Direzione generale della Traduzione – Commissione europea

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SOMMARIO PAG PER CONOSCERSI MEGLIO: Intervista a Elisa Ranucci-Fischer, Capo dell’Unità B-IT-3 (Daniela Murillo Perdomo) 2 BELLA O FEDELE: Tradurre voci (Cristina Cona) 4 NUOVI CONFINI: Malta: cavalieri, pirati e turisti (Clara Breddy-Buda) 6 Foto (Clara Breddy-Buda) RICEVIAMO E nEUologisms: produttività lessicale VOLENTIERI PUBBLICHIAMO: del linguaggio comunitario (Giuditta Caliendo ex-tirocinante) 8 NOTE TERMINOLOGICHE: (D)evolution of the species o una specie di devoluzione? (Cristiano Maria Gambari) 11 CULTURALIA: Passa porta (Giulia Gigante) 13 VARIE: E adesso ci chiudono anche il CID (La redazione) 14 Morte di un bibliotecario vittima della modernizzazione: sottotitolo: il “cantar del cid” (Daniela Murillo Perdomo) 15 BUONE FESTE: Fotografie e Calendario 2005 (pagina da staccare) 16 Comitato di redazione: C. Breddy, C. Cona, R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, C. Gracci, D. Murillo-Perdomo, E. Ranucci Fischer, D. Vitali Collaboratori: Giuditta Caliendo Grafica: A. A. Beaufay-D’Amico (Anna-Angela.Beaufay-D'[email protected]) 30 Dicembre 2004 trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm

Transcript of Direzione generale della Traduzione – Commissione europea

SOMMARIO PAG PER CONOSCERSI MEGLIO: Intervista a Elisa Ranucci-Fischer, Capo dell’Unità B-IT-3 (Daniela Murillo Perdomo) 2

BELLA O FEDELE: Tradurre voci (Cristina Cona) 4

NUOVI CONFINI: Malta: cavalieri, pirati e turisti (Clara Breddy-Buda) 6 Foto (Clara Breddy-Buda)

RICEVIAMO E nEUologisms: produttività lessicale VOLENTIERI PUBBLICHIAMO: del linguaggio comunitario (Giuditta Caliendo ex-tirocinante) 8

NOTE TERMINOLOGICHE: (D)evolution of the species o una specie di devoluzione? (Cristiano Maria Gambari) 11

CULTURALIA: Passa porta (Giulia Gigante) 13

VARIE: E adesso ci chiudono anche il CID (La redazione) 14

Morte di un bibliotecario vittima della modernizzazione: sottotitolo: il “cantar del cid” (Daniela Murillo Perdomo) 15

BUONE FESTE: Fotografie e Calendario 2005 (pagina da staccare) 16

Comitato di redazione: C. Breddy, C. Cona, R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, C. Gracci, D. Murillo-Perdomo, E. Ranucci Fischer, D. Vitali Collaboratori: Giuditta Caliendo

Grafica: A. A. Beaufay-D’Amico (Anna-Angela.Beaufay-D'[email protected])

30 Dicembre

2004

trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea

http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm

per conoscersi meglio

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Si tratta di valorizzare e rendere facilmente accessibili i risultati della ricerca terminologica effettuata dai colleghi, cercando nel contempo di concordare metodi e procedure che la rendano sempre più affidabile. Parallelamente è essenziale che la buona terminologia non resti confinata nei glossari, ma entri nel circuito delle memorie di traduzione, diventando patrimonio comune di tutti i traduttori.

Ti parrebbe interessante che venisse creata una rete di collaborazione con i servizi di traduzione delle altre istituzioni comunitarie e con quelli esistenti presso i ministeri italiani e la Cancelleria federale svizzera?

La collaborazione con le altre istituzioni comunitarie rientra ormai fra gli obiettivi della nostra direzione generale e i suoi vantaggi in termini di sinergie e utilizzazione ottimale delle risorse sono evidenti. La nuova base terminologica IATE è una base interistituzionale, la collaborazione tra i servizi giuridici della Commissione e del Consiglio ha portato alla definizione di modelli comuni per gli atti legislativi e la creazione della base Elise dovrebbe contribuire o migliorare la comunicazione tra Commissione, Consiglio e Parlamento per quanto riguarda l’intero iter legislativo. Sarebbe utile però che ci fossero anche iniziative «dal basso» che promuovessero la comunicazione, il confronto e lo scambio di buone pratiche tra tutti i servizi di traduzione delle istituzioni comunitarie.

Con la Cancelleria federale svizzera sarebbe sicuramente utilissimo rinsaldare i rapporti che tu stessa hai avviato in passato. Il fatto che l’italiano sia una delle lingue ufficiali della

L’essere stata «coordinatrice linguistica» influenza in qualche misura il tuo modo di gestire l’unità?

Certamente. In quella veste il problema di cui mi sono occupata di più è stato quello della qualità della traduzione e delle strategie da attuare per mantenerla e migliorarla. Come capo unità debbo passare dalla teoria alla pratica: si tratta di far fronte a tutti i problemi quotidiani della gestione senza perdere di vista questo obiettivo di fondo e cercando anzi di farne un obiettivo condiviso da tutti i membri dell’unità.

Secondo te è importante avere una «memoria terminologica dell’unità»?

Lo considero uno strumento indispensabile per garantire la qualità delle traduzioni, in termini di pertinenza e di coerenza, soprattutto in un’unità come la nostra, in cui dobbiamo affrontare argomenti di alta tecnicità. Unità DGT-IT-3

Intervista a Elisa Ranucci-Fischer, capo dell’Unità IT-03

per conoscersi meglio

Confederazione elvetica ci permette di disporre di una base legislativa trilingue che spesso può rivelarsi preziosa, ad esempio nel caso delle convenzioni internazionali a cui questo paese ha aderito prima dell’Italia o dell’Unione europea.

Anche se le scelte dell’italiano «svizzero» non possono essere sempre riprese automaticamente nelle nostre traduzioni, per ragioni giuridiche prima ancora che linguistiche, il confronto con il lavoro di traduzione e di ricerca terminologica dei nostri colleghi della Cancelleria federale non può che essere proficuo per entrambe le parti.

Lo stesso discorso vale per i ministeri e le altre istituzioni italiane in cui è attivo un servizio di traduzione. A questo livello i contatti sono ancora allo stato embrionale, ma è evidente che è nel nostro interesse conoscere meglio queste realtà e individuare le forme più opportune di collaborazione, nel rispetto della specificità di ciascuno.

Puoi farci una rapida presentazione della tua unità indicandone le competenze e le caratteristiche?

L’unità IT-3 è nata dalla fusione di una parte dell’ex unità C, di cui ha ripreso le competenze in materia di agricoltura e pesca, con l’unità E, storicamente l’unità italiana più specializzata nella traduzione tecnico-scientifica. I nostri clienti «specifici» in ordine di importanza sono la DG Agricoltura e sviluppo rurale (29,42%), la DG Trasporti ed energia (19,40%), la DG Ambiente (14,73%), la DG Ricerca e sviluppo (7,24%), la DG Pesca (6,74%), la DG Società dell’informazione (3,93%) e il Centro comune di ricerca (1,84%).

Molti di questi settori sono caratterizzati da tecnologie di punta, in costante evoluzione, e questo ci impone un aggiornamento continuo delle nostre competenze, il che rende il nostro lavoro non facilissimo, ma certo estremamente interessante.

Avere poi come clienti principali la DG AGRI e la DG Trasporti ed energia, molto attive sul piano legislativo, fa sì che oltre il 25% delle pagine da noi tradotte rientrino nella categoria dei testi normativi, una media nettamente superiore sia a quella della direzione generale della traduzione (15,29%), che a quella dell’intero dipartimento italiano (18,81%). È per questo che la nostra unità è particolarmente interessata alla messa a punto di modelli, alla standardizzazione delle traduzioni di tipo legislativo e alla creazione di una specifica memoria normativa per la traduzione assistita.

Per quanto riguarda le lingue da cui traduciamo, non ci discostiamo molto dalle medie del dipartimento italiano: oltre il 96% delle pagine sono tradotte dall’inglese (61%) e dal francese (35%); seguono a grandissima distanza lo spagnolo (1,58%,) e il tedesco (1%), mentre le pagine redatte nelle altre 15 lingue comunitarie rappresentano meno dell’1% del totale. Quanto alle «risorse umane», l’unità IT-3 è caratterizzata da un nucleo di traduttori di grande competenza, con molti anni di esperienza e che costituiscono la memoria storica dell’unità, affiancati da un gruppo di colleghi più giovani, assai attivi e vivaci e dotati di un sano spirito critico. Se aggiungiamo una segreteria con forti personalità e grandi capacità di lavoro, otteniamo una squadra molto vitale e stimolante, con cui è molto piacevole lavorare e pressoché impossibile annoiarsi…

Daniela Murillo Perdomo

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bella o fedele TRADURRE LE VOCI

Abbiamo già narrato qualche tempo fa (Tracce n. 15) la genesi dell’Authorized Version, o King James Version, la grande traduzione inglese della Bibbia (1611) le cui basi furono gettate dall’opera instancabile e coraggiosa di William Tyndale. A questa prima versione hanno fatto seguito numerose altre, motivate o da quella che veniva avvertita come la necessità di correggere gli errori di interpreta-zione di un periodo in cui gli studi biblici si trovavano in una fase meno avanzata, o dal desiderio di rendere più moderno ed accessibile il linguaggio dei sacri testi.

Recentemente è uscita negli Stati Uniti, con il titolo « The Five Books of Moses », una traduzione del Pentateuco, o Torah (i primi cinque libri dell’Antico Testamento: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio) ad opera di Robert Alter, critico letterario, esegeta biblico e profondo conoscitore dell’antico ebraico, che chiarisce così nel prologo i motivi che lo hanno spinto ad intraprendere questo lavoro:

« Broadly speaking, one may say that in the case of the modern versions, the problem is a shaky sense of English and in the case of the King James Version, a shaky sense of Hebrew. The present translation is an experiment in re-presenting the Bible - and, above all, biblical narrative prose - in a language that conveys with some precision the semantic nuances and the lively orchestration of literary effects of the Hebrew and at the same time has stylistic and rhythmic integrity as literary English ».

Per Alter l’ebraico della Bibbia è una lingua « conventionally delimited », più o meno analoga da questo punto di vista al francese del teatro neoclassico, una lingua scarna sotto il profilo lessicale e da rendersi pertanto in un inglese stilizzato e decoroso, caratterizzato dalla bellezza e della gravità del ritmo, nonché da qualità di concretezza e precisione spesso trascurate da precedenti traduttori che perseguivano fini extralinguistici o che, decisi a rendere le sfumature di significato rese necessarie da contesti diversi (come è successo specialmente nell’ultimo secolo), si sono sforzati di allargare il novero dei termini utilizzati al di là del vocabolario estremamente ristretto dell’originale.

Alter, al contrario, ha ritenuto fondamentale riprodurre in traduzione lo stile biblico e le norme ben precise che lo reggono, anche utilizzando, da un episodio all'altro e all’interno dei singoli episodi, una serie di parole chiave che dovrebbero fungere da « chief means of thematic exposition », ossia a focalizzare l’attenzione del lettore sul tema di fondo delle storie narrate: rispecchiando in ciò fedelmente le caratteristiche dell’originale ebraico, che trova la sua forza espressiva proprio nella ripetizione di certi termini particolarmente vividi e pregnanti.

Fra queste parole chiave vi è ad esempio « kol » (voce), concetto che attraversa come un filo rosso il ciclo di storie imperniate sulle due matriarche, Sara e Rebecca. Quando Sara ingiunge ad Abramo di abbandonare nel deserto Agar ed Ismaele, Dio gli ordina, nella versione di Alter : « Whatever Sarah says to you, listen to her voice », mentre altre traduzioni hanno optato, ad esempio, per « Do whatever Sarah tells you »; ma la parola « voice » ritorna, con una sorta di parallelismo, nell’episodio che fa da pendant a questo, allorché un messaggero divino annuncia ad Agar che il Signore salverà lei e il figlio perché ha sentito la voce di Ismaele che gridava. E di nuovo: se da un lato Rebecca, instigando Giacobbe ad ingannare il padre cieco per sottrarre l'eredità ad Esaù, gli dice e gli ripete, per vincere le sue esitazioni, « listen to my voice », dall’altro il vecchio Isacco non si lascerà ingannare dalle astuzie cui ha fatto ricorso il figlio ma, ignorando la falsa evidenza dell’odorato e del tatto, riconoscerà Giacobbe proprio dalla voce.

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bella o fedele Se le recensioni che hanno salutato la pubblicazione di Five Books of Moses sono state in generale favorevoli, alcuni critici hanno avanzato riserve non soltanto su certi aspetti dell’opera, ma sui criteri stessi che l'hanno ispirata. Fra questi è il romanziere John Updike, che in un lungo articolo pubblicato in ottobre sulla rivista The New Yorker non nasconde il proprio scetticismo sulle fortune probabili di questa traduzione, a suo giudizio non certo destinata a far testo, a diventare cioè « la » versione definitiva che soppianterà in popolarità e prestigio la King James: in primo luogo perché la quantità impressionante di commenti, chiose e note esplicative, per quanto pregevoli e illuminanti, contribuisce inevitabilmente ad appesantire il testo e a renderne indigesta la lettura (un po’, si potrebbe aggiungere, come certe edizioni annotate dei grandi romanzi che finiscono per trasformare il piacere del libro in una corvée a forza di delucidazioni e rimandi a tutte le possibili lezioni uscite dalla penna dell’autore); in secondo luogo perché, volendo perseguire a tutti i costi la fedeltà all’originale e insistendo a rendere ogni sfumatura di significato, comprese le ambiguità e i giochi di parole, si finisce talvolta con lo stravolgere la lingua inglese, dando luogo a formulazioni sintatticamente tortuose e certo meno belle di quelle dell'Authorized Version. Prendiamo ad esempio l’esordio della Genesi, che così suona nella versione King James: In the beginning God created the heaven and the earth. And the earth was without form, and void; and darkness was upon the face of the deep. And the Spirit of God moved upon the face of the waters. And God said, Let there be light: and there was light.

Alter ha tradotto come segue: When God began to create heaven and earth, and the earth then was welter and waste and darkness over the deep and God’s breath hovering over the waters, God said, « Let there be light »: and there was light.

Fra le due, la prima ci sembra più intelligibile e stilisticamente ordinata, nonché scandita secondo criteri di maggiore armonia e scorrevolezza (basta leggerla ad alta voce per sentire la differenza), « clearer narrative and great poetry », secondo la definizione di Updike, anche ammettendo che la seconda sia più aderente al testo ebraico.

Il principale ostacolo alla « canonicità » dell’opera di Alter resta comunque il fatto che la versione King James non è soltanto una traduzione della Bibbia, ma anche e forse soprattutto uno dei capisaldi della lingua inglese. La sua influenza, pari soltanto a quella di Shakespeare, si è fatta e si fa ancora sentire ben al di là dell’ambito religioso; le espressioni in essa usate sono diventate parte integrante del lessico quotidiano nei paesi anglofoni (e poco importa, in questo senso, che alcune di queste espressioni risultino essere traduzioni inesatte). Un’opera che nel corso dei secoli è riuscita ad acquisire uno spessore non solo linguistico, una risonanza emotiva e letteraria, una voce, insomma, che ne fanno un classico nel senso più pieno del termine, difficilmente può essere spodestata da una nuova versione che magari presenta indubbi pregi sotto il profilo dell’attendibilità linguistica, ma la cui voce, inevitabilmente, non potrà essere ascoltata con la stessa devozione.

Cristina Cona

Fonti : Judith Shulevitz, From God’s Mouth to English, New York Times, October 17, 2004. John Updike, The Great I Am - Robert Alter’s new translation of the Pentateuch, The New Yorker, November 1st, 2004.

NOTA:

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nuovi confini

Malta, Melita o Maleth, a seconda se si sceglie il nome arabo, quello latino o quello fenicio, è una terra antica, colonizzata un po’ da tutti, crocevia di culture e punto d’incontro di popolazioni da circa 7000 anni.

Templi preistorici dalle dimensioni impressionanti testimoniano la presenza di un'antica civiltà neolitica, evoluta e misteriosa, che ha preceduto addirittura le piramidi di Giza. Altri reperti ci parlano della presenza dei Fenici e addirittura di San Paolo Apostolo, naufrago e rigioniero sull’isola nel 60 d. C.

Si può tuttavia affermare che il ruolo più importante Malta lo abbia svolto nel XVI° secolo, quale baluardo del cristianesimo contro gli ottomani e di questa gloriosa epopea sono presenti numerosi vestigi. Carlo V aveva affidato il piccolo e brullo arcipelago all’Ordine degli Ospedalieri di San Giovanni, che la politica espansionista dell’impero ottomano aveva costretto a lasciare Rodi, incaricandolo di difendere i valori cristiani da una nuova postazione.

In cambio chiedeva un compenso simbolico: ogni anno i cavalieri dovevano fornirgli un falco da caccia, specie presente sull’isola in abbondanza e particolarmente rinomata.

Da qui ebbe origine la leggenda del « Falcone maltese », che ha ispirato scrittori come Dashiell Hammett e anche registi di Hollywood (The Maltese Falcon, di John Huston).

I turchi erano potenti e decisi a conquistare l’isola. Inflissero ai cavalieri una serie di dure sconfitte, ma nel 1565, grazie alle fortificazioni quasi inespugnabili costruite dal Gran Maestro Jean Parisot de la Valette, i maltesi riuscirono a resistere ad un lungo assedio in attesa dei rinforzi inviati con tutta calma dalla Spagna. Decimati e demoralizzati, i turchi si ritirarono e iniziò così il declino della loro potenza nel Mediterraneo. Oltre ad essere dei formidabili guerrieri, i cavalieri erano anche costruttori e uomini di cultura, come testimonia il notevole patrimonio artistico che costituisce una delle tante attrattive delle isole.

Il declino dei cavalieri coincise con la Rivoluzione francese, ma il dominio francese dell’isola fu di breve durata. I maltesi chiesero l’aiuto dell’Inghilterra per sbarazzarsi degli odiati dominatori e gli inglesi rimasero fino al 1964, data dell’indipendenza del paese.

MALTA: cavalieri, pirati e turisti

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Anche escludendo i luoghi del turismo balneare, frequentati quasi esclusivamente da anglosassoni pallidi, che sbarcano numerosissimi dai frequenti voli della British Airways, attirati dal fatto che possono continuare a parlare la loro lingua in un paese dove il sole e l’esotismo sono garantiti, per fortuna di località interssanti sia a Malta che a Gozo ne rimangono ancora molte. Fra tutte, Mdina, l’antica capitale, arroccata e silenziosa. Gli abitanti sono appena 400 e sono pochi anche i turisti che passeggiano fra palazzi aristocratici, imponenti bastioni, conventi e chiese barocche di pietra dorata, nelle stradine pulitissime dove riecheggiano i loro passi.

A Gozo, Ogigia per Omero, Ulisse dimenticò la guerra, il viaggio di ritorno a casa, la moglie fedele e rimase sette anni soggiogato dalla bellezza di Calypso.

Ma Malta non è solo storia e leggende. Con l'ingresso nell'UE e la prospettiva della creazione della zona di libero scambio euromediterranea nel 2010, Malta rappresenta più che mai l’aspetto mediterraneo dell’Unione, non più baluardo contro un ipotetico invasore o realtà marginale, ma punta avanzata del dialogo e della collaborazione pacifica per evitare lo scontro fra civiltà.

Clara Breddy-Buda

nuovi confini

MALTA: cavalieri, pirati e turisti

Gli inglesi hanno lasciato, oltre alle inconfondibili cabine telefoniche e buche delle lettere, anche la loro lingua. È uno strano inglese dai suoni gutturali, che tutti parlano senza problemi, ma che chiaramente è solo la seconda lingua del paese (l’italiano è la terza). Il maltese, lingua di origine semitica, scritta con caratteri latini, è la lingua della popolazione. Alcuni linguisti ne fanno risalire le origini all’occupazione fenicia, ma è più probabile una semplice origine magrebina, più recente e prosaica (il periodo di dominazione musulmana va dall’870 al 1091 d. C.). Per secoli il maltese ha resistito all’influenza delle lingue romanze, anche se ha assimilato molti vocaboli siciliani, italiani, inglesi e francesi. Oltre ai prevedibili «grazzi, bonġornu, bonasira» ecc. citiamo anche jiddispjaċini » per « scusi » e « miskin » per « poveretto », che sembrano usciti da un libro di Camilleri. In fondo, la Sicilia dista meno di cento chilometri.

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nEUologisms: produttività lessicale del linguaggio comunitario[1]

riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il linguaggio delle istituzioni europee attira l’attenzione sempre crescente di studiosi di linguaggi specialistici che lo identificano come strumento di una nuova comunicazione interculturale e transfrontaliera. Il linguaggio comunitario deriva dal contributo delle singole lingue nazionali e, come una lingua franca, funge da veicolo per il dialogo di venticinque Stati membri, ognuno distinto per diversa cultura e tradizione giuridica. Il suo lessico specialistico si arricchisce costantemente di nuovi termini atti ad esprimere concetti innovativi di politica comunitaria: nuove misure o procedure che, benché prive di un esatto corrispettivo a livello nazionale, andranno tradotte in tutte le venti lingue ufficiali. Riflettendo le continue evoluzioni in atto nella sfera politica, economica e sociale dell’Unione, il linguaggio comunitario diviene un meccanismo linguistico altamente produttivo e si infiltra in modo crescente nei tessuti linguistici nazionali, anche grazie ad intermediari quali fonti di politica interna e canali d’informazione locali. La ricchezza terminologica è sollecitata dagli incontri fra tanti idiomi diversi, come i dibattiti politici o la stesura di testi legislativi multilingue, ed è garantita dal contributo dei traduttori che sfruttano le risorse interne di una lingua evitando un pedissequo uso di prestiti. Come in ogni comunità linguistica, anche a livello comunitario lo sviluppo di neologismi segue svariati percorsi di formazione. Gran parte di questi nuovi termini è coniata in testi di diritto primario; i trattati conferiscono infatti una base giuridica ai nuovi strumenti politici e legislativi che vanno poi ‘etichettati’ in tutti gli Stati membri nelle rispettive lingue nazionali.

Il Trattato sull’Unione europea è considerato ad esempio una delle fonti terminologiche più copiose. Il documento di Maastricht ha dato ufficialmente vita alla stessa “Unione europea” e ha battezzato per la prima volta concetti chiave come “sussidiarietà” o “acquis comunitario”, senza menzionare il ricchissimo contributo terminologico offerto nell’area di Giusitizia e Affari Interni. Benché alcuni concetti nuovi siano già espressi da termini esistenti in una delle lingue nazionali (Wagner et al. 2002: 64), la coniazione di un neologismo (una ‘etichetta comunitaria’) si rivela estremamente utile per evitare possibili confusioni con parole già pregne di un proprio valore semantico, ma soprattutto per delineare un confine più netto fra lo specifico contesto nazionale e il quadro comunitario. Goffin (1994: 639) esamina altri meccanismi di produzione lessicale da cui possono emergere quelli che lui definisce neologismi semantici, morfologici e metaforici. I neologismi di natura semantica sono parole che, ‘sottratte’ ad un linguaggio specialistico, si vestono di nuove accezioni in ambito comunitario. Questi termini sono in qualche modo ‘riscoperti’ ed impiegati in un contesto nuovo, con orizzonti di significato più aperti. Il processo di ‘amplificazione semantica’ riguarda ad esempio la parola “sostenibilità”, originariamente impiegata nel campo dell’ecologia. L’espressione “sviluppo sostenibile” è apparsa per la prima volta nel 1987 nella Relazione della Commissione delle Nazioni Unite per l’Ambiente e lo Sviluppo che anticipava il Vertice della Terra di Rio de Janeiro del ’92 e che stabiliva il legame fra sviluppo socioeconomico e tutela dell’ambiente. L’espressione, che fu successivamente adottata in ambito europeo e arricchita di nuove connotazioni, ricorre oggi in svariati contesti, dalla finanza agli aiuti umanitari:

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L'assistenza comunitaria […] rientra inoltre nella campagna contro la povertà nei paesi in via di sviluppo, contribuendo quindi allo sviluppo economico e sociale sostenibile della popolazione interessata e dei paesi che l'accolgono. (Decisione 2002/223/EC del Consiglio). Ciò presenta non solo problemi di ordine politico, ma anche difficoltà economiche potenzialmente notevoli per le regioni che rimangono insufficientemente sviluppate e incapaci di generare sufficiente occupazione sostenibile. (Parere del Comitato economico e sociale GU C 241/29 - 07/10/2002). L'Unione europea invita tutte le parti ad adottare le misure necessarie per agevolare le trattative di pace e ad adoperarsi attivamente per pervenire ad una pace giusta e sostenibile. (Bollettino UE 10-2002. Politica estera e di sicurezza comune 30/32). [...] mantenere la stabilità macroeconomica e di bilancio, al fine di assicurare la sostenibilità a medio termine delle finanze pubbliche. (Decisione 2002/91/EC del Consiglio). La categoria dei neologismi morfologici è invece rappresentata da parole modificate nella forma e nel senso da meccanismi di affissazione. “Euro-” rimane indiscutibilmente il prefisso più produttivo e i neologismi che ne derivano tempestano le pagine dei quotidiani: parole come “Eurolandia”, “eurotassa” o “euroscetticismo” sono trasparenti al lettore, sintetiche e ben si adattano allo stile giornalistico. Fra i più comuni suffissi compare invece “-azione”, da cui deriva la quasi impronunciabile “comunitarizzazione”, o il suffisso “-ologia”, come nel caso di “comitatologia”. Il linguaggio comunitario ricorre inoltre al potere evocativo delle metafore per esprimere nuovi significati. In tal senso le metafore sono strumenti preziosi in quanto aiutano a concettualizzare nuove idee, rinviando il destinatario del messaggio ad immagini o conoscenze precedentemente acquisite.

Le metafore del linguaggio comunitario tendono a rievocare svariati campi semantici, dall’architettura (“Architettura europea”, “pilastri dell’Unione europea”) alla geometria (“Europa a geometr ia variabile”, “ tr iangolo ist i tuzionale”, “cerchi concentrici”[ 2 ] ) . Particolarmente interessanti sono le metafore di movimento/trasporto, come “Europa a più velocità” o lo stesso “modello regata”, usati per indicare flessibilità nel processo di integrazione o di adesione all’interno dell’Unione, in cui i traguardi raggiunti dal singolo stato sono valutati su base autonoma e meritocratica. Un ulteriore gruppo di neologismi è rappresentato dai calchi, di solito riconducibili all’inglese o al francese – le due lingue principalmente usate per redigere bozze di documenti ufficiali. L’italiano, al contrario, è stato sempre associato al gruppo delle lingue ‘riceventi’. Un esempio particolare riguarda il caso “comitologia”. Il termine, relativo alla procedura dei comitati (“Decisione comitologia” 99/468/CE del Consiglio), è un evidente calco dal francese comitologie. Gallo (1999: 172) ha fatto tuttavia notare come detta opzione andasse contro le norme che regolano i meccanismi di formazione lessicale dell’italiano: sostantivo + suffisso “-ologia” (come ad esempio “mafiologia”, “tuttologia”, etc.). A questo proposito è interessante notare che, dall’analisi dei documenti legislativi più recenti, il termine viene tradotto con “COMITATOlogia”, scelta decisamente più trasparente e comprensibile al lettore: Poiché i criteri 1, 5 e 7 dell'allegato III non possono essere modificati attraverso la procedura della comitatologia, le modifiche concernenti i periodi successivi al 2012 dovrebbero essere apportate unicamente attraverso la procedura di codecisione. (Direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio).

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Altro esempio di calco riguarda l’inglese partnership. In un documento del 1990 il termine veniva lasciato in originale nella versione italiana: Whereas this Community support framework has been established in agreement with the Member State concerned through the partnership defined in Article 4 of Regulation (EEC) No 2052/88; / considerando che il presente quadro comunitario di sostegno è stato predisposto d'accordo con lo Stato membro i nteressato nell'ambito della partnership definita dall'articolo 4 del regolamento (CEE) n. 2052/88. Nella ricerca di una soluzione diversa, che non si limitasse ad adottare passivamente l’inglese, il termine venne poi sostituito con “partenariato”, un calco dal francese partenariat: Development finance cooperation shall be based on partnership, complementarity and subsidiarity […]. / La coopération pour le financement du développement est basée sur les principes du partenariat, de la complémentarité et de la subsidiarité […]. / La cooperazione per il finanziamento dello sviluppo si basa su partenariato, complementarità e sussidiarietà […]. (Council Decision 2001/822/EC). Va però sottolineato che, al di fuori dell’orbita comunitaria, questa seconda soluzione non ha del tutto attecchito nell’italiano corrente. Al contrario, partnership (come la stessa governance) tende a comparire nella versione non tradotta e ad essere impiegato come semplice prestito. Un uso dominante della parola inglese emerge anche da una rapida indagine effettuata sui siti dei due principali quotidiani italiani, Il Corriere della Sera e La Repubblica. Cercando le parole “partenariato” e “partnership” nel motore di ricerca di entrambi i siti – con un margine temporale circoscritto (01/01/2001-30/10/2004) – l’esito mostra un’evidente sproporzione nell’occorrenza dei due termini:

Ne consegue che la ricezione di neologismi di matrice comunitaria non è sempre prevedibile all’interno della comunità linguistica nazionale e che, in un certo senso, può non assecondare nell’uso quotidiano le scelte suggerite dal traduttore. Si può comunque affermare che il dinamismo lessicale del linguaggio comunitario, testimoniato da un numero sempre crescente di neologismi, è l’espressione di un continuo dialogo interistituzionale che coinvolge i vari Stati membri. Risultato del contributo lessicale congiunto delle lingue nazionali (de Groot 2000: 87), il linguaggio comunitario forgia una terminologia indipendente per dare voce ad un processo politico in costante evoluzione. La sua incidenza sulla lingua d’uso comune può essere forse discontinua, ma di certo non trascurabile.

Giuditta Caliendo (ex-tirocinante Unità B-IT-2 e CID-IT)

IL CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA

Partenariato 7 14

Partnership 39 208

Fonti citate: Gallo G., 1999, “Il Traduttore e le versioni ufficiali di riferimento. Aspetti e problemi”, Quaderni di Libri e Riviste dell'Italia/43, pp. 159-172. Goffin R., 1994, “L’Eurolecte: Oui, Jargon Communautaire: Non”, Meta 39/4, pp. 636-642. Groot G.-R. de, 2000, “Provvedimenti provvisori o cautelari nella Convenzione di Bruxelles”, in L. Schena and R. D. Snel Trampus (a cura di), Traduttori e giuristi a confronto. Interpretazione traducente e comparazione del discorso giuridico, vol. I, CLUEB, Bologna, pp. 85-91.Wagner E., S. Bech, J. M. Martìnez, 2002, Translating for the European Union Institutions, St. Jerome Publishing, Manchester. ————————————— [1] Il presente articolo riporta alcuni dati di una recente pubblicazione: Giuditta Caliendo, “EU Language in Cross-Boundary Communication”, Textus XVII, 2004, 121-140. [2] http://europa.eu.int/scadplus/leg/it/cig/g4000c.htm

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note terminologiche

Nell’introdurre la conferenza di Beppe Severgnini il presidente Prodi ha colto l’occasione per dare una scrollatina ad alcune parole d’ordine dell’attuale linguaggio politico italiano, tra cui la fatidica devolution.

Dato che, per dirla alla Guareschi, “Qui non si fa politica, qui si lavora!”, non soffermiamoci a discutere i personaggi, le ideologie ed i complotti in gioco e soffermiamoci piuttosto su questo termine inglese, entrato in modo così prepotente nel discorso.

La prima osservazione riguarda la sorpresa provocata dal fatto che a priori non c’è nessuna ragione perché questo termine debba restare in inglese, dato che è perfettamente traducibile con devoluzione di poteri.

Devoluzione è parola italianissima, di chiare origini latine, ed è possibile devolvere sia compiti che poteri: nell’ambito di un matrimonio concordatario ad esempio l’autorità de-volve al ministro del culto in questione il compito di registrare ai fini anagrafici il matrimo-nio stesso (anche la frase “I proventi della serata verranno devoluti in beneficenza” non do-vrebbe suonare precisamente nuova). Chi ha una certa dimestichezza col latino non man-cherà inoltre di notare come sotto il profilo istituzionale/amministrativo il ricorso alla pre-posizione de, che denota tra l’altro il moto dall’alto verso il basso, denoti chiaramente la maggiore importanza od autorità del soggetto che devolve rispetto a quello che beneficia della devoluzione.

Di poteri piuttosto che dei poteri perché nella fattispecie il governo centrale rinuncerebbe ad esercitare direttamente solo una parte dei poteri di cui dispone. Se si avesse devoluzione dei poteri ciò ne riguarderebbe invece la totalità ed implicherebbe dunque il venir meno (anche parziale) di un organismo, statale o d’altro genere, con conseguente devoluzione dei poteri agli organismi destinati a succedergli, per esempio nell’ipotesi di una secessione (ahia !) o di un “divorzio” alla cecoslovacca (entrambe soluzioni relativamente ordinate, e in quanto tali sostanzialmente diverse da quelle tipo il collasso iugoslavo).

Nel primo caso la devoluzione appare quindi un atto in linea di massima intrinsecamente reversibile, mentre nel secondo caso un ritorno allo status quo ante sembra alquanto problematico e presupporrebbe di fatto una nuova devoluzione dei poteri in direzione opposta.

Nell’ambito di uno Stato un’operazione di questo genere risponde tipicamente ad un intento decentratore, connesso all’ipotesi che un ordinamento costituzionale o quanto meno un assetto amministrativo più articolati siano atti a garantire un più efficiente funzionamento della compagine statale. Non mancano gli esempi storici, tra cui uno abbastanza probante è quello dell’Irlanda del Nord, che dispone di ampie autonomie tra cui addirittura di un parlamento proprio, ma si è vista revocare i poteri ad essa devoluti quando si è ritenuto che ciò fosse opportuno per contenere i disordini.

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note terminologiche

Si tratta dunque di vedere se in un dato organismo il potere è 1) centralizzato e 2) lo è in misura eccessiva. Nel caso dell’Italia che la struttura amministrativa sia molto accentrata in quanto basata su un modello franco-piemontese, per non dire napoleonico-sabaudo, improntato ad un centralismo assai spinto (in Europa siamo gli unici con la Francia ad avere le prefetture, senza contare che l’arma dei Carabinieri svolge in parte il ruolo che svolono in Russia le truppe proprie del Ministero degli interni) è un fatto indiscutibile. A questo punto bisognerebbe affrontare il problema (destinato a rimanere irrisolto in questa sede, dato che ai fini della presente discussione basta accennare alla sua esistenza) di stabilire se tale accentramento sia eccessivo o no.

Torniamo così al quesito iniziale: perché si usa il termine inglese? Ebbene, la risposta è di una banalità desolante: per via della Scozia. Alcuni anni fa per dare uno sfogo costruttivo alle tendenze autonomiste e/o separatiste manifestatesi in quella parte del Regno Unito il governo di Londra aveva infatti avviato un dibattito sulla Scottish devolution, diventata per brevità da quel momento la devolution per antonomasia e concretatasi dopo qualche anno nella concessione di larghe autonomie (tra cui un parlamento proprio) alla Scozia. (Ad evitare ogni rischio, per quanto remoto, che la Scozia e le sue vicende sfuggissero all’attenzione di un politico del Norditalia dall’oratoria, diciamo così, alquanto specializzata, da sempre paladino delle più ampie autonomie regionali, ha provveduto il film Braveheart, uscito guardacaso proprio in quegli anni, che ha riscosso un ampio successo di pubblico e – crucialmente – ha infiammato l’immaginazione del personaggio in questione). Non deve quindi sorprendere che quando il partito del senatùr è riuscito ad inserire nel programma di governo un progetto di questo tipo la denominazione inglese vi sia rimasta appiccicata, forse anche a mo’ di auspicio dato che una devoluzione di poteri alla scozzese va effettivamente piuttosto lontano.

Postilla alquanto melanconica: il fatto che né chi ha proposto il progetto, né chi l’ha discusso ovvero opposto (od avrebbe dovuto fare l’una e/o l’altra delle due cose) abbia ritenuto opportuno usare il termine italiano va forse considerato un triste indizio dell’immaturità del dibattito su questo pur importantissimo argomento. Un’altra occasione perduta?

Cristiano Maria Gambari

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culturalia

PASSA PORTA

A volte anche la poesia, i racconti e l'arte hanno bisogno di un luogo concreto in cui far risuonare la loro voce e vibrare il loro messaggio. Una casa, insomma, che faccia da punto d'incontro e crocevia tra le culture, le lingue e le concezioni di vita; che apra le porte al dialogo e alla comunicazione; che proietti su Bruxelles una luce che faccia dimenticare gli opprimenti cieli bassi e il vento di tramontana. Un’iniziativa miracolosamente congiunta dell’associazione letteraria francofona Entrez-Lire e della sua omologa neerlandofona Het Beschrjif ha portato all’apertura di questo nuovo spazio, dal nome un po’ ibrido, ma evocativo di Passa Porta. In pieno centro della città, al n. 46 della rue Dansaert, il centro Passa Porta organizza nei suoi locali incontri con scrittori di tutte le letterature, dibattiti sulla letteratura e la traduzione, letture di testi, atelier di scrittura e mostre. Il tutto in un'atmosfera conviviale con la possibilità di bere una birra o un bicchiere di vino, chiacchierando con Amitav Ghosh (indiano) o Gyorgy Konrad (ungherese), con Jamal Mahjoub (sudanese) o Ol’ga Sedakova (russa) o con qualche altro scrittore di paesi lontani e vicini, in uno spazio luminoso, circondato da scaffali pieni di libri in quattro lingue diverse (ma, purtroppo, non in italiano). Il Passa Porta è anche una casa per gli scrittori; rientra infatti nel circuito delle associazioni che offrono una residenza, temporanea s’intende, a scrittori di tutti i paesi. Finora, ne ha già ospitati, a turno, quattro, tra cui anche un italiano, Roberto Ferrucci. Le attività sono iniziate nel mese di ottobre, ma l’agenda degli appuntamenti è già molto ricca. Per il mese di dicembre sono state organizzate una serie di iniziative legate alla commemorazione della tragedia di Bhopal, un dibattito con il filosofo canadese Jacques Beaudry, un incontro con lo scrittore danese Jan Sonnergaard (in inglese) e la presentazione delle opere di un giovane scrittore del Madagascar, Jean-Luc Raharimanana (in francese). Per ora, le idee non mancano; l’auspicio è che la vena non si inaridisca e che il Passa Porta mantenga, ed eventualmente allarghi ancora, la sua vocazione multiculturale e plurilinguistica.

Giulia Gigante

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E adesso ci chiudono anche il CID

In questi ultimi anni la Commissione europea ha proceduto a rimaneggiare profondamente i propri servizi di traduzione, ora organizzati in una Direzione generale autonoma. A questo riconoscimento formale si è accompagnata una serie di iniziative improntate al risparmio di fondi e all’economia di risorse umane che continua a suscitare la nostra perplessità. Se non è nel nostro ruolo discutere le scelte strategiche imposte dall’allargamento a 9 lingue nuove, ci sembra però opportuno segnalare che alcune di queste scelte rischiano di causare un calo qualitativo delle nostre traduzioni. La decisione del Direttore generale di hiudere le biblioteche linguistiche, ad esempio, rende più difficile l’accesso alle fonti terminologiche cartacee. La successiva scelta di chiudere i CID (Centri d’informazione e documentazione) renderà molto più oneroso in termini di tempo e di lavoro l’accesso alle fonti terminologiche informatiche. Uno sguardo alla pagina del CID italiano, all’indirizzo http://www.cc.cec/DGT/cidbxl/multidoc/it/home.htm, permette di convincersi facilmente del lavoro svolto in questi anni dai suoi responsabili e della risorsa che un simile portale offre ai singoli traduttori, i quali non a caso l’hanno in gran parte impostato come propria home page. La chiusura dei CID e la riassegnazione ad altri incarichi dei suoi responsabili significherà un rapido invecchiamento del portale e della sua fitta rete di link, rendendolo presto inutilizzabile e costringendo decine di traduttori a effettuare da soli centinaia di ricerche finora possibili in modo quasi automatico.

Ne risulterà un aumento del tempo necessario per le traduzioni, con un certo calo della produttività e un probabile calo della qualità, per non parlare della soddisfazione personale. La scelta di voltare le spalle alla parte informatica del nostro lavoro terminologico proprio quando di fatto ci si impedisce di continuare a sviluppare quella cartacea ci pare inspiegabile, e nel suo coincidere con altre iniziative quali il cambiamento dello Statuto, il rallentamento delle carriere, l’abo-lizione della terminologia ecc. assume perfi-no un vago sapore punitivo. Aspettiamo di essere rassicurati da chi decide in queste materie sul fatto che non dovremo privarci di quello che è diventato da tempo il nostro principale aiuto alla traduzione.

La Redazione

CID-IT LUSSEMBURGO 14

varie

Morte di un bibliotecario vittima della Modernizzazione Sottotitolo: il “cantar del CID”

SpariscAno i “bibliotecari”, spariscAno i CID, perché tanto c’è Internet, Intranet, DGTnet, Celex, Eurlex, SdTvista! Sono sopravissuti anche troppo a lungo: 35 anni. Con i tempi che corrono, con l’informatica che avanza, non si può continuare a pagare persone, quando un motore di ricerca ti risolve tutti i problemi, guarda Google, guarda Iate, dicono in molti. Il bibliotecario tenta una timida difesa del suo lavoro (si era letto la “Misión del bibliotecario” di Ortega y Gasset in lingua originale), nel quale continua a credere perché quel CID da lui creato rappresentava anche un’isola di cultura nazionale nel mare magnum anglo-francese, ma immediatamente viene stordito da una raffica di acronimi: “sdtvista, euramis, iate, twb” che lo stendono al tappeto; tenta di pronunciare anche lui una sigla: ".. e Multidoc”, ma non fa a tempo a finire che un perentorio “ma su! Basta qualche bookmark e tutto è risolto!” gli dà il colpo di grazia. In quell’attimo, prima di soccombere, il bibliotecario capisce che il Commissario aveva visto giusto: l’idea di speculare su risorse umane e intellettuali ha fatto proseliti in brevissimo tempo e il cosiddetto “metodo francese” ha fiaccato rapidamente gli animi. Dal limbo, dove viene spedito (perché non è stato ancora deciso cosa farne di lui), il bibliotecario vede portar via dal CID tutti quei libri - per il cui acquisto si era tante volte battuto - enciclopedie, dizionari, le treccani, i battaglia, i duden, i larousse …. Sa che finiranno temporaneamente ammassati in una faraonica bilioteca centralizzata e sorride tristemente perché intuisce che ben presto saranno fatti sparire definitivamente: quando un nuovo direttore, arrivando alla DGT, constaterà l’ovvia mancanza di utilizzatori. Povero bibliotecario, inguaribile nostalgico e idealista, rendiamogli almeno l’onore delle armi per la sua strenua resistenza!

Daniela Murillo Perdomo

varie

CID-IT BRUXELLES

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2005 GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE

MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO

SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE DICEMBRE

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BUONE FESTE

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