stato e Regione nella fase “ascendente” della normativa comunitaria.

Poiché, come si è esposto, il potere normativo è ancora prevalentemente di competenza del Consiglio dei Ministri, notevole rilievo riveste la questione della determinazione della posizione che il singolo ministro dovrà di volta in volta far valere in quella sede. Ed è per tale ragione che vari Stati membri si sono da tempo avvalsi di procedure interne volte a stabilire tale posizione (fase ascendente della normativa comunitaria), con il coinvolgimento dei rispettivi Parlamenti.

In Italia la scelta della posizione da far valere in sede comunitaria è risultata per lungo tempo appannaggio del potere esecutivo e delle relative delegazioni. Con la legge 183/87 si stabilisce che “i progetti dei regolamenti, delle raccomandazioni e delle direttive” dovevano essere comunicati dal Governo al Parlamento e alle Regioni. A fronte di ciò questi potevano fornire un contributo consultivo.

Un cambiamento significativo è intervenuto quando, con la 128/98, nel confermare l'obbligo di informazione, si è previsto che le commissioni parlamentari possano formulare “osservazioni” e adottare “ogni opportuno atto di indirizzo al Governo”.

8. Stato e Regioni nella fase “discendente” della normativa comunitaria.

Ben più sperimentata, oltre che meglio precisata, risulta da tempo la disciplina della fase “discendente” della normativa comunitaria. La chiave di volta dell'intero sistema è rappresentato dalla “legge comunitaria” (istituita dalla l.86/89) che viene emanata annualmente dal Parlamento, su un disegno di legge governativo recante “Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee”.

Si tratta di un modulo procedurale che pone saldamento il Parlamento al centro dell'intera fase discendente e che dovrebbe evitare il sistematico ricorso a decreti legislativi.

Per quel che concerne i rapporti Stato-Regioni, occorre innanzitutto sottolineare che non è mai stata posta in discussione la competenza di queste ultime in ordine all'attuazione delle direttive comunitarie nelle materie di loro pertinenza. Sicché le Regioni sono destinatarie delle preventive comunicazioni governative, di tipo informativo, sulle direttive comunitarie di nuova emissione. Il ruolo delle Regioni nella fase “discendente” è ora espressamente consacrato dal nuovo 117 della Costituzione: “nelle materie di loro competenza ... provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempimento”.

9. L'impatto del diritto comunitario sul diritto amministrativo nazionale.

Per dare un'idea della notevole influenza che il diritto comunitario ha finora esercitato sul nostro diritto amministrativo, val la pena di indicare in via esemplificativa talune delle principali innovazioni prodotte.

Per quanto concerne l'organizzazione amministrativa, particolare rilievo riveste la figura “dell'organismo di diritto pubblico”, introdotto ex novo dalla normativa comunitaria degli appalti pubblici, che ne fornisce pure adeguata definizione. Si tratta di figura organizzatoria distinta da quella di impresa pubblica e che contribuisce alla costruzione

e alla individuazione della categoria dell'ente pubblico, di cui il nostro legislatore non si è mai curato di fornire la relativa nozione.

Anche sul piano del procedimento amministrativo sono state introdotte rilevanti novità. Tra le quali spiccano i provvedimenti di coamministrazione, che vedono congiuntamente per protagoniste amministrazioni comunitarie e nazionali. Pure la tematica delle responsabilità della Pubblica Amministrazione ha subito notevoli e decise innovazioni. L'influenza del diritto comunitaria non è, pure, mancata nel settore della giustizia amministrativa con la tutela cautelare delle posizioni comunitariamente protette.

Capitolo 9 I modelli organizzativi

SEZIONE I Riferimenti di base.

1. La struttura organizzativa.

Finora abbiamo affrontato i problemi della soggettività delle strutture organizzative e dell'imputazione ad esse di atti ed effetti giuridici; problemi connessi con l'incapacità di agire delle figure soggettivamente diverse dalle persone fisiche; ed abbiamo lumeggiato la figura dell'organo, che costituisce lo strumento giuridico utilizzato per le imputazioni.

Occorre ora affrontare lo studio dell'organizzazione in quanto tale, cioè delle strutture organizzative che costituiscono il necessario supporto per lo svolgimento di attività complesse, come sono quelle che sono demandate alle Amministrazioni pubbliche.

Il tema dell'organizzazione riguarda non solo l'Amministrazione pubblica, ma riguarda ogni figura operativa non elementare, e per il cui funzionamento occorre coordinare il lavoro di più persone. Il problema organizzativo attiene alla divisione e al coordinamento (alla razionalizzazione) del lavoro di più persone fisiche, cioè alla distribuzione di compiti differenziati su una pluralità di centri di lavoro, per il funzionamento nel modo migliore della figura operativa complessa, ossia per consentire a quest'ultima di raggiungere gli scopi che le sono propri.

In tema di organizzazione amministrativa, le figure operative sono sempre figure giuridiche soggettive. Riferendo per semplicità l'esposizione ad una (qualsiasi) persona giuridica, si può dire che essa necessita di una struttura organizzativa già per il solo fatto di non avere propria capacità lavorativa: deve ricorrere alle attività di persone fisiche anche per esistere e continuare ad esistere come soggetto giuridico. Inoltre essa abbisogna di persone fisiche per lo svolgimento delle attività che le consentano di raggiungere gli scopi che le sono propri.

Le persone giuridiche pubbliche, e le strutture organizzative che ad esse fanno capo, sono di norma finalizzate al compimento di attività giuridica, cioè alla produzione di atti giuridici e non di beni materiali o di servizi. Esse ai qualificano per questa caratteristica come organizzazioni burocratiche: nell'ambito delle quali le attività lavorative fondamentali sono quelle di assunzione dell'iniziativa, di acquisizione dei dati di conoscenza, di decisione e di esternazione degli atti giuridici.

L'esercizio della funzione non è propriamente lo scopo della persona giuridica pubblica, ma, nella catena mazzi-fini, è il mezzo prossimo per il raggiungimento del fine, che rimane la cura degli interessi pubblici ad essa attribuiti.

2. La nozione di ufficio.

Qualunque struttura organizzativa, che sia razionale, risponde ad un disegno organizzativo e si articola in centri di lavoro; che ne costituiscono le unità strutturali elementari. Tali centri vengono denominati uffici; i quali pertanto sono le unità elementari o di base di qualsiasi struttura organizzativa.

Si deve ribadire che la nozione di ufficio verte interamente sul piano organizzativo e risulta estranea al tema delle imputazioni. Nella presente sede occorre soffermarsi sulla definizione dell'ufficio, da una parte distinguendola dalla sua accezione generale ed atecnica e dall'altra rifiutando quelle raffigurazioni che risentono del suo originario collegamento con la teoria dell'organo.

Riconoscendo con maggiore chiarezza la sostanza organizzativa dell'ufficio, la dottrina, non ritenendo adeguata la definizione in termini di mera competenza, né quella imperniata sulla connessione tra competenza e ufficio, ha rivolto l'attenzione verso le persone fisiche che in concreto operano nell'ufficio; ed è giunta a concretizzare la nozione di ufficio raccogliendo in essa, oltre le persone fisiche, anche i mezzi materiali, utilizzando in tal modo una nozione di mera scienza dell'Amministrazione.

3. Disegno organizzativo ed ufficio.

Rammentando che l'ufficio è l'unità organizzativa elementare, parte semplice di una struttura complessa, si può facilmente comprendere che la sua configurazione, ossia le sue dimensioni, il suo ruolo e la sua collocazione nell'ambito della struttura complessiva, dipendono dal disegno organizzativo di quest'ultima. Il disegno organizzativo di una qualsiasi struttura operativa non è soltanto la somma degli uffici, ma è il sistema degli uffici: che comprende non solo il numero e la rete delle relazioni tra gli uffici. L'alienità degli interessi curati rende doverosa l'attività dell'Amministrazione; per cui l'attività stessa si qualifica giuridicamente come funzione.

Ai fini del disegno organizzativo, sono rilevanti altri due dati: l'Amministrazione è normalmente titolare di poteri, e la sua attività si svolge, per disposizioni di legge, secondo il modello giuridicamente separate le fasi dell'iniziativa, dell'istruzione, della decisione e dell'esecuzione.

L'elaborazione del disegno organizzativo di un'Amministrazione pubblica deve tener conto di questi suoi dati caratteristici, e costituisce di per sé un problema di scienza dell'Amministrazione. Commisurare la dimensione e il ruolo di ciascun ufficio, determinare il numero degli uffici e stabilire le relazioni organizzative tra gli uffici non è di per sé un problema giuridico; lo diventa in quanto tale disegno debba essere fissato con norme giuridiche e nei limiti in cui la disciplina è necessaria.

Nel disegno organizzativo interno dell'ufficio, che normalmente ricomprende soggetti con mansioni diversificate si distingue la posizione del titolare dell'ufficio da quella degli altri addetti all'ufficio: il titolare è la persona fisica che dirige il lavoro e ne è responsabile; rappresenta l'ufficio nei confronti degli altri uffici. Gli addetti sono persone fisiche che svolgono il lavoro. Tra il titolare e gli addetti esiste una relazione organizzativa dal contenuto molto intenso, in forza della quale il titolare assegna compiti specifici, valuta e stimola gli addetti. Tale relazione è la gerarchi propria e non è oggetto di una disciplina compiuta e rigida e può adattarsi alle esigenze.

4. Dovere d'ufficio. Rapporto d'ufficio.

Nell'elaborazione della nozione giuridica di ufficio ha sempre avuto un posto di rilievo un'idea di dovere; e non può dubitarsi che l'attività degli addetti all'ufficio sia, dal punto di vista giuridico, dovuta. All'ufficio, concepito come “servizio personale”, inerisce una “immanente necessità giuridica di agire”: solo con una situazione giuridica di dovere “può giuridicamente assicurarsi l'effettività e la continuità di quel servizio della persona fisica”.

A fronte dell'obbligo sta il diritto della persona giuridica; per cui esso costituisce il lato passivo del rapporto corrente tra persona giuridica e persona fisica addetta ad un ufficio; rapporto correntemente denominato rapporto d'ufficio.

5. I titolari e gli addetti agli uffici. Il rapporto di servizio.

Essendo l'ufficio un servizio di persone, si comprende facilmente che esso altro non sia che il lavoro coordinato di più persone, assegnate all'ufficio: gli addetti; tra i quali si distingue per la sua posizione prominente il titolare dell'ufficio.

Non è esatto ritenere che l'ufficio sia composto, oltre che di persone (meglio di servizi di persone), anche di beni strumentali; è più esatto ritenere che l'ufficio sia dotato di tali mezzi. Gli addetti sono legati all'ufficio da un rapporto organizzativo che, come si è visto, viene denominato rapporto d'ufficio. Tale rapporto non riguarda soltanto i titolari degli uffici, anche se relativamente a questi assume contenuti pregnanti; esso nasce con l'incardinamento nell'ufficio, si modifica secondo il modificarsi della posizione dell'addetto nell'ufficio, e si estingue con l'allontanamento dell'addetto dall'ufficio.

Il rapporto d'ufficio attiene alla posizione che il singolo addetto acquisita nell'ambito dell'ufficio; e tale rapporto fanno capo sia il dovere d'ufficio sia le situazione soggettive che vengono attribuite al singolo addetto per svolgere le attività dell'ufficio.

Nel rapporto d'ufficio del titolare (ed in quello degli addetti) si innesta anche la qualità di organo (della persona giuridica): se l'ufficio, sotto il profilo delle imputazioni giuridiche, è da considerare organo, il titolare dell'ufficio è, per ciò stesso, titolare dell'organo. I rapporto d'ufficio qualifica la persona fisica come titolare dell'organo.

Sul rapporto d'ufficio si radica anche la responsabilità degli addetti nei confronti della persona giuridica: c.d. responsabilità amministrativa, demandata alla giurisdizione della Corte dei conti. Nella esperienza delle moderne Amministrazioni pubbliche gli addetti agli uffici svolgono il loro lavoro a titolo professionale, nell'ambito di un rapporto di lavoro con la singola persona giuridica. Tradizionalmente si intende come professionale il servizio reso in modo continuativo, permanente ed esclusivo; ed al quale fa riscontro una retribuzione. Si può dire che gli alleati all'ufficio sono di norma impiegati della persona giuridica alla cui organizzazione appartengono.

Per i titolari, invece, non professionali di uffici, detti anche titolari onorari, non è predicabile, secondo l'opinione più convincente, il rapporto di servizio. I titolari onorari possono formalmente essere investiti nell'ufficio per atto di nomina o per elezione. Nella sostanza l'investitura può derivare da una scelta basata sulla fiducia, ovvero da designazione di categorie di interessati o da procedimento elettorale.

6. Il responsabile del procedimento.

Con la legge sul procedimento è stata introdotta nel nostro ordinamento la figura del responsabile del procedimento, o, più esattamente “dell'unità organizzativa responsabile della istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell'adozione del provvedimento finale”. Il responsabile del procedimento risponde ad esigenze di funzionalità e trasparenza dell'azione amministrativa, ma ha rilievo organizzativo, in quanto modifica, arricchendolo, il ruolo della persona o dell'ufficio individuato come responsabile in relazione a ciascun provvedimento.

Il ruolo del responsabile del procedimento si riferisce al singolo procedimentale e non all'insieme dei procedimenti dello stesso tipo e consiste nella valutazione dei presupposti, nell'accertamento dei fatti, nello svolgimento dell'istruttoria, nelle attività di informazione e nell'adozione del provvedimento finale.

7. Il funzionario di fatto.

Mentre il responsabile del procedimento è una figura introdotta solo recentemente nell'ordinamento positivo, il funzionario di fatto è figura assai risalente, in quanto serve a risolvere un problema che si è sempre posto, quello derivante dalla eventuale illegittimità dell'atto di investitura dell'ufficio. Se si applicassero rigorosamente le regole sull'invalidità e sulla mancanza dell'atto di investitura si avrebbe che tutti gli atti posti in essere dal titolare di un ufficio dovrebbero considerarsi a loro volta invalidi; con gravissime conseguenze per i cittadini, che in genere non sono in grado di conoscere gli atti di investitura negli uffici, e quindi non sono in grado di conoscerne eventuali vizi.

Nel tempo si è andata formando la regola, non scritta ma sicuramente vigente, secondo cui gli atti posti in essere dal titolare dell'ufficio, il cui atto di investitura sia illegittimo o addirittura manchi, sono atti validi. Con maggiore precisione, sono validi tutti gli atti posti in essere fino al momento in cui l'atto di investitura non venga annullato.

Se manca o è invalido l'atto di investitura si applica puramente e semplicemente, come in ogni altro caso, la regola del funzionario di fatto. Se viceversa mancano o sono invalidi gli atti di formazione del collegio le conseguenze sono diverse a seconda che il collegio sia perfetto o imperfetto. Se imperfetto dipende dal ruolo avuto nella votazione dal membro/membri privi di regolare investitura.

La mancanza di una norma scritta pone il problema del fondamento della regola del funzionario di fatto. Due tesi: la prima individua il fondamento nell'esigenza di tutela dei cittadini che in buona fede si rivolgono alle Amministrazioni pubbliche. La seconda troverebbe il suo fondamento nell'esigenza di continuità nell'esercizio delle funzioni amministrative.

SEZIONE II: Le strutture organizzative.

1. La piramide gerarchica.

Si è già detto che le Amministrazioni pubbliche sono organizzazioni complesse; si deve aggiungere ora che in ogni organizzazione complessa le unità organizzative (uffici) si aggregano secondo linee di sviluppo verticali e orizzontali, in modo che finiscono per

apparire morfologicamente come piramidi, ai diversi livelli delle quali si situano gli uffici secondo un criterio genericamente denominato gerarchico.

E' bene sottolineare che, nell'ambito di una qualsiasi struttura organizzata, nella quale operino una pluralità di uffici allo scopo di raggiungere un obiettivo comune, è ineliminabile il fenomeno dell'autorità. Tutte le attività che nell'organizzazione si svolgono ai diversi livelli della scala sono necessariamente incardinate in un sistema di vincoli, intesi ad evitare che l'attività posta in essere da alcuni uffici si riveli inidonea a perseguire il fine o i fini dell'organizzazione oppure si ponga in contrasto con le attività svolte da altri uffici.

Ed è ancora mediante il sistema dei vincoli che al profilo dell'autorità può essere ricollegato il profilo della responsabilità. Se le scelte compiute dagli uffici, ai quali competono in vista della realizzazione dei fini dell'organizzazione, non trovassero la possibilità di essere attuate attraverso l'azione di altri uffici, anche mediante scelte subordinate ma in misura maggiore o minore sempre vincolate, non si potrebbe parlare di responsabilità di coloro che operano le scelte generali o di grado superiore.

A seconda del rilievo che, nella struttura organizzativa hanno il criterio aggregativo gerarchico (di line) o il criterio aggregativo funzionale (di staff), le strutture stesse possono essere di tipo gerarchico (line), di tipo funzionale (staff) o misto.

2. I criteri di organizzazione.

Prima di esaminare la tipologia morfologia delle Amministrazioni è opportuno soffermarsi sui criteri cui devono ispirarsi le strutture organizzative, richiamando il principio generale per cui tali strutture sono disciplinate e realizzate con atti formali (leggi, regolamenti, atti organizzativi).

Quanto alle fonti regolamentari si può aggiungere che i regolamenti che riguardano l'organizzazione ed il funzionamento delle Amministrazioni pubbliche sono emanati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato. Questa disposizione ha carattere generale e residuale. Agli enti pubblici viene riconosciuta una più o meno ampia autonomia organizzativa, che essi esercitano mediante statuti e regolamenti.

Gli atti organizzativi con i quali le strutture vengono concretamente gestite, sono adottati dalle singole Amministrazioni interessate, con alcune limitazioni relative soprattutto alle piante organiche, che determinano il numero e la consistenza degli uffici, e che pertanto incidono sui flussi della spesa.

Al fine di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa, ciascuna Amministrazione deve essere fornita di appositi uffici per l'informazione ai cittadini e per le relazioni con il pubblico. L'orario di apertura per gli uffici deve tener conto delle esigenze dell'utenza.

3. La distribuzione del lavoro.

Tenendo conto di quanto è stato esposto sui modi di aggregazione degli uffici nella piramide gerarchica, si può dire che la prima e più rilevante variabile dei modelli organizzativi delle Amministrazioni pubbliche attiene al criterio secondo il quale vengono distribuiti i compiti tra gli uffici di vertice (centrali) e di base (periferici). Se i

compiti di maggior rilievo vengono attribuiti agli uffici centrali la struttura organizzativa è una struttura accentrata; viceversa la struttura viene considerata decentrata.

In definitiva si ha che, guardata dal punto di vista funzionale, l'organizzazione amministrativa complessiva si presenta come un articolato quadro di settori di intervento, in ciascuno dei quali sono chiamate ad operare più Amministrazioni. Si ha in tal modo che ogni settore di intervento delimiti funzionalmente l'attività di più Amministrazioni: le quali, prese nel loro insieme, con riferimento al singolo settore di intervento si configurano come ramo di Amministrazione o, secondo diverse terminologia, come branca amministrativa.

La branca intesa come aggregato organizzativo funzionalmente unificato prescinde dalla separatezza organizzativa delle singole Amministrazioni. E' alla branca amministrativa nel suo insieme che vengono attribuite le funzioni, ed è nell'ambito della branca che vengono distribuite le competenze. Si deve sottolineare che la branca amministrativa implica, ed anzi esclude, una struttura organizzativa unificata, e può implicare, di per sé, per la sua unitarietà funzionale, particolari relazioni organizzative tra le amministrazioni che vi fanno capo.

4. Organizzazioni accentrate e decentrate.

In una organizzazione decentrata le decisioni, e le relatività responsabilità, che riguardano le attività attraverso le quali l'organizzazione stessa raggiunge i suoi scopi, sono demandate agli uffici periferici, ossia, in modo più chiaro, agli uffici che sono collocati verso la base della piramide gerarchica, anziché agli uffici che si collocano al vertice della piramide stessa. Si deve sottolineare che il decentramento, per le organizzazioni amministrative, è effettivo soltanto quando gli uffici periferici vengono demandate attività decisionali e non meramente esecutive.

Il decentramento organizzativo comporta normalmente anche il decentramento geografico o topografico dato che gli uffici di livello inferiore, nelle organizzazioni che operano su vaste aree, sono fisicamente collocati in luoghi diversi.

5. Organizzazioni compatte e disaggregate.

Un'amministrazione può avere una struttura organizzativa unitaria raccolta intorno agli uffici di vertice, oppure può avere una struttura organizzativa articolata, ovvero ancora può avere più strutture, tra loro più o meno intensamente collegate. Nei primi due casi l'organizzazione è compatta, anche se variamente articolata; nell'ultimo caso si dice disaggregata.

La compattezza o la disaggregazione del disegno organizzativo dipende da ragioni storiche, ed ancor più da ragioni tecniche e giuridiche.

Una particolare tesi dottrinale ritiene che, per avere strutture compatte in senso pregnante, occorre che gli uffici di apparato agiscano quali meri esecutori o ausiliari degli uffici centrali; i quali, pertanto, sono gli unici ad assumere gli atti di indirizzo dell'attività dell'ente, i provvedimenti di attuazione dell'indirizzo stabilito e così via. L'esempio che viene fatto è quello degli enti pubblici territoriali minori.

Si deve convenire sulle condizioni che sono necessarie perché la struttura organizzativa possa presentarsi compatta: la limitatezza delle funzioni della persona giuridica e le ridotte dimensioni della sua struttura.

Si parla di organizzazione disaggregata con riferimento allo Stato, che ne rappresenta l'esempio principale. Lo Stato, che secondo tradizione è costruito come persona giuridica unitaria, non si presenta sul piano organizzativo come una struttura altrettanto unitaria, ma come un aggregato di più strutture organizzative, ciascuna delle quali è in grado di perseguire le proprie finalità, esprimendo una propria attività.

Vi è chi parla, relativamente allo Stato, di “pluralismo dell'organizzazione statale”, con riferimento alla “pluralità di organizzazioni, tenuta insieme dal tenue legame della personalità giuridica unitaria, e ancora più da una serie di strutture organizzative orizzontali”. Il tratto unificante delle strutture disaggregate non è soltanto quello formale derivante della unità della persona giuridica; ad esso si accompagna un tratto propriamente organizzativo, rappresentato da strutture organizzative c.d. orizzontali che legano tra loro singole Amministrazioni ovvero costituiscono uffici di staff unitari per le Amministrazioni stesse.

SEZIONE III: Le strutture compiute.

1. Nozione di struttura compiuta.

Si è appena visto che le organizzazioni disaggregate sono caratterizzate dalla presenza di strutture che si affiancano ad altre strutture organizzative in modo tale che non rimangono assorbite all'interno di una sola organizzazione complessa, rispondente nel suo insieme allo schema della piramide gerarchica. E' possibile individuare gli elementi che condizionano la riconoscibilità di queste strutture e la loro compiutezza organizzativa.

La prima condizione è che esse si presentino strutturalmente separate rispetto alle altre strutture facenti capo all'organizzazione complessa della quale costituiscono articolazioni organizzative. Questa separatezza delle strutture è coessenziale alle organizzazioni disaggregate, ma è riscontrabile anche in quelle compatte; nelle quali possono darsi strutture che si affiancano alla struttura compatta.

La seconda condizione che consente di definire compiuta una struttura organizzativa è che essa sia idonea ad operare in quanto tale: abbia cioè propri organi, svolga propria attività, sia titolare di proprie finalità. Ciascuna Amministrazione, che sia una struttura compiuta, è in grado di porre in essere atti giuridici rilevanti, non già sul piano dell'attività interna, bensì dell'ordinamento generale.

In altri termini il concreto operare di queste strutture non fa capo agli organi centrali dell'organizzazione complessa, eretta in persona giuridica, con imputazione a quest'ultima in modo diretto ed immediato degli atti e degli effetti, ma fa capo ad organi propri della struttura compiuta, i quali sono diversi, nelle organizzazioni compatte, da quelli della struttura principale, e, nelle organizzazioni disaggregate, da quelli delle altre strutture compiute, nelle quali l'organizzazione complessiva si articola.

Va rilevato che le strutture compiute perseguono finalità proprie, e in questa prospettiva sono titolari di situazioni soggettive proprie. Queste finalità pubbliche possono essere collegate ad altre proprie delle Amministrazioni di riferimento, ma possono anche essere assolutamente esclusive, come accade per esempio per le Amministrazioni indipendenti, le quali sono istituite proprio in vista di obiettivi di regolazione e di garanzia in determinati settori di particolare rilievo generale. In vista di queste esigenze la legge

garantisce alle Amministrazioni indipendenti l'assenza di ogni forma di soggezione ai poteri di indirizzo da parte del Governo.

Da sottolineare, in negativo, come il profilo della personalità giuridica non concorre alla individuazione della nozione di struttura compiuta; la quale prescinde, sia sul piano operativo che su quello organizzativo, da tale profilo. Viceversa si può affermare che le strutture compiute sono necessariamente figure soggettive: l'attribuzione ad esse della personalità giuridica non implica nessuna modifica o arricchimento del loro assetto organizzativo o della loro capacità operativa.

La figura organizzativa della struttura compiuta rivela la sua utilità nell'ipotesi in cui sussista un'organizzazione complessa, articolata in più strutture parallele, ciascuna in grado di operare; nelle ipotesi ossia in cui più strutture compiute sono collegate fra loro con nessi organizzativi e concorrono alla costruzione di una più ampia ed articolata struttura organizzativa.

Pertanto il problema vero è di stabilire quando, in presenza di più strutture compiute, aventi o meno personalità giuridica, si possa ritenerle articolazioni di una sola organizzazione complessa. Ciò è possibile quando tra le strutture compiute sussistano sufficienti nessi organizzativi unificanti, come avviene per le Amministrazioni dello Stato.

2. Le Amministrazioni autonome.

Il primo e più semplice esempio di Amministrazione autonoma è fornito da quelle strutture organizzative che svolgono attività produttiva (commerciale) nell'ambito di organizzazioni complesse di tipo burocratico. Per il tipo di attività, e quindi per il tipo di regole organizzative, queste Amministrazioni devono strutturarsi e devono operare in modo differente rispetto alle strutture burocratiche con le quali comunque restano strettamente collegate.

Con l'espressione Amministrazioni autonome si indicano, pertanto, quelle strutture organizzative che, pur appartenendo all'organizzazione complessiva dello Stato o di altro ente pubblico, possiedono caratteri che conferiscono loro un certo grado di compiutezza e separatezza, che si riverbera in soggettività.

Esse, pur restando strutture della persona giuridica alla quale attengono, si elevano a soggetti di diritto: sono strutture compiute, le quali vengono qualificate autonome rispetto ad una struttura organizzativa di riferimento. Le amministrazioni autonome sono state variamente definite: per le aziende autonome dello Stato si è parlato di “unità organiche” dei ministeri, di “organi statali paritcolari”, di “soggetti non personificati”. Tutte queste locuzioni esprimono un concetto unitario, ossia che le Amministrazioni autonome sono figure soggettive a sé stanti, pur non avendo, talvolta, personalità propria e rimanendo assorbite nell'organizzazione complessiva dell'ente di riferimento.

Il modello organizzativo dell'Amministrazione autonoma si ricava per sintesi dagli schemi organizzativi delle aziende autonome dello Stato e da quelli delle aziende municipalizzate degli enti locali. Tali amministrazioni hanno propri organi, anche se i loro titolari possono coincidere con i titolari degli organi della struttura di riferimento. Hanno un proprio bilancio, che viene allegato al bilancio della struttura di riferimento, la quale risponde delle perdite subite dall'Amministrazione autonoma.

Appare opportuno rilevare che la diversa locuzione “azienda autonoma”, impiegata in molti casi dallo stesso legislatore, si raccorda ancor meglio con la particolare natura dell'attività (commericale e industriale) demandata all'Amministrazione autonoma.

Il modello organizzativo tipico delle Amministrazioni autonome, intese come “Amministrazioni dello Stato” specializzate e dotate di disciplina derogatoria sotto i profili organizzativo, contabile e finanziario, è ormai in via d'abbandono. Le azienda municipalizzate sono state trasformate in aziende speciali, enti strumentali, e per le aziende autonome dello Stato in spa.

3. Le Amministrazioni indipendenti: nozione di indipendenza.

Il modello delle Amministrazioni indipendenti è caratterizzato dalla sottrazione delle strutture compiute all'indirizzo politico-amministrativo dello Stato o, con più precisione, del Governo. Il modello delle Amministrazioni (o Autorità) indipendenti è recente e tuttora non ben definito nei suoi caratteri tipici; cosicché non c'è alcuna concordia in dottrina su quali dei numerosi organismi che si accreditano come Amministrazioni indipendenti, lo siano poi effettivamente.

Il punto maggiormente controverso attiene al profilo funzionale: si discute se elemento essenziale del modello sia o meno l'attribuzione e lo svolgimento di attività (amministrative) neutrali, o di regolazione (o direzione o controllo) di settore o ancora di garanzia.

Ai fini dell'individuazione del modello è necessario esaminare in primo luogo il profilo dell'indipendenza. La formula, ormai rituale, utilizzata dal legislatore fa riferimento al modo di operare: tali Amministrazioni “operano in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione”. Con tale formula si intende che le Amministrazioni non sono tenute ad adeguarsi ad alcun indirizzo o direttiva da qualsiasi parte proveniente. In particolare non sono soggette all'indirizzo politico e amministrativo e sono costituite per contrastare l'azione di operatori, sia economici sia politici, dotati di forti poteri d'influenza.

La piena autonomia e indipendenza di giudizio e di valutazione non è sufficiente che siano semplicemente affermate; occorre anche che siano garantite dal trattamento fatto ai titolari degli organi delle Amministrazioni indipendenti. Le misure di sostegno o di garanzia dell'indipendenza degli organi riguardano in genere il modo della nomina, il livello morale e professionale delle persone nominate, la durata fissa della carica, un rigoroso regime di incompatibilità con qualsiasi altra attività lavorativa.

Quanto al sistema di nomina si ricorre all'elezione da parte delle Camere parlamentari ovvero a determinazione adottata d'intesa dai Presidente delle due Camere oppure ancora ad un decreto del Presidente della Repubblica su proposta formulata dai Presidenti delle due Camere.

Quanto ai requisiti per la nomina vengono usate formule diverse: si fa riferimento a “persona di specifica e comprovata competenza ed esperienze e di indiscussa moralità e indipendenza”.

Quanto alla durata della carica si passa dalla previsione più drastica, che stabilisce in modo invariabile il numero degli anni della durata e vieta la riconferma, a previsioni più morbide.

Infine, quanto alle incompatibilità, le persone titolari degli organi delle Amministrazioni indipendenti, per tutta la durata della carica, non possono esercitare alcuna attività

professionale o di consulenza, né essere amministratori o dipendenti di enti pubblici o privati, né ricoprire cariche elettive.

Altra figura e indicata come ipotesi di Amministrazione indipendente è la Banca d'Italia. Senza rammentare il lungo dibattito che si è sviluppato sul tema specifico, è possibile affermare sinteticamente che la Banca d'Italia gode di un'indipendenza di fatto più che di diritto, che si è conquistata con la sua efficienza e autorevolezza.

E' stato infine osservato che l'indipendenza ha due aspetti: da un lato è “separatezza dall'indirizzo politico”; dall'altro “si traduce nel momento dell'esercizio delle funzioni in una capacità di decisione autonoma atta a manifestare un'incidenza consistente sul settore regolato”.

4. Le Amministrazioni indipendenti: precisazioni sul modello.

Un filone dottrinale molto consistente, ed attento alle esperienze straniere di Amministrazioni dotate di forte autonomia rispetto al Governo, ritiene che il modello sia caratterizzato anche sotto il profilo funzionale. Secondo tale indirizzo il modello dovrebbe riferirsi (esclusivamente) alle “autorità alle quali è affidata la regolazione di settori e di materie in cui interessi collettivi o diffusi, anche costituzionalmente garantiti, richiedono una particolare protezione in quanto minacciati dalla presenza e dall'azione di operatori, prevalentemente economici, dotati di forti poteri d'influenza”.

Le amministrazioni indipendenti, così concepite, sarebbero diverse da quelle propriamente amministrative anche sotto un profilo diverso: non curerebbero interessi pubblici specifici e concreti mediante attività discrezionale ma sovraintenderebbero al corretto andamento di settori determinati, regolando e controllando l'attività di privati operatori.

Il carattere neutrale o arbitrale delle funzioni o l'insieme di poteri normativi, esecutivi e decisori non contraddicono, secondo l'opinione dominante, la natura prettamente amministrativa delle Amministrazioni indipendenti: sussistono numerosi esempi di Amministrazioni tipiche, inserite in apparati amministrativi soggetti all'indirizzo politico amministrativo del Governo o degli enti territoriali, che svolgono funzioni di tipo neutrale o arbitrale; è del tutto comune che le Amministrazioni siano dotate di potere normativo e non contrasta con la loro natura che esse possano adottare decisioni amministrative.

Le Amministrazioni indipendenti sono pertanto vere Amministrazioni, ossia organismi amministrativi caratterizzati dal fatto di essere sottratti all'indirizzo politico-amministrativo del Governo. Tale sottrazione ha fatto nascere dubbi sulla compatibilità di tale modello organizzativo con il principio costituzionale di subordinazione dell'Amministrazione all'indirizzo governativo, desumibile dall'art. 95 Cost., con compromissione del correlato principio di responsabilità del Governo davanti al Parlamento. Ma al principio della responsabilità politica non va riconosciuto valore assoluto.

5. Le Amministrazioni dello Stato.

Tenendo conto della personalità attribuita allo Stato nella sua complessiva e variegata struttura organizzativa, si dovrebbe ritenere che esso costituisca un unico soggetto di diritto, una sola persona giuridica: le singole Amministrazioni nelle quali la sua

complessiva struttura organizzativa si articola hanno ciascuna una propria consistenza separata sul piano organizzativo, ma non sul piano della soggettività giuridica. Eppure ciascun Ministero ha organi dotati di rappresentanza legale, che agiscono in nome del Ministero e imputano al Ministero gli atti che compiono.

Si pone il problema di verificare se il Ministero, come tale, pur partecipando della personalità giuridica dello Stato, si costituisca di per sé una figura soggettiva. Si tratta di sapere cioè se, nel caso di Amministrazione disaggregate, le singole Amministrazioni in sé compiute e separate dalle altre, possano acquisire fisionomia di figure soggettive.

Il problema va impostato tenendo conto di termini omogenei: da un lato l'organizzazione complessiva della persona giuridica Stato e, dall'altro, la struttura organizzativa che, nell'ambito dell'organizzazione complessiva, assume una sua compiutezza e separatezza rispetto alle altre strutture organizzative dello Stato; e va affrontato sulla base di ciò che è proprio della soggettività, e cioè sulla base della imputazione di situazioni soggettive, per verificare se l'imputazione si realizzi in capo alla persona giuridica o all'organizzazione compiuta e separata in quanto tale. Va poi osservato che la soggettività di cui si discute deve essere intesa in senso effettivo, ossia come soggettività nell'ordinamento generale, di fronte agli altri soggetti dell'ordinamento, e non come soggettività nei confronti delle altre Amministrazioni dello Stato (c.d. personalità interorganica).

La configurabilità di figure soggettive poste all'interno di una persona giuridica è fenomeno tipicamente limitato all'organizzazione pubblica, e non si riscontra nelle organizzazioni private; le quali risolvono i problemi connessi con l'aumento delle dimensioni strutturali e funzionali, attraverso la creazione di più persone giuridiche tra loro collegate attraverso partecipazioni azionarie.

Risulta evidente che se le organizzazioni dello Stato acquistano fisionomia di figure soggettive è perché il contenuto della personalità giuridica (unitaria) dello Stato è, sul piano giuridico scarsamente significativo. E' d'altronde affermazione sempre più condivisa quella secondo cui “il concetto di persona giuridica non presenta, nel codice civile, un contenuto normativo costante”; fuori dal codice civile ed a proposito dello Stato tale concetto ha un forte contenuto ideologico ed un contenuto giuridico così tenue da giustificare che, nel suo interno, vivano ed operino altri soggetti giuridici.

Quindi, allo Stato viene riconosciuta personalità unitaria per finalità metagiuridiche, senza che sul piano giuridico ne vengano tratte tutte le conseguenze.

La qualificazione come Amministrazione dello Stato comporta l'applicazione di una disciplina peculiare riguardante i profili contabili, finanziari, negoziali, processuali, difesa in giudizio. L'insieme di queste disposizioni dettate per le Amministrazioni dello Stato giustifica l'enucleazione di un modello organizzativo specifico per le Amministrazioni dello Stato.

Tutto questo porta a considerare, da un lato, la relatività e la scarsa precisione delle definizioni concernenti le figure soggettive e le figure organizzative; e dall'altro, riconfermando ancora una volta la profonda diversità tra il profilo della soggettività e quello dell'organizzazione, il ruolo ambiguo e comunque ridotto che, nell'ambito della ricostruzione delle figure organizzative, svolge l'attribuzione o meno della personalità giuridica.

SEZIONE IV: Le relazioni organizzative.

1. Relazioni organizzative e formule organizzative.

Sono stati isolati e descritti nelle pagine precedenti i modelli delle Amministrazioni, intese come strutture organizzative facenti parte dell'organizzazione amministrativa complessiva; e si è visto che le strutture compiute possono avere o non avere personalità giuridica. La strutture compiute, sia che abbiano personalità giuridica, sia che facciano capo ad una più complessa organizzazione (avente quest'ultima personalità giuridica), non operano in modo isolato: esigenze evidenti di razionalità del sistema comportano necessariamente che siano raccordate tra loro, in modo da ricomporre a livello funzionale, quella unitarietà dell'organizzazione complessiva, che non esiste a livello strutturale.

Tra le strutture compiute si pongono serie di rapporti che hanno il ruolo di collegare tra loro le strutture, creando una trama che abbraccia, in molti modi diversi e con gradi di efficacia diversi, l'intera organizzazione amministrativa. Tali rapporti costituiscono le relazioni organizzative, le quali hanno valore e contenuto giuridici. Occorre ricordare a tal proposito che l'organizzazione amministrativa si qualifica come organizzazione formale disciplinata dal diritto. Questo modo di essere dell'organizzazione non riguarda soltanto la morfologia delle strutture, ma anche le relazioni che tra le strutture organizzative si pongono.

Volendo tratteggiare un quadro generale delle relazioni organizzative, si può dire che, dal punto di vista della loro consistenza giuridica, esse sono raggruppabili secondo due tipi, i rapporti di potestà-interesse protetto ed i rapporti potestà-soggezione; mentre dal punto di vista dei rapporti organizzativi, possono raggrupparsi in tre tipi: le relazioni tra uffici della stessa struttura ovvero relazioni interne, relazioni tra strutture diverse che vengono dette relazioni interorganiche se le Amministrazioni interessate non hanno personalità giuridica e relazioni intersoggettive viceversa.

L'insieme delle relazioni esistenti tra le strutture caratterizza la posizione nella quale le urne si collocano rispetto alle altre, ossia la condiziona reciproca e permanente, una sorta di status di ciascuna struttura rispetto ad altre strutture. Tali condizioni reciproche si caratterizzano in conformità alla maggiore o minore intensità delle relazioni organizzative e pertanto alla maggiore o minore dipendenza della struttura sottoordinata rispetto alla struttura sopraordinata.

La dottrina più recente tende a raggruppare la vasta gamma delle relazioni organizzative, esaminate sotto il profilo del loro contenuto essenziale, in due tipi fondamentali: relazioni di equiordinazione e relazioni di sovraordinazione-subordinazione.

2. Gerarchia.

La gerarchia è una delle nozioni che, nel corso del tempo, ha visto mutare profondamente sia il suo ambito di applicazione sia i suoi contenuti. Nel primo modello dell'organizzazione amministrativa complessivamente intesa, ispirato ad un forte accentramento, la gerarchia era pressoché l'unica formula organizzativa positivamente utilizzata. Ad essa si ispiravano sia i rapporti interni alle singole Amministrazioni, sia quelli tra Amministrazioni anche tra quelle dotate di personalità giuridica. Attualmente la gerarchia non attiene più in alcun modo alle relazioni intersoggettive e alle relazioni interstrutturali; essa trova residua applicazione nelle relazioni tra uffici della medesima Amministrazione.

La gerarchia è la formula organizzativa che assomma in sé tutte le potestà di sovraordinazione (indirizzo, direzione, programmazione, controllo), cosicché si può dire che le meno intense e attualmente più utilizzate relazioni organizzative di sovraordinazione non siano altro che l'isolamento di potestà contenute nella formula della gerarchia: così la potestà di indirizzo, quella di direzione e così via.

In linea generale si può dire che, dal punto di vista giuridico, con il termine gerarchia si fa riferimento ad una relazione di sovra-ordinazione tra uffici, in base alla quale all'ufficio sovra-ordinato spettano poteri di ordine nei confronti dell'ufficio subordinato; poteri che consentono di soddisfare quella generale esigenza di coordinamento che è presente in tutte le organizzazioni nel cui ambito si svolgono pluralità di azioni, tutte orientate verso il raggiungimento di quei fini che sono propri dell'organizzazione.

La progressiva attenuazione della intensità del rapporto gerarchico, ha spinto alcuni a parlare di una sua vera e propria crisi, indotta in primo luogo dalla disciplina costituzionale sull'organizzazione amministrativa. Viene in rilievo qui non tanto la complessiva ispirazione pluralista della Costituzione quanto piuttosto l'art. 97 che prevede come “nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari”. L'articolarsi della competenza sugli uffici, con la connessa responsabilità dei titolari di ciascuno di essi, mette in crisi proprio quel presupposto dell'identità o comunanza di competenza tra uffici gerarchicamente ordinati

3. La direzione.

Una relazione organizzativa che si può avere sia tra uffici della medesima struttura organizzativa sia tra strutture e tra persone giuridiche diverse è la relazione di direzione, caratterizzata dal fatto che l'ufficio sovraordinato è dotato del potere di emanare atti con i quali, anziché imporre comportamenti comportamenti, indica gli scopi concreti da perseguire, stabilisce eventualmente l'ordine delle priorità tra gli scopi medesimi, e lascia all'ufficio subordinato la scelta dei modi per raggiungere gli scopi indicati. Tali atti sono denominati direttive.

Si è già visto che, nei rapporti tra uffici della stessa struttura, la gerarchia si stia trasformando in relazione di direzione. Nei rapporti tra strutture compiute, e ancora meglio, nei rapporti tra persone giuridiche, la direzione si presenta nella sua forma pura, priva cioè delle incrostazioni derivanti dalla degenerazione della relazione di gerarchia: non sussistono pertanto, accanto al potere di direzione, poteri di avocazione o di sostituzione, se non nei casi tassativamente stabiliti per legge.

In linea generale, con il termine direzione si intende un rapporto di sovra-ordinazione caratterizzato però, a differenza della gerarchia, dal rispetto di una più o meno ampia sfera di autonoma determinazione dell'ufficio o dell'ente subordinato: al potere d'ordine si sostituisce il potere di impartire direttive, od anche, secondo altra terminologia usata in dottrina, il potere di indirizzo, con cui vengono fissati gli obiettivi da perseguire.

L'ufficio o ente subordinato rimane però libero di determinare i modi e i tempi dell'azione, nonché di disattendere le direttive o gli indirizzi allorquando siano in contrasto con il fine istituzionale suo proprio o anche eventualmente per altre ragione, con l'unico limite di dover motivare tale suo comportamento. In questo schema di relazione anche il potere di controllo si modifica sostanzialmente rispetto al potere, analogamente denominato, che si trova in sede gerarchica, giacché si tratterà non più di un controllo su atti ma di un controllo, di regola a posteriori, sull'intera attività svolta dall'ufficio o ente soggetto alla direzione.

4. Il coordinamento.

Il coordinamento non è di per sé una relazione organizzativa, bensì, come già si è detto, il risultato di poteri inerenti a diversi tipi di rapporti organizzativi. Occorre peraltro avvertire che la dottrina prevalente lo considera alla stregua di un tipico rapporto organizzativo, che, almeno di norma, si pone nell'ambito dei rapporti tra figure soggettive, ove sembra assumere un ruolo sempre più importante. Anzi, con questo termine la dottrina indica un rapporto di equiordinazione che intercorre tra soggetti preposti ad attività che, pur essendo distinte, sono destinate ad essere “ordinate secondo un disegno unitario in vista di risultati di interesse comune”. Esso risponde al fine di assicurare coerenza ed organicità all'attività amministrativa.

Nella legislazione più recente accanto a veri e propri organi di coordinamento, sono stati codificati numerosi meccanismi o forme giuridiche per assicurare un efficace coordinamento: si pensi alle conferenze di servizi o agli accordi di programma.

Contrariamente a quanto generalmente si ritiene, il coordinamento non può essere ritenuto né un potere né un tipo di relazione organizzativa, ma solo il risultato al quale si può pervenire attraverso relazioni sia di sovraordinazione sia di equiordinazione. In tal senso, gli studi più recenti ricostruiscono tale istituto nella prospettiva della funzione amministrativa e del procedimento.

5. Il controllo.

E' nota l'eccessiva elasticità del significato connaturale alla voce “controllo” e sono evidenti le difficoltà di definire questa nozione in chiave giuridica; l'unica costante indiscussa è che i controlli tendono a garantire la regolarità formale e sostanziale del processo di formazione delle decisioni amministrative.

Il controllo è connaturato con il modo stesso di essere della organizzazione amministrativa e si fonda sull'esigenza di verificare la rispondenza dell'attività delle strutture pubbliche alle regole formali ovvero al vincolo funzionale. L'ordinamento pur garantendo di norma ad ogni struttura compiuta il potere di iniziativa in ordine all'attuazione concreta dei suoi fini, si vale dei controlli come appositi mezzi, onde l'azione da essa svolta o i risultati raggiunti siano sottoposti, secondo criteri variabili ma predeterminati, a riscontri e riesami da parte di organi a ciò espressamente deputati.

Capitolo 12 IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

AVVERTENZA

La l. 15/05 innova in maniera considerevole o comunque razionalizza contenuti, effetti e vicende del provvedimento amministrativo (l. 241/90). Le principali innovazioni sono qui riassunte:a) l'eliminazione dell'obbligo della previa diffida all'Amministrazione quale presupposto per la formazione del silenzio-rifiuto. Da segnalare anche la previsione per cui il ricorso avverso il silenzio rifiuto può essere proposto entro un anno dalla scadenza del termine per provvedere;

b) l'introduzione nei procedimenti ad istanza di parte l'obbligo di comunicazione prima della formale adozione del provvedimento negativo i motivi che ostano all'accoglimento della domanda;c) viene eliminato l'obbligo di una espressa previsione legislativa perché si possa dar luogo ad accordi sostitutivi del provvedimento a carattere discrezionale;d) la disciplina della conferenza dei servizi è completamente ridisegnata onde garantire le competenze regionale e degli enti locali;e) del pari la disciplina del diritto di accesso è assoggettata a numerose modifiche che razionalizzazione le acquisizioni giurisprudenziali e coordinano la 241/90 con la 196/03;

SEZIONE I: Introduzione.

1. La procedimentalizzazione come caratteristica tipica dell'attività amministrativa. Definizione di procedimento amministrativo.

Le manifestazioni del potere amministrativo hanno dietro un percorso, più o meno frastagliato e complesso, che può comprendere istanze, accertamenti, ispezioni, pareri, osservazioni nonché interventi di altre Amministrazioni.

La serie di atti e operazioni, tra loro coordinati ed integrati, e rivolta ad uno scopo, che è quello dell'emanazione di un provvedimento, è appunto ciò che si definisce procedimento amministrativo. Il procedimento per quanto debba essere previsto dalla legge, non è in toto determinato dalla legge. Infatti è anche determinato dalla stessa p.A. che, attraverso il potere di autolimitazione della propria discrezionalità, può introdurre ulteriori vincoli procedimentali. Del resto è proprio l'estrema varietà del procedimento che diversifica il procedimento amministrativo da quello giurisdizionale e da quello legislativo, che sono invece caratterizzati da una relativa uniformità.

Per procedimento si definisce dunque la serie concatenata di atti, provenienti da soggetti pubblici e anche soggetti privati e di operazioni, previsti da norme primarie, secondarie e talvolta determinati facoltativamente dalla p.A., preordinati alla produzione di un provvedimento finale, come tale suscettibile di produrre effetti innovativi nell'ordinamento.

2. Alle origini della nozione di procedimento amministrativo. La nozione formale e la nozione garantista del procedimento.

La nozione di procedimento è relativamente recente. Ancora all'inizio del '900, soprattutto sotto l'influenza della dottrina francese, nonché in virtù della acritica trasposizione delle tradizionali teorie privatistiche, nelle quali la formazione della volontà ha rilievo solo in via eccezionale, l'attività amministrativa degna di rilievo giuridico veniva riferita solo a quegli atti che fossero diretti immediatamente all'attuazione esterna della volontà pubblica.

La sistematica giuridica veniva cioè attratta soprattutto dal provvedimento, cui si riferiscono i connotati tipici dello Stato amministrativo: imperatività, esecutorietà, inoppugnabilità. Se si eccettuano sporadici accenni, il primo a rimarcare la concatenazione di atti o fatti legati a un ordine logico è stato Cammeo, nel suo “Corso di

diritto amministrativo” del 1914. L'ottica di Cammeo era quella del sindacato giurisprudenziale: la serie ordinata e logica di atti è necessaria per assicurare validità al processo finale.

Necessitava una ricostruzione in positivo del procedimento, come istituto di teoria generale del diritto amministrativo sostanziale. Il che avvenne con la monografia di Sandulli del 1940 dedicata espressamente a “Il procedimento amministrativo” e nella quale il procedimento viene scomposto in fasi, ed in ognuna di esse vengono individuati gli atti che vi ricorrono, la loro natura, la loro funzione, i loro effetti.

La teoria formale consente una ricostruzione analitica e per fasi del procedimento per qualsiasi indagine anche non formale del procedimento. La dottrina successiva (anche sotto l'influsso delle norme costituzionali) ha visto nella sequenza ordinata di atti e operazioni rivolta o funzionale alla produzione di un provvedimento, la sede per un confronto dialettico degli interessi pubblici e privati coinvolti dal provvedimento stesso, e dunque lo strumento per assicurare l'imparzialità e il buon andamento dell'attività amministrativa.

Quindi proprio la necessità di controllare la discrezionalità per verificare la coerenza tra fatti e provvedimenti, accentua l'esigenza di partecipazione e di istruttoria e dunque la complessità del procedimento.

3. Procedimento e principi generali del diritto amministrativo.

Tale opera di coniugazione tra procedimento-fattispecie e procedimento-garanzia è particolarmente visibile nella giurisprudenza, la quale, muovendo dalla ricostruzione formale del procedimento, l'ha addizionata di tutta una serie di regole volte a garantire l'imparzialità e in genere l'uso della discrezionalità in coerenza con i principi costituzionali.

Come è ben noto, la non codificazione del diritto amministrativo ha legittimato la giurisprudenza ad individuare una summa di regole dell'azione amministrativa, al fine di porre ordine ad una normativa copiosissima e stratificata. Tali regole sono:a) in parte ricavate dai principi del diritto privato;b) in parte estrapolate da disposizioni contenute in leggi di particolare rilievo anche per la vastità del campo di applicazione e/o per l'accuratezza della disciplina (c.d. leggi forti dell'Amministrazione);c) in parte elaborate convergendo in positivo i vari profili dell'eccesso di potere;d) in parte ricavate dai principi costituzionali;e) in parte ricavate dai principi comunitari;

Il procedimento amministrativo è stata una delle aree maggiormente sottoposte all'influenza normogenetica della giurisprudenza: sia perché l'estrema varietà dei procedimenti ha reso necessario individuare un filo unitario che facesse da guida e da collante, sia perché il procedimento costituisce un correttivo della discrezionalità, il che ha imposto l'individuazione di regole applicabili comunque, anche nel caso di silenzio della legge.

I principi così individuati tagliano orizzontalmente tutti i procedimenti e non possono assolutamente essere disattesi pur nel silenzio della legge, anzi proprio per il silenzio della legge.

4. La legislazione austriaca sul procedimento amministrativo: origini, caratteristiche salienti e funzione di “guida” per altre legislazioni.

L'indagine sul procedimento amministrativo non può prescindere da richiami all'esperienza di altri Paesi. Al tempo in cui in Italia il procedimento amministrativo era confinato nel limbo dell'irrilevante giuridico, la giurisprudenza amministrativa austriaca andava elaborando una serie di principi vincolanti l'attività amministrativa, in ciò sospinta dalla legge che affidava al supremo Tribunale amministrativo la funzione di annullare i procedimenti emanati senza seguire le forme essenziali della procedura amministrativa.

Nel 1925 l'Austria venne a dotarsi di un compendio organico di quattro leggi sul procedimento (legge di introduzione, legge generale, legge amministrativa penale, legge sull'esecuzione amministrativa). L'idea di fondo sottesa alla legislazione austriaca è che la funzione statale demandata all'Amministrazione costituisce una concretizzazione della legge e pertanto non v'è una differenza essenziale tra essa e la giurisdizione: al pari della sentenza, il provvedimento pone una norma individuale, anche se si distingue dalla sentenza per maggiore libertà decisionale.

E' importante rilevare che la teoria dell'assimilazione tra giurisdizione e Amministrazione reca con sé la trasposizione nella seconda di garanzie tipiche della prima. Non solo il contradditorio, la formalità, la motivazione, ma anche l'indipendenza e l'imparzialità dell'Amministrazione; e nel contempo sottopone l'Amministrazione quam maxime al controllo della legge.

Il procedimento si incunea nell'interno del potere e ne modifica la struttura autoritaria e unilaterale: così il c.d. formalismo del procedimento austriaco è in realtà, una volta che lo si collochi storicamente, un esempio luminoso di limitazione del potere.

6. Cenni ad altre legislazioni straniere (USA, Germania) sul procedimento.

La legge federale degli Stati Uniti sul procedimento amministrativo è del 1946. Può apparire singolare che in un Paese con cultura giuridica profondamente diversa da quella continentale e con una struttura amministrativa sottoposta a grande flessibilità, si sia ritenuto di regolamentare il processo di formazione delle decisioni amministrative. Le radici dell'APA affondano nel New Deal che portò alla moltiplicazione degli enti federali e all'intervento di amministrazioni in larghi strati dell'attività sociale ed economica.

Il risultato ha punti di contatto con la legislazione austriaca, perché la legge degli USA ha una caratterizzazione di stampo processuale, esplicazione sul versante dell'Amministrazione della clausola del due process of law, sancita dal V e XIV emendamento. A differenza del modello austriaco, formale ed unitario, quello americano è improntato ad empirismo e flessibilità, cui concorre la casistica giurisprudenziale, che sovente provvede ad integrare e rielaborare la legge.

La legge della Repubblica federale tedesca sul procedimento amministrativo del 1976 va invece segnalata per la sua compiutezza e raffinatezza di elaborazione. Tale legge ha dietro di sé un approfondito dibattito, afferente l'opportunità stessa di codificare il procedimento amministrativo, e se da un canto costituisce la canonizzazione di principi elaborati a livello giurisprudenziale e dottrinario, di cui opera una sussunzione sistematica, in ossequio allo Stato di diritto, dall'altro contiene principi innovativi di

grande spessore, come il principio di informalità, il contratto amministrativo, i procedimenti di massa, nonché le regole volte a garantire consulenza e informazione ai privati che entrano in rapporti con l'Amministrazione.

6. Pro e contro la codificazione del procedimento amministrativo: dai progetti di legge

generale alla disciplina per principi giurisprudenziali al progetto della Commissione Nigro.

In Italia, per quanto mancasse una legge generale sul procedimento, non per questo difettava la disciplina del procedimento, facendosi infatti riferimento a quella creata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. E' però indubbio che la regolazione del procedimento per via di massime giurisprudenziali è incompleta e causa di incertezze. Di qui, anche nel nostro paese, i molteplici tentativi per una legge generale.

Per l'influenza dei modelli stranieri e per l'accentuarsi di esigenze di democratizzazione e di semplificazione dei procedimenti, che la legislazione rende sempre più criptici, complessi, interminabili, il Governo ebbe ad istituire una Commissione con il compito di formulare proposte per la revisione della disciplina dei procedimenti amministrativi. Le carenze del procedimento non risolte o non risolvibili in sede giurisprudenziale, su cui ebbe a porre l'accento la Commissione Nigro, erano soprattutto le seguenti:a) l'assenza di regole volte a garantire la partecipazione degli interessati nella formazione del procedimento amministrativo; partecipazione che la giurisprudenza non ritiene abbia un fondamento costituzionale, anche se costituisce un principio dell'ordinamento vincolante il legislatore regionale, perlomeno laddove vi sia una presenza di provvedimenti sacrificativi di posizioni soggettive;b) l'assenza di regole volte a garantire la pubblicità e la comprensibilità del procedimento;c) l'assenza di regole volte a responsabilizzare la guida del procedimento;d) l'assenza dell'obbligo generale di concludere i procedimenti entro un termine prestabilito;e) l'esigenza di razionalizzare e semplificare i procedimenti amministrativi;

Lo schema elaborato dalla Commissione Nigro (1984) si risolveva in una summa di regole generali dell'azione amministrativa. Si giungeva dopo una serie di passaggi all'approvazione della legge 241/90 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti amministrativi”.

7. La legge 241/90: non legge generale sul procedimento amministrativo, ma legge che detta alcuni principi relativi al procedimento.

La 241/90 è una legge sul procedimento, non la legge del procedimento amministrativo, nel senso che non ne stabilisce una disciplina completa ed esaustiva. Questa legge non smentisce la tesi, da tempo prevalente nella nostra dottrina, circa l'inopportunità di codificare e così cristallizzare il procedimento amministrativo, che d'altro canto è già regolato da una rete di principi elaborati a livello giurisprudenziale e in continua evoluzione. Su tale rete si aggiunge ora una serie di principi qualificanti i rapporti tra cittadino a p.A. In ordine allo svolgimento dell'attività amministrativa, tale da costituire un minimo comune denominatore di disciplina dei rapporti in questione.

8. La funzione del procedimento: di mera applicazione della legge (attraverso la verifica dei fatti e la verifica di legittimità), di integrazione della legge (attraverso la

determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento), di acquisizione e selezione degli

interessi, di organizzazione dei fini pubblici.

In primo luogo il procedimento ha una funzione di accertamento della corrispondenza tra il provvedimento in fieri e la normativa.

L'accertamento può concernere una verifica di pura legittimità, cioè di corrispondenza tra un fatto già acquisito e norme, oppure una verifica dei fatti; è sempre però una verifica volta all'osservanza della legalità, perché anche nel caso dell'accertamento fattuale il travisamento dei fatti o il difetto dei presupposti configura il vizio di eccesso di potere, cioè un vizio di legittimità.

L'integrazione della legge, l'organizzazione del procedimento e la sua regolazione sono espressione costituzionale di attuazione del principio di legalità, ma sono anche un'esigenza fisiologica, per assicurare corrispondenza e adeguatezza tra il provvedere e l'oggetto del provvedere.

Alla base dello sviluppo del procedimento sta la crisi del rapporto classico tra legge e atto amministrativo: la crescente incapacità della legge di risolvere in via preventiva, generale e astratta i conflitti di interesse, comporta l'esigenza di trasferire all'Amministrazione il compito di verificare e comporre gli interessi collegati alle situazioni concrete; ma l'Amministrazione perde così la sua funzione di mera esecuzione della legge. Tale perdita di legittimazione porta alla valorizzazione del procedimento con le sue garanzie di istruttoria, di partecipazione, di ricerca di coordinamento.

L'indeterminatezza e indefinibilità dell'interesse pubblico generale, l'immancabile dissociazione tra interesse pubblico astratto e interesse pubblico concreto e la conseguente lesione del principio di legalità, sono controbilanciati dal procedimento, e dalla regola di ragionevolezza che lo impronta, volta a dare una coerenza logica e una proporzionalità alla sequenza accertamento dei fatti, selezione degli interessi e provvedimento finale.

Il procedimento svolge dunque anche una funzione di organizzazione in quanto dà ordine ai fini pubblici. E nel contempo proprio tale organizzazione garantisce efficacia all'azione amministrativa che viene a modellarsi non secondo schemi astratti ma secondo le esigenze concrete. Non solo: la pubblicizzazione del percorso logico che viene seguito, l'obbligo di dar conto delle proprie valutazioni e delle indagini, l'evidenziazione del processo di ponderazione degli interessi riduce l'area del potere amministrativo libero e dunque contribuisce all'imparzialità e perciò alla moralizzazione amministrativa.

SEZIONE II: PRINCIPI DEL PROCEDIMENTO

1. Il principio “assoluto”: la ragionevolezza.

La funzione di ordinatore degli interessi avviene sulla scorta di regole generali, ricavate dalla costituzione, dai principi generale e dalla l. 241/90. I principi di fondo del procedimento vengono estratti dalle norme costituzionali, soprattutto da quelle sul buon andamento e sull'imparzialità: “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'Amministrazione” (art. 97).

In questa sede ci occupiamo solo dei principi estraibili dall'art.97 Cost. e che investono il procedimento. Tra di essi per la sua “trasversalità” e per il suo carattere di principio suscettibile di continua evoluzione, nonché soprattutto per il suo carattere di principio assoluto, ha un rilievo primario il principio di ragionevolezza.

Esso ha i suoi punti di riferimento costituzionali nel principio di eguaglianza, in quello di imparzialità ed in quello del buon andamento. E' una vera e propria clausola generale dell'azione amministrativa.

Non v'è dubbio che l'irragionevolezza costituisce il leit motiv dei sintomi dell'eccesso di potere. Tuttavia la ragionevolezza ha assunto una pregnanza ulteriore, che va oltre il risultato ormai acquisito in epoca precostituzionale di summa di sintomi del vizio di eccesso di potere, per investire nella sua interezza il percorso logico seguito dall'Amministrazione. In particolare gli atti amministrativi generali sono sottoposti ad un giudizio volto a verificare congruenza e congruità del bilanciamento di interessi, che è tanto maggiore quanto più elaborato e complesso è il procedimento.

E le garanzie procedimentali, in virtù del materiale immesso nel procedimento, da un lato aumentano lo spazio del sindacato di ragionevolezza attraverso il controllo della motivazione e della coerenza, e dall'altro consentono l'osservanza del principio di adeguatezza. Sotto questo aspetto la ragionevolezza ingloba anche il principio di aderenza o di adeguatezza alla situazione e ai fini proposti, già affermatosi prima della costituzione e che più recentemente è stato definito principio di elasticità o flessibilità dell'azione amministrativa, con il quale si vuole significare “il miglior proporzionamento, al fine stabilito, dell'attività”; nel senso che il canone di adeguatezza postula una libertà di apprezzamento e di uso dei mezzi.

E d'altro canto la “sottoposizione alla ragione” costituisce ormai una delle più importanti manifestazione del controllo di costituzionalità delle leggi. Si è ritenuto cioè che anche la legge debba rispondere a criteri di coerenza, di non arbitrarietà, di proporzionalità; e tal fine si fa riferimento a canoni come la logica, il senso comune, l'esperienza, la coscienza sociale.

Quanto alle preoccupazioni di soggettivismo, esse nascono dalla più o meno esplicita adesione al positivismo ottocentesco e dall'illusione che il giudice sia solamente la bocca della legge. In realtà non è più così da molto tempo; ed anzi nella società pluralistica, che determina una legislazione contratta e compromissoria, per di più in continua tensione, sotto il premere dell'evoluzione dell'economia, delle scienze, del costume, la valvola della ragionevolezza affidata all'opera continua e sistematica di dottrina e giurisprudenza, costituisce un fattore di certezza.

La ragionevolezza costituisce anche il criterio generale attraverso cui dirimere conflitti ed intersezioni tra i vari principi che germogliano dalle norme costituzionali. In mancanza di una gerarchia di tali principi, il necessario bilanciamento tra gli stessi avviene tramite la ragionevolezza e le sie applicazioni correnti.

2. I principi di economicità; di semplicità; di celerità; di efficacia.

Ulteriori principi caratterizzanti il procedimento sono quelli di economicità, di efficacia, di semplicità e di celerità. Anche questi costituiscono proiezioni dei principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento.

Da precisare che mentre il principio di ragionevolezza è un principio assoluto, non derogabile, tutti gli altri principi che abbiamo enunciato entrano nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti dal procedimento.

L'art. 2 comma 1° della legge sul procedimento amministrativo stabilisce che l'azione amministrativa è retta dal criterio di economicità. Ciò significa che l'Amministrazione deve fare un uso diligente ed accurato delle proprie risorse: ad esempio, non può acquisire un immobile a prezzo di mercato, se ha la possibilità di espropriarlo, erogando così a titolo di indennità espropriativa una somma inferiore.

Il misuratore dell'economicità avviene attraverso il principio di ragionevolezza, che – come rilevato – ha natura assoluta. L'economicità è invece un principio relativo, nel senso che la p.A. È tenuta ad osservare le regole dell'economicità ma sino al limite in cui questo non costituisca ostacolo per il perseguimento dei fini pubblici.

Da avvertire che risvolti del principio di economicità sono riconducibili a quello di semplicità e di celerità, in quanto il procedimento ha indubbiamente un costo per l'Amministrazione. Sicché si possono considerare riconducibili al principio di economicità le norme sulla semplificazione dell'azione amministrativa.

Anche il principio di efficacia proclamato sempre dall'art. 1 della legge sul procedimento amministrativo, ha punti di contatto con il principio di economicità. Il principio di efficacia esprime l'idoneità dell'atto a conseguire i risultati programmati. Inoltre l'efficacia va distinta dall'efficienza, che attiene alla funzionalità della p.A. Soprattutto nel settore dei servizi e che è nozione di scienza dell'Amministrazione che riguarda il rapporto tra risorse impiegate e risultati ottenuti e che ha quindi un significato di tipo organizzatorio, se pur sempre riconducibile al principio costituzionale di buon andamento.

3. Il principio di pubblicità; il principio inquisitorio; il giusto procedimento.

Il principio di pubblicità ha dietro di sé solide basi costituzionali: nel diritto a essere informati, nel diritto di difesa, nel principio di buon andamento. Esso ha numerose applicazioni nella legge sul procedimento amministrativo: nell'obbligo di motivazione, nella partecipazione al procedimento amministrativo, nel diritto di accesso agli atti e documenti amministrativi, nonché in numerose altre disposizioni improntate alla trasparenza.

Il principio inquisitorio esprime la regola per cui l'Amministrazione deve acquisire senza alcuna limitazione i fatti e gli interessi che rilevano ai fini dell'adozione del provvedimento; in conclusione la p.A. Ha l'obbligo di svolgere l'istruttoria e di giungere ad una esatta e completa ricostruzione dei fatti e degli interessi.

4. Principio di doverosità e di immediatezza del procedimento amministrativo. Il divieto di non aggravamento e l'onore di provvedere.

La p.A. non può procrastinare lo svolgimento dei procedimenti amministrativi. Tale regola, svolgimento del principio di buona Amministrazione, era già riconosciuta nell'ordinamento: in particolare la giurisprudenza aveva costruito la figura del silenzio-rifiuto nel caso di inerzia dell'Amministrazione nel provvedere.

Con la legge 241/90 tale principio riceve una precisa codificazione e notevoli svolgimenti. In primo luogo, laddove l'art. 1, comma 2°, stabilisce che la “p.A. non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria”. Quindi il procedimento in linea di principio è solo quello previsto dalla legge: richieste di pareri ad altre Amministrazioni, rinnovazioni di istruttorie, nomine di commissioni di esperti non possono avvenire ad libitum, ma devono trovare fondamento in esigenze indefettibili e ben individuate.

Il principio di non aggravamento significa anche principio di economia e di collaborazione: il che, a sua volta, significa che ove in sede di controllo legislativo, ad esempio, sia stato annullato solo il provvedimento terminale di aggiudicazione di una gara, l'Amministrazione non può abbandonare tutta la procedura già espletata ed ancora utilizzabile e dare avvio ad una procedura integralmente nuova, dovendo appunto utilizzare la procedura già svolta e non incisa dal provvedimento di annullamento.

In secondi luogo l'art. 2 della 241/90 stabilisce l'obbligo dell'Amministrazione di concludere il procedimento con provvedimento espresso. Si deve precisare il campo di applicazione di tale obbligo:a) nell'ipotesi di procedimenti ad iniziativa obbligatoria d'ufficio;b) nelle ipotesi d'iniziativa ad opera di soggetti privati e pubblici doversi da quelli titolari del potere di provvedere, laddove l'iniziativa determini l'obbligo di provvedere, ed è a tal fine utile fare ricorso alla casistica elaborata dalla giurisprudenza con riferimento ai presupposti di formazione del silenzio-rifiuto. La quale ad esempio esclude l'obbligo di provvedere nei confronti di istanze che chiedono atti di ritiro o il riesame di atti inoppugnabili o l'emanazione di provvedimenti quando i richiedenti siano soggetti non titolari di situazioni qualificate.

5. Il principio di tutela dell'affidamento.

Il principio dell'affidamento esprime l'obbligo di correttezza e di buona fede nei rapporti tra la p.A. E il cittadino. Esso affonda le proprie radici sia nel principio di imparzialità, sia nelle norme costituzionali che garantiscono l'iniziativa economica, il diritto di proprietà, il risparmio, il diritto alle previdenze sociali. Questo principio impone un bilanciamento argomentato e logico, tra l'interesse pubblico perseguito dalla p.A. e gli interessi privati coinvolti nel provvedimento; in tale operazione tanto maggiore deve essere la considerazione verso il secondo quanto maggiori sono stati gli affidamenti, ad esempio attraverso il rilascio il permesso di costruzione per un edificio con struttura di supermercato quando poi viene negata l'autorizzazione per aprire l'esercizio commerciale.

L'Amministrazione persegue con i propri provvedimenti l'interesse pubblico affidatole dalla legge che non è mai rinunciabile o disponibile; se però ha ingenerato un affidamento, e esso verrebbe pregiudicato, allora non basta l'interesse pubblico

espresso in astratto dalla legge, occorre dimostrare in concreto la priorità di tale interesse.

6. I principi dell'ordinamento comunitario.

Come è stato evidenziato, il diritto amministrativo italiano è invaso dal diritto comunitario, rappresentato sia dalla normativa sia dai principi generali. I quali sono in gran parte creazione della Corte di giustizia, che, a tal fine, recepisce, sussume e razionalizza i principi generali presenti negli Stati membri.

I principi espressi a livello comunitario sono già presenti nel nostro ordinamento. Tuttavia la prevalenza dell'ordinamento comunitario fa sì che anche le evoluzioni interpretative di tali principi ricadono sul piano dell'ordinamento interno.

7. Rapporti tra i principi generali del procedimento e tra tali principi e la 241/90

I principi generali del procedimento, codificati o no in disposizioni espresse, possono confliggere tra di loro. La composizione dei conflitti è affidata al bilanciamento, secondo il criterio della ragionevolezza. Il procedimento non solo seleziona e contempera gli interessi confliggenti, ma seleziona e contempera eventuali conflitti tra principi (non calati in disposizioni puntuali).

La disciplina di ogni procedimento è dunque regolata dal combinato disposto dalla 241/90, principi generali elaborati dalla giurisprudenza e dottrina, legge specifica di quel procedimento. In caso di disarmonia tra la legge sul procedimento e i principi generali, prevale la prima; se però il principio generale esprime una garanzia maggiore di quella assicurata dalla legge specifica, si applica anche il principio generale.

L'antinomia tra legge sul procedimento e leggi speciali viene risolta in base al principio della lex posterior; e non vale il criterio della specialità, perché la 241/90 è una legge che taglia in orizzontale proprio i procedimenti speciali. Poniamo l'ipotesi di una legge anteriore alla legge sul procedimento che disciplina la conferenza dei servizi: questa è regolata in toto dalla legge sul procedimento; se poi la legge speciale detta altre regole procedimentali che non sono regolate dalla legge sul procedimento, si applica la legge speciale. In altri termini la 241/90 si sovrappone ai procedimenti disposti dalla legislazione speciale. Volta per volta occorre pertanto armonizzare i dettami della legge sul procedimento con quelli della legislazione su cui ricade.

8. Campo di applicazione soggettivo della 241/90.

La 241/90 si applica a tutte le Amministrazioni pubbliche. Si applica anche alle autorità indipendenti per quanto non disposte nella normazione che le istituisce. La legge sul procedimento amministrativo non si applica alle attività amministrative svolte da autorità non amministrative ma questa è una conseguenza del fatto che non sono atti amministrativi.

La 241/90 si applica anche ai soggetti privati ove, per espressa previsione di legge, siano sottoposti a procedure pubblicistiche. Per quanto concerne le Regioni (a statuto ordinario) è stabilito che esse debbono conformarsi ai principi desumibili dalle disposizioni della stessa. Fino a che le Regioni non legiferano in materia, tutte le

disposizioni della legge sul procedimento amministrativo si applicano direttamente. Le Regioni speciali entro un anno dall'entrata in vigore della 241/90 dovevano adeguare i rispettivi ordinamenti alle “norme fondamentali” contenute nella legge medesima.

9. Campo di applicazione oggettivo.

Sotto il profilo dell'ambito oggettivo la 241/90 non incontra eccezioni: tutta l'attività delle amministrazioni vi è soggetta (s'intende quella formale non quella materiale). Talvolta è stato messo in dubbio se la 241/90 investa l'attività contrattuale della p.A., la risposta è sicuramente positiva. Ciò che la 241/90 rileva infatti non è la natura autoritativa o meno del potere, ma l'esercizio di attività amministrative, ed è tale anche quella che si esprime avvalendosi della capacità di diritto privato.

Le maggiori incertezze riguardano il pubblico impiego (privatizzato), e cioè i poteri datoriali della pubblica Amministrazione. Il giudice ordinario, titolare di giurisdizione in materia, è orientato nel senso di escludere l'applicabilità della 241/90, non ravvisando nell'attività datoriale esplicata iure privatorum, dei procedimenti di natura amministrativa.

SEZIONE III: Profili strutturali della sequenza procedimentale.

1. Premessa.

Fin qui abbiamo esaminato la storia dottrinaria, giurisprudenziale e legislativa del procedimento: a cosa serve il procedimento, quali sono i principi che devono guidare l'Amministrazione nel “percorso logico” che conduce al provvedimento finale. Più avanti percorreremo tutte le fasi del procedimento, il loro scorrere gli atti e le operazioni che ne fanno parte.

Prima di ciò è tuttavia necessario dare una serie di nozioni attinenti allo svolgersi in generale del procedimento e alle sue interazioni con altri procedimenti, che fanno da premessa alla disamina strutturale vera e propria.

2. Fasi del procedimento.

Il procedimento viene solitamente diviso in fasi: quella dell'iniziativa, quella dell0istruttoria, quella costitutiva o decisoria, quella integrativa dell'efficacia. E' tuttavia da tener presente che non sempre nei procedimenti sono riscontrabili tutte le fasi sopra ricordate, e che i procedimenti sono sovente ben più complessi, articolandosi in subprocedimenti.

3. Alterazioni o carenze nella sequenza procedimentale.

Il procedimento è un ordine unitario di pluralità di operazioni e di atti, vale a dire di attività materiale e di attività formale. Tale ordine è dettato dalla legge o dai principi generali. Se tale ordine viene violato, ciò si riverbera sul provvedimento finale, che

viene ad essere formato attraverso una sequenza errata. Alla stessa stregua il provvedimento finale è viziato se nel corso del procedimento non viene compiuto uno degli atti od operazioni previste dalla legge. Del pari, se uno degli atti che compone la serie procedimentale è viziato, tale vizio si riverbera su tutti gli atti successivi e dunque anche sul provvedimento finale: si tratta dell'invalidità derivata.

In caso di alterazione della sequenza, di omissione di un elemento della serie procedimentale, di illegittimità di un atto della serie, e se non vi sono preclusioni, è possibile rinnovare il procedimento partendo dal primo atto (o operazione) successivo a quello omesso e lasciando così integri gli atti e le operazioni pregressi.

Qualora invece manchi un elemento di efficacia, ciò determina solo l'inoperatività del provvedimento, che appunto è perfetto ma non efficace.

Controverso è se l'alterazione della sequenza procedimentale o comunque l'omissione di atti possa essere sanata attraverso la loro acquisizione tardiva. La risposta deriva dalla funzione dell'atto mancante: se esso è funzionale per gli atti successivi la sanatoria non è ammessa, se invece ha funzione di autorizzazione a procedere si ritiene ammissibile la sanatoria.

Se invece l'atto mancante doveva essere adottato entro un termine di decadenza ormai decorso, non è più possibile procedere alla sanatoria.

4. Rinnovazione del procedimento.

Anche se il procedimento si conclude in senso negativo, è sempre possibile riaprirlo, a meno che non via preclusioni di legge. Alla rinnovazione si dà luogo su istanza di parte o d'ufficio, ove vengano evidenziati fatti od elementi nuovi (diversamente la mera proposizione di un'istanza già respinta viene dichiarata irricevibile con provvedimento confermativo del precedente).

Rinnovazione significa ripercorrere tutte le fasi e sottofasi. E' peraltro possibile utilizzare materiale istruttorio già acquisito in precedenza, se non ha perso la sua validità in considerazione del decorso del tempo.

5. Subprocedimenti (e loro eventuali effetti esterni)

Essendo il procedimento la regola all'azione amministrativa, gli interventi delle Amministrazioni pubbliche nell'ambito del procedimento sono a loro volta preceduti da un procedimento. E' importante ricordare che tutto ciò che attiene al procedimento è rilevante giuridicamente, sia sotto il profilo formale, sia sotto il profilo sostanziale, poiché concorre a formare il provvedimento finale, sicché se ne deve tener conto sotto i vari profili dei principi funzionali ricordati.

I procedimenti “interni” anche se hanno una relativa autonomia sotto il profilo del loro regime, non vivono di vita propria: sono infatti destinati a confluire nel procedimento principale, nel senso che vivono in quanto funzionali al procedimento che si conclude con un provvedimento (di solito) di competenza di altra Amministrazione; e pertanto vengono definiti subprocedimenti.

Coerentemente, poiché solo il provvedimento finale è produttivo di effetti esterni, la giurisprudenza considera non impugnabili autonomamente né i subprocedimenti né le

fasi interne del procedimento principale, ma solo in connessione con il provvedimento finale.

La regole della non rilevanza esterna degli atti amministrativi interni e in genere degli atti intermedi del procedimento, e dunque della loro non impugnabilità autonoma in sede giurisdizionale ha numerose eccezioni, soprattutto con riguardo ai procedimenti più complessi, in cui vengono assegnati ai subprocedimenti già taluni effetti.

6. Procedimenti paralleli e procedimenti collegati.

Diverso è il caso dei procedimenti paralleli. Con tale termine ci si riferisce all'ipotesi in cui una determinata attività è subordinata a più provvedimenti amministrativi, ognuno dei quali però è autonomo dall'altro e cura interessi diversi.

Si hanno invece procedimenti collegati quando l'uno interferisce sull'altro per quanto non facciano parte della stessa sequenza procedimentale. L'interferenza deriva dalla legge o dai principi: caso classico è il rapporto tra procedimento sanzionatorio e permesso di costruzione di sanatoria. Secondo una regola di economica amministrativa e di ragionevolezza la pendenza della domanda di sanatoria “sospende” il procedimento sanzionatorio, che potrà riprendere il suo iter solo se la domanda viene respinta: di qui il collegamento tra i due procedimenti.

7. Tempo del procedimento.

Ai sensi dell'art.2 della 241/90 il procedimento deve concludersi entro il termine stabilito dall'Amministrazione con il regolamento previsto nella stessa disposizione; nel caso che il regolamento non vi sia, il termine è di 30 giorni.

Poiché la fase integrativa dell'efficacia è estranea al procedimento, i regolamenti ministeriali stabiliscono che i procedimenti si intendono conclusi per l'Amministrazione al momento dell'adozione dell'atto, esclusa l'ulteriore ed eventuale fase integrativa dell'afficacia dell'atto medesimo di competenza degli organi di controllo.

Quelli che abbiamo ricordato sono i principi generali, che cioè trovano applicazione in assenza di diverse determinazioni in sede regolamentare.

8. Procedimento e normativa sopravvenuta.

Il procedimento è regolato dal principio del tempus regit actum nel senso che i provvedimenti emessi dall'Amministrazione, in quanto espressioni attuali dell'esercizio di poteri, devono uniformarsi alle norme giuridiche vigenti nel momento in cui vengono poste in essere.

Quindi se interviene una diversa normativa, il procedimento in itinere deve adeguarsi ad essa. Poiché il procedimento è diviso in fasi, a meno che non vi sia una totale incompatibilità con fasi già esaurite, le fasi già svolte sotto l'impero della normativa abrogata sono salve.

La regola dell'immediata applicazione delle norme di diritto pubblico incontra peraltro il limite che la nuova normativa non incida su situazioni giuridiche già consolidatesi.

9. Arresto procedimentale e atto endoprocedimentale.

L'esito negativo del controllo preventivo, il diniego di nulla-osta, come pure il diniego di concerto o di intesa, determinano “l'arresto procedimentale”. Si ha tale figura tutte le volte in cui un atto intermedio del procedimento (c.d. atto endoprocedimentale) interrompe lo sviluppo procedurale e dunque rappresenta la conclusione negativa del procedimento, senza attendere il provvedimento terminale. L'atto endoprocedimentale che provoca tale effetto nella sostanza interrompe l'iter al cui termine è prevista l'adozione del provvedimento richiesto e pertanto assume il valore di espressa manifestazione di volontà negativa: per tale ragione viene ritenuto impugnabile in via autonoma e immediata.

SEZIONE IV: L'iniziativa.

1. L'iniziativa d'ufficio, l'iniziativa di parte, l'iniziativa di altre Amministrazioni.

Ogni procedimento ha di necessità una fase introduttiva, o di iniziativa. Il potere di iniziativa “amministrativa” appartiene ad una pluralità di soggetti. A differenza del potere di iniziativa legislativa, che spetta a più soggetti, ma senza riserve di competenze, il potere di iniziativa amministrativa in ordine a ciascun procedimento è determinato dalla legge.

Tale potere appartiene:a) o alla stessa Amministrazione titolare del potere che si esprime nel provvedimento finale (iniziativa d'ufficio);b) o all'organo titolare di potere sostitutivo nei confronti di Amministrazioni inadempienti;c) o ad un'altra Amministrazione (si definisce etero-iniziativa pubblica);d) o ad un privato;

Nel caso a) il potere di iniziativa è implicito nell'attribuzione del potere di provvedere, nel senso che l'Amministrazione ha il potere di costruire opere pubbliche o di disciplinare l'orario degli esercizi pubblici o di adottare misura di polizia portuale, dispone per continenza del potere d'iniziativa volto all'esercizio di tale potere.

Nel caso b) vi è sempre una statuizione normativa che abilita un'Amministrazione ad attivare un procedimento di competenza di altra Amministrazione. Di solito tale potere di iniziativia si esprime attraverso una proposta o richiesta, con la quale l'ente esprime un interesse proprio che ha appunto l'effetto di impulso del procedimento.

2. Forma e tipizzazione degli atti di iniziativa.

Gli atti d'iniziativa privata sono disciplinati dalla legge che detta i requisiti di forma, di tempo, di presentazione. Spesso sono previsti dei modelli di domande. La terminologia degli atti di iniziativa privata è varia: domande ma anche richieste, istanze ricorsi.

3. Disponibilità degli atti di iniziativa.

Come regola generale, le iniziative di parte sono sempre revocabili, sino a che l'Amministrazione non abbia provveduto sulle stesse; ciò si spiega con il fatto che l'esercizio della funzione pubblica è collegato ad un interesse privato. La rinunciabilità è esclusa se il provvedimento richiesto ha dato luogo a conseguenze sul piano organizzativo.

Sovente si afferma che i procedimenti iniziati d'ufficio non sono disponibili, poiché rispondono a compiti assegnati dalla legge: peraltro l'Amministrazione è sempre titolare del potere di revoca.

4. La determinazione del momento dell'iniziativa nel procedimento d'ufficio.

Gli atti di etero-iniziativa pubblica sono tipizzati, consistendo in atti amministrativi, mentre gli atti di iniziativa privata si esprimono in domande. Per tali categorie di iniziative è dunque agevole individuare il dies a quo del procedimento, che è quello del giorno in cui pervengono all'Amministrazione titolare a provvedere.

Nel procedimento d'ufficio gli atti d'iniziativa salvo casi specifici indicati dalla legge sono variegati e a forma libera, tantoché non è agevole indicare il dies a quo. Nei fatti il procedimento d'ufficio può trovare origine nelle circostanze più varie: di solito una segnalazione o un rapporto di uffici di vigilanza, ma anche la conoscenza diretta dei fatti, reclami dei cittadini, notizie di stampa, diffide.

In altri termini, a seguito del ricevimento di esposti, reclami, denunce l'Amministrazione non ha mai la facoltà di rimanere inerte, dovendo sempre attivarsi quantomeno per stabilire se vi sono le condizioni poste dalla legge per l'esercizio dei propri poteri. In esito a tale verifica inizia eventualmente il procedimento.

5. Iniziativa e dovere di provvedere.

L'iniziativa costituisce un atto di impulso che deve comunque condurre ad un provvedimento. Nei procedimenti d'ufficio v'è innanzitutto un dovere di procedere. Ciò deriva dal carattere funzionale dell'attività svolta dalla p.A.: l'attività è doverosa perché i poteri amministrativi sono strumentali rispetto al fine stabilito dalla legge.

Di fronte alle istanze dei privati, v'è sempre obbligo di provvedere, se l'iniziativa nasce da una situazione soggettiva protetta dalle norme, se cioè è prevista dalla legge. Il decorso del termine non fa venir meno il potere di provvedere. In proposito ha avuto occasione di pronunciarsi anche la Corte Costituzionale, la quale ha osservato che la mancata osservanza del termine non comporta la decadenza del potere, ma qualifica in termini di illegittimità il comportamento della p.A. Nei confronti del quale i soggetti interessati alle conclusioni del procedimento possono reagire avvalendosi dei rimedi a ciò apprestati dall'ordinamento, che vanno dal risarcimento del danno all'esecuzione del giudicato.

Non v'è il dovere di provvedere laddove la legge prevede che il decorso del termine equivale ad accoglimento dell'istanza (silenzio-assenso): in tale ipotesi l'Amministrazione è legittimata ex lege a non provvedere, perché comunque si forma un provvedimento finale.

6. Gli atti di denuncia.

Le ipotesi di iniziativa privata tipizzata vanno distinte da quelle in cui un privato, rappresentando esigenze o situazioni, richiede per iscritto l'adozione di determinati provvedimenti o comunque misure in senso generico. Tali atti, variamente denominati hanno la struttura degli atti di iniziativa, ma non la natura e dunque non ne hanno gli effetti.

I richiedenti agiscono infatti non a tutela di un interesse protetto, in quanto previsto dalla legge, ma di un interesse semplice. Le denunce non sono, a differenza elle domande tipizzate, manifestazioni di volontà, bensì sono manifestazioni di rappresentazione. Di fronte alle denunce, la giurisprudenza è solita affermare che non v'è obbligo di provvedere. Talvolta si afferma che non v'è neppure obbligo di prenderle in esame. Il che però è in contrasto con il generale principio di doverosa attenzione della p.A. verso ogni istanza che impone di procedere quantomeno ad una prima sommaria deliberazione, dalla quale può nascere il procedimento d'ufficio.

La distinzione tra iniziativa di parte e mera denuncia non ha come linea di confine esclusiva la presenza di una specifica disciplina di legge attribuita da una posizione di soggettiva qualificata; infatti l'obbligo di provvedere può comunque nascere dai principi generali in tema di ragionevolezza, correttezza, buona fede.

SEZIONE V: L'istruttoria.

1. Il responsabile del procedimento: individuazione, compiti, responsabilità.

L'istituto del responsabile del procedimento, per quanto fosse previsto in talune leggi speciali, costituisce una novità introdotta dalla 241/90: in analogia a quanto avviene nel processo civile, l'istruttoria ha un soggetto che la dirige e che ha l'obbligo di portarla a conclusione.

L'art. 4 comma 1° della legge sul procedimento amministrativo stabilisce che “le pubbliche amministrazioni sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza l'unità organizzativa responsabile dell'istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell'adozione del provvedimento finale”.

L'art. 5 comma 1° della 241/90 stabilisce che “il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all'unità la responsabilità dell'istruttoria e do ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento nonché, eventualmente, dell'adozione del provvedimento finale”. Fino a quando non sia effettuata tale assegnazione il responsabile è comunque il dirigente dell'unità organizzativa.

In ogni caso, l'unità organizzativa responsabile e dunque il responsabile deve essere uno solo proprio al fine di evitare dispersioni e balletti di competenze. La pluralità dei responsabili contraddice infatti con la ratio della legge.

Ciò non vuol dire che, quando il procedimento si articola in subprocedimenti, non possa essere individuato l'ufficio e la persona distintamente responsabile del subprocedimento. O meglio, ciò è auspicabile per avere dei centri di riferimento anche interni al procedimento. Ma il responsabile del procedimento è tale anche verso l'esterno, cioè verso i destinatari. Gli eventuali responsabili delle fasi e dei subprocedimenti sono responsabili solo all'interno dell'Amministrazione.

La funzione del responsabile si colloca su due livelli: uno per così dire di garanzia e l'altro di efficienza. La garanzia sta nel fatto che costituisce punto di riferimento dei soggetti interessati dal provvedimento, che hanno così un interlocutore ben individuato, il che evita il labirinto di competenze e lo scarico di responsabilità; inoltre il responsabile acquisisce o completa atti e certificazioni, non presentati dalla parte. La funzione di efficienza sta nel ruolo di motore e guida del procedimento.

Venendo in dettaglio alle funzioni del responsabile, esse sono classificabili in 4 categorie. In primo luogo, il responsabile esercita attività istruttoria. Sono tali le valutazioni delle condizioni di ammissibilità, legittimazione e dei presupposti rilevanti per l'emanazione del provvedimento, l'accertamento d'ufficio dei fatti, l'istruttoria, la richiesta di dichiarazioni, di rettifiche, di documenti, l'accertamento tecnico o l'ispezione, l'acquisizione di fatti, stati e qualità attestati da altre Amministrazioni.

In secondo luogo svolge funzioni di impulso del procedimento. In terzo luogo tiene i rapporti con i terzi, cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni, fungendo da riferimento dei destinatari del provvedimento in fieri. In quarto luogo ha (eventualmente) funzioni decisorie.

In sostanza la funzione del responsabile del procedimento può essere definita di governo del procedimento (o di coordinamento istruttorio). L'assegnazione della funzione di responsabile del procedimento non comporta una nuova forma di responsabilità né del resto determina l'assegnazione di mansioni nuove: è solo un diverso modo di organizzare le mansioni ordinarie o meglio è un criterio di attribuzione di funzioni nuove. Non v'è dubbio però che le competenze del responsabile attenuano il rapporto di sottordinazione con il dirigente: si potrebbe dire che il rapporto tra dirigente e responsabile è assimilabile a quello tra Procuratore Capo e Sostituto Procuratore nelle Procure della Repubblica. Eventuali comportamenti contra legem saranno semmai fonte di responsabilità civile contabile disciplinare e penale, secondo la legislazione vigente.

2. Sportello unico.

Strumento dell'istruttoria è anche lo sportello unico. Il responsabile del procedimento (che è una persona fisica) guida e serve un procedimento; lo sportello unico invece guida e serve più procedimenti collegati, al fine di concentrarli, per ragioni di efficienza e semplificazione.

Lo sportello unico introduce una disciplina che consente all'interessato di evitare di rincorrere provvedimenti a destra e sinistra. La concentrazione operata dallo sportello unico, e la responsabilità dell'Amministrazione di acquisire gli atti di tutte le Amministrazioni interessate costituisce non solo una semplificazione, ma anche una garanzia fondamentale per l'interessato che viene liberato di una serie di onere impropri.

Lo sportello unico è un modello procedimentale, dentro il quale ricondurre i procedimenti svolti da tutti gli altri apparati pubblici coinvolti, e dall'altro, un modello organizzativo il quale svolge la direzione e la regia di tutte le fasi di cui il modello suddetto si compone.

3. Carattere necessario dell'istruttoria e principio inquisitorio.

Come rilevato i compiti principali del responsabile del procedimento attengono alla propulsione e alla guida dell'istruttoria. In analogia a quanto avviene nel processo civile, l'istruttoria ha un soggetto che la dirige e che ha l'obbligo di portarla a conclusione. E l'istruttproa è una fase necessaria di ogni procedimento. Essa è infatti volta all'acquisizione dei dati e delle conoscenze necessarie per poter adottare il provvedimento e costituisce lo strumento attraverso cui l'Amministrazione adempi all'obbligo generale di “adeguati accertamenti” dei presupposti giustificativi del provvedimento.

Sulla disciplina specifica di ciascun provvedimento si sovrappone però una serie di principi generali frutto di elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale. Principi che sono stati rimodellati e integrati dalla 241/90, al fine di raggiungere gli obiettivi di snellezza, trasparenza, efficacia.

Fermo restando l'obbligo di compiere gli atti istruttori imposti dalla legge, l'istruttoria è regolata dalla libertà di acquisizione dei dati e dalla informalità. E' compito del responsabile accertare i fatti, disponendo il compimento degli atti necessari. Si parla in proposito del principio inquisitorio come dato caratterizzante l'istruttoria amministrativa. L'amministrazione deve infatti emanare i propri provvedimenti su presupposti rigorosamente verificati e su dati sicuri, e non devono esservi margini di incertezza, come del resto si ricava dal principio del buon andamento.

Il principio inquisitorio consente all'autorità amministrativa di avvalersi di propri iniziativa di ogni mezzo probatorio lecito che ritenga utile. Tale principio ha la sua massima espansione nei procedimento in cui la legge pone a presupposto del provvedimento non l'esistenza o l'inesistenza dei fatti, ma presupposti da riempire attraverso l'esercizio della discrezionalità, come l'urgenza, la sicurezza etc.

4. Istruttoria aperta, in contraddittorio, chiusa, segreta, riservata.

Sotto il profilo dei rapporti con i privati, l'istruttoria può essere aperta quanto tutti hanno la facoltà di proporre osservazioni, e dunque di partecipare con il loro apporto collaborativo alla formazione della decisione.

Oppure può essere in contraddittorio quando la formazione del provvedimento richiede l'intervento dei soggetti destinati ad essere investiti dal provvedimento stesso.

L'istruttoria è invece definibile chiusa se non vi è la partecipazione di privati al procedimento. Da precisare che l'istruttoria chiusa non vuol dire segreta, cioè non accessibile dall'esterno: l'art. 22 della 241/90, al fine di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale, riconosce a chiunque vi abbia interesse per la tute la di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi. L'art. 24 della stessa legge esclude però il diritto di accesso in relazione all'esigenza di salvaguardare: a) la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali; b) la politica monetaria e valutaria; c) l'ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità; d) la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo peraltro agli interessati la visione degli atti relativi. Per le ipotesi

a), b) e c) si può parlare di istruttoria segreta. Si ha invece istruttoria riservata nella fattispecie d).

5. Verificazione dei fatti, acquisizione degli interessi e elaborazione dei fatti.

Le attività istruttorie possono essere distinte, sotto il profilo strutturale, tra verificazione dei fatti e elaborazione dei fatti. Si può anche rilevare un'attività di acquisizione degli interessi.

La verificazione dei fatti (o c.d. informazione storica) consiste nella rappresentazione della realtà oggettivamente percepibile. L'acquisizione degli interessi (pubblici o privati) si distingue dalla verificazione dei fatti, perché se pure gli interessi possono essere rappresentati da fatti, sono di norma oggetto di elaborazione e/o rappresentazione da parte degli interessati.

Nella elaborazione dei fatti i informazione valutativa, l'Amministrazione non si limita ad un riscontro oggettivo dei fatti, ma compie operazioni intellettive.

6. Gli strumenti dell'istruttoria: gli accertamenti (semplici e valutativi).

La distinzione tra verifica dei fatti ed elaborazione dei fatti si riverbera sui vari strumenti attraverso cui si svolge l'istruttoria. Gli accertamenti possono avere per oggetto rilevazioni a carattere obiettivo che non richiedono elaborazioni, e dunque si esauriscono nella mera cognizione degli elementi ai quali una determinata norma attribuisce rilevanza a certi fini e allora si definiscono acclaramenti tecnici. Se invece richiedono elaborazioni, sempre sulla scorta di dati oggettivi, siamo di fronte ad accertamenti valutativi.

Gli accertamenti non vanno confusi con i giudizi: nei primi è prevalente la fase acquisitiva di conoscenza o comunque il profilo istruttorio, mentre i secondi attengono alla fase decisionale.

7. La sostituzione degli accertamenti tecnici.

Le valutazioni tecniche e gli accertamenti tecnici sono passaggi imprescindibili dell'istruttoria. Senza di essi il procedimento è gravemente viziato. Sovente però accade che vengono svolti con estremo ritardo, il che pregiudica la funzionalità dell'Amministrazione e arreca danno agli amministrati. La 241/90 prevede, a tal proposito, che quando si tratti di valutazioni di competenza di organi ed enti appositi e tali organi ed enti non provvedano entro i termini di legge, o in assenza di questi entro 90 giorni, “il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri organi dell'Amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione ovvero ad istitui universitari”.

8. Ispezioni e inchieste.

Tra gli strumenti di verificazione (storica ma anche critica) devono essere espressamente esaminate le ispezioni e le inchieste. L'ispezione consiste in operazioni

volte ad acquisire direttamente, attraverso persone a ciò incaricate, notizie su fatti o cose. Se però l'ispezione incide sulla sfera giuridica di terzi occorre una espressa previsione legislativa.

Questo non vuol dire che non sono ammesse ispezioni nei confronti di beni privati o di persone se non vi sono leggi ad hoc. La garanzia ex art. 14 Cost. riguarda i terzi o comunque i soggetti destinatari di misure autoritative, non i soggetti che hanno iniziato il procedimento, nel loro interesse.

Anche l'inchiesta rientra nell'attività istruttoria. Essa ha lo scopo di accertare e/o approfondire situazioni di fatto in ordine alle quali si prospetta l'opportunità di un'indagine specifica e svolta da soggetti qualificati. A differenza dell'ispezione, che è un'attività istruttoria ordinaria, l'inchiesta è un'attività straordinaria che richiede un espresso atto istitutivo.

L'atto istitutivo dell'inchiesta crea un organo straordinario, normalmente collegiale; la sua ragione sta appunto nell'esigenza di istituire un organo dotato delle cognizioni specialistiche di cui l'Amministrazione non dispone. In carenza di disposizioni di legge, l'autorità di inchiesta non può costringere il privato a subire ispezioni o a testimoniare. Principio basilare è che nessun privato è tenuto a collaborare all'inchiesta in assenza di una disposizione di legge.

E' controverso se – sempre in mancanza di disposizioni di legge – le altre Amministrazioni sono obbligate a collaborare con l'Amministrazione inquirente. E' preferibile la tesi positiva.

9. Valore degli atti istruttori, onere della prova, dovere di soccorso.

Gli atti istruttori (o strumentali) si pongono nei confronti dell'autorità decidente come mezzi di prova. Le prove che emergono dall'istruttoria vengono liberamente valutate: non vi sono infatti prove che determinano presunzioni assolute. Per i procedimenti su istanza di parte non v'è onere della prova a carico del richiedente. Esiste infatti un dovere dell'Amministrazione di collaborare con i cittadini per il soddisfacimento degli interessi di questi nelle varie procedure amministrative (c.d. dovere di soccorso o di assistenza).

Da aggiungere che sovente l'Amministrazione indica in via preventiva ed astratta quali dati devono essere prodotti, ma anche in tal caso la mancata produzione non è causa di irricevibilità della domanda, stante il generale principio della sanabilità delle domande erronee ed incomplete, anche se ciò determina uno slittamento dei termini per procedere.

10. Pareri.

Il parere costituisce una manifestazione di giudizio di cui si avvale l'Amministrazione per poter decidere con più ampia cognizione di causa. I pareri provengono da un soggetto o estraneo all'Amministrazione procedente oppure ad essa collegato solo organizzativamente. Nel corso del procedimento possono essere acquisiti anche atti, in genere definiti note o consulenze, provenienti da funzionari o da esperti esterni, che costituiscono manifestazione di giudizio e che vengono definiti anche nella prassi pareri.

Si distingue tra pareri di sola legittimità (così i pareri del Consiglio di Stato); pareri di opportunità; pareri di carattere tecnico. Tale distinzione è eccessivamente schematica e nella realtà i pareri hanno spesso natura mista e talvolta anche un contenuto propositivo.

Se l'acquisizione del parere è prevista dalla legge, il parere si definisce obbligatorio; se la legge stabilisce che l'Amministrazione attiva deve seguire il parere, allora il parere, oltre che obbligatorio, è vincolante.

11. Termini per l'emissione dei pareri ed effetti del decorso di tali termini.

Le procedure di acquisizione dei pareri sono state oggetto di notevoli innovazioni da parte della 241/90, al fine di accelerare il procedimento. Già numerose leggi prevedevano che con il decorso di un certo periodo di tempo si poteva prescindere dal parere. L'art. 16 della 241/90 ha dato valenza generale all'istituto dell'accantonamento del parere quando la sua emanazione ritardi. Da avvertire che il decorso del termine non determina l'obbligo di portare avanti il procedimento, ma solo la facoltà.

La facoltà di prescindere dal parere e dunque di chiudere l'istruttoria senza l'intervento dell'organo consultivo, non opera in ordine ai pareri che debbono essere rilasciati da Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini. L'eccezione, che è costante in tutte le norme di semplificazione della 241/90, si spiega con la prevalenza data ai valori tutelati dagli att. 9 e 32 rispetto al 97 Cost.

In ogni caso il parere non può mai intervenire ex post, dopo il provvedimento finale.

SEZIONE VI: Partecipazione al procedimento amministrativo.

1. La partecipazione prima della 241/90.

La partecipazione viene sovente equiparata al giusto processo. E' ritenuto un principio giurisprudenziale, almeno nel caso di limitazione dei diritti soggettivi e di lesione di interessi legittimi. Ma non assurge a livello di principio costituzionale. Così se ne deduce che la partecipazione si esplica in quanto prevista per legge.

2. Costituzionalizzazione del principio della partecipazione.

La disciplina del capo III della 241/90 dal titolo “Partecipazione al procedimento amministrativo” è dunque assolutamente innovativa e di grande rilievo. Garantendo la partecipazione degli interessati, e per di più anche con riguardo a provvedimenti amministrativi ampliativi, contribuisce alla completezza del procedimento e alla individuazione delle esigenze e degli interessi in campo.

La 241/90, laddove attribuisce portata generale al principio della partecipazione, non può non reagire sull'interpretazione della costituzione e dunque sul significato dell'art. 97 così da ritenerlo comprensivo anche di tale principio.

3. Eccezioni espresse al principio di partecipazione.

La partecipazione è esclusa nei confronti dei procedimenti diretti all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e programmazione. Gli atti amministrativi generali, cui per più parti si riconducono anche gli atti di pianificazione e di programmazione, conoscono infatti forme di partecipazione procedimentale in base alla legislazione speciale.

La partecipazione è esclusa per i procedimenti tributari che hanno una regolamentazione del tutto peculiare. Infine la partecipazione è attenuata ove esistano particolari esigenze di celerità del procedimento.

4. Le eccezioni implicte al principio di partecipazione (criteri del raggiungimento dello scopo e della non utilità in concreto della partecipazione).

A parte i procedimenti esclusi ex lege ed anzi anche in virtù dell'argomento a contrario desunto da tali eccezioni espresse, il principio della partecipazione ha portata generale. La portata generale del principio del contraddittorio, però, è stata sottoposta ad una profonda rivisitazione ed in definitiva ad una deminutio da parte della giurisprudenza, sulla base di un altro ordine di argomenti, compendiabili nella lettura sostanzialistico-teleologica del principio in esame. A ciò ha contribuito anche la duplice funzione della partecipazione come strumento di difesa e di collaborazione: nella seconda le esigenze garantistiche sono difatti meno sentite. A tal fine si è fatto riferimento a due criteri, ognuno dei quali suscettibile di rendere priva di significato e pertanto non necessaria la partecipazione e cioè: a) quella della equipollenza, o del raggiungimento dello scopo e b) quello della non utilità in concreto della partecipazione.

Con riferimento al criterio a) si è formato un consolidato indirizzo secondo cui la comunicazione di avvio del procedimento può essere sostituita da atti equipollenti attraverso il quale lo scopo di informare il privato interessato in funzione della sua partecipazione al procedimento è stato comunque ottenuto.

Sulla scorta del criterio b) si è affermata invece la non necessità dell'avviso quando l'apporto dei privati non avrebbe potuto raggiungere alcunché perché non risultano carenze istruttorie, o qualora l'Amministrazione, in concreto, non avrebbe potuto concludere il procedimento con un provvedimento diverso da quello adottato. In sostanza il principio di partecipazione del privato interessato all'attività dell'Amministrazione subisce un'interpretazione adeguatrice, laddove venga ritenuto con un giudizio ex post inutile ai fini dell'azione amministrativa.

L'indirizzo giurisprudenziale in questione è stato razionalizzato in una sentenza accuratamente motivata nella quale si è affermato che la comunicazione è superflua quando: 1) l'adozione del provvedimento finale è doverosa; 2) i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; 3) il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza apprezzabili; 4) l'eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione

non priverebbe l'Amministrazione del potere di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto.

5. Il contraddittorio nei procedimenti ad iniziativa di parte e nei procedimenti di silenzio-assenso.

Si discute se l'avviso debba essere comunicato nei confronti dei soggetti ad iniziativa dei quali i procedimento ha avuto inizio. Invero è la domanda che innesca il procedimento, sicché non c'è nulla di cui ricevere notizia. V'è l'obbligo dell'Amministrazione di indicare il responsabile del procedimento cui rivolgersi per le notizie, solleciti ecc. ma si tratta di un obbligo la cui inosservanza comporta una mera irregolarità che non inficia l'efficacia del provvedimento.

Questo non vuol dire che l'intera categoria dei procedimenti ad iniziativa privata sono esclusi: se infatti il provvedimento pur emesso ad istanza di parte è sottoposto a procedura di riesame da parte di un'altra autorità amministrativa, l'avvio di questo ulteriore procedimento deve essere comunicato al richiedente.

La stessa ratio opera con riguardo a procedimenti per i quali è prevista la formazione del provvedimento per silenzio-assenso: anche tali atti possono incidere sulla sfera giuridica dei terzi. D'altra parte la previsione del silenzio-assenso non esclude che l'Amministrazione adotti un provvedimento formale: v'è sempre un'attivazione del potere, che si trasforma in atto (espresso o fittizio).

Non è invece necessaria la comunicazione per le “denunce” d'inizio attività: esse non danno luogo ad un procedimento, che è solo eventuale e in tal caso il contraddittorio è previsto in quanto l'Amministrazione deve innanzitutto invitare l'interessato a regolarizzare la propria denuncia.

6. Campo di applicazione soggettivo (destinatari dell'avviso di procedimento)

L'avviso di procedimento deve essere comunicato ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che debbono per legge intervenirvi. La comunicazione dell'avviso va peraltro effettuata anche nei confronti di coloro che non sono i diretti destinatari, ma a cui il provvedimento possa arrecare un pregiudizio o che dispongono del c.d. diritto alla “controrappresentazione” (es: affittuario nel caso di esproprio al proprietario). L'individuazione dei terzi è spesso problematica, pur tenendo conto del fatto che la legge pone il limite dei soggetti individuati o facilmente individuabili: sicché l'individuazione dei terzi interessati deve essere agevole, il che significa che l'Amministrazione non deve svolgere particolari indagini per scoprirli.

7. Modalità di attivazione della partecipazione.

Le forme della partecipazione sono tracciate dall'art. 8 della 241/90: “L'amministrazione provvede a dare notizia dell'avvio del procedimento mediante comunicazione personale”. Nella comunicazione debbono essere indicati: a) l'Amministrazione competente; b) l'oggetto del procedimento promosso; c) l'ufficio e la persona responsabile del procedimento; d)l'ufficio in cui si può prendere visione degli atti.

Qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, l'Amministrazione provvede a rendere noti gli elementi di cui sopra mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite.

8. Effetti dell'omissione dell'avviso di procedimento.

L'omissione della comunicazione può essere fatta valere solo dal soggetto nel cui interesse la comunicazione è prevista. E' dunque un'illegittimità rilevabile d'ufficio o dal soggetto pretermesso.

9. La partecipazione eventuale.

L'art. 9 della 241/90 stabilisce che “qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento”.

L'interesse legittimo viene inteso come posizione soggettiva idonea a influenzare l'Amministrazione in maniera tale da far corrispondere il provvedimento all'interesse pubblico concreto.

10. L'intervento dei portatori di interessi diffusi.

L'art. 9 della 241/90 consente l'intervento anche a portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati. Si deve precisare che gli interessi diffusi sono interessi comuni ad una pluralità indeterminata di soggetti. Gli interessi diffusi richiedono pertanto un processo di aggregazione mediante l'opera di associazioni di tutela.

11. Tempo dell'intervento.

L'intervento è ammesso sino all'adozione della decisione finale, salvo la presenza di ragioni di economia amministrativa che impongono di non esaminare interventi pervenuti oltre un certo limite, tanto più dovendosi osservare un termine finale per l'adozione del provvedimento.

12. Effetti della partecipazione sul processo decisionale.

La partecipazione ex art. 7 della 241/90, come pure l'intervento volontario ex art. 9 della stessa legge, si esplica attraverso il diritto di presentare memorie scritte e documenti. Non è quindi ammesso in via generale il contraddittorio informale o l'acquisizione del contraddittorio attraverso inchiesta pubblica.

V'è un preciso obbligo di valutazione dei documenti e degli interessi rappresentati dagli intervenuti.

13. La partecipazione nella legislazione speciale e nel t.u. enti locali.

La legislazione speciale conosce numerose ipotesi di contraddittorio. Tra la normativa speciale precedente e la normativa generale non v'è incompatibilità: al contrario si combinano. La 241/90 stabilisce il contenuto dell'avviso, l'obbligo di comunicazione e allarga la partecipazione, mentre la legge speciale stabilisce il termine per proporre osservazioni ed altre eventuali modalità.

Nel caso degli enti locali la 241/90 fissa il minimum della partecipazione. L'autonomia statutaria permette all'ente locale di aumentare le garanzie e le forme di partecipazione.

14. Forme di partecipazione politica.

L'art. 8 del t.u. Enti locali prevede che in sede statutaria siano disciplinate forme di partecipazione popolare, alcune delle quali (consultazioni della popolazione, petizioni, ecc.) devono essere necessariamente indicate e disciplinate nello statuto; altre invece (referendum consultivo) sono facoltative.

SEZIONE VII L'accesso ai documenti amministrativi.

1. Fondamento costituzionale.

L'art. 22 della 241/90 dice che “al fine di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale”, riconosce a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridiche rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi, secondo le modalità stabilite dalla legge.

Il diritto di accesso pertanto è sia un'esplicazione ed una componente della partecipazione, cioè una garanzia procedimentale, sia una garanzia generale. A livello costituzionale si fa riferimento all'art. 21 relativo all'informazione, all'art. 97 e 98 che ribadiscono come l'Amministrazione sia al servizio dei cittadini che come questi abbiano il diritto di sapere quale e come si sviluppi l'azione amministrativa. Il diritto di accesso ha anche riconoscimento e garanzia a livello comunitario.

I diritti di accesso sono ovviamente limitati dal diritto alla privacy, anch'esso normativamente tutelato.

2. Titolarità ed esercizio del diritto di accesso.

L'art. 22 della 241/90 attribuisce tale diritto ai soggetti che vi abbiano interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevante. Anche nel senso che l'accesso è consentito a coloro ai quali gli atti stessi si riferiscono in maniera diretta o indiretta e che se ne possono eventualmente avvalere per la tutela di una propria posizione soggettiva, ma indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica concreta.

Le norme sull'accesso valgono anche a favore dei portatori di interessi diffusi in quanto compatibili. In tal caso deve essere collegato con le finalità statutarie. Sono invece

esclusi dall'accesso i titolari di interessi di fatto, dato che l'accesso non è configurabile alla stregua di un'azione popolare.

Per quanto concerne gli enti locali, il t.u. Consente il diritto di accesso agli atti amministrativi e alle informazioni ai cittadini, singoli e associati; v'è quindi una legittimazione non limitata ai titolari di posizione soggettive qualificate.

3. Modalità di esercizio del diritto di accesso.

Il diritto di accesso si realizza mediante visione dei documenti richiesti. Ad ulteriore domanda, mediante acquisizione di copia conforme di essi. Il regolamento di attuazione del diritto di accesso distingue tra accesso informale, che si esercita mediante richiesta anche verbale, la quale esaminata seduta stante e senza formalità, viene accolta mediante indicazione della pubblicazione contenente le notizie, esibizione del documento, estrazione di copie; e accesso formale che interviene qualora non sia possibile l'accoglimento immediato della richiesta in via informale.

L'amministrazione può rifiutare, differire o limitare l'accesso soltanto nei casi e nei limiti stabiliti dalla legge e con provvedimento motivato. Se trascorrono 30 giorni dalla richiesta senza che vi sia stata risposta da parte dell'Amministrazione, la richiesta stessa si intende rifiutata.

4. Oggetto del diritto di accesso.

La legge dà una definizione generale e aperta dei documenti accessibili: “E' considerato documento amministrativo ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti interni, formati dalle pubbliche Amministrazioni, o comunque utilizzati ai fini dell'attività amministrativa”. La formula è aperta sia sotto il profilo materiale, cioè del supporto che contiene l'informazione, sia sotto il profilo soggettivo di chi ha Il prodotto l'informazione. Non sono invece ammesse istanze con cui si chiedono generiche informazioni e non specifici documenti.

Sono ricompresi nel diritto di accesso anche gli atti di natura privata prodotti da Amministrazioni perché comunque finalizzati al perseguimento dell'interesse pubblico. Per le stesse ragioni, l'accesso è esercitabile anche nei confronti di soggetti privati ove siano soggetti nella loro attività a regole pubblicistiche.

6. Limiti al diritto di accesso.

L'art. 24 241/90 esclude dal diritto di accesso i documenti coperti dal segreto di Stato. Diverso è il caso del segreto d'ufficio che è stemperato dalla legge sul procedimento amministrativo che infatti stabilisce come operi al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme di accesso sul diritto di accesso. Di contro, tutte le altre disposizioni vigenti al momento dell'entrata in vigore della 241/90 che limitano l'accesso ai documenti amministrativi sono fatte salve.

Nei regolamenti e nella giurisprudenza è risultata faticosa soprattutto la determinazione delle ipotesi relative alla riservatezza di terzi, persone, gruppi e imprese, fermo restando per gli interessati il diritto di visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i loro interessi giuridici. Il

contenzioso prevalente inerisce proprio al rapporto tra accesso e riservatezza di terzi: nel conflitto si ritiene che prevalga il primo, allorché sia necessario per curare e difendere i propri interessi giuridici.

7. Accesso e privacy.

Molti dubbi riguardano l'accesso ai dati personali e in particolare ai dati sensibili, oggetto della tutela della 675/1996 poi 196/03. Per chiarezza va distinto tra dati comuni, sensibili e supersensibili.

Quando l'accesso riguarda dati comuni continua ad applicarsi in toto la 241/90. Dati sensibili sono invece quelli che riguardano l'origine razziale o etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, ecc...; in ordine ad essi (e ai dati giudiziari) le operazioni di trattamento eseguibili in esecuzione di una richiesta di accesso ex 241/90 non sono di fondo incompatibili. Anche se “il trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici è consentito solo se autorizzato da una espressa disposizione di legge nella quale sono specificati i tipi di dati che possono essere trattati e di operazioni eseguibili e le finalità di rilevante interesse perseguite”.

Quando si tratti di dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato.

8. Natura del diritto di accesso.

E' controverso se il diritto di accesso si atteggi come un diritto civico, tutelato alla stregua di un interesse legittimo, o come un diritto soggettivo tutelato direttamente dalle norme della 241/90.

9. Tutela del diritto di accesso.

Il diritto di accesso ha una specifica tutela processuale, alla quale di deve aggiungere che l'interessato ha anche la possibilità, nello stesso termine di 30 giorni, di rivolgersi per un riesame al difensore civico.

SEZIONE VIII: Fase decisoria (o costitutiva).

1. La struttura logica della decisione.

La fase decisoria o costitutiva è quella in cui sulla base del materiale acquisito nelle fasi precedenti, l'Amministrazione elabora ed adotta il provvedimento. La competenza ad adottare il provvedimento è del responsabile del procedimento o di altro organi previsto dalla legge.

2. La struttura formale della decisione. Decisione monostrutturata e decisione pluristrutturata.

La fase decisoria può esprimersi attraverso manifestazioni di volontà che si traducono in un atto semplice (monostrutturato, per indicare un atto emesso da una persona fisica in una sola volta) oppure attraverso più manifestazioni di volontà tra loro collegate (pluristrutturata).

Nella decisione pluristrutturata la “struttura” dell'atto si compone di un modulo procedurale paritario, nel senso che ogni Amministrazione che interviene nella fase decisoria deve “concordare” con il provvedimento finale. Se non concorda ha in pratica un diritto di veto. Per questo l'interesse espresso dall'Amministrazione partecipe alla decisione complessa si diversifica dagli interessi di altre Amministrazioni evidenziati in istruttoria, i quali influenzano ma non condizionano in maniera assoluta i provvedimenti finali.

3. Atto complesso.

Una significativa distinzione si ha tra determinazioni che si fondono con la determinazione dell'Amministrazione procedente e determinazioni che costituiscono il presupposto per la determinazione dell'Amministrazione procedente, che rimane dunque autonoma. Nel primo caso si ha un atto complesso, nel secondo due atti distinti.

Atto amministrativo complesso: si ha quando un organo, pur avendo il potere di emettere un provvedimento, non può validamente esercitare quel potere senza il consenso di un altro organo che manifesti un'identica volontà, sicché la volontà dei due organi si unifica e si fonde in un solo atto a carattere omogeneo. Caratteristica dell'atto complesso è dunque l'unitarietà dell'atto, anche se gli interessi a cui tendono le Amministrazioni partecipi possono essere diversi.

Si distinguono atti a complessità interna dagli atti a complessità esterna: nel primo caso le autorità sono organi di uno stesso ente, nel secondo no. Si distinguono altresì atti complessi eguali da atti complessi ineguali: nei primi tutti i soggetti che partecipano alla decisione hanno analoghi poteri; nei secondi v'è un'autorità che ha il potere di modificare o emendare la determinazione di un'altra autorità.

4. Determinazioni preliminari e proposte.

L'atto complesso è un atto unitario, ma la nozione di atto complesso è suscettibile di ricomprendere anche atti distinti ove volti allo stesso fine e di contenuto identico: l'unitarietà è cioè sostanziale, anche se non formale. Tali sono le ipotesi delle determinazioni preliminari e delle proposte, o meglio del combinato provvedimento finale – determinazione preliminare o provvedimento finale – proposta.

Tali formule indicano una scissione tra determinazione del contenuto del provvedimento e esternazione dello stesso, che ha tuttavia natura costitutiva dell'effetto giuridico.

Quanto alle proposte, esse costituiscono un atto di mera iniziativa. Vi sono però ipotesi in cui la proposta, pur configurandosi sempre come iniziativa, ha tuttavia un grado di compiutezza e di elaborazione, acquisito attraverso il subprocedimento volto alla sua concretizzazione, da costituire una determinazione positiva e concreta degli interessi: è

cioè una proposta-decisione. Solo che per acquisire efficacia ha necessità di un provvedimento finale, che ha la funzione di esternare quanto espresso nella proposta-decisione.

Mentre è pressoché pacifica l'opinione che senza l'esternazione formale la proposta non ha alcun effetto, e che l'esternazione ha natura costitutiva, e non di efficacia, sicché gli effetti del provvedimento finale non retroagiscono alla data della proposta, non v'è concordia sulla qualificazione della fattispecie in esame. Infatti c'è chi vi vede un atto composto, perché la funzione dei due soggetti partecipanti è diversa; chi ravvisa nel potere presidenziale o comunque nel potere di esternazione un atto di controllo; chi vi ravvisa una funzione di esternazione dovuta, avendo la proposta carattere vincolante; chi vi vede un atto di iniziativa ad effetti parzialmente vincolanti. E' evidente però che in ciascuna di queste ipotesi l'autorità esternante ha un rapporto diverso con l'autorità proponente, il che incide sul quid di partecipazione al provvedimento finale. Resta però il fatto che quando le proposte e le determinazioni coincidono la fattispecie è riconducibile entro lo schema dell'atto complesso.

5. Concerto e intesa.

Tra gli atti pluristrutturali hanno particolare rilievo i concerti e le intese. Anch'essi possono essere ricondotti alla categoria degli atti complessi, ove se ne segua la nozione sostanzialistica.

Nel concerto l'autorità titolare del potere esprime il provvedimento finale (autorità concertante) elabora lo schema di provvedimento e lo manda ad un altro ente o organo (autorità concertata), la quale, in relazione agli interessi di cui è titolare, aderisce allo schema oppure suggerisce modifiche. Le varie autorità devono alla fine condividere lo stesso testo di provvedimento.

Va precisato che la partecipazione di autorità concertate attiene alla fase costitutiva e nona quella preparatoria; per cui l'atto finale deve essere imputato a tutte le autorità che sono intervenute in tale fase. Generalmente il concerto opera tra organi di uno stesso ente.

Le intese, di norma, riguardano enti diversi e dunque attengono a rapporti intersoggettivi. Le intese sono comuni nel rapporto tra Stato e Regioni. Le intese Stato-Regioni vengono distinte tra intese forti, quando cioè la comune determinazione di entrambe le parti non è surrogabile, ed intese deboli, quando cioè le norme che le prevedono affidano allo Stato poteri sostitutivi destinati a trovare impiego in caso di mancato raggiungimento dell'accordo.

6. Le determinazioni partecipi della funzione decisoria (nulla- osta, autorizzazioni, assensi, pareri vincolanti).

Costituiscono determinazioni partecipi della funzione decisoria i nullaosta, le autorizazioni, gli assensi senza i quali non è possibile addivenire alla determinazione finale.

Le autorità titolari di tali poteri gestiscono interessi che per il legislatore hanno la stessa dignità di quello perseguito dall'Amministrazione procedente, e pertanto sono parimenti “primari”, non essendo subordinati all'interesse dell'Amministrazione procedente. Però a

differenza delle determinazioni complesse siamo di fronte ad atti che mantengono la loro autonomia e dunque non v'è fusione in unico atto.

Da avvertire però che ci riferiamo alle ipotesi in cui tali atti di assenso intervengono dopo la fase istruttoria o comunque non condizionano la procedibilità della fase istruttoria. In linea generale, le autorizzazioni o i consensi o i visti che non si inseriscono nella fase decisoria sono dati nello stesso interesse dell'ente richiedente. Nel caso di decisione pluristrutturata invece l'autorizzazione è data in funzione dell'interesse dell'ente autorizzante.

7. Conferenza dei servizi (premessa).

La ricerca del consenso con altre autorità titolari di interessi primari (e dunque codeterminanti la decisione finale) o anche secondari è fonte di non pochi inconvenienti. Eventuali modifiche richieste al contenuto dell'atto da parte dell'autorità codeterminante o comunque interessata obbligano a ripercorrere ab initio la consultazione con relativa possibilità di ulteriori modifiche conseguenti alle modifiche.

La riunione congiunta delle Amministrazioni interessate si chiama “conferenza di servizi”. La 241/90 dà carattere generale a tale istituto. La disciplina delle “conferenze” è finalizzata all'attuazione del principio di buon andamento dell'Amministrazione in quanto mezzo di semplificazione dell'azione amministrativa.

8. La conferenza di servizi istruttoria (monoprocedimentale e pluriprocedimentale).

La 241/90 prevede tre forme di conferenza di servizi; la conferenza istruttoria, la conferenza predecisioria e la conferenza decisoria. Tutte sono indette dal responsabile del procedimento e tutte hanno una funzione di accelerazione e di coordinamento. Tuttavia sono ben diverse l'una dall'altra.

La conferenza istruttoria è disciplinata dalla 241/90 “qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, l'Amministrazione procedente indice di regola una conferenza di servizi”.

Il coinvolgimento opera nella fase della partecipazione istruttoria: è escluso ogni concorso valutativo nella fase costitutiva; nella quale invece l'ente competente, esaminate e assemblate le varie istanze emesse in sede di conferenza, esprimerà la decisione finale.

La conferenza istruttoria è pertanto il modo tipico di acquisizione e di selezione degli interessi privati e diffusi. Attraverso di essa si acquisisce materiale su cui si plasma, attraverso l'esercizio del potere discrezionale, il provvedimento amministrativo.

Stante la natura istruttoria della conferenza, ogni Amministrazione conserva il potere di decidere in ordine alle proprie competenze, salvo l'obbligo di motivare in caso di mancata uniformazione alle indicazioni emerse in sede di conferenza.

9. La conferenza predecisoria.

La conferenza predecisoria ha per oggetto due ipotesi. La prima si riferisce a progetti di particolare complessità in ordine ai quali, prima di presentare il progetto definitivo, si reputa opportuno verificare quali siano le condizioni per ottenere i necessari atti di consenso. In tali circostanze la conferenza è convocata su istanza dell'interessato, la quale deve essere adeguatamente motivata e documentata. La seconda riguarda i progetti preliminari di opere pubbliche e di interesse pubblico: in tal caso lo strumento della conferenza, come per la conferenza decisoria classica, è obbligatorio.

Nella conferenza relativa ai progetti per le opere pubbliche il progetto preliminare viene esaminato al fine di indicare le intese, i pareri, le concessioni, le autorizzazioni, i nullaosta e in genere gli atti di assenso. Ogni Amministrazione titolare della relativa competenza indicherà le eventuali manchevolezze o comunque gli adempimenti necessari.

Le indicazioni emerse in sede di conferenza di servizi, che si esprimono in raccomandazioni o condizioni o prescrizioni anche temporali e/o procedurali possono essere modificate o integrate solo in presenza di significativi elementi emersi nelle fasi successive del procedimento, se del caso anche a seguito delle osservazioni di privati sul progetto definitivo.

10. La conferenza decisoria.

“La conferenza decisoria è sempre indetta quando l'Amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti, nullaosta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga entro 15 giorni dall'inizio del procedimento, avendoli formalmente richiesti”.

La conferenza di servizi viene convocata dall'Amministrazione competente per l'adozione del provvedimento finale: vi provvederà il responsabile competente all'adozione del provvedimento finale. La convocazione deve pervenire almeno 10 giorni prima. Nella prima riunione le amministrazioni provvedono a stabilire il termine per l'adozione delle determinazioni conclusive, che non può superare i 90 giorni. Per la rappresentanza delle varie amministrazioni partecipanti alla conferenza è previsto che l'organo competente dell'Amministrazione indichi un unico rappresentante legittimato ad esprimere la volontà dell'amministrazione in modo vincolante per la stessa su tutte le decisione che le competono.

Ove il termine stabilito per i lavori della conferenza venga a decorrere senza esito, l'Amministrazione procedente adotta la determinazione conclusiva sulla base della maggioranza delle posizioni acquisite in sede di conferenza.

La determinazione conclusiva del procedimento, che la legge qualifica immediatamente esecutiva, in realtà non conclude il procedimento. Infatti nei 30 giorni successivi alla determinazione di conclusione le Amministrazioni coinvolte possono manifestare il proprio dissenso.

Il provvedimento finale dovrà quindi tener conto sia della determinazione conclusiva del procedimento sia della fase successiva: cioè quella dei dissensi proveniente da parte delle amministrazioni che non si erano espresse in sede di conferenza (c.d. amministrazioni silenti). Può avvenire che tali dissensi siano tali da ribaltare la maggioranza favorevole formatasi: in tal caso il provvedimento finale non può essere adottato. La procedura è appunto conclusa dal provvedimento finale conforme alla determinazione conclusiva favorevole della conferenza di servizi che sostituisce, a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione, nullaosta o atto di assenso comunque

denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare, alla predetta conferenza.

11. Il recupero del dissenso.

Particolarmente dettagliata e complessa è la disciplina volta a recuperare il dissenso di una o più amministrazioni. Il dissenso, per essere tale, e cioè per richiedere una procedura di superamento del dissenso a) deve essere espresso in sede di conferenza di servizi; b) deve essere congruamente motivato; c) non può riferirsi a questioni connesse che non costituiscono oggetto della conferenza medesima; d) deve recare le specifiche indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell'assenso.

Nell'ipotesi di manifestazione di dissenso ammissibile, l'Amministrazione procedente, nei termini previsti, assume la determinazione di conclusione del provvedimento sulla base della maggioranza delle posizioni espresse in sede di conferenza di servizi. Tale previsione suscita non poche perplessità: sia di opportunità sia di ordine costituzionale quando viene messa in minoranza una Regione in materie di competenze di quest'ultima.

12. Atti inseriti nella conferenza decisoria.

La conferenza servizi decisoria riguarda cioè determinazioni che si inseriscono nello stesso procedimento, ovvero subprocedimenti o comunque atti endoprocedimentali, riconducibili sia alla categoria degli atti complessi sia a quella delle determinazioni concordate, e cioè a tutti gli atti che secondo la terminologia più diffusa hanno effetto costitutivo del provvedimento: infatti si parla di Amministrazione procedente e di acquisizione di intese o assensi. La conferenza decisoria è volta infatti alla produzione di un unico atto.

13. Natura della conferenza decisoria.

La conferenza di servizi decisoria costituisce un procedimento tipizzato ricompreso nella più ampia categoria dei procedimenti dei procedimenti di coordinamento strutturale, di quei procedimenti cioè che sono diretti a realizzare la sintesi della pluralità di competenze amministrative con lo strumento della partecipazione dei soggetti pubblici coinvolti nella vicenda, i quali convertono le loro competenze in interessi che vengano assestati e composti nel procedimento.

Le modifiche introdotte dalla 340/2000, e in particolare la previsione della decisione a maggioranza, hanno fatto sorgere il problema se la conferenza sia da ritenersi trasforma in organo collegiale. Tale conclusione è da escludere per la ragione che le varie amministrazioni partecipanti mantengono le proprie competenze.

L'Amministrazione procedente potrà superare il dissenso non solo con la mera maggioranza o con l'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri (o di organi esecutivi degli enti locali), ma sulla base di una argomentata valutazione circa la preminenza dell'interesse pubblico perseguito dall'Amministrazione rispetto a cui gli interessi dei dissenzienti risultano cedevoli.

14. La decisione attraverso organi collegiali e regole relative.

Il provvedimento finale (o decisione) può essere di competenza di un organo monocratico; può anche essere di competenza di un organo collegiale, cioè di un organo composto da più persone.

Laddove la fase decisoria è esclusivamente dell'organo monocratico, non vi sono particolari regole da tener presenti ai fini della formale espressione della volontà dell'organo. Sarà evidentemente la persona fisica titolare dell'organo che esercita il potere conferitogli dalla legge, e che sulla base dell'istruttoria adotta il provvedimento finale.

Laddove la competenza ad adottare l'atto è di un organo collegiale, devono seguirsi talune regole procedimentali le quali fanno sì che la formazione della volontà dell'organo collegiale si configuri come un subprocedimento. Con le seguenti fasi:a) convocazione da parte del presidente. La convocazione deve contenere l'ordine del giorno, la cui mancanza diviene causa di illegittimità. In mancanza di espresse previsioni di legge o di regolamento, la convocazione deve essere effettuata con un congruo preavviso. Anche le irregolarità di convocazione sono causa di illegittimità;b) per la validità della riunione occorre un numero minimo di membri che di norma è la metà più uno dei membri effettivi in carica;c) il presidente apre dirige e chiude la riunione;d) su ogni argomento, dopo la relazione del presidente o di altro membro del collegio, si apre la discussione al fine di deliberare in merito;e) la deliberazione avviene mediante votazione, palese o segreta. La deliberazione si

configura a sua volta come un subprocedimento;f) il conteggio dei voti avviene attraverso scrutinio ai fini della determinazione del risultato del voto. Le regole per determinare la maggioranza necessaria per l'approvazione non sono univoche, dipendono dalle specifiche normative;g) dopo la votazione segue la proclamazione dei risultati della votazione da parte del

presidente. Essa costituisce un atto di esternazione richiesta ab substantiam ed ha natura di accertamento (dichiarativo e non costituivo) del collegio;h) di tutti gli atti e le operazioni del collegio deve essere formato un verbale. L'apporvazione del verbale è di competenza dello stesso collegio ed assume il ruolo di elemento costitutivo del verbale medesimo e con esso dell'atto deliberativo verbalizzato.

15. La formazione della decisione attraverso il silenzio significativo (silenzio-diniego e silenzio-

assenso).

Il procedimento amministrativo può formarsi attraverso una finzione legislativa, in virtù del decorso di un determinato lasso di tempo. E nonostante le previsioni legislative e penali atte a contrastare l'inerzia della p.A., questa resta un'ipotesi ricorrente. L'ordinamento pertanto appronta una serie di strumenti volti a ridurre gli effetti di tale inerzia e talvolta ad annullarli del tutto.

In sintesi, il diritto positivo offre 3 vie per controbattere l'inerzia della p.A.:a) l'inerzia equivale a provvedimento di rigetto dell'istanza (silenzio-diniego);b) l'inerzia equivale a provvedimento di accoglimento dell'istanza (silenzio-assenso);

c) l'inerzia equivale ad un inadempimento della p.A.: costituisce un mero fatto che però consente all'interessato di adire le vie giurisdizionali;

Nel casi a) e b) gli effetti previsti dalla legge di determinano indipendentemente dall'effettiva volontà dell'Amministrazione, ed eventualmente anche contro di essa. Poiché la legge collega l'accoglimento o il rigetto dell'istanza direttamente al comportamento inerte dell'Amministrazione per un determinato periodo di tempo, è da ritenere che quest'ultima abbia l'onere e non l'obbligo di provvedere.

E' importante tener presente che la ricorrenza dei presupposti procedurali, temporali e documentali previsti dalla legge perché si formi la fictio iuris non comporta che il silenzio-significativo sia comunque legittimo. Le esigenze procedimentali e di rapidità del traffico giuridico non possono violare il principio costituzionale di legalità.

La disciplina del silenzio-assenso si articola nei seguenti punti:a) l'interessato, con la propria domanda, deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. Quando la legge impone particolari requisiti soggettivi, la denuncia e la domanda devono contenere anche i dati necessari per verificare il possesso o il conseguimento dei requisiti stessi;b) “qualora la denuncia o la domanda del privato non siano regolari o complete,

l'Amministrazione ne dà comunicazione al richiedente entro dieci giorni indicando le cause di irregolarità o di incompletezza;c) l'atto di assenso si considera formato se la domanda ha tutti i requisiti richiesti, cioè tutti i requisiti di forma, di adempimento, di oneri e di tempo;d) quando sia prescritto il versamento di un contributo o di una tassa in relazione

all'emanazione di un provvedimento, il contributo o la tassa sono comunque dovuti;e) il termine per la formazione del silenzio-assenso può essere interrotto una sola volta dalla p.A. Esclusivamente per la tempestiva richiesta all'interessato di elementi integrativi;f) è controverso se debba darsi luogo alla fase di partecipazione;g) l'Amministrazione non ha il dovere di emanare in provvedimento espresso, ma una semplice facoltà.;h) decorso il termine l'Amministrazione è privata della titolarità del potere di prevedere in maniera espressa;i) l'atto di assenso, ove legittimamente formato, può essere annullato dalla p.A. Attraverso i normali poteri di autotutela;

Quest'ultima disposizione denota con chiarezza la natura provvedimentale del silenzio-assenso.

16. Il silenzio-rifiuto (o silenzio-inadempimento).

Con il termine silenzio-rifiuto si indica quella situazione che si verifica nel caso in cui venga presentata un'istanza alla p.A. E quest'ultima, pur avendone l'obbligo di provvedere rimanga inerte. La nozione del silenzio-rifiuto è frutto dell'elaborazione del giudice amministrativo che ha anche indicato come “costruire” il silenzio. Invece che nella legge, il silenzio-rifiuto trova la propria origine nella costruzione giurisprudenziale mossa soprattutto dall'esigenza di porre dei limiti all'inerzia della p.A. e ad assicurare agli amministrati un minimum di garanzia.

Ove l'Amministrazione abbia l'obbligo di provvedere, decorsi 60 giorni dall'istanza (o il termine previsto per legge) senza che essa abbia avuto esito, l'interessato deve notificare una formale diffida a provvedere, assegnando all'Amministrazione un termine

non inferiore a 30 giorni. Decorso anche tale termine senza alcuna risposta, si forma il silenzio-rifiuto impugnabile davanti al giudice amministrativo.

L'inerzia dell'Amministrazione, fatta constatare attraverso la diffida, o comunque ricavabile ex se dal dettato della legge, si configura come un inadempimento. A differenza di quanto avviene nelle ipotesi di silenzio-significativo, il decorso del termine non priva la p.A. del potere di provvedere, salve le responsabilità dei funzionari e dell'Amministrazione in sede civile.

17. La denuncia di inizio attività (d.i.a.).

L'art. 19 della 241/90 ha dato carattere generale all'istituto, prima previsto episodicamente della denuncia di inizio attività. Per effetto di questa disposizione, che introduce una sorta di autoamministrazione, non è più necessario l'atto di consenso, comunque denominato, laddove la normativa caratterizzi tale atto con 3 elementi concorrenti:a) deve fondarsi su un mero accertamento dei presupposti e dei requisiti prescritti, senza l'esercizio di poteri discrezionali;b) non vi siano esperimenti di prove che comportino valutazioni tecnico-discrezionali per addivenire a tale accertamento;c) non esistano limiti di contingenti complessivi per il rilascio degli atti stessi.

Sono espressamente escluse dal regime delle d.i.a. le concessioni edilizie. L'interessato ad esercitare un'attività per la quale ricorrono tali presupposti deve denunciare l'inizio dell'attività all'Amministrazione competente. La denuncia si distingue dalla richiesta di provvedimento amministrativo, rappresentando una semplice informativa all'Amministrazione sul proprio progetto di attività.

L'attività può essere esercitata subito dopo la denuncia (o decorso il termine di legge). La denuncia di inizio dell'attività da parte dell'interessato ha una duplice rilevanza giuridica: da un lato è fatto legittimante ex lege all'esercizio dell'attività in questione; dall'altro dà avvio al procedimento amministrativo di verifica.

Quando la verifica abbia esito positivo l'Amministrazione si limita a disporre un atto interno di chiusura del procedimento. Quando la verifica abbia esito negativo l'Amministrazione dispone con provvedimento motivato di cessare la prosecuzione dell'attività e la rimozione dei suoi effetti. Ogni volta che sia possibile, l'Amministrazione prefigge un termine agli interessati al fine di far conformare la loro attività alla normativa vigente.

Il potere di verifica deve essere esercitato entro termini prefissati. Decorso tale termine il potere di verifica, e soprattutto il consequenziale potere inibitorio, si consumano, ma all'Amministrazione residuano i generali poteri di controllo.

Molto controverso è il problema della tutela dei terzi danneggiati da attività svolte sulla base di d.i.a.; questo perché non v'è un provvedimento contro cui proporre ricorso giurisdizionale. Oltre alla possibilità di adire al giudice civile ogni qualvolta siano lesi diritti soggettivi, esiste anche una possibile tutela avanti il giudice amministrativo. Infatti il terzo che subisca un pregiudizio dalla d.i.a., è titolare dell'interesse legittimo ad attivare e promuovere il potere amministrativo di vigilanza e di repressione. A tal fine il soggetto leso potrà mettere in mora l'Amministrazione con atto di diffida e in caso di inerzia ricorrere in sede giurisdizionale avverso il silenzio-rifiuto.

Sezione IX: L'integrazione dell'efficacia.

1. Premessa.

Una volta adottato il provvedimento finale, se pur formalizzato, sottoscritto, datato, non sempre con ciò esso acquista efficacia; cioè non sempre è suscettibile di produrre gli effetti giuridici tipici del provvedimento stesso. L'efficacia (o operatività) si raggiunge solo se e quando verranno posti in essere determinati atti e/o operazioni.

La fase volta a realizzare tali atti e/o operazioni si chiama “fase integrativa dell'efficacia” perché appunto senza di essa, il provvedimento è perfetto, in quanto ormai costituito, ma non efficace. E' una fase eventuale: vi sarà tutte le volte in cui la legge stabilisce che è necessaria tale fase o quando il provvedimento ha caratteristiche tali per cui è indispensabile che venga comunicato al destinatario.

Le condizioni di efficacia più ricorrenti sono il controllo e la comunicazione. Tuttavia vi sono altre ipotesi di integrazione dell'efficacia, in genere determinate da adempimenti a carico del destinatario (tassa, giuramento, ecc...).

2. Controlli

I provvedimenti amministrativi possono essere sottoposti a controllo da parte di un'altra autorità, volto a verificare la legittimità dei provvedimenti stessi. I controlli che stiamo esaminando, che vengono definiti preventivi, intervengono dopo la perfezione dell'atto ma prima della sua entrata in vigore.

Per principio generale, il controllo retroagisce al momento dell'adozione del provvedimento, sicché è dalla data di quest'ultimo che si valutano i presupposti di diritto e di fatto per la legittimità del provvedimento; mentre l'acquisizione di efficacia dalla data di adozione riverbera i suoi effetti su ogni altro atto successivo e consequenziale che sia stato adottato in pendenza della condizione di efficacia.

3. La notificazione o comunicazione individuale e gli atti recettizi.

La comunicazione è un'operazione avente lo scopo di portare a conoscenza un atto a un soggetto. La comunicazione può essere individuale o rivolta a categorie indeterminate di soggetti. Come regola generale, l'efficacia del provvedimento amministrativo non è subordinata alla comunicazione dello stesso al destinatario. La regola ha numerose eccezioni. Nello specifico per gli atti che restringono le facoltà dei destinatari o costitutivi di obblighi. Essi si definiscono recettizi, il che significa che la fase di comunicazione costituisce elemento costitutivo non dell'atto bensì dell'effetto tipico del provvedimento. In altre parole, negli atti recettizi la fase d'integrazione dell'efficacia del provvedimento viene a comprendere l'atto di partecipazione, elemento costitutivo dell'esecutività, prima del quale sussiste una vera e propria impossibilità giuridica alla produzione degli effetti: questi non operano se non dal momento in cui il destinatario è posto nella conoscenza legale dell'atto.

Da tenere presente che il provvedimento recettizio è già perfetto al momento della sua adozione, cioè al momento in cui si conclude la fase costitutiva. Così, se nelle more della

comunicazione cambia la normativa, ciò non incide sulla validità dell'atto, che si è concretizzato secondo la normativa del tempo dell'adozione.

Nel caso in cui il destinatario neghi di aver ricevuto la notificazione o la comunicazione sarà l'Amministrazione che dovrà provare di aver adempiuto a tale onere.

4. Pubblicazione.

Per tutta una serie di atti, la legge o il regolamento statale o regionale o lo statuto provinciale o comunale prevedono l'obbligo della loro pubblicazione. A differenza delle comunicazioni, che sono rivolte ai soggetti contemplati nell'atto, la pubblicazione si rivolge a soggetti non espressamente indicati nell'atto, anche se ne sono destinatari.

Non tutte le volte in cui è prevista la pubblicazione questa ne condiziona l'efficacia. Quando la pubblicazione ha funzione costitutiva dell'effetto giuridico, abbiamo anche qui un atto recettizio. In ogni caso la comunicazione nelle sue varie forme è curata dal responsabile del procedimento.

Sezione X: Tipologia ed esemplificazione dei procedimenti amministrativi.

1. Tipi di procedimenti.

Nella sterminata casistica dei procedimenti è però possibile procedere a classificazioni. Una classificazione che risponde ad esigenze di regolazione e di interpretazione giuridica, poiché a ciascun tipo corrispondono specifici principi, è quella che fa leva sugli effetti del provvedimento terminale:

a) procedimenti volti all'emissione di atti normativi e a contenuto generale: non val l'obbligo di motivazione e non si applicano le norme sulla partecipazione;b) procedimenti di pianificazione e programmazione: non v'è una specifica tipizzazione di tali procedimenti. Si evince dall 241/90 un tipo di procedimento volto all'elaborazione di piani o programmi, cioè di misure coordinate e proiettate nel tempo di interventi pubblici e/o privati in un determinato settore o in determinate aree geografiche, in genere accompagnate da misure precettive, da agevolazioni, da obiettivi, da limiti temporali e talvolta dalla ripartizione di risorse economiche. Ad essi non si applicano le norme sul procedimento amministrativo (accesso, partecipazione, motivazione);c) procedimenti di massa: dai procedimenti di pianificazione e di programmazione vanno distinti i procedimenti di massa; se infatti questi ultimi ricomprendono taluni procedimenti di pianificazione, comprendono anche procedimenti non riconducibili a piani o programmi. Si definiscono procedimenti di massa quelli nei quali sono parti una molteplicità di persone, che possono essere migliaia e migliaia. Ad oggi i procedimenti di massa non hanno una disciplina ad hoc;d) procedimenti di valutazione comparativa concorrenziale: si distinguono in due sottocategorie: a) i procedimenti concessori e b) i procedimenti concorsuali. Nel caso a) è caratteristico il principio della pubblicità della domanda e dell'obbligo di comparazione tra le eventuali domande concorrenti. La giurisprudenza ha più volte rilevato che la regola dell'esame comparativo è principio generale in tema di conferimento di concessioni amministrative. Nel caso b) i procedimenti concorsuali sono volti alla selezione di persone idonee a coprire un posto nelle Amministrazioni pubbliche

o comunque ad avere un'investitura di funzioni pubbliche. Anch'essi sono caratterizzati dal giudizio comparativo. Solo che mentre nei procedimenti concessori la scelta si basa in via prevalente su ragioni di interesse pubblico, nei procedimenti concorsuali la scelta avviene sulla base di parametri oggettivi e di giudizi sulla preparazione tecnica dei concorrenti;e) procedimenti tributari: sono quelli volti alla determinazione dei tributi. Non sono soggetti al capo III della 241/90; per quanto l'imposizione tributaria sia manifestazione di potestà amministrativa, essa ha una sua specificità, una minuziosità di disciplina, taluni istituti del tutto particolari, una serie di garanzie codificate nello statuto del contribuente, una giurisdizione speciale, così i relativi procedimenti non sono assolutamente accostabili agli altri procedimenti amministrativi;f) procedimenti autorizzatori: la determinazione della categoria delle autorizzazioni non risponde a criteri univoci. Si può osservare che si tratta di procedimenti in cui la discrezionalità è generalmente ridotta, tantoché in molti casi è prevista la formula del silenzio assenso o della d.i.a.; ma non è affatto una regola generale, basti pensare alle autorizzazioni di polizia;g) procedimenti cautelari: sono i provvedimenti volti ad adottare misure urgenti e temporanee. I provvedimenti cautelari sono destinati ad essere superati da provvedimenti definitivi che si basano su di un'istruttoria completa;h) procedimenti ablatori: sotto tale categoria si inseriscono i procedimenti rivolti a soggetti determinati che conducono a prestazione di fare o di non fare. Possono riguardare diritti reali, diritti personali, diritti di obbligazione e anche diritti fondamentali della persona umana. I procedimenti ablatori sono sottoposti alla riserva di legge relativa. Al pari di tutti gli atti “limitativi” i provvedimenti ablatori devono essere ampiamente motivati, devono contemperare l'interesse pubblico con gli interessi privati coinvolti e soprattutto sono revocabili, salvi i limiti di legge e gli effetti ormai già prodottisi;i) procedimenti di esecuzione: costituiscono una sottocategoria dei procedimenti ablatori. Sono manifestazioni del potere della p.A. di soddisfare le proprie pretese in via di autotutela. Si parla in proposito di procedure di esecuzione forzata amministrativa.;l) procedimenti sanzionatori: sono quelli volti a punire comportamenti contra legem. Si è soliti distinguere tra misure ripristinatorie che colpiscono la res illicita e sanzioni afflittive, che colpiscono l'autore dell'illecito. Le seconde hanno dunque una funzione dissuasiva, ma non pongono fine al fatto contra legem. Sanzione ripristinatoria è l'ordine di demolizione di un edificio abusivo; sanzione afflittiva è l'ingiunzione di pagare una somma di denaro per violazione delle norme sulla circolazione stradale. Una regola generale delle sanzioni è la loro tipicità: la legge deve espressamente prevedere sia il comportamento illecito sia la relativa sanzione;m) procedimenti di secondo grado: sono quelli rivolti ad un riesame dei provvedimenti. Essi si concludono perciò con provvedimenti di annullamento, di revoca, di modifica, di conferma, di sanatoria;n) procedimenti contrattuali: sono quelli volti a stipulare contratti con privati;o) procedimenti tariffari: sono quelli volti alla determinazione di tariffe e prezzi. La loro natura di atti amministrativi generali ne esclude la sottoposizione alle regole del capo III della 241/90.