DIPARTIMENTO DI STUDI POLITICI D P , I , S STUDI DI … · STUDI DI STORIA, TEORIA E SCIENZA...

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A14 123/3 DIPARTIMENTO DI STUDI POLITICI STUDI DI STORIA, TEORIA E SCIENZA POLITICA DIPARTIMENTO DI POLITICA,ISTITUZIONI,STORIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

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DIPARTIMENTO DI STUDI POLITICISTUDI DI STORIA, TEORIA E SCIENZA POLITICA

DIPARTIMENTO DI POLITICA, ISTITUZIONI, STORIAUNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

L’opera è stata realizzatacon il contributo dell’Università di Torino

Dipartimento di Studi Politici e dell’Università degli Studi diBologna – Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia

Pubblicazione ammessa al contributo della Regione Piemonte

Beyond CuriosityJAMES MILL E LA NASCITA DEL GOVERNO

COLONIALE BRITANNICO IN INDIA

Gaia Giuliani

Copyright © MMVIIIARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–1799–9

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: maggio 2008

Presentazione 5

A Giuliano e Patrizia

Presentazione 6

Ringraziamenti 7

Ringraziamenti Vorrei ringraziare per l’attenzione dimostrata ai miei studi di

dottorato la professoressa Maria Teresa Pichetto dell’Università di Torino e il professor Guido Abbattista dell’Università di Trieste i quali hanno seguito la stesura della tesi di dottorato da cui è tratto questo volume: le loro critiche e i loro consigli hanno permesso che le mie ricerche trovassero la giusta direzione. Maria Teresa ha cre-duto fortemente nella validità del mio lavoro sostenendomi fino all’ultimo negli anni della sua revisione, mentre il professor Abbat-tista ha sottoposto alla mia attenzione fonti e testi critici di vitale importanza.

Ringrazio il professor Pier Paolo Portinaro, coordinatore del Dottorato in Studi politici europei e euroamericani del Dipartimen-to di Studi politici dell’Università di Torino per l’attenzione presta-ta al mio lavoro e per la pazienza con cui mi ha seguita negli anni necessari alla stesura definitiva di questo volume. Il professor Carlo Galli dell’Università di Bologna per gli stimoli e i consigli preziosi che mi ha dato nel corso dei miei studi universitari e di dottorato e per aver rivisto fino all’ultimo il mio manoscritto. Il professor San-dro Mezzadra per i suggerimenti, il sostegno e la critica puntuale, il coinvolgimento nel mio lavoro, la celerità nello sciogliere i miei dubbi e nel rispondere ad ogni mia richiesta. In particolare al prof. Mezzadra devo la passione per la metodologia “di confine”, di in-treccio e contaminazione tra diversi approcci disciplinari e l’oppor-tunità di presentare, e così riattualizzare, le tesi contenute nelle mie ricerche di dottorato nell’ambito del corso da lui tenuto in Studi coloniali e postcoloniali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna.

Devo necessariamente rivolgere un ringraziamento accorato ai pro-fessori Tiziano Bonazzi, Fulvio Cammarano, Anna Maria Gentili, Laura Lanzillo e Giuseppe Maione del Dipartimento di Politica Isti-tuzioni Storia dell’Università di Bologna per la fiducia, il sostegno e

Ringraziamenti 8

l’attenzione dimostrata al mio lavoro. In particolare, ringrazio il pro-fessor Maione per avermi permesso di dar vita al seminario su razza e razzismo (A.A. 2006/2007) nell’ambito del Corso di Storia contempo-ranea di cui è titolare, all’interno del quale ho avuto modo di ricon-nettere le tesi qui sostenute ai miei studi sul dibattito internazionale su razza e razzismo, ad elementi di storia contemporanea e metodo-logia e concetti degli studi postcoloniali. Un ringraziamento speciale al prof. Gianfranco Tortorelli del Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna per avermi invitata a collaborare alla pub-blicazione di uno studio sulla biopolitica fascista permettendomi così di rielaborare ed applicare al caso italiano la metodologia da me pre-cedentemente svilippata. Ai professori Devleena Ghosh (dell’Uni-versity of Technology, Sydney), che mi ha permesso di presentare al-l’estero questo lavoro, Ilaria Vanni (UTS, Sydney) e Joseph Pugliese (Macquarie University, Sydney) che mi sono stati vicini nei mesi tra-scorsi in Australia, valorizzando le mie ricerche. E ringrazio la British Library e le Biblioteche del Polo bolognese, ed in particolare la Biblio-teca del Dipartimento di Politica Istituzioni Storia, della Fondazione Einaudi e della Fondazione Firpo di Torino senza le quali non avrei mai potuto portare a termine questo lavoro.

Alle riviste «Pensiero Politico» e «Filosofia politica» per avermi permesso, mediante la pubblicazione di due saggi tratti dalle mie ri-cerche di dottorato, di rivedere e affinare il contenuto di quello che sarebbe diventato Beyond curiosity.

Un pensiero speciale va alle colleghe e ai colleghi di dottorato ed, in particolare, a Silvia Santagata che ci ha lasciato troppo pre-sto. Ai miei colleghi e colleghe e ai direttori della rivista «Studi Culturali», per l’opportunità che mi hanno dato di confrontare, in questi ultimi due anni, il risultato delle mie ricerche con un’infinità di punti di vista e approcci disciplinari diversi ed intersecanti; ai colleghi e le colleghe del Seminario di teoria del diritto e filosofia pratica su “identità, razza e integrazione sociale” dell’Università di Modena e Reggio Emilia, il cui contributo nella ricezione italiana del dibattito statunitense interno alla Critical Race Theory è stato per me importante e produttivo; ai colleghi ed alle colleghe, nonché amici, del gruppo di lettura su Critical Race and Whiteness Studies di Sydney: la discussione aperta e intersecante discipline ed ap-

Ringraziamenti 9

procci che al suo interno si è svolta e si svolge attorno a questi temi è stata per me di fondamentale importanza nell’ultimissima revisio-ne di questo testo.

A tutti le amiche e gli amici e ai miei familiari che da Londra, Ber-lino, Chapel Hill, Rimini, Parma, Padova, Lucca, Fano e Pisa a Bolo-gna, Torino, Milano, Roma e Sydney non mi hanno mai lasciata sola in questi anni duri e indimenticabili.

Ed, infine, alla mia famiglia e ai miei genitori, a cui questo volume è dedicato.

Sydney, febbraio 2008

Ringraziamenti 10

Abbreviazioni

Report from the Select Committee of the House of Commons on the Indian Affaires of the East Indian Company [R.S.CH.C.A.E.I.C.]

Oxford History of British Empire [O.H.B.E.] Lo spirito delle leggi [E.L.] History of British India [History]. On the influence of Time and Space in Matter of Legislation [On the

Influence] Introduction to the Principles of Moral and Legislation [Introduction

to the Principles] University Press [U.P.]

Ringraziamenti 11

Indice

Ringraziamenti ............................................................................. 7 Abbreviazioni .............................................................................. 10 Presentazione di Sandro Mezzadra .............................................. 13 Introduzione ................................................................................. 19 1 L’India e il dispotismo 1.1 L’immagine dell’Asia nella cultura politica europea tra il

XVIII e il XIX secolo ....................................................... 51 1.2 Il rifiuto milliano dell’orientalismo .................................. 80 1.2.1 Contro il romanticismo orientalista .................................. 80 1.2.2 Civiltà musulmana e civiltà indù a confronto ................... 95 2 L’applicazione delle dottrine utilitariste in India ............. 107 2.1 L’Utilitarismo, il movimento evangelico e il dibattito

sull’educazione ..................................................................... 108 2.2 Le riforme di Cornwallis ........................................................ 137 2.3 Le riforme politico–istituzionali proposte da James Mill ....... 153 Conclusione ................................................................................. 173 Bibliografia .................................................................................. 185 Indice dei nomi ............................................................................ 207

Ringraziamenti 12

Presentazione 13

Presentazione

Una «storia critica» dell’India: così, nel licenziare il primo volume

della sua History of British India, James Mill definiva nel 1817 l’esito di oltre dieci anni di lavoro. E aggiungeva che «criticare significa giu-dicare. Una storia critica è, dunque, una storia giudicante». Poche pa-gine più avanti, tornava sul punto, dopo essersi impegnato in una pun-tigliosa spiegazione delle ragioni per cui la validità della sua «storia critica» non era inficiata dal fatto che il suo autore non avesse mai messo piede in India e ignorasse le lingue del subcontinente. Anzi:

colui che, senza essere stato un testimone oculare in India, si appresta in Europa a compendiare il materiale della storia indiana è posto, rispetto ai molti individui che sono stati in India e uno dei quali ha visto e riferito una cosa, un altro ha visto e riferito un’alta cosa, in una situazione assai simile a quella del giudice rispetto ai testimoni che depongono di fronte a lui. Nell’indagine su una di quelle complesse scene di azione su cui è a volte ri-chiesta una decisione giudiziaria, una cosa è stata solitamente osservata da un testimone, un’altra cosa da un altro testimone; la stessa cosa è stata os-servata da un punto di vista da un testimone, da un altro punto di vista da un altro; alcune cose vengono affermate da uno, negate da un altro. In que-sta scena il giudice, mettendo insieme i frammenti di informazione che ha separatamente ricevuto dai diversi testimoni, vagliando l’attendibilità delle testimonianze, comparando l’insieme delle testimonianze stesse con le pro-babilità generali del caso e sottoponendolo a verifica secondo le leggi cono-sciute della natura umana, tenta di pervenire a un’immagine esaustiva e corretta dell’intero corso degli eventi su cui è chiamato a decidere. Non è evidente che in un caso come questo, dove abbondante è la somma delle te-stimonianze, il giudice, che non ha visto alcunché di ciò che è avvenuto, ha ottenuto tuttavia, per mezzo della sua indagine, una comprensione più per-fetta dell’accaduto di quella che è quasi sempre propria di ciascuno degli individui da cui ha derivato le sue informazioni1?

1 J. MILL (1858), History of British India, vol. I, Routledge, London 1997, Prefazio-

ne dell’autore, pp. XXV–XXVI. Il testo è liberamente scaricabile dal sito della «Online Library of Liberty. A Project of Liberty Fund, Inc» (http://oll.libertyfund.org/).

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Lo sguardo dello storico, quello del filosofo utilitarista e quello del giudice convergono sull’India, nell’opera di Mill, e la costituiscono in India britannica: in un’India britannica di cui viene ricostruita la storia a cominciare dalla «Ancient History of the Hindus». È in fondo a que-sto incrocio di sguardi che è dedicato il libro di Gaia Giuliani: un libro che costituisce un piccolo evento per la storiografia italiana del pen-siero politico.

Non che siano mancati, in questa storiografia, lavori dedicati ai te-mi del colonialismo e dell’imperialismo europei. Basti qui ricordare, proprio a proposito dell’Inghilterra, il nome di Ottavio Barié, il cui importante volume su Idee e dottrine imperialistiche nell’Inghilterra vittoriana uscì per i tipi di Laterza nel 19532. A lungo tuttavia, e non certo soltanto in Italia, le vicende coloniali e imperiali che hanno ac-compagnato lo svolgersi della modernità europea sono state ricostruite in modo esclusivo dal punto di vista della «politica di potenza» ― nonché dei suoi corollari “ideologici” (dalle molte varianti, cristiane e laiche, della «missione civilizzatrice» ai meno presentabili dispositivi retorici del razzismo).

Nel grande dibattito che è seguito alla pubblicazione del libro di Edward Said, Orientalismo (1978), un diverso modo di analizzare cri-ticamente quello che proprio il grande critico palestinese ha definito il «progetto coloniale dell’Occidente» si è venuto affermando. Ed è stato ampiamente sviluppato negli anni successivi all’interno di quelli che, in particolare nel mondo anglosassone, hanno cominciato a essere chiamati gli «studi postcoloniali»: un insieme di categorie ― discorso e governamentalità coloniale, colonialità del sapere, violenza epi-stemica, per nominarne alcune ― ha spostato l’attenzione sulla com-plessità della fitta trama di «incontri coloniali» (un’altra categoria cru-ciale nella corrente di studi in questione) al di fuori della quale la sto-ria della modernità non risulta neppure pensabile ― se è vero, come abbiamo imparato fin dai sussidiari delle elementari, che le sue origini

2 Lo stesso Barié scrisse poi il capitolo Imperialismo e colonialismo, per la Sto-ria delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo. ID., L’età della Rivoluzione industriale, vol. V, UTET, Torino 1972. Tra le molte altre opere che si potrebbero qui ricordare, mi limito a menzionare – sugli stessi temi a cui è dedicato il libro di Gaia Giuliani – G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano. Gli intellettuali britannici e la conquista dell’India, Giuffrè, Milano 1979.

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coincidono con la “scoperta del Nuovo mondo”, ovvero con quella che potremmo definire l’uscita da sé, l’“estrinsecazione” dell’Europa. Vi è qualcosa di più, negli studi postcoloniali, della critica canonica (“cul-turalista”) dell’«eurocentrismo»: vi è la consapevolezza del rilievo stra-tegico che, lungo l’intero arco della modernità, l’esperienza coloniale ha avuto per la definizione della stessa filigrana teorica dei concetti attra-verso cui l’Europa ha contraddittoriamente pensato se stessa.

È una lezione che ormai da tempo, nel mondo anglosassone, ha tro-vato significative applicazioni nella storiografia del discorso politico3: il libro di Gaia Giuliani è il primo lavoro italiano che dialoga dall’in-terno della disciplina con questi sviluppi teorici (ma non sarà certo l’ultimo: sia sufficiente ricordare le ricerche, svolte all’interno del medesimo dottorato torinese in cui ha preso forma il lavoro qui pre-sentato, di Domenico Letterio su Tocqueville e l’Algeria4). Il lettore (la lettrice) potrà verificare da sé la portata innovativa del lavoro di Giuliani: e in particolare del continuo effetto di spiazzamento felice-mente prodotto da un’analisi che, nel momento stesso in cui porta l’attenzione sulla costituzione coloniale dell’oggetto «India britanni-ca» da parte di Mill, riconduce (con una sorta di cortocircuito metodo-logico) all’immagine della Gran Bretagna con cui lavorava il grande filosofo utilitarista: un’immagine che in controluce si può ricavare dal

3 Si vedano, per fare due soli esempi, U.S. MEHTA, Liberalism and Empire. A

Study in Nineteenth–Century British Liberal Thought, Chicago U.P., London & Chi-cago 1999 (un libro ampiamente utilizzato da Gaia Giuliani) e S. SETH, Subject Lessons. The Western Education of Colonial India, Duke U.P., Durham (NC) & London 2007 (uscito quando la ricerca qui presentata era già stata conclusa). Speci-ficamente sulla History of British India di James Mill, è poi da ricordare il lavoro del fondatore della scuola storiografica indiana dei «subaltern studies», RANAJIT GU-HA, Dominance without Hegemony. History and Power in Colonial India, Harvard U.P., Cambridge (Ma) & London 1997 (in specie pp. 75 ss.). Per un’introduzione generale agli studi postcoloniali, si veda M. MELLINO, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, postcolonialismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Mel-temi, Roma 2005.

4 Per una prima anticipazione dei risultati di queste ricerche, si vedano D. LET-TERIO, L’Algeria di Alexis de Tocqueville. Soggettività e storia nel progetto colo-niale dell’Occidente, in «I sentieri della ricerca», I, n. 2 pp. 136–166 e ID., Une Ré-volution Inévitable. Tocqueville e l’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi (1839–1848), in «Il Pensiero politico», XXXIX (2006), n. 3 pp. 401–437 .

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modo stesso in cui egli parla (come si è detto) dell’antica civiltà indù o della conquista moghul dell’India.

Resta qui da sottolineare come il confronto con la lezione che pro-viene dagli studi postcoloniali contemporanei si innesti, nel lavoro di Gaia Giuliani, su quanto di meglio la solida tradizione disciplinare della storia delle dottrine politiche ha prodotto in Italia sotto il profilo del metodo storiografico e della lettura critica delle fonti. Non si può negare, a questo proposito, che negli studi postcoloniali (e in quelli «culturali», da cui questi ultimi in parte derivano) di matrice anglosas-sone, ci si trovi talvolta di fronte ad affermazioni decisamente generi-che sul “colonialismo” e sull’“Occidente” ― nonché a un uso inde-terminato delle pur produttive categorie che si sono in precedenza ri-chiamate. L’autrice di questo libro non è tuttavia neppure sfiorata dal “rischio” di mutuare queste movenze retoriche per via dell’acuta sen-sibilità storica di cui ha già dato prova in un’ampia ricostruzione del dibattito sull’Impero nel pensiero politico inglese e in un saggio in cui ha anticipato le linee generali della sua lettura della History of British India5: anche quando si incontrano, nelle pagine che seguono, affer-mazioni che pretendono di avere una validità che va oltre il lavoro di Mill, queste sono sempre “tarate” su un discorso complessivo che po-ne in evidenza la specificità storica dell’opera analizzata e del suo contesto. E che in particolare punta a fare emergere un peculiare im-maginario imperiale e liberale inglese, distinto sia da quello che aveva caratterizzato precedenti epoche storiche (e che nel caso dell’India era stato ad esempio ben esemplificato dalla fioritura degli studi orientali-stici di fine Settecento, duramente criticati da Mill) sia da quello che avrebbe fatto successivamente da sfondo all’apogeo dell’imperialismo britannico (e che, ancora nel caso dell’India, cominciò a prendere forma con la grande Sepoy Mutiny del 1857 e con la fine, l’anno dopo, del regime della Compagnia delle Indie Orientali, a cui corrispose l’assunzione diretta da parte della Corona del governo dell’India).

5 Cfr. rispettivamente G. GIULIANI, Il concetto di Impero nel pensiero politico

inglese tra il XVII e la prima metà del XIX secolo, in «Il Pensiero politico», XXXIX (2006), n. 1, pp. 1–35 e ID., «Responsibility implied superiority and inferiority». La «History of British India» di James Mill e il nuovo immaginario imperiale britanni-co, in «Filosofia politica», XXI (2007), n. 3, pp. 453–473.

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Frutto maturo della sintesi tra nuovi sviluppi teorici e una consoli-data tradizione di ricerca storiografica, questo libro inaugura così in Italia una nuova stagione di studi sul rilievo di colonialismo e imperia-lismo nella storia delle moderne dottrine politiche.

Sandro Mezzadra Febbraio 2008

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Introduzione 19

Introduzione

«The colonial state is seen as a theatre for state experi-mentation, where historiography, documentation, certi-

fication, and representation were all state modalities that transformed knowledge into power».

Nicholas B. Dirks1

Nel contesto di un ripensamento profondo del ruolo e delle finalità

dell’impero britannico a seguito della crisi americana, che pose fine al cosiddetto impero d’Occidente, e della Rivoluzione francese, dalla quale la storia dell’Inghilterra ― pur non essendone direttamente coinvolta ― venne profondamente segnata, le riflessioni dell’Uti-litarismo di James Mill sull’India rappresentano una sorta di turning point rispetto alla concezione di impero che aveva dominato i secoli precedenti e la concezione che avrebbe preso corpo verso la fine della prima metà del XIX secolo. Il periodo che si snoda dalla crisi ameri-cana fino alle riforme degli anni Trenta del XIX secolo, una sorta di Sattelzeit, nell’accezione proposta da Pocock, in cui «old patterns of discurse persist while new arise, both interacting vigorously to produ-ce new discursive situations and perhaps an intensive sense of their historicity»,2 si concretizza, nel pensiero utilitarista e nello specifico di quella è che l’opera storiografica più importante di questo periodo, la History of British India di James Mill, in una visione dell’Impero sempre più come realtà politica attiva, unitaria, organica. L’impero

1 N.B. DIRKS, Foreword, in B. Cohn, Colonialism, Oxford U.P., Delhi 1997,

p. XI. 2 L’espressione «Sattelzeit» (epoca di passaggio in grado di mantenere elementi

del passato, ricodificandone però il significato in modo irreversibile) è utilizzata da Pocock nella riconcettualizzazione proposta da R. KOSELLECK, Futuro passato, Marietti, Genova 1986. J.G.A. POCOCK, Political Thought in the English–speaking Atlantic, 1760–1790. Part II. Empire, revolution and the end of early modernity, in J.A.G. Pocock (ed.), The Varieties of British Political Thought 1500–1800, Cam-bridge U.P., Cambridge 1993, p. 311.

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perde ogni sua parvenza di «informality»3 per venirsi a costituire, in India, come insieme organizzato e “coerente” sia da un punto di vista organizzativo e politico–istituzionale, attraverso la creazione di un ve-ro e proprio governo coloniale, sia da un punto di vista discorsivo, at-traverso le declinazione della sua legittimità nei termini del progresso universale. Il paradigma illuminista del progresso delle civiltà entra in gioco prepotentemente fino a pervadere tutta la riflessione teorica e riformatrice del tempo, segnando una tappa decisiva del superamento dell’immaginario imperiale precedente. A tale paradigma è connatura-ta una differente concezione dell’alterità coloniale, una concezione che, nel caso della costruzione teorico–politica milliana, risulta lonta-na sia da quella lockeana ― alla base della legittimazione dell’espansione nel Nuovo Continente, dalle origini alla crisi dell’impero occidentale britannico –, sia da quella formulata in seno agli studi orientalisti della seconda metà del XVIII secolo, ma anche dalle formulazioni successive caratteristiche della cosiddetta “età degli imperi”. La lettura dell’alterità indiana proposta da Mill, caratterizzata dalla pressoché assoluta fedeltà del filosofo al concetto di “perfettibili-tà umana”, è infatti contraddistinta dalla profonda fiducia negli effetti dell’attività riformatrice, a livello politico–costituzionale ed in secon-do luogo a livello culturale e religioso, sul progresso degli individui e delle società, una fiducia ed uno slancio riformatore che verranno pro-gressivamente meno nei decenni successivi, fino alla loro completa abdicazione dopo il Sepoy Mutiny del 1857.

In tal senso la History of British India, se è vero che rappresentò il punto di riferimento teorico–politico per “generazioni di funzionari ed amministratori” coloniali, e il preciso tentativo, da parte dell’autore, di costruire il paradigma analitico, e con esso, la struttura discorsiva che avrebbe dato corpo ad un immaginario coloniale che venne conser-vato, evolvendosi coerentemente al lemma della “missione civiliz-zatrice” fino al declino dell’impero britannico, essa articolò una vi-sione dell’impero, della colonia e della madrepatria del tutto originale. Se, infatti, molti elementi del discorso milliano sull’India vennero fatti propri dall’amministrazione coloniale successiva, è anche vero che

3 J.G.A. POCOCK, Political Thought in the English–speaking Atlantic, 1760–1790. Part I. The imperial crisis, in J.A.G. Pocock (ed.), The Varieties, cit., p. 261.

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maggiore fu la coerenza di esso al complesso teorico utilitarista di quanto non fu la continuità con le scelte politico–istituzionali forma-lizzate nei decenni successivi. Ecco perché la lettura della History e della produzione teorica milliana in riferimento alle colonie che io propongo contraddice, in un certo senso, pur riconoscendone le poten-zialità euristiche e pur mutuandone gli strumenti analitici, le conclu-sioni a cui sono giunte alcune ricerche più recenti, come quelle di Ja-ved Majeed e di Uday Singh Mehta e quelle in seno agli Studi postco-loniali: esse tendono, infatti, ad allineare le riflessioni milliane ad al-cune delle più importanti concettualizzazioni della fase imperiale suc-cessiva, senza cogliere gli elementi di discontinuità e di importante differenza che caratterizzano il pensiero del filosofo utilitarista.

Sono convinta infatti, che, per quanto al pensiero milliano soggiac-cia una concezione dell’alterità come collocata in quel tempo che Homi Bhabha ha definito “diacronico”, coerentemente alla concezione progressiva della temporalità storica ereditata dall’Illuminismo, tale per cui gli elementi di “un–familiarity” o di “alterità pressoché assolu-ta” (otherness) della realtà colonizzata sovrastano e ridimensionano il postulato utilitarista del “relativismo culturale”4, è assolutamente ine-ludibile il fatto che il peculiare (dis)equilibrio tra l’attestazione dell’irriducibile diversità di desideri e interessi (tra nativi5 e coloni, e in seno a ciascuno di essi) e l’idea di una loro possibile convergenza verso l’ideale di perfezione che caratterizza l’Utilitarismo milliano allontanano in modo consistente la posizione di Mill da quella che di-verrà l’ideologia imperialista britannica nella seconda metà del XIX secolo.

4 H. BHABHA, Manifestare l’arcaico. Differenza culturale e nonsense colo-

niale, in H. Bhabha (1994), I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001; U.S. ME-HTA, Liberalism and Empire, Chicago U.P., Chicago 1999; R. GUHA, Dominance without Hegemony, Harvard U.P., Cambridge (MA) 1997; G. SPIVAK, Three Women Text’s and Critique of Imperialism, in «Critical inquiry», 12, 1, 1985; S. SULERI, Meatless Days, Chicago U.P., Chicago 1989.

5 Userò nel testo i termini “nativo”, “nativa” e “nativi” privi di virgolette, coeren-temente alla terminologia contenuta nei testi da me presi in considerazione, mante-nendo e sottolineando in tal modo l’accezione prettamente coloniale con cui essi ve-nivano utilizzati, e dunque la loro natura apertamente o sottilmente connotata dal giudizio di “alterità” ed “arretratezza”.

Introduzione 22

Per dimostrare l’originalità, la puissance teorica, ma anche gli im-prescindibili elementi di peculiarità della metodologia analitica e delle conclusioni teorico–politiche milliane in riferimento all’India rispetto alle concettualizzazioni dell’“impero” precedenti e successive, l’analisi del testo milliano verrà preceduta da una breve disamina degli elementi discorsivi che caratterizzarono l’immaginario imperiale pre-cedente, per giungere a sottolineare, in conclusione di questa introdu-zione, come la metodologia sviluppata nella History sia essa stessa rappresentativa di un mutato contesto culturale e, al contempo, esem-pio peculiare di una radicale riconcettualizzazione.

1. Tra gli anni Settanta e la fine del XVIII secolo la crisi e l’indi-

pendenza americana, prima, e la rivoluzione francese, poi, avevano costretto intellettuali e politici di tutta Europa a fare i conti con «il vecchio mondo che crolla»6, con una trasformazione profonda sia del concetto di obbligazione politica sia delle forme di legittimazione del potere statuale. L’affermazione del diritto naturale all’autodetermina-zione e il rifiuto della “rappresentanza virtuale”7 in America e «la lotta per il mutamento dell’ordine sovrano»8 in Francia avevano posto il mondo intellettuale europeo nella condizione di riformulare i concetti di cittadinanza e di partecipazione alla sfera pubblica. Queste trasfor-mazioni avevano coinvolto la concezione del Sé delle realtà nazionali così come la loro percezione in quanto realtà imperiali. Se la Rivolu-zione francese aveva scatenato in tutta Europa profondi timori riguar-do alla stabilità del potere costituito e alla continuità con le tradizioni politico–istituzionali9, la crisi e l’indipendenza americana, nello speci-

6 E. BURKE (1790), Reflections on the Revolution in France, in Id., Works of Right Honourable Edmund Burke, vol. IV, Oxford U.P., London 1906, p. 83. Traduzione mia.

7 N. MATTEUCCI, La rivoluzione americana. Una rivoluzione costituzionale, il Mulino, Bologna 1987.

8 M. RICCIARDI, Rivoluzione, il Mulino, Bologna 2001, p. 59. 9 Cfr. F.G. HUTCHINS, The Illusion of Permanence, Princeton U.P., Princeton

1967, p. 12; J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginigs. James Mill’s The History of British India and Orientalism, Clarendon Press, Oxford 2001, p. 7; J.G.A. PO-COCK, Political Thought in the English–speaking Atlantic, 1760–1790. Part II. Empire, revolution and the end of early modernity, cit., pp. 301–5; G. ABBAT-TISTA, James Mill e il problema indiano, Giuffrè, Milano 1979, p. 72.

Introduzione 23

fico contesto britannico, avevano sfidato la percezione del Sé naziona-le e imperiale stimolando un ripensamento profondo del ruolo, degli obiettivi e della costituzione politica e giuridica dell’impero ― ripen-samento testimoniato dalle riflessioni di due illustri interpreti di questa fase storica, Adam Smith e Edmund Burke10. Il mondo politico britan-nico era stato obbligato a rimetterne in discussione i fondamenti teori-ci, poggianti sull’idea che esso fosse il risultato dell’impresa di sea-men e merchants, che individualmente e autonomamente rispetto alla madrepatria si erano avventurati nel mondo sconosciuto inse-diandovisi o aprendo nuovi mercati e portando in ogni dove le English liberties, prima fra tutte quella dell’autogoverno locale, di cui essi stessi andavano fieri. Si era sgretolata definitivamente, infatti, quel-l’idea di impero “protestante, commerciale, marittimo e libero” che aveva caratterizzato la pubblicistica del “Primo impero” e che aveva dipinto l’espansione britannica ad Ovest come un’impresa caratte-rizzata, a differenza di quella spagnola e portoghese, ma anche fran-cese, dalla libera iniziativa e dal limitato intervento della corona e del parlamento nelle questioni coloniali11.

La contrapposizione al modello espansionista “romano”, ossia terri-toriale e fondato sul dominium della corona sui possedimenti d’ol-tremare, che aveva caratterizzato il “discorso” imperiale inglese e bri-

10 A. SMITH (1776), The Wealth of the Nations, Penguin, London 1999, book IV, ch. VII, part III, pp. 222–3 e 225–6 e book V, ch. III, pp. 536 e segg.; E. BURKE, Speech on Fox’s East India Bill (1 December 1783), in The Works of Right Honourable Edmund Burke, vol. III, Oxford U.P., London 1906, pp. 108–9. Cfr. G. ABBATTISTA, Adam Smith e la natura dell’impero britannico alla fine del XVIII secolo, in R. Gherardi (a cura di), Politica, consenso, legittimazione. Trasformazioni e prospettive, Carocci, Roma 2002, pp. 140–154. F.G. WHELAN, Edmund Burke and India, Political Morality and Empire, Pittsburg U.P., Pittsburg 1996, pp. 6–7; B. COHN, Colonialism, cit., p. 26; U.S. MEHTA, Liberalism and Empire, cit., pp. 153–189; A. PORTER, Trusteeship, Anti–Slavery, and Humanitarianism, in O.H.B.E., vol. III, Oxford U.P., Oxford 1998, p. 199.

11 J.P. GREENE, Empire and Identity, in, cit., vol. II, p. 210. Sul tramonto di tale ideale nella materialità delle relazioni tra centro e periferie ad Ovest ed a Est dell’impero e sul ruolo centrale giocato dalla Guerra dei Sette Anni e dal conflitto con le tredici colonie del Nord America nella riconfigurazione dell’impero in un’ottica storiografica che può essere definita atlantica si veda P.J. MARSHALL, The Making and Unmaking of Empires. Britain, India, and America, 1750–1783, O.H.B.E., Oxford U.P., Oxford 2005.

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tannico fin dal XVII secolo, modellato sull’ideale d’impero “greco”, si era esaurita in modo evidente di fronte alle pretese avanzate da Gior-gio III di controllo e gestione degli affari economico–politici interni alle colonie e alle rivendicazioni dei coloni nordamericani, siste-matizzate nelle opere di Thomas Jefferson, Benjamin Franklin e Ri-chard Bland, per i quali la subordinazione alle decisioni prese da Lon-dra, e la sottomissione dei coloni alla volontà di un parlamento che non ne rappresentava gli interessi12, apparivano come la distorsione di quei principi liberali alla base della costituzione dello Stato inglese e dell’impero britannico13. Quest’ultimo si mostrava sempre più innega-bilmente fondato sull’espansione e sul dominio territoriale non solo in America, ma anche in India ― dove, diversamente dalle “colonie di popolamento”, l’espansione si era dapprincipio realizzata con la crea-zione di avamposti commerciali e, successivamente, a partire soprat-

12 Tali rivendicazioni, ha sostenuto Pocock in un celebre saggio, prima di giunge-

re all’epilogo rivoluzionario, non coincisero mai con la richiesta del pieno ricono-scimento dei coloni in quanto sudditi del regno, ma evocarono la necessità di trovare una nuova “costituzione imperiale”, sottolineando fin da subito la differenza costitu-tiva esistente tra dimensione politica statuale, con il suo tradizionale set di libertà e obbligazioni, e quella imperiale. In esse non vi è menzione, infatti, del diritto dei coloni americani alla rappresentanza nel parlamento britannico: al contrario, esse misero in discussione il principio wigh del King–in–Parliament, asserendo un rap-porto delle colonie con la madrepatria mediato solo dal riconoscimento dell’autorità regale. Allo stesso tempo tali rivendicazioni si opposero alla vigenza in America del principio di «united sovereignty of Church and State» alla base dela costituzione inglese dai tempi dello scisma anglicano, a cui venne contrapposto il diritto alla li-bertà religiosa. Cfr. J.G.A. POCOCK, Political Thought in the English–speaking Atlantic, 1760–1790. Part I e II, cit., pp. 262, 284.

13 T. JEFFERSON (1774), A Summary View of the Right of British America, The Caxton Club, Chicago 1976, pp. 19 e 173 e segg.; ID. (1775), The Commonplace Book, in G. Chinard (ed.), Thomas Jefferson et les Idéologues, Johns Hopkins U.P., Baltimore & Paris 1926; R. BLAND, An Enquiry into the Rights of the British Colo-nies, J. Almon, London 1769, p. 7; ID., B. Franklin to the Gentleman’s Magazine, Jan. 1768, in B. Franklin’s Letter to the Press, V. W. Crane (ed.), Chapel Hill (NC) 1950, p. 111 e ivi, ID., A Conversation between an Englishman, a Scotchman and an Ameri-can on the Subject of Slavery, 30 Jan. 1770, p. 187; ID., B. Franklin to Gazeteer and New Daily Advertiser, 28 dec. 1765, in The Papers of B. Franklin, L.W. Labaree (ed.), New Haven, 27 vol., 1959, XII, p. 598; ivi, ID., Fragments of a Pamphlet on the Stamp Act, Jan. 1766, XIII, p. 81; ivi, ID., Examination, 1766, XIII, p. 150.

Introduzione 25

tutto dagli anni Sessanta del XVIII secolo, attraverso la vera e propria conquista territoriale.

La tensione tra le due concezioni di impero, quella che prevedeva l’intervento regolatore dello Stato centrale e quella che si fondava sull’idea della libera impresa individuale, avevano caratterizzato tutta la storia dell’impero britannico, assumendo forme e soluzioni diverse a seconda delle necessità contingenti ― in riferimento alle strategie politico–internazionali e commerciali, alle specifiche scelte in materia di governo coloniale14, ai processi di identificazione statuale, nazio-nale e imperiale15 ― e cagionando una sostanziale disorganicità nella formulazione dell’“ideologia imperiale” che tale non fu se non alla fine del XVIII secolo, con il passaggio dal cosiddetto “Primo” al “Se-condo impero”16.

14 Cfr. M.J. BRADDICK, English Government, War, Trade, and Settlement

1625–1688, in O.H.B.E., cit., vol. I, pp. 300–8. 15 Cfr. K. WILSON, The Sense of the People, Cambridge, Cambridge U. P.,

1998, pp. 184–5; ID., Empire of Virtue, cit., p. 155; ID., Empire, Trade and Popular Politics in The Mid–Hanoverian Britain. The Case of Admiral Vernon, in Past and Present, CXXI, 1988, p. 109 e ID., A New Imperial History. Culture, Identity and Modernity in Britain and the Empire 1660–1840, Cambridge U.P., Cambridge 2004; L. COLLEY, Britons. Forging the Nation, 1707–1837, Yale U.P., New Haven 1992, pp. 105, 135; J.M. MACKENZIE, Empire and Metropolitan Culture, in O.H.B.E., cit., vol. III, p. 273.

16 La distinzione tra “Primo” e “Secondo impero” deriva dall’idea che l’espansione ad Ovest fino alla rivoluzione americana sia stata essenzialmente “commerciale” e “mercantilista” – segnata dal varo dei Navigation Acts – e di “stan-ziamento” dei coloni sui territori conquistati, a differenza di quella in Asia, Austra-lasia e Africa, vista come principalmente “territoriale”, non contrassegnata da mas-sicce migrazioni dalla madrepatria, e di progressiva apertura al commercio nazionale dell’impero. Cfr. P.J. MARSHALL, The First British Empire e C.A. BAYLY, The Second British Empire, in O.H.B.E., cit., vol. V, pp. 43–72 e ID., Imperial Meridian. The British Empire and the World 1780–1830, Longman, London & New York 1989. Armitage ha messo in dubbio la legittimità di una netta distinzione cronologica, politi-co–istituzionale e ideologica tra “prima” e “seconda” fase dell’impero. Cfr. D. ARMI-TAGE, Ideological Origins, cit., p. 7. A tale distinzione si sovrappose nella storiogra-fia del XX secolo quella tra “colonialismo” e “imperialismo” concettualizzata, tra gli altri, da Eric Hobsbawm e Hannah Arendt. Sulla genesi e gli sviluppi del concetto di impero nel pensiero politico inglese e britannico si veda anche G. GIULIANI, Il concetto di impero, nel pensiero politico inglese tra il XVII e la prima metà del XIX secolo, in «Il Pensiero politico», XXXIX (2006), n. 1, pp. 1–35.

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Tale disorganicità era stata alimentata dal complesso intrecciarsi dei processi attraverso cui erano stati creati lo Stato metropolitano e l’impero. Fin dalle origini dell’espansione inglese in Galles, Scozia e, in particolare, in Irlanda, la realtà politica in costruzione venne de-finita con il concetto di impero ― Enrico VIII utilizzò questo concetto in riferimento al suo regno17 ― stabilendo così tra le realtà che venne-ro ricomprese dal 1603 nella “composite monarchy” inglese (Scozia e Galles) e le sue dependencies differenti statuti di appartenenza e di relazione con l’Inghilterra. Nonostante questa profonda interconnes-sione tra espansione insulare (alla base del processo di State–building) ed espansione d’oltreoceano (l’imperial expansion)18, testimoniata dal-la contemporaneità dei due processi e dalla particolare posizione che l’Irlanda assunse in essi ― per molto tempo non considerata come parte integrante dello Stato britannico ma come “prima colonia”19 o come pericolosa “antagonista” commerciale della Britannia20 –, l’idea che al centro del corpo politico imperiale vi fosse la sola Inghilterra, o che per lo meno in essa fosse l’origine ideale e costituzionale dell’impero, fece sì che i due processi fossero “immaginati” come to-talmente distinti, tali che l’esistenza di numerosi “segmenti” imperiali

17 N.R. KOEBNER, Empire, Cambridge U.P., Cambridge 1961, p. 53 e N. CANNY,

The Origins of Empire, cit., vol. I e in questo stesso volume D. ARMITAGE, Literature and Empire, p. 113. J.G.A. POCOCK, States, Republics, and Empires. The American Founding in Early–Modern Perspective, in T. Ball & J.G.A. Pocock (eds.), Conceptual Changes and the Constitution, Kansas U.P., Lawrence 1988.

18 Cfr. J. BREWER, The Eighteenth–Century British State. Contexts and Issues, in L. Stone (ed.), An Imperial State at War. Britain from 1689 to 1815, Routledge, London & New York 1994. Sulla continuità dei due processi si vedano anche D. ARMITAGE, Ideological Origins of British Empire, Cambridge U.P., Cambridge 2000, p. 23; H.G. KOENIGSBERGER, Composite States, Representative Institu-tions and the American Revolution, in «Historical Research», II (1989), n. 62, pp. 135–54; M. J. BRADDICK, The English Government. War, Trade, and Settlement, 1625–1688, in O.H.B.E., cit., vol. I, pp. 286–308.

19 Cfr. N. CANNY, The Origins of Empire, cit., vol. I, p. 2. 20 J. LOCKE (1693), For a Generall Naturalization, in P.H. Kelly (ed.), Locke on

Money, 2 voll., Clarendon Press, Oxford 1991. J. CARY, A Vindication of the Parlia-ment of England, In Answer to a Book Written by William Molyneux of Dublin, London, 1698 e ID., An Essay on the State of England in Relation to its Trade, its Poor, and its Taxes, For Carrying on the Present War Against France, W. Bonny, Bristol 1695.

Introduzione 27

non potessero mettere in discussione il primato, la centralità e l’identità politico–costituzionale inglese21.

È a partire dalla relazione tra questi diversi “frammenti” e l’Inghil-terra che venne mappata, nel corso del tempo, la realtà imperiale se-condo linee territoriali, razziali, e di genere22, rispetto alle quali

21 Sull’impossibilità di tracciare una netta separazione tra identità metropo-litana/identità imperiale/identità periferiche e sulla reciproca contaminazione sto-rico/culturale tra le “parti” dell’impero dalle origini dell’espansione coloniale euro-pea alla creazione delle metropoli postcoloniali, si veda il recente dibattito apertosi in seno agli studi postcoloniali e ai Cultural Studies. Cfr. H. BHABHA (1994), I luoghi della cultura, cit.; S. GIKANDI, Maps of Englishness. Writing Identity in the Culture of Colonialism, Columbia U.P., New York 1996, pp. XII, 14, 38; A. AP-PADURAI (1996), Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001, pp. 119–49; M.L. PRATT, Imperial Eyes. Travel Writings and Transculturation, Routledge, London and New York 1992, p. 137; P. GILROY (1993), Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Roma 2003, pp. 123 e ID. Against Race. Imagining Political Culture beyond the Color Line, Harvard UP., Cambridge (Mass.) 2000; cfr. G. GIULIANI, Paul Gilroy e il dibattito contemporaneo sul razzi-smo, in «Filosofia politica», XVII (2003), n. 2, pp. 269–284.

22 Cfr. K. WILSON, Empire of Virtue. The imperial project and Hanoverian cul-ture 1720–1785, in L. Stone (ed.), An Imperial State at War, cit., p. 23; G. SPIVAK, Three Women Text’s and Critique of Imperialism, cit., p. 243 e il più recente B. JO-SEPH, Reading the East India Company. 1720–1840, Chicago U.P., Chicago 2004 per un’analisi delle forme di occultamento dell’“Altra” attraverso gli annali, i rap-porti, i censimenti e la lettaratura secondaria della Compagnia. È necessario sottoli-neare in tal senso come la legittimazione dell’espansione imperiale poggiasse, fin dai suoi albori – ossia fin dall’invasione di Galles, Irlanda e Scozia durante il regno di Enrico VIII – sull’idea che Irishmen e Highlanders fossero «godles[s], lawles[s], and desordered». Cfr. J.H. OHLMEYER, «Civilizinge of those Rude Partes». Colonization within Britain and Ireland, 1580s–1640s, in O.H.B.E., vol. I, p. 131. Tale argomenta-zione fu alla base, in particolare per ciò che riguarda i regni di Scozia e Irlanda, di quel mantenimento in uno stato di minorità politico–giuridica ed economico–mercantile di cui è stato accennato in precedenza, una condizione che si perpetrò fin oltre la fine del XVIII, nonostante la cancellazione nel 1789 del Navigation Act del 1707, un atto che limitava le loro libertà commerciali a favore di quelle inglesi. In tal senso il di-scorso attraverso cui veniva fissata l’esclusione di Scozia e Irlanda alla piena parte-cipazione di tali regni alla “composite monarchy”, da un lato, e all’imperial expan-sion d’oltre mare, dall’altro, risulta la prima elaborazione di un discorso più generale che, nel corso dei decenni, incluse geograficamente e politicamente le isole del Ca-nale, quelle caraibiche e il Nord America. Cfr. anche A. PAGDEN, The Fall of Na-tural Man. The American Indian and the Origins of Comparative Ethnology, Cam-bridge U.P., Cambridge 1982; G. GIULIANI, Il concetto di impero, cit., p. 15.

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l’atteggiamento della madrepatria si differenziava radicalmente. In tal senso, l’impero non si presentò mai, fino alla fine del XVIII secolo, come un corpo politico unitario, corrispondente ad un’idea ed a un progetto preciso e avente una geometria spaziale chiara, definita ― con al centro un singolo Stato o una realtà politica composita –, ma piuttosto una realtà composta da diversi elementi politico–costitu-zionali (a partire dall’Irlanda, passando per i possedimenti insulari e continentali in America, fino alle precidencies indiane) e creata a par-tire da disorganici interventi ad hoc, non coordinati da alcun ministero né segretariato23. Questa condizione peculiare non permise mai che l’immaginario politico coloniale, alimentato durante il “Primo impe-ro” dalla semplice idea che l’impero corrispondesse alla migrazione dei britons nel mondo, i quali portavano con sé leggi e tradizioni, spi-rito liberale e riforma protestante, fosse sostanziata da un’ideologia

23 Si dovette aspettare la fine del XVIII e i primi anni del XIX secolo, quando

vennero creati un Secretary of State for War e un Under–Secretary of State “with colonial responsabilities”, perché venisse stabilito uno schema generale di gestione dei possedimenti d’oltremare. L’assenza di un progetto imperiale strutturato e la confusione tra identità imperiale e identità statuale britannica ebbe tra le sue conse-guenze quella di rendere più complesso sia il processo di State–building, sia la for-mazione di un’identità politico–culturale unitaria. Esemplare è in tal senso il caso dell’Irlanda. Cfr. J. ROBERTSON, Union, State and Empire. The Britain of 1707 in its European setting, in L. Stone (ed.), An Imperial State at War, cit., p. 224 e in questo stesso volume il saggio di N.C. LANDSMAN, The Provinces and the Em-pire. M. CERETTA, Nazione e popolo nella rivoluzione irlandese. Gli United Iri-shmen, 1791–1800, F. Angeli, Milano 1999 e ID., La rivoluzione in Irlanda. Studi recenti sugli United Irishmen, in «Il pensiero politico», XXX (1997), n.3, pp. 494–513 e il più recente Società, religione e politica nell’Irlanda del Settecento, Aracne, Roma 2005. N. CANNY, Irish Resistance to Empire? 1641, 1690 and 1798, in L. Stone (ed.), An Imperial State at War, cit., e il precedente ID., Why the Reformation failed in Ireland, in «Journal of Ecclesiastical History», n. 30 (1979), pp. 423–50. La tesi di Canny è stata messa fotemente in dubbio da B. BRADSHAW, The English Reformation and identity formation in Wales and Ireland, in B. Bradshaw (ed.), British Consciousness and identity 1533–1707, Cambridge U.P., Cambridge 1998, pp. 43–111. Si vedano anche in questo stesso volume il saggio di M. CABALL, Faith, culture and sovereignty. Irish nationality and its development, 1558–1625, pp. 112–39 e il saggio di C. KIDD, Protestantism, constitutionalism and British identity under the later Stuarts, p. 327.

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imperiale unitaria riconosciuta come incontrovertibile legittimazione dell’espansione imperiale britannica24.

Se, come ha affermato recentemente Pier Paolo Portinaro «la vi-cenda dello Stato moderno è […] la vicenda del “doppio Stato”, con un’anima repubblicana e un’anima imperialistica. L’una e l’altra [san-no] venire a patti con il capitalismo moderno, che pure si sviluppa nel segno di una fondamentale ambiguità, con un’anima commerciale e un’anima predatoria», nel caso specifico del soggetto politico Gran Bretagna la contraddizione tra libertà ed autonomia attraverso il com-mercio e controllo governativo sulle colonie, tra volontà di parteci-pazione alla sfera pubblica allargata in quanto cittadini “imperiali” e idea di Commonwealth e conquista violenta e predatoria di nuovi mondi non venne mai superata, fu solo con l’espansione a Est e con la “lezione americana” che patriottismo e impero ― sempre “costretti” dai timori della corruzione politica “romana” e della lussuria “immo-rale” asiatica ― divennero coestensivi25.

Il precipitare della crisi americana e la fine dell’impero occidentale ebbe in un certo senso il merito di spingere i teorici a riformulare o-biettivi e strategie dell’impero, in riferimento alla principale colonia asiatica, l’India, che si avviava a divenire la “colonia territoriale per eccellenza” della Gran Bretagna per mezzo dell’imperium ivi esercita-to dalla Compagnia delle Indie, soggetto, questo, trasformatosi pro-gressivamente a partire dalla concessione del Diwani (del potere di riscossione delle imposte sulla terra) nel 1765 da agente di interessi privati a vera e propria istituzione di governo.

24 Cfr. Cfr. D. ARMITAGE, Ideological Origins, cit., pp. 3, 99, 110–24; G.

BENNETT, The Concept of Empire. Burke to Attlee 1774–1947, Adam & Charles Black, London 1953, p. V.; P.J. MARSHALL, Introduction, in O.H.B.E., cit., vol. II, p. 7 e, ivi, ID., Britain Without America. A Second Empire?, p. 589.

25 P.P. PORTINARO, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, il Mu-lino, Bologna 2006, p. 24; per ciò che riguarda i timori espressi nella Gran Bretagna vittoriana nei confronti di ciò che si supponeva fosse, direi con parole mie, una terra, l’Asia, fonte di triplice corruzione – economica, politica e morale – perché “lussu-reggiante, lussuosa e lussuriosa” si veda tra gli altri S. SEN, Distant Sovereignty. National Imperialism and the Origins of British India, Routledge, London 2002, p. 96.

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Tra l’ultimo decennio del XVIII secolo e il primo ventennio del XIX secolo, accanto all’idea di “Trust” espressa compiutamente in patria da Edmund Burke26, in coincidenza del processo per impeachment al Governatore generale Warren Hastings, si fecero stra-da tutta una serie di riflessioni che investirono e trasformarono alla radice il concetto di impero in virtù dell’idea che obiettivo dello stesso fosse quello di realizzare il “buon governo” e di fungere da motore dell’emancipazione politica, economica, culturale e sociale delle po-polazioni ad esso sottomesse. La filosofia del progresso che animava questi intellettuali si saldò all’idea di “compito” e “missione” prece-dentemente elaborata portando alla formulazione di un “discorso” co-loniale essenzialmente nuovo27, fondato sull’idea, condivisa dal mo-vimento evangelico e dall’Utilitarismo28, secondo cui solo una tra-

26 E. BURKE (1775), Speech of Edmund Burke, Esq., On Moving His Resolu-

tions For Conciliation With The Colonies, in Id., Select Works of Edmund Burke, cit., vol. I, pp. 287–9. E. BURKE, Speech on Fox’s East India Bill (1 December 1783), in Id., The Works of Right Honourable Edmund Burke, Oxford U.P., London 1906, vol. III, p. 81. Si veda anche ID., Speech to the Electors of Bristol, 1774 citato in F.G. WHELAN, Edmund Burke and India, cit., p. 22, e ID., Speech on the Im-peachment of Warren Hastings (17 February 1788), in The Writings and Speeches of E. Burke, Bohn’s British Classic, London 1857, vol. VII.

27 Sulle implicazioni e le conseguenze del processo a Warren Hastings nel senso di un ripensamento degli obiettivi e della natura della presenza britannica in India e una sua riconcettualizzazione nei termini di impero si veda il recente N.B. DIRKS, The Scandal of Empire. India and the Creation of Imperial Britain, Harvard U.P., Cambridge (MA) 2006. Per una maggiore continuità tra le forme di governo poste in essere tra la concessione del Diwani (1765) e la fine del XVIII secolo e le riflessioni sull’impero e sul governo coloniale sviluppatesi successivamente si veda S. SEN, Distant Sovereignty, ch. I. Secondo Sen, attraverso l’assunzione del potere di riscos-sione delle tasse, il varo del Pitt’s India Act (1784), attraverso le inchieste sulla pro-prietà della terra, fino al Regulating Act del 1814, la Compagnia delle Indie Orienta-li e il parlamento posero già le basi dell’istituzione politica coloniale in India. Quella che viene creata, secondo Sen, è un’istituzione che ricalca in tutto e per tutto il para-digma politico georgiano fondato, dopo la Great Revolution, sui principi del King in Parliament, sulla necessaria codifica delle leggi penali e sull’idea di proprietà indi-viduale della terra. Cfr. P. CORRIGAN, D. SAYER, The Great Arch. English State Formation as Cultural Revolution, Basil Blackwell, Oxford 1985.

28 C. GRANT (1792), Observations on the State of Society among the Asiatic Subjects of Great Britain, particularly with respect to Morals, in Fifth R.S.C.H.C.A.E.I.C., (16 August 1832); J. SHORE, Considerations on the Praticabil-

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sformazione radicale del contesto sociale, politico e religioso di tali popolazioni avrebbe permesso al potere coloniale, pur senza operare una “cesura” repentina e totale con le antiche tradizioni, di riavviarle al cammino verso la civiltà29. È all’interno di tale contesto teorico che il “discorso” imperiale sembra assumere, infine, una maggiore organi-cità e compiutezza: è nell’intervento civilizzatore, supportato dalla consapevolezza del primato economico e politico–internazionale della Gran Bretagna, che esso si propone come struttura sintattica in grado di ricomprendere ogni specifica policy o intervento costituzionale. Ma i teorici dell’impero di questa fase, che è stata definita da Stokes come “l’età delle riforme”30, si spinsero oltre: la progettualità politica pensa-ta per l’India, che comprendeva una critica allo status quo e la formu-lazione di precisi interventi riformatori, coinvolse anche la madrepa-tria, per la quale la colonia funse da una sorta di “specchio” in grado di rifletterne pregi e difetti. Se a fondamento della “missione civilizza-trice”, ha affermato di recente Jünger Ostelhammel, vi sarà «the self–proclaimed right and duty to propagate and actively introduce one’s own norms and institutions to other peoples and societies, based upon

ity, Policy, and Obligation of Communicating to the Natives the Knowledge of Christianity, London 1808; W. WILBEFORCE, Substance of the Speeches of Wil-liam Wilbeforce Esq., on the Clause in the East–India Bill of Promoting Religious Instruction and Moral Improvement of the Natives of the British Dominions in India, on the 22th June and the First and 12th of July 1813, 1813, J. MILL (1858), History of British India, Routledge, London 1997, vol. V, book VI, ch. VI, pp. 418–20 quest’opera verrà citata tenendo presente la data dell’edizione del 1858 curata da H.H. Wilson).

29 Se le dottrine benthamite, che negli anni Venti e Trenta del XIX secolo perde-vano in patria il consenso di cui avevano goduto alla fine del secolo precedente, tro-varono nuova forza nel contesto dell’India britannica, ciò fu grazie alla loro sal-datura con il movimento evangelico e al sopravvenire di una congiuntura storico–politica che aveva spinto lo Stato britannico a fare del governo “in nome del popolo” colonizzato, così come era stato rivendicato da Burke nei suoi discorsi alla Camera dei Comuni, il fondamento ideologico della propria politica coloniale. R. IYER, Utilitarians and Empire in India, in T.R. METCALF (ed.), Modern India, Macmil-lan, London 1971, p. 167.

30 E. STOKES, The English Utilitarians in India, Oxford U.P., Oxford 1959, p. XIV. Dello stesso autore si veda anche The Political Ideas of English Imperialism. An Inaugural Lectures Given in the University College of Rhodesia and Nyasaland, Oxford, London 1960.

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a firm conviction of the inherent superiority and higher legitimacy of one’s own collective way of life, [which] denotes a comprehensive Sendungsbewusstsein, a general propensity to universalize the Self», in questa specifica fase del governo britannico in India, che precede il completo avveramento della “civilizing mission”, l’universalizzazione del Sé (che è un Sé da costruire) coinvolge la stessa Gran Bretagna31.

India e madrepatria, nello specifico delle riflessioni utilitariste, ap-parivano così inserite in un medesimo orizzonte politico e culturale, tale per cui l’India rappresentava il luogo in cui sperimentare com-piutamente i principi e realizzare le riforme di cui l’Utilitarismo si era fatto ideatore e portavoce in patria, ma anche, di rimando, lo stru-mento attraverso cui avanzare una critica profonda alle principali isti-tuzioni britanniche. Bentham e Mill, in linea con il principio da essi formulato della «massima felicità per il maggior numero»32 e con quell’Illuminismo empirista che aveva trovato in Hume il suo massi-mo teorico33, idearono, infatti, un piano di riforme che investiva ― tenendo conto dei differenti contesti, delle necessità e dei limiti che competevano alle due realtà politiche ― sia la madrepatria sia la pro-vincia indiana. È l’intervento del Legislatore universale benthamita, pur mantenendo fede al relativismo giuridico rappresentativo della dottrina utilitarista, ad unificare le sorti delle diverse società civili, fa-cendole tendere, per mezzo della creazione di un «giusto governo e di buone leggi» agli stadi più elevati del progresso umano. In tal senso, attraverso le dottrine utilitariste enucleate da Bentham e Mill34 e adat-tate da quest’ultimo allo specifico contesto indiano dei primi tre de-cenni del XIX secolo, la tradizionale separazione nell’immaginario

31 J. OSTERHAMMEL, Europe in the “West” and the Civilizing Mission, Ger-man Historical Institute, London 2006, p. 8.

32 J. BENTHAM (1776), A Fragment on Government, J.H. Hart, R. Harrison (eds.), Cambridge U.P., Cambridge 1988, p. 8.

33 Si vedano i saggi di D. HUME, Of National Characters (1742), Whether the British Government inclines more to Absolute Monarchy, or to a Republic (1742), Of the Jealousy of Trade (1752), Idea of a Perfect Commonwealth (1752) e Of commerce (1752), in ID., Essays, Moral and Political, U.R. Miller (ed.), Liberty-Classics, Indianapolis 1987.

34 J. BENTHAM (1793), On the Influence of Time and Space in Matter of Legis-lation, in Id., The Works of Jeremy Bentham, J. Bowring (ed.), vol. I, Russel & Rus-sel, New York 1992, pp. 169–94.

Introduzione 33

politico coloniale tra vicende “nazionali” e vicende “imperiali” venne definitivamente ridimensionata nella cornice dell’idea dell’impegno civilizzatore della madrepatria e della perfettibilità ad libitum di indi-vidui e società. Come l’India e i suoi abitanti potevano riavviare un processo di emancipazione sospeso, nel loro caso, da secoli35, la ma-drepatria doveva mettere in discussione il proprio grado di sviluppo per poter eliminare o riformare quegli elementi di “arretratezza” che ancora la caratterizzavano. D’altra parte, se la filosofia del progresso, con cui Bentham e Mill guardano alla colonia e alla Gran Bretagna, svela la necessità di non dare mai per raggiunto il più alto stadio di civiltà, essa non nega mai l’assunto secondo cui il dominio di quest’ultima sull’India è legittimato in sé dalla sua autoevidente supe-riorità storica e politica36. In tal senso i sudditi indiani non possono aspirare alla loro inclusione nel corpo politico in quanto cittadini a pieno titolo: ad essi non compete né il pieno riconoscimento in quanto soggetto politico né, tantomeno, il principio del governo rappresenta-tivo di cui l’Utilitarismo è esso stesso propugnatore in madrepatria37. È sulla definizione epistemologica e normativa della condizione della società colonizzata come “non ancora civilizzata”38 che il “discorso”

35 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book, II, ch. I, p. 118. La concettualizzazio-ne del tempo delle società colonizzate, o “provinciali”, in quanto tempo “sospeso” è di Dipesh Chakrabarty. Cfr. D. CHAKRABARTY (2000), Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004, p. 24, 26 e segg. Si vedano anche E.W. SAID, Orientalist The-ory Reconsidered, in F. Barker (ed.), Europe and Its Others, University of Essex, Col-chester 1985, vol. I, p. 22; R. GUHA, Elementary Aspects of Peasant Insurgency in Colonial India, Oxford U.P., Delhi 1983; R. GUHA, G. SPIVAK (1988), Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, Ombre Corte, Verona 2002; R. YOUNG, White Mytologies. Writing History and the West, Routledge Press, London 1990 e B. TURNER, Marx and the End of Orientalism, London 1978.

36 J. MILL (1858), History, vol. II, book II, ch. X, app., pp. 107–8. Cfr. J. MA-JEED (1992), Ungoverned Imaginigs, cit., p. 16.

37 J. BENTHAM (1776), A Fragment on Government, cit., p. 16; J. MILL (1820), Essay on Government, in Id., Political Writings, T. Ball (ed.), Cambridge U.P., Cambridge 1992, pp. 37–8; J.S. MILL (1859), Saggio sulla libertà, il Saggia-tore, Milano 1981, p. 33 e ID. (1861), Considerazioni sul governo rappresentativo, Bompiani, Milano 1946, p. 14.

38 Cfr. J. FABIAN (1983), Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antro-pologia, l’Ancora, Napoli 2000. E.W. SAID, Orientalist Theory Reconsidered, cit., p. 22. D. CHAKRABARTY (2000), Provincializzare l’Europa, cit., pp. 57–8.

Introduzione 34

imperiale utilitarista fonda la legittimità del dominio coloniale39. In tal senso la dottrina dello Stato utilitarista che in madrepatria affermava il principio dell’inclusione progressiva di tutte le persone maggiorenni e razionali alla gestione della cosa pubblica, riducendo l’indiano ad una sorta di “fanciullo” che dove essere condotto alla maturità per mezzo degli insegnamenti di un tutore,40 negò ad esso quello statuto di “indi-viduo” autonomo a cui era vincolato il diritto di accesso alla sfera pubblica41.

Il “discorso” imperiale che viene articolato in questa fase storica dall’Utilitarismo ― insieme all’Evangelismo e ai teorici whig come Thomas Babington Macaulay che condivisero con le riflessioni utilita-

39 Cfr. B. COHN, Colonialism, cit., p. 21; G. SPIVAK, Three Women Text’s and critique of Imperialism, cit. L’accezione del concetto di “discorso” che viene qui utilizzata è quella sviluppata da Michel Foucault e trasposta nel contesto coloniale da Eduard Said. Cfr. M. FOUCAULT (1966), Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, BUR, Milano 1998; ID. (1970), L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972; E.W. SAID (1978), Orientalismo, cit., p. 100 e ID., Foucault and the immagination of power, in D.C. Hoy (ed.), Foucault. A Critical Reader, Basil Bla-ckwell, London 1986, ID.(1993), Cultura e imperialismo, Gamberetti, Roma 1998; si vedano anche i testi critici di A.L. STOLER (1995), Race and Education of Desi-re. Foucault’s “History of Sexuality” and the Colonial Order of Things, Duke U.P., Durham & London 2000, A.L. STOLER, F. COOPER, Tensions of Empire. Colo-nial Cultures in a Bourgeois World, California U.P., Berkley & Los Angeles & London 1997 e Carnal Knowledge and Imperial Power. Race and the Intimate in Colonial Rule, California U.P., Berkley & Los Angeles & London 2002.

40 Vi è a mio avviso una perfetta corrispondenza tra la concezione antropologica e la ratio che soggiace agli scritti benthamiti e milliani in materia di riforma delle istituzioni pedagogiche ed educative britanniche e la concezione degli obiettivi e delle modalità del governo coloniale in India. Cfr. Infra, cap. II, par. 2.

41 Cfr. U.S. MEHTA, Liberalism and Empire, cit., p. 33. L’antropologia politica alla base della dottrina utilitarista dello Stato, se immaginata come delimitata da un perimetro che inglobi virtualmente centro e periferie dell’impero, definisce il citta-dino in quanto individuo “maschio”, “razionale” (dunque sano di mente), “auto-nomo” nelle sue capacità fisiche e nella propria volontà, non solo “proprietario” – come era stato definito dal contrattualismo lockeano – ma appartenente al “middle rank” dunque benestante, acculturato, dedito agli affari e coinvolto nella vita politica del paese, necessariamente maggiorenne (o di mezza età, nella definizione milliana di cittadino idoneo a esercitare i pieni diritti politici) “disciplinato” e bianco. J. MILL (1824), Essay on Education, cit., p. 139. Cfr. C.B. MACPHERSON (1962), Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, ISEDI, Milano 1978. C. PA-TEMAN (1988), Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1997.

Introduzione 35

riste alcuni elementi filosofico–politici fondamentali42 ― fu in grado di coniugare, quindi, il lemma del “temporaneo” sacrificio del nativo “fanciullo” sottoposto alla disciplina del maestro straniero ed una ri-formulazione radicale, ed un suo superamento, della contraddizione presente nel cosidetto “Primo impero” tra una concezione di British Empire come risultato della libera iniziativa individuale (libertas), da una parte, e come impresa di Stato, dall’altra (imperium): il novum im-perium ipotizzato da Mill e dai riformatori sembra far convergere, in-fatti, in un’esperienza coloniale che non prevede settlement, le “liber-tà” dei britons coinvolti negli Indian Affaires attraverso l’idea di mo-nopolio nazionale avanzata da Mill, e l’ideale dell’“impegno” costitu-zionale della metropoli dell’impero.43 Solo mediante la costruzione di una solida istituzione politica coloniale in India, quel particolarismo e quella corruzione, deplorati da Burke, di avventurieri e funzionari dal-la condotta irresponsabile e profondamente immorale, la cui libertà d’azione era stata cagionata soprattutto dall’assenza di un “progetto” coloniale strutturato e a lungo termine, sarebbe stata superata in vista del soddisfacimento degli interessi dei “Più”. Solo per mezzo di essa la nuova India «trained by us to happiness and indipendence, and en-dowed with our learning and political institutions» avrebbe potuto rappresentare nei secoli a venire «the proudest monument of British benevolence»44.

Perché la colonia indiana possa divenire il luogo, il “laboratorio po-litico” in cui “sperimentare” l’ideale del “buon governo” è necessaria

42 Delle similitudini e delle profonde differenze esistenti tra le proposte in riferi-mento all’India avanzate da J. Mill, C. Grant, J. Shore e T.B. Macaulay tratterò nel capitolo II, par. 1.

43 J. BENTHAM (1798), A Manual of Political Economy, in Id., The Works of Jeremy Bentham, cit., vol. III, p. 56; J. BENTHAM (1786–9), Principles of Interna-tional Law, in, Id., The Works of Jeremy Bentham, cit., vol. II, p. 548. J. MILL (1858), History, cit., vol. V, book VI, ch. II.

44 Cfr. G. GIULIANI, Il concetto di impero, cit. La citazione si riferisce a C.E. TREVELYAN, On the Education of The People of India, London 1838, p. 195. Questo testo è presente anche nella raccolta di minute e saggi relativi al dibattito sull’educazione in India che si snodò tra gli anni Ottanta del XVIII e gli anni Trenta del XIX secolo (raccolta che contiene anche gli interventi di Hastings, Duncan, Grant, MacKenzie, Rammouhn Roy, Macaulay, Trevelyan) in L. Zastoupil, M. Moir (eds.), The Great Indian Education Debate, Curzon, Richmond 1999, pp. 281–303.

Introduzione 36

una “produzione (discorsiva) della stessa”45 che legittimi la profonda trasformazione culturale, politica ed economica che i riformatori pro-gettano per lei.

Se il discorso che aveva legittimato la conquista del “Nuovo Mon-do” americano si era fondato fin dal XVII secolo sull’idea che esso non fosse altro che un mero insieme di “waste territories” sui quali dimoravano “barbari” organizzati in comunità non definibili in quanto moderni “Stati”46, il discorso che viene ora costruito dai riformatori al fine della legittimazione dell’impero in India non può più articolarsi sull’immagine della colonia come “tabula rasa”47.

L’India, con il suo bagaglio di tradizioni politiche, religiose, cultu-rali millenarie, celebrate dalle ricerche della scuola di studi orientalisti capeggiata da William Jones48, esemplifica sia la “continuità” con il passato sia la “staticità” nei confronti del futuro. L’interpretazione o-rientalista, dominante fino all’alba del XIX secolo, poneva l’accento sugli elementi di continuità con il passato e privilegiava una lettura “conservatrice” di essi49: essa fu alla base dell’Indirect Rule che aveva caratterizzato l’amministrazione dei primi governatori della Compa-gnia delle Indie Orientali, Robert Clive (Governatore generale dal 1765 al 1766) e Warren Hastings (1772–85). Essa venne rigettata dai riformatori e, primo tra tutti da James Mill, i quali videro nella sta-ticità e nella “resistenza” al progresso, elementi assolutamente ne-gativi che avevano bloccato lo sviluppo della società indiana sia a li-vello politico–sociale sia economico50. In linea con quegli intellettuali

45 H. BHABHA, La questione dell’altro. Stereotipo, discriminazione e e discorso del colonialismo, in H. Bhabha (1994), I luoghi della cultura, cit., p. 98 riprendendo la nota espressione di E.W. SAID (1978), Orientalismo, Bollati e Boringhieri, Tori-no 1991, p. 5.

46 J. LOCKE (1689), Secondo trattato sul governo, BUR, Milano 2001, par. 19, p. 87.

47 Cfr. U.S. MEHTA, Liberalism and Empire, cit., p. 106. 48 Per una disamina più specifica rimando al paragrafo 1 di questo volume. 49 Cfr. G.D. BEARCE, British Attitude 1784–1858, Oxford U.P., Oxford 1961, p.

20–4; J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 184. Per uno sguardo alla concezione della presenza britannica in India sviluppata nei primi quarant’anni dell’espansione si veda R. TRAVERS, Ideology and Empire in Eighteenth–Century India. The British in Bengal, Cambridge U.P., Cambridge 2007.

50 J. MILL, Caste, in Encyclopaedia Britannica, vol. VI, 1857, p. 223 e ID.

Introduzione 37

illuministi che avevano visto nel “dispotismo” indù e musulmano il fattore principale dell’“arretratezza” indiana51 e sulla base delle dottri-ne utilitariste che associavano alla forma di governo e alla conformità delle leggi al principio dell’utile il ruolo di motori del progresso uma-no, James Mill vide l’India, dominata dal dispotismo braminico e dalla superstizione, come l’esempio supremo di “irrazionalità” e d’“imma-turità”.

Per poter avviare un processo di riforme che permetta all’India di uscire dallo stato di “minorità” in cui versa e che, al contempo, renda l’istituzione politica coloniale l’esempio più alto di realizzazione dello Stato razionale e utilitarista e quindi l’emblema della superiorità sto-rica, politica e costituzionale britannica agli occhi del mondo intero, è necessario “delegittimare” e “accantonare” l’approccio orientalista e organizzare gli sforzi politici verso la realizzazione di un progetto or-ganico di società coloniale. Nasce con questo fine nel 1817 la History of British India, un’opera letteraria e storiografica che, nonostante si presenti principalmente come narrazione storica, pone in secondo pia-no il rigore scientifico52 per intessere le trame di una fitta critica politi-ca (pars destruens) all’amministrazione della Compagnia, ai saperi orientalisti e alle tradizioni indiane, esaminati sulla base delle Leggi della Ragione e del Vero illuministi. Ma essa non si limita ad essere un esempio di ciò che lo stesso Mill definisce “judging history”53 ― tesa a vagliare i fatti e le informazioni sulla base del paradigma inter-pretativo del “progresso delle società” e del “principio dell’utile”: essa rappresenta anche il luogo in cui enunciare, tra le righe e senza troppi proclami, un programma di riforme (pars construens) che tiene fede in massima misura al programma riformatore enucleato da Jeremy Ben-tham e che rappresenta il tentativo di conciliare il rispetto della “di-versità storica” indiana con la necessità di imprimere in essa un’omogeneità giuridico–politica, ma anche culturale, rispetto alla quale la “superstizione”, l’“irrazionalità”, “l’arretratezza”, denunciate (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. IV, pp. 166–7, 173.

51 Per la letteratura che individua nel dispotismo l’origine dell’arretratezza so-ciale, politica ed economica dell’India e dell’Asia in generale e l’influenza di essa sulle riflessioni milliane si veda infra, par. 1.

52 Cfr. G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., pp. 112–3. 53 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, p. XVIII.

Introduzione 38

dagli utilitaristi così come dagli evangelici, appaiono come “ecceden-ze” non–familiari da ridurre e, progressivamente, eliminare.54

Perché, in definitiva, l’India possa essere finalmente concepita co-me parte dell’“Our Empire” britannico, emblema di una realtà politica finalmente organica, è necessario sostituire al “sapere coloniale” e all’immaginario che, attraverso esso, era stato costruito sull’India55, un nuovo “sapere coloniale” che serva da “magazzino per gli attrezzi” sia per la formulazione degli interventi politico–costituzionali sia per la creazione di un nuovo immaginario coloniale che ne legittimi la rea-lizzazione56.

2. La History of British India, scritta a partire dal 1806 e pubblicata

per la prima volta nel 1817, rappresenta la grande opera storiografica di James Mill, un’opera che al di là della narrazione delle vicende in-glesi in India a partire dal XVI secolo, assume in sé una molteplicità di obiettivi pedagogici, scientifici e politici57. Se essa, infatti, si pre-

54 Si vedano le sorprendenti similitudini non solo concettuali ma perfino seman-

tiche tra i “discorsi” di Charles Grant e James Mill. C. GRANT (1792), Observa-tions, cit., p. 40 ; J. SHORE, Considerations, cit., pp. 78 e segg.; J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book II, ch. X, app., p. 155. Il concetto di “non–familiare” è di U.S. MEHTA, Liberalism and Empire, cit., pp. 1–2.

55 Ivi, p. 11. Cfr. E.W. SAID (1978), Orientalismo, cit., p. 9 e p. 216; V.G. KIERNAN, The Lords of Human Kind. Black Man, Yellow Man and White Man in an Age of Empire, Little Brown, Boston 1969, p. 55.

56 Cfr. B. MAZLISH, James and John Stuart Mill. Father and Son in the Nine-teenth Century, Hutchinson, London 1975, p. 118; R. GUHA, Dominance without Hegemony, cit., p. 78.

57 La History of British India si compone di due parti, la prima dedicata alle vi-cende britanniche in India dal 1527 al 1805 e strutturata in 6 libri, la seconda dedica-ta a quelle che fanno riferimento agli anni dal 1805 al 1835 e strutturata in 3 libri. I primi tre libri della prima parte si occupano della ricostruzione e dell’analisi della storia politico–istituzionale dell’India, affrontando prima la civiltà indù e successi-vamente quella musulmana. I restanti libri della prima e della seconda parte rico-struiscono le tappe della dominazione coloniale, sia in riferimento al rapporto stabi-lito con i poteri locali sia in riferimento alle questioni legate alla forma costituziona-le della Compagnia delle Indie Orientali e ai dibattiti sulle riforme. Una disamina di questo testo è stata anticipata nel mio saggio «Responsibility implied superiority and inferiority». La «History of British India» di James Mill e il nuovo immaginario imperiale britannico, in «Filosofia politica», XXI (2007), n. 3, pp. 453–473.

Introduzione 39

senta come la ricostruzione della storia politico–istituzionale del-l’India britannica, persegue altresì la strada dell’analisi della realtà po-litico–sociale, economica e culturale dell’India del tempo con tre fi-nalità specifiche: fornire quegli strumenti interpretativi di cui il grande pubblico necessita per giudicare le vicende legate alla presenza britan-nica in India, le informazioni essenziali riguardo alle forme di vita presenti nella colonia a coloro che sono e che saranno investiti del-l’importante compito di governarla e, non ultimo, illustrare quelle mi-sure che sono necessarie affinché si possa realizzare il “buon gover-no”, in funzione della felicità di governanti e governati. La lettura del-le vicende indiane ha, quindi, un’intrinseca e immediata funzione poli-tica: in tal senso l’opera di Mill rappresenta un importante esempio di come la produzione culturale coloniale, e la storiografia nello speci-fico, volte all’interpretazione di pratiche politiche e stili di vita delle popolazioni sottomesse, fossero di fatto, come hanno sottolineato tra gli altri Edward W. Said e Bernard S. Cohn, il luogo principale della formulazione degli orientamenti e delle politiche di governo58.

La duplice natura della History of British India, al contempo opera

storiografica e trattato politico, modello interpretativo ed euristico consapevolmente costruito dall’autore ai fini del “buon governo” co-loniale, viene esplicitata dall’autore fin dalla prefazione. In essa Mill illustra i principi metodologici sulla base dei quali egli ha selezionato le fonti e costruito la History ― processi questi che si sono fondati su di un “accurato ed alquanto faticoso” lavoro di scrematura che, precisa Mill, ha fatto emergere dall’enorme massa di testimonianze e infor-mazioni confuse, parziali, insignificanti e superficiali59 il materiale storiografico e letterario utile alla stesura dell’opera. Questo lavoro di selezione e di riorganizzazione delle informazioni è tutto orientato, prosegue Mill, a ricondurre i fatti storici a un sistema teorico fisso e universale. Un paradigma, quello del progresso così come è stato for-mulato dall’Utilitarismo benthamita e milliano, da cui discende diret-tamente il piano di riforme elaborato da Mill. La narrazione storica è quindi subordinata alla “prognosi”, nel senso attribuito a tale termine

58 B.S. COHN, Colonialism, cit., p. 5. 59 J. MILL (1858), History, cit., p. XV.

Introduzione 40

da Reinhardt Koselleck, che Mill ha già previamente formulato nei confronti della civiltà indiana e dell’amministrazione coloniale e ri-spetto alla quale la stessa narrazione deve fungere da conferma60.

L’obiettivo principale che Mill persegue, come ha sottolineato Guido Abbattista, non è, quindi, quello di operare una ricostruzione storica rigorosa e quanto più vicina al vero: le lacune che essa presenta non sono dovute esclusivamente alla scarsità delle fonti biasimata da Mill ― o alla loro contraddittorietà ed imprecisione ― ma ad una scelta precisa che l’autore ha operato a monte61. Non è un caso che egli non si serva delle testimonianze dei “nativi” ― che considera i-nattendibili in quanto falsate dall’immaginazione e dalla superstizione che caratterizzano l’indole dell’indiano “bambino”62 ― o che tratti frettolosamente ed in modo alquanto impreciso molti degli aspetti del-la storia precoloniale dell’India, ridotta alla storia delle vicende politi-co–istituzionali dei regni musulmani e indù, o, ancora, che escluda quelle informazioni che risultano incoerenti rispetto alla filosofia della storia che soggiace alla sua ricostruzione storica. L’obiettivo è, piutto-sto, da una parte quello di mettere in dubbio una serie di saperi co-struiti sull’India dalla comunità scientifica britannica ed europea lega-ta agli studi orientalisti, screditare la visione positiva della civiltà in-diana che la contraddistingue, dall’altra, quello di stimolare l’establishment politico britannico a prendere in maggiore considera-zione la centralità del problema indiano e sensibilizzarlo nei confronti di una a suo avviso necessaria revisione sostanziale del ruolo dell’im-pero nella colonia.

La narrazione che Mill propone è, quindi, pensata e scritta ad uso e consumo soprattutto della classe politica inglese e coloniale: essa deve fornire un sapere immediatamente spendibile, ricco di informazioni ― a suo parere ancora quasi del tutto assenti o non sistematizzate a dove-re63 ― utili e necessarie ai fini di governo. Per evincere tale scientific

60 Ivi, vol. I, book I, pp. XV–XVI. 61 G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., pp. 112–3. 62 J. MILL (1858), History of British India, cit., part I, vol. I, book II, ch. VII, pp.

324 e segg.; part I, vol. II, book II, ch. IX, pp. 33–4 e pp. 46 e segg. 63 In tal senso Mill concorda con il Governatore generale William Bentick il

quale aveva affermato che «we are all acquainted with some prominent marks and facts which all who run may read: but [indians’] manner of thinking; their domestic

Introduzione 41

knowledge, afferma Mill, è necessario che l’osservatore sia quanto più distante possibile dall’oggetto dei suoi studi, che sia in poche parole estraneo alle vicende indiane ― e tale estraneità è per lo storico pie-namente realizzata, in quanto egli non è mai stato in India e non cono-sce nessuna delle lingue parlate in Oriente64 ― poiché «tutto ciò che può essere ascoltato e visto in India da parte dei singoli può essere scritto, ma tutto ciò che è stato scritto sull’India non può essere vissu-to, ascoltato, visto da ogni persona»65. Mill non nega che in certi casi una conoscenza più approfondita sia ottenibile solo con l’esperienza diretta: d’altra parte, essa resta necessariamente parziale, in quanto è il risultato dell’esercizio delle facoltà empiriche e non di quelle raziona-li. Se la capacità di osservazione dell’uomo è limitata per natura, in quanto non si può pensare che essa possa abbracciare ogni aspetto del-la realtà che si intende analizzare, di fronte ad un oggetto di studio co-sì vasto come l’India, tale insufficienza risulta ancor più accentuata66. Si tratta, allora, di raccogliere più testimonianze possibili, per poter mettere a confronto i diversi punti di vista, trovarne i punti di contatto e le incongruenze attraverso un complesso sistema di «combination, discrimination, classification, judgement, comparison, weighing, in-ferring, inducting, philosophising, in short: which are the powers of most importance for extracting the precious ore from a great mine of rude historical materials».67 L’approccio scientifico che caratterizza la “judging history” milliana è stato definito nell’ambito della dottrina della conoscenza elaborata dallo stesso Mill e, prima di lui, da Ben-tham: la conoscenza, secondo i due filosofi, si fonda su di un processo habits and ceremonies, in which circumstances a knowledge of the people consist, is, I fear, in great part wanting to us. [...] We are in facts strangers in the land». Mill cita Bentick dall’Appendice al Fifth Report. Cfr. Fifth R.S.C.H.C.A.E.I.C., 1810, pp. XXIX–XXX.

64 Mill sostiene – contraddicendosi rispetto a ciò che aveva affermato prece-dentemente rispetto alla limitatezza delle fonti – che la vastissima letteratura europea sull’India già a disposizione è in grado di per sé di fornire tutte le informazioni ne-cessarie e di rendere superflua la conoscenza diretta – e suffraga tale affermazione con esempi di illustri autorità coloniali, quali il presidente del Board of Control e il Governatore generale, che non si sono mai recati in India.

65 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book I, p. XXIII. Traduzione mia. 66 Ivi, p. XXII. 67 Ivi, p. XXIII.

Introduzione 42

di interpretazione della realtà che riconduce fatti e fenomeni a leggi universali razionali68, le quali, quindi, una volta individuate, regolano sia la vita, il comportamento e il pensiero individuale, sia i fenomeni sociali, culturali, economici e politici della collettività69. Tale dottrina è contenuta nell’Introduction to the Principles of Moral and Legisla-tion e nella Deontology di Bentham e nelle voci Education e Gover-nment, curate da Mill per il Supplemento dell’Enciclopedia Britannica pubblicato nel 1824 e nell’Analisys of the Phaenomena of the Human Mind del 1829.70 L’insieme di questi scritti, afferma Guido Abbattista «offrì un’esposizione globale, da un punto di vista utilitarista, dell’origine della conoscenza umana, della formazione del carattere, dei motivi dell’agire, dei rapporti tra psicologia individuale e ambiente sociale nelle sue molteplici componenti (famiglia, scuola, istituzioni politiche, economiche e amministrative)». La dottrina della conoscen-za elaborata dagli utilitaristi per la quale i principi di associazione e di utilità erano intesi come una chiave di lettura dei problemi dell’individuo e della società nel presente, rappresentò anche e soprat-tutto il punto di riferimento ideale in relazione a cui tracciare un am-pio programma riformatore che abbracciasse l’economia, le strutture

68 Halévy ha sottolineato la centralità del razionalismo e dello scientismo illumi-nista in Bentham e Mill. E. HALÉVY (1955), The Growth of English Radicalism, Faber & Faber, London 1966, p. 436.

69 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, p. XVIII. La filosofia della storia milliana, ha sottolineato Bruce Mazlish, per quanto condivida il principio benthamita della “legge universale” applicata ad una storia che è necessariamente “particolare”, fa un passo successivo: se esiste una diversità di vissuti, attraverso l’analisi storica – che Bentham non opera mai – Mill riesce a “criticarla”, “giudicarla” e “guidarla” impo-nendole un modello e un obiettivo ritenuti universali e razionali. La storia non è per Mill interessante in sé, ma è maestra di “esempi” e contiene una spiegazione delle leggi che governano l’agire umano, “useful truths”, che solo con l’analisi possono essere portate alla luce. L’intento quindi non è storiografico, ma filosofico. Questo approccio gli deriva dalla filosofia scozzese, alla base della sua formazione intellet-tuale, e dalle opere storiografiche di Bayle, Gibbon, Voltaire e Beausobre. B. MA-ZLISH, James and John Stuart Mill, cit., pp. 119–21. Cfr. G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., pp. 82–3.

70 J. BENTHAM (1789), Introduction to the Principles, cit., vol. I, pp. 1–32; ID. (1834), Deontology, ivi, vol. VIII, pp. 193–212; J. MILL (1824) Essay on Educa-tion; Essay on Government, cit.; ID. (1829), Analysis of the Phaenomena of the Hu-man Mind, cit.

Introduzione 43

amministrative, specie giudiziarie, le istituzioni educative e religiose, le istituzioni politiche71.

In sostanza, di fronte alle sfide poste dall’estraneità, lo storico Mill ― in linea con il Legislatore Bentham ― non fa altro che “ripetere”, presumere, e asserire le strutture familiari ― e dominanti, secondo un processo che Nicholas B. Dirks e Bernard S. Cohn hanno definito di “self–mimesis”72 ― della “ragionevolezza”, dell’“utilità”, della “co-noscibilità” e del “progresso”, «annullando il senso del sé» della real-tà (coloniale) oggetto di studio73. «These generalities», ha affermato Uday Singh Mehta, «constitute the ground of a cosmopolitanism be-cause in a single glance and without having experienced any of it, they make it possible to compare and classify the world»74. Comparazione, classificazione, ripetizione e negazione, rappresentano alcuni dei prin-cipali processi in atto nella strategia conoscitiva milliana e coloniale in senso lato75: essi permettono di «ricondurre una storia deviante e re-calcitrante ad un futuro appropriato»76, una storia che altrimenti appa-

71 Cfr. G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., p. 85. 72 N. B. DIRKS, Foreword, in B. Cohn, Colonialism, cit., p. XV. 73 L’espressione è di Frantz Fanon, secondo cui tale processo di “ripetizione” di

strutture cognitive familiari, equivale alla negazione dell’identità Altra e al suo con-gelamento in una forma di oggettività non–umana. F. FANON (1952), Pelle nera, maschere bianche, Marco Tropea, Milano 1996, p. 99. Il tema dell’“oggettifi-cazione” viene elaborato da Fanon sulla scia delle riflessioni A. CÉSAIRE (1950) Discorso sul colonialismo, Lilith, Roma 1999. Cfr. anche H. BHABHA, Sull’imita-zione e l’uomo. L’ambivalenza del discorso coloniale, in H. Bhabha (1994), I luoghi della cultura, cit., pp. 125–32.

74 U.S. MEHTA, Liberalism and Empire, cit., p. 20. 75 In quanto processi “di appropriazione” sono stati individuati anche la “traduzione”,

la “mappatura cartografica”, la classificazione merceologica dei prodotti “esotici”. Cfr. B.S. COHN, Colonialsm, cit., p. 4; T. ASAD, J. DIXON, Translating Europe’s Others, in F. Barker (ed.), Europe and Its Others, vol. I, Colchester, University of Essex, 1985, pp. 170–77; R. Drayton, Knowledge and Empire, in O.H.B.E., cit., vol. II, pp. 248 e segg.; H. BHABHA, La questione dell’altro. Stereotipo, discriminazione e e discorso del colonialismo, in H. Bhabha (1994), I luoghi della cultura, cit., pp. 103–110; A. H. ED-NEY, Mapping an Empire. The Geografical Construction of British India, 1765–1843, Chicago U.P., Chicago 1997; S. SEN, Distant Sovereignty, cit., pp. 57; J. WALVIN, Fruits of Empire. Exotic Produce and British Taste, 1660–1800, MacMillan, London 1997 e J.M. MACKENZIE, The Empire of Nature. Hunting, Conservation and British Imperialism, Manchester U.P., Manchester 1988.

76 U.S. MEHTA, Liberalism and Empire, cit., p. 30.

Introduzione 44

re, considerata a partire dal paradigma della razionalità illuminista, come mero insieme di «spots on a map or past points on the scale of civilizational progress, but not dwellings in which peoples lived and had deeply invested identities. And all this is by reference to other singular grids of emotive significance. In their denial lies their incor-poration into the teleologies of imperial and liberal imperatives»77.

Dal punto di vista di un siffatto modello interpretativo, che tra-

sformava il soggetto conoscente in una sorta di “technical jurist”, sot-tolineano Ranajit Guha e Javed Majeed, la produzione scientifica o-rientalista di studiosi come William Jones, Nathaniel–Brassey Hal-held, Charles Wilkins, Francis Gladwin, Alexander Hamilton, Henry Thomas Colebrooke, appariva agli occhi di Mill come un’insieme di descrizioni “romanzate”, prive di valore scientifico perché incapaci di distinguere la realtà dalla fantasia, di misurare il valore scientifico dei fatti sulla base di leggi universalmente valide78.

Rifiutando l’approccio epistemologico che tende ad un’analisi ge-nerale di una realtà complessa, così come era stato postulato da Jones ― foriero a suo avviso di errori grossolani e del rafforzamento di pre-giudizi per lo più infondati in quanto in grado di registrare esclusiva-mente quelle informazioni che si accordano con le impressioni primi-genie e che confermano le idee preconcette ― Mill asserisce la supe-riorità dell’analisi approfondita di una realtà specifica, in virtù del fat-to che permette di osservare un fenomeno fisico, storico, politico o sociale attraverso i suoi aspetti più importanti. Il campo d’azione dell’indagine deve essere, infatti, quanto più ristretto possibile al fine di limitare gli effetti negativi prodotti dal meccanismo dell’asso-ciazione, su cui si fonda secondo la dottrina utilitarista il processo co-noscitivo individuale ― meccanismo che vincola la conoscenza del-l’uomo alle idee dominanti ― e i condizionamenti che derivano dal

77 B. COHN, Colonialism, cit., p. 21. 78 R. GUHA, A Rule of Property of Bengal. An Essay on the Idea of Permenent

Settlement, Orient Longman, New Delhi 1981, pp. 20–21; J. MAJEED (1992), Un-governed Imaginings, cit., pp. 12, 33–34, 149. Si tratta della metodologia storiogra-fica degli studi orientalisti, su cui si fondano le narrative sull’India, narrative che appaiono agli occhi di Mill indistinguibili da “poetical fables” prive di qualsiasi fon-damento scientifico, ad essere l’obiettivo polemico di Mill.

Introduzione 45

principio del piacere e dal rifiuto di ammettere l’erroneità delle pro-prie opinioni, ossia dalla tendenza dell’uomo ad evitare o negare tutto ciò che le metta in discussione79.

In tal senso il ruolo che lo storico si prefigge risulta essere “so-vraumano”: non solo egli deve sapersi astrarre dal contesto e far e-mergere quelle intrinseche e spesso celate connessioni che esistono tra i fatti, ma deve altresì “giudicare” le fonti, alla stregua di un uomo di legge intento a evincere la verità dalle testimonianze contrastanti. Per fare ciò egli deve conoscere perfettamente le leggi che governano gli individui e le società, quali motivi spingono gli uomini a creare socie-tà strutturate e i principi alla base dell’azione di governo. In sintesi,

The whole field of human nature, the whole field of legislation, the whole field of judicature, the whole field of administration, down to war, commerce, and diplomacy, ought to be familiar to his mind80. Il processo di astrazione dal contesto, la distanza che Mill pone tra

sé e l’oggetto dei suoi studi è, quindi, strumentale alla formulazione di un “giudizio” che mira ad essere il più vicino al vero possibile, per quanto lo storico ammetta l’imprescindibile e originaria “parzialità” del proprio punto di vista. Egli afferma, infatti, che tale parzialità può essere smentita solo ex post, sulla base della legge formulata da Locke e Bayle secondo cui «l’opinione degli altri, come la propria, non può essere né vera né falsa fino a quando non sia stata esaustivamente comprovata».

Consapevole di esprimere un punto di vista che male o poco si con-forma al senso comune diffuso in madrepatria in riferimento alle vi-cende indiane, Mill sostiene, rifacendosi alla dottrina lockeana della conoscenza, che sono proprio le affermazioni formulate sulla base dei propri convincimenti e che non trovano l’immediato plauso dei più, ad essere di vera utilità alla collettività. Il successo della sua opera, af-ferma Mill, dipenderà «dal grado in cui sono diffusi, presso la società, lo spirito di libertà e il coraggio intellettuale», quelle virtù che rendo-no possibile la capacità critica e «dall’esempio di libero pensiero che

79 Cfr. J. MILL (1829), Analysis of the Phaenomena of the Human Mind, cit., pp. 146–147.

80 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book I, p. XXVII.

Introduzione 46

[la History] rappresenta». Chi non sarà in grado di comprendere l’enorme portato politico e intellettuale che la sua opera rappresenta saranno esclusivamente gli «intemperated and narrow–minded of all parties»81.

La distanza posta tra sé e l’India, attraverso l’interposizione di una vasta letteratura composta di fonti primarie e secondarie, permette di analizzare le vicende indiane alla stregua di “dati astratti” ottenuti at-traverso l’espulsione dell’elemento personale, del vissuto individuale e collettivo che le caratterizza. La fonte storiografica è il libro, il regi-stro, la statistica, il rapporto redatto dagli ufficiali e dagli amministra-tori della Compagnia e la storia dell’India e dei suoi popoli è ricostrui-ta assemblando i fatti che in essi vengono riportati e “che coinvolgono l’uomo orientale” non in quanto protagonista della sua propria storia, ma in quanto “oggetto del divenire storico” e della sua narrazione. Ta-le approccio non caratterizza esclusivamente la History of British In-dia, ma accomuna, come avremo modo di vedere più avanti, quasi tut-ta la produzione letteraria occidentale sull’Oriente, sia quella di matri-ce orientalista, sia quella legata all’empirismo e al razionalismo di ini-zio Ottocento. Entrambi ― per l’elevata capacità euristica, per la me-desima decisione nel porre una distanza definitiva tra soggetto cono-scente e realtà conosciuta, per il dialogo serrato che stabilirono con le istituzioni del governo coloniale ― divennero quel corpus di saperi, di veri e propri elementi epistemologici, di cui si nutrì, in modo più o meno mediato, l’ideologia coloniale. Essi rappresentano, in termini saidiani l’“orientalismo latente”, ossia quell’insieme di studi e ricer-che fortemente condizionate dalle scelte politiche nazionali e dal-l’immaginario ― l’“orientalismo manifesto”82 ― che derivava dalla diffusione delle teorie positivistiche sul progresso e dall’idea «dell’i-

81 Ivi, pp. XXXII–XXXV. 82 E.W. SAID (1978), Orientalismo, cit., p. 9, 216. È necessario ricordare in que-

sta sede che per Said il termine orientalismo non individua esclusivamente la corren-te di pensiero che tese a valorizzare positivamente la cultura, la religione e le tradi-zioni socio–politiche asiatiche e indiane e che trovò in William Jones e in tanti altri eminenti studiosi i suoi massimi esponenti, quanto «il termine generale» che indica «la disciplina teorica con cui l’Occidente si è avvicinato (e si avvicina) all’Est in modo sistematico, attraverso lo studio, l’esplorazione geografica e lo sfruttamento economico». Ivi, p. 78.

Introduzione 47

dentità europea radicata in una superiorità rispetto agli altri popoli e alle altre culture». Tali saperi poterono influenzare in via più o meno diretta le scelte del governo coloniale, come di fatto fece la History of British India, fungendo sia da “magazzino degli attrezzi” da cui attin-gere gli elementi del discorso coloniale, sia da “luogo” dove formulare politiche e riforme: in tal senso l’opera milliana, e con lei la figura stessa del filosofo, che ricoprì al contempo il ruolo di storico e di con-sulente della Compagnia delle Indie Orientali, rappresenta, per quanto in modo non privo di contraddizioni, l’intima connessione esistente tra dominio coloniale e “rappresentazioni” occidentali dell’Oriente, e l’importanza dell’immaginario nella genesi e nell’evoluzione del fe-nomeno coloniale83.

Alla luce di tali riflessioni, è mio obiettivo far emergere in questo

mio volume gli elementi di saldatura esistenti tra la narrazione storica e l’analisi sociologica contenute nella History of British India e l’intervento teorico–politico milliano nel dibattito sulle riforme, al fine di cogliere come il complicato intreccio che ne è risultato abbia per-messo all’opera, pur presentando in sé elementi di disaccordo con quella che diverrà dopo Mill l’immagine dominante del rapporto tra centro e periferie imperiali, di giocare un ruolo di primo piano della costruzione dell’immaginario politico coloniale della prima metà del XIX secolo.

La History, infatti, fondendo insieme narrazione storiografica, ap-proccio valutativo ed elaborazione teorico–politica, contribuì in modo determinante ad un ripensamento del rapporto tra madrepatria e colo-nia che influì, in modo più generale, sull’immaginario coloniale del tempo, innescando, nel discorso pubblico, una saldatura tra una parti-colare concezione della realtà dell’Altro coloniale, l’auto–percezione della metropoli in quanto cuore di un corpus imperiale e la de-terminazione dei più generali obiettivi dell’impero. Si trattò di una sal-

83 Un esempio eloquente del rapporto tra “sapere” e “potere” è l’uso in ambito coloniale delle riflessioni sul dispotismo orientale e sul carattere remissivo delle popolazioni indù – argomento al centro del prossimo paragrafo –, rispetto al quale la History di James Mill giocò un ruolo di primo piano. Cfr. J. MILL, Caste, in En-cyclopaedia Britannica, vol. VI, A. & C. Black, Edimburg 18577, pp. 181–2. Cfr. J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. II, p. 128.

Introduzione 48

datura in grado di dare corpo ad una precisa ed attiva idea di imperium e di unificare, in via non esclusivamente teorica, lo Stato all’interno dei suoi confini e l’impero come sua propaggine territoriale, in un uni-co destino di progresso. Tale “unificazione” avviene per mezzo di un processo di “rispecchiamento reciproco”84 (Gran Bretagna–India) rive-latore dei difetti costituzionali ― primo fra tutti la Common Law, og-getto di aspre critiche da parte di Bentham e Mill85 ― di una realtà imperiale concepita as a whole.

In tal senso il ruolo espletato dall’India, contemporaneamente “la-boratorio” per il governo coloniale e per lo Stato britannico, rappre-senta l’aspetto distintivo dell’opera milliana86, in grado di collocarla ad una distanza significativa dalla visione dell’impero che in quei de-cenni andava formalizzandosi, e che trovò il proprio apice nella con-cettualizzazione di James F. Stephen e di Sir Henry Maine, come di-mostrano le aspre critiche mosse da Mill alla tradizione politico–costi-tuzionale britannica, la fiducia nella capacità trsformativa e progres-sista dell’attività politica umana, il rifiuto del progetto anglicizzante formulato da Grant e ripreso più tardi di Macaulay e la cautela dimo-strata da Mill nei confronti dello sdoganamento dell’attività missiona-ria e il suo monito nella creazione di potentati e latifondi locali.

Al fine di cogliere i tratti salienti di tale immaginario politico, più che un’analisi specifica del testo della History, è mia intenzione avvia-re una disamina degli elementi politico–culturali presenti nell’opera e a fondamento del “discorso” imperiale milliano. È mio obiettivo, in-fatti, comprendere quale sia stata l’evoluzione dell’immaginario colo-niale nei secoli decisivi posti a cavallo del XIX secolo e quale svolta

84 Utilizzo in tal senso l’espressione elaborata da Sayad per definire il rapporto di auto–riflessione della metropoli sulla superficie di una generalizzata estraneità colo-niale e post–coloniale. A. SAYAD, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul “pensiero di Stato”, in «aut aut», 5 (1996), n. 275, pp. 8–16. Cfr. anche e soprattutto A. SAYAD, La double absence. Des illusions de l’émigré aux souffrances de l’immigré, Seuil, Paris 1999.

85 Cfr. J. BENTHAM (1795), Anarchical Fallacies, in Id., The Works of Jeremy Bentham, cit., vol. II, p. 489–534 e ID. (1776), A Fragment on Government, cit., pp. 36–45 scritto in polemica con W. BLACKSTONE, Commentaries on the Laws of England, 4 voll., London 1765–9.

86 Cfr. F.G. HUTCHINS, The Illusion of Permanence, cit., p. IX; J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., pp. 128, 144.

Introduzione 49

rispetto a tale evoluzione impresse l’intervento storiografico e teorico–poltico di James Mill. Partirò perciò dall’analisi dell’approccio valuta-tivo che Mill adottò nei confronti della storiografia precedente alla History, segnata soprattutto dalle ricerche e dagli studi orientalisti, di cui egli rifiutò complessivamente l’impianto pur servendosi dell’enorme mole ― per quanto non esaustiva87 ― di informazioni da esse emerse riguardo alla storia antica, alle istituzioni politiche e giu-ridiche, ai costumi, alla religione, all’arte dell’India. A tal fine mi av-varrò degli studi e delle categorie elaborate dai cosiddetti Studi Po-stcoloniali nell’ambito della riflessione sul rapporto tra dominio fisico, territoriale, militare e politico, e dominio “discorsivo” ed “epistemi-co”, culturale e biopolitico, del centro sulle periferie dell’impero per comprendere se e fino a che punto la critica milliana all’approccio “conservativo” dell’orientalismo settecentesco sia stato il primo passo verso una profonda trasformazione della concezione degli obiettivi e delle policies del governo coloniale britannico in India e lo strumento imprescindibile dell’elaborazione di un piano di riforme finalizzato al radicale mutamento della società indiana (capitolo 1).

Successivamente analizzerò l’immaginario coloniale che venne formandosi a partire dalle rappresentazioni dell’India elaborate dalle due correnti di pensiero che massimamente segnarono l’“età delle ri-forme”, l’Utilitarismo e l’Evangelismo, per entrare, infine, nel vivo delle riforme proposte da Mill, formulate coerentemente con la filoso-fia utilitarista da cui era ispirato, analizzandole alla luce delle conside-razioni emerse nel corso di questo e del precedente capitolo e rilevan-done i punti sia di distanza, sia di contatto con i piani di riforme prece-dentemente teorizzati e implementati, come quello facente riferimento al Double Government di Robert Clive e Warren Hastings e il Perma-nent Settlement e la riorganizzazione giuridica e amministrativa rea-lizzati da Cornwallis (capitolo 2). L’analisi comparativa di tali riforme mi permetterà di far emergere i modelli teorici a cui esse facevano ri-

87 È lo stesso Mill ad ammettere le lacune della propria opera, dovute allo scarso

numero di nozioni geografiche, ad una certa approssimazione nel riportare i nomi propri indiani, ma soprattutto all’assenza di molti riferimenti bibliografici a causa della difficoltà di accedere alle fonti primarie se non attraverso la mediazione di altre opere. J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book I, p. XXXV.

Introduzione 50

ferimento e di rilevare la specificità della proposta milliana. Conclude-rò l’analisi della History concentrandomi sull’eredità del pensiero uti-litarista e sulle fondamentali differenze di contesto che segnarono la fine della fase conosciuta come l’“età delle riforme” e l’inizio della fase che segue alle rivolte della metà del XIX secolo.

In tal senso il mio lavoro è un’analisi delle dottrine politiche elabo-rate tra la fine del Settecento e i primi tre decenni dell’Ottocento in riferimento alle questioni sollevate dall’impero in India, ossia legate alla legittimità, agli obiettivi e alle pratiche dello stesso e alle contrad-dizioni che il dominio coloniale aveva aperto rispetto al rapporto tra centro e periferie, tra Trust da un lato e dominio militare e “discorsi-vo” dall’altro, dopo la crisi culminata in Europa e nelle colonie dalle rivoluzioni del XVIII secolo. Essa apparirà come un’incursione in di-versi ambiti teorico–filosofici e della produzione letteraria correlati a tali dottrine, attraverso gli strumenti analitici, i concetti, le suggestioni dell’antropologia politica e dell’analisi postcoloniale del discorso e dell’immaginario coloniale costruito in madrepatria. L’obiettivo sarà quello di cogliere, per mezzo della fruttuosa contaminazione tra un approccio “tradizionale” e quello proposto dagli studi postcoloniali, in quale senso il contesto coloniale dell’India britannica dell’“età delle riforme” rappresentò il primo momento della creazione di un’ideo-logia imperiale organica e liberale fondata sull’idea della superiorità storica e politica della madrepatria e sull’idea di impero come “motore del progresso” per quelle realtà “non ancora” civilizzate, coerentemen-te alla concezione illuminista del divenire storico. Un momento carat-terizzato da una profonda cesura con il discorso coloniale precedente e, al contempo, caratterizzato da alcune differenze significative con quel discorso e con quelle politiche di governo ― poste in essere dopo la repressione del Sepoy Mutiny del 1857 e la creazione formale dell’Impero in India nel 1871 ― che da esso vengono tradizionalmen-te fatte derivare.

L’India e il dispotismo 51

1 L’India e il dispotismo

1.1. L’immagine dell’Asia nella cultura politica europea tra il XVIII e il XIX secolo

Although the wisdom of the Eastern sages has been proverbially famous, yet we find them represented to us, in most relations, as a race, from the beginning, equally credulous and ignorant. From such imputations I have endeavoured to vindicate them; not by labored apolo-gies, but by a simple display of their primitive theology, which I would willingly hope cannot but be acceptable to the pubblic, in so inquisitive and learned an age as this.

John Zephaniah Holwell1

Stimolato dal moltiplicarsi delle relazioni tra le potenze europee e

l’Oriente in virtù dell’espansione dei traffici commerciali e della crea-zione di avamposti militari inglesi, francesi, olandesi e portoghesi, in Europa si sviluppò rigoglioso fin dalla prima metà del XVIII secolo un nuovo filone storiografico, scientifico e letterario i cui sforzi furo-no tesi a osservare e interpretare il passato e il presente delle civiltà orientali. Al centro dell’attenzione erano il commercio, l’economia, il sistema politico e giuridico, la religione, le arti, i costumi, le caratteri-stiche geografiche, la storia contemporanea delle relazioni esistenti tra le differenti popolazioni: l’enorme mole di informazioni veniva rac-colta in diari, in rapporti, in traduzioni, in scritti di carattere storiogra-fico e relazioni di viaggio redatti da soldati, amministratori, intellet-tuali e avventurieri. Questa letteratura trasse origine dalla necessità di venire a capo delle diverse forme di vita e di società, al fine di potersi avvalere di quegli strumenti cognitivi che potessero facilitare le rela-zioni con esse, relazioni che dapprincipio furono soprattutto intellet-

1 J.Z. HOLWELL, A Review of Original Principles, Steel, London 1779, p. 4.

Capitolo I 52

tuali, commerciali, politiche e diplomatiche e non immediatamente “di conquista”.

Quanto tali studi sarebbero diventati “onnicomprensivi” e impre-scindibili nel contesto della produzione dei saperi coloniali, della per-cezione politico–culturale dell’Altro e del Sé come entità distinte e asimmetriche fin dalla prima metà del XIX secolo e per tutto il perio-do che si concluse con la decolonizzazione è stato testimoniato dalla descrizione enciclopedica dell’orientalismo contenuta ne La Reinas-sance orientale di Raymond Schwab e dai resoconti sulla disciplina, il più completo dei quali fu Vingt–sept ans d’histoire des études orienta-les di Jules Mohl2. Tra gli innumerevoli compendi sugli studi orienta-listi pubblicati tra il XVIII e la fine del XIX secolo, queste due opere si distinguono per la capacità di mettere in luce alcuni elementi fon-damentali della cultura politica coloniale del XIX secolo: essi fanno emergere, da un lato, l’estrema curiosità intellettuale nei confronti dell’Oriente e dell’India in particolare, derivante dalla crescente mole di testimonianze scritte, testi classici e materiale informativo redatto dagli avventurieri e, più tardi, dalla burocrazia coloniale; dall’altro, la tendenza degli studiosi “dell’Oriente” ad analizzare tale materiale sul-la base di modelli interpretativi preordinati, di categorie concettuali già date in Occidente, rispetto ai quali la realtà altra veniva “classifica-ta” e, conseguentemente, “giudicata”. Tale produzione letteraria, composta sia di opere scientifiche sia di “racconti” ― fiabe, narrazio-ni mitiche, romanzi –, sarebbe stata alla base di ciò che Victor G. Kiernan ha definito il «sogno ad occhi aperti dell’Europa sul-l’Oriente»3.

Ai viaggi dei primi esploratori e dei commercianti europei in Africa

e in Asia si affiancarono presto quelli dei cercatori di fortune e dei missionari, soprattutto gesuiti, animati dalla convinzione che l’estre-mo Oriente, e nello specifico l’India, fossero una fonte inestinguibile

2 R. SCHWAB, La Reinassance orientale, Payot, Paris 1950 ; J. MOHL, Vingt–sept ans d’histoire des études orientales. Rapports faits à la Société asiatique de Paris de 1840 à 1867, 2 voll., Reinwald, Paris 1879–80.

3 E.W. SAID (1978), Orientalismo, cit., p. 57. Si veda anche più avanti a pp. 98–130. V.G. KIERNAN, The Lords of Human Kind. Black Man, Yellow Man and Whi-te Man in an Age of Empire, Little Brown, Boston 1969, p. 55. Traduzione mia.

L’India e il dispotismo 53

di ricchezze e dall’idea della necessità di evangelizzarne le popola-zioni. A fondamento della spinta missionaria e, con essa, dell’immagi-nario comune diffusosi in Europa, vi era l’idea che a caratterizzare l’organizzazione politica e sociale dell’India vi fosse una particolare forma di governo, quello dispotico. Questa concezione, recuperata at-traverso l’aristotelismo bassomedioevale (a cui si deve l’invenzione stessa del termine, per ciò che concerne sia l’aggettivo “dispotico” sia la sua accezione moderna)4, risaliva alla trattazione classica di Aristo-tele (Politica) ed era stata alimentata durante il XVII secolo da una serie di scritti filosofici e storiografici che associavano spesso a tale lettura del sistema politico–costituzionale indiano, e asiatico in gene-rale, una concezione estremamente negativa della cultura e dei costu-mi, della religione e dei rituali legati all’Induismo e alle forme di go-verno nell’Islam5.

In tal senso questa nuova e vivace letteratura sull’Asia non solo si era andata a saldare, ravvivavandola, alla mitologia antica dell’assenza di libertà e della presenza di un regime accentrato che caratterizzavano le monarchie imperiali asiatiche, ma aveva altresì stimolato nuove e-laborazioni originali dell’idea aristotelica di dispotismo in Oriente, sia per confutarne le conclusioni, sia per aderirvi6. Nel corso del Rinasci-

4 Il termine dispotismo e dispotico divennero di dominio pubblico, come ha sot-tolineato Koebner, solo a partire da Hobbes e Milton e la pamphlettistica della Fron-da. Cfr. R. KOEBNER, Despot and Despotism. Vicissitudes of a Political Term, «Journal of the Warburg and Courtauld institutes», XIV (1951), n. 14, p. 292.

5 Cfr. R. KOEBNER, Despot and Despotism, cit., pp. 275–302; F. VENTURI, Dispotismo orientale, «Rivista storica italiana», LXXII (1960), n. 72(1), pp. 117–126; D. LACH, Asia in the Making of Europe, Chicago U.P., Chicago 1965, vol. I, p. 280.

6 La più celebre delle dispute in tal senso è quella tra Montesquieu e Voltaire (quest’ultimo sulla scia delle critiche al concetto di dispotismo in Oriente elaborate da LINGUET, Théorie des loix civiles, 1767, e dal generale C. DUPIN, Observa-tions sur un livre intitulé L’Esprit de Lois, 1750–51). Linguet così come VOLTAI-RE (Commentaires sur l’Esprit de Lois, 1778) identificano il dispotismo con la mo-narchia – in cui il potere è nelle mani di uno solo –, negano l’assenza della proprietà privata, celebrano l’immobilità politico–sociale delle “sagge” monarchie asiatiche come una virtù politica e dichiarano il “dispotismo montesquiviano” un fantôme, un’idea chimerica, priva di fondamento storico (in tal senso Voltaire ritorna alla diarchia machiavelliana espungendo dispotismo dal novero delle forme di governo). Cfr. D. FELICE, Oppressione e libertà. Filosofia ed anatomia del dispotismo nel

Capitolo I 54

mento e del Seicento tale categoria era stata ripresa da Niccolò Ma-chiavelli e tradotta nella sua «la monarchia del turco» (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1513–19; Istorie fiorentine, 1520–25; Mandragola, 1513), da Jean Bodin (Les six livres de la République, 1576), che insieme a Loys Le Roy (Le politique d’Aristote, 1568) a-veva tradotto il concetto nei termini della medievale «monarchie sei-gneuriale» e da John Locke in riferimento alle popolazioni barbare (Second Teatrise on Government, 1690). Giunse nel XVIII a divenire un concetto denso di significato polemico durante la Fronda contro Mazzarino e l’opposizione a Luigi XIV, i cui tentativi di accentramen-to dei poteri nelle mani “di uno solo” vennero visti come il viatico del-la trasposizione in Francia della barbarie orientale (in tale direzione andarono gli scritti di Michel de Marolles, Michel Le Vassor, Jean La Bruyère, François Fénelon, Andrew–Michael Ramsay, Henri de Bou-lainvilliers fino al Montesquieu delle Lettres Persanes, 1721)7.

Alcune caratteristiche associate, in senso negativo, al dispotismo sono comuni a tutta la trattatistica tra il XVI e il XVIII secolo: se vie-ne meno l’idea che il carattere “servile” delle popolazioni caratte-rizzate dal governo dispotico sia relazionato in primo luogo al fatto si tratta di “infedeli”, a caratterizzare le società soggette a dispotismo continua ad essere l’assenza della proprietà privata, derivante dall’as-senza di sicurezza, ossia di leggi che possano limitare “il capriccio” del despota, il quale come tale può disporre di tutti e di tutto a suo pia-cimento; la conseguente assenza di libertà sociale, oltre che politica; il carattere arbitrario ― più che “assoluto” ― (e teocratico, secondo Boulanger) del potere del despota, in particolare negli imperi mu-

pensiero di Montesquieu, ETS, Pisa 2000 pp. 219–253; G. ZAMAGNI, Oriente ide-ologico, Asia reale. Apologie e critiche del dispotismo nel secondo Settecento fran-cese, in Dispotismo, D. Felice (a cura di), cit., t. II, pp. 357–375; R. KOEBNER, Despot and Despotism, cit. pp. 277–278. Per un’analisi della concezione voltairiana di tirannia e dispotismo dalle opere letterarie ai trattati politici, si veda M.L. LAN-ZILLO, Tra Bruto e Cesare. Forme della tirannide in Voltaire, in «Filosofia politi-ca», X (1996), n. 3, pp. 439–454.

7 Cfr. D. FELICE (a cura di), Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filo-sofico–politico, Liguori, Napoli 2001, vol. I; D. TARANTO, L’eclisse del tiranno. Per una storia del concetto di tirannide, in «Filosofia politica», X (1996), n. 3, pp. 357–390.

L’India e il dispotismo 55

sulmani turco e persiano, da cui dipendono la rigidità, la violenza ed la durevolezza del dispotismo in Asia; l’assenza di un’arena pubblica e dunque una virtus politica per il fatto che non esistono “sudditi” o tan-tomeno “cittadini”, ma solo “servi”8.

In tutte queste riflessioni, dunque, ricorrono i riferimenti alla teo-rizzazione aristotelica del potere dispotico in quanto potere che, al pari della relazione tra padrone e schiavo all’interno dell’oikos, rende i sudditi “schiavi” alla mercé della volontà del sovrano. Questa sorta di idealtipo divenne in taluni casi il punto di riferimento positivo, inteso come il prodotto naturale del «covenant» (Hobbes, Leviathan, 1651 e The Elements of Law, Natural and Politic, 1640; Sorbière, Réflexions politiques sur la sagesse du Roy, 1664 e Discours Sceptiques, 1657)9 o negativo perché lesivo dei diritti naturali degli individui o “precontrat-tuale” (Locke) o perché non fondata (la tirannia) sulla tradizione e sul diritto naturale (Bodin, Republique; Bossuet, Politique tirée des pro-pre paroles de l’Écriture sainte, 1709). E venne generalmente distinto dalla tirannide (a parte nel caso di Bodin il quale non ammette l’esistenza terminologica e materiale del dispotismo) vista, come già in Aristotele, come forma di governo temporanea, derivata dalla con-quista o dall’usurpazione e che, a differenza del dispotismo per sua natura “asiatico”, poteva realizzarsi anche tra gli Stati europei10. Men-

8 N.A. BOULANGER (Récherches sur l’origine du despotisme orientale, 1755),

in particolare, sostiene che la teocrazia, primo fondamentale body politic in cui gli uomini si sono associati, e la forza della religione nelle società rette da regimi dispo-tici non rappresentano, al contrario di ciò che afferma Montesquieu (tesi di cui si parlerà più avanti), un limite oltre che il punto di forza del potere del despota, ma l’origine di quell’atteggiamento servile (animato dalla crainte derivante dall’abdicazione all’uso della ragione) che stava alla base del totale assoggettamento delle popolazioni al proprio despota. Per le similitudini con Montesquieu rimando direttamente a E.L. (1748), cit., vol. I, libro XIX, cap. 27, pp. 481–490. Cfr. G. CRI-STANI, Teocrazia e dispotismo in Nicolas–Antoine Boulanger, in D. Felice (a cura di), Dispotismo, cit. t. I, pp. 257–280.

9 Cfr. R. KOEBNER, Despot and Despotism, cit., pp. 288–290. 10 Cfr. D. FELICE (a cura di), Dispotismo, cit.; N. BOBBIO, Dispotismo, in N.

Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, TEA, Milano 1990, pp. 320–7. Q. SKINNER (1978), Le origini del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 1989, vol. I, pp. 54–75. D. TARANTO, L’eclisse del tiranno, cit., pp. 357–390.

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tre infatti la tirannide viene esercitata nei confronti (e contro) coloro che non desiderano essere governati da colui che vedono come un ti-ranno e in quella precisa modalità, il dispotismo viene esercitato su popoli servili e come tale non “coercisce” nessuno. In tal senso, in li-nea con ciò detto da Aristotele e poi da Montesquieu, Mill e i riforma-tori (anticipati da Philip Francis)11 sosterranno che laddove le popola-zioni si dimostrano “indolenti” e “servili” nulla si può fare se non uti-lizzare quegli stessi strumenti e modalità di governo che appartengono loro per “natura” e/o per “tradizione” (per trainarli al di fuori del di-spotismo stesso). In tal senso il dispotismo non coincide più, com’era invece in Aristotele, con la “degenerazione” delle forme “sane” del-l’istituzione politica, ma con una realtà che in Asia è “a sé”, sem-piterna, inamovibile, immodificabile a meno di un intervento violento.

Il riferimento all’Asia (Turchia, Persia, Moscova, India, e in Africa, all’Etiopia) è negli scritti che insistono sul “modello del dispotismo asiatico” generalmente strumentale, finalizzato cioè alla difesa di un particolare modello di body politic ipotetico o reale, già esistente in Europa o a cui tendere nella riforma dello Stato. Non sarà (esclusiva-mente) così nel tentativo montesquiviano di fondare «una “sociologia” universale dei sistemi politici» in cui il riferimento al dispotismo in Oriente diviene sostanziale al progetto enunciato da Montequieu stes-so nella Défense de l’Esprit de Lois (1750) di «embrasser les lois, les coutume & les diverses usage de tous les peuples de la terre».12 Una “sociogenesi” tracciata con la finalità di comprendere, in un’ottica op-positiva che avrà lungo futuro e che verrà celebrata nel XX secolo da Karl Wittfogel, quali siano o siano state le ragioni più profonde dello sviluppo, in Occidente ed in Oriente, di modelli sociali, produttivi,

11 Cfr. infra, note n. 370 e 371. 12 Sulla natura più o meno “ideologica” dell’approccio alle “questioni asiatiche”

e al dispotismo da parte di Montesquieu si veda L. ALTHUSSER (1959), Monte-squieu, la politica e la storia, Manifestolibri, Roma 1995 e la critica di Domenico Felice a Louis Althusser nel primo capitolo di D. FELICE, Per una scienza univer-sale dei sistemi politico–sociali. Dispotismo, autonomia della giustizia e carattere delle nazioni nell’Esprit de Lois di Montesquieu, Olschki, Firenze 2005, pp. 1–71 (questo saggio rappresenta la revisione di quello pubblicato dal medesimo nel citato D. FELICE (a cura di), Dispotismo, t. I, pp. 189–255 e del primo capitolo di D. FE-LICE, Oppressione e libertà, cit., pp. 21–117).

L’India e il dispotismo 57

politici e giuridici così distanti.13 È in questa cornice, con la pubblica-zione dell’Esprit de lois nel 1748, che la categoria del “dispotismo” raggiunge la propria “compiutezza” teorica in una formulazione che identifica in modo definitivo il dispotismo e le monarchie asiatiche, contrapposte ai governi moderati, e che sarà punto di riferimento per tutta la filosofia politica successiva, fino ai nostri giorni14. Essa, in par-ticolare, diverrà centrale nelle riflessioni sull’India elaborate durante l’“età delle riforme”, e in particolare da James Mill e dagli evangelici, nell’ambito della costruzione di un discorso che, considerando la natu-ra dispotica delle istituzioni politico–religiose alla base dell’“ar-retratezza” politica, economica e sociale dell’India, verrà posto, in ul-tima istanza, a legittimazione della trasformazione radicale della so-cietà indiana per mezzo dell’intervento diretto del potere coloniale.

Soffermiamoci per un attimo sulle formulazioni più recenti del con-cetto per cogliere l’importanza dell’intersecarsi della riflessione teo-rico–politica europea e occidentale sul dispotismo e l’esperienza del-l’espansione a Est tra gli ultimi decenni del XVII secolo e i primi de-cenni del XIX, alla luce di una nuova Filosofia della Storia che avreb-be per molto tempo condizionato profondamente lo sguardo ad Est dell’Occidente. Nel saggio intitolato Despot and Despotism. Vicissitu-des of a Political Term, Richard Koebner ha magistralmente portato alla luce la relativa originalità del termine “dispotismo” e dei signifi-cati che ad esso vennero associati tra l’inizio del XVII secolo e la pubblicazione dell’Esprit de lois15. Già Aristotele ― per il quale il di-spotismo è unicamente una specie del genere monarchia o più rara-mente “degenerazione” delle tre forme di governo che si danno nella realtà e non “forma di governo a sé” ― affermava che il dispotismo, a differenza della tirannide, esiste solo in Oriente: eppure, se il bi-narismo inaugurato dal filosofo greco divenne paradigmatico per tutto il pensiero occidentale sucessivo, è solo con lo svilupparsi nel XVIII secolo dell’idea di Progresso e Ragione che esso venne a sostanziare

13 La teoria “idraulica” di K.A. WITTFOGEL viene enunciata nel suo celebre Il dispotismo orientale (1957), SugarCo, Milano 1980. Si veda anche il volume curato da W. MINELLA, Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e societa arcai-che, Armando, Roma 1991.

14 Cfr. D. FELICE, Oppressione e libertà, cit., pp. 20 e segg. 15 R. KOEBNER, Despot and Despotism, cit., pp. 276.

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quella che Norberto Bobbio ha definito essere l’«ideologia europea», ossia quel pensiero pervasivo attraverso cui analizzare le forme politi-che esistenti sulla base dell’opposizione tra “città periclea” e dispoti-smo, tra moto perpetuo verso la conquista e la conservazione della li-bertà ― ossia tra necessità/possibilità del perfezionamento umano16 ― e immobilità e rigidità nell’asservimento, nella schiavitù, nell’oppres-sione. La prima condizione si realizza attraverso il governo delle leg-gi, e dell’uguaglianza formale che ne deriva, attraverso la parteci-pazione politica dei cittadini e la creazione dei un’arena politica in cui confrontare opinioni ed interessi. La seconda condizione si dà at-traverso la «durezza della vita, il rigore della disciplina, l’obbedianza servile»17. La prima condizione è la condizione che Aristotele, in una visione non progressiva della Storia, associava alla polis greca e alle sue genti, e che il Rinascimento e i Lumi associavano agli Stati e ai popoli europei; la seconda è quella che tutti, partendo da considerazio-ni seppur differenti, associarono all’Oriente, incapace per fattori cli-matici, geografici, fisici e morali di resistere e liberarsi dal dispotismo. Le analisi di Aristotele sulla «natura servile» dei popoli asiatici, sulla loro naturale sottomissione al governo «dispotico» di colui che per loro non è un padre, ma un padrone (interpretazione da cui Hobbes nel De corpore politico aveva preso le distanze affermando il carattere “paternal and dispotic” di ogni body politic)18, fanno eco in tutta la trattazione successiva, fino a Montesquieu: segno questo della precisa

16 Una condizione interpretata attraverso le idee dell’irreversibilità del tempo e

del presente come momento cumulativo. L. SALVADORI, Progresso. Storia del concetto, in A. D’Orsi (a cura di), Alla ricerca della politica. Voci per un diziona-rio, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 169 e ivi F. SBARBERI, La dimensione etica del progresso, p. 180.

17 N. BOBBIO, Grandezza e decadenza dell’ideologia europea, in Id., Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 1999, pp. 604–607. Norberto Bobbio cita A. PASSERIN D’ENTRÈVE, La dottrina dello Stato, vol. II, Giappichelli, Torino 1962, p. 62.

18 Per una disamina della concezione hobbesiana della tirannia – non come dato politico reale ma come “percezione” soggettiva dei sudditi “scontenti della monar-chia” – e del suo carattere di radicale “novità” rispetto alla trattazione classica ingle-se, incentrata sulla contraddizione tra tirannia e costituzione, si veda R. FARNETI, Filosofia e tirannia. Hobbes e la trasformazione della politica, in «Filosofia politi-ca», X (1996), n. 3, pp. 421–438.

L’India e il dispotismo 59

volontà della filosofia occidentale di distinguersi dal male, di iden-tificare l’Occidente come essenzialmente diverso19. In tal senso, se alla concezione tripartita di Aristotele (regno, aristocrazia, politia), ma an-che a quella bipartita di Machiavelli e Bodin (repubblica e mo-narchia), Montesquieu sostituisce una nuova visione tripartita (repub-blica, monarchia e dispotismo, permettendo a quest’ultimo di assur-gere a vera e propria forma di governo)20, quest’ultimo paradigma si ricollega all’antica dicotomia libertà–oppressione, Ovest–Est, posta ora sotto una nuova luce, quella della Ragione alla ricerca della Liber-tà e dell’idea di Nazione come strumento di emancipazione del resto del mondo21. Una visione che Condorcet (Esquisse; Idées sur le despo-tisme) porterà alle sue estreme conseguenze invocando il necessario intervento éclarante delle nazioni civilizzate presso i popoli barbari22.

Contributi fondamentali al dibattito settecentesco su tale concetto e sulla forma di governo vigente in India vennero offerti da François Bernier, medico ed esploratore che visitò l’India nella seconda metà del XVII secolo ― la cui lettere di viaggio sono raccolte nel Voyage de Françoise Bernier contenant la Description du grand Mogol del

19 Ibidem. Il male assoluto del dispotismo dipende dal suo violare le “leggi natu-

rali”, ossia le naturali tendenze psicofisiche dell’essere umano, dalla conservazione alla sessualità, dalla socievolezza alla libertà (E.L., libri XV, cap. 12; XVI, cap. 6). Eppure continua ad essere il regime più diffuso: ciò dipende, ci dice Montesquieu, dal fatto di essere il più grossolano, grezzo e facile da stabilire (libro XXVIII, cap. 41).

20 Ivi, vol. I, libro II, cap. I, p. 155. 21 J. OSTERHAMMEL, Europe in the “West” and the Civilizing Mission, cit., p.

13. Per una notevole e ahimé alquanto isolata, se si eccettua il volume già citato di Guido Abbattista, disamina nel contesto della disciplina italiana, della storia delle dottrine coloniali ed imperialiste in generale e nello specifico dell’Inghilterra vitto-riana si vedano O. BARIÉ, Idee e dottrine imperialistiche nell’Inghilterra vittoria-na, Laterza, Bari 1953 e ID., Imperialismo e colonialismo, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, UTET, Torino 1972.

22 N. CONDORCET, Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain (1794) trad. it. Abbozzo di un quadro storico del progresso dello spirito u-mano, Einaudi, Torino 1969; ID., Idées sur le despotisme à l’usage de ceux qui pro-noncent ce mot dans l’entendre (1789). Cfr. A. CECCARELLI, Dispotismo e “ideo-logia europea” nelle filosofie della storia di Turgot e Condorcet, in D. Felice (a cura di), Dispotismo, cit., pp. 391–417.

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167123 ― e da Paul Rycaut, autore del celebre saggio The Present Sta-te of the Ottoman Empire del 166824, i quali costituirono una delle più importanti fonti per la stesura dell’Esprit des lois di Montesquieu25 e un punto di riferimento sia per la stesura della History of British India di James Mill sia per i numerosi articoli scritti da Marx sul sistema politico ed economico in Asia.26 La concezione elaborata da Bernier e dagli altri intellettuali che rifletterono a cavallo tra XVII e XVIII seco-lo sulla diversità tra Occidente e Oriente, elaborata in opposizione all’opinione diffusa in Europa fin dal Medioevo secondo cui l’India era una terra misteriosa e ricchissima27, sosteneva che l’arretratezza economica e la povertà, le pratiche barbare, la superstizione e il dispo-tismo politico fondato sul terrore e sulla violenza avevano da sempre caratterizzato l’India, e con essa le più importanti civiltà poste tra Me-dio ed Estremo Oriente, come l’Egitto, la Persia e la Turchia28. Da tale concezione derivò l’idea, fatta propria da Montesquieu e da molti stu-diosi dell’Oriente a lui successivi, secondo cui la libertà, intesa nel senso della libertà negativa conquistata attraverso la limitazione del potere sovrano e la creazione dello Stato di diritto, erano caratteristi-

23 F. BERNIER (1671), Voyage de Françoise Bernier contenant la Description

du grand Mogol, Fayard, Paris 1981. 24 P. Rycaut, The Present State of the Ottoman Empire, Containing the Maxims

of Turkish Politic, the Most Material Points of the Mohamedan Religion, their Sects and Heresies, Their Convents and Religious Votaries, London 1668.

25 Si veda a proposito P.J. MARSHALL, The British Discovery of Hinduism in the Nineteenth Century, Cambridge U.P., Cambridge 1970, pp. 20–21; S.N. MUK-HERJEE (1968), Sir William Jones, Sangam Books, London 1987, pp. 11 e segg. e P.J. MARSHALL, G. WILLIAMS, The Great Map of Mankind. Perceptions and New Worlds in the Age of Enlightment, Harvard U.P., Cambridge (MA) 1982, ch. III, pp. 76 e segg.

26 In particolare Mill fece sua l’idea espressa da Bernier secondo cui il sovrano moghul deteneva in sé il diritto esclusivo sulla proprietà delle terre del regno e sui loro prodotti (F. BERNIER, Lettre à Monseigneur Colbert, in Id., Voyages, cit., pp. 165 e segg.), tale che i sudditi ne risultavano proprietari solo su concessione del principe, mentre non ne condivise l’idea secondo cui tale “diritto assoluto” fosse stata la fonte del mancato progresso tecnologico e produttivo. Cfr. J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book II, ch. X, p. 144.

27 H. CASTONNET DES FOSSES, François Bernier et ses voyages, Germain & Grassin, Anger 1888, p. 2.

28 F. BERNIER, Lettre à Monsieur de Chapelain, in Id., Voyages, cit., pp. 227–66.

L’India e il dispotismo 61

che peculiari ed esclusive dei sistemi politici vigenti in Occidente, im-pensabili e, allo stesso modo, inattuabili in Oriente.

Gli scritti di Bernier vennero recepiti e inseriti durante la prima me-tà del Settecento in un discorso tendente ad interpretare la diversità sulla base del paradigma illuminista del progresso delle civiltà, para-digma rispetto al quale l’India e le altre civiltà definite come “arretra-te”, rappresentavano la comprova della “superiorità” storica e politica, oltre che culturale e scientifica, dell’Occidente. In tale discorso spesso il riferimento alle civiltà extraeuropee aveva come obiettivo il con-fronto, la critica, la riforma delle realtà politiche e sociali occidentali, come testimonia lo stesso attacco montesquiviano al dispotismo vi-gente in Asia ― definito perentoriamente da Boulanger (1722–59)29 “dispotismo orientale” ― e all’assolutismo francese.

Agli occhi degli studiosi dell’Oriente come Montesquieu, intenti a giudicare il mondo sulla base dei dettami della Ragione, se la Cina, pur caratterizzata dall’assenza delle moderne libertà, presentava un elevato grado di ordine dal punto di vista politico–istituzionale, ha scritto Soumyendra Nath Mukherjee, «l’India, per contrasto, appariva disordinata, caotica e superstiziosa»30. L’immagine più ricorrente uti-lizzata fin dallo shock conseguente all’episodio conosciuto come il Black Hole di Calcutta (1756)31 e alla battaglia di Plassey (1757) per descrivere l’India era, giustappunto, la tigre, «imponente, di aspetto no-bile e sontuoso», «sublime», da un lato e dall’altro pericolosa, spietata e al contempo sfuggente, che manca di coraggio, disonesta, come venne ritratta da George Stubbs in The Portrait of the Royal Tiger del 176932.

29 N.A. BOULANGER (1761), Recherches sur l’origine du despotisme oriental, Les Belles Lettres, Paris 1988 (opera postuma). Cfr. Montesquieu (1721), Lettere persiane, BUR, Milano 1995.

30 S.N. MUKHERJEE (1968), Sir William Jones, cit., pp. 6–7. Traduzione mia. 31 Black Hole si riferisce alla prigione sotterranea in cui vennero rinchiusi i sol-

dati britannici dopo la presa di Fort William da parte delle truppe del Nawab del Bengala. Dei 146 prigionieri 123 morirono per asfissia. Uno dei sopravvissuti fu l’o-rientalista J.Z. Holwell che ne scrisse un celebre racconto. Questo episodio rappre-senta nell’immaginario collettivo un oltraggio alla nazione, oltre che il venire alla luce della ferocia e della crudeltà dei costumi nativi. Cfr. S. SEN, Distant Sove-reignty, cit., pp. 7, 55.

32 Cfr. L. COLLEY (2002), Priogionieri. L’Inghilterra, l’impero e il mondo. 1600–1850, Einaudi, Torino 2004, pp. 285–289.

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Coerentemente al determinismo fisico e geografico prevalente nella filosofia politica della prima metà del Settecento, Montesquieu aveva rilevato nella «debolezza di organi, unita alla debolezza di spirito» il motivo per cui «le leggi, i costumi e le usanze, perfino quelle che sembrano poco importanti, come il modo di abbigliarsi, sono oggi, in Oriente, quello che erano mille anni fa»33.

Tale “debolezza”, o indolenza, alimentata dal clima ― torrido, che privava “gli uomini delle energie per ribellarsi alla schiavitù” ― non solo era all’origine del dispotismo che vi regnava, ma era soprattutto il fattore (letteralmente, il “principio”, le “passioni umane”) che ne per-mettevano il perpetuamento: facendo affidamento sull’incapacità del popolo ed assecondandone i vizi, i cattivi legislatori dell’India preco-loniale, afferma Montesquieu, avevano potuto, infatti, perpetrare e do-tare di solide basi l’antico regime “dispotico”. Questa situazione non era peculiare solo dell’India ma, per ragioni di omogeneità climatica e territoriale, si estendeva a tutta l’Asia, determinando il carattere passi-vo e servile di tutte le popolazioni che vi abitavano34. In tal senso Montesquieu fissa une fois pour toutes la “natura dispotica” di quella regione (una localizzazione geografica del dispotismo che era stata anticipata da Machiavelli nel cap. IV del Principe) per “cause fisiche” (e “cause morali”)35.

33 MONTESQUIEU (1748), E.L., cit., Libro XIV, cap. IV, p. 390. La teoria mon-tesquiviana del dispotismo come elemento strutturale dei governi asiatici è contenuta nelle Lettere persiane e ribadita in E.L.: «in Asia il potere è sempre dispotico» (E.L., cit., Libro XVII, cap. VIII).

34 Al contrario in Europa la disomogeneità territoriale e climatica (alla base della molteplicità dei caratteri presenti, da quello “virile” germanico a quello “femmineo” delle popolazioni che si affacciano sul Mediterraneo) aveva fatto sì che le invasioni dal Nord non avessero mai determinato la creazione di imperi duraturi. Gli imperi, infatti, per il fatto di estendersi su territori così vasti, devono necessariamente essere dispotici. Ecco perché essi sopravvivono solo in Asia. Ivi, libri VI, VIII, X, XIV, XVII, XVIII.

35 MONTESQUIEU (1736–43), Saggio sulle cause che possono agire sugli spi-riti e sui caratteri, ETS, Pisa 2004. In questo saggio, pubblicato per la prima volta nel 1892, Montesquieu sviluppa la propria teoria della duplice causalità – fisica e morale – dell’infinita varietà dei caratteri o degli esprits humains. Fondamentale importanza viene associata alle percezioni, alle predisposizioni soggettive che di-pendono dal grado di sviluppo politico di una nazione e dall’educazione che (attra-verso la famiglia, la scuola e la società) viene impartita ai singoli. Necessario il ri-

L’India e il dispotismo 63

Ma il clima non era che uno dei fattori del perpetuarsi di questo at-teggiamento: determinante era, infatti, per il filosofo francese l’ele-mento religioso, l’Islam, a cui Montesquieu imputava la precisa vo-lontà di mantenere le popolazioni in uno stato di minorità e schiavitù. Per Montesquieu, come per Boulanger, se la religione musulmana in-centivava il dispotismo, era il Cristianesimo la religione che meglio s’accordava con il governo moderato ― esso aveva a suo avviso im-pedito al dispotismo, nonostante il clima, di radicarsi in paesi come l’Etiopia36.

Nell’originale trattazione montesquiviana del concetto filosofico–politico di dispotismo ciò che viene sistematizzata è un’idea di “natu-ra” o costituzione dipotica dipendente non tanto dalla titolarità (uno, pochi, molti) del potere ma dalla sua modalità di esercizio (di-stinguendola così, contrariamente a Hobbes, dalla monarchia): si tratta di un governo a–nomico perché il despota «entraîne tout par sa volon-té & par ses caprices», la cui fixité, necessaria affinché esso permanga nel tempo, non dipende dalle leggi dello Stato, ma dalle leggi tratte dalla tradizione religiosa, dai testi sacri.37 La religione ha dunque un triplice ruolo: instilla la crainte (terrore)38 nei sudditi, e in tal modo mando anche alle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1749). Cfr. l’introduzione alla pubblicazione italiana del Saggio a cura di D. Felice, ripubblicata in D. FELICE, Per una scienza universale dei sistemi politico–sociali, cit., pp. 119–144 e C. Borghiero, Libertà e necessità. Clima ed “esprit général” nell’Esprit de Lois, in D. FELICE (a cura di), Libertà, necessità e storia. Percorsi dell’Esprit de lois di Montesquieu, Bibliopolis, Napoli 2003, pp. 137–201.

36 Montesquieu (1748), EL., vol. II, libro XXIV, cap. 3, pp. 781–782. N.A. Bou-langer, Recherches sur l’origine du despotisme oriental, cit. Montesquieu si riferisce al dispotismo anche come degenerazione di monarchia, aristocrazia e democrazia, qualora vi sia la concentrazione dei poteri nelle mani delle stesse persone o corpi sociali. Il dispotismo in Oriente in tal senso è il metro di paragone oggettivo (e non mera fiction), utilizzato da Montesquieu per giudicare la degenerazione dello Stato posta in essere dal Re Sole. Si confrontino le teorie di Montesquieu e Boulanger sul dispotismo in Asia con l’interessante analisi proposta da Said della contrapposizione esistente fin dal Medioevo tra Cristianesimo e Islam. E.W. SAID (1978), Orientali-smo, cit., pp. 62–7.

37 MONTESQUIEU (1748), E.L., cit., vol. I, libro II, cap. 4, pp. 162–164; ivi, vol. II, libro XXIV, cap. XIV, pp. 787–789.

38 Della crainte aveva già parlato nelle lettere LXXXIX e CXLVIII delle Lettere

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preserva il potere da singole rivolte o da rivoluzioni, e pone “limiti”39 al potere sovrano, che dovrà in un certo senso attenersi alle disposi-zioni religiose in materia di esercizio del potere. Non vi sono corpi intermedi nel regime dispotico, non vi è aristocrazia e dunque non vi sono soggetti in grado di mediare, frenare, consigliare, in una parola “temperare” il potere del sovrano40. Non vi è di conseguenza distin-zione tra i tre poteri (ed autonomia del giudiziario) e ciò costituisce la cifra dell’assenza di libertà politica e civile (ossia dell’assenza di “di-versità”, tra i singoli e tra i corpi e tra tutti loro e il potere sovrano, e “sicurezza” nei confronti di sé e dei propri beni) e la cifra dell’“obbedienza assoluta” che dimora nelle società rette dal dispo-tismo.

Dall’insicurezza in riferimento ai beni, e dalla “desertificazione” dovuta all’isolamento geografico in cui si pongono gli stati dispotici ai fini della propria difesa, deriva l’assenza di industria ― non vi è pro-duzione agricola o manifatturiera degna di nota né progresso tecnico che possa stimolarla ― in quanto l’insicurezza non spinge alcuno a impegnarvisi e la desertificazione rende l’ambiente inospitale e pe-ricoloso41. Per tutte queste ragioni il dispotismo sembra configurarsi come una bestia feroce condannata all’autodistruzione, se non fosse Persiane; in riferimento al ruolo della religione nell’accrescere il terrore cfr. E.L., vol. I, libro V, cap. 14, pp. 206–211. Arbitrarietà del potere, crainte, riduzione in schiavitù del popolo sono caratteristiche del potere dispotico che verranno mutuate, per quanto con un obiettivo maggiormente polemico, anche da Hélvetius (De l’esprit, 1758; De l’homme, 1772). Tale ricezione, accanto a quella da parte di Ro-bert Orme (cff. infra pp. 45 e segg.), sono sintomo dell’acquisizione piena nel di-scorso teorico–politico internazionale della risignificazione montesquiviana del con-cetto di dispotismo.

39 Limiti che non sono oggettivi o intrinseci alla “natura–struttura” del governo, ma esclusivamente di tipo sociale. Cfr. D. FELICE, Dispotismo e libertà nell’Esprit de Lois di Montesquieu, in D. Felice (a cura di), Dispotismo, cit., t. I, p. 197.

40 MONTESQUIEU (1748), E.L., cit., vol. I, libro II, cap. 4, p. 163. 41 Ivi, vol. I, libro V, cap. 14, pp. 208–209. Per ciò che riguarda la necessità teo-

rico–politica di ricollegare l’assenza di libertà–proprietà–produttività nelle società orientali al dispotismo si veda. P.J. MARSHALL, G. WILLIAMS, The Great Map of Mankind, cit., p. 130. In particolare Sudipta Sen ricostruisce gli elementi fonda-mentali della descrizione dei soggetti produttivi indiani utilizzati dalla narrativa sto-rica coloniale ai fini della condanna di un’economia non–capitalistica. S. SEN, Dis-tant Sovereignty, cit., pp. 104–114.

L’India e il dispotismo 65

per cause accidentali che le permettono di sopravvivere più del dovu-to, attenuandone temporaneamente la ferocia42. Un’autodistruzione che prescinde dalla volontà umana, dalla volontà di coloro che ne sono soggetti, perché essi non sono in grado di ribellarsi.

La lettura montesquiviana venne accolta in Gran Bretagna, dallo storico ufficiale della Compagnia delle Indie, Robert Orme (1728–1801): Orme era convinto che l’India fosse caratterizzata dall’assenza di un ordinamento giuridico, di limiti al potere politico e dalla presen-za di uno Stato e di una società in balia dei capricci del sovrano ― «on the temper of the Nabob or his favourites, depends, the happiness or misery of the province. On the temper of the King or his ministers, depends the security of the Nabob and his favourites» ― e per questo dominati dalla miseria e dalla desolazione43. Gli stessi Gentoo, ossia la popolazione indù, erano caratterizzati, poi, da una tale mitezza e fru-galità ed abituati ad un grado elevato di schiavitù da non mettere a re-pentaglio in alcun modo lo strapotere del sovrano44. Tali condizioni giustificavano pienamente, agli occhi di Orme, l’intervento delle po-tenze commerciali e coloniali europee in Asia: la conquista militare non avrebbe trovato alcun impedimento di carattere giuridico o etico–politico in quanto le società politiche ivi presenti non erano considera-te dallo storico degne del titolo di Stati. Tale intervento, inoltre, sareb-be stato di indubbio beneficio per le popolazioni oppresse dallo stato di cose vigente45, in quanto avrebbe diffuso in quell’area le idee e i principi alla base dei regimi costituzionali europei46.

42 MONTESQUIEU (1748), E.L., cit., vol. I, libro VIII, cap. 10, p. 270. 43 R. ORME (1782), Historical Fragment of the Moghul Empire, of the Marat-

toes, and of the English Concerns in Indostan, A.P.H, New Delhi 1972, pp. 271, 256, 261. Orme, come Bernier, era convinto, inoltre che il sovrano fosse per diritto il proprietario universale di tutte le terre. Ivi, p. 259. Si veda anche ID. (1763, 1778), History of Military Transactions of the British Nation in Hindostan, London 1775, 2 ed., 2 voll.

44 R. ORME (1782), Historical Fragment, cit., p. 275. Degno di nota è il passo in cui lo storico analizza la natura femminea degli uomini indù, impegnati in lavori “per natura” femminili come la tessitura al telaio.

45 Orme, come molti altri storici dell’impero, fa sua l’idea dell’«inconcepibile condizione di schiavitù in cui versa la popolazione indiana, sotto i mori così come sotto gli eredi dei Gentoo». Ivi, pp. 272 e segg.

46 Abbattista ha sottolineato come dall’opera di Orme, concentrata sulla storia

Capitolo I 66

Accanto all’opera di Orme, il determinismo e la visione negativa esplicitata dalle riflessioni montesquiviane trovarono sostegno teorico da parte di Alexander Dow (1735–1779), autore dell’importante opera History of Hindostan (1768–1772)47. In linea con Orme, William Watts e Montesquieu, Dow era convinto che l’India fosse natural-mente portata al dispotismo e le cause di tale tendenza risiedevano nel clima torrido, nella fertilità del suolo e nel carattere contemplativo della religione48. L’immagine che ne risultava era quella di un popolo remissivo ― «when a people have been subjected to arbitrary power, their return to liberty is arduous and almost impossible»49 ―, fin trop-po facile preda di un governo straniero50. Eppure, se nella sua Disser-

dell’India che corrisponde al regno moghul (del secolo XVI e XVII), traspaia la so-stanziale scarsità di informazioni a disposizione della potenza imperiale inglese, limite che dipendeva essenzialmente dall’assenza di strumenti storiografici adeguati, quali la conoscenza delle lingue orientali ed in particolare di quella persiana. G. ABBATTISTA, J. Mill e il problema indiano, cit., pp. 41–2. La History of Military Transactions è preceduta, infatti, da un saggio sulla storia della conquista musulma-na in India (A Dissertation on the Establishments made by Mahomedan Conquerors in Indostan) che non accenna minimamente alla storia precedente e che si compone essenzialmente di brevi narrazioni della storia dei sovrani musulmani (sez. II) che si succedettero dal VIII secolo al 1739. Essa poi inizia a narrare le vicende indiane e britanniche a partire solo dalla penetrazione da parte dell’esercito maratto nel Carna-tic negli anni Quaranta del XVIII secolo. R. ORME (1763,1778), History of Military Transactions, cit., I vol.

47 A. DOW, History of Hindostan (1768–1772), Routledge, London 2001, 3 voll. L’opera di Dow apportò un contributo fondamentale all’analisi delle istituzioni so-ciali e politiche dell’India per il particolare fatto che fu una delle prime ad utilizzare fonti persiane.

48 Ivi, Dissertation on the Origin of Despotism, vol. III, pp. XX e segg. Si veda anche A Dissertation concerning the Customs, Manners, Language, Religion and Philosophy of the Hindoos (History of Hindostan, 1768) contenuta nel volume cu-rato da P.J. MARSHALL, The British Discovery of Hinduism, cit.

49 A. DOW, Dissertation on the Origin of Despotism, cit., vol. III, p. XXI. 50 Dow è estremamente critico anche nei confronti della cultura tradizionale, dei

rituali e delle pratiche sociali, rispetto alle quali egli si esprime con toni estre-mamente duri – ne sono un esempio le parole usate per descrivere il rito del sāti (l’autoimmolazione della vedova sulla pira dove brucia il corpo del marito defunto) una «species of barbarity, like many others, rose originally from the foolish entu-siasm of feeble minds». A. DOW, A Dissertation concerning the Customs, in P.J. MARSHALL, The British Discovery of Hinduism, cit., pp. 116.

L’India e il dispotismo 67

tation on the Origin of Despotism Dow definiva negativamente in quanto dispotici, ossia soggetti all’arbitrio del sovrano che poteva go-vernare conformemente o meno all’idea del giusto, i regimi politici afgano, moghul e indù ― senza operare che alcune semplificanti di-stinzioni dinastiche o storiche all’interno dei tre dominii ― egli di-stingueva tra un dispotismo “illuminato”, tale perché il sovrano pos-sedeva grandi qualità politiche come nel caso della dinastia Timur al-l’interno della dominazione musulmana dei Moghul ― «the uncom-mon abilities of the most of the princes, with the mild and humane character of all, rendered Hindustan the most flourishing empire in the world during two complete centuries»51 ―, e un dispotismo sanguina-rio, come quello “afgano”52. La rivalutazione del dominio musulmano in India, delle sue istituzioni e della legge coranica sarà fatta propria anche da James Mill in polemica con l’orientalismo dominante, orien-tato a valutare positivamente il sistema politico indù. Mill non condi-viderà, però, la concezione positiva che Dow espresse nei confronti dell’aspetto confessionale del dominio indù e con l’adesione dello stesso alla lettura in chiave monoteistica dell’Induismo.

Parallelamente all’elaborazione in senso negativo delle rappresen-

tazioni dell’Oriente e dell’India, in questo stesso periodo i saperi co-struiti sull’Est vennero organizzati in un discorso di segno opposto, caratterizzato da una visione sensibilmente più positiva, tendente alla rivalutazione, sulla base degli studi e delle ricerche archeologiche, linguistiche e religiose, delle civiltà orientali. Questa seconda corrente di pensiero non acquisì immediatamente la fortuna che, invece, la ca-ratterizzò successivamente. Essa venne identificata con la scuola di studi orientalisti, i quali furono maggiormente orientati all’idea della necessità di far emergere gli aspetti di “grandezza e originalità” delle civiltà orientali, e di quella indiana in particolare, le loro similitudini e

51 Ivi, Dissertation, vol. III, p. XXIII. 52 Ivi, Dissertation, vol. III, pp. X e segg. Si vedano anche il saggio di Dow con-

tenuto in History of Hindostan dal titolo An Enquiry into the State of Bengal with a Plan for restoring that Province to its former Prosperity and Splendor, in op. cit., vol. III e A Dissertation concerning the Customs, Manners, Language, Religion and Philosophy of the Hindoos (History of Hindostan, 1768) contenuta nel volume cu-rato da P.J. MARSHALL, The British Discovery of Hinduism, cit., pp. 107–39.

Capitolo I 68

connessioni con le culture classiche e moderne dell’Occidente. Questo approccio ebbe come corollario, nel contesto dello sviluppo di una cultura europea romantica e “conservatrice”, la precisa volontà di “conservare” appunto gli elementi più caratteristici delle tradizioni in-diane, contro l’approccio demistificatore dei sostenitori del “dispoti-smo orientale” che a loro avviso si limitava “a demolire”, senza avere la capacità di cogliere l’importanza vitale dei legami col “passato”. Il dibattito tra queste due correnti, che si sviluppò durante tutto il Sette-cento, assunse, per ciò che riguarda l’impero britannico in India, toni particolarmente accesi sopratutto alla fine del secolo e nei primi de-cenni dell’Ottocento in concomitanza di quella che è stata definita l’“età delle riforme”.

Il primo intellettuale che confutò l’idea del legame “naturale” fra dispotismo e Oriente, dando inizio ad una rivalutazione complessiva della cultura politica, delle istituzioni e delle religioni asiatiche, fu A-braham–Hyacinthe Anquétil–Duperron (1731–1805), nella sua opera Législation Orientale53, il quale oppose alla descrizione delle violenze e degli abusi perpetrati nei confronti del popolo indiano un’immagine di prosperità e ordine sociale e politico. Nel frontespizio della sua ope-ra è citato il titolo per esteso della stessa:

Législation orientale, ouvrage dans lequel, en montrant quels sont en Tur-quie, en Perse ey dans l’Indoustan, les Principes fondamenteaux du Gover-nement, on prouve, que la maniere dont jusqu’ici on a répresenté le Despo-tisme, qui passe pour être absolu dans ces Trois Etats, ne peut qu’en donner une idée absolument fausse. Que en Turquie, en Perse & dans l’Indoustan, il y a un Code de Loix écrites, qui obligent le Prince ainsi que le sujets. Que dans ces trois Etats, les particuliers ont des proprietés en biens meubles & immeubles, dont ils joussent librement54.

53 A. H. ANQUETIL–DUPERRON, Législation Orientale, Marc–Michel Rey,

Amsterdam 1778. Dello stesso autore si veda anche L’Inde en rapport avec l’Europe, Moutardier, Paris 1799 (an VIIe de la Republique Française) in cui viene contestata la supremazia commerciale e coloniale inglese in India e Voyage en Inde. 1754–1762. Relation de voyage an préliminaire à la traduction du “Zend–Avesta”, E.F.E.O., Paris 1997 (interessante in quest’ultima opera che è la raccolta di nume-rose corrispondenze di Anquétil–Duperron, l’affermazione dello stesso secondo cui il rito del sāti è accettabile in India perché il clima predispone maggiormente le per-sone, e le donne in particolare, ad accettare la morte. Ivi, p. 268.

54 A. H. ANQUETIL–DUPERRON, Législation Orientale, cit., p. 1.

L’India e il dispotismo 69

L’originalità della posizione espressa da Anquétil–Duperron deriva principalmente dal punto di vista e dallo scopo della sua disamina del-le civiltà non europee: lontano dagli obiettivi polemici di Dupin, Vol-taire e Linguet55, lontano «dall’interesse mercantil–coloniale nel-l’osservazione antropologica e sociologica e nello studio delle ci-viltà»56, fossero esse americane (Considérations) o asiatiche (Législa-tion), lo studioso francese rivendicò l’approccio dépaïsé attraverso cui guardare alla molteplicità delle forme di vita. In Montesquieu, in Dow, in Boulanger egli vedeva espresso un atteggiamento non genuinamente scientifico, ma “rapace”: ecco perché Législation orientale venne inte-ramente dedicata alla confutazione delle tesi montesquiviane ed alla critica nei confronti dell’approccio “inglese” agli affari indiani (An-quétil–Duperron era in India durante il governatorato di Warren Ha-stings ed era memore delle ignominie legate alla colonizzazione ame-ricana)57.

55 G. Abbattista, G. Zamagni e M. Minerbi hanno sottolineato tale distanza in

opposizione alla continuità stabilita da G. Conti Odorisio tra Linguet e Anquétil–Duperron. Cfr. C. ZAMAGNI, Oriente ideologico, Asia reale, cit. p. 375; M. MI-NERBI, Le idee di Linguet, in «Rivista storica italiana», XCIII (1981), n. 93, pp. 718–719; G. ABBATTISTA, premessa a A.H. ANQUÉTIL–DUPERRON (1780–1804), Considérations philosophiques, historiques et géographiques sur les deux mondes, Scuola Normale Superiore, Pisa 1993, pp. XIII e segg.; G. CONTI ODO-RISIO, H. Linguet dall’ancien régime alla rivoluzione, Giuffré, Milano 1976, pp. 117 e segg.

56 G. ABBATTISTA, Contro le razze. Primitivismo e relativismo in Anquétil–Duperron, in G. Imbruglia (a cura di), Il razzismo e le sue storie, Edizioni Scientifi-che Italiane, Napoli 1992, p. 136. Un’opera, questa, con cui Anquétil–Duperron si inserì a pieno titolo nella “disputa sul nuovo mondo”. Contro de Pawn e Buffon, Anquétil–Duperron aveva tentato di elaborare un’antropologia attenta alle simi-litudini e le affinità tra nativi americani ed europei rifiutando una sociologia rigida-mente climatico–deterministica. Cfr. anche l’introduzione di G. Abbattista all’edi-zione italiana delle Considérations, pp. XLIII–LXXV.

57 «Il est dificile d’être juste et humain, quand d’une part l’interêt dicte des arrêt de sang & que de l’autre on croit n’avoir affaire qu’à des esclaves, à des êtres peu élévés au dessus de la brute». A. H. ANQUETIL–DUPERRON, Législation Orientale, cit., p. 18. Cfr. F. VENTURI, Dispotismo orientale, cit., p. 121; Una denuncia, quella dell’o-rientalista francese, che rappresenta una costante in tutte le opere sull’India e sul-l’America. Cfr. G. ABBATTISTA, introduzione, in A.H. ANQUETIL–DUPERRON (1780–1804), Considérations, cit., pp. XXIII, XXVI e segg., LXX.

Capitolo I 70

Egli negò l’idea secondo cui in Oriente non esistevano codici e leg-gi scritte, vincolanti per il principe e per il popolo (affermò l’esistenza di un consiglio di Stato e della responsabilità individuale del sovrano, di un giuramento a cui era sottoposto il re, la cui potestà era limitata da tribunali e leggi sacre), e contraddisse la convinzione secondo cui non esistevano né leggi di successione, né commercio, né alcuna for-ma di proprietà privata della terra ― per quanto egli ammettesse che quest’ultima era soggetta a molte limitazioni58.

Sulla base di tali convinzioni egli negò la contrapposizione, attri-buita dallo stesso soprattutto a Montesquieu, tra Stato di diritto e Oc-cidente da una parte e dispotismo e Oriente dall’altra affermando che in ogni parte del mondo, e quindi anche in Europa, era possibile rinve-nire forme di governo arbitrario59. Se un monarca, infatti, poteva eser-citare una forma di governo arbitrario, ciò non significava che tutta l’i-stituzione politica fosse pervasa dall’arbitrarietà: in tal senso il dispo-tismo montesquiviano più che una forma di governo esistente, era un artifizio retorico utile, come nel caso degli intellettuali inglesi che ne avevano ripreso gli elementi fondamentali, alla legittimazione del di-scorso sull’inferiorità indiana e dell’attività predatoria della Compa-gnia delle Indie Orientali.

Questa stessa argomentazione venne fatta propria, oltre che da Ed-mund Burke, da John Zephaniah Holwell, funzionario della Com-pagnia e autore dell’opera Interesting Historical Events del 1765 e di

58 Ivi, seconde partie, pp. 45–114 e trosième partie, pp. 116–179. In Législation

Orientale viene riportato un atto di vendita di un appezzamento di terra a comprova dell’esistenza non solo del senso di proprietà, ma di forme di riconoscimento pub-blico di essa, in polemica con Locke, Bernier, Dow e tutti coloro che «pensano, as-serendo il principio di terra nullius, di poter fare ciò che vogliono», Ivi, p. 175 (tra-duzione mia).

59 «Enfin l’Etat actuel, politique et religiuex de l’Asie, montre clairement que le Gouvernement despotique n’a pas necéssairement les suites funestes que lui attribue M. De Montesquieu, que le Despotisme, tel que ce Publiciste le représente, c’est–à–dire où l’autorité est arbitraire, est un Gouvernement imaginaire qui n’existe & qui ne peut exister nulle part». Ivi, p. 180. Per una lettura dell’originale critica di Anqué-til Duperron al topos filosofico–politico del dispotismo orientale si veda anche la già citata introduzione di Guido Abbattista all’edizione italiana delle Considerations philosophiques; F. VENTURI, Dispotismo orientale, cit., pp. 121–125; G. ZAMA-GNI, Oriente ideologico, Asia reale, cit., pp. 376–390.

L’India e il dispotismo 71

A Review of the Original Principles del 177960. Accanto ad una visio-ne più “clemente” del dispotismo che caratterizzava le istituzioni poli-tiche asiatiche, Holwell accolse l’idea secondo cui la religione indù, a dispetto dell’opinione dominante al tempo, era in sé originale61, pog-giava su di una concezione della divinità particolarmente alta e com-plessa e su virtuosi insegnamenti morali, e, sia dal punto di vista stret-tamente teologico sia in riferimento ai valori da essa propugnati, pre-sentava a suo avviso forti analogie con le religioni monoteistiche e universaliste62.

Insieme a intellettuali come Anquétil–Duperron e Holwell, astrono-mi e letterati quali Guillaume Le Gentil de La Galaisière, Pierre Son-nerat, Etienne Mignot e Joseph de Guignes ― sulla scia di una lunga tradizione di studiosi e filosofi che tra il XVII e il XVIII avevano di-mostrato un vivace interesse nei confronti dell’Induismo e del confu-cianesimo cinese, quali Voltaire, Raynal e Bailly63 ― contribuirono a

60 J.Z. HOLWELL (1765–7), Interesting Historical Events relative to the Prov-inces of Bengal and the Empire of Hindostan, Routledge, London 2000, contenuta in parte anche in P.J. MARSHALL, The British Discovery of Hinduism, cit., pp. 45–106 e ID., A Review of the Original Principles Religious and Moral of the Ancient Bramins. Mithology, Cosmogony, Fasts, and Festivals, of the Gentoos, Followers of the Shastah, with a Dissertation on the Metempsychosis, commonly, though errone-ously, called the Pythagorian Doctrine, D. Steel, London 1779. In quest’ultima ope-ra, Holwell nella sua dedica iniziale sottolinea i punti di contatto tra la dottrina bra-minica e quella delle religioni monoteistiche e del Cristianesimo in particolare. Ivi, part I, p. 41.

61 In tal senso si scagliava contro i primi missionari cattolici che avevano tacciato la religione braminica di essere barbara e idolatra, quando «their own tenets are mo-re idolatrous than the system they travelled so far to stigmatize». J.Z. HOLWELL (1765–7), Interesting Historical Events, cit., p. 48.

62 J.Z. HOLWELL (1779), introduzione alla Dissertation, in Id., A Review of the Original Principles, cit., part II, pp. 4–16 e tutta la Dissertation, costruita sul raf-fronto minuzioso tra le dottrine principali dell’Induismo e del Cristianesimo. L’opinione positiva espressa da Holwell nei confronti dell’Induismo si spingeva anche a minimizzare la crudeltà di pratiche e riti quali infanticidio e il sāti, così a-borriti dai suoi contemporanei. J.Z., HOLWELL (1779), A Review of the Original Principles, cit., part I, pp. 75–6.

63 Sull’interesse che l’Induismo aveva esercitato su teologi e filosofi – e in parti-colare sui deisti – per ciò che riguarda gli aspetti di possibile congruenza con i gran-di monoteismi, si veda P.J. MARSHALL, The British Discovery of Hinduism, cit., pp. 25–33. È interessante notare, ha affermato Kopf, come nell’ambito della valoriz-

Capitolo I 72

creare con i loro studi il fertile terreno alla base delle successive ricer-che della scuola orientalista, scuola che acquisì particolare fama e for-tuna nel dibattito intellettuale settecentesco soprattutto durante la se-conda metà del secolo.

L’atteggiamento estremamente aperto e tollerante dimostrato da in-tellettuali come Holwell per i quali «civilization had its origins in A-sia»64, fu condiviso ed alimentato da uno tra i più importanti orientali-sti inglesi del tempo, William Jones (1680–1749)65, fondatore, insieme a Warren Hastings, della Asiatic Society of Bengal.

La figura di Jones è centrale in questa fase della dominazione bri-tannica in India, sia per il ruolo politico che egli giocò in quanto con-sulente del Governatore generale sia in quanto eminente letterato, ca-pofila e patrocinatore della scuola di studi orientalisti.

La produzione letteraria jonesiana fu particolarmente rigogliosa: a parte gli importanti saggi On the Gods of Greece, Italy and India, On the Hindus e On the Chronology of the Hundus, nei quali Jones espose le proprie analisi e conclusioni su questioni di ordine storico, teolo-gico e linguistico ― pubblicati sull’«Asiatic Researches», la prima ri-vista europea interamente dedicata a studi orientali, da lui creata nel gennaio del 1784 ― egli tradusse quello che veniva considerato il più grande poema drammatico della tradizione letteraria classica indù, Sā-

zazione dell’Induismo indiano a scapito dell’Islam – considerato as an intruder – da parte degli orientalisti inglesi della prima metà dell’Ottocento «sāti and other objec-tionable Hindu customs were generally seen as exemples of the degraded or “medio-eval” form of present–day Hinduism. Though there were many generalizations about the golden age of Hindu civilization, no one was quite sure just what the Hindu ethos was. Caste was condemned as “medioeval” and idolatry was attacked with strong Protestant indignation». D. KOPF, British Orientalism in the Origins of Ben-gal Renaissance, California U.P., Berkeley & Los Angeles 1969, p. 103.

64 Sono parole pronunciate da Colebrooke. H.T. COLEBROOKE, Discourse at the Royal Asiatic Society of Great Britain and Ireland, in Id., Miscellanous Essays, W.H. Allen & Co., London 1837, p. 1. Per una bibliografia critica sulla vita e il pen-siero di Jones si veda S.N. MUKHERJEE (1968), Sir William Jones, cit.; A.J. AR-BERRY, Asiatic Jones. The life and influence of sir William Jones, Longmans, Green & Co., London 1946; la biografia curata da G. CANNON, Oriental Jones, Asia Publishing House, London 1964 e il più recente ID., The Life and Mind of Ori-ental Jones, Cambridge U.P., Cambridge 1990.

65 Ivi, introduzione, pp. 14 e segg.

L’India e il dispotismo 73

Sākuntala, composta nel VI secolo da Kalidasa ― un’opera che egli commentò essere l’emblema dell’antica e grandiosa civiltà antica in-diana, paragonandone l’autore a William Shakespeare66. In particolare, dal punto di vista delle ricerche in ambito linguistico, il contributo di Jones fu di notevole importanza per aver fatto emergere l’affinità esi-stente tra sanscrito, greco antico e latino67. Ma il contributo scientifico maggiore fu soprattutto in riferimento allo studio della giurisprudenza indù e musulmana68. Egli aveva progettato di redigere una raccolta delle leggi vigenti presso la popolazione musulmana e presso quella indù e tale progetto venne concretizzato nella pubblicazione de Al Si-rajiyyah or the Mohamedan Laws od Inheritance del 1792 e de Insti-tutes of Hindu Law or the ordinances of Menu del 1796, opere che, insieme alle precedenti The Speeches of Isaeus del 1779 e An Essay on the Law of Bailments del 178269 furono alla base di tutti gli studi suc-cessivi di diritto comparato. Sulla base di tali ricerche, lo studioso a-veva contestato le idee principali sostenute dai critici dell’India, come

66 Mill ridicolizzerà tale affermazione. J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book

II, ch. IX, p. 37. 67 L’affinità tra le tre lingue era già stata sottolineata nel 1583 dal mercante ita-

liano Filippo Sassetti, scoperta che, però, non aveva destato particolare interesse nella comunità intellettuale del tempo cadendo così nell’oblio per quasi due secoli. J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 13.

68 Javed Mejeed, e prima di lui Ranajit Guha, hanno sottolineato come l’obiettivo di Jones nel tradurre e analizzare le leggi indù fosse quello di appropriarsi dei saperi detenuti da pandits e maulavis, titolari dei poteri di interpretazione e applicazione della legge – tentativo, questo, che rispecchiava pienamente la «British fear of native knowledge». Solo attraverso tale appropriazione, il governo coloniale avrebbe potu-to limitare, infatti, il potere esercitato da questi ultimi, assicurandosi maggiore con-trollo sulle istituzioni native e, dunque, maggiore stabilità. Ivi, p. 20. Cfr. R. GUHA, An Indian Historiography of India. A Nineteeth Century Agenda and its Implica-tions, Calcutta, Bagchi, 1988, p. 6; J. MAGEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 19.

69 W. JONES (1792) Al Sirajiyyah or the Mohamedan Laws od Inheritance, London 1869; ID. (1794), Institutes of Hindu Law, or, The Ordinances of Menu, According to the Gloss of Cullúca, Comprising the Indian System of Duties, Reli-gious and Civil, Routledge, London 2000; ID., The Speeches of Isæus in Causes Concerning the Law of Succession of Property at Athens, with a Prefatory Dis-course, Notes Critical and Historical, and a Commentary, London 1779; ID. (1782), An Essay on the Law of Bailments, F.B. Rothman, Littleton (Colo.) 1998.

Capitolo I 74

quella dell’esistenza in India di un potere assoluto e arbitrario nelle mani del principe ― «io ribatto fermamente che i principi indiani non ebbero né mai pretesero di avere un’autorità legislativa illimitata, ma furono sempre sotto il controllo di leggi considerate di origine divina e alle quali essi mai pretesero di poter derogare»70 ― e quella dell’assenza della proprietà privata ― concezione questa fortemente criticata anche da Halhed e Charles William Boughton Rous71. Essi, come già Anquétil–Duperron, consideravano priva di fondamento l’idea secondo cui durante la dominazione musulmana il sovrano a-vesse assunto in sé il diritto di proprietà universale sulle terre ― opi-nione, questa, che nel caso di Jones venne posta a fondamento del suo sostegno alla riforma agraria e della proprietà della terra, il Permanent Settlement, ideato da Cornwallis.

La pubblicazione di alcuni studi e traduzioni di opere classiche del-

la tradizione poetica, giuridica e storiografica indù e musulmana rap-presentarono le tappe fondamentali del diffondersi di studi storici, let-terari, linguistici, archeologici di enorme importanza scientifica e, pa-rallelamente, di un crescente interesse in ogni ambito di ricerca.72 Tra

70 W. JONES, The Works, vol. III, London 1799, pag. 513 citato e tradotto in G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., pp. 59–60. Jones si contrap-pose alle tesi di Bernier e Montesquieu i quali avevano affermato che l’India non aveva mai vissuto un’epoca “medioevale”: in tal senso, individuando regole, norme e contratti equiparabili a quelle vigenti durante il feudalesimo europeo, Jones avreb-be facilmente potuto dire che il potere in India era tutt’altro che dispotico e che non era preclusa alle sue popolazioni la strada verso la libertà. Cfr. S.N. MUKHERJEE, Sir William Jones, cit., p. 39. In tal senso Jones venne sempre identificato come un “medievalista” nel dibattito interno alla Gran Bretagna sull’interpretazione della civiltà indiana, ed ecco perché Mill ne dipinse un ritratto dalle tinte romantiche, a cui egli opponeva un ragionamento “freddo e razionalista”. Cfr. G.D. BEARCE, British Attitude, cit., p. 20–4. Mill aveva paragonato l’India al Medioevo europeo solo per affermare l’“inferiorità” e la maggior “arretratezza” politico–istituzionale della prima rispetto alle formazioni politiche medievali. Cfr. J. MILL (1858), Hi-story, cit., vol. II, book II, ch. X, pp. 148–151.

71 C.W. BOUGHTON ROUS, Dissertation Concerning the Landed Property of Bengal, London 1791.

72 Marshall ha sottolineato come l’interesse di questi intellettuali «with the pos-sible exception of Jones, they did not try to understand what Hinduism meant to millions of Indians. They invariably made a distinction between ‘popular’ Hinduism

L’India e il dispotismo 75

esse vi fu l’opera di William Robertson Historical Disquisition del 179273 ― di grande importanza soprattutto per l’approccio comparati-vo che essa sviluppò nello studio della religione indù, posta a con-fronto con le tre grandi religioni monoteistiche ― e la traduzione di importanti editti e regolamenti dell’imperatore Timur (1336–1405) da parte di Alexander Hamilton, contenuti nell’opera dello storico Firi-shta pubblicata in inglese da Alexander Dow con il titolo Ferishta’s History of Dekkan nel 179474. Centrali furono, poi, la traduzione di poemi epici quali il Mahābhārata e la Bhāgavad Gīta da parte di Charles Wilkins negli anni Ottanta75, traduzioni che aprirono la strada and ‘philosophical’ Hinduism, which they tried to difine as a set of hard and fast doctrinal propositions and to place in current theories about the nature and history of religion. All of them wrote with contemporary European controversies and their own religious preoccupations very much in mind. As european have always tended to do, they created Hinduism in their own image». P.J. MARSHALL, The British Discov-ery of Hinduism, cit., p. 43.

73 W. Robertson (1792), Historical Disquisition Concerning the Knowledge that the Ancients Had of India, Routledge, London 1996. Partendo dall’idea che le reli-gioni, con i loro dogmi e rituali, sorgano tutte dalle stesse apprensioni umane, Ro-bertson afferma che vi sono stupefacenti similitudini tra le diverse dottrine della creazione. E, per quanto le divinità indù siano espressione di una realtà sociale, sto-ria e politica violenta e barbara, «esse sono estremamente familiari» (ivi, p. 310). Per non parlare del fatto che, aggiunge Robertson, tutti gli intellettuali che hanno visitato l’India hanno concordato sull’essenziale monoteismo che caratterizza la religione indù (ivi, p. 320). In tal senso, se Mill fece riferimento a Robertson come una delle principali fonti della sua History of British India, la lettura della religione indù che ha dato quest’ultimo è estremanente lontana da quella di Robertson.

74 A. Dow, Ferishta’s History of Dekkan, London 1794. 75 La traduzione ad opera di Wilkins della Bhāgavad Gīta (1785) e quella ad ope-

ra di Jones del poema Sakuntala, Sacontala or the Fatal Ring, an Indian Drama by Calidas, Translated from the Original Sanscrit (1789) sono raccolte nei tre volumi editi dalla W. Scott, London 1902 e a cura di T. Holme. W. Hastings elogerà lo sfor-zo di Wilkins nel portare a termine il difficile compito della traduzione di un classi-co della letteratura indiana in una lettera indirizzata a N. Smith del 4 ottobre 1784. In W. HASTINGS, Letter to Nathaniel Smith, from the Bhāgavad Gīta, in P. J. MARSHALL, The British Discovery of Hinduism, cit., p. 186. Questa lettera, scrive M.J. FRANKLIN nella General Introduction alla raccolta Representing India (cit., vol. I) in cui è inclusa l’opera di J.Z. HOLWELL, Interesting Historical Events (1765–7), rappresentò al meglio il conflitto esistente all’interno della classe politica britannica durante il governatorato dello stesso Hastings: Hastings scrisse questa missiva a Smith, infatti, per raccomandargli che la traduzione di Wilkins della

Capitolo I 76

all’analisi della religione, della mitologia e della struttura poetica della letteratura classica indiana. Dal punto di vista degli studi giuridici, fondamentale fu la compilazione e la raccolta delle leggi indù tradotte dal sanscrito al persiano e poi all’inglese ad opera di Nathaniel–Brassey Halheld nel Gentoo Code del 177676 ― commissonate dallo stesso Governatore generale Warren Hastings ― e la traduzione della terza parte dell’opera storica Akbar–namā sui regolamenti imperiali sotto il regno dell’imperatore Akbar da parte di Francis Gladwin77. Per quanto riguarda gli studi di linguistica, importantissima fu la pubbli-cazione della Grammar of Bengali Languages in 1778, quella di rac-colte di scritti e studi orientali redatti da William Kirkpatrick e Francis Gladwin (1789) e, pietra miliare degli studi orientalisti del primo de-cennio del XIX secolo, la pubblicazione del saggio di Henry T. Cole-brooke, successore di Jones alla guida dell’Asiatic Society of Bengal e presidente del consiglio dei docenti di Fort–William dal 1807, On the Vedas or Sacred Writings of the Hindus del 1805.78

Fu con il governatorato di Warren Hastings (1772–85), uno tra i più

illustri patrocinatori degli studi sull’Oriente durante la seconda metà del XVIII secolo, che l’attitudine orientalista all’utilizzo dei saperi e delle pratiche “native” al fine della comunicazione e dello scambio economico e culturale tra madrepatria e India si convertì in una vera e propria strategia di governo nell’ambito del cosiddetto Double Gover-nment ― caratterizzato dalla compresenza di istituzioni politiche co-loniali e precoloniali e fondato sul governo indiretto della Compagnia delle Indie Orientali attraverso queste ultime ― ideato e messo in pra-

Bhāgavad Gīta fosse presentata con le dovute lodi al parlamento britannico, e ciò nel contesto dello scontro tra politico–intellettuale tra gli orientalisti e una Compa-gnia delle Indie Orientali, nella figura del suo organo supremo, la Court of Directors, che non aveva alcun interesse a sostenere la ricerca scientifica e letteraria sull’India. Ivi, p. V.

76 N.B. HALHED (1776), A Code of Gentoo Laws or, Ordinations of the Pun-dits, Routledge, London 2000.

77 F. GLADWIN (ed.), The Ayen Akbery, or the Institutes of the Emperor Akbar, Calcutta 1783–6.

78 H.T. COLEBROOKE (1805), On the Vedas or Sacred Writings of the Hindus, in Id., Miscellaneous Essays, cit., p. 196.

L’India e il dispotismo 77

tica a partire da Clive, strategia per la quale era necessario, ha affer-mato David Kopf,

creating an Orietalized service elite competent in Indian languages and re-sponsive to indian traditions. Indianization should be conducted thereforth not only on the level of social intercourse but also on that of intellectual ex-change. Inasmuch as the British servant was expected to work alongside his Asian counterpart the administrative hierarchy, the Englishmen would have to learn to think and act like an Asian. Otherwise the British would be treated as aliens, rapport between ruler and ruled would break down, and the empire would ultimately collapse79. Per fare ciò egli ricorse a giovani studiosi, come Wilkins, Halhed,

Jones e Duncan80, coinvolgendoli tra il 1770 e il 1783 nella forma-zione di tale elite, impegnandoli nella traduzione nelle lingue native, l’urdu e il persiano, degli atti del governo coloniale e in inglese delle leggi indù e musulmane. «This is not to imply that Hastings was a saint», prosegue Kopf, ma piuttosto «his basic convinctions became the credo of the Orientalist movement: to rule effectively, one must love India; to love India, one must communicate with her people, one must learn her languages»81.

Michael J. Franklin ha fatto emergere in modo netto le implicazioni politiche delle ricerche operate dagli studi orientalisti e dell’interesse mostrato nei loro confronti da Warren Hastings:

With a disarming mixture of confidence and candour, Hastings elaborates the political rationale of Orientalism in terms of cultural empathy and Enlight-enment relativity; “rights of conquest” are balanced by “natural rights”,

79 D. KOPF, British Orientalism, cit., p. 18. 80 J. Duncan era membro della Asiatic Society of Bengal; lavorò all’interno del

Revenue Department come interprete dal persiano e segretario, fu Resident of Bena-res e Commissioner dei territori concessi dal sultano Tipu e dal 1795 al 1811 fu Go-vernatore di Bombay. Duncan, Jones, Colebrooke, e poi, dopo il 1800, W. Hunter e H.H. Wilson (insieme a J. Leyden, B. Hodgson, T. Roebuck) si raccolsero all’in-terno dell’Asiatic Society che, afferma Kopf, più che essere il risultato degli sforzi di una singola persona, Jones o Hastings, era espressione di un’urgenza collettiva: «after a decade of studying facets of Hindu and Muslim civilization in India, the Hasting’s generation now required a more formal organization». Ivi, p. 31 e p. 71.

81 Ivi, p. 21.

Capitolo I 78

short–term strategic utility by long–term cultural enrichment. The production and distribution of knowledge about India is unextricably connected with po-litical patronage. Yet, in the final analysis, Hastings, the empire–builder, has the vision to conceive of a postcolonial reality with Indian empire forgotten and Indian literature celebrated82. A prescindere dalla spendibilità immediata dei saperi sull’Oriente

in termini di governance coloniale e della loro possibile “commercia-bilità”, in cuor loro gli Orientalisti inglesi, per la maggior parte pro-fessori e studenti che attraversarono l’esperienza del College di Fort–William83, erano animati dalla convinzione che grazie ai loro studi e alla diffusione del sapere tradizionale, filtrato dalle loro analisi, gli europei e gli indiani avrebbero potuto recuperare, come ha sottolineato Garland Cannon nel 196484, la vera essenza di quelle antiche culture, “ripulite” da quei mediovalismi, da quelle pratiche violente ed irrazio-nali che ne deturpavano il carattere più “autentico”85. Questa con-cezione “conservatrice” dello studio della civiltà indiana fu, d’altra parte, perfettamente coerente con l’approccio alla società e alle istitu-zioni precoloniali sviluppato dalla Compagnia all’interno del modello di Double Government ― in vigore dalla concessione del Diwan alla fine dell’amministrazione di Hastings. Quella che Kopf individua es-

82 M.J. FRANKLIN (ed.), Representing India. Indian Culture and Imperial Con-trol in Eighteenth–Century British Orientalist Discourse, Routledge, London 2000, vol. I, pp. VI. Quale potesse essere l’interesse della Compagnia a tradurre e diffon-dere opere tradotte dal sanscrito che non fornivano alcuna informazione pratica sulla proprietà della terra o sul sistema fiscale precoloniale viene sinteticamente evinto da Franklin: «knowledge represented a valuable supercargo to be strasported to the West among the silk, indigo, piece–goods, and China Bonds of the East Indiamen. This intellectual commerce became annexed to Company transactions and it served to legitimate the imperial project». Ivi, p. VII.

83 Il primo e più importante esempio di struttura accademica adibita alla forma-zione dell’élite nativa e alla traduzione e diffusione della letteratura classica indiana fu Fort–William, inaugurata nel 1800. Per quanto riguarda la sua struttura, i diparti-menti e la linea didattica che la ispirarono e il rapporto tra essa e la Serampore mis-sion di W. Carey si veda D. KOPF, British Orientalism, cit., pp. 50–64 e pp. 71 e segg.

84 «The way had been opened for [indians] to regain their forgotten literature from the Brahmans». G. CANNON, Oriental Jones, Asian Publishing Press, Lon-don 1965, p. 166.

85 D. KOPF, British Orientalism, cit., p. 103.

L’India e il dispotismo 79

sere una corrente di pensiero animata dal cosmopolitismo razionalista e dalla tolleranza, quale fu l’Orientalismo della seconda metà del XVIII secolo ― soprattutto se comparato allo spirito più marca-tamente razzista e imperialista che caratterizzò la dominazione co-loniale britannica in India, e altrove, a partire dalla seconda metà del XIX secolo86 ― rivela così, calata nella materialità della relazione di dominio, la sua estrinseca funzionalità: l’istituzione coloniale si servì degli studi sull’Oriente per sussumere alcuni degli aspetti più signifi-cativi della cultura altra, ai fini di governo e del consolidamento del proprio potere87.

In questa fase storica a cavallo dei due secoli e in quella successiva che si chiude intorno agli anni Trenta del XIX secolo, è proprio tale configurazione del potere e delle strategie discorsive di legittimazione di esso fondate sull’utilizzo delle istituzioni, della lingua e della cultu-ra indiana, a smentire la stessa visione saidiana di un “un potere impe-riale irresistibile e monolitico”: essa, stabilendo, un trait d’union tra passato, presente e futuro, ha reso, scrive Javed Majeed, più com-plessa la comprensione delle modalità con cui «the indigenous socie-ties of the subcontinent survived, adapted, and consolidated themsel-ves throughout this period [...] the complexity of the interactions be-tween these societies and British rule in India, and [...] the way in which Indian groups were active agents, and not passive bystanders and victims in their creation as colonial subjects».88 In tal senso si possono definire l’India e gli studi orientalisti una sorta di “laborato-rio” fin da questa prima fase della costruzione dello Stato coloniale: in esso numerosi elementi della realtà politica, sociale, religiosa, econo-mica vennero amalgamati e inseriti nel quadro della dominazione bri-tannica, delle sue istituzioni, del suo modello economico e della cultu-ra politica di cui era portatrice, con esiti molteplici ed imprevedibili che negarono fin da subito la possibilità, nonostante la concezione del-la cultura indiana come “cultura morta” in questa fase dell’impero e nonostante la costruzione ideologica dell’incommensurabilità cultura-

86 Ivi, p. 26. 87 E.W. SAID, Orientalist Theory Reconsidered, cit, vol. I, p. 17. 88 J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 197.

Capitolo I 80

le e storica tra il Sé e l’Altro propria della fase successiva, di stabilire una netta divisione tra le due realtà in gioco.

1.2. Il rifiuto milliano dell’orientalismo

1.2.1. Contro il “romanticismo” orientalista Nei saggi Emancipate Your Colonies e Essay on Colonies89, che

precedono di vent’anni la prima pubblicazione della History of British India, Bentham e Mill avevano assunto una posizione critica nei con-fronti della gestione dell’impero, soprattutto da un punto di vista eco-nomico e in riferimento a quelle colonie britanniche in Canada e in Australia identificabili come “di popolamento”, ossia settled by Euro-peans90. Nel caso dell’India il discorso acquisì il carattere particolare della critica all’amministrazione della Compagnia delle Indie Orientali e del programma costituzionale per una riforma radicale del-l’istituzione politica coloniale. All’indomani degli eventi rivoluzionari che avevano sconvolto l’Europa, la rivoluzione in America e quella in Francia, il mutato contesto politico europeo designava l’India, agli oc-chi di Bentham e Mill come il terreno di una nuova sfida le cui ragioni e i cui termini traevano origine all’interno dei dibattiti teorico–politici post–rivoluzionari sia sulla natura e l’organizzazione dell’istituzione–Stato, sia sulle sorti, sul ruolo e sugli obiettivi dell’impero. Nonostante il permanere dello scetticismo che aveva caratterizzato le riflessioni dei due filosofi in relazione ai presunti benefici economici dell’impero, l’India divenne per essi molto più che l’oggetto delle spe-culazioni riguardo all’opportunità economica del mantenere i possedi-menti d’oltreoceano: essa si trasformò nella mente di Bentham e Mill

89 J. BENTHAM (1793), Emancipate Your Colonies!, in Id., The Works of Jer-emy Bentham, cit., vol. IV, pp. 407–18 e ID. (1798) A Manual of Political Econ-omy, ivi, vol. III, pp. 31–84; J. MILL (1798), Essays on Colonies, in Id., The Col-lected Works of James Mill, cit., vol. V. Queste argomentazioni sono contenute al-tresì ne J. MILL (1820) Elements of Political Economy, cit., vol. IV.

90 Il termine “colonia”, fa riferimento in questo saggio, afferma Mill, «a body of people drawn from the mothercountry to inhabit some distant place». J. MILL (1798), Essays on Colonies, in Id., The Collected Works of James Mill, cit., vol. V, p. 3.

L’India e il dispotismo 81

nel “laboratorio” politico in cui non solo realizzare le riforme, ma so-prattutto comprovare agli occhi della comunità intellettuale e politica europea la validità teorica e l’efficacia politica delle dottrine utili-tariste. Il progetto di riforme enucleato, spesso tra le righe, da Mill nella sua History of British India rappresentò, in tal senso, un’applica-zione sperimentale e una radicalizzazione nel contesto indiano di quell’insieme di principi che erano stati esposti da Bentham nel suo Essays on the Influence of Time and Space in Matter of Legislation (1793).91 L’India diveniva il luogo in cui, utilizzando un’espressione di Javed Majeed, «to transform utilitarianism into a militant faith»92:

The History of British India shaped a theorethical basis for the liberal pro-gramme to emancipate India from its own culture. This was in accordance with James Mill’s emphasis on the importance of theory to practice: «the fact is, that good practice can, in no case, have any solid foundation but in the-ory»93. Il progetto di «emancipazione dell’India dalla propria cultura» e di

edificazione dello Stato utilitarista enucleato nella History rendeva necessario un’enorme sforzo intellettuale e politico da parte del go-verno britannico e delle istituzioni coloniali, uno sforzo che sarebbe stato coadiuvato dall’intervento teorico dello stesso Mill: si trattava, infatti, di sgomberare il campo dalle “fantasie orientaliste” e sostituire l’approccio “conservativo” ― e “romantico”, fondato sul “mito” del-l’India precoloniale come “arcadia felix” all’origine delle civiltà, terra di fasti e di misteri, incontaminata dal tempo e depositaria di virtù e saperi antichissimi ― che aveva caratterizzato la cultura politica do-minante e le politiche coloniali fino a quel momento poste in essere, con un nuovo approccio scientifico in grado far emergere le storture del sistema sociale e politico vigente in India e di imprimere alla cul-tura politica coloniale l’impulso alle riforme. Mill si propose di avvia-re tale operazione di demolizione e di definitiva delegittimazione teo-rica del “discorso” coloniale dominante sulla base dell’idea che esso

91 J. BENTHAM (1793), On the Influence, cit., vol. I, pp. 169–94. 92 J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 126. 93 Ivi, p. 127. Majeed cita J. MILL (1824), Essay on Education, in W.H.

BURSTON (ed.), James Mill on Education,, Cambridge U.P., Cambridge 1969, p. 44.

Capitolo I 82

fosse incapace di attenersi “ai fatti” e fosse fondato sull’immagina-zione, sulla “fantasia” piuttosto che sul rigore scientifico, sulle “alluci-nazioni” che avevano portato gli studiosi orientalisti a vedere l’India come fonte inestinguibile di ricchezza economica, oltre che intellet-tuale. Agli occhi di Mill, infatti, era fuori discussione che l’India, e con essa l’Asia in generale, con le loro società apparentemente “im-mobili”, dalla storia “sospesa”94 in un tempo lontanissimo, che il filo-sofo identificava con l’epoca di Alessandro Magno, fossero incapaci di avviarsi autonomamente sulla strada della civilizzazione politica e sociale e del benessere economico95.

Le teorie e agli studi di William Jones e tutta la tradizione filoso-fica “orientalista” vennero criticati da Mill proprio in virtù dell’ap-proccio analitico “conservativo” e “romantico” che essi avevano svi-luppato, legato, agli occhi di Mill, all’«idiom of the ancien régime»96 e lontanissimo dal suo progetto di “judging history”. Mill, ha sotto-lineato Javed Majeed, fu il primo a tacciare Jones e gli altri orientalisti di “conservatorismo”, di quella stessa idea di “conservazione” dello status quo “nativo” che era stata espressa da Burke e che era fondata sulla sacralità della tradizione, la cui violazione avrebbe cagionato il sovvertimento definitivo e irreversibile dell’ordine civile. Un conser-vatorismo che si diffondeva in tutta Europa, e nell’impero, come rea-zione alla minaccia rappresentata dalla Rivoluzione Francese. Contro tale scuola di pensiero, allora dominante, si trattava di opporre, agli occhi di Mill, un modello interpretativo coerente, che fosse in grado di spiegare la nascita e l’evoluzione delle differenze culturali, politiche, religiose, giuridiche e sociali secondo parametri universali e razionali

94 Per quanto distanti per categorie analitiche e obiettivi pragmatici, l’interpre-

tazione milliana e quella “orientalista” della civiltà indiana, condividono l’assunto “illuminista” per il quale l’India è collocata in una temporalità altra, in un “tempo non coevo” utilizzando la categoria elaborata da Johannes Fabian. Cfr. J. FABIAN (1983), Il tempo e gli altri, cit., pp. 57 e segg.

95 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book, II, ch. I, p. 118. L’approccio di Mill alla storia dell’India venne fortemente criticato dall’orientalista Horace Wilson, in-segnante di sanscrito al Fort William College e curatore dell’edizione della History apparsa a Londra nel 1840. H.H. Wilson, prefazione a J. MILL (1858), The History, cit., p. XII.

96 J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 184.

L’India e il dispotismo 83

e di legittimarne una radicale trasformazione. Era necessario cioè, ri-condurre i fenomeni sociali dell’India passata e presente ad una griglia che fosse in grado di dar loro un preciso significato, attraverso gli strumenti analitici ed epistemologici esposti dallo stesso Mill nell’in-troduzione alla History, ricondurli, come frammenti della storia uma-na, ad un mondo “teleologicamente significativo”97, “ricomporli” in una genealogia che ne potesse spiegare ogni caratteristica e collocarla in una scala progressiva le cui tappe erano fissate dalla forma e dal grado di complessità funzionale delle istituzioni politiche.98 Perché, infatti, l’intervento dell’istituzione coloniale, interamente volto ad “in-segnare” all’India quei principi e quei saperi che avevano permesso al-l’Occidente di progredire, fosse efficace e produttivo ― in termini sia di benefici per la madrepatria, sia di benefici per il paese posto sotto dominio ― era necessario, secondo Mill, analizzare previamente la “natura” e le caratteristiche del popolo indiano. Era necessario cioè re-gistrare, schematizzare, classificare e generalizzare ogni fenomeno os-servabile; da ciascun dettaglio sarebbe stato possibile, infatti, costruire delle generalizzazioni e, seguendo il metodo sperimentale, formulare in un secondo tempo leggi “scientifiche” per descrivere la natura, il temperamento, la mentalità, i costumi e le istituzioni delle popolazioni colonizzate e per progettarne una trasformazione coerente99.

97 H. BHABHA, Manifestare l’arcaico, cit., p. 176. 98 Cfr. J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book II, ch. X, app., pp. 106–7. 99 Questo approccio alla realtà altra è comune a tutta l’esperienza coloniale, fin

dalle sue origini. È necessario sottolineare il diverso approccio che le scienze sociali svilupparono in questa fase dell’espansione imperiale rispetto alla precedente – quel-la che si era aperta con le scoperte di Colombo nelle Americhe: non si tratta più di trovare un fondamento teologico alla diversità (cfr. le fondamentali ricerche storio-grafiche di A. GERBI (1955), La disputa del Nuovo Mondo, Adelphi, Milano 2000; G. GLIOZZI, Adamo ed il nuovo mondo, La Nuova Italia, Firenze 1977 e ID., Diffe-renze e uguaglianze nella cultura europea moderna, Vivarium, Milano 1993; T. TODOROV, La conquista dell’America, Einaudi, Torino 1984; S. LANDUCCI, I filosofi e i selvaggi, Laterza, Bari 1972), ma piuttosto, partendo dall’analisi empirica delle sue caratteristiche, di elaborarne una spiegazione “scientifica”. In tale solco si inseriscono sia la “teoria dei climi” – elaborata da Fenélon e Montesquieu, condivisa tra gli altri anche da Helvétius, Hume e Ferguson – sia la concezione – utilitarista – dell’Altro, “temporalmente” diverso perché “sospeso” nel tempo del non–progresso, sia le dottrine razziste – i cui capofila furono Linneo e Gobineau – che assegnano alla diversità fenotipica uno statuto di totale differenza e incompatibilità rispetto al

Capitolo I 84

Se l’atteggiamento analitico e classificatore accomunava l’approc-cio scientifico dell’orientalismo e dell’Utilitarismo milliano, quel ri-spetto, quella curiosità e quella valorizzazione che appartenevano al primo e che erano esemplificati dal pensiero e dagli scritti di Jones risultavano dunque inammissibili agli occhi di Mill. Quest’ultimo, e prima di lui Bentham, non avrebbero mai potuto accettare, infatti, una prospettiva che tendesse a stabilire punti di contatto, somiglianze e origini comuni tra la cultura europea e occidentale e le culture altre, in quanto per essi il “contrasto” tra sistemi culturali diversi era essenziale alla formulazione e all’applicazione di un piano di riforme – quello utilitarista – fondato su di una concezione unitaria di impero che veni-va elaborata a partire dal paradigma teorico del “progresso” e della superiorità storica e culturale dell’Occidente, programma che non era accettato da Jones100. Se, infatti, sia Jones, sia più tardi Mill, conside-ravano gli indiani incapaci di “civil liberties”, il punto di partenza del-l’analisi e la conclusione a cui il primo era giunto è all’opposto ri-spetto a quelli di Mill e dei riformatori della prima metà del XIX seco-lo. Se per Mill il “dispotismo asiatico” che vedeva espresso nelle isti-tuzioni e nella tradizione politica e culturale indiana rappresentava un fattore politico strutturale che andava riformato in vista del buon go-verno e del “massimo bene per il maggior numero”, per Jones esso, Sé. Cfr. A. DE GOBINEAU (1853–5), Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, E. Voghera editore, Roma 1912.

100 J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book II, ch. X, app., pp. 107–8. In tal senso, Mill non poteva accettare la concezione orientalista che associava alla civiltà indiana un’origine antichissima e come tale “degna di essere conservata”. Al centro della polemica milliana vi è uno degli scritti più importanti di W. JONES, ossia On the Chronology of the Hindus del 1790 e l’approccio comparativo jonesiano che, come ha sottolineato Kopf, meteva in relazione «Sanskrit, the language of the an-cient Hindus, to the European language family», sulla base della tesi della medesima radice indo–europea delle tre lingue e dell’origine “iraniana” del genere umano. W. JONES (1790), On the Chronology of the Hindus, ID. (1789), Hindus e ID. (1789) On the Gods of Greece, Italy and India, in P. J. MARSHALL, The British Discovery of Hinduism, cit., pp. 196–289. Si veda anche ID. (1786–1787), A Genetic Explana-tion. Indo–European, in G. CANNON, The Life and Mind of Oriental Jones, cit., pp. 241–70; ID., On the Origin and Families of Nations, in Id., The Works of Sir Wil-liam Jones, R.D. Richardson Jr. (ed.), Garland, New York & London 1984, pp. 185–204. J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. I, pp. 108–15. Cfr. D. KOPF, British Orientalism, cit., p. 38.

L’India e il dispotismo 85

concepito nei termini del “despotisme legal” definito dai fisiocratici e fondato su consuetudini e leggi non codificate, andava preservato, co-erentemente alla filosofia politica “conservatrice” che permeava il suo pensiero101.

In tal senso si può affermare che la prospettiva milliana tradusse e rielaborò le tensioni esistenti nel mondo intellettuale e politico britan-nico del tempo che erano legate ad una radicale trasformazione del ruolo e degli obiettivi dell’impero così come ad un mutato approccio imperiale alle società “native”. Il paradigma conoscitivo che struttura l’analisi milliana dell’India è, infatti, lontano sia da una concezione dell’alterità in quanto “non politica” ― concezione che aveva animato il cosiddetto Primo impero102 ― sia dalla concezione “conservativa” propria della scuola jonesiana e della prima fase della conquista india-na. Di fronte alla complessità culturale, religiosa e istituzionale dell’India a lui contemporanea, Mill fu costretto a “creare uno spazio vuoto”, senza illudersi che esso fosse già dato ― come era stato inve-ce nel discorso a fondamento della conquista americana –, e a “deco-struire” pezzo per pezzo lo spazio politico indiano. Solo attraverso un’opera di decostruzione che sapesse far emergere gli elementi “ne-gativi” della civiltà indiana era possibile, infatti, “costruire” il “buon governo” senza rompere la continuità con il passato. In tal senso, scri-ve Mazlish,

There can be little question that Mill’s History showed Utilitarian principles in action; his was truly a history defined in the Enlightement sense of a “phi-losophy teaching by examples”. In addiction, as we shall see shortly, by dis-paraging the Hindu culture and litterally stripping the Hindus of any pretence of to civilization, Mill could treat India, in part, as a blank continent on which the Utilitarian legislator could impose its ideas. In America in 1789 and France in 1789–1793, constitutional conventions sought to construct a new political order freed from the irrational, unplanned vestiges of the past.

101 Per le analogie tra la concezione del governo in Asia espressa da Jones e quel-

la formulata da Quesnay si veda QUESNAY, Dispotisme de la Chine, «Éphémérides du Citoyen», 1767, tt. III, IV, V, VI. Cfr. P. CAPITANI, I Fisiocratici e Mably. Tra dispotismo legale e governo misto, in D. Felice (a cura di), Dispotismo, cit., II t., pp. 329–356; F. VENTURI, Dispotismo orientale, cit., p. 120.

102 Per una bibliografia sull’argomento rimando al mio saggio Il concetto di im-pero, cit., pp. 1–35.

Capitolo I 86

India posed a more difficult problem, but Mill sought to reduce the challenge to something like the same terms103. Mill fu “costretto” a pensare l’India “come se” l’ordine politico ra-

zionale potesse essere storicamente realizzato all’interno della tensio-ne tra l’elemento della “continuità” e quello del “cambiamento”, e lo fece rimanendo coerente con la concezione utilitarista di intervento riformatore. Di conseguenza, se è vero, come sottolinea Guha, che fu «un imperativo del discorso utilitarista creare [uno spazio] vuoto [...] in modo tale da riempir[lo] con il proprio sistema»104, è altrettanto ve-ro che la consapevolezza dell’impossibilità di edificare ex nihilo un nuovo body politic fu patrimonio indiscusso di tutta la cultura politica britannica del Secondo impero105. Nel caso di Mill e dei riformatori, sarebbe forse più proficuo utilizzare, rispetto sia alla concettualizza-zione proposta da Guha sia a quella proposta da Said (incentrata sul binomio somiglianza–differenza), l’idea di un rapporto intimità–di-stanza elaborata da Cohn (per cui all’intimità creata dagli studi orien-talisti viene sostituita una distanza “coltivata”): Mill, ed insieme a lui tutti coloro che individuarono nel dispotismo “endemico” l’elemento distintivo della società indiana, giungeva a porre quella distanza in-trinsecamente insuperabile tra le due civiltà indiana e britannica tale da ottenere “lo spazio della poiesi”106.

Se la concezione storico–politica alla base del discorso imperiale britannico del cosiddetto Primo impero era derivata dall’idea (hobbe-siana) secondo cui le forme politiche esistenti erano collocate sullo stesso “piano” temporale, un “piano” geometrico che appariva definito da figure “piene”, quelle dei body politics europei, e spazi vuoti, carat-terizzati dal “caos” e dalla “morte”107, la concezione che appartiene a

103 B. MAZLISH, James and John Stuart Mill, cit., p. 118. 104 R. GUHA, Dominance whitout Hegemony, cit., p. 78. Traduzione mia. 105 Cfr. U.S. MEHTA, Liberalism and Empire, cit., p. 106. 106 Cfr. B. COHN, Colonialism, cit., p.5; S. SEN, Distant Sovereignty, cit., pp.

30–31, 54. 107 T. HOBBES, Of the First and Second Natural Laws, and of Contracts, in Id.

(1651), Leviathan, in Id., The Collected Works of Thomas Hobbes, W. Molesworth (ed.), vol. III, Routledge/Thoemmes, London 1994, (10 voll.), part I, pp. 127 e ivi, De Corpore Politico (1655), vol. IV, p. 85.

L’India e il dispotismo 87

Mill e a tutto il Secondo impero derivò dall’idea secondo cui lo spazio politico non è definito nei termini della contemporaneità ma dall’esistenza di un “prima” e un “poi” rispetto al quale vengono posi-zionate, secondo una valutazione che, ben più che temporale, è es-senzialmente “normativa”, le diverse civiltà a seconda del loro grado di sviluppo. La scansione temporale attraverso “stadi” che collocano le società umane contemporanee nei vari segmenti dell’asse backward–progressive, e l’idea secondo cui la Gran Bretagna, per l’indiscutibile primato tecnologico e scientifico, oltre che economico, politico e mili-tare, era deputata ad essere il “motore del progresso” per la colonia, permisero, di fatto, la piena giustificazione dell’espansione britannica e della creazione dei governi coloniali. Coerentemente a tale conce-zione e al fine di giustificare l’intervento riformatore in India, Mill strutturò l’analisi storico–politica della colonia britannica partendo dalla definizione dello “stadio” di sviluppo in cui essa si trovava e lo fece avvalendosi delle teorie elaborate qualche decennio prima da William Robertson e John Millar108.

Applicando la teoria millariana al contesto indiano, quella “nativa” appariva agli occhi di Mill una società che era progredita naturalmente

108 W. ROBERTSON (1792), An Historical Disquisition, cit., pp. 332 e segg. e ID., History of America, London 1777, 4 voll. Il recupero di alcune tesi ed infor-mazioni contenute nell’opera di Robertson da parte di Mill appare estremamente strumentale ai fini della creazione di un modello euristico che legga la storia come storia del progresso umano. Cfr. le critiche a Mill mosse da H.H. Wilson nella nota 2 a p. 117 della History. J. MILLAR (1735–1801) aveva pubblicato nel 1773 The Ori-gin of the Distinction of Ranks in cui egli aveva affrontato la questione dell’evoluzione delle forme di governo, individuando in essa il fattore principale del progresso delle società. Tale progresso, scandito in quattro stadi, secondo Millar av-veniva nella cornice della trasformazione di queste ultime da comunità dedite alla caccia e alla propria difesa ad aggregazioni umane dedite all’agricoltura e all’in-dustria, ed era in relazione con l’aumento della popolazione, la necessità di or-ganizzarsi in territori dalla grandezza più limitata e l’introduzione della divisione del lavoro. Cfr. J. MILLAR (1773), Osservazioni sull’origine della distinzione di rango nella società, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 80–82 e cap. III/IV; si veda anche ID., Historical views of the English Government form the Settlement of the Saxons in Britain to the Accession of the to Revolution (1787), Mawman, London 18184, 4 voll., opera questa che venne letta minuziosamente e abbondamentemente citata da Mill, sia nell’articolo Caste sia nella History. Per il rapporto tra Millar, Robertson e Mill si veda G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., pp. 89–90.

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attraverso i processi di aggregazione e civilizzazione dallo stadio pri-mitivo di comunità dislocate sul territorio a società civili organizzate e densamente popolate ― cammino, questo, intrapreso dagli Indiani numerosi secoli addietro, in un’epoca indefinita che l’autore della Hi-story of British India rinuncia a datare con precisione109. Nella filoso-fia della Storia elaborata da Mill le società “primitive” si avviano al progresso con tempi estremamente lenti, mentre successivamente, quando il processo di “improvement” è già più che consolidato, le tappe vengono percorse a maggiore velocità110. Lo stadio di sviluppo che corrisponde all’India a lui contemporanea è il primo nella scala delle civiltà: la colonia è, quindi, pressocché immobile, costretta e pa-ralizzata da secoli nella forma di una teocrazia il cui potere politico è nelle mani del clero ed è esercitato per mezzo di leggi desunte dai testi sacri e fondate sul diritto divino111. Tale forma di governo, scrive Mill nell’articolo Caste pubblicato nella settima edizione del-l’Encyclopaedia Britannica del 1857, si è perpetuata nel tempo grazie al mantenimento dei sudditi in una condizione di ignoranza e supersti-zione.

It may be regarded as a characteristic of this primary institution of govern-ment, that it is founded upon divine authority. The superstition of a rude peo-ple is peculiarly suited to such a pretension. While ignorant and solitary, men are perpetually haunted with the apprehension of invisible powers; and, as in this state only they can be imposed upon by the assumption of a divine char-acter and commission, so it is evidently the most effectual means which a great man, full of the spirit of improvement, can emply, to induce a people, jealous and impatient of all restraint, to forego their boundless liberty, and submit to the curb of authority112.

109 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. I, pp. 119–23. 110 Cfr. J. MILL, Caste, cit., p. 222. 111 Si noti l’eco alle riflessioni di Boulanger e Montesquieu sul ruolo della reli-

gione nel governo dispotico. Si veda quello che si è detto a proposito nel cap. I par. 1.2 di questo volume.

112 Ivi, p. 124. In nota Mill fa riferimento all’idea sviluppata da F. Goguet, nell’opera De l’Origine des Lois di cui Mill consulta la traduzione in inglese secondo cui il primitivo stadio della civiltà, quello in cui si troverebbe l’India, il potere legislativo del sovrano viene legittimato sulla base del presunto interven-to diretto nell’attività legislativa o dell’avallamento delle leggi regie da parte della divinità. F. GOGUET, De l’Origine des Lois, des Arts et des Sciences, Pa-

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Questo primo stadio di civiltà, afferma Mill mutuando la teoria mil-lariana degli stadi, viene a darsi solo ed esclusivamente quando il suo-lo viene occupato e coltivato, quando per questioni legate alla crea-zione della proprietà privata sorgono conflitti e controversie al-l’interno di una stessa comunità, tali da necessitare la creazione di un giudice, di un capo che possa svolgere super partes funzioni giu-diziarie e di politiche di difesa verso l’esterno113. A differenza di Mil-lar e delle concezioni evolutive settecentesche, Mill sostiene, però, che non è sufficiente sviluppare le prime rudimentali tecnologie produttive ed applicarle all’agricoltura (come l’India testimonia) perché una so-cietà possa essere avviata in modo definitivo al progesso economico e sociale: è necessaria una determinata divisione della terra e l’intro-duzione delle “macchine”, nell’agricoltura così come nella ma-nifattura, perché lo sviluppo capitalistico possa aver luogo114.

In India, come in qualsiasi altra società, la creazione del gover-nment e delle leggi, afferma Mill, discese dalla necessità degli uomi-ni di creare un’autorità giudiziaria superiore ad essi ― primo passo

ris 1758. Cfr. J. MILL (1858), History, cit., vol.VII, book I, ch. I, art. 9.

113 Cfr. J. MILLAR (1773), Osservazioni sull’origine della distinzione di rango nella società, cit., cap. III e IV. L’influenza di Millar è particolarmente evidente in Mill nei primi due capitoli del II libro della History of British India. Il rapporto esi-stente tra “stadio di progesso”, caratteristiche dell’istituzione politica e forme della proprietà privata era già stato ampiamente investigato, oltre che da Millar, anche da A. Smith e A. Ferguson. Cfr. A. SMITH (1776), Wealth of Nations, cit.; A. FER-GUSON (1767), Saggio sulla storia della società civile, Laterza, Bari 1999.

114 Le concezioni settecentesche dello sviluppo progressivo delle civiltà, essen-do antecedenti alle scoperte tecnologiche che avrebbero cambiato il volto della produzione occidentale, come quella della macchina a vapore di Watt, risentivano, infatti, di una concezione “preindustriale” dello sviluppo economico e produttivo. In tal senso si può scorgere una loro maggior vicinanza alle teorie classiche hobbe-siane e lockeane – secondo cui la coltivazione della terra era sufficiente ad intro-durre quella divisione sociale e del lavoro che avrebbe progressivamente reso ne-cessaria la costituzione del governo e reso così “civili” quelle stesse società – rispet-to alle stesse teorie evolutive sviluppate nel secolo successivo. Fu Ricardo il primo ad analizzare gli effetti dell’introduzione delle macchine sull’organizzazione so-ciale e produttiva, analisi che vennero evidentemente accolte da Mill. J. RICAR-DO, Principi dell’economia politica e delle imposte, P. L. Porta (a cura di), Torino, UTET, 1979, vol. I. Cfr. R. KOSELLECK, Progresso, Marsilio, Venezia 1991, pp. 70–80; E. BARTOCCI, introduzione a J. MILLAR, Osservazioni, cit., pp. 37–42.

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verso la creazione dell’autorità politica ― che garantisse le proprietà e i profitti: questo passaggio non fu il risultato di una trasformazione complessiva della società ad opera dei “Più”, ma piuttosto di un ri-stretto gruppo di persone, o di un singolo Legislatore. In tal senso, nella teoria milliana del progresso delle civiltà l’influenza degli sto-rici scozzesi e, in generale, delle teorie sulla dipendenza dei modi di vita e di organizzazione sociale degli individui dai fattori “esterni alla volontà umana” ― presente nell’opera di Mill soprattutto in rife-rimento agli effetti che il clima e l’indole delle popolazioni dell’India hanno sul persistere del dispotismo e dell’arretratezza e-conomico–sociale ― lascia progressivamente il posto alla teoria ben-thamita del governo e delle leggi come unici fattori delle trasfor-mazioni politico–sociali. È la volontà consapevole e razionale dell’uomo, e del Legislatore, insieme a quella dei cittadini illuminati che governano la cosa pubblica, a dirigere le sorti della società civi-le115.

Fu questo Legislatore «whose name is impossible to trace»116, un uomo sicuramente più avveduto di altri, ad intuire gli effetti negativi dell’assenza di un’organizzazione sociale in ceti e professioni, man-canza questa che impediva uno sviluppo non solo sociale ma so-prattutto economico ― rendendo impossibile qualsiasi forma di pro-prietà privata e di economia di mercato ― e introdusse la divisione “castale” ideata sulla base dei parametri religiosi in vigore al tempo117. Sempre nell’articolo Caste Mill scriveva:

115 Cfr. G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., pp. 99–100. 116 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. II, pp. 127–40. Cfr. J.A.

DUBOIS (1816), Hindu Manners, Customs and Ceremonies, Clarendon Press, Lon-don 1897, vol. I, p. 30. Il manoscritto di Dubois apparve per la prima volta in lingua inglese nel 1816, pubblicato dalla Compagnia delle Indie Orientali. L’opera fu poi pubblicata in Francia nel 1825.

117 In questo articolo Mill indaga attraverso i classici, Platone e Aristotele, le ori-gini e la presenza dell’istituto castale nelle società antiche, in quella egiziana, in quella greca e in quella cretese, per poi passare all’analisi di tale istituto presso i persiani e presso gli indù, attraverso gli scritti di de Goguet, Anquétil–Duperron e Millar. Mill fa riferimento anche agli scritti del Conte Carli per sostenere la tesi del-la presenza di tale istituzione in Perù. Obiettivo di Mill è evidentemente quello di comprendere a che punto della scala delle civiltà egli debba collocare le società ca-stali. Ivi, pp. 220–1.

L’India e il dispotismo 91

The grand steps which are made in improving the condition of mankind, though essentially the result of a progression in the minds of the society taken as a whole, are commonly the immediate suggestion of one individual, or small number of individuals, whose conception of the necessity of a change, and of the means of relief, is more clear and determinate than that of the rest of the community.118 Il giudizio positivo sulla creazione di una suddivisione della società

in ceti, o caste, in quanto passaggio necessario affinché le società po-tessero avviarsi al progresso ― poneva lo storico Mill in accordo con ciò che era stato precedente affermato dall’abate Dubois (1765–1848)119. Quest’ultimo aveva affermato, nel suo Hindu manners, Cus-toms and Ceremonies che «it is simply and solely due to the distinc-tion of the people into castes that India did not collapse into a State of barbarism, and that she preserved and perfected the arts and sciences of civilization, wilst most other nations of the heart remained in a state of barbarism»120. Mill è d’accordo con l’abate anche sull’idea che, no-nostante l’introduzione dell’istituto castale, quella indiana non possa essere definita una civiltà “progredita” ― sebbene Dubois sia convin-to che essa sia in un certo senso superiore alle altre civiltà asiatiche121. Dubois era dell’opinione, infatti, che «the Hindus have made no pro-gress at all in learning and while “many barbarous races have emerged from the darkness of ignorance the Hindus have been perfectly sta-tionary”»122.

118 Ivi, p. 222. 119 Cfr. A. ARONSON, Europe looks at India, Hind Kitabs, Bombay 1946, p. 34.

Questo volume risulta oltremodo interessante per uno sguardo complessivo sull’ap-proccio degli intellettuali europei tra il XVIII e l’inizio del XIX secolo all’India e alle questioni coloniali indiane.

120 J.A. DUBOIS (1816), Hindu Manners, Customs and Ceremonies, Clarendon Press, London 1897, vol. I, pp. 28–9. Dubois prosegue affermando che l’esclusione dei paria dalla società rappresentò il sistema più efficace per evitare che “orde di cannibali” infestassero città e villaggi . Ivi, p. 30.

121 J. MILL, Caste, cit., p. 226. J.A. DUBOIS (1816), History of Hindu Manners, Customs and Ceremonies, cit., vol. I, p. 28.

122 A. ARONSON, Europe looks at India, cit., p. 41. Aronson cita la versione in inglese alle pagine 324 e 380 dell’opera di Dubois History of Hindu Manners, Cu-stoms and Ceremonies che è contenuta nel volume da me già citato e che segue quella in francese del 1825.

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Se, infatti, l’istituto castale aveva dato vita ad una prima forma di organizzazione sociale, si era rivelato successivamente, secondo Mill, un ostacolo ad ulteriori articolazioni in quanto la suddivisione in pro-fessioni e classi era stata cristallizata in un sistema rigidissimo e inva-riabile nel tempo che soddisfaceva solo le elementari necessità delle società civili ― l’organizzazione del culto, la difesa militare e il so-stentamento economico della comunità123. Esso, infatti, se era nato con l’ottica di separare le differenti professioni, aggregarle per gruppi e stabilire così un’organizzazione razionale delle diverse componenti sociali, si era trasformato poi, sostiene Mill, in un ordine immutabile e opprimente, fondato sull’idea che fosse necessario «to take care of its permanence, and to make provision for securing the benefits of it throughout all ages»124. La perpetrazione di tale sistema contraddiceva l’idea cara al filosofo utilitarista secondo cui

the way which presents itself to the reasoning mind, as that which is best cal-culated for improving every branch of human industry or skill, is to open, as widely as possible, the doors to competition; not to exclude any man, of whatever origin, who may appear to have an extraordinary genius for any particular thing, but to allow him, through competition, to read the reward of his superiority, and hence to feel all the motives that can prompt him to ex-cel125. Tale principio veniva altresì contraddetto dal fatto che l’istituto ca-

stale, aveva fissato una struttura tutt’altro che ugualitaria: nel rispetto delle prescrizioni religiose indù caratterizzate da una concezione pri-mitiva della divinità come entità che predilige una classe, quella dei bramini, a scapito delle altre, questi ultimi furono investiti di un potere e un’autorità senza pari, irresistibili e assoluti. Tale casta, oltre a ciò, era privilegiata dal punto di vista giuridico: non era infatti perseguibile qualsiasi atto criminoso che da essa fosse stato commesso e i torti da

123 J. MILL, Caste, cit., p. 223. 124 Così, prosegue J. Mill, si stabilì che il figlio dovesse necessariamente seguire

le orme del padre e non dedicarsi a nessun’altra attività che non fosse quella paterna. In caso contrario, così come nel caso di matrimoni intercastali, le punizioni sarebbe-ro state rigidissime, per evitare in qualsiasi modo «to ruin and confound the separate castes». J. MILL, Caste, cit., p. 223.

125 Ivi, p. 226.

L’India e il dispotismo 93

essa subiti avevano un prezzo in termini penali molto più alto che in qualsiasi altro caso. Essa, inoltre, non solo aveva il pieno controllo sulla vita privata e sul tempo delle caste inferiori ― quella militare o Cshatriyas, quella dei pastori o Vaisyas, quella dei servitori o Sudras e, infine, quella degli intoccabili126 ―, ma era altresì gerarchicamente superiore allo stesso sovrano. Era stata proprio l’egemonia politica ed economica acquisita dalle caste militare e sacerdotale a garantire per Mill la conservazione nel tempo dell’organizzazione castale e a tra-sformare progressivamente l’istituzione politica in un dispotismo “te-ocratico”, controllato e diretto dalla classe sacerdotale. Scriveva an-cora Mill nell’articolo Caste:

When one of the castes, as that of the priests, or the soldiers, found itself pos-sessed of an influence over the minds of the rest of the community, such that it could establish certain point of belief in its own favour, it was never long before it availed itself of that advantage, and pushed it to the utmost. If it could inspire the belief that it was more noble, and whortly of higher privi-leges and greater honour, than the rest of the community, it never failed to get this point established as an inconvertible right, not the result of the mere will of the community, but of an absolute law of nature, or even a rivelation and command from God127.

126 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. II, pp. 128–31, pp. 133–9.

Una critica simile al sistema braminico era stata avanzata anche dall’abate Dubois. Cfr. DUBOIS (1816), History of Hindu Manners, cit., vol. I e II, part II, pp. 162–549.

127 J. MILL, Caste, cit., p. 223. Cfr. J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. II, p. 128 e ID. (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. I, p. 116 e ch. II, p. 125. La posizione critica espressa da Mill nei confronti del sistema castale traeva origine, secondo Majeed, soprattutto dalla critica protestante e specificatamente puritana al sacerdozio. Di fatto, però, la critica al potere detenuto dalla casta braminica è perfet-tamente coerente all’ostilità espressa da Bentham e Mill al governo dei “Pochi” vi-gente in madrepatria e ad una gestione confessionale della cosa pubblica. Di conse-guenza credo che non si possa asserire la priorità dell’elemento “protestante” su quello “utilitarista”, ma piuttosto la compenetrazione di essi in un unico discorso. Majeed ha posto in risalto la matrice puritana delle critiche milliane alla società in-diana anche in riferimento alla condanna espressa dal filosofo alla superstizione e alle principali credenze dell’Induismo. J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginigs, cit., pp. 178–82. W. THOMAS, The Philosophic Radicals. Nine Studies in Theory and Practice 1817–1841, Clarendon Press, Oxford 1979, p. 101.

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In un contesto come quello indiano dominato dalla superstizione, dal predominio della casta braminica e dalla rigidità del sistema politi-co e sociale, non vi era alcuno spazio per la realizzazione di una anche minima mobilità sociale, sia perché il popolo era mantenuto nell’igno-ranza totale in riferimento alle proprie capacità, alle tecnologie e ai sa-peri che avrebbero migliorato le sue condizioni, sia perché l’istituto castale “abituava” le persone a non osare, a non cercare il meglio per loro stesse128.

Tale situazione era oltremodo aggravata, afferma Mill, dal fatto che la proprietà della terra e dei beni era organizzata in forma collettiva129. Ciò aveva impedito lo sviluppo di una proprietà individuale libe-ramente trasferibile mediante la vendita (Mill è infatti contrario a qualsiasi forma di monopolio sia agrario sia commerciale, in favore di piccole proprietà diffuse tra i coltivatori e del libero commercio tra madrepatria e India) e, di conseguenza, la fluidificazione dei rapporti economici e delle transazioni finanziarie. Tale proprietà, inoltre, veni-va trasferita di padre in figlio ― al primogenito, mentre venivano e-sclusi i secondogeniti e le donne ― in modo tale che non si realizzas-se mai una segmentazione della proprietà ed una disponibilità di tali segmenti sul mercato.

Sulla base delle informazioni che ha selezionato riguardo allo stato della proprietà in India, del sistema di tassazione vigente in epoca pre-coloniale e del commercio, Mill contraddice un altro topos del di-scorso orientalista sull’India, condiviso anche da avventurieri, mis-sionari e funzionari della Compagnia delle Indie Orientali, ossia l’idea secondo cui in India vi erano enormi ricchezze, sia in termini di pro-duzione agricola e manifatturiera, sia in termini di metalli preziosi e beni di lusso accumulati dalle dinastie regnanti130. In tal senso, pur fa-

128 E dunque a non usare la ragione (si noti la similitudine con Boulanger e Mon-

tesquieu). Una concezione simile di nativo indù, essenzialmente buono in quanto troppo abituato a sottomettersi ad un potere dispotico che lo aveva ridotto ad essere incapace di contrapporsi anche all’invasione straniera e musulmana, era stata elabo-rata da D. ORME (1782), Historical Fragment, cit., p. 279.

129 La concezione milliana degli aspetti negativi della divisione castale deriva di-rettamente dalle idee espresse da William Robertson. ID.(1792), An Historical Dis-quisition, cit., pp. 239 e segg..

130 J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book II, ch. X, p. 144. Così anche Du-

L’India e il dispotismo 95

cendo spesso riferimento alla sua Historical Disquisition, Mill è lon-tano dalle tesi di Robertson, secondo le quali l’India rappresentava, fin dall’antichità, una delle zone più ricche tra Meditterraneo, Medio O-riente e Asia, equiparabile all’Egitto, alla Persia e all’impero romano (per Orme, oltre ad essere «not only more early civilized», l’India era anche la società che aveva raggiunto «greater progress in civilization than any other people»)131.

1.2.2. Civiltà musulmana e civiltà indù a confronto

Il confronto operato da Mill tra i costumi, la religione, le istituzioni

politiche e sociali propri della civiltà indù e di quella musulmana, con-fronto che occupa una sezione alquanto ampia della History of British India e che equivale ai primi tre libri di essa (due dei dieci volumi di cui consta l’edizione curata da Wilson) e la rivalutazione della secon-da rispetto alla prima è perfettamente in linea con la critica all’approccio filo–induista e “conservativo” degli studi orientalisti132. L’obiettivo più generale di esso è ben precisato dall’autore nell’appen-dice al libro II dedicato ai costumi e alle istituzioni indù:

To ascertain the true state of the Hindus in the scale of civilization, is not only an object of curiosity in the history of the human nature; but to the peo-ple of Great Britain, charged as they are with the government of that great portion of the human species, it is an object of the highest practical impor-tance. No scheme of government can happily conduce to the end of govern-ment, unless it is adapted to the state of the people for whose use it is in-tended133.

bois. J.A. DUBOIS (1816), History of Hindu Manners, Customs and Ceremonies, cit., vol. I, ch. VI, pp. 81–97 e in precedenza Bernier. F. BERNIER, Lettre à Mon-seigneur Colbert, in Id., Voyages, cit., p. 161.

131 W. ROBERTSON (1792), An Historical Disquisition, cit., app., p. 229 si ve-dano anche le pagine 235 e 254–95; la sect. I, p. 9 e la sect. II, p. 55 e soprattutto pp. 64 e segg.

132 Per uno sguardo complessivo dell’approccio orientalista all’Induismo si veda P.J. MARSHALL, G. WILLIAMS, The Great Map of Mankind, cit., pp. 103–107.

133 J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book II, ch. X, p. 107.

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La civiltà indù, di cui Mill si occupa nel secondo libro della Hi-story, è quindi analizzata ― da una prospettiva estremamente critica ― per far emergere e legittimare lo “schema di governo” proposto dall’autore nei volumi successivi, uno schema che contraddice, come avrò modo di mostrare più avanti, gli assunti fondamentali alla base sia del Double Governement di Clive e Hastings, sia delle riforme ide-ate e applicate da Cornwallis.

La demolizione dei topoi della celebrazione orientalista della civiltà indù prosegue nel libro III134, dedicato alla civiltà musulmana e persia-na nello specifico, la cui “grandezza” è testimoniata, afferma Mill, dall’esuberanza militare e dal complesso impianto politico–isti-tuzionale e legislativo ― rispetto alla quale risaltano la debolezza e l’arretratezza delle società politiche indù135 ―, oltre che dal notevole

134 Ivi, vol. II, book III, pp. 165–82. Le fonti che Mill utilizza per il capitolo I di

questo libro della History sono: il già citato W. ROBERTSON (1992), An Historical Disquisition e J. GILLIES, History of the World, London 1807. Per il capitolo III dedicato all’impero moghul la già citata traduzione di J. SCOTT e di A. DOW delle memorie di Ferishta, le opere del colonnello M. WILKS, History of Mysore, London 1810 e ID., Historical Sketches of the South of India, Calcutta 1818, e l’opera del maggiore C. STEWART, History of Bengal, London 1757. Per il capitolo V, oltre alle fonti già citate: la traduzione in inglese di J. SCOTT di un manoscritto persiano Operations of Aurungzeb in the Deccan; la già citata History di D. Orme; J.C.G. DUFF, History of the Marattas, London 18268; J. TOD, Rajasthan, Calcutta 1829; la traduzione in inglese di J. SCOTT delle Memoirs of Eradut Khan e, infine, l’opera tradotta da W. FRANCKLIN dal persiano, A Sketch of Rajahpootaneh. In una nota all’inizio del libro, Wilson commenta la ricostruzione proposta da Mill affermando che risulta incompleta e talvolta erronea a causa del fatto non aveva potuto disporre di informazioni e ricerche pubblicate solo successivamente (ndr). J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book III, pp. 212. Si veda G. ABBATTISTA, James Mill e il pro-blema indiano, cit., pp. 146 e segg. per quanto riguarda l’approssimazione della rico-struzione milliana delle vicende storico–politiche dell’impero moghul e la riduzione della storia prebritannica dell’India alla storia politica degli imperi indo–musulmani.

135 Mill ricostruisce all’inizio del terzo libro le tappe dell’invasione persiana dai tempi di Alessandro Magno al consolidamento della dinastia moghul. J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book II, ch. X, app., pp. 124–5. Più avanti Mill afferma che lo stato di arretratezza delle società indù non permise che tra i loro sovrani si stabilisse alcun tipo di confederazione né che vi fosse una monarchia più forte delle altre in grado di sottometterle e di creare un sistema amministrativo accentrato e territorialmente esteso. Lo stesso vale, ad ogni modo, per la dinastia moghul e per quelle maratte. Ivi, pp. 139–40.

L’India e il dispotismo 97

“progresso” nel campo delle arti, in quello linguistico, della lettera-tura, dell’educazione, delle scienze e dell’architettura.

We have seen, in the comparisons adduced to illustrate the civilisation among the Hindus, that the nations in the western part of Asia; the Persians, the Ara-bians, and even the Turks; possessed a degree of intellectual faculties rather higher than the nations situated beyond them toward the East; were rather less deep involved in the absurdities and weakness of a rude state of society; had in fact attained a stage of civilisation, in some little degree, higher than the other inhabitants of that quarter of the globe136. L’ultima grande dinastia musulmana in India, quella moghul, affer-

ma Mill, rimasta per lungo tempo a contatto con la civiltà persiana, considerata da lui tra le più progredite, ne ereditò lingua, leggi, forme artistiche e dottrine religiose: essa ebbe origine sì dalle invasioni stra-niere ma fu, di fatto, “una dinastia nativa”, che amministrò le leggi dello Stato nel nome e nell’interesse dell’India ― «it found its interest as closely united to that of India, as it is possible for the interest of a despotical government was, to all the effects of interest, and thence of behaviour, not a foreign, but a native government»137. Come tale non può essere identificata con un dispotismo straniero, illegittimo e fune-sto, ma come un governo autoctono, giusto e illuminato. In tal senso Mill stabilisce un paragone implicito con il governo inglese, che, di fatto, aveva raccolto l’eredità della dominazione moghul:

136 Ivi, vol. 1, book III, ch. VI, p. 339. 137 Contraddicendo l’idea diffusa tra molti orientalisti, secondo cui la grande ci-

viltà indiana stava soffrendo un periodo di decadenza tale da ingannare gli osser-vatori e portarli a considerarla di minor valore, Mill afferma che non era stata regi-strata negli ultimi secoli alcuna calamità che potesse generare tale decadenza. Ne conseguiva che non era mai esistita la supposta “età dell’oro” e che lo stato di pro-fonda arretratezza in cui si trovava quest’ultima era tale per fattori endogeni. Ivi, vol. II, book II, ch. X, app., p. 115. Il rifiuto della tesi della decadenza, ha sotto-lineato Majeed, è legato ai principi dettati a Mill dalla psicologia associazionista. Affermare la primitiva grandezza della civiltà indiana avrebbe significato, infatti, porre un freno “sentimentale” all’attività di riforma razionale di cui Mill era promo-tore. Cfr. J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 145. Negare poi la ricchezza dell’India era coerente alla concezione benthamita e ricardiana del com-mercio e della ricchezza. Ivi, pp. 156–8.

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With these considerations before the inquirer, it will not admit of any long dispute, that human nature in India gained, and gained very considerably, by passing from a Hindu to a Mohammeddan government138. Il “benefico” passaggio della società indiana alla dominazione dei

Moghul dipese, sottolinea Mill, dalla mera organizzazione del sistema politico–istituzionale indiano a partire dai principi a fondamento dello Stato musulmano. Gli elementi di superiorità che caratterizzavano quest’ultimo si riferivano alle divisioni sociali ― l’assenza dell’isti-tuto castale e, dunque, della supremazia di una casta sul resto della so-cietà139 –, alla forma di governo ― il dispotismo musulmano preve-deva un grado di distribuzione degli uffici e delle funzioni inesistente presso l’istituzione politica indù ― e al ruolo della religione nella sfe-ra pubblica ― più limitato rispetto allo Stato indù sia perché in esso l’autorità politica era maggiormente separata dall’autorità religiosa, sia perché le sue leggi, tratte dai testi sacri dell’Islam e dunque codifi-cate, potevano fungere da limiti al potere politico, contrariamente alle leggi indù che non prevedevano codificazione140. A partire da tali con-siderazioni, agli occhi di Mill il dispotismo musulmano risultava, in un certo senso, meno invasivo di quello indù, tanto da lasciare spazio all’“insurrezione” come rimedio estremo contro l’arbitrarietà del pote-re politico.

The sovereigns of the East find, by experience, that the people, if oppressed beyond a certain limit, are apt to rebel; [...] But the dread of insurrection was reduced to its lowest terms, among a people, whose apathy and patience un-der suffering exceeded those of any other specimen of the human race. The spirit, and excitability, and courage of the Mahomedan portion of the Indian population, undoubtedly furnished, as far as it went, an additional motive to good government, on the part of the sovereigns of Hindustan141. La superiorità del dominio musulmano è attestata, inoltre, dall’in-

troduzione del sistema giudiziario locale e dei tribunali superiori, dalla

138 J. MILL (1858), History, vol. 1, book III, ch. VI, p. 342. 139 Ivi, vol. II, book III, ch. V., pp. 343–4. 140 Quest’affermazione è formulata in aperto conflitto con le tesi di Jones. Ivi,

vol. II, book II, ch. X, app., p. 132. 141 Ivi, vol. II, book III, ch. V, p. 346.

L’India e il dispotismo 99

costruzione di moschee, di scuole, di monasteri, di ospedali, ponti, strade ed avamposti militari, dalla creazione di un sistema ammini-strativo accentrato e capillare142, dall’istituzione di un consiglio di ga-binetto con funzionari ed esperti che potevano coadiuvare le scelte di governo del sovrano, dall’incentivazione dei traffici commerciali, dall’istituzione di un sistema alquanto efficace e razionale, a parere di Mill, di esazione delle tasse ― che erano calcolate sulla base di una concezione “molto avanzata” di proprietà privata ― e, non ultimo, teso alla protezione dei contadini e delle loro proprietà. Lo stesso, af-ferma Mill, vale per la religione, le arti figurative e le creazioni mani-fatturiere, per la letteratura143, la poesia e le scienze esatte144. Il mag-

142 J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book III, ch. V, p. 306. 143 «Under this head very few words are required; because the superiority of the

Mohammeddans, in respect of religion, is beyond all dispute». Ivi, pp. 364–5. Nello specifico della letteratura, la pressoché totale assenza di ricerca e produzione storio-grafica presso gli indù viene valutata dal filosofo, nel capitolo IX del libro II, come un segno ineludibile del loro limitato sviluppo intellettuale e civile. Scrive a proposi-to Mill che la prima – e più primitiva – forma di letteratura è in assoluto la poesia. «La poesia esprime il linguaggio della passione, dei sentimenti umani». Tutta la produzione letteraria indiana, aggiunge Mil, «con qualche ragguardevole eccezio-ne», è in versi. Anche la produzione storiografica si limita ad alcuni poemi, nei quali sono mescolati elementi di verità ed elementi di pura invenzione. In molti di questi testi è evidente la totale mancanza di connessione tra taluni eventi ed i racconti che si fanno su di essi, che attingono spesso ad antiche leggende. Ivi, vol. II, book II, ch. IX, pp. 33–4 e pp. 46–7. Anche i persiani, e dunque coloro che ne sono stati gli ere-di, la dinastia moghul, non hanno saputo produrre una letteratura storiografica degna di tale nome. D’altra parte, a differenza di quella indù, la storiografia musulmana è in prosa, dato che attesta, agli occhi di Mill, la superiorità della prima nei confronti della seconda. Ivi, p. 49.

144 Ivi, vol. II, book III, ch. V, pp. 354–68. I capitoli VIII, IX e X del libro II (vol. II) sono stati dedicati da Mill, alla demolizione di ogni aspetto della produzione culturale, artistica, architettonica e scientifica indù, in polemica diretta con i massimi esponenti dell’orientalismo britannico e europeo (Jones, C. Stewart, J. Macintosh, L. Bailly). Partendo dalla negazione dell’originalità e prestigio delle produzioni mani-fatturiere, da quelle tessili a quelle orafe, e architettoniche, Mill depreca la semplici-tà “pressocché infantile” dell’arte scultoria, della pittura e della musica e definisce la letteratura indù, riferendosi a Sākuntala, ai poemi sacri Mahābhārata e Ramayana e alla raccolta di fiabe indù Hitopadesha, «prolissa, insipida, infantile, ridicola, oscu-ra, tautologica, ripetitiva, confusa, incoerente». Ivi, p. 36. Traduzione mia. Mill met-te, poi, in discussione la validità e l’interesse dimostrato dagli orientalisti nei con-fronti della dottrina della creazione e di quella dell’assenza di solidità nella materia e

Capitolo I 100

giore sviluppo che la civiltà musulmana ha registrato in ogni campo del sapere e dell’attività umana è intimamente legato, afferma Mill, all’indole che caratterizza il suo popolo.

In point of address and temper, the Mohammeddan is less soft, less smooth and winning than the Hindu. Of course he is not so well liked by his lord and master, the Englishmen: who desires to have nothing more to do than to re-ceive his obedience. In truth, the Hindu, like the Eunuch excels in the quali-ties of a slave145. L’indole del “nativo” indù, al pari dei disprezzati cinesi, caratteriz-

zata dalla “corruzione”, dal “vizio” e dall’”insincerità”, dalla “slealtà” e dalla “mendacità”, dal “disprezzo nei confronti del prossimo” e dalla “trasandatezza”146, dall’indolenza e dall’effemminatezza147 viene raf- della penetrabilità dei corpi contenute nei Veda e la convinzione diffusa presso la comunità scientifica occidentale dell’origine indù della moderna astronomia. Ivi, pp. 56–76. Infine, dopo aver confutato l’idea che l’ideazione dell’aritmetica da parte degli indù possa rappresentare un segno evidente di civiltà, l’autore mette in discus-sione il modello educativo braminico. Ivi, pp. 82–6. Mill aveva già criticato l’astronomia e le convinzioni astrologiche indù nel suo articolo Caste. J. MILL, Ca-ste, cit., p. 226. Si confronti la critica milliana con quella avanzata da Orme nel suo Historical Fragment, cit., pp. 259–69.

145 J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book III, ch. V, p. 365. 146 Ivi, vol. II, book II, ch. X, app., p. 155. 147 La caratterizzazione del popolo indiano come “indolente”, “remissivo”, fem-

mineo” è un topos della letteratura sull’Oriente critica nei confronti dell’orienta-lismo jonesiano. Il dominio “discorsivo” sul nativo assume, in questo caso, il carat-tere del dominio “maschile” sulla realtà indiana, descritta, appunto, utilizzando lo stereotipo della “passionalità” e della “sensibilità” e “irrazionalità” femminili come «the most effeminate inhabitant of the globe». Su questo argomento si vedano A. LOOMBA (1998), Colonialismo/postcolonialismo, Meltemi, Roma 1998, p. 155; e il più specifico S. SEN, Distant Sovereignty, cit., pp.119–149. Lo stereotipo co-loniale del “mite indù” venne soppiantato dall’idea del “colonizzato violentatore” solo all’indomani della rivolta dei Sepoy del 1857. Prima di quella data non esiste-vano storie di stupri da parte dei nativi: l’ammutinamento segnò il tramonto del-l’idea che il colonizzato fosse “pronto” e “felice” di ricevere l’educazione coloniale e il sorgere di una concezione di esso come attentatore all’ordine e alla virtù del go-verno britannico. Per quanto riguarda questi temi si veda l’interessante volume di J. SHARPE, Allegories of Empire. The Figure of Woman in the Colonial Text, Minne-sota U.P., Minneapolis 1993. Un dominio “sessuato” che si espresse anche nel diret-to controllo della “sessualità” nativa e bianca, soprattutto in tarda età vittoriana, con-

L’India e il dispotismo 101

forzata, secondo Mill, in linea con ciò che avevano affermato Monte-squieu, Orme e Charles Grant148, dal sistema dispotico e teocratico a cui lo stesso “nativo” è sottoposto, sistema che «oltre ad aumentare la separazione fra le caste, ha favorito in India l’affermarsi di un pesante e pernicioso sistema di subordinazione», ha «tormentato e degradato l’intelletto [degli indù] e oppresso le loro menti più dei loro corpi [...] trasformandoli nel popolo più sottomesso di tutta l’umanità»149.

È, in ultima istanza, il dispotismo, fondato sulla divisione castale e la supremazia dei bramini, ad aver bloccato, agli occhi di Mill, lo svi-luppo economico, sociale e politico della società indiana: esso, da una parte, ha ostruito la possibilità di una più complessa divisione del la-voro, la quale avrebbe permesso di migliorare la capacità produttiva dell’intera società e, dall’altra, non ha saputo garantire quegli elemen-tari diritti, come la difesa della proprietà privata, dall’ingerenza del sovrano150.

È l’assenza di codificazione che caratterizza l’ordinamento giuri-dico indù a perpetrare tale condizione di soggiogamento della popola-zione indiana all’arbitrio dei Pochi: l’intero corpo delle norme è, infat-ti, in forma orale, tramandato da un’élite di funzionari giudiziari e-stremamente chiusa e potente che ha nei secoli mantenuto l’ordina-mento oscuro e discrezionale, privandolo della pubblicità che si con-viene alla legge e sottrendolo al controllo dei Più151. Tale situazione è,

testo, questo, in cui venne elaborato il mito della donna bianca “salvatrice” dell’onore imperiale, magistralmente analizzato da K. JAYAWARDENA nel suo The White Woman’s Other Burden, Routledge, London 1995. Si veda a proposito anche il controverso volume di R. HYAM, Empire and Sexuality, Manchester U. P., Manchester 1990. Per quanto riguarda l’effetto, sulla mentalità vittoriana del tempo, delle notizie (o delle dicerie) a proposito degli stupri di donne bianche da parta dei soldati Sepoy si veda anche D. JUDD, The Lion and the Tiger. The Rise and Fall of the British Raj, Oxford U.P., Oxford 2004, pp. 70–90.

148 C. GRANT (1792), Observations on the State of Society among the Asiatic Subjects of Great Britain, particularly with respect to Morals, in R.S.C.H.C.A.E.I.C. (16 August 1832), pp. 42–3.

149 J. MILL (1858), History, vol.I, book II, ch. IV, pp. 166–7. Traduzione mia. 150 Si noti in tal senso il debito contratto da Mill con le descrizioni “classiche”

seicentesche e settecentesche del dispotismo culminate nell’Esprit de lois di Monte-squieu. Cfr. ciò che si è detto a proposito nel cap. I, par. 1.2 di questo volume.

151 Il capitolo IV del libro II (vol. I) si concentra tutto sull’analisi critica del si-

Capitolo I 102

poi, aggravata dal fatto che nei tribunali non è prevista la trascrizione delle testimonianze152 e dal fatto che non è posto alcun limite alla cru-deltà delle pene, elementi, questi, che indicano il sistema giuridico in-dù come estremamente lontano dalla concezione liberale e utilitarista della giustizia, fondata sul concetto di “pena preventiva” e sul princi-pio del rispetto dell’integrità fisica e mentale degli esseri umani153. In tal senso, afferma Mill, tale sistema presenta inquietanti similitudini

stema giuridico indù sulla base dei principi enunciati da Bentham nel suo Introduc-tion to the Principles of Moral and Legislation. Mill sottolinea come in esso sia as-sente sia una precisa distinzione tra norme giuridiche e sfera delle norme morali e delle consuetudini, sia una separazione, simile a quella vigente in Europa, tra le dif-ferenti branche del diritto. Cfr. J. BENTHAM, Introduction to the Principles, ch. XVIII, Classes of offences, cit., pp. 97–154 e ID. (1830) Constitutional Code, cit., vol. IX, book I, chs. III–VII. Mill biasima, poi, la mancanza di una distinzione giuri-dica tra persone e cose – tale da non prevedere il riconoscimento della personalità giuridica, né, di conseguenza, della responsabilità individuale di fronte alla legge – e l’inesistenza di precise garanzie alla proprietà privata, elementi alla base di qualsiasi ordinamento razionale, fatto questo che permette a Mill di affermare che «the Hin-dus have, through all ages, remained in a state of society too near the semplicity and rudeness of the most ancient times, to have stretched their ideas of property so far». J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. IV, p. 173 e ID. (1824), Jurispru-dence in Id., The Collected Works of James Mill, cit., vol. V, p. 10–11.

152 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. IV, pp. 188–94. L’inefficacia della procedura dipendono, poi, sottolinea Mill, dal fatto che moltissime categorie di persone sono escluse dal diritto a testimoniare, tra cui le donne, dal fatto che il va-lore delle testimonianze non dipende né da chi le ha deposte né dalla loro affidabilità e verosimiglianza, se non dalla loro quantità numerica, e dal fatto che è ben accetto qualsiasi strumento, anche la menzogna, per coprire le malefatte degli appartenenti alla casta dei bramini e quella militare, di fatto intoccabili.

153 Cfr. J. BENTHAM (1789), Introduction to the Principles, cit., vol. I, pp. 86–93. «Punishment it is still to be remembered, [...] it is in itself an evil». Ivi, p. 93. Si veda anche ID. (1789), Principles of Penal Laws, ivi, vol. I, part I, ch. VII, part II, book II, ch. I e II. Le pene, afferma Mill, vigenti in Cina e presso gli indù, non erano così disumane nemmeno presso le popolazioni sassoni e germaniche. Mill cita a suf-fragio della sua opinione un’affermazione di William Jones contenuta nell’inter-vento da lui pronunciato durante un processo al Grand Jury di Calcutta, il 4 dicem-bre 1788: «notwithstanding the mildness which has generally been attribuited to the Hindu character, hardly any nation is distinguished for more sanguinary laws. “The cruel mutilations”, says Sir William Jones, “practised by the native powers, are shocking to humanity”». J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. IV, pp. 176–7, 180–94.

L’India e il dispotismo 103

con i sistemi vigenti «in the dark ages of modern Europe»154, sistemi rispetto ai quali esso è per certi aspetti addirittura “inferiore”.

L’obiettivo polemico di Mill nel criticare l’assenza presso gli indù di leggi codificate, è in realtà la Common Law e il sistema giudiziario vigenti in Gran Bretagna, criticati sulla base delle dottrine benthamite della razionalizzazione e della codificazione del diritto. Secondo Ben-tham e Mill, la Common Law determina, attraverso il principio della non codificazione, la permanenza della legge in un traditionary state, condizione questa che mantiene le società in uno stato di “arretratez-za” a causa del fatto che la legge non scritta conserva un elevato grado di incertezza e che come tale mina la capacità critica degli individui e alimenta la loro cieca sottomissione al potere. Nell’Europa moderna, «notwithstanding the necessity of writing to produce fixed and accu-rated definitions in law, the nations [...] have allowed a great propor-tion of their law to continue to the unwritten; that is, the traditionary state; the state in which they lay before the art of writing was known»155.

Partendo da tali considerazioni, Mill denuncia l’oscurità nelle pro-cedure che caratterizzano i tribunali inglesi ― presso i quali vige la Common Law, un sistema che “tradisce” in tal senso il grado di civiltà raggiunto dal suo popolo, ponendolo “paradossalmente” al di sotto di quello musulmano, il quale ha prodotto “almeno” leggi scritte ― e che intralciano il percorso della giustizia, scoraggiando il pubblico dal far-vi ricorso e rendendo praticamente inconsistente la difesa dei diritti, e in particolare di quelli delle classi inferiori156. La vigenza della Com-mon Law, inoltre, perpetra secondo Mill quel sistema corporativo di interpreti della legge, avvocati e giudici, che si interpone tra i citta-dini e la giustizia rendendo meno immediato ed efficace il rapporto tra essi.

Già Bentham aveva denunciato l’impossibilità ― senza una codifi-cazione che rendesse “certi” i diritti dei cittadini attraverso una classi-

154 Ivi, p. 194. La medesima accusa di approssimazione e crudeltà mossa da Mill

al sistema giudiziario e penale indù era stata espressa anche da Orme. Cfr. D. ORME (1782), Historical Fragment, cit., pp. 280–91.

155 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. IV, p. 198. 156 Ivi, vol. II, book III, ch. V, pp. 354–5.

Capitolo I 104

ficazione “nero su bianco” delle forme di proprietà e delle offese che ad esse potevano essere arrecate ― di difendere tali diritti, rendendo così inefficace la giustizia. Nel Draught of a New Plan del 1790157 a-veva denunciato l’arbitrarietà derivante dalla concentrazione del pote-re legislativo e giudiziario nelle mani dei giudici e dall’approssi-mazione prodotta dalle norme giurisprudenziali: in tal senso, agli oc-chi di Mill l’India rappresenta lo “specchio” delle inefficienze del si-stema giuridico nazionale, il luogo in cui operare alcune riforme so-stanziali e attraverso il quale, al contempo, spingere la classe politica britannica ad una revisione profonda della propria costituzione.

Anche il sistema giuridico istituito dal dominio musulmano, che pure appare più razionale di quello indù ― nel quale è addirittura as-sente la giurisprudenza, arte questa che in Europa colma parzialmente le lacune dovute all’assenza di codificazione ― poiché codificato e fondato sulla legge coranica e sul concetto di personalità giuridica dei singoli e di responsabilità individuale, rivela i suoi limiti per la quasi totale mancanza di una legislazione penale scritta: ciò determina il fat-to che il giudizio espresso dalle autorità giudiziarie risulti spesso arbi-trario in quanto non fondato sui principi della chiarezza e del-l’universalità. Esso, poi, in linea di continuità con le consuetudini vi-genti sotto il dominio indù, prevede pene particolarmente crudeli: tor-ture, mutilazioni e violenze sono previste anche in riferimento a reati minori. In tal senso, né il sistema giuridico musulmano né quello indù sono in grado di rispettare quel concetto di pena caro a Mill che defi-nisce la razionalità e l’utilità della stessa, principio secondo cui «the suffering or evil, produced by the punishment, is less, upon the whole, than that which would arise from the violation of the right»158.

Il giudizio complessivo nei confronti delle istituzioni musulmane resta comunque generalmente positivo: Mill considera, infatti, il di-spotismo musulmano come una forma di governo che ben si accorda con l’indole remissiva che caratterizza il popolo indiano e che si è di-mostrato a suo modo “illuminato” ― perché animato dalla virtù di ot-

157 J. BENTHAM (1790), Draught of a New Plan for the Organization of the Ju-

dicial Establishment of France, in Id., The Works of Jeremy Bentham, cit., vol. IV, p. 285.

158 J. MILL (1858), History, vol. I, book II, ch. IV, p. 175.

L’India e il dispotismo 105

timi sovrani ― in grado cioè di assicurare l’ordine sociale e politico e una “saggia amministrazione” della cosa pubblica159. D’altra parte, lo Stato musulmano non è riuscito ad eliminare le cause che deter-minarono (e che determinano) l’arretratezza della società indiana, in quanto esso non ha agito mai in conformità ai dettami della Ragione né rispettando il principio dell’utile160. Per rimuovere tali fattori, l’unica soluzione plausibile ed auspicabile, afferma Mill, è un inter-vento più deciso del governo coloniale, che, nel quadro delineato dallo stesso, viene ad assumere piena legittimità. Si tratta di un intervento orientato a riattivare il cammino della società indiana verso il pro-gresso attraverso l’applicazione di quei principi che, a prescindere dal-la diversità culturale, «could be universally applicable»161. È il con-cetto di “Legislatore universale” benthamita, come ha sottolineato Ja-ved Majeed, che fonda l’idea milliana di intervento civilizzatore162, ossia l’idea del dovere morale e politico della potenza coloniale di in-segnare ai “nativi” il principio dell’agire razionale in base “alle con-seguenze”, ossia di imporre loro ciò che Ernest Gellner ha definito una «world–levelling, unificatory epistemology»163.

159 Ivi, vol. II, book III, ch. V, pp. 348–54. 160 Mill considera il dispotismo in Asia, una sorta di destino impossibile da tra-

sformare, una forma di governo che si ripete ciclicamente senza che gli uomini pos-sano intervenirvi. Per quanto i sovrani possano essere illuminati, il dispotismo, nella sua crudeltà e irrazionalità, resta. Cfr. G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., p. 148.

161 J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 136. 162 Nel contesto indiano la necessità di razionalizzare, uniformare e comprendere

il corpo delle leggi in un unico codice scritto fatta emergere da Bentham sia nella sua Introduction to the Principles (1789), cit., vol. I, pp. 1–155 e ID. (1793), On the Influence, ivi, vol. I, pp. 169–94 viene portata da Mill alle sue estreme conseguenze: se Bentham aveva usato molta cautela nei confronti delle differenze esistenti tra i diversi popoli e le diverse nazioni in materia di “influencing circumstances”, deter-minate dal contesto sociale, geografico, climatico, religioso e culturale, Mill sembra ridurre sensibilmente tale relativismo insitendo sulla necessità di accellerare il pro-cesso di uniformizzazione e codificazione delle leggi vigenti in India. La versione milliana del relativismo utilitarista in riferimento all’India verrà analizzata nello specifico nel secondo capitolo di questo volume.

163 E. GELLNER, Relativism and the Social Sciences, Cambridge U.P., Cam-bridge 1985, p. 76.

Capitolo I 106

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 107

2 L’applicazione delle dottrine utilitariste in India

In questo capitolo è analizzerò il ruolo dell’intervento teorico–

politico dell’Utilitarismo milliano in riferimento ai dibattiti che negli anni Venti e Trenta si svilupparono sulle riforme politico–istitu-zionali in India, riforme che furono alla base della metamorfosi co-stituzionale della Compagnia delle Indie Orientali. Nello specifico analizzerò il contributo teorico milliano alle riforme in materia giu-diziaria, fiscale e di polizia, e alla nuova concezione del ruolo delle missioni e dell’educazione della popolazione indiana, nel tentativo di cogliere ad ampio raggio non solo gli elementi fondamentali della cultura politica da cui le proposte milliane derivano, ma soprattutto il rapporto esistente tra l’intervento politico specifico e le più generali dottrine utilitariste. Il primo passo di tale progetto è l’analisi del ruo-lo giocato dall’Utilitarismo e dall’Evangelismo nella costruzione dell’immaginario politico alla base dei dibattiti sull’attività missio-naria e sull’educazione, dibattiti che, seppur sviluppatisi in periodi diversi ― il primo intorno agli anni Dieci, il secondo a partire dagli anni Trenta del XIX secolo ― furono intimamente legati se non altro nel contesto di un crescente interesse politico e intellettuale nei con-fronti dei possibili effetti in termini di governo della colonia derivan-ti da un’evangelizzazione diffusa e dalla creazione di un ceto medio indiano, educato secondo il modello britannico. In secondo luogo mi occuperò delle riforme politico–istituzionali proposte da Mill ed e-nunciate nella sua History of British India, analizzandole partendo dalle critiche milliane ai sistemi precedentemente applicati in India, il Double Government di Clive e Hastings, ma soprattutto il sistema delle Regulations e il Permanent Settlement di Cornwallis.

Capitolo II 108

2.1. L’Utilitarismo, il movimento evangelico e il dibattito sull’edu-cazione

La filosofia utilitarista giocò un ruolo fondamentale nel contesto

della realizzazione dei vasti programmi di riforma che interessarono il governo coloniale in India durante la prima metà del XIX secolo, un ruolo da tutti riconosciuto, come attestò il figlio di James Mill, John Stuart, definendo Bentham e il padre «the teachers of the teachers» dei riformatori coloniali1. Essa si inserì nel contesto di una trasforma-zione profonda del ruolo della madrepatria nella colonia, trasforma-zione le cui tappe fondamentali erano state segnate dalla concessione agli inglesi, a seguito della vittoria di Buxar delle truppe britanniche guidate da Robert Clive, del potere di raccogliere le tasse nel Bengala2 (Diwani) da parte dell’imperatore moghul nel 1765, dal varo del Re-gulating Act e dalla nomina a Governatore generale di Warren Ha-stings tra il 1772 e il 1773, dall’approvazione nel 1784 dell’India Act di William Pitt, dall’adozione del Permanent Settlement nel 1793 e delle riforme istituzionali del Governatore generale Cornwallis, dal-l’applicazione del sistema alternativo ideato da Thomas Munro nel Madras e nelle Ceded and Conquered Provinces tra il 1818 e il 1819 e dalla fine in quello stesso anno del potere maratto. Queste coincisero con il graduale passaggio della Compagnia da rappresentante di inte-ressi commerciali privati a vera e propria istituzione di governo coloniale, dal coinvolgimento sempre più intenso di Londra negli affari istituziona-

1 J.S. MILL, Early Essay, J.W.M. Gibbs (ed.), London 1897, p. 328. 2 È dal Bengala che prende avvio la conquista territoriale nel Sud–Ovest asiatico.

Questo sostanzialmente per tre ragioni, ossia perché si tratta di una regione nel com-plesso molto ricca, nella quale si è fortemente indebolita l’autorità detentrice del potere – l’impero moghul – lasciando dietro di sé un vuoto di potere e in cui è pre-sente una ricca e potente classe di mercanti e banchieri indù, con interessi economici strettamente legati a quelli dei mercanti stranieri e tradizionalmente ostili all’elemento musulmano che deteneva il potere. Cfr. G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., pp. 3 e segg. Vasto è il dibattito sui perché la Compagnia non avesse continuato a restare marginale rispetto alle questioni concernenti il go-verno della regione, come fu per la Compagnia Olandese delle Indie Orientali. Ra-gioni legate allo sviluppo capitalistico della Gran Bretagna vengono addotte da E. STOKES, The Peasant and the Raj. Studies in Agrarian Society and Peasant Rebel-lion in Colonial India, Cambridge U.P., Cambridge 1978, cit., pp. 27 e segg.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 109

li dell’India britannica e dal parallelo svilupparsi di un’intenso dibatti-to teorico–politico incentrato sulle questioni legate al ruolo della ma-drepatria nella colonia e agli specifici problemi di governo. È in que-sto periodo, a cavallo dei due secoli e durante i primi tre decenni del XIX secolo, che, infatti, presero vita movimenti d’opinione e rifles-sione politica ― tra i quali centrale fu il movimento evangelico ― che focalizzavano le loro analisi sulle questioni coloniali, proponendo, per l’India nello specifico, una serie di interventi politico–istituzionali. Queste correnti di pensiero erano caratterizzate da uno stesso approc-cio critico, definito da Hutchins come “paradossale”, che consisteva, da un lato, nella condanna dell’espansione politico–militare britannica in India ― condanna animata dallo stesso disagio espresso da Burke nei confronti delle modalità in cui era avvenuta la conquista e nei con-fronti dell’atteggiamento dimostrato fino a quel momento dall’am-ministrazione coloniale ― e dall’altro nella precisa volontà di mante-nere, rafforzare e riformare il dominio coloniale3.

In realtà non vi è nulla di “paradossale”. L’elemento di distanza, dal punto di vista teorico–politico, tra utilitaristi ed evangelici da un lato e i teorici della «dual source of the political authority of the Company» dall’altro, era il rifiuto da parte dei primi della precedente comnistione tra una gestione personalistica e disorganica (ma soprat-tutto sottratta al controllo da parte della metropoli) di ciò che doveva essere avviata a divenire la più importante delle periferie dell’impero, e il mantenimento delle forme più retrive dell’istituzione politica pre–coloniale4. Tale critica equivaleva alla precisa volontà di abbandono dell’Indirect Rule ― ossia all’inversione della tendenza fino a quel momento dimostrata dalla Compagnia delle Indie Orientali a non as-

3 F.G. HUTCHINS, The Illusion of Permanence, cit., p. 3. 4 «The double, or ambiguous administration; in name, and in ostent by the Na-

bob, in reality by the Company; which had been recommended as ingenious policy by Clive, and admired as such by his employers and successors; had contributed greatly to enhance the difficulties in which, by the assumption of the government, the English were involved. All the vices of the ancient polity were saved from re-form: and all the evils of a divided authority were superinduced». J. MILL (1858), History, cit., vol. III, book V, ch. I, p. 363. Si veda anche J. MILL, Minute of Evi-dence (16 February 1832), in R.S.C.H.C.A.E.I.C. 1830–2, Cox & Son, London Jan. 1833, vol. II, p. 11.

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sumersi i pieni “diritti sovrani” ― al fine di un più sostanziale radi-camento delle politiche coloniali nel tessuto sociale, politico, eco-nomico, giuridico e religioso della società indiana5. Si trattava quindi di sostituire una determinata concezione della “presenza” della Com-pagnia sul territorio indiano con un vero e proprio “progetto colo-niale”, non di mettere in dubbio la necessità di un suo consolidamento.

Furono i massimi esponenti dell’Evangelismo e dell’Utilitarismo, James Mill e Charles Grant, a sistematizzare le critiche a tale conce-zione in un discorso programmatico e assolutamente innovativo, fon-dato sull’idea che il compito che il governo coloniale doveva neces-sariamente assumersi era quello di “giovare” al popolo indiano, sia per ciò che concerne il benessere materiale, sia per ciò che riguarda l’avanzamento nella scala delle civiltà e nell’acquisizione delle libertà moderne. Nel caso del movimento evangelico ― capitanato dalla Cla-pham Sect i cui fondatori Charles Grant e John Shore erano anche alti funzionari della Compagnia delle Indie Orientali6 ― l’idea liberale del dovere “civile” di emancipare le società “arretrate” veniva conciliata con l’idea puritana del dovere “morale” di esportare i valori cristiani: obiettivo dell’impero era, infatti, «not merely of displaying a gover-nment unequalled in India for administrative justice, kindness, and moderation, not merely of encreasing the security of the subjects and prosperity of the country, but of advancing social happiness, of melio-rating the moral state of men, and of extending a superior light»7.

5 Al contrario di Hutchins, Sudipta Sen e Jürgen Osterhammel puntano l’accento

sulla continuità tra l’età compresa tra la battaglia di Plassey e le riforme degli anni Venti e Trenta e l’età successiva: le politiche coloniali risulterebbero così (Sen), una sorta di work–in–progress e la prima fase di una sorta di “practical implementation” di quella che sarà “l’età degli imperi” (Osterhammel). S. SEN, Distant Sovereignty, cit., pp. XV–XVI; J. OSTERHAMMEL, Europe in the “West” and the Civilizing Mission, cit., p. 13.

6 La Clapham Sect, di cui faceva parte anche W. Wilbeforce, era una congre-gazione evangelica formata da influenti e facoltose famiglie londinesi che facevano riferimento alla Clapham Church situata nella zona sud–occidentale della capitale inglese. Charles Grant era Proprietor e Director della East India Company, mentre J. Shore, ossia Lord Teignmouth, fu al servizio della Compagnia per ben trent’anni, dal 1768 al 1798 sia come mebro del Council che come Governatore Generale.

7 C. GRANT, Observations, cit., p. 123.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 111

Con l’Utilitarismo il movimento evangelico condivideva, come ha sottolineato Eric Stokes8, non solo il recupero dell’idea che l’India fosse dominata da un perenne dispotismo politico e religioso e il radi-cale rifiuto del “discorso” orientalista, ma anche una serie di valori legati all’individualismo liberale, i quali venivano da entrambi reinter-petati e inseriti nella cornice di una visione progressiva della storia in cui l’India rappresentava lo stadio più basso della scala delle civiltà. Il fine ultimo della “missione civilizzatrice” così come veniva formulata dal movimento evangelico e dall’Utilitarismo, diveniva per entrambi quello di rendere l’uomo libero in ogni società, agente autonomo e padrone della propria vita, capace di deliberare e scegliere con consa-pevolezza. Evangelismo e Utilitarismo condividevano l’idea secondo cui l’uomo è una creatura che agisce “consapevolmente” e “responsa-bilmente” sulla base del principio del piacere e del dolore e l’insucces-so nell’ottenere la felicità è il risultato dell’ignoranza e del cattivo cal-colo individuali, ossia dell’incapacità di sacrificare il piacere contin-gente e immediato per il godimento di una felicità universale la cui realizzazione è rimandata nel futuro. La dottrina del “sacrificio”, sep-pur concepita a partire da presupposti teorici differenti, rappresenta in tal senso, come ha sottolineato Hutchins in linea con Halévy, il punto di contatto più significativo tra l’etica religiosa evangelica e l’etica edonistica utilitarista9. Questa visione della natura umana, ha sottoli-neato Hutchins, deriva loro dalla stessa cultura politica, che è quella che prende vita in madrepatria negli ambienti della borghesia mercan-tile e manifatturiera.

Both doctrines had within them the seeds of egalitarian individualism, and were dedicated to insuring greater scope for the energies of the industrious individu-als. Both sects, moreover, considered that the principle of probity and hard work which they espoused were of universal applicability. Both were essen-tially secular; Utilitarianism was avowedly so, Evangelicalism was a most un-dogmatic and untheoretical religious movement which made work in this world the touchstone of religion [...]. Utilitarians and Evangelicals sought the same

8 E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., pp. 55 e segg. 9 Cfr. F.G. HUTCHINS, The Illusion of Permanence, cit., p. 7 e E. HALÉVY,

England in 1815, London 1949, pp. 586–87.

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goal by different routes: Utilitarians hoped to improve morals reforming soci-ety; Evangelicals hoped to improve society by reforming morals10. Per entrambi la legge inglese è il “severo maestro di scuola” che in-

segnerà agli indiani la via per la felicità: ma, mentre la legge ultima a cui fanno riferimento gli evangelici è quella divina, quella mosaica, la quale innanzi tutto punisce l’ignoranza e “scioglie dal peccato” ― non bastano infatti le leggi positive, poiché esse «non sono in grado di rendere l’uomo buono, ma solo di impedirgli che commetta crimini»11 –, le leggi a cui fanno riferimento gli utilitaristi sono proprio le leggi istituite dall’uomo, le quali hanno il compito di assistere l’umanità affinché essa non commetta crimini e perché orienti la sua condotta alla “massima felicità per il maggior numero”12.

Gli evangelici, a differenza degli utilitaristi, si limitavano a svol-gere la loro opera, ha sottolineato Stokes, nella forma di un monito indirizzato alla coscienza individuale affinché essa si conformasse ai comandi della religione13. Essi, infatti, non credevano che l’uomo fos-se capace autonomamente, solo attraverso le leggi che si era dato, di trasformare e conformare la propria natura alla Ragione, mentre gli utilitaristi erano convinti che opinione pubblica, educazione e legisla-zione rappresentassero gli elementi determinanti la condotta umana in quanto in grado di influenzare sia l’azione individuale sia il com-portamento e le scelte collettive, determinando l’organizzazione so-ciale, i costumi, la forma di governo vigente nelle società.

10 F.G. HUTCHINS, The Illusion of Permanence, cit., p. 11. 11 C. GRANT (1792), Observations, cit., pp. 88–9. Traduzione mia. 12 La posizione di Mill riguardo alla centralità dell’ordinamento giuridico come

strumento di emancipazione e progresso diviene particolarmente chiara in riferi-mento alla colonia indiana alla luce delle importanti letture critiche del pensiero uti-litarista suggerite da Halévy, Fagiani e Santoro per ciò che riguarda la concezione del principio dell’utile in termini “prescrittivi”, l’idea di “identificazione artificiale” o “politica” degli interessi individuali attraverso lo Stato e la legge, e la concezione utilitarista della “razionalità” dell’individuo intesa come adesione al medesimo prin-cipio dell’utile. E. HALÉVY (1955), The Growth of Philosophic Radicalism, cit., pp. 13 e segg.; F. FAGIANI, L’Utilitarismo classico. Bentham, Mill, Sidgwick, Li-guori, Napoli 1999, p. 19; E. SANTORO, Autonomia individuale, libertà e diritti, Una critica all’antropologia liberale, ETS, Pisa 1999, p. 246

13 E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., pp. 55 e segg.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 113

Nonostante tali sostanziali divergenze, fu proprio l’intrecciarsi dei due discorsi, quello evangelico e quello utilitarista, a creare la trama fondamentale dell’ideologia imperiale della prima metà del XIX seco-lo. Furono la concezione che rimandava al futuro il godimento della felicità, terrena e spirituale, morale e politica, associata all’idea illu-minista della universale “perfettibilità umana”, l’idea di Cristianesimo inteso come true faith e, contemporaneamente, come veicolo dei valo-ri politico–sociali14 ― e, infine, una concezione dell’educazione come strumento per diffondere tali valori e principi ad essere gli elementi portanti dell’argomentazione alla base del concetto di missione storica e morale della colonizzazione, così come venne formulato nei primi decenni del secolo, e della giustificazione, con le parole di Hutchins, della «permanent subjection of India to British rule»15.

Il dominio che venne strutturato sulla base di tali principi fin dai primi decenni del XIX secolo dimostra l’invasività della nuova con-cezione di British Empire all’alba del cosiddetto Secondo impero: il dominio non era più, evidentemente, concepito nei termini della mera creazione di avamposti o zone di influenza commerciale, ma coinvol-geva le persone, gli abitanti dei territori conquistati, attraverso l’inter-pretazione e l’assoggettamento delle forme di vita pre–coloniali ― dell’economia, della struttura sociale, dell’ordinamento giuridico, del-le istituzioni politiche e religiose attraverso cui i “nativi” erano orga-nizzati. Siamo dunque molto lontani da quell’idea di impero “libero, marittimo e commerciale” che aveva dominato la pubblicistica del Pri-mo impero e che aveva interpretato l’essenza stessa, tendenzialmente incoerente e disomogenea, dell’espansione a Ovest. Se durante la co-siddetta prima fase dell’impero britannico la natura “marittima/com-merciale” e “libera” ― dunque limitatamente “territoriale” e risultato della libera iniziativa di singoli avventurieri e imprenditori ― dell’espansione britannica era stata contrapposta alla “violenza con-quistatrice” di Spagna e Francia16, ciò che caratterizzò la nuova fase

14 C. GRANT, Observations, cit., p. 116. 15 F.G. HUTCHINS, The Illusion of Permanence, cit., p. 19. 16 Sulle affinità dal punto di vista del risultato della conquista territoriale e

dell’assoggettamento o, viceversa, del déplacement delle popolazioni native, nono-stante le divergenze esistenti nei due discorsi coloniali di Spagna e Inghilterra, si veda D.E. STANNARD, Olocausto americano, Bollati Boringhieri, Torino 2001,

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dell’impero fu la piena consapevolezza dell’uso necessario della vio-lenza politica al fine della costruzione del governo coloniale. Grant e Mill, e la loro condanna delle imprese della Compagnia delle Indie Orientali in India fino all’alba del XIX secolo, rappresentano piena-mente l’assunzione di tale coscienza: essi vedevano l’amministrazione coloniale di Hastings e Clive, come la degenerazione di un discorso coloniale che aveva fatto il suo tempo e che non rappresentava più, se mai aveva rappresentato, le esigenze imperiali e le finalità di progres-so universale che ora la colonizzazione britannica si prefiggeva. I go-vernatori della prima fase dell’espansione avevano, infatti, utilizzato la forza armata per “conquistare” i nuovi mercati indiani, ed aprire le vie del commercio alla stessa Compagnia delle Indie Orientali, gli af-fari della quale erano protetti dalle antiche leggi monopolistiche, senza prefiggersi alcuna finalità di governo: la “violenza” era stata dunque di natura “privata” e, nell’ottica di Mill, senza alcuna finalità etico–politica17.

Una “violenza” pubblica, quella assunta dal nuovo immaginario co-loniale, che era al contempo militare/repressiva ed epistemica/di-scorsiva: nei cinquant’anni che precedono il Sepoy Mutiny del 1857 la colonizzazione britannica in India tentò di armonizzare sviluppo ca-pitalistico, Stato moderno e tradizioni indiane attraverso un’azione po-litica esterna che trovasse nelle elites locali il proprio tramite. L’esi-guità e l’estraneità alla cultura popolare indiana del middle rank nativo ― a cui lo stesso Mill volge lo sguardo ― rese più difficile il radica-mento della cultura politica britannica e la creazione del consenso all’impero. La decodifica della “cultura nativa” avvenne perciò senza un aiuto consistente “dall’interno”, impedendone la piena appropria-zione e l’addomesticamento da parte del governo coloniale: contro tale “ermeticità”18 della civiltà indiana e contro le resistenze religiose e culturali dei cosiddetti “subalterni” che presero corpo sottoforma di pp. 353 e segg.

17 In tal senso si può parlare, con Hutchins, di paradossale “rimozione” da parte di Mill della violenza “necessaria”, per quanto deprecabile, alla creazione della co-lonia indiana: è solo la coazione, militare e politica, a cui viene sottoposta l’India al fine della creazione del “giusto governo” ad essere, per il filosofo utilitarista, pie-namente legittima.

18 H. BHABHA, Manifestare l’arcaico, cit., pp. 186–194.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 115

insurrezioni, sabotaggi e insubordinazioni, il “dominio senza egemo-nia” che caratterizzò questa fase dell’impero legittimò l’uso della vio-lenza pubblica nella lotta a ciò che era irriducibilmente un–familiar, incomprensibile, “arcaico” e dunque irrazionale19.

Gli Evangelici erano intervenuti nel dibattito apertosi sull’educa-

zione e sul ruolo delle missioni tra la Compagnia delle Indie Orientali, il parlamento britannico e Lord R.C. Wellesley, Governatore generale, fin dai primissimi anni del XIX secolo. Tale dibattito si riferiva nello specifico alle attività educative e di diffusione della cultura e delle lin-gue indiane per mezzo del College di Fort–William e delle altre strut-ture in cui esse venivano insegnate ai pandits (studiosi indiani e bra-mini) e riassumeva le differenti linee del governo coloniale facendo emergere il conflitto tra, da una parte, una Compagnia e un par-lamento tendenzialmente indifferenti all’interesse dimostrato dagli intellettuali orientalisti nei confronti della comprensione della cultura

19 Cfr. R. GUHA, Dominance without Hegemony, cit., pp. 19–20 e ID., La prosa

della contro–insurrezione, in R. Guha, G.C. Spivak, Subaltern Studies, cit., pp. 43–102; U.S.MEHTA, Liberalism and Empire, cit., p. 5. Esemplare di tale legit-timazione è il giudizio positivo espresso da James Mill nella stessa History nei con-fronti della repressione da parte dell’esercito della Compagnia delle Indie Orientali delle numerose insurrezioni popolari succedutesi nel corso del tempo, dalla conces-sione del Diwani al primo decennio del XIX secolo. In linea con l’atteggiamento pa-terno fu il plauso di J.S. Mill nei confronti della sanguinaria repressione dell’ammu-tinamento dei Sepoy testimoniato dalle parole spese a proposito in J.S. MILL, A Few Words on Non–Intervention, in Id., Collected Works, M. Robson (ed.), Toronto U.P., Toronto 1963–91, vol. XXI, pp. 118–20. Un plauso che stonava, d’altra parte, con la posizione emancipazionista assunta dallo stesso J.S. Mill nel 1850 nello scritto The Negro Question, pubblicato sul Frazer’s Magazine in risposta all’articolo aper-tamente razzista di Carlyle, Occasional discourse on Negro Question, apparso sulla medesima rivista nel 1849 e la condanna di Mill alla repressione della rivolta dei neri in Jamaica nel 1865. Cfr. J.S. MILL, The Negro Question, in http://cepa.newschool.edu/het/texts/carlyle/millnegro.htm. Sulle contraddizioni insi-te nelle riflessioni di J.S. Mill sulle questioni coloniali il dibattito è particolarmente acceso. Cfr. B. MAZLISH, James and John Stuart Mill, cit., p. 145; M. MOIR, In-troduction, in Id., Writings on India, J.M. Robson, M. Moir, L. Zastoupil (eds.), To-ronto U.P., Toronto 1990, p. VIII; L. ZASTOUPIL, John Stuart Mill and India, Stanford U.P., Stanford 1994, pp. 5, 40, 170; S. GIKANDI, Maps of Englishness, cit., p. 67.

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indiana e, dall’altra, gli orientalisti, capeggiati da Wellesley, per i qua-li «the College must stand or the Empire must fall»20.

Tale dibattito verteva soprattutto sulla questione della presenza del-le missioni sul territorio indiano e vedeva contrapposti coloro che con-sideravano tale presenza troppo invasiva e irrispettosa delle tradizioni religiose e culturali indiane ― tale da turbare la relazione tra governo britannico e potere “nativo”― e coloro che sostenevano, al contrario, una maggior diffusione dell’attività evangelica21. Esso divenne parti-colarmente acceso in concomitanza della rivolta di Vallore del 1807, messa in atto dai soldati indù contro i propri generali britannici e in difesa del sultano Tipu22.

Grant, che aveva già palesato la propria posizione a favore del pro-getto di evangelizzazione e di anglicizzazione della popolazione in-diana con la pubblicazione nel 1793 delle sue Observations, si era de-dicato a perorare tale causa presso le più alte cariche dello Stato fin dal suo rientro in patria nel 179423.

20 LORD WELLESLEY, Corrispondence to D. Scott (12 August 1802), in Id.,

Memoirs and Correspondence of Lord Wellesley, R.R. Pearce (ed.), R. Bentley, London 1846.

21 Parallelamente al dibattito sull’educazione prese vita quello sull’abolizione del rito del sāti, abolizione che vene sancita nel 1829, dibattito particolarmente acceso che vide coinvolte tutte le massime personalità del mondo intellettuale e politico bri-tannico e nativo e che ripropose la contrapposizione tra sostenitori di un’intervento “blando” sulla società e sui costumi nativi e i sostenitori delle rifome e dell’evan-gelizzazione. Si veda L. MANI, The Production of an Official Discourse on Sāti in Early Nineteenth–century Bengal, in F. Barker (ed.), Europe and Its Others, cit., vol. I, pp. 107–27 e ID., Contentious traditions. The debate on Sāti in colonial India, California U.P., Berkeley & London 1998.

22 La rivolta, che traeva origine essenzialmente dal rifiuto dei soldati di confor-marsi alle direttive sull’abbigliamento militare impartite dalle gerarchie inglesi, ave-va trovato nel sultano un simbolo della resistenza in quanto egli si era opposto all’evangelizzazione della famiglia reale e della corte.

23 C. GRANT (1792), Observations, cit., p. 96. «With Clapham neighbors», ha affermato Kopf «Wilbeforce, Shore, Zachary Macaulay, H. Thornton and John Venn, Grant effectively enunciated for the first time the evangelical mission of Brit-ain, modeled on Rome’s example of civilizing the world. The challenge to the Hast-ings–Wellesley policy of reprochement with indigenous culture had begun in ear-nest». D. KOPF, British Orientalism, cit., pp. 133–4.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 117

Nel 1807 Grant si trovò, allora, a volgere i suoi sforzi in due direzioni, a sostenere la causa dell’evangelizzazione dei colonizzati e della diffu-sione delle missioni, e a smentire contemporaneamente di fronte al par-lamento, chiamato a discutere sulla questione due volte in quello stesso anno, le responsabilità dell’attività missionaria nella vicenda di Vallore24. L’atteggiamento dominante in parlamento e nella Compagnia, contrari a un’azione missionaria diffusa25, è testimoniato dalla lettera del 26 agosto 1808 che G. Holford, segretario del Board of Commissioners inviò al se-gretario della Court of Directors. All’inizio della sua missiva Holford af-fermava che «nothing could be more unwise and impolitic, nothing even more likely to frustrate the hopes and endeavours of those who aim at the very object, the introduction of Christianity among the native inhabitants, than any imprudent or injudicious attempt to introduce it by mean which should irritate and alarm their religious prejudices»26.

Grant fu supportato in questo dibattito da Shore27, presidente della Foreign Bible Society e responsabile della Clapham Sect dal 1802 e da William Wilbeforce, membro del parlamento britannico. Le loro posizioni non furono immediatamente vincenti, se non a partire dal

24 Si veda Letter from the Court of Directors of the East India Company to the

Governor and Council of Fort St. George (29 May, 1807), in Papers Relating Indian Affaires, pp. 1–10 e in particolare pp. 2–3 per quanto rigurda la critica dei Direttori alla direttiva sul turbante imposta ai soldati Sepoy dal Comandante in capo Dowall, e pp. 4–5 per quanto riguarda la critica alle alte cariche dell’esercito per non aver compreso che tale direttiva avrebbe aumentato i sospetti tra i soldati nativi di un tentativo di cristianizzazione da parte del governo coloniale.

25 J. SHORE, Considerations on the Praticability, Policy, and Obligation of Communicating to the Natives the Knowledge of Christianity, London 1808, pp. 47–61. Per ciò che riguarda genesi e caratteristiche dell’attività missionaria in India cfr. R.E. FRYKENBERG, Christian Mission and the Raj, in N. Etherington (ed.), Mis-sions and Empire, Oxford U.P., Oxford 2005, pp. 109–131.

26 G. HOLFORD, Letter on the subject of the Proceeding in Bengal respecting the missionaries (26 August 1807), in Papers Relating Indian Affaires, 1813, pp. 88–90. Anche il Maggiore Scott Waring, nel suo pamphlet Observations on the Pre-sent State of the East–India Company del 1808 (ivi), si era posto in questi termini. Ad esso rispose prontamente Shore nelle sue Considerations.

27 J. SHORE, Considerations, cit., pp. 1–13 e ID., Minute of Evidence, in R.S.C.H.C.A.E.I.C. (30 March–14 April 1813), Cox and Son, London 1813, pp. 20 e segg.

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Charter Act del 181328 grazie anche allo schierarsi in loro favore di James Mill e dei seguaci delle dottrine radicali e utilitariste. Fino a quella data e poco oltre (1814), per il fatto che la Court of Directors aveva assunto un atteggiamento “orientalista”, e per il fatto che Ha-stings, Wellesley e Lord Minto si erano apertamene battuti al loro fianco, le attività dei maggiori centri di ricerca e di studi orientalisti poterono proseguire senza particolari intromissioni o limiti. Anche do-po la vittoria della linea proposta dagli evangelici la corrente orientali-sta non si estinse, pur divenendo maggiormente marginale, essendone stata raccolta l’eredità da personalità del calibro di Horace Hyman Wilson e Rammouhun Roy29.

Per Charles Grant, il pluralismo dimostrato da missionari e orienta-listi come William Carey (1761–1834) era ingiustificato sia dal punto di vista politico sia religioso, in quanto nulla vi era di lodevole o de-gno di nota nella religione e nella civiltà indù e musulmana in quanto esse erano essenzialmente barbare e «in a very degraded humiliating state»30. Per Grant, ha sottolineato Ainslie Thomas Embree, «it was both dangerous and a violation of Christian spirit even to tolerate such a culture»31.

28 Con il Charter Act del 1813 il parlamento britannico sancì una parziale libertà di accesso e di predicazione ai missionari sul territorio indiano, offrendo loro anche alcune forme di finanziamento statale. Esso sancì poi il restringimento del mono-polio della Compagnia delle Indie Orientali sul commercio con l’India che rimase tale solo per il traffico di té cinese.

29 Cfr. D. KOPF, British Orientalism, cit., pp. 167–77. Ancora alla fine del XIX secolo buona parte della storiografia imperiale era fortemente influenzata dalle ri-cerche letterarie e scientifiche orientaliste. Un esempio eccellente è rappresentato da W.W. HUNTER (1886), Indian Empire. Its History, Peoples, and Products, Allen & Co., London 1893 e ID. (1882), A brief history of the Indian peoples, Clarendon Press, Oxford 190323.

30 C. GRANT (1792), Observations, cit., p. 25. 31 A.T. EMBREE, Charles Grant and the British Rule in India, Columbia U.P.,

New York 1962, p. 148. L’atteggiamento dimostrato nei confronti delle più impor-tanti questioni coloniali da parte degli evangelici e in massimo modo di Grant e Wilbeforce, anticipava in un certo senso le profonde ambivalenze che avrebbero caratterizzato l’era vittoriana: se esso, infatti, si scagliava, contro la schiavitù afroa-mericana e contro la violazione dei basilari diritti della persona in India, allo stesso tempo non accordava alcun riconoscimento alla cultura, alla religione e alla storia indiana e, in madrepatria, ha sottolineato Brown, si batteva per il restringimento del-

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 119

Nelle Observations Grant aveva cercato di argomentare la propria tesi sullo stato di degradazione della società indù utilizzando non solo fonti europee32, ma soprattutto testi classici pre–coloniali, tra cui la Bhāgavad Gīta tradotta da Wilkins, The Ayen Akbery tradotto da Gla-dwin e il Codice dei Menu tradotto da Jones, attraverso le quali egli aveva costruito un’immagine dell’India caratterizzata dalla super-stizione, dalla violenza, dall’irrazionalità e dall’abuso, un’immagine equiparabile, nell’immaginario biblico, esclusivamente a quella di So-doma e Gomorra.

Tutto ciò era il prodotto più di vizi morali che di fattori fisici e cli-matici e pervadeva ogni aspetto delle relazioni tra i “nativi”, che fos-sero relazioni tra datore di lavoro e lavoratore dentro e fuori dalle isti-tuzioni, relative alla famiglia, alle donne33, alla servitù domestica e al vicinato, caratterizzate dal dominio delle passioni, dalla corruzione, dalla menzogna, dalla depravazione e dall’egoismo. Si trattava di una società in cui «every man’s hand [is] against every man»34. Se il clima dolce che caratterizzava le province del Sud–Est asiatico aveva in-dotto gli indiani ad un atteggiamento placido e remissivo35, l’“indo-lenza” e l’“indulgenza” che li caratterizzavano erano il diretto ri-sultato, piuttosto, della specifica forma di governo, delle consuetudini e della religione, vigenti in India. L’elemento che accomunava tali i- le libertà e la sospensione dell’Habeas Corpus al fine di evitare qualsiasi possibile deriva rivoluzionaria. Cfr. F.K. BROWN, Fathers of the Victorians. The Age of Wil-beforce, Cambridge U.P., Cambridge 1961, p. 8.

32 C. GRANT (1792), Observations, in Papers Relating to Indian Affaires, 1813, pp. 32–8. Tra le fonti utilizzate da Grant e redatte da studiosi e funzionari della Compagnia delle Indie Orientali vi sono i rapporti e saggi di Bernier, Scrafton, Hol-well, Clive, Verelst, Hastings, Shore, del Governatore generale Macpherson e del Colonnello R. Barker.

33 Degne di nota sono le pagine delle Observations dedicate al rito del sāti e alla condizione femminile all’interno della famiglia, sezione che termina eloquentemente con la frase «the number of women thus annually destroyed in Hindostan, probably far exceed the general conception of Europeans». C. GRANT (1792), Observations, cit., pp. 56–7 e in particolare p. 57.

34 Ivi, pp. 26–7. 35 Ivi, p. 40. Grant spende parole molto dure sulla crudeltà e sull’inumanità delle

pratiche religiose e giudiziarie in vigore presso gli indiani. Le sue opinioni verranno fatte proprie da Shore che nelle sue Considerations (cit., pp. 78 e segg.) si esprimerà sugli stessi temi con il medesimo tono utilizzato da Grant.

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stituzioni era la loro natura dispotica, sia per ciò che concerneva le istituzioni indù, sia per le istituzioni musulmane36. Era il dispotismo ad aver distrutto l’autonomia e lo spirito individuale, estinguendo ogni fonte di virtù. Secondo Grant «l’uomo che è dipendente dal volere di un’altro […] pensa ed agisce da essere degradato». «Il timore diventa, necessariamente, il primo principio che determina le sue azioni»37. Per quanto il dispotismo in India fosse stato eliminato nei territori che era-no sotto il controllo inglese con la fine dell’impero moghul e il gover-natorato di Hastings, la tirannia della legge e della religione continua-va a perpetuarsi, grazie soprattutto al fatto che il potere politico e reli-gioso, per l’ignoranza di chi vi era soggetto, restava nelle mani dei bramini38: in India, infatti «despotism is not only the principle of the government [...], but an original, fundamental, and irreversible prin-ciple in the very frame of society. [...] The chain of servitude is indis-soluble and eternal»39. Questa situazione rendeva inefficace qualsiasi sforzo legislativo che intendesse trasformare radicalmente il carattere degli indiani.

Laws, which by tacit consent have fallen into general disuse, can no longer be quoted as characteristic of the actual state of manners. They serve rather to prove some change in the sentiments or disposition of a people; but the abro-gation or suspension, by the power of a foreign master, of certain parts of a code still approved, does not necessarily infer any such alteration40.

36 Grant non si dilunga nella descrizione dei caratteri essenzialmente negativi

delle istituzioni musulmane, che egli definisce senza possibilità d’appello, “as a vio-lent despotism”. «Perfidy in them are more signal than in the Hindoos. Successive treacheries, assassinations, and usurpations, mark their history more perhaps than that of any other people». Ivi, p. 39. Cfr. G. ABBATTISTA, James Mill e il proble-ma indiano, cit., pp. 69–70.

37 C. GRANT, Observations, cit., p. 40. Traduzione mia. Si noti la somiglianza esistenti tra tali argomentazioni e quelle avanzate da Mill nella sua History due de-cenni dopo.

38 Ivi, pp. 45 e segg. Grant descrive le prerogative, le caratteristiche del potere, i doveri della casta braminica, e le leggi e le punizioni per chi ha commesso crimini nei confronti di bramini utilizzando come fonte lo stesso Codice di Menu tradotto da W. Jones di cui si servirà J. Mill per il libri I e II della History.

39 Ivi, p. 44. 40 Ivi, p. 43.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 121

Ciò non significava che non si dovessero cambiare o istituire nuove leggi, ma piuttosto che esse non sarebbero mai penetrate nel vivo della mentalità e delle pratiche sociali indiane: a testimonianza di tale resi-stenza stava il fatto che l’attività evangelica, per quanto vivace, non fosse riuscita fino a quel momento a far presa sulla coscienza degli indiani, limitandosi a coinvolgere pochi esponenti della società e a e-sercitare pressione in poche zone del territorio della provincia. Secon-do Grant il rimedio doveva essere un equivalente indiano della Rifor-ma luterana41, in grado di liberare la coscienza individuale dalla tiran-nia della superstizione e dell’autorità dispotica. Solo attraverso la dif-fusione delle Sacre Scritture e delle missioni sul territorio indiano si sarebbero scongiurati, affermavano Grant e Shore, «most fatal pro-gnostics with respect to the permanency of the British Dominion in India»42 in quanto il Cristianesimo avrebbe da una parte diffuso il libe-ro arbitrio, e dall’altra scongiurato qualsiasi deriva giacobina conse-guente alla perdita delle rigide limitazioni imposte dall’antico sistema sociale e politico indù, diffondendo i valori dell’obbedienza e della lealtà. Il Cristianesimo sarebbe dovuto penetrare in tale sistema, ser-vendosi delle sue strutture e gerarchie senza eliminare l’istituto casta-le, o demolire gli idoli religiosi venerati dalla popolazione:

Force, instead of convincing them of their error, would fortify them in the per-suasion of being right; and the use of it, even if it promised happier conse-quences, would still be altogether unjust. To the use or reason and argument, however, in exposing their errors, there can be no objection. There is indeed the strongest obligation to make those errors manifest, since they generate and tend to perpetuate all the miseries which have been set forth, and which our duty, as rulers, instead of permitting us to view with silent indifference, calls upon us by every proper method to prevent. The true cure of darkness, is the introduction of light. The Hindoos err, because they are ignorant43. I benefici della cristianità sarebbero stati non solo religiosi, ma an-

che materiali: così come la liberazione dell’individuo raggiunta attra-verso la Riforma aveva spinto gli uomini europei alla ricerca della rea-lizzazione spirituale e materiale, allo stesso modo essa avrebbe spinto

41 Ivi, p. 98 in nota. 42 J. SHORE, Considerations, cit., p. 101. 43 C. GRANT, Observations, cit., p. 76.

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la popolazione indiana alla ricerca di quei diritti fondamentali che ca-ratterizzavano le società civilizzate, ossia le libertà moderne e le ga-ranzie alla proprietà privata individuale. A beneficiare del processo di liberazione dal dispotismo e dalla superstizione degli individui, “oltre ai nativi” sarebbe stata anche la stessa società inglese44, soprattutto a livello economico, in quanto la diffusione della cultura inglese e del Cristianesimo, insieme al moltiplicarsi delle relazioni tra i due popoli attraverso il commercio, sarebbe stata il primo passo verso la realiz-zazione di ciò che Grant definiva una “comunità di interessi” tra India e Gran Bretagna.

Perché l’educazione, ossia l’insegnamento dei principi e dei valori alla base della società e dello Stato britannico, potesse dare i frutti sperati, essa doveva essere necessariamente impartita attraverso la lin-gua inglese ― «the first communication, and the instrument of intro-ducing the rest, must be the English language; this is a key which will open to them a world of new ideas, and policy alone might have im-pelled us, long since, to put it into their hands». Anche perché, af-ferma candidamente Grant, «to introduce the language of the con-querors, seems to be an obvious mean of assimilating the conquered people to them»45.

Nel 1813, l’anno del varo del Charter Act, la dottrina dell’assimila-zione formulata da Grant, si trasformò in una vera e propria campagna pubblica. Se, infatti, le posizioni del movimento evangelico dapprima furono molto vicine a quelle della Compagnia delle Indie Orientali46, esse, intorno agli anni Dieci del XIX secolo, si spostarono verso quel-

44 Ivi, p. 34, 76. 45 Ivi, p. 77. Nella pagina successiva Grant afferma che «i nativi saranno felici di

apprendere la lingua del padrone», quella lingua che permetterà loro di interagire con le istituzioni, oltre che di accedere a conoscenze e saperi superiori. L’inglese per questo deve diventare la lingua ufficiale dell’amministrazione coloniale – ed essere usata in qualsiasi contesto, quello giuridico e giurdiziario, quello fiscale, quello di polizia: per poter fare ciò Grant propone l’istituzione di scuole pubbliche gratuite che insegnino l’inglese e i rudimenti della conoscenza occidentale alla popolazione nativa.

46 Si vedano a proposito l’elogio di Grant alle politiche di Cornwallis in C. GRANT. (1792), Observations, cit., pp. 21 e segg., e il plauso al Permanent Settlement espresso da Shore in J.SHORE, Considerations, cit., pp. 25 e segg., e in ID., Minute (18 June 1789), in Fifth R.S.C.H.C.A.E.I.C. (28 July 1812), pp. 169–238.

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le dei mercanti i quali ― in conflitto con la Compagnia ― volevano sostituire al monopolio della stessa il regime del libero commercio.47 I mercanti sostennero il progetto assimilazionista caldeggiato dagli e-vangelici convinti dell’idea espressa da Grant che la diffusione della civiltà britannica in India avrebbe stimolato le attività produttive e commerciali tra popolazioni colonizzate e madrepatria. La Compagnia era, di fatto, un ostacolo a tale proposito in quanto non dimostrava al-cun interesse a commerciare i prodotti della madrepatria in India. Il sodalizio tra mercanti, evangelici e importanti personalità del mondo politico, tra cui Wilbeforce48, sarebbe stato alla base delle politiche coloniali liberali del XIX secolo, volte alla progressiva adozione di istituzioni, leggi e procedure giuridiche ricalcate sul modello di quelle inglesi, alla riduzione della complessità del sistema della proprietà pri-vata esistente in India (attraverso l’abolizione della proprietà collet-tiva), al superamento dell’atteggiamento protettivo fino a quel mo-mento dimostrato dal governo nei confronti delle comunità indigene e all’apertura del mercato indiano alla competizione49. Anche se nelle sue Observations Grant aveva affermato che «the best means of per-petuating our empire there» era «securing to the people their religion

47 Quanto il dibattito sui benefici e sui problemi derivanti dalla presenza delle

missioni e di un numero crescente di Europei fosse connesso all’apertura dei com-merci ai mercanti britannici è testimoniato dalle domande che, nell’anno del varo del Charter Act, il Select Committee rivolse ai massimi funzionari dell’amministrazione coloniale. Cfr. Minutes of Evidence (March–May 1813), in R.S.C.H.C.A.E.I.C., Cox and Son, London 1813.

48 W. WILBEFORCE, Substance of the Speeches of William Wilbeforce Esq., on the Clause in the East–India Bill of Promoting Religious Instruction and Moral Im-provement of the Natives of the British Dominions in India, on the 22th June and the First and 12th of July 1813, 1813, pp. 92–3 citato in E. STOKES, The English Utili-tarians and India, cit., p. 35, nota I.

49 Cfr. E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., pp. 30 e segg. Anche Mill, in linea con Bentham, si era espresso favorevolmente all’apertura del mercato indiano alla libera competizione dei mercanti britannici, libertà di commercio che avrebbe reso a suo avviso i prezzi dei prodotti importati più bassi e avrebbe creato un nuovo e vasto terreno per l’esportazione dei prodotti nazionali. J. MILL (1820), Elements of Political Economy, cit., vol. IV, p. 211. ID. (1798), Essays on Colonies, ivi, vol. V, pp. 20 e segg.; si veda anche ID., History, cit., vol. VII, book I, cap. VIII, pp. 404–5.

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and laws» evitando qualsiasi cambiamento radicale e coatto50, il pro-getto di riforma della società indiana avanzato dallo stesso e sostenuto dai mercanti si presentava fortemente invasivo. La permanenza nella società di un atteggiamento prono alla sottomissione al potere dispoti-co e, allo stesso tempo, privo del senso di loyalty nei confronti dei so-vrani51 testimoniato anche dalla turbolenta storia politica dell’India e del suo popolo nei due secoli che avevano preceduto il dominio bri-tannico, rendevano infatti necessario e legittimo agli occhi di Grant l’uso della forza per mantenere l’ordine e l’ubbidienza e la creazione di un’istituzione politica rigida e dirigista.52 Stato forte e governo della cosa pubblica sulla base di principi e tradizioni conservatrici avrebbe-ro permesso di evitare, infatti, che le trasformazioni profonde che le riforme proposte avrebbero apportato alla società indiana lasciassero spazio a derive rivoluzionarie senza però ingabbiare quella stessa so-cietà frenandone il lento procedere verso il progresso53.

50 Citando Robertson, egli affermava che era necessario far sì che gli indiani ac-quisissero quella forza di volontà, quella consapevolezza, quella lealtà e quelle capa-cità politiche che appartenevano alla nazione dominatrice, e che perché questo “av-vicinamento” tra le due realtà fosse possibile, si doveva porre in atto un processo di assimilazione totale, attraverso la “persuasione”. Ivi, pp. 104–10.

51 C. GRANT (1792), Observations, cit., p. 102. 52 Questo intreccio di “persuasione” e “intervento coercitivo” all’interno del pro-

gramma di Grant esemplifica perfettamente ciò che Ranajit Guha ha definito essere l’equilibrio nell’ambito della strategia di dominio coloniale, tra “Persuasione” e “Coazione”: nella relazione coloniale, sostiene Guha, la Coazione (C) prevale sulla Persuasione (P); prima, infatti, i corpi vengono piegati con la spada e il diritto di conquista, e solo successivamente vengono escogitate strategie miranti alla costru-zione di un impero organizzato e alla ricerca del consenso per consolidare l’ordine costituito. Lo Stato che ne risulta invade anche quegli spazi privati, individuali e so-ciali che da tempo in Europa sono “protetti”, come la libertà di coscienza, e man-tiene tale ingerenza attraverso la negazione delle garanzie dell’Habeas Corpus, l’uso del lavoro forzato – sia nelle piantagioni degli europei che in quelle di proprietà dei nativi e la leva militare obbligatoria. R. GUHA, Dominance without Hegemony, cit., pp. 20–7.

53 Hutchins, Majeed e Abbattista hanno messo in risalto l’elemento “antigiaco-bino” della dottrina evangelica di Grant. Egli si era opposto sia all’idea che “l’igno-ranza fosse la fonte dell’obbedienza”, sia all’idea di educare solo una ristretta cer-chia di nativi, sostenendo che era necessario diffondere il più possibile la cono-scenza, scientifica e artistica, e la Verità rivelata affinché le masse non si lasciassero affascinare dalle idee rivoluzionarie e atee propugnate da piccoli gruppi giacobini,

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James Mill, pur partendo dalla stessa concezione della società in-diana e nonostante fosse a favore della libera attività missionaria, non condivideva con Grant l’idea che il Cristianesimo fosse lo strumento principale della trasformazione sociale né lo stesso timore antigiaco-bino che animava i capofila del movimento evangelico. L’evangeliz-zazione della popolazione indiana sarebbe stato piuttosto un canale importante della diffusione di quei valori e quei principi che stavano alla base delle società progredite, per quanto solo quando «truth, and reason should obtain access to the understanding of the natives, they would reject the profane absurdities of their theological, and the de-praving defects of their moral system: they would thus be prepared for the reception of Christianity»54.

Inoltre, Mill era convinto che solo il miglioramento delle condi-zioni di vita dei colonizzati ― attraverso l’istituzione di buone leggi e, nello specifico, di un sistema fiscale “giusto” e fondato su di un’equa divisione della terra ― avrebbe permesso la diffusione del Cristiane-simo55. L’attività missionaria, poi, sarebbe stata di beneficio al go-verno della colonia solo nel caso in cui essa si fosse svolta in accordo con le scelte e gli orientamenti dello Stato coloniale e non si fosse po-sta in aperto conflitto con le credenze e le pratiche religiose, le abitu-dini e le tradizioni della popolazione nativa56.

com’era accaduto in Francia. F.G. HUTCHINS, The Illusion of Permanence, cit., p. 12, J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 7 e G. ABBATTISTA, Ja-mes Mill e il problema indiano, cit., p. 72. Tale concezione “conservatrice” dell’e-ducazione venne condivisa da Shore, il quale però, a differenza di Grant, assegnava un ruolo altrettanto importante all’azione legislativa. J. SHORE, Considerations, cit., pp. 87 e segg.

54 Si tratta del commento di Mill alla clausola del Charter Act che liberalizza l’at-tività missionaria. J. MILL (1858), History, vol. VII, book I, ch. VIII, p. 396.

55 Ivi, vol. V, book VI, ch. VI, p. 424. 56 Ivi, vol. VIII, book II, ch. XI, pp. 339–43 e ivi, vol. VII, book I, ch. VIII, pp.

395–6. In tal senso, allontanandosi da Grant e dalla corrente anglicista, Mill elogia l’operato dei missionari a Fort S. George: «the result was highly beneficial: [...] to [the servants of the Company], and to their European associates, were owing a vari-ety of useful works in the languages and literature of the East, intended to facilitate their acquirement, and brig within the reach of the Oriental students the means of becoming more familiar with the laws and institutions, the religion and character of the people». Ivi, p. 345.

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In tal senso la concezione milliana dell’educazione in riferimento alla colonia restava perfettamente coerente con quella che il filosofo aveva sviluppato nelle pagine del suo Saggio sull’educazione (1824), secondo la quale «all the difference which exists, or can ever be made to exist, between one class of men, and another, is wholly owing to education»57, dove per educazione veniva intesa, in senso stretto, l’educazione politica in grado di «rendere quanto più possibile l’in-dividuo lo strumento della felicità, in primo luogo di se stesso, e in secondo luogo degli altri esseri umani» e destinata principalmente a “exalted and refined” middle rank men58. Un’educazione che non sa-rebbe stata sufficiente a realizzare il principio dell’utile a meno di un intervento dell’istituzione politica mirante ad armonizzare i desideri dei singoli individui, ovvero la spinta irrimediabilmente selfish verso il raggiungimento del “piacere” individuale59.

A testimoniare la svolta politico–intellettuale che si registrò nei due decenni che intercorsero tra la pubblicazione dei primi scritti dei capo-stipiti dell’Evangelismo britannico e della History of British India fu l’entusiasmo con cui William Bentick, il primo Governatore generale apertamente ostile alle dottrine e alla filosofia orientalista, accolse l’opera di Mill. Un entusiasmo che lo portò ad affermare nei confronti dello storico «I’m going to British India, but I shall not be Governor–General. It is you that will be Governor–General»60. Rappresentativo

57 J. MILL (1824), Essay on Education, cit., p. 161. 58 Ivi, p. 139. Traduzione mia. Si tratta di un’educazione che completa quella

“domestica”, impartita essenzialmente ai genitori e dal tutore, e quella “sociale”. Tale educazione influenza l’individuo, il suo pensiero e comportamento, soprattutto in via indiretta, per mezzo della famiglia e della società. La “macchina politica”, secondo Mill, agendo in tal modo sia direttamente sia indirettamente sui singoli, sui gruppi e sulla società intera, è ovunque e ha il potere di influenzare “almost ever-ything”. «The play [...] of the political machine acts immediately upon the mind, and with extraordinary power; but it is not all; it also act upon almost every thing else by which the character of the mind is apt to be formed». Ivi, p. 193. Cfr. T. CAVE-NAGH, James and John Stuart Mill on Education, Cambridge U.P., Cambridge 1931, p. VII.

59 J. MILL (1829), Analysis of the Phenomena of Human Mind, cit., p. 192. Cfr. W.H. BURSTON, James Mill on Philosophy and Education, The Athlone Press, London 1973, p. 103.

60 E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., p. 51.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 127

fu, poi, il sostegno che Charles Trevelyan espresse nei confronti del progetto di abolizione di Fort–William nel 1834 ― la cui filosofia e-ducativa venne accusata dallo stesso di aver tentato di sovvertire la gerarchia naturale tra le culture che discendeva dall’indiscutibile su-periorità della civiltà britannica, tentando di «educare gli europei alla lingua e alla cultura orientali»61. Nel corso degli anni Venti del XIX secolo, poi, quella che era stata fino a quel momento soprattutto un’ostilità intellettuale si era trasformata in un vero e proprio attacco politico all’orientalismo e alle sue istituzioni educative: tra il 1825 e il 1835 l’università di Fort–William, l’Hindu College e la missione di Serampore, strutture portanti della scuola di studi orientalisti, vennero chiusi o profondamente riformati62.

La personalità politica e intellettuale che raccolse e sistematizzò il programma di riforma dell’istituzione educativa avanzato da Grant fu Sir Thomas Babington Macaulay. Nella Minute on Indian Education del 1835, opera che lo consacrò come l’esponente di spicco della cor-rente anglicista, egli proponeva la progressiva anglicizzazione di tutta la popolazione indiana, a cominciare dalla classe media, che sarebbe stata educata ai principi, ai valori e alla lingua del popolo britannico, diventando così «l’interprete tra noi e milioni di persone che gover-

61 C. TREVELYAN, A Series of Pepers on the Application of the Roman Alpha-bet to All th Oriental Languages, Mission Press, Serampore 1834, p. 16. Traduzione mia. È importante sottolineare che la corrente anglicista aveva una lunga tradizione alle spalle, nutrita non solo da intellettuali e politici britannici, ma anche da intellet-tuali nativi come Derozio e R. Roy i quali vedevano nella “rieducazione” del popolo indiano la sola strada per la realizzazione di una «Bengali Rainassance» fondata sui principi moderni e occidentali di libero arbitrio, di Ragione, e di razionalità scienti-fica. Cfr. D. KOPF, British Orientalism, cit., p. 253. Questo fenomeno rappresentò il risultato più importante, sostiene R. Guha, del progetto educativo elaborato tra la fine del XVIII secolo e i primi decenni del XIX. Cfr. R. GUHA, Dominance without Hegemony, cit., pp. 168–9. Per uno sguardo su genesi e influenze della Bengali Rai-nassance si vedano T. Raychaudguri, Europe Reconsidered. Perceptions of the West in the Nineteenth Century Bengal, Oxford U.P., Delhi 1988; S. KAVIRAJ, The Un-happy Consciousness. Bankimchandra Chattopadhyay and the Formation of Na-tionalist Discourse in India, Oxford U.P., Delhi 1995; S. SUSOBHAN, Bengal Ren-aissance and Other Essays, People’s Publishing House, New Delhi 1970; P. CHATTERJEE, Nationalist Thought and the Colonial World. A Derivative Dis-course, Minnesota U.P., Minneapolis 1993.

62 Cfr. D. KOPF, British Orientalism, cit., p. 233.

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niamo ― una classe di persone che siano di colore e sangue indiano, ma di sostanza inglese, nelle opinioni, nella morale, e nell’intelletto»63.

Tale proposta non trovò il plauso di James Mill, scettico soprattutto rispetto alla possibilità di utilizzare l’inglese nell’educazione degli in-diani ― per quanto a suo parere ciò fosse auspicabile a lungo ter-mine64. Egli si espresse in questi termini, di fronte al Select Committe della House of Commons per gli Indian Affaires il 21 febbraio 1832:

I am of opinion [...] that the progress of education among [the natives], so as to produce any very perceptible effect, will be excedingly slow. With respect to the English language–making its way among a people so numerous, dis-persed over so great a country, the number of Englishmen mixing with them so small, and the occasions of their feeling strongly the need of English lan-

63 T. MACAULAY, Minute on Indian Education (2 February 1835), in Id., S-

peeches by Lord Macaulay with his Minute on Indian Education, G.M. Young (ed.), Oxford U.P., Oxford 1935, 358–9. Traduzione mia. Questo testo viene riprodotto interamente in G. O. TREVELYAN, The Competition Wallah, London Press, Lon-don 1864, pp. 410 e segg.

64 J. MILL (1858), History, cit., vol. IX, book III, ch. VI, pp. 214–6. La critica espressa in queste pagine è diretta nei confronti delle scelte politiche del Governa-tore generale Bentick, volte sì alla moltiplicazione delle strutture educative sul terri-torio indiano, ma che privilegiano in modo assoluto l’insegnamento in lingua ingle-se. Il primato delle lingue native come mezzo di diffusione dei saperi scientifici e razionali presso gli indiani venne sancito, in linea col padre, anche da J.S. Mill. Per quanto riguarda le posizioni di J.S. Mill in riferimento a tali temi e, in generale, al governo delle colonie si vedano anche J.S. MILL (1848) Principles of Political Eco-nomy, Oxford U.P., Oxford 1994, cap. IV, pp. 66–70; ID.(1859), Saggio sulla liber-tà, cit., p. 33 e ID. (1861), Considerazioni sul governo rappresentativo, cit., p. 14. Cfr. L. ZASTOUPIL, John Stuart Mill and India, cit., p. 35. Per ciò che riguarda la posizione di J. Mill sull’uso delle lingue native si veda Evidence to House of Com-mons Committee (21 February 1832), P.P. 1831–32, IX, p. 56. Cfr. T.R. METCALF, The Aftermath of Revolt. India, 1857–1870, cit., pp. 18–24. Il ruolo dell’educazione impartita dal governo in India è ben esplicitato dal General–maggiore L. Smith in un rapporto pronunciato di fronte al Select Committee della Camera dei Comuni il 6 ottobre del 1831: «the effect of education will be to do away with the prejudices of sects and religions by which we have hiterto kept the country – the Musalmans (sic) against the Hindu and so on; the effect of education will be to expand their mind and show them their vast power». Citato in B.P. MAJUMDAR, First Fruits of English Education, Calcutta 1973, p. 1.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 129

guage so few; under these circumstances, any very general diffusion of the English language among the natives of India, I think, is to be despaired of65. In tal senso, è stato notato da D. Forbes, vi è una evidente contrad-

dizione nella posizione espressa da Mill, tra l’evocazione del modello educativo inglese come modello “esportabile”66 e la necessità di atte-nersi ai “criteri scientifici” ― che lo stesso Mill si è dato ― al fine di valutare la spendibilità di tale modello nel contesto indiano. Ecco che allora l’uso delle lingue vernacolari come strumento della trasmissione dei saperi e dei valori della “civiltà superiore” diveniva agli occhi di Mill la giusta mediazione tra l’universalismo attestato dagli utilitaristi rispetto ai valori e alle leggi che regolano la vita civile e che permet-tono la realizzazione del “buon governo” e il relativismo politico e giuridico necessario alla loro applicazione materiale67.

La concezione milliana del linguaggio come mero «medium of in-

struction for ‘useful’ learning» avvicinava Mill alla «Jones’s view of languages as transparent vehicles of knowledge, and as somehow

65 J. MILL, Minutes of Evidence (16 February 1832), in R.S.C.H.C.A.E.I.C.

1830–2, Cox & Son, London 1833, vol. II, p. 76. A p. 78 egli aggiunse, rispondendo alla domanda «se non fosse necessario diffondere l’inglese per facilitare l’identifi-cazione dei governati con i governanti», che ciò non valse per l’Irlanda e che la spe-ranza che l’inglese potesse sostituirsi alla lingua nativa era pressocché irrealizzabile.

66 Mill fu un sostenitore del movimento lancasteriano – nato dall’iniziativa del quacchero J. Lancaster (1778–1838) – per la creazione di una scuola primaria pub-blica, non religiosa, aperta a tutti e fondata sul sistema monitoriale – che prevedeva l’insegnamento diretto del professore ad un gruppo ristretto di ragazzi particolar-mente brillanti che a loro volta avrebbero insegnato le nozioni apprese agli altri compagni di scuola. Il modello educativo che Mill ha in mente per l’Inghilterra così come per l’India, nonostante la sua riluttanza per l’educazione “di Stato”, è un mo-dello di scuola pubblica. Si veda in tal senso l’articolo da lui pubblicato sulla Edim-burgh Review nel febbraio del 1813 (pp. 211–2) e l’Essay on Education (1824), cit., p. 188. Esso trae ispirazione dale riflessioni benthamite contenute nel saggio Chre-stomathia, in cui il filosofo sostiene la necessità della creazione di un sistema scola-stico pubblico che permetta l’accesso all’istruzione ai bambini delle classi più pove-re. J. BENTHAM (1817), Chrestomathia, in Id., The Works of Jeremy Bentham, cit., vol. VIII.

67 Tale relativismo verrà fatto proprio anche dal figlio, J.S. MILL (1859), Saggio sulla libertà, cit., p. 44 e ID. (1873), Autobiography, Penguin, London 1989, p. 130.

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equivalent to each other»68. Per entrambi, come sottolinea Guha, il lin-guaggio è semplicemente un insieme di segni: è questo aspetto a di-stinguere nettamente la posizione milliana da quella dell’anglicismo macaulayano, per il quale il linguaggio è una “costruzione semiotica” e, come tale, uno dei veicoli principali della legittimazione del potere coloniale, lo strumento attraverso cui persuadere gli indiani della desi-derabilità della loro soggezione69.

Lo scarto teorico–politico che consegue al passaggio tra le due con-cezioni del linguaggio è testimoniato, a mio avviso, anche dal partico-lare riconoscimento che Mill accorda alla potenzialità uniformizzante ed emancipatoria del linguaggio giuridico come veicolo di verità uni-versali, tanto da stabilire il primato del ruolo svolto dalle leggi rispetto all’educazione nel processo di civilizzazione degli indiani. È in primis la creazione di un sistema legislativo e giudiziario giusto, efficace e razionale a garantire il progresso70 poiché solo la legge, agli occhi di Mill, è in grado di modellare la società indiana, senza necessariamente omologarla “a livello sostanziale” a quella britannica, ma limitandosi piuttosto a imprimerle una forma ― giuridica, politica e sociale ― fondata sul principio utilitarista della “greatest happiness”71.

Alla concezione elaborata da Grant e Macaulay, e sostenuta da Trevelyan72, dell’inglese in quanto imprescindibile strumento di civi-lizzazione fa eco l’attestazione altisonante da parte di entrambi della superiorità della cultura inglese e britannica, un’attestazione che, ha sottolineato Kopf, è in un certo senso più smussata in Mill: per quanto,

68 J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 141. 69 Questa pratica educativa, aggiunge Guha, ebbe un effetto secondario molto

importante, ossia la lettura da parte degli intellettuali indiani del loro passato attra-verso il linguaggio, i codici e i significati propri dell’universo simbolico legato alla lingua inglese. R. GUHA, Dominance without Hegemony, cit., pp. 174–5.

70 J. MILL (1858), History, cit., vol. V, book VI, ch. VI, pp. 425 e segg. Mill era giunto a postulare anche l’estensione in India delle leggi britanniche sulla libertà di stampa, purché la loro applicazione fosse preceduta dall’istituzione di tutta una serie di misure e leggi miranti al miglioramento delle condizioni materiali della popo-lazione. Ivi, p. 449. Sulla natura costitutiva della legge in Mill si veda anche J. MA-JEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 148.

71 Cfr. G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., p. 102. 72 C. TREVELYAN (1838), On the Education of the People of India, cit. e L.

ZASTOUPIL, John Stuart Mill and India, cit., pp. 38–9.

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infatti, egli celebri la tradizione e la cultura politica britannica, conce-pite a partire dal relativismo politico, giuridico e culturale che caratte-rizza il pensiero utilitarista73, il primato che accorda loro non è tra-sferibile immediatamente alla specificità storica e culturale nazionale ― al contrario, viste le aspre critiche che Bentham e Mill avanzano nei confronti del sistema politico e giudico del proprio paese. Per Mill e Bentham, infatti, l’India svolge ancora una volta la funzione di “specchio” in cui riflettere l’immagine della madrepatria, uno “spec-chio” attraverso il quale mettere in luce quei difetti sostanziali dell’im-pianto costituzionale britannico che “non fanno onore” alla grande tra-dizione politica inglese e che come tali rendono necessaria la riforma.

Another cause of the disorders of India, a cause, too, of which it is highly im-portant to convey a just idea, is the overweening estimate which our coun-trymen are prone to make, not only of their own political contrivance in In-dia, but of the institution of their own country in the mass. Under the influ-ence of a vulgar infirmity, that Self must be excellent, and everything which affects the pride of Self must have surpassing excellence, English institution and English practices, have been generally set up as a standard, by confor-mity or disconformity with which, the excellence or defect of everything in the world was to be determined74. L’idea espressa da Bentham e fatta propria da Mill, secondo cui

ogni società può accedere al progresso partendo da differenti con-dizioni di partenza, sia culturali, sia socio–politiche, per quanto in cer-ti stadi della civiltà umana questo necessiti “un intervento dal-l’esterno”, non è, infatti, condivisa da quel particolare liberalismo che trova in Macaulay il suo massimo esponente e che in un certo senso ri-sente, ha sottolineato Hutchins, dell’influenza di una concezione della

73 Cfr. J. BENTHAM (1789), Introduction to the Principles, cit., vol. I, pp. 27–

35; J. MILL (1858), History, cit., vol. VI, book V, ch. VI, pp. 225. 74 J. MILL (1858), History, cit., vol. V, book VI, ch. VI, p. 407. Cfr. J. BEN-

THAM, Introduction to the Principles, cit., vol. I, p. 185: «I would venture to lay down the following propositions: 1th, that the English law is a great part of such a nature, as to be bad every where; 2d, but it would only be, but appears worse in Bengal than in England; 3d, that a system may be devised, which, while it would be better for Bengal, woul also be better even for England».

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cultura molto più vicina al nazionalismo che al cosmopolitismo illu-minista75.

In tal senso, per quanto Mill e il movimento anglicista condividano la stessa fede nella perfettibilità umana e l’idea che i non–europei pos-sano raggiungere, tramite l’educazione76, alti livelli di civilizzazione, la radicalizzazione di tale dottrina da parte del discorso anglicista rap-presenta, a mio avviso, una sorta di “tappa intermedia” rispetto alla svolta che si registrò con la fine dell’“età delle riforme” e che fu se-gnata dall’abbandono nella cultura politica coloniale della “pretesa emancipatoria” nei confronti dell’“uomo nativo” e dall’intervento massiccio e strutturale delle dottrine razziste ― esemplificata dal pen-siero di James Fitzjames Stephen e Sir Henry Maine77.

Se l’idea di progresso insita sia nelle riflessioni benthamite e nella loro “traduzione” milliana, sia nel paradigma teorico anglicista, e deri-vante per entrambe dall’Illuminismo scozzese di David Hume e Adam Smith, rappresentano quegli elementi teorici che permettono di avvi-cinare le figure di Mill, Grant e Macaulay all’immagine di “borghese europeo”, portatore della filosofia della Storia, descritto da Reinhart

75 Cfr. D. KOPF, British Orientalism, cit., p. 250. 76 J. MILL (1858), History, cit., vol. V, book VI, ch. VI, pp. 422–4. 77 Cfr. J.F. STEPHEN (1873), Liberty, Equality, Fraternity, R.J. White (ed.),

Cambridge U.P., Cambridge 1967; ID., Foundation of the Government of India, in «The Nineteenth Century», Oct. 1883, n. 80, pp. 541–68. Per Stephen non era asso-lutamente necessario “educare” i nativi in quanto la legge britannica, perfetta in sé, sarebbe stata applicata a prescindere da qualsiasi opinione espressa in merito e tale applicazione «sarebbe stata riconosciuta giusta in ogni parte del mondo». J.F. Stephen citato in L. STEPHEN, Life of Fitzjames Stephen, Putnam’s, New York 1895, p. 264. Traduzione mia. Quest’ultimo, ha sottolineato L. Zastoupil, il cui pen-siero si inserisce in un’epoca segnata dalle vicende legate all’Ammutinamento dei Sepoy del 1857, era dell’idea che «the British government could neither represent Indian people and their political ideas nor enjoy their consent. The Raj was rather a coercitive instrument for forging the foundations of civilization in an unappreciative population». Il pensiero di Stephen, formulato a partire da una concezione pro-fondamente intrisa dei concetti di “differenza” e “incompatibilità razziale”, segnò la crisi della filosofia del progresso che aveva caratterizzato l’età vittoriana fino a quel momento. Cfr. L. ZASTOUPIL, John Stuart Mill and India, cit., p. 203. Per quanto riguarda la l’approccio all’India coloniale post–ammutinamento sintetizzato dalla posizione di Henry Maine si veda M. PICCININI, Tra Legge e contratto. Una lettu-ra di Ancient Law di Henry S. Maine, Giuffré, Milano 2003.

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Koselleck78, è vero anche che le riflessioni del filosofo utilitarista non giungono, a differenza degli anglicisti, all’attestazione della completa e definitiva inadeguatezza di ciò che è altro.

Mutuando la definizione che Lessing ha dato del filosofo dei Lumi, Koselleck ha individuato nel prophète philosophe colui che accelera il tempo storico perché «non sa limitarsi ad aspettare il futuro [...]. Che cosa gliene viene, se ciò in cui vede il meglio non diventa il meglio mentre lui è in vita?»79. È questa accelerazione che spinge Mill, Grant a Macaulay nella condizione di essere alla caccia di quel “cattivo infi-nito”, «per usare l’espressione di Hegel» attraverso cui «la coscienza dei soggetti viene incatenata a un finito ‘non–ancora’ che possiede la struttura formale di un dover essere (sollen) perenne»80.

Il «topos dell’accelerazione del progresso», aveva scritto Koselleck in un testo del 1976, «oscilla tra l’esperienza e la speranza utopica: consegue naturalmente, in ultima istanza, dall’assunzione di una per-fezione generalmente uguale come meta. Se quest’ultima deve infatti ugualmente toccare a tutti gli uomini, come ad esempio hanno richie-sto Turgot, Condorcet, Comte e Kant, allora ‘cette inégalité des pro-grès’ che oggi vige tra i selvaggi arretrati e gli europei civili, deve es-sere alla lunga appianata»81.

Questa logica del rimando all’utopico «raggiungimento dello stesso grado di progresso per l’intera umanità», applicata al contesto colo-niale, identifica in termini generali, come ha sottolineato Chakrabarty, il «finito ‘non–ancora’» con la realtà dell’Altro, rendendola irrilevan-te in quanto tale, poiché appartenente ad un tempo “rallentato”, “so-speso” appunto, con le parole di Chakrabarty, un tempo che Koselleck ha definito “della reazione”, contrapposta a quella “rivoluzione” di cui è portatore, in madrepatria, come nelle colonie, il nuovo soggetto della Storia.

78 R. KOSELLECK (1979), Futuro Passato, cit., p. 26. 79 G.E. LESSING (1858), L’educazione del genere umano, Marietti, Casale

Monf. 1974, p. 92. 80 R. KOSELLECK (1979), Futuro Passato, cit., p. 27. 81 R. KOSELLECK, C. MEIER (1976), Progresso, cit., p. 79. Gli autori citano

ROUSSEAU, Discorso sull’origine e il fondamento dell’ineguaglianza. Cfr. R. KOSELLECK (1979), Futuro Passato, cit., p. 26.

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D’altra parte, se la categoria “tempo” è così cruciale nell’illumi-nismo milliano e nelle proposte di riforma ad hoc avanzate per l’India, è anche vero che essa non induce il filosofo a progettare il totale ap-piattimento delle “temporalità native”: essa disegna piuttosto un oriz-zonte di intervento pragmatico volto alla convergenza futura di due mondi, il centro e la periferia dell’impero, che possono essere avvi-cinati solo dal medesimo “ideale”.

L’intervento del filosofo Mill nella realtà indiana non è dunque “eugenetico” a differenza di quello auspicato da Macaulay e dai teo-rici successivi: si tratta piuttosto dell’atteggiamento tipico dell’educa-tore descritto dallo stesso Mill nel Saggio sull’educazione, un atteg-giamento volto a educare, valorizzare e condurre le capacità indivi-duali nella direzione di una quanto più possibile accentuata conver-genza di interessi82 ― dato per scontato il fatto che il ruolo di interpre-te e mediatore selettivo degli interessi sia di esclusivo appannaggio della potenza coloniale83. In tal senso Mill stabilisce un vero e proprio

82 L’educazione è vista da Mill come il fattore di discriminazione tra «all classes and bodies of men», in quanto è attraverso essa che «certain feelings or thoughts take place instead of others». Essa ha il compito di fissare nella mente degli indivi-dui la “giusta sequenza” tra sensazioni e idee, ossia tra l’esperienza sensibile o i de-sideri, da una parte, e l’idea di felicità, dall’altra – attraverso gli strumenti logici della connessione e del rapporto causa–effetto – permettendo così agli uomini di di-stinguere tra la pazzia e la ragionevolezza e di giungere alla saggezza e alla virtù. L’intelligenza, infatti, è necessaria ma non sufficiente affinché tali operazioni possa-no essere svolte e possa essere raggiunta la felicità: sono necessarie la conoscenza e la sagacia, acquisibili attraverso lo studio e l’esempio, perché si possa garantire a sé il pieno piacere e contribuire a che gli altri possano fare altrettanto. Mill tenta in tal senso di conciliare la spinta edonistica alla ricerca del massimo piacere per sé con la necessità di rendere possibile il soddisfacimento dell’interesse altrui – al fine di ga-rantire l’ordine civile e politico – attraverso la “virtù sociale” della benevolenza: l’acquisizione di tale virtù, attraverso l’educazione, permetterebbe all’individuo, essenzialmente selfish, di sviluppare “other–regarding sentiments”. Mill è convinto che la necessaria – e naturale – associazione tra le virtù individuali dell’intelligenza, della temperanza e della benevolenza, determini una contaminazione reciproca tra gli individui e la diffusione della felicità. J. MILL (1824), Essay on Education, cit., pp. 147, 155.

83 Nella filosofia benthamita e milliana il ruolo dell’istituzione politica, sia in madrepatria sia nella colonia, non si esaurisce nel governare la società e punire i comportamenti devianti, ma ha soprattutto il ruolo di educare i cittadini, di condurli al benessere attraverso l’esempio che è dato da un’insieme di leggi, sia civili sia pe-

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(dis)equilibrio tra la (tanto necessaria quanto dolorosa) accettazione della molteplicità degli stili di vita e la professione di fede nel pro-gresso84.

Questo stesso (dis)equilibrio, da cui deriva l’attitudine scettica nei confronti della prospettiva anglicista, sarà una delle cause principali dell’isolamento di Mill da liberali e radicali, sostenitori della proposta di Macaulay. Di fatto però, ha sottolineato Hutchins85, nonostante l’atteggiamento milliano venisse definito come eccessivamente “blan-do” dalla critica liberale a lui contemporanea e immediatamente suc-cessiva, le posizioni di Mill vennero considerate generalmente coe-renti, al pari degli altri progetti di anglicizzazione più o meno massiva

nali, essenzialmente coercitive. È sul riconoscimento di questo duplice ruolo dell’istituzione politica, e massimamente, del Legislatore e dalle legge – di educare alla “felicità”, oltre che “to protect from suffering” – che secondo Bentham e Mill si fonda l’obbligazione politica, il cui principio fondamentale risiede nel motto politico benthamita «the duty of a good citizen is [...] to obey puntually, to censure freely». J. BENTHAM (1843), Principles of the Civil Code, cit., vol. I, p. 301 e ID. (1776), A Fragment on Government, cit., p. 10.

84 Un disequilibrio che, utilizzando le categorie di James Clifford, Salman Ru-shdie, Homi Bhabha, Stuart Hall e Paul Gilroy, potrebbe essere tradotto nella ten-sione tra l’affermazione di una “cultura forte”, quella britannica portatrice del pro-gresso, e la constatazione dolorosa che anche tale cultura, osservata dal punto di vista del relativismo politico e culturale, è una cultura in mutazione, full of contrad-dictions, in trasformazione perenne e sottoposta a continua negoziazione dai proces-si di colonizzazione.

85 F.G. HUTCHINS, The Illusion of Permanence, cit., p. 154. Non bisogna infatti dimenticare che in molti punti il programma di riforme politico–istituzionali pro-posto da Mill si sovrapponeva a quello avanzato dal movimento evangelico: esem-plare in tal senso fu l’avvallo da parte del filosofo utilitarista del progetto di pro-gressiva anglicizzazione dell’apparato amministrativo e di governo (ossia l’espul-sione da esso dei nativi). Mill era convinto, infatti, che l’emancipazione politica de-gli indiani sarebbe avvenuta non tanto attraverso la loro partecipazione alla gestione della cosa pubblica ma, piuttosto, attraverso la creazione di un governo efficiente, amministrato da una classe dirigente – quella britannica – in grado di guardare alla realtà sociale e politica indiana in modo “distaccato” e “razionale”. L’azione di un soggetto politico “esterno ed estraneo” era resa necessaria dal fatto che non vi era ancora traccia in India di un ceto medio nativo in grado di assumere un tale ruolo. J. MILL (1858), History, cit., vol. V, book VI, ch. VI, pp. 418–20 e ID., Minute of Evidence (25 August 1831), in Third R.S.C.H.C.A.E.I.C., vol. V, Cox & Son, Lon-don 1832, pp. 614–5

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e repentina, al paradigma teorico fondato sull’idea che gli indiani, una volta spogliati del “ciarpame induista”, potessero divenire sotto ogni aspetto docili subjects da condurre al progresso e alla civiltà. Un cam-mino, questo, che sarebbe stato percorso attraverso uno strumento po-litico efficace, rispetto al quale wighs e utilitaristi trovavano comune accordo, ossia quello che Donald Winch ha definito “dispotismo il-luminato”. Un dispotismo che avrebbe reso possibile agli «enlightened European legislators to help them raise India in the scale of civilisa-tion». Proprio l’attenzione alla comune filosofia della Storia ― che derivava direttamente dal concetto di progresso sviluppato dall’Il-luminismo scozzese, e in primis da David Hume e Adam Smith e che poneva al centro «future goals rather than passive adaption» ai co-stumi e alle pratiche native correnti86 ― e la loro comune opposizione all’approccio orientalista fecero sì che per molto tempo venissero sot-tovalutate le divergenze tra Mill e i sostenitori del progetto: un’in-terpretazione questa che spinse i critici a definire il progetto di Macau-lay, teorizzato nella Minute on Indian Education, «la filosofia di Ja-mes Mill scritta in macaulayese»87.

86 D. WINCH, The Cause of Good Government. Philosophic Wighs versus Phi-

losophic Radicals, in S. Collini, D. Winch, J. Burrow (eds.), A study in Nineteeth–Century Intellectual History, Cambridge U.P., Cambridge 1983, pp. 117–9. Winch ha colto e sintetizzato, a mio avviso in modo efficace, l’operazione teorico–politica dei riformatori di questo periodo vedendo in essa la delegittimazione del dispotismo indù finalizzata alla sua sostituzione con una sorta di “dispotismo illuminato”: un dispotismo – fondato sull’esclusione dei nativi da una qualsiasi forma di partecipa-zione all’istituzione pubblica – che nell’argomentazione milliana viene semplice-mente legittimato dal «low state of civilisation» del popolo indiano e dall’assenza di una piena consapevolezza di quale fossero i suoi “reali interessi”. D’altra parte, se Macaulay, Mackintosh e il cenacolo raccolto attorno all’Edimburg Review non eb-bero difficoltà ad accettare diagnosi e priorità fissate da Mill in virtù dello stesso approccio filosofico, lo scetticismo puramente scozzese di Mill rappresenta, secondo Winch, la ragione principale della mancata adesione del filosofo utilitarista al pro-getto educativo wigh.

87 D. FORBES, James Mill and India, in «Cambridge Journal», vol. V (1951 – 52), p. 23. Traduzione mia. La distanza esistente tra la posizione di Mill e quella espressa dagli anglicisti è stata evidenziata per la prima volta da E. STOKES, En-glish Utilitarians and India, cit., p. 55. D’altra parte, è interessante notare come il vivo interesse espresso durante l’“età delle riforme” nei confronti dell’educazione – selettiva così come “di massa” – incentivò l’azione del governo coloniale in questa

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 137

2.2. Le riforme di Cornwallis Il sistema politico, giuridico e amministrativo teorizzato da James

Mill per l’India nasce e si sviluppa in aperto contrasto con il piano di riforme elaborato e messo in pratica da Lord Cornwallis, Governatore generale del Bengala negli anni dal 1786 al 1793.

Il Permanent Settlement e il nuovo sistema giudiziario e ammini-strativo istituito da Cornwallis erano andati a sostituire il sistema del Double Government ― governo che alla base manteneva istituzioni e funzionari indigeni coordinati al vertice da funzionari e uffici della Compagnia ― creato da Robert Clive, e in vigore dal 1765, sistema che fu sostanzialmente mantenuto dal Governatore Hastings, succes-sore di Clive. Si trattava di un sistema mirato a “conservare” più che “innovare”, nel tentativo di “mascherare”, con le parole dello stesso Clive88, il dominio coloniale dietro le mentite spoglie dell’immutata sovranità dei sovrani moghul. Il Codice di Cornwallis rispondeva, al contrario, alla precisa volontà di “anglicizzare” l’istituzione e la cultu-ra politica coloniale ― gli indiani ne dovevano essere pressoché to-talmente esclusi ― e di creare un sistema amministrativo improntato sul modello di quello britannico. L’idea che impregnava la riforma cornwallisiana ― condivisa anche dal successore Lord Wellesley (1798–1805) ― era che il modello politico–istituzionale fino a quel momento perseguito non era riuscito in alcun modo a rimediare alle storture dell’amministrazione tradizionale indiana, incentivandone ol-tremodo il carattere arbitrario. Si trattava allora di operare un pro- direzione. Alla base della formazione degli studenti nativi nel sistema scolastico indiano ipotizzato dai riformatori e messo in atto dalla Compagnia delle Indie, vi era la diffusione di quel sapere – letterario, scientifico, filosofico e giuridico – che era istituzionalizzato in madrepatria. Esso, ha sottolineato G. Viswanathan, rappresenta al meglio ciò che la studiosa ha definito la “maschera della conquista” ossia quella forma di gramsciano dominio culturale che si realizzò in India attraverso «a discour-se in which those who are to be educated are represented as morally and intellec-tually deficient and the attribution of moral and intellectual values to the literary works they are assigned to read». G. VISWANATHAN, Masks of Conquest, Faber & Faber, London 1990, pp. 4, p. 20.

88 Sono le parole di Clive dirette alla Court of Directors il 30 settembre del 1765 contenute nel Third Report on East India Company del 1773 e a Valrest e al Select Committee del 16 gennaio 1767 contenuta nel Second Report del 1772.

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fondo cambiamento nell’impostazione del governo coloniale, soprat-tutto a spese delle istituzioni precoloniali indiane, le cui organizza-zione e funzioni avrebbero subito una trasformazione radicale, sulla base dell’introduzione di una concezione astratta e impersonale della legge e dell’autorità politica e giuridica89.

Come Cornwallis ebbe modo di affermare, il governo del Bengala

sarebbe dovuto essere trasformato in “un sistema animato dai suoi principi intrinseci e non dagli uomini che si fossero occasionalmente trovati alla guida di esso”, mediante l’uso effettivo del potere di emet-tere ordinanze (regulations) spettante al governatore generale e l’ab-bandono dei criteri arbitrari di governo comunemente raffigurati come la caratteristica del “dispotismo orientale”. Il risultato dell’opera rifor-matrice degli anni 1786–1793 fu il Codice battezzato Bengal Code of Regulations, o Codice Cornwallis, che pubblicato ai primi del secolo XIX, divenne in breve il simbolo di quella che venne chiamata “the age of regulations” del governo britannico in India90.

La filosofia ispiratrice del Permanent Settlement ― la riforma a-

graria ― e delle riforme politico–istituzionali di Cornwallis era di ma-trice whig e discendeva dall’idea secondo cui per ovviare alla naturale tendenza del sistema politico alla corruzione e all’abuso era necessario ridurre al minimo il potere esecutivo e mantenerne separate le funzio-ni, secondo il principio liberale della “balance of powers”. Fondata sull’idea lockeana secondo cui la società è naturalmente ordinata, essa concepiva il ruolo del governo come limitato alle mere funzioni giudi-ziarie e fiscali finalizzate alla protezione della proprietà e delle perso-ne, oltre le quali l’intervento dello Stato si sarebbe necessariamente risolto nell’esercizio arbitrario del potere.

89 Tale visione era condivisa dai membri del parlamento e del Select Committe della House of Commons e ne è testimone il Fifth R.S.C.H.C.A.E.I.C. (stampato il 28 luglio 1812) tutto incentrato sulla descrizione delle riforme di Cornwallis. In esso si legge, dopo una breve descrizione dei sistemi di governo «antecedent to 1784», che «but though much good have been affected, much yet remained to be done, be-fore the institutions of the government and the condition of the people». Ivi, p. 12.

90 G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., p. 21. Abbattista ci-ta la lettera di Cornwallis alla Court of Directors del 6 marzo 1793.

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Coerentemente con questo paradigma filosofico, il Permanent Set-tlement tendeva, da una parte, a fissare in modo permanente la distri-buzione della proprietà terriera ed assegnarne i diritti attraverso la re-gistrazione catastale e l’istituzione del principio di ereditarietà della terra, e dall’altra, ad istituire una classe di proprietari terrieri ― sul modello della gentry inglese, individuata negli zamindar ― che a-vrebbe dovuto fungere da intermediaria dello Stato per quanto ri-guarda la riscossione dell’imposta fondiaria, evitando così l’intervento diretto di quest’ultimo91. Lo Stato si sarebbe posto “a fianco” degli zamindar in quanto detentore del potere giudiziario, potere che esso avrebbe esercitato attraverso una serie di istituti e tribunali riformati sulla base dei principi ― la Common Law ― e delle procedure vigenti nel sistema giuridico britannico92.

91 Cfr. R. GUHA, A Rule of Property for Bengala, cit., p. 11. Investiti del potere

di riscossione delle imposte, gli zamindar avrebbero avuto il potere di stabilire libe-ramente l’importo del contratto d’affitto della loro terra – l’unico controllo esercitato su di essi sarebbe consistito nell’obbligo di depositare presso i tribunali competenti tali contratti, o pottah, in modo tale che fosse possibile impugnarli contro i ryot in debito di pagamento o contro gli stessi zamindar qualora non avessero consegnato al fisco l’imposta stabilita. Cfr. P. FRANCIS, Letter of P. Francis to W. Hastings (De-cember 1776), in Id., Original Minutes of the Governor–General and Council of Fort William on the Settlement and Collection of Revenues of Bengal, J. Debrett, London 1782, pp. 162–4. Sul ruolo sociale sostenuto dagli zamindar nella tradizione indù e musulmana precoloniale e coloniale si veda G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit, p. 8.

92 La proprietà terriera, così come venne concepita nel Permanent Settlement, ha sostenuto Stokes, rispecchiava l’idea di essa, elaborata dalla tradizione whig, come «the agency which affected the reconciliation of freedom with order»: attraverso l’assegnazione di diritti permanenti sulla terra ed attraverso la creazione di una leadership fondata su tale proprietà, il Permanent Settlement, agli occhi dei suoi ideatori, avrebbe creato, infatti, non solo i presupposti della nascita dell’economia capitalistica in India, ma avrebbe permesso la strutturazione della società secondo i principi della libertà, della giustizia e dell’ordine sociale. E. STOKES, English Utili-tarians and India, cit., p. 5. Se è vero, d’altra parte, che la riforma della proprietà della terra di Cornwallis poggiava su tale filosofia, ha affermato Ranajit Guha, il paradosso intrinseco al Permanent Settlement fu proprio quello di realizzare, perten-do da presupposti fisiocratici antifeudali ed illuministi, un modello economico e sociale propriamente “feudale”. R. GUHA, A Rule of Property for Bengala, cit., p. 6. Guha prende le distanze dall’analisi che a proposito era stata avanzata da Stokes nel suo The peasant and the Raj, secondo la quale la riorganizzazione della proprietà

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Di fatto, se il tentativo delle politiche coloniali che vennero appli-cate a partire dalla seconda metà del XVIII ― a cominciare dal Per-manent Settlement ― era, in via teorica, quello di gettare le basi dell’economia di mercato e del moderno Stato borghese, in realtà quella trasformazione irrevocabile, che per decenni è stata considerata innegabile dagli storici marxisti e non, che avrebbe portato al pas-saggio «from status to contract, and from caste to class» non ebbe luogo93 poiché gli «institutional ‘inputs’ of modernity were too feeble to blow apart the structure of indian society»94. Scrive Mukherjee:

della terra prevista dal Permanent Settlement, si era limitata “a trasferirne i diritti” facendo sì che molti degli interventi riformatori, afferma Stokes, si risolvessero in “changeless changes”. E. STOKES, The peasant and the Raj, cit., pp. 2–3. La diffe-renza esistente tra l’analisi di Guha e quella di Stokes deriva principalmente dalla diversa interpretazione dell’economia agricola precoloniale: mentre Guha la consi-dera essenzialmente fondata sul sistema ryotwar e dunque non–capitalistica, per quanto non definibile come “feudale”, Stokes ne individua soprattutto elementi “pre–capitalistici”, rispetto ai quali la creazione del sistema zamindari non impresse alcun cambiamento sostanziale.

93 S.N. MUKHERJEE, Class, Caste and Politics in Calcutta, 1815–50, in E.R. Leach, S.N. Mukherjee (eds.), Elites in South Asia, Cambridge U.P., Cambridge 1970, p. 35 e pp. 52 e segg.

94 Alcuni esempi del dibattito esistente fin dal dopoguerra sugli effetti in termini di trasformazione economica dell’impero britannico in India sono A.R. DESAI, The Social Background of Indian Nationalism, Bombay 1948; E.R. LEACH, S.N. MU-KHERJEE (eds.), Elites in South Asia, cit.; A. SEAL, The Emergence of Indian Na-tionalism, Cambridge 1968. Desai, esponente di quella storiografia che associa la nascita dell’India moderna, dello Stato–nazione e della coscienza nazionale all’e-sclusivo intervento britannico (A.R. DESAI, The Social Background, cit., p. 5), ha sottolineato, insieme a molti suoi contemporanei, la capacità del capitalismo colo-niale di penetrare e sovvertire la tradizionale economia di villaggio – fondata sulla proprietà collettiva, su di una limitata divisione del lavoro e sulla casta – e di sosti-tuirla con un’economia di mercato fondata sulla proprietà privata, trasformazione che secondo Desai fu proprio il risultato dell’aplicazione del Permanent Settlement di Cornwallis e che permise la nascita di una coscienza nazionale anticoloniale. Questa idea venne messa in discussione negli anni successivi da un filone di critica storiografica a cui appartiene Anil Seal, il quale nel volume sopracitato ha analizzato la discrepanza tra la creazione di un’elite nativa colta e caratterizzata da un “english behaviour” in alcune precidencies (Calcutta, Bombay e Madras) e il resto della re-gione, in cui la trasformazione in termini capitalistico–borghesi fu alquanto più len-ta. A. SEAL, The Emergence, cit., p. 33.

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There was in Bengal no conflict between trade and the land, nor between the “old zamindars” and the “new zamindars”. No doubt many old zamindaris were bought off by the abhijat bhadralok, and there was some resentment against the nouveaux riches amongst the “old aristocracy”, but there was no class struggle between the bhadralok and the “old aristocracy”95. Se non si può non concordare con Mukherjee sul fatto che non nac-

que in quel contesto quella borghesia industriale e agraria che avrebbe svolto il ruolo di motore sociale verso la creazione dello Stato borghe-se, come ha sottolineato Guha, né un proletariato agricolo composto da una massa di coltivatori caratterizzati tutti dalle stesse condizioni di lavoro e di vita96, si può dire che il risultato di tali riforme fu piuttosto una sorta di economia “duale”, “pre– o non–capitalista” e capitalista, com’è stata definita da Boeke in riferimento all’India olandese97.

E ciò nonostante l’obiettivo perseguito dagli ideatori del Permanent Settlement, Alexander Dow, Henry Pattullo, Philip Francis, Thomas Law e Cornwallis, i quali intendevano imprimere un cambiamento per nulla graduale e irreversibile che coinvolgesse tutta l’area indiana. Una trasformazione strutturale rispetto alla quale le politiche coloniali applicate precedentemente apparivano “inorganiche” e “incoerenti”98:

95 S.N. MUKHERJEE, Class, Caste and Politics in Calcutta, 1815–50, cit., p. 54. 96 R. GUHA, A proposito di alcuni aspetti della storiografia dell’India coloniale,

in R. Guha, G. Spivak (1988), Subaltern Studies, cit., p. 39. 97 J.H. BOEKE, The Structure of the Netherlands Indian Economy, New York

1942, pp. 4–5 e ID., Economics and Economic Policy of Dual Society, Haarleem 1953. Sull’economia duale in Indonesia si veda anche W.F. WERTHEIM (ed.), In-donesian Economics, Royal Tropical Institute, Amsterdam 1961.

98 I funzionari della Compagnia delle Indie in questa prima fase della creazione del governo coloniale sono stati descritti da Stokes, in linea con i giudizi espressi dalla maggior parte dei riformatori della prima metà del XIX secolo, come una sorta di «zealots without a cause or political principle», arrivisti, caratterizzati da una scarsa levatura morale, incapaci di progettare e realizzare un’istituzione politica “nuova” e “serenamente” rassegnati ad utilizzare quella già esistente. E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., p. 2. Kopf e Spear definiscono la presenza ingle-se a partire dal governatorato di Clive come caratterizzata da «imperialist swashbu-cklers and large scale extorsion» distinguendola da quella precedente a Clive, com-posta di «petty–fogging traders quarreling over their seats in church». D. KOPF, British Orientalism, cit. p. 14; P. SPEAR, The Nabobs, Oxford U.P., London 1963, p. 23. La critica espressa da Stokes ha radici profonde che risalgono a Burke. La critica burkeana era stata fatta propria anche da J. Mill il quale descrisse i governi di

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agli occhi di tali riformatori gli amministratori coloniali che li avevano preceduti si erano dimostrati incapaci di venire a capo della complessa struttura di obbligazioni vigente nella società agraria indiana e di fon-dare a partire da essa una serie di istituzioni progressive volte ad in-centivare quelle forze sociali che avrebbero permesso un reale pro-gresso in direzione dell’affermazione di un’economia agraria capitali-stica. Ciò che essi contestavano era l’assenza di una collaborazione tra ufficiali coloniali preposti alla riscossione dei tributi e i loro assistenti indiani, i continui conflitti al vertice dell’amministrazione derivanti dalla struttura diarchica del potere coloniale ― composta dal Select Committee e dal Council99 ― e la corruzione degli intermediari (a-mils) tra funzionari e popolazione. Le disastrose politiche agrarie fino a quel momento portate avanti dal governo coloniale erano, inoltre, a loro avviso la causa della carestia prolungata che affliggeva le campa-gne100. I contratti a breve termine che il Farming System ― il sistema di assegnazione dei diritti sulla terra e di imposizione fiscale applicato da Hastings ― prevedeva, avevano non solo creato instabilità ma ave-vano soprattutto penalizzato quel ceto che ai loro occhi rappresentava in nuce la figura del propritario terriero moderno, ossia il ceto zamin-dar. Essi erano infatti convinti che, afferma Guha,

England was [...] required to assume the responsabilities of an improving landlord in Bengal. The distance between the two countries and the inadvis-

Verelst, Cartier e Hastings come governi “without a cause” in mano a “unambitious men” che non amministravano il potere ai fini del “buon governo” e del progresso, ma solo in virtù di interessi personali: in quel periodo non solo non si ebbero miglio-ramenti significativi ma il paese si impoverì e crebbero le difficoltà economiche della Compagnia e ciò dipese, secondo Mill, dall’incapacità dei funzionari di render-si conto che l’India non era un paese ricco in sé, ma che la ricchezza doveva essere creata attraverso efficaci politiche economiche e un “governo giusto”. J. MILL (1858), History, cit., vol. III, book IV, ch. VII, p. 308.

99 Con la fine del mandato del Governatore Clive il Board of Directors della Compagnia delle Indie Orientali aveva cercato di ridefinire le funzioni del Select Committee creando un alto grado di confusione nella definizione delle giurisdizioni di quest’utimo e del Council (il Consiglio del Governatore generale). Cfr. R. GUHA, A Rule of Property for Bengala, cit., p. 15.

100 Si stima che la carestia che si protrasse dal 1770 al 1771 uccise quasi un terzo della popolazione del Bengala. Cfr. G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit, p. 10.

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ability of colonization made it necessary that the property should be entrusted to the care of a class of native entrepreneurs who had solid interests in the land and were politically reliable. This alone could establish ‘the permanence of dominion’101. Il piano di riforme progettato a partire dalle riflessioni di questi in-

tellettuali aveva coniugato in sé alcune suggestioni fondamentali deri-vanti da differenti discorsi ― quello orientalista, quello illuminista, quello facente capo alla concezione whig di impero britannico ― pre-senti nella cultura politica europea della seconda metà del secolo XVIII: partendo dall’idea orientalista secondo cui la civiltà indiana rappresentava un grande esempio di cultura antica rimasta intatta at-traverso i secoli, essi ne rivalutarono le istituzioni pur condannandone il “dispotismo” descritto da Montesquieu (Philip Francis). Al contem-po, essi (soprattutto Alexander Dow)102 videro all’origine della deca-denza bengalese non tanto la crisi dell’impero moghul (a cui, invece, gli orientalisti attribuivano il ruolo principale) quanto il malgoverno coloniale ― visto come “esclusivamente volto al profitto”103 ed essen-zialmente corrotto e per questi motivi incapace di gettare le fondamen-ta di un’economia agraria e commerciale benefica sia per la madrepa-tria sia per i “nativi”104 ― coerentemente con le critiche che soprattut-

101 R. GUHA, A Rule of Property for Bengala, cit., p. 18. 102 Alexander Dow fu l’autore dell’importante Enquiry into the State of Bengal

oltre alla già citata History of Hindustan, opere storiografiche fondamentali, queste, per comprendere il clima intellettuale attorno alle questioni riguardanti il ruolo della Compagnia delle Indie Orientali e l’origine delle critiche che portarono alle riforme effettuate tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del XVIII secolo. A. DOW, Enquiry into the State of Bengal, with a Plan for Restoring that Province to its Former Pros-perity and Splendor, London 1772. Per quanto riguarda l’importanza degli studi orientalistici di Dow rimando al capitolo 1 par. 1.

103 Cfr. P. FRANCIS, Plan for a Settlement of the Revenues (22 January 1776), in Id., Original Minutes, cit., pp. 24 e segg. «It is our duty», scrive Francis alle pagine 26 e 27, «to establish some general and permanent system of policy [...]. Such a system will equally provide for the immediate relief and future prosperity of the natives. They have a claim to our care and protection, which true self–wisdom will not reject».

104 Tra gli obiettivi del Permanent Settlement di Cornwallis vi fu proprio quello di investire capitali nella produzione agricola indiana, capitali che sarebbero derivati dal gettito fiscale. Cfr. E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., p. 25.

Capitolo II 144

to da parte whig venivano mosse alla Compagnia delle Indie Orientali. Questi intellettuali, e tra loro soprattutto Philip Francis105, individua-vano nella terra e nell’economia agricola, infatti, il fondamento dell’organizzazione economica e sociale indiana. Il piano di riforme che ne risultò e che venne sistematizzato da Francis ebbe come suo fulcro l’idea che il “buon governo” consistesse nella creazione di quei presupposti che avebbero permesso il libero gioco delle forze econo-miche e produttive legate all’economia agricola ― tra cui il più im-portante era la fissazione permanente dell’ammontare delle tasse in modo da evitare che qualsiasi rincaro o tassa aggiuntiva potesse pena-lizzare i coltivatori106 ― e, secondariamente, lo sviluppo di una fitta rete di scambi commerciali ― in linea con le riflessioni alla base delle riforme ipotizzate dai fisiocratici francesi e con le teorie del free trade che circolavano negli ambienti dell’Illuminismo francese e scozze-se107. Per poter avviare il sistema agricolo bengalese all’economia di

105 Nonostante la figura di Francis, membro del Council dal 1774 al 1781, fosse fondamentale nel panorama dei riformatori che diedero impulso alle formulazione delle politiche coloniali in India tra il 1770 e il 1830, essa venne oscurata dalla riabi-litazione – soprattutto dopo il 1857 – del suo rivale, W. Hastings e del Farming System hastingsiano a cui la riforma di Francis si contrapponeva. Cfr. R. GUHA, A Rule of Property for Bengala, cit., pp. 61–4. Inoltre Francis, repubblicano, filogia-cobino e antischiavista, dovette spesso fare i conti con l’ostilità che l’ambiente colo-niale gli dimostrava per le sue idee, ostilità che lo penalizzò enormemente sia per ciò che riguarda la carriera nell’amministrazione coloniale sia per ciò che riguarda il peso politico del suo piano di riforma – per quanto i presupposti teorici chiave di tale piano vennero a costituire il nucleo della riforma di Cornwallis del 1793. Ivi, pp. 75 e segg. Per una collocazione della figura di Francis nel contesto di questa fase dell’impero in India si veda R. TRAVERS, Ideology and Empire in Eighteenth–Century India, cit., pp. 141–180.

106 P. FRANCIS, Plan for a Settlement of the Revenues (22 January 1776), in Id., Original Minutes, cit., p. 43.

107 Alla base della riforma vi era, inoltre, l’idea che oltre allo sviluppo dell’agri-coltura fosse necessaria l’apertura dei mercati in Bengala – e quindi la fine del mono-polio della Compagnia delle Indie Orientali, monopolio che si estendeva sia sui prodotti della terra sia su quelli delle manifatture – al fine di incentivare lo sviluppo economico della regione – riforma questa che, applicata due decenni più tardi, si rivelò estremamen-te penalizzante per l’agricoltura e il mercato interno bengalese in quanto il sistema di scambio locale e i prodotti nativi non potevano in alcun modo competere con i prodotti e la rete commerciale britanniche, tale che i primi vennero marginalizzati e ridotti ad uno stadio “quasi feudale”. R. GUHA, A Rule of Property for Bengala, cit., p. 49.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 145

mercato, era necessario, secondo Francis, rendere compatibili i cam-biamenti necessari con la struttura tradizionale della proprietà terriera, evitando così fratture e incongruenze che sarebbero state estre-mamente pericolose dal punto di vista sia dell’efficacia delle riforme sia del mantenimento del consenso nei confronti del governo colonia-le. In realtà, la stessa riforma della proprietà terriera, afferma Guha, rappresentò una trasformazione radicale degli equilibri e della strut-tura sociale presenti nelle campagne, e ciò dipese dall’interpretazione che intellettuali come Francis fecero di tali equilibri, interpretazione che non si fondava sull’analisi della reale materialità dei rapporti di produzione e di potere, ma su parametri sociali ed economici moderni e occidentali108. Francis, e con lui gli intellettuali che sostennero il progetto di Permanent Settlement, era convinto, infatti, a differenza della maggior parte dei suoi contemporanei, che il sistema tradizionale istituito sotto il dominio moghul non fosse propriamente “feudale”, in quanto in esso gli zamindar “possedevano” la terra che coltivavano e, di conseguenza, non erano tenuti a rimetterla al sovrano perché essa non era vincolata da alcun “contratto” di concessione109. Tale con-

108 R. GUHA, A Rule of Property for Bengala, cit., p. 41. Colui che più si rese

conto della sostanziale trasformazione che le riforme avrebbero apportato al sistema sociale indiano fu Law che, rifiutando l’idea che vi fossero forme di proprietà pri-vata moderna nell’India precoloniale e dunque che gli zamindar rappresentassero tradizionalmente la gentry indiana – egli era solito paragonare non a caso la realtà agricola e sociale dell’Inghilterra nel Medioevo e quella dell’India a lui contempo-ranea –, indicò nelle riforme lo strumento di una svolta radicale dell’economia in-diana che, abbandonando ogni aspetto “feudale” si sarebbe avviata ad un’economia agricola capitalistica. Per questo motivo egli si oppose sia all’idea che gli zamindar potessero rivendicare privilegi e diritti ereditari sulla terra in nome dell’appartenenza ad una presunta nobiltà – quando essi, agli occhi di Law, dovevano essere con-siderati esclusivamente come i “nuovi ricchi” – ed esercitare un qualsivoglia potere istituzionale a livello locale – come svolgere funzioni di giudici penali distrettuali e riscuotere le tasse. È necessario sottolineare che, in linea con Law, l’attenzione degli intellettuali come Francis ad evitare una rottura troppo netta con le tradizionali strut-ture della proprietà terriera nelle campagne del Bengala, non permeò in modo così profondo la filosofia del Permanent Settlement, alla base della quale vi era piuttosto una forte consapevolezza della potenzialità rivoluzionarie che quella particolare riorganizzazione della proprietà terriera avrebbe messo in campo.

109 P. FRANCIS, Plan for a Settlement of the Revenues (22 January 1776), in Id., Original Minutes, cit., p. 34. Francis era assolutamente contrario alla proclamazione del

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cezione rispecchiava, ha sottolineato Guha, la contraddizione insita nel pensiero fisiocratico, ossia quella contraddizione derivante dalla lettura del sistema agricolo europeo di fine Settecento così come di quello indiano, ancora essenzialmente caratterizzati da una struttura non–capitalistica, come se si trattasse di sistemi già avviati nel loro complesso all’economia di mercato, paragonabili alla realtà agricola inglese, lettura nell’ambito della quale la figura del proprietario potes-se essere equiparata a quella del landlord, una figura in grado cioè di reinvestire nella produzione la rendita ottenuta dagli affitti e dal pro-dotto della terra110. Il ceto zamindar doveva essere stimolato in quest’ottica a divenire una vera e propria aristocrazia terriera, una gentry nativa, in grado contemporaneamente di trasformare “definiti-vamente” l’economia agricola indiana in un’economia di mercato e di fungere da cinghia di trasmissione dell’autorità politica dal vertice (coloniale) alla base111 ― coerentemente all’idea fisiocratica per cui il “perfetto ordine sociale” è quello fondato sull’ineguaglianza, ossia su di una «general division of society between an enlightened minority in whom all authority was vested and a mass of people labouring for the

Re come “proprietario” delle terre indiane, coerentemente alla tradizione repubblicana a cui egli faceva riferimento. Egli lo aveva affermato con forza negando che i sovrani mo-ghul avessero posseduto in passato questo diritto, all’inizio della minuta. Ivi, p. 23.

110 Al fine di creare microproprietà individuali venne abolito il principio del levi-rato per le proprietà terriere più vaste – principio la cui applicazione era stata già ampiamente limitata da Hastings, per quanto in base a considerazioni del tutto di-verse –, mentre fu mantenuta per quelle più piccole, con l’idea che così facendo l’in-tervento di riorganizzazione della proprietà terriera non sarebbe risultato ecces-sivamente invasivo nei confronti delle tradizionali forme di proprietà. Cfr. R. GUHA, A Rule of Property for Bengala, cit., pp. 108–9.

111 In tal senso fin dal primo decennio del XIX secolo vennero non solo create strutture scolastiche e colleges, ma venne soprattutto incentivata la nascita di “asso-ciazioni” nell’ambito delle quali prese vita quell’elite politica nativa che per tutta l’epoca coloniale sarà il punto di riferimento del governo britannico e che sarà l’elemento “coagulatore” del movimento nazionalista e anticoloniale. Per ciò che ri-guarda il rapporto tra associazioni (create a Bombay, Calcutta e Madras negli anni Cinquanta del XIX secolo) e governo coloniale si veda A. SEAL, The Emergence, cit., pp. 194–244 e il già citato S.N. MUKHERJEE, Class, caste and Politics in Cal-cutta, 1815–50. Per uno sguardo sul rapporto tra cultura ed educazione orientalista e associazioni e sulla figura in tal senso centrale di Rammohun Roy, si veda D. KOPF, British Orientalism, cit., pp. 189–214.

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few who acted as their guardians»112. In tal senso Francis, e con lui Cornwallis, condannavano il Farming System di Hastings in quanto esso non fissava “una volta per tutte” la proprietà della terra, anzi, co-stringeva i proprietari a venderla all’asta qualora fossero in debito con il fisco e incrementava le tasse in base all’aumento dei profitti, impe-dendo l’accumulazione di capitali ― sistema questo che non era di beneficio, a suo avviso, nemmeno per il governo che si trovava a far fronte ogni anno al mancato pagamento del fisco da parte di contadini e proprietari, stremati dalla carestia e dall’esosità delle tasse governa-tive. Come i diritti sulla terra, anche l’imposizione fiscale, per evitare tali effetti, doveva essere fissata “una volta per tutte” e la riscossione rigidamente regolamentata da leggi scritte e resa quanto più pubblica e trasparente possibile. Inoltre, si sarebbe dovuta lasciare piena libertà per ciò che concerneva i contratti privati tra proprietari (zamindar) e contadini (ryot)113. Il concetto liberale e fisiocratico del “voluntary a-greement” venne, quindi, applicato alla realtà indiana, non tenendo conto degli enormi rischi d’abuso che si sarebbero profilati nel rappor-to tra proprietari e fittavoli, dato il potere non solo economico e socia-

112 Cfr. Ivi, p. 109. Si veda a proposito P. FRANCIS, Revenue Department (5

November 1776), in Id., Original Minutes, cit., pp. 126 e segg. 113 Hastings non condivideva le idee di Francis riguardo alla tassazione della pro-

prietà terriera poiché considerava il governo coloniale proprietario universale delle terre e, di conseguenza, non poteva concepire che esso autolimitasse il proprio po-tere di incrementare l’ammontare delle imposte. Gli zamindar non erano quindi per Hastings i titolari dei diritti di proprietà, sebbene egli considerasse fondamentale il ruolo di mediazione che essi ricoprivano. Il Governatore generale non era d’accordo nemmeno con l’impostazione liberista di Francis in quanto pensava che il non–intervento dello Stato nei rapporti privatistici tra zamindar e ryot avrebbe cagionato un totale abbandono dei secondi alla mercé dei primi. Cfr. G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., pp. 17–8. Per ciò che riguarda il rifiuto di Hastings di stabilire una tassa permanente si veda P. FRANCIS, Letter of W. Hastings to P. Francis (12 November 1776), in Id., Original Minutes, cit., pp. 142–55. Per ciò che riguarda la concezione che Hastings aveva del ruolo degli zamindar, si veda la mi-nuta The Governor–General and Mr. Barwell Propose the Following Plan for a Future Settlement of the Revenue (22 April 1775), in Original Minutes, cit., pp. 6 e segg. In questa stessa minuta Hastings e Barwell stabiliscono il diritto ereditario sulla terra per gli zamindar, pur limitandone temporalmente i contratti.

Capitolo II 148

le, ma anche politico e giuridico di cui vennero investiti gli zamin-dar114.

L’idea che permeava la riforma formulata da Francis e Cornwallis era che il conferimento dei diritti di proprietà agli zamindar avrebbe garantito matematicamente l’assunzione di responsabilità da parte de-gli stessi e la sicurezza della proprietà. In realtà, come ebbe a criticare John Shore, si trattava di una previsione alquanto “astratta” che non teneva conto della propensione dei nuovi proprietari a “conservare” la terra più che a “farla fruttare”. I nuovi landlords si sarebbero preoc-cupati, infatti, più di evitare illegalmente ― attraverso false dichia-razioni al fisco ― la confisca o la vendita obbligata che sarebbe se-guita per legge al mancato pagamento delle imposte, che di incre-mentare gli standard di efficienza e produttività115. Contro la trasfor-mazione dei landlords nativi nei moderni imprenditori agricoli gioca-vano, poi, sia l’esosità del fisco, che non avrebbe mai permesso l’accumulazione di capitali, sia il fatto che le tasse non fossero stabili-te in base al prodotto annuo di ogni singola proprietà o a partire da un calcolo approssimativo della produttività o del valore della terra stessa ― in base alla fertilità o all’accessibilità del terreno ―, ma fosse fis-sato in base alla grandezza dei lotti, penalizzando così la stragrande maggioranza dei proprietari terrieri116.

114 La fitta trama di abusi e di corruzione ad opera degli zamindar che ingenerò il sistema ideato e messo in atto da Cornwallis venne fatta emergere anche da J. Mill nella sua History. Cfr. J. MILL (1858), History, cit., vol. V, book VI, ch. VI, pp. 366–86 e la Evidence pronunciata di fronte al Select Committee Mill il 2 agosto 1831. ID., Minute of Evidence (2 August 1831), in R.S.C.H.C.A.E.I.C., Cox & Son, London 1832, p. 451. Cfr. infra par. 2.3.

115 Si veda ciò che afferma Francis a proposito ne Plan for a Settlement of the Revenues (22th January 1776), in Id., Original Minutes, cit., p. 58–61. Cfr. R. GUHA, A Rule of Property for Bengala, cit., pp. 194 e segg. Si confrontino queste affermazioni con quelle di Mill a proposito dell’incapacità degli zamindars di accu-mulare denaro contenute in Minute of Evidence (9 August 1831), in Third R.S.C.H.C.A.E.I.C., Cox & Son, London 1832, p. 482.

116 L’imposizione fiscale si fondava su di un calcolo approssimativo dell’intera produzione del Bengala (hustabood). P. FRANCIS, Plan for a Settlement of the Revenues (22 January 1776), in Id., Original Minutes, cit., p. 55. Francis non consi-derava legittimo affettuare un censimento o una registrazione catastale, in quanto a suo avviso si trattava di procedimenti che andavano a ledere il diritto fondamentale di esercitare e amministrare liberamente la proprietà. Cfr. Letter of P. Francis to W.

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Nonostante la sconfitta del progetto di riforma formulato da Francis nel Council di Calcutta nel 1776 e il suo ritorno in Inghilterra cinque anni dopo, le sue idee vennero di fatto assunte e organizzate nel piano di riforme di Cornwallis entrato in vigore nel 1793117. In linea con l’idea espressa da Francis e dagli altri riformatori secondo cui per gio-vare al Bengala era necessario consolidare a livello giuridico la pro-prietà privata della terra attraverso un’imposta fondiaria permanente e attraverso tribunali che tutelassero tali diritti di proprietà, Cornwallis mise in atto dal punto di vista politico–amministrativo una serie di ri-forme (Regulations) fondate sulla distinzione netta tra potere esecuti-vo e fiscale (esercitato dagli esattori a livello locale e dal Board of Revenue, supremo organo di controllo dell’amministrazione fiscale) e potere giudiziario e sul primato di quest’ultimo (erano i giudici a so-vraintendere alla riscossione delle imposte). Egli assegnò il potere giudiziario esclusivamente a giudici britannici che amministrarono le leggi sulla base delle procedure in vigore in madrepatria. Istituì un giudice europeo in ogni tribunale distrettuale (la zillah court che di-venne il fulcro del governo locale) con la funzione di esercitare la leg-ge sia in materia di diritto civile sia penale, affiancato nei processi più piccoli (ossia nelle cause che concernevano dispute su somme di dena-ro ridotte) da commissari indiani di vario tipo. Creò, poi, tribunali

Hastings (December 1776), in Id., Original Minutes, cit., pp. 168 e segg., e J. MILL (1858), History, cit., vol. IV, book V, ch. III, pp. 8–9. Cornwallis non fu dello stesso avviso e, nonostante il parere contrario della Court of Directors, volle istituire un’inchiesta in Bengala, decisione, questa, che ebbe il plauso di Mill, ma che fu an-che criticata da quest’ultimo per la sua inconcludenza e dispendiosità. Ivi, vol. V, book VI, ch. III, p. 331. Per quanto concerne questo dibattito si veda il paragrafo successivo.

117 E. STOKES, The English Utilitarians and India, cit., p. 28. In effetti le idee di Francis trovarono una buona accoglienza negli ambienti londinesi della Compagnia che iniziava a desiderare una soluzione definitiva al complicato problema dell’im-posta fondiaria. La prosecuzione delle indagini e l’attuazione di misure temporanee avrebbe comportato, infatti, «notevoli spese, irregolarità delle entrate fiscali, in-certezza per la popolazione, mentre un provvedimento permanente avrebbe sempli-ficato i compiti amministrativi e consentito un costante afflusso di risorse nelle casse del governo della Compagnia». Si veda P. FRANCIS, Observations on the Present State of the East India Company (1805–6), London, J. Ridgway, 2th edition. Tra-duzione mia.

Capitolo II 150

provinciali d’appello (a Murshidabad, Patna, Dacca e Calcutta) che avevano il compito di controllare l’operato dei giudici distrettuali ― si occupavano, infatti, delle cause civili più costose e dei crimini più gravi e del secondo grado di giudizio delle cause passate in giudicato in primo grado nei tribunali distrettuali ― e un Tribunale Supremo presieduto dal Governatore generale in persona. Sostituì, infine, coe-rentemente con l’approccio “regolamentatore” e anglicizzante che a-veva prevalso in materia fiscale e giudiziaria118, le milizie degli zamin-dar con un esercito regolare governativo organizzato in reggimenti distrettuali e sotto il controllo dei giudici distrettuali britannici.

Due furono i punti di massima distanza tra il progetto di Francis e

la riforma di Cornwallis e concernettero entrambi la questione del du-plice ruolo, privato e pubblico, della Compagnia delle India Orientali. Cornwallis non accolse, infatti, né l’idea di Francis di abolire il mo-nopolio della stessa che, anzi, ne risultò rafforzato, né di trasformarla in organo del governo imperiale di sua maestà. La concezione della Compagnia che permeava il Permanent Settlement e le riforme po-litico–istituzionali cornwallissiane era quella, infatti, di “agente degli interessi nazionali” sia nella sua veste di istituzione di governo sia di

118 In realtà un’espulsione massiccia dei nativi dall’apparato amministrativo co-

loniale si ebbe solo nel secolo successivo. Cfr. E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., pp. 26–7. Il progetto di anglicizzazione dell’apparato amministrativo vide contrapposti Francis e Cornwallis. Francis aveva espresso, infatti, l’idea che doves-sero essere assunti impiegati nativi al posto di funzionari europei per svolgere le funzioni di riscossione delle imposte, al fine di limitare i troppi episodi di corruzione in cui questi ultimi erano stati coinvolti. P. FRANCIS, Plan for a Settlement of the Revenues (22th January 1776), in Id., Original Minutes, cit., p. 29. Cornwallis non condivise quest’idea, anzi, avvicinandosi alle posizioni della Clapham Sect, dispose l’espulsione dall’amministrazione coloniale di tutti i non–europei. D’altra parte, se Francis non aveva caldeggiato l’evangelizzazione progressiva degli uffici pubblici del governo coloniale, prevedette altresì l’uso dell’inglese come lingua ufficiale del governo, precorrendo in tal senso la riforma avanzata da Macaulay, proposta, questa di Francis, che non venne fatta propria da Cornwallis. Francis, poi, non era d’accordo con l’idea di un’evangelizzazione massiccia della popolazione nativa, che a suo avviso era altresì impossibile visto l’attaccamente dimostrato da essa alle pro-prie tradizioni, ed era favorevole ad una limitata diffusione delle missioni. Cfr. P. FRANCIS, Observation on the Present State, cit., pp. 8 e segg., e soprattutto p. 13.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 151

società commerciale privata119. Francis, anticipando ― pur con esiti alquanto diversi ― le riflessioni di Adam Smith sul rapporto tra im-pero commerciale e sovranità imperiale, era convinto, al contrario, che per risolvere il fondamentale problema del disordine politico regnante in Bengala, determinato proprio dal doppio ruolo della Compagnia ― «the characters of Sovereign and Merchant are incompatible» ―, la sola strada percorribile, come scrisse a Lord North il 24 febbraio del 1775, fosse «an immediate Declaration of his Majesty’s Sovereignty over the Kingdoms of Bengal, Bahar and Orissa»120 ― soluzione que-sta che avrebbe necessariamente portato ad un radicale cambiamento dello status della Compagnia121.

119 Scrive Francis, parlando di sé, nelle sue Observations: «The author of Con-siderations on the Trade with India, has endeavoured to establish three porpositions: 1.That the embarassment of the Company have been occasioned by the mismanage-ment of the Court of Directors. 2. That the government of India should be trans-ferred to the Crown. 3. That it would be to the advantage of the British nation that the trade with India should be open to all the His Majesty’s subjects». P. FRANCIS, Observations on the Present State, cit., p. 52.

120 Ciò che Francis non aveva accettato della linea di governo messa in atto da Hastings era stato, infatti, il fatto di aver creato a suo avviso un “vuoto politico” at-traverso l’“abolizione de facto” della sovranità della dinastia Moghul e di aver col-locato, come scrisse in una missiva indirizzata a Lord Clive del 21 maggio 1775, tut-to il potere nelle mani della Corte Suprema, «strumento questo del personale dispo-tismo del Governatore generale». Citato in R. GUHA, A Rule of Property for Ben-gala, cit., pp. 145–8. Traduzione mia. Con l’approvazione da parte del parlamento del Regulating Act proposto da Hastings nel 1773, oltre ad alcune misure stretta-mente volte alla riduzione dei fattori di corruzione all’interno dell’apparato ammini-strativo coloniale, erano state varate, infatti, alcune riforme che furono all’origine dell’alto grado di confusione regnante nello stabilire compiti, gerarchie e discrezio-nalità tra gli organi più importanti dell’amministrazione britannica. Era stata creata la carica di Governatore generale con poteri di governo civile e militare in Bengala e di controllo sugli affari delle presidenze di Bombay e Madras senza però fissare li-miti precisi a tali poteri. Venne creato un pericoloso dualismo tra il Governatore generale e il neocostituito Tribunale Supremo di Calcutta (di nomina regia e con il potere di registrare le ordinanze del Governatore generale). La giurisdizione di quest’ultimo, poi, oltre ad essere fortemente imprecisa, era in conflitto, insieme a quella degli altri tribunali della Corona (di Madras e Bombay), con quella dei tribu-nali della Compagnia (che amministravano il diritto indù e musulmano a livello lo-cale).

121 La concezione di Stato coloniale portata avanti da Francis prevedeva l’istitu-zione di un “benevolent despotism” limitato al Bengala – Francis si opponeva alla

Capitolo II 152

Le riforme politico–amministrative di Cornwallis si andarono ad inserire nel quadro istituzionale fissato fin dal 1784 dall’East India Act di William Pitt122. Questo piano di riforme, che rimarrà sostan-zialmente in vigore fino alla proclamazione dell’impero in India, era il risultato di un compromesso tra il principio del controllo ministeriale e il principio dell’autonomia della Compagnia delle Indie Orientali. Con esso venne costituito, infatti, un Board of Control (commissione di controllo) composto da sei membri del Privy Council guidati dal Can-celliere e di nomina regia che aveva il compito di supervisione su tutti gli affari civili e militari in India e il potere di accedere ai documenti e alla corrispondenza di governo della Compagnia. Esso aveva poi il potere di comunicare con una commissione segreta di Directors della Compagnia nel caso in cui si fosse dovuta occupare di questioni parti-colarmente delicate. Ciò significava ridurre la già contratta autorità della Court of Proprietors ― l’assemblea dei maggiori azionisti della Compagnia. Il Board of Control, e dunque il re, avevano il potere, in-

trasformazione dell’India in “colony of settlement” e, dunque, ad un’ulteriore espan-sione territoriale e all’insediamento in massa di coloni – conforme al modello di governo dispotico che, secondo lo stesso Francis, era prevalso durante il regno dei Moghul. La volontà espressa da Francis di emulare in un certo senso il “dispotismo asiatico” partiva dall’idea – molto più vicina in un certo senso alla concezione mon-tesquiviana che a quella espressa da Hastings e Jones – che il popolo delle province del Bengala, dell’Orissa e del Bahar fosse “abituato” ad essere governato ar-bitrariamente e che il governo coloniale si sarebbe dovuto comportare come un’élite di palazzo in grado di impartire ordini, di essere rispettata, e di restare al contempo essenzialmente «distante dalla vita quotidiana di questi ultimi». Cfr. R. GUHA, A Rule of Property for Bengal, cit., p. 156.

122 Cfr. Considerations humbly submitted to the House of Lords, on the two East–India–Bills, brought into Parliament by Mr. Fox & Mr. Pitt with observations on Mr. Sheridan’s statement, T. Evans, London 1788. Il varo del Pitt’s East India Act del 1784 attraverso una declaratory bill nel 1788 pose fine al grande dibattito nato sul conflitto di potere tra Board of Control (creato con lo stesso Pitt’s Act) e Court of Directors – ossia tra il potere di controllo del governo e del re sulle attività della Compagnia delle Indie Orientali e l’autonomia dell’organo supremo di quest’ultima. Tale conflitto si era tradotto nella contrapposizione tra due proposte di riforma, quella avanzata da Fox – mirante a trasferire i poteri della Compagnia a commissari nominati dal parlamento – e quella avanzata da W. Pitt – che trasferiva tali poteri a commissari nominati dal re. Cfr. J. MILL (1858), History, cit., vol. V, book VI, ch. I, p. 67.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 153

fine, di approvare la nomina delle supreme cariche del governo colo-niale per quanto rimanesse ai Directors il potere di nominare tutte le altre. Questa legge, poi, escludeva la Compagnia dalla gestione dei traffici commerciali e del governo coloniale per trasferirli alla corona insieme all’intero ammontare delle proprietà della Compagnia e sosti-tuiva le truppe della Compagnia con le truppe reali ― impiegate dalla corona previo consenso del parlamento.

D’altra parte, l’autonomia della Compagnia venne accentuata me-diante l’ampliamento dei poteri del Governatore generale nelle preci-dencies di Bombay e Madras: vennero inclusi, infatti, anche quelli di controllo sul fisco e sugli affari giudiziari e venne svincolata l’autorità decisionale del Governatore oltre che dal controllo del Tribunale Su-premo (fatto già sancito con la riforma del 1781) anche dall’oppo-sizione nel Council (quest’ultima disposizione venne sancita nel 1786)123.

2.3. Le riforme politico–istituzionali proposte da James Mill La critica milliana alle riforme previste da Cornwallis non è di-

sgiungibile dalla descrizione delle stesse: essa appare come una sorta di commento teorico–politico alla filosofia di fondo sulla quale esse si basano e sull’efficacia della loro realizzazione124. In questo caso, come nel caso della descrizione del Farming System hastingsiano125 o del William Pitt’s East India Act126, viene riconfermata la duplice natura

123 Per tutte le riforme attuate da Cornwallis si veda ancora il Fifth R.S.C.H.C.A.E.I.C. (28 July 1812), pp. 12–76.

124 J. MILL (1858), History, cit., vol. V, book VI, chs. V, VI. 125 Ivi, voll. III, IV, book V, chs. I–III. 126 Ivi, vol. V, book VI, ch. I, pp. 67–70. Mill è assolutamente contrario alla cre-

azione di due organi paralleli di governo, il Board of Control e la Court of Directors, dotati degli stessi poteri e funzioni. Egli afferma che la stessa corruzione e venalità che hanno caratterizzato i membri della Court of Directors possono essere motivo del malgoverno del Board: non è creando un organo speculare – che all’avviso dei suoi sostenitori, può controllarne l’operato –, ma solo stabilendo un rigido controllo sulle attività dell’Assemblea dei direttori che è possibile ovviare a tale problema. L’India Act stabiliva, inoltre, che i funzionari della Compagnia che avessero com-messo un reato in India nello svolgimento delle loro funzioni sarebbero stati giudica-

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della History of British India: ovvero il suo essere al tempo stesso o-pera storiografica e trattato politico, fondata sul concetto di “judging history” e che orienta l’analisi dei fatti storici a una lettura “valuta-tiva” di essi, al fine della loro inclusione in un paradigma teorico uni-versale e della formulazione di precisi interventi politici da attuare nello specifico contesto indiano.

L’analisi di Mill, come è già emerso nei casi della trattazione delle caratteristiche delle civiltà indù e musulmana, tende perciò a se-lezionare alcuni fatti e questioni fondamentali della storia e della ci-viltà indiana “utili” a tale obiettivo. Per questo motivo, come ha sotto-lineato Guido Abbattista, la sua attenzione si focalizza soprattutto sul-la struttura politico–istituzionale e sul sistema di tassazione vigenti in India, mettendo in secondo piano «una conoscenza oggettiva della re-altà economica e istituzionale indiana. La preoccupazione fonda-mentale era, da un lato, quella di asserire l’arretratezza dell’India, dal-l’altro la validità universale del pensiero economico di Ricardo, oppu-re, altrove, della concezione benthamita dello Stato di diritto». «Non v’era in Mill», prosegue Abbattista, «un autentico desiderio di cono-scenza, come dimostrato da una ricerca di fonti che si arrestava esat-tamente nel momento in cui la tesi di fondo appariva confermata».127 Ecco allora che l’approssimazione ― nelle descrizioni geografiche e fisiche ― e la limitata documentazione ― Mill fa riferimento quasi ed esclusivamente al Codice di Menu e ad opere documentarie il cui va-lore non solo era stato messo talvolta in discussione da eminenti stu-diosi, ma che spesso erano in contraddizione tra loro128 ― divenivano ti in madrepatria, presso tribunali comuni – decisione osteggiata da Mill il quale prediligeva la formula dell’impeachment, come nel caso del processo a W. Hastings. Ivi, vol. IV, book V, ch. IX, pp. 396–412.

127 G. ABBATTISTA, James Mill e il problema indiano, cit., p. 128. 128 Le fonti utilizzate da Mill per analizzare le condizioni economiche, sociali e

politico–istituzionali dell’India, delle sue metropoli e delle sue periferie rurali, sono il Journey from Madras through the Counties of Mysore, Canara, and Malabar, re-datto da Francis Hamilton Buchanan e pubblicato a Londra nel 1807, le Indian Re-creations, consisting chiefly of Strictures on the Domestic and Rural Economy of the Mahomedans and Indoos del reverendo William Tennant, pubblicate a Edimburgo nel 1803 e le Considerations on the Present Political State of India del reverendo Alexander Fraser Tytler, pubblicate a Londra nel 1815, oltre agli Historical Sketches of South India, pubblicati a Londra nel 1817.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 155

assolutamente ininfluenti ai suoi occhi rispetto all’obiettivo primige-nio.

L’elaborazione teorico–politica contenuta nella History of British India di Mill sembra trarre la propria forza e solidità, più che dall’ade-renza alle caratteristiche specifiche dell’India a lui contemporanea, dalle riflessioni che in madrepatria e in Europa erano state elaborate nel grembo del pensiero illuminista e utilitarista129. Di fatto tale elabo-razione venne ad essere maggiormente contestualizzata da Mill nella sua veste di funzionario della Compagnia delle Indie Orientali e con-sulente del Select Committee della House of Commons, attività che necessariamente lo portava a “mediare” rispetto agli assunti teorici generali dell’Utilitarismo e a calare la riflessione nello specifico dei problemi legati all’amministrazione coloniale130. D’altra parte il ruolo duplice giocato dalla History of British India obbligò lo stesso Mill a rendere quanto più coerente possibile l’intervento teorico in India alle dottrine che egli stesso propugnava in madrepatria. Di qui l’attacco alla filosofia liberale alla base delle riforme cornwallisiane sulla base dei principi a fondamento della dottrina dello Stato utilitarista ― all’esaltazione del sistema della Common Law e al concetto di balance of powers, all’idea di un controllo “orizzontale” tra gli uffici, al prima-to del potere giudiziario, al concetto di Stato minimo, al progetto di creazione di una gentry nativa sul modello di quella inglese e di crea-

129 In tal senso il caso del rifiuto da parte di Mill dei risultati emersi dalle prece-

denti inchieste e dai censimenti catastali sulla proprietà terriera è emblematico. Mill è assolutamente consapevole del fatto che l’alto grado di approssimazione presente non dipende dalla volontà degli amministratori (è dovuto piuttosto alla difficoltà di dialogare con contadini e proprietari), d’altra parte l’obiettivo principale dello sto-rico è screditare la legittimità del sistema cornwallissiano. La difesa del sistema ryo-twar da parte dello stesso sembra allora originarsi molto più da esigenze e riflessioni “esterne” alla società agricola indiana, che da precise finalità “restaurative” rispetto alla realtà precoloniale. Cfr. infra, p. 128.

130 Si vedano, ad esempio, le Minutes of Evidence esposte da J. Mill il 16 feb-braio, il 21 febbraio e il 29 giugno 1832 contenute nel R.S.C.H.C.A.E.I.C. 1830–2 (16 agosto 1832) pubblicato nel gennaio del 1833. Un esempio rappresentativo di ta-le “mediazione” è contenuto nella seconda di queste minute: Mill esprime, infatti, le sue perplessità e preoccupazioni nei confronti dell’eventuale reazione della popola-zione a processi attuati dall’autorità coloniale nei confronti di nativi di alto rango. Ivi, p. 67.

Capitolo II 156

zione di un sistema fiscale permenente, che stavano a fondamento di tali riforme.131

La critica e il progetto di riforme che vengono opposte da Mill nel-la sua History of British India alla realtà politico–istituzionale in cui la sua attività di storico e funzionario si inscrive, traggono origine da al-cuni assunti fondamentali del pensiero utilitarista benthamita e millia-no, primo tra tutti il principio della “massima felicità per il maggior numero”. Tra essi centrale è il concetto di relativismo giuridico132, se-condo cui «the same law verbally would not be the same law really, when the sensibility of the two people is essentially different»133, indi-sgiungibile dall’affermazione della necessaria codificazione delle leg-gi affinché i diritti siano tutelati dall’arbitrio dei giudici e dal governo dei “Pochi”134. Dal punto di vista costituzionale e politico–ammi-nistrativo di fondamentale importanza vi è, poi, l’idea di un’orga-nizzazione verticale degli uffici e delle funzioni, strutturata secondo una rigida catena di comando e secondo il principio del “single–seatedness”, ossia quel principio enunciato da Bentham secondo cui «in each official situation, functionaries no more than one»135 al fine

131 Queste stesse critiche erano già state avanzate da alcuni funzionari della

Compagnia delle Indie Orientali, quali T. Munro, J. Malcolm, M. Elphinstone e C. Metcalfe. Nonostante il fatto che le loro argomentazioni, a sostegno di una politica volta a preservare la struttura sociale tradizionale, le consuetudini e le istituzioni in-diane precoloniali e a creare un potere fondato sulla persona e di matrice paternali-stica fossero molto distanti dall’approccio teorico–politico utilitarista, le soluzioni in campo politico–amministrativo e giudiziario che essi proposero tra la fine del Sette-cento e la prima metà dell’Ottocento furono ampiamente influenzate dalle riflessioni di Jeremy Bentham e James Mill. Cfr. E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., pp. 9–13.

132 J. BENTHAM (1793), On the Influence, cit., vol. I, pp. 165–95 ed ID. (1789), Introduction to the Principles, cit., vol. I, pp. 27–35.

133 Ivi, vol. I, p. 33. 134 J. BENTHAM (1790), Draught of a New Plan, cit., vol. IV, p. 285. Si vedano

anche ivi ID. (1808), Letter on Scoth Reform, vol. V, pp. 19 e segg., e l’argomentazione di Bentham in favore del giudice unico e della responsabilità indi-viduale contenuta nel Draught for the Organization of Judicial Establishment (1790), ivi, vol. IV, p. 325. J. MILL, Minute of Evidence (29 June 1822), in R.S.C.H.C.A.E.I.C. 1830–2, Cox & Son, London Jan. 1833, pp. 161–174.

135 J. BENTHAM (1830), Constitutional Code, cit., vol. IX, book II, ch. IX, p. 214 e ID. (1790), Draught of a New Plan, ivi, vol. IV, p. 289. Principio ribadito da J. MILL

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 157

di stabilire una responsabilità individuale rispetto alle scelte effettuate dai singoli funzionari in ogni settore politico–istituzionale. Viene, poi, riaffermato il primato dell’esecutivo sul potere legislativo e giudizia-rio che nella costituzione proposta da Mill per la Compagnia delle In-die Orientali si tradusse nell’assegnazione del potere legislativo all’organo esecutivo o Board of Directors, al cui controllo era anche sottoposto l’operato dei giudici e dell’organo giuridico superiore, la Corte Suprema. Non ultimo, infine, vi è l’attacco all’egemonia politica dell’aristocrazia terriera e ai suoi privilegi economici e sociali ribadito più volte da Mill in aperta critica al sistema zamindari stabilito con la riforma cornwallissiana136.

La stessa visione della natura e del ruolo della Compagnia delle In-die Orientali poggiava su tali assunti: Mill la definì, in un celebre pas-so della sua History of British India, attraverso una similitudine tra i due organi supremi della Compagnia, la Court of Proprietors e la Court of Directors, così come furono strutturate dalla Carta Costitutiva del 1773, e le due camere del parlamento inglese, con l’obiettivo di criticare la stessa costituzione inglese che ai suoi occhi appariva con-dizionata negativamente dalla supremazia del parlamento. Egli pose in evidenza, infatti, come, a differenza di quest’ultima, la Compagnia delle Indie Orientali avesse avuto a suo avviso la capacità di limitare i difetti del governo democratico accentrando tutti i poteri nell’organo esecutivo ― e oligarchico ― della Court of Directors137.

Il governo coloniale rappresentava, e doveva rappresentare ai suoi occhi, un governo dei “Più”138 che partecipavano indirettamente alla (1824), Jurisprudence, in Id., The Collected Works of James Mill, cit., vol. V, p. 38.

136 Cfr. J. MILL, Minute of Evidence (2 August 1831), in Third R.S.C.H.C.A.E.I.C., Cox & Son, London 1832, pp. 444–552. Questo attacco è coerente con ciò che Mill aveva affermato nel Essay on Government (1820), cit., p. 10.

137 J. MILL (1858), History, cit., vol. III, book IV, ch. I, pp. 3–4. Secondo Mill tutte le costituzioni democratiche tendono a divenire oligarchiche poiché la naturale propensione degli uomini, quando – in quanto sudditi – non sono chiamati ad agire, è quella di divenire apatici e poiché coloro – i governanti – che hanno particolari in-teressi ad agire nella sfera politica vi agiscono per massimizzare i propri benefici.

138 In tal senso l’India è un’eccezione nel panorama coloniale: la forma di gover-no assunta dalla Compagnia – ed ancor più se essa abbandonasse la gestione mono-polistica del mercato indiano – contraddice quell’affermazione di Mill posta in con-clusione dell’Essays on Colonies secondo cui il governo sulle colonie è un governo

Capitolo II 158

gestione degli affari “pubblici” attraverso un “organo esecutivo” i cui membri fossero eletti dall’assemblea degli azionisti. Nonostante il pa-radosso intrinseco al paragone proposto da Mill tra il parlamento ― che agisce ed è legittimato in virtù del fatto che esso è direttamente eletto dal popolo britannico ― e gli organi supremi della Compagnia delle Indie Orientali ― che agiscono e sono legittimati in quanto rap-presentanti degli interessi particolari, commerciali e politici, di mer-canti europei ― da tale descrizione emerge con forza un’idea di Stato coloniale fondato sul principio utilitarista del primato dell’esecutivo e sull’idea elaborata da Mill secondo cui il buon funzionamento dello Stato dipende dalla dignità, razionalità, credibilità e responsabilità del-la classe dirigente, la quale deve essere composta dagli elementi “mi-gliori” e più “capaci” della società che essa rappresenta139. Mill era dell’opinione, infatti, che per risolvere l’annosa questione del malgo-verno, degli innumerevoli episodi di corruzione, di incompetenza e di inadempienza all’alto compito che la Compagnia si era assunta, fosse necessaria la creazione di una classe di funzionari ― a cui è indi-rizzata la stessa History of British India ― in grado di comprendere e di soddisfare gli obiettivi del “buon governo” coloniale. Questi funzio-nari, posti ai vertici della gerarchia dell’apparato amministrativo, a-vrebbero goduto di un’ampia discrezionalità, dell’accentramento delle funzioni di controllo e del potere di impartire le linee del governo co-loniale, pur restando, in ultima istanza, subordinati al controllo “de-mocratico” della Court of Proprietors e del parlamento britannico. Nel modello d’istituzione politica postulato da Mill per l’India, infatti, non è contemplata la divisione di poteri, nel senso della britannica balance of powers: per questo egli condannò il Regulating Act del 1773 in cui veniva sancito il rafforzamento dei poteri del Governatore generale ―

che fa esclusivamente l’interesse di “pochi mercanti”. J. MILL (1798), Essays on Colonies, in Id., The Collected Works of James Mill, cit., vol. V, pp. 31–2,

139 Si vedano le caratteristiche che secondo Bentham sono richieste agli uomini di legge, ai giudici, nel Draught fot the Organization (1790), cit., vol. IV, p. 325, ciò che lo stesso stabilisce debbano essere le virtù di ciascun funzionario di stato in Constitutional Code (1830), cit., vol. IX, book II, ch. IX, pp. 214–5, e ciò che J. Mill afferma a proposito delle qualità che la classe dirigente è tentuta a possedere nell’Essay on Government (1820), cit., pp. 27 e segg., e nell’Essay on Education (1824), ivi, p. 193.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 159

che doveva limitarsi ad essere per Mill un “primus inter pares” e non una sorta di “monarca”140 ― e che svincolava la Court of Directors dal controllo dell’assemblea degli azionisti. Quest’ultima doveva rispetta-re in tutto e per tutto il mandato degli elettori della Court of Proprie-tors, gli interessi dei quali dovevano essere espressi mediante voto “pubblico” e rappresentati nella loro interezza: perché fosse assicurato il governo dei Più, la partecipazione alla scelta dei rappresentanti, in-fatti, non poteva essere ristretta “per censo”, poiché, oltre al fatto che «a small number of men are much more easily corrupted than a large; and, where the matter of corruption operates, much more sure of being corrupt»141, era diritto di tutti coloro che erano coinvolti in quanto “proprietors” nell’impresa politica ed economica della Compagnia controllare e giudicare l’operato dell’organo esecutivo142.

Nello Stato coloniale utilitarista il potere politico è nelle mani di uno solo ― secondo il principio benthamita del “single–seatedness” per il quale «the greatest happiness of the greatest number requires that every draught [...] be from beginning to end, if possible, the work of a single hand. Hands no more than one» ― formulato in aperta contraddizione con il principio liberale della “proliferazione” degli uffici e della check and balance, ossia del controllo orizzontale e reci-proco tra essi. Bentham e Mill consideravano, infatti, la logica della “proliferazione” dispendiosa, inefficace e all’origine della corruzione e del caos amministrativo che regnava sia in Gran Bretagna sia in In-dia. Perché, secondo Bentham e Mill, fosse possibile controllare effi-cacemente l’operato dei funzionari dello Stato, era necessario e “suffi-ciente” che, oltre a stabilire la responsabilità individuale rispetto ad esso, tale operato fosse “pubblico” e che il controllo fosse esercitato “in modo piramidale” dai funzionari superiori143.

140 «The power of Governor General over the whole royal and municipal justice

in Bengal, Bahar, and Orissa, is as an absolute and uncontrollable, as both those branches of justice are over the whole kingdom of Bengal». J. MILL (1858), His-tory, cit., vol. IV, book V, ch. VI, p. 250.

141 Ivi, vol. III, book IV, ch. IX, pp. 353 e segg. 142 J. MILL (1820), Essay on Government, cit., pp. 37–8. 143 Tale principio utilitarista è ben esemplificato dal ruolo di controllo che

Bentham assegna nell’ordinamento giuridico alla Corte Suprema o alle corti d’appello metropolitane sull’operato dei singli giudici dei tribunali di primo

Capitolo II 160

Perché tale sistema risultasse efficace ed equo, esso doveva essere fondato, agli occhi di Mill, su di un ordinamento giuridico positivo. Mill era convinto, infatti, che non fosse sufficiente amministrare il po-tere esecutivo e giudiziario solo sulla base di regolamenti144 e che fos-se necessario, in India come in madrepatria, creare un sistema di leggi codificate e fondate sui principi utilitaristi enucleati da Bentham. Coe-rentemente con tale concezione Mill aveva criticato nella sua History of British India sia il sistema politico–istituzionale attuato da Clive e Hastings e fondato sul Double Government sia il sistema di Cornwal-lis, fondato sul primato del potere giudiziario e sul sistema giuridico inglese145. Non esistendo, infatti, alcun codice giuridico precoloniale o coloniale e, dunque, alcuna garanzia rispetto all’equità della giustizia o tutela dall’abuso di potere, risultava alquanto inconsistente, a suo avviso, la presunzione di fondare il governo dell’India su norme e re-golamenti imprecisi, o sulla Common Law britannica, che oltre ad es-sere inefficace in sé, nulla aveva a che vedere con il contesto sociale e politico indiano ― «the system of English law was so incompatible with the habits, sentiments, and circumstances of the people, that, if attempted to be forced, even upon that part of the field of government which belonged to the administration of law, it would have sufficed to throw the country into the utmost disorder»146. In tal senso Mill aveva apprezzato la riforma applicata da Munro nel Madras e nelle Ceded and Conquered Provinces in quanto essa prevedeva la codificazione delle leggi indiane desunte dai testi sacri e la subordinazione del pote-re giudiziario all’esecutivo147. grado. Cfr. J. BENTHAM (1790), Draught for the Organization, cit., vol. IV, pp. 338–9.

144 La critica di Mill è esplicitamente rivolta al sistema dei regulations istituito da Cornwallis: essi non potevano in alcun modo sostituire agli occhi di Mill un codice uni-ficato di leggi. Cfr. J. MILL (1858), History, cit., vol. V, book V, ch. VI, pp. 425–6.

145 Nonostante le critiche espresse in merito alle riforme politico–istituzionali e alla riproposizione del sistema giuridico inglese di Cornwallis, Mill ne apprezzò lo sforzo regolamentatore e razionalizzante sia in materia amministrativa, sia giu-diziaria. Ivi, vol. V, book VI, ch. V, p. 363.

146 Ivi, vol. VI, book V, ch. VI, pp. 225. 147 Ivi, vol. VIII, book II, ch. XI, pp. 373–4. Cfr. T. MUNRO, Minute of Evi-

dence (15 April 1813), in Evidences on the R.S.C.H.C.A.E.I.C., Cox & Son, London 1813, pp. 274–88.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 161

Non era però sufficiente codificare le leggi native già esistenti: era necessario redigere un codice unitario non sulla base dei principi a fondamento dell’ordinamento giuridico inglese, bensì in conformità con quei principi e quelle classificazioni che avrebbero reso il sistema giuridico indiano un sistema razionale ed efficace (il riferimento di-retto di Mill è alla dottrina giuridica benthamita contenuta nell’Intro-duzione ai principi della morale e della legislazione, nel Constitu-tional Code e in Of Law in General)148. L’errore in Inghilterra, come in India, era stato quello di aver istituito tribunali prima ancora di aver fissato un corpo di leggi:

In England, extraordinary as it may sound, the courts have been at once tri-bunals, and law. In England, as in India, the courts were originally set up without law [...]. Englishmen in general have no conception of the extent to which they lie under a despotic power on the hands of the judges; and how deeply it concerns them to see that despotic power taken away149. Per ovviare a tale “dispotismo” era necessario, oltre alla creazione

di un codice unificato, strutturare il potere giudiziario in un insieme di molteplici tribunali sparsi sul territorio e organizzare i processi secon-do il principio benthamita della «cheapness, speed and semplicity»: i processi dovevavo essere brevi, il meno costosi possibile e fondati su procedure estremamente semplificate150. Dovevano perciò essere ridot-te sia le esose parcelle dei giudici, sia il numero degli intermediari tra potere giudiziario e popolo (avvocati, interpreti, giuristi di vario tito-lo). Infine doveva essere cancellata la distinzione “pecuniaria” vigente ― che individuava tribunali diversi a seconda dell’ammontare della

148 J., MILL (1858), History, cit., vol. V, book VI, ch. V, p. 364. Questi principi

vengono enucleati con maggiore precisione da Mill in coincidenza della descrizione dei capi d’accusa e degli atti del processo di impeachment contro Warren Hastings, e in particolare nella trascrizione delle critiche di Burke, pubblicate nel «Journal of Lords», a tale processo e al sistema della Common Law in generale. Cfr. ivi, vol. V, book VI, ch. II, pp. 74–200, 210.

149 Ivi, p. 363. 150 Si veda ciò che aveva affermato Bentham sulla moltiplicazione e distribuzio-

ne dei tribunali locali. J. BENTHAM (1790), Draught for the Organization, cit., vol. IV, pp. 328–9. Si veda anche J. MILL, Minute of Evidence (29 June 1832), in R.S.C.H.C.A.E.I.C. 1830–2, Cox & Son, London Jan. 1833, pp. 167–8.

Capitolo II 162

somma disputata ― per far posto ad una distinzione “territoriale”, se-condo la quale i processi sarebbero stati eseguiti in primo grado da tribunali locali e in appello da tribunali presenti solo nelle città più grandi151.

Controllo dall’alto, sobrietà, risparmio e rigidità nell’assegnazione degli uffici, da una parte, e necessità di adeguare le strutture ammini-strative e le leggi al contesto, dall’altra, erano i principi sulla base dei quali doveva essere organizzato ogni settore dell’apparato di governo. Si trattava cioè di adattare gli assunti fondamentali alla base della con-cezione utilitarista dell’istituzione–Stato alle “necessità” della società indiana ― necessità che erano intese in termini di scarto temporale nella condizione di progresso che essa presentava. L’aver considerato, infatti, la civiltà indù alla stregua della propria aveva indotto gli am-ministratori coloniali, a suo avviso, a commettere in passato errori grossolani che non solo avevano causato distorsioni e inefficienze, ma avevano soprattutto deviato l’azione di governo dal vero obiettivo che ad essa Mill associava152. Si trattava di mantenere o “recuperare” quel-le istituzioni e quelle forme di organizzazione proprie della società indiana che meglio si accordavano ad una concezione progressiva del-lo Stato ed inserirle nel quadro di riforme che avrebbe permesso all’India e agli indiani di procedere nella scala delle civiltà. Per assol-vere il ruolo di “motore” di tale progresso la Compagnia delle Indie avebbe dovuto abbandonare ogni attività commerciale, per occuparsi solo ed esclusivamente dell’assolvimento degli oneri di governo153.

151 In quest’ottica furono formulate da Mill le critiche al sistema istituito con il Regulating Act da Hastings nel 1773 e a quello istituito da Cornwallis. Cfr. J. MILL (1858), History, cit., vol. IV, book V, ch. VI, pp. 226–44 e vol. V, book VI, ch. VI, pp. 395 e segg. Si veda anche ID., Minute of Evidence (9 August 1831), in Third R.S.C.H.C.A.E.I.C., Cox & Son, London 1832, p. 471. Cfr. J. BENTHAM (1790), Draught for the Organization, cit., vol. IV, p. 331.

152 J. MILL (1858), History, cit., vol. II, book II, ch. X, p. 107. 153 Mill stabilisce il primato dell’azione di governo sulle attività economiche e

mercantili: egli è convinto, infatti, che il mercato sia esclusivamente il luogo dello scambio e che la produzione della ricchezza dipenda da altri fattori, quali la produ-zione (agricola e manifatturiera) e adeguate politiche fiscali, opinione questa che provocò critiche accesissime da parte dei mercanti di Calcutta e dei politici ed intel-lettuali liberali in India come in madrepatria. Cfr. J. MILL (1808), Commerce De-fended, in Id., The Collected Works of James Mill, cit., vol. III, pp. 13–6 e pp. 23–

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 163

L’istituzione coloniale immaginata da Mill, che prevedeva la tra-sformazione dell’esecutivo in organo al vertice dello Stato coloniale, superiore anche alle Corti Supreme154, formato da un unico consiglio legislativo composto da pochi esperti e dotato di un’autorità simile a quella del parlamento britannico155, l’istituzione del giudice unico, la svalutazione del ruolo delle giurie156, l’assunzione di procedure giudi-ziarie semplici e veloci in opposizione al carattere complesso e parti-colarmente ricco di cerimoniali delle procedure giudiziarie britanni-che, gli causò l’accusa da parte dei politici, degli amministratori colo-niali e degli intellettuali whig di promuovere riforme essenzialmente illiberali e un–English. Mill si difese da tali accuse sostenendo che l’enorme potere che il suo sistema aveva conferito all’organo esecuti-

30; Per una lettura critica si veda K.E. KNORR, British Colonial Theories 1570–1850, cit., ch. VIII. I timori espressi da Londra, sia dal parlamento (nella figura di Lord Grenville) sia negli alti uffici della Compagnia, e non condivisi assolutamente da Mill, nei confronti della possibilità di estinguere il monopolio di quest’ultima erano soprattutto legati all’idea che l’apertura dei mercati indiani avrebbe reso esigui i dividenti della Compagnia rendendo impossibile l’estinzione dell’enorme debito da essa accumulato nei decenni e all’idea che la “corsa alle ricchezze indiane” avrebbe cagionato un vero e proprio “travaso” di popolazione dalla madrepatria alla colonia. J. MILL (1858), History, vol. VIII, book II, ch. XI, pp. 398–401. Si noti come le pa-role pronunciate da Mill contro il monopolio della Compagnia mostrino un’inte-ressante contiguità con quelle utilizzate a tal fine da Francis trent’anni prima. Cfr. anche ivi, vol. VII, book I, ch. VIII, p. 403.

154 Ivi, vol. VIII, book III, ch. VI, pp. 201–3. 155 La Court of Directors è composta da Committees che amministrano in sé i po-

teri giudiziario ed esecutivo e da un Council che detiene il potere legislativo. Ivi, vol. III, book IV, ch. I, pp. 3–16.

156 I processi devono comporsi di una fase istruttoria, interrogatoria e del giudi-zio, dove non è previsto l’uso della giuria popolare, il cui giudizio è da Mill conside-rato inattendibile, vista l’accentuata tendenza della popolazione nativa a prestare falsa testimonianza. J. MILL (1858), History, cit., part. I, vol. V, book VI, ch. VI, pp. 433–6. Tale scetticismo era stato espresso da Bentham, il quale aveva limitato moltissimo i casi in cui fosse previsto l’uso della giuria nella sua proposta di ordi-namento giuridico per la Francia rivoluzionaria e per la Scozia. J. BENTHAM, Draught for a New Plan, in Id., The Works of Jeremy Bentham, cit., vol. IV, p. 303 e ID. (1808), Letter on the Scotch Reform, ivi, vol. V, pp. 29 e segg. In quest’ultima Bentham descrive i difetti legati all’uso di giurie, uso definito “superfluo” dallo stes-so ai fini della giustizia e sottoposto ai rischi di «delay, vexation, and expense». Ivi, pp. 29–30.

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vo, che deteneva in modo assoluto anche il potere di legiferare, raffor-zato dalla costruzione di un’istituzione centralizzata e uniforme, sa-rebbe stato limitato dalla codificazione delle leggi, dalla tutela della libertà, dalla sicurezza della proprietà privata e dallo stesso controllo a cui sarebbero state sottoposte le istituzioni di governo, dispositivi che avrebbero garantito che esso non fosse l’espressione degli interessi dei Pochi.

Di fatto, nonostante i dispositivi di controllo e di garanzia posti in essere dal sistema milliano al fine di mitigare lo strapotere del Gover-natore generale e del suo consiglio, l’istituzione politica coloniale ipo-tizzata da Mill, coerentemente alla dottrina utilitarista di Bentham, si configurava come estremamente forte e invasiva rispetto alla vita pri-vata dei sudditi, tale che essa non assolveva esclusivamente al ruolo di garante dell’ordine sociale, contro abusi ed insubordinazioni, e di am-ministrazione delle ricchezze della colonia, ma anche e soprattutto al ruolo di “provider” della felicità dei sudditi157. Essa si sarebbe posta come una sorta di istituzione educatrice onnicomprensiva in grado di istruire i nativi su cosa fosse la felicità, intesa sia in senso morale, sia in senso politico, sia in senso economico, e sugli strumenti per raggiunger-la.158 Ruolo, questo, che essa avrebbe espletato accentrando in sé il pote-re legislativo e il potere giudiziario locale e superiore, attuando un’in-tervento diretto nell’economia agricola indiana e creando un sistema scolastico controllato dalla stessa Compagnia delle Indie Orientali.

L’obiettivo del governo era, quindi, per Mill, quello di provvedere alla felicità, e nello specifico al benessere economico, della comunità, attraverso la redistribuzione dei profitti e del lavoro tra i suoi sudditi, nativi e britannici, in vista della creazione in India di una “società competitiva”, come ha sottolineato Eric Stokes, «based on individual rights in the soil, depended as much upon the revenue assessment, and

157 Cfr. W.H. BURSTON, James Mill on Philosophy and Education, cit., p. 118. 158 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. V, p. 201. In tal senso la cri-

tica milliana al dispotismo indù e musulmano e alla natura servile delle popolazioni indiane sviluppata nei primi libri della History è preambolo esplicito all’idea secon-do cui «an authoritarian government would best serve the natives of India. A pater-nalist state deemed to be the remedy for despotic excesses». S. SEN, Distant Sover-eignty, cit. p. 99.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 165

the registration of landholdings which accompanied it, as upon the su-perstructure of judicial codes and establishments»159.

Perché tale società fosse realizzata era necessario, secondo Mill, avviare un processo di riorganizzazione della proprietà della terra e di individuazione dei titolari dei corrispondenti diritti, processo questo che non poteva prescindere dalla classificazione e dalla registrazione catastale: solo individuando i legittimi proprietari sarebbe stato possi-bile, infatti, non solo amministrare efficacemente il fisco, ma soprat-tutto esercitare equamente il potere giudiziario160.

Mill, d’altra parte, era del tutto consapevole di quanto fosse diffici-le venire a capo del complesso panorama delle forme di proprietà del-la terra esistenti in India:

[…] Equal dishonesty on the one part, and ignorance and carelessness on the other, had in like manner vitiated much of the information that had been col-lected with regard to the distribution of the lands, and the demands to which they were justly liable. Eppure, the investigation was to be conducted, not with the object of increasing the public revenue, but in order to obtain an accurate knowledge of the real con-dition of the agricoltural population, and the resources of the country, with a view to secure the prosperity of the people, as much as the equitable claims of the State161. Mill individuava nei contadini (ryot) coloro che potevano effica-

cemente fungere da agenti della trasformazione dell’economia agrico-la indiana in un’economia di mercato: egli era convinto, infatti, che solo i coltivatori diretti, e non i proprietari, avessero interesse a rein-vestire capitali nella produzione agricola in quanto primi beneficiari del rapporto tra la diminuzione del carico di lavoro e l’aumento della produttività della terra. I contadini sarebbero dovuti diventare perciò

159 E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., p. 81. 160 Per questo motivo Mill plaudirà entusiasta ai risultati dell’inchiesta sulla terra

avviata dal Governatore generale Bentick nel 1831. J. MILL (1858), History, cit., vol. VIII, ch. VI, p. 207. Si veda anche ID., Minute of Evidence (4 August 1831), in Third R.S.C.H.C.A.E.I.C., Cox & Son, London 1832, p. 455.

161 J. MILL (1858), History, cit., vol. VIII, book II, ch. XI, pp. 388–9.

Capitolo II 166

gli esclusivi titolari della proprietà privata della terra ― senza la me-diazione dei contratti d’affitto: per fare ciò era necessaria l’eliminazio-ne delle innumerevoli forme di proprietà non individuale, dei diritti ereditari sulla terra e del latifondo, forme queste che, secondo Mill, non erano date tradizionalmente, ma erano state istituite per volere del potere coloniale in virtù di interpretazioni e obiettivi da lui non condi-visi ed “essenzialmente errati”162.

È a tal fine che le proprietà contadine dovevano essere frazionate e ridotte in piccole dimensioni ― Mill, come già Hastings e Francis, prevedeva la sospensione della legge del levirato per le proprietà più grandi ― e rese facilmente commercializzabili163. Solo attraverso la creazione di un fluido mercato della terra era possibile, infatti, agli oc-chi di Mill, evitare la creazione di una forte nobiltà terriera in grado di acquisire i privilegi legati al latifondo ― gli stessi che la gentry ingle-se esercitava in madrepatria ― sia nei confronti dei contadini sia nei confronti dell’istituzione politica coloniale164. In tal modo non solo si sarebbe ovviato al problema della creazione di un “governo dei Po-chi”, in linea con la critica benthamita al governo aristocratico, ma so-prattutto si sarebbe rafforzata l’autorità delle istituzioni coloniali, la quale sarebbe rimasta unica ed indiscussa non dovendo negoziare il proprio potere con un eventuale potentato indiano postosi come inter-mediario dell’espletamento delle funzioni di governo165. L’amministra-zione coloniale, infatti, avrebbe dovuto assumere in sé ogni funzione, senza demandarne lo svolgimento ad alcun corpo “estraneo” alla me-desima istituzione: ecco perché Mill aveva apprezzato la riforma ap-plicata da Munro, in quanto essa, fondandosi sulla riscossione diretta

162 Ivi, vol. V, book VI, ch. V, pp. 347–9. 163 La riforma della proprietà terriera e del sistema fiscale, solo abbozzata nella

History, viene più compiutamente descritta da Mill nel saggio già citato Observa-tions on the Land Revenue of India allegato alla documentazione del Select Commit-tee of the House of Commons del 1832.

164 J. MILL (1858), History, cit., vol. V, book VI, ch. VI, p. 372. Mill cita il Fifth Report (1810).

165 Ivi, vol. I, book II, ch. V, pp. 214–9 e ivi, vol. VI, book VI, ch. V, pp. 345–9. La teoria milliana che discende dalle critiche esposte al Permanent Settlement di Cornwallis deriva da una rielaborazione delle teorie ricardiane contenute nei Princi-ples. Cfr. J. MILL (1820), Elements of Political Economy, cit., vol. IV.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 167

della tassa fondiaria imposta ai ryot aveva eliminato la necessità del-l’intervento di funzionari intermedi166. Oltre ad essere a rischio di abu-so, poiché incontrollato e non sottoposto a regolamentazione, il potere conferito dal Permanent Settlement agli zamindar, proseguiva Mill, era anche infondato poiché i loro presunti diritti “tradizionali” sulla terra, erano smentiti dal fatto che essi si erano sempre occupati solo ed esclusivamente della riscossione dei tributi a livello distrettuale ― senza possedere la terra o essere titolari per via ereditaria della fun-zione esattoriale167. La volontà dei legislatori coloniali di assegnare agli zamindar la titolarità dei diritti di proprietà e il corrispondente rifiuto di riconoscerla ai contadini era derivato, secondo Mill, dal ti-more dell’eccessiva instabilità che il sistema ryotwar avrebbe portato con sé. Eppure, proseguiva il filosofo, in passato «by custom, the pos-session of the ryot became [...] a permanent possession [...] and no violation of property is more flagrant than that by which the tenure of the ryot is annulled»168.

In quest’ottica, l’idea sostenuta dagli orientalisti e alla base del Farming System di Hastings, secondo cui in India la proprietà della terra era nata come “bene collettivo”169 e non come in Occidente attra-

166 Si veda J. MILL, Minute of Evidence (2 August 1831), in R.S.C.H.C.A.E.I.C., Cox & Son, London 1832, p. 449. Il sistema di Lord Munro, alternativo al Perma-nent Settlement, venne applicato nelle Ceded and Conquered Provinces: si trattava di una riforma fondata sulla proprietà privata dei ryot e sull’istituzione del primato del potere esecutivo e di riscossione delle imposte rispetto al potere giudiziario.

167 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. V, pp. 220–1. Mill era con-vinto che “tradizionalmente” la terra in India appartenesse a chi la coltivava, idea questa che egli aveva già espresso negli Elements of Political Economy (1820), cit., vol. IV, p. 249. Le stesse argomentazioni contro il sistema zamindari e a favore del sistema ryotwari si trovano nelle già citate deposizioni che furono rese da Munro al Select Committee of the House of Commons nel 1812.

168 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. V, p. 223. Si veda anche la testimonianza di J. MILL, Minute of Evidence (9 August 1831), in Third R.S.C.H.C.A.E.I.C., Cox & Son, London 1832, pp. 502–22, in difesa del sistema ryotwari di fronte al Select Committe.

169 Mill afferma che se la seconda inchiesta agraria aveva rivelato che il sistema della proprietà vigente nelle campagne era molto complesso e che prevedeva forme di proprietà collettiva, tali forme non erano “tradizionalmente” date, tramandate dal-l’antichità secondo parametri ben precisi: Mill sostiene che mai esistettero leggi che ne fissarono le regole o le caratteristiche e che si trattava di pratiche consuetudinarie

Capitolo II 168

verso l’atto “individuale” del coltivarla, dimostrava per il filosofo tutta la sua infondatezza e qualsiasi progetto che avesse fissato la durata del contratto di proprietà della terra ― come il sistema di Hastings e il Permanent Settlement ― contraddiceva la “tradizionale” fluidità dei rapporti di proprietà170.

Inserendosi nel dibattito apertosi nuovamente sotto il governatorato di Bentick (1829–1835) sull’efficacia o meno del Permanent Settle-ment ― negata dal Governatore generale ma sostenuta strenuamente dalla Court of Directors ― Mill aveva affermato che l’applicazione di un regime fiscale permanente, oltre ad essere inefficace e irrazionale per principio, era al tempo del tutto prematura, visto lo stato ancora arretrato dell’agricoltura indiana171. Egli propose allora un “moderate settlement” che permettesse ai contadini di accumulare una piccola somma di denaro e che prevedesse una tassa variabile: «as long as the Government constitutes itself sole landlord, and appropriate the whole, or nearly the whole, of the rent, there can be no accumulation of capital, no advance in wealth, no creation of collateral resources among the mass of the population, for whatever period the assessment may be fixed. A moderate rather than a perpetual settlement is the real want of the people»172. D’altra parte non doveva essere la Compagnia, e il suo governo nello specifico, ad essere il titolare del diritto assoluto sulla terra, bensì il sovrano173.

alquanto recenti. Le comunità tra cui la terra è divisa, prosegue Mill, si formarono come conseguenza di fenomeni migratori, di catastrofi naturali o invasioni esterne, in ultimo quella britannica: di conseguenza è errato supporre che “in origine” vi fos-se la proprietà collettiva. J. MILL (1858), History, cit., vol. VII, book I, ch. VII, p. 310–5.

170 Ivi, vol. I, book II, ch. V, p. 209. 171 Ivi, vol. VII, book I, ch. VII, p. 324. 172 Ivi, vol. VII, book I, ch. VII, p. 327. 173 Questa idea viene mutuata da Robertson. Cfr. W. ROBERTSON (1792), A

Historical Disquisition, cit., app., pp. 241–2. È interessante confrontare la posizione di Mill con l’idea espressa da Grant e Shore secondo cui la Compagnia era la sola proprietaria, in quanto “potere dispotico” che si trovava a fare le veci dei precedenti sovrani indiani. J. SHORE, Minute on the Right of zemindars and talookdars, re-corded on the proceeding of Government in the Revenue Department (2 April 1788), Fifth R.S.C.H.C.A.E.I.C. (28 July 1812), W.K. Firminger (ed.), Calcutta 1917, p. 738.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 169

Alla base del programma di riforme portato avanti da Mill, era l’idea, infatti, secondo cui solo il riconoscimento del territorio indiano come “bene dello Stato” e la riduzione delle proprietà private dei con-tadini a mero corollario della proprietà statale avrebbe potuto contem-poraneamente “proteggere” il ceto contadino e garantire e rafforzare il dominio coloniale in India. Il diritto di proprietà del sovrano su tutta la terra discendeva, secondo Mill dal fatto che egli fosse il rappresentan-te del corpus sociale imperiale. Egli avrebbe “suddiviso” questa terra tra i sudditi come già era accaduto, secondo Mill, in passato e in parti-colare nella tradizione musulmana, descritta dal Code of Menu. Questa idea, quindi, non contraddiceva l’assunto secondo cui fossero i conta-dini (ryot) i titolari del diritto di proprietà individuale della terra, af-fermava Mill, in quanto tale diritto sarebbe stato “particolare” e “so-stanziale” rispetto al diritto regio, “formale” e “universale”174.

Tale diritto di proprietà universale non equivaleva, agli occhi di Mill, al diritto assoluto su di essa e sulla totalità dei suoi prodotti. Allo stesso tempo i contadini non “avrebbero posseduto” la terra tout court ma solo in virtù del fatto che essa era di “proprietà del sovrano”: il loro diritto su di essa non sarebbe stato, quindi, “primitivo”, bensì “derivato” ― il caso contrario avrebbe annullato il diritto di proprietà del re.

In tal senso venne concepita da Mill l’imposta fondiaria: essa trae-va la propria legittimità dal fatto che era conforme agli oneri legati alla relazione esistente tra proprietario universale e proprietari partico-lari ed aveva le stesse finalità del frazionamento della proprietà terrie-ra. Quest’ultima, infatti, aveva l’obiettivo di impedire l’accumulo di capitali, ma allo stesso tempo di lasciare ai contadini quei mezzi attra-

174 J. MILL (1858), History, cit., vol. VII, book I, ch. VII, p. 298. Le tasse, af-

ferma Mill, sia sotto il dominio indù sia sotto quello musulmano, non erano pagate in denaro bensì in prodotti della terra. Esse sottraevano ai contadini quasi l’intero prodotto del loro lavoro, lasciando loro il minimo indispensabile per sopravvivere. Successivamente, sotto gli ultimi governi precoloniali, la tendenza fu quella di prele-vare quasi tutto il prodotto annuo lasciando in miseria i ryot – che spesso erano co-stretti ad abbandonare le terre. A ciò si aggiunse, prosegue Mill, il fatto che con il governo britannico non fu più il re a raccogliere le tasse, sulla base dell’esclusivo di-ritto di proprietà sulla terra, e a goderne i proventi, ma fattori e zamindar i quali por-tarono con la corruzione e l’estorsione al definitivo caos e declino del paese. Ivi, pp. 298 e segg.

Capitolo II 170

verso i quali essi potessero rendere maggiormente produttiva la terra, in linea con l’idea liberale secondo cui il sistema fiscale doveva per-mettere ai cittadini il massimo godimento del frutto del loro lavoro ― «light taxes and good laws» ― e in opposizione ai sistemi fiscali po-stulati da Hastings175 e Francis, ma anche da Munro176 e posti in vigore tra il 1772 e il 1793, fortemente criticati dal filosofo utilitarista perché impedivano, essendo estremamente esosi, la possibilità di disporre di capitali da reinvestire nell’agricoltura.

There are two primary qualities desirable in a system of taxation; and in them every thing is included. The First is, to take from the people the smallest quantity possible of their annual produce. The Second is, to take from them that which is taken with the smallest possible hurt or uneasiness177. Nel sistema fiscale ipotizzato da Mill, fondato sulla teoria della

“rendita” elaborata da Ricardo178, la tassa sulla proprietà doveva prele-vare gran parte o l’intero prodotto netto o rent, ottenuto sottraendo dal ricavo il tasso di profitto del capitale utilizzato e i salari, in modo tale

175 Pur celebrando l’assunzione del Diwani nel 1765 da parte della Compagnia come il momento cruciale che aveva segnato la trasformazione di essa in organo di governo dell’India, Mill ne deplora le circostanze, definendo il monopolio – non tassato – di tale riscossione una sorta di furto ad opera di Clive e della Compagnia. Il fatto che Hastings, successore di Clive, l’avesse mantenuto senza riformarlo, ossia senza cancellarne le iniquità e le storture, era per Mill l’elemento più evidente del malgoverno coloniale, in linea con le critiche che trent’anni prima aveva espresso Edmund Burke. J. MILL (1858), History, cit., vol. III, book IV, ch. V, p. 237.

176 Munro aveva stabilito – nelle Ceded and Conquered Provinces – la tassazione sul prodotto lordo, misura, questa, che agli occhi di Mill, non teneva conto delle spese e dei fattori imprevedibili che influenzavano la rendita della terra. Mill, poi, si espresse negativamente sul riconoscimento della titolarità dei diritti sulla terra che la riforma Munro accordava ai ryot senza che fosse stato previamente sancito su di essa il diritto della corona. Cfr. E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., p. 92.

177 J. MILL (1858), History, cit., vol. I, book II, ch. V, p. 202. 178 D. RICARDO (1817), Principi di economia politica e dell’imposta, in Opere

di David Ricardo, cit., vol. I. J. MILL, Elements of Political Economy del 1820, cit., vol. IV, pp. 200–1; ID., Minute of Evidence (18 August 1831), in Third R.S.C.H.C.A.E.I.C., Cox & Son, London 1832, vol. V, pp. 565 e segg., e nelle Evi-dences del 19 e 23 agosto, pp. 569–97. Cfr. E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., pp. 88–90; E. HALÉVY (1955), The Growth of English Radicalism, cit., pp. 360–2; J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginigs, cit., p. 159.

L’applicazione delle dottrine utilitariste in India 171

da evitare l’accumulo di denaro, l’allargamento indiscriminato delle proprietà terriere e, di conseguenza, la trasformazione dei contadini in latifondisti. Non si trattava quindi di una tassa calcolata sulla base del-la mera proprietà terriera né di una tassa che incideva direttamente sui prezzi o sui salari: essa faceva riferimento al prodotto annuo, senza penalizzare, agli occhi di Mill, i coltivatori sfortunati o privilegiare coloro che possedevano un maggior numero di acri o una terra più fer-tile179.

Dal modello fiscale elaborato da Mill emerge la contraddizione in-trinseca al pensiero riformatore di James Mill tra, da una parte, l’idea della necessaria riduzione dell’intervento pubblico in campo economi-co ― che doveva essere azzerato per ciò che riguardava le attività in-dustriali e commerciali gestite da europei –, intervento che doveva li-mitarsi alla riscossione delle imposte, e, dall’altra, una concezione del sistema fiscale, fondato sull’imposta progressiva, al limite dell’idea liberale di “tassa minima” e improntata sull’idea di una gestione diret-ta da parte del governo delle operazioni di riscossione. Questo secon-do aspetto della teoria milliana venne fortemente criticato dai sosteni-tori liberali del Permanent Settlement di Cornwallis che avevano visto nella mediazione degli zamindar e nella fissazione dell’ammontare delle tasse una forma di tutela dei singoli proprietari nei confronti del-lo Stato.

Nonostante tali critiche, le idee di Malthus, Ricardo, Bentham e Mill vennero fatte proprie e applicate da tutta una serie di amministra-tori coloniali, tra cui Munro, Holt MacKenzie (segretario del supremo governo di Calcutta) e il Governatore generale William Bentick ― i cui sistemi si fondarono sull’idea utilitarista che il benessere collettivo e il progresso dipendessero dalla creazione della proprietà individuale della terra, dalla limitazione del latifondo e del potere dell’aristocrazia terriera e su di un’idea di Stato coloniale estremamente forte e struttu-

179 J. MILL (1858), History, cit., vol. VII, book I, ch. VII, p. 325. Si vedano

anche ID., (1820), Elements of Political Economy, cit., vol. IV, pp. 29–39, 252. «Rent [...] is the difference between the return made to the more productive portions [of land], and that which is made to the least productive portion, of capital, em-ployed upon the land». Ivi, p. 33.

Capitolo II 172

rato dalla metropoli ai villaggi ―, anche se, di fatto, l’attuazione dei provvedimenti da essi elaborati restò sempre sospesa o parziale180.

Resta il fatto che le teorie milliane sulla rendita e l’imposta fondia-ria, fatte proprie dal figlio John Stuart Mill, con la loro tendenza al-l’invasività e al controllo diretto da parte dello Stato e fondate sulla proprietà privata e individuale dei contadini, furono l’alternativa più importante al progetto di Permanent Settlement che a partire da Cor-nwallis era stato sempre riproposto come il sistema liberale per eccel-lenza, e influenzarono le riforme della prima metà del XIX secolo fino a divenire la teoria ufficiale della Indian land revenue fino al 1832 e poi di nuovo dalla fine degli anni Quaranta ― dalla pubblicazione de-gli Elements of Political Economy (1848) di John Stuart Mill ― agli anni Sessanta, nonostante l’opposizione di tutta la comunità mercanti-le manchesteriana, sostenitrice dell’idea di permanent settlement.

180 Cfr. E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., pp. 94–5, pp. 154–5 e p.

165. Fu il sistema applicato nella Bombay Presidency, ha affermato E. Stokes, a rispettare maggiormente i principi enucleati da J. Mill nella sua dottrina della “rent law” – per quanto il suo sistema di ricossione delle imposte non aderì mai comple-tamente al principio ricardiano e milliano che calcolava l’imposta fondiaria sulla base della quantità di lavoro che era stata necessaria a estrarre ricchezza dai campi. Ivi, pp. 122.

Conclusione 173

Conclusione

Responsability implied superiority and inferiority. P. J. Marshall1

La History of British India di James Mill rappresentò, nel contesto di quella che è stata definita l’“età delle riforme”, un’opera di fonda-mentale importanza soprattutto per la duplice natura di opera storio-grafica e trattato teorico–politico che la caratterizzò. Se il rigore scien-tifico della ricostruzione storica che in essa viene realizzata è stato da più parti messo in discussione, l’aspetto più propriamente “politico” che la contraddistinse, di lettura “critica” ― della civiltà indiana e del-le vicende legate alla presenza britannica in India ― e, al contempo, di proposta riformista, ne determinò la fortuna, tanto da divenire una sorta di “manuale” per le generazioni successive di funzionari coloniali.

È la particolare natura di “judging history”, di narrazione che deco-struisce le concezioni dominanti dell’India precoloniale e britannica e si propone come nuovo “sapere coloniale”, a determinarne la centrali-tà, in questa fase storica, nel processo di costruzione di un nuovo im-maginario politico che ridefinisce il rapporto con la civiltà indiana e il ruolo del governo coloniale. Nel contesto di tale processo di decostru-zione e di riformulazione dell’immagine dell’India, quest’ultima e-merge come spazio politico privilegiato in cui inscrivere le riforme istituzionali fondamentali che caratterizzano l’idea utilitarista di istitu-zione politica, un luogo in cui “sperimentare” la realizzabilità di tra-sformazioni sostanziali che non riguardano solo le forme “esterne” della società indiana ― il governo, le sue leggi ― ma che investono molti aspetti della sfera privata ― l’educazione, la gestione economi-ca della proprietà terriera, la divisione del lavoro, i rapporti tra i diver-si gruppi sociali.

1 P.J. MARSHALL, Britain Without America. A Second Empire?, in O.H.B.E.,

cit., vol. II, p. 592.

Conclusione 174

Queste trasformazioni non si inseriscono, d’altra parte, in uno spa-zio vuoto. Mill non può considerare l’India una “tabula rasa”, come invece ha affermato Mehta, per quanto abbia demolito quei saperi “conservatori” che celebravano la grandezza della civiltà indiana e che propugnavano l’inviolabilità delle tradizioni native: essa giace senza dubbio in un tempo “non–contemporaneo” che ne fissa la diversità, ma è collocata in una stessa scala temporale progressiva che stabilisce punti di contatto con il Sé imperiale2. Si tratta, quindi, di creare un’istituzione forte ed “escludente” e che rappresenti una mediazione “razionale” tra un modello istituzionale elaborato in madrepatria, lo Stato utilitarista, e le istituzioni pre–coloniali vigenti: il modello sta-tuale per l’India che si evince dall’opera è caratterizzato da una rigida struttura amministrativa da cui è escluso l’indiano, considerato inca-pace di partecipare alla gestione della cosa pubblica, e si propone co-me istituzione “educativa” che indica alla popolazione il significato e i mezzi per raggiungere la “felicità” in termini economici, politici e mo-rali pur mantenendo alcuni aspetti fondamentali dell’organizzazione sociale, della religione, delle tradizioni della popolazione nativa3.

2 In tal senso la mia lettura della History e della produzione teorica milliana in ri-

ferimento alle colonie contraddice sia le conclusioni a cui è giunto Majeed sia alcune interpretazioni postcoloniali che tendono a estendere le categorie di Said, Chakra-barty e Bhabha a tutto il pensiero coloniale britannico senza un più preciso riferi-mento contestuale e autoriale. Come per Montesquieu (E.L.) e per Adam Ferguson (Saggio sulla storia della società civile), infatti, le popolazioni indù e musulmane non sono classificabili, per Mill, come “selvagge” (non “politiche”), ma piuttosto come “barbare” (politicamente arretrate): hanno tradizioni e istituzioni politiche da cui è impossibile prescindere tout court. Cfr. P.J. MARSHALL, G. WILLIAMS, The Great Map of Mankind, cit., pp. 137.

3 Sugli effetti dell’educazione – scientifica, politica e letteraria – messa in atto dal governo coloniale britannico sulla cultura e sull’identità politica indiana si è svi-luppato un ampio dibattito nel corso dei decenni. Tra le molte voci che lo hanno ani-mato: B. MCCULLY, English Education and the Origins of Indian Nationalism, Columbia U.P., New York 1942 e D. KOPF, British Orientalism, cit.; G. VISWA-NATHAN, Masks of Conquest, cit., pp. 15 e segg., estrememente critica nei con-fronti di McCully e Kopf; P. CHATTERJEE, Nationalist Thought and the Colonial World, cit. e ID., The Nation and Its Fragments, Princeton U.P., Princeton 1993, pp. 6–7; R. GUHA, A proposito di alcuni aspetti della storiografia dell’India coloniale, cit., pp. 31–42; A. MUKHERJEE (ed.), Militant Nationalism in India (1876–1947), Institute of Historical Studies, Calcutta 1995. Cfr. infra, nota n. 311.

Conclusione 175

In tal senso la proposta milliana aderisce pienamente al principio enucleato dal capostipite dell’Utilitarismo britannico, Jeremy Ben-tham, principio secondo cui il body politic4 non può essere creato dal nulla, ma si fonda su forme di convivenza civile preesistenti ― per Bentham, infatti, «contracts come from government, not government from contracts»5. L’idea di Stato coloniale formulata da Mill nella sua History of British India è, quindi, animata dalla duplice tensione, da una parte, verso lo stabilire una continuità con la storia passata dell’In-dia e il suo contesto sociale, politico, religioso e culturale, coerente-mente al relativismo giuridico che informa la dottrina di Bentham e Mill, e, dall’altra, verso un cambiamento radicale delle sue istituzioni in vista del raggiungimento di un più alto grado di civiltà, coerente-mente con l’idea di progresso e con la concezione utilitarista della leg-ge e del governo come strumenti privilegiati della trasformazione so-ciale. La mediazione tra queste due tendenze si realizza nella “mode-razione” del programma di riforme avanzato da Mill, molto più blando rispetto alle proposte avanzate da Charles Grant e Lord Thomas Ba-bington Macaulay in materia di diffusione del Cristianesimo e di edu-cazione della società indiana ― fatto questo che gli provocherà aspre critiche da parte dei liberali: Mill è convinto, infatti, che siano le “buone leggi”, e solo secondariamente la diffusione per mezzo dell’e-ducazione di una cultura politica “razionale” fondata sul “principio dell’utile” e sul principio dell’agire razionale in base “alle conseguen-ze” ad essere gli strumenti necessari affinché un giorno la popolazione indiana sia in grado di riavviare autonomamente il proprio percorso verso la piena affermazione del self–government.

A sostanziare la critica milliana alle istituzioni indiane vi è un pre-

ciso paradigma interpretativo, quello che assegna a queste ultime una posizione “di arretratezza” nella scala delle civiltà in virtù di una con-cezione “progressiva” della Storia e che, come tale, legittima l’inter–vento riformatore e emancipatorie del dominio coloniale. La specifici-tà storica indiana, infatti, il suo passato, presente e futuro, non sono

4 J. BENTHAM (1776), A Fragment on Government, cit., pp. 36–45. 5 J. BENTHAM (1795), Anarchical Fallacies, cit., vol. II, p. 502 e ID. (1776), A

Fragment on Government, cit., pp. 36–45.

Conclusione 176

analizzati in sé, bensì dedotti dalle leggi universali che regolano il di-venire storico6 e che fissano per essi le tappe, la velocità e la stabilità del progresso. L’opera di James Mill include epistemologicamente la storia indiana, interpretandola “come storia britannica”7, nel “tempo moderno” dell’Occidente, stabilendo per l’India, «il luogo dell’occulta instabilità in cui vivono gli uomini»8 fermo da secoli ai primi stadi della civiltà, la possibilità di un progressus mondano “indefinito”9, che è esperibile di fatto solo attraverso l’intervento della potenza bri-tannica nella sua Storia. L’India, nella narrazione storica così come nelle riflessioni teorico–politiche di Mill è, in tal senso, un soggetto “passivo”: essa non è agens razionale “fautore del proprio destino”, ma una realtà collettiva priva di “libero arbitrio” e incapace di interve-nire sulla Storia. Essa “viene narrata” da Mill attraverso quegli ele-menti che Said ha definito “esteriori”, della società indiana10 ― i “co-stumi”, la “religione”, le “istituzioni politiche e giuridiche” ― i quali appaiono ai suoi occhi come un qualcosa di “travolto” dal proprio de-stino di “ripetizione” nel tempo ― una ripetizione attestata dal per-manere del “dispotismo” e dalla “superstizione”11 ― che, come tale, non ha il “potere” di far uscire l’India dallo stato di “minorità” in cui versa12.

6 J. MILL (1858) History, cit.,, vol. I, p. XXVI. 7 Ivi, vol. I, p. XV. 8 F. FANON (1961), I dannati della terra, Edizioni di Comunità, Torino 2000 ci-

tato da H. BHABHA (1990), Nazione e narrazione, Meltemi, Roma 1997, p. 486. 9 R. KOSELLECK, C. MEIER (1976), Progresso, cit., pp. 32 e segg. 10 E.W. SAID (1978), Orientalismo, cit., p. 100. 11 Cfr. J. MILL, Caste, cit., p. 124. 12 In tal senso, l’opera di Mill è un esempio rappresentativo di quella letteratura

scientifica coloniale che assume in sé il paradigma conoscitivo cartesiano e illumini-sta e che pone al centro del processo conoscitivo non la realtà in questione ma il sog-getto conoscente. Tale soggetto “conosce” la realtà dell’Altro coloniale, hanno sotto-lineato Said, Spivak e Bernal, partendo da un punto di vista orientato a codificare se-condo precise categorie che non possono essere in alcun modo scisse dalla relazione di dominio – politico, razziale e di genere – in cui il processo conoscitivo stesso s’inscrive. E.W. SAID (1993), Cultura e imperialismo, cit.; G.C. SPIVAK (1999), Critica alla ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004; M. BERNAL (1987), Ate-na nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Classiche, Parma 1991.

Conclusione 177

Lo statuto di agente del progresso è assegnato esclusivamente al “governo coloniale e alle sue leggi”, i quali hanno il preciso compito, sancito dal “Trust”, di “emancipare gli indiani dalla loro stessa cultu-ra13” e sciogliere il loro destino dalla morsa dell’ignoranza e dell’irra-zionalità. Alla base del “Trust” non vi è un “patto” né il “consenso” di coloro che vi vengono sottoposti, ma l’assunto secondo cui il dominio che riattiva il cammino dell’India verso lo sviluppo culturale, sociale, politico ed economico è di per sé conforme alla Ragione universale.

Il “discorso” che assegna alla diversità culturale una “distanza tem-porale” e che stabilisce per l’impero in India il preciso obiettivo di colmarla, divenne, durante la prima metà del XIX secolo fino alla fine della cosiddetta “età degli imperi”, la trama concettuale alla base del-l’articolazione dell’ideologia imperiale britannica14. Esso, infatti, pose le basi per sostanziare un’idea, fino a quel momento ancora alquanto imprecisa, di corpus politico imperiale come realtà organica e struttu-rata, che presupponeva, partendo dall’idea di “Trust”, una “presenza” significativa della madrepatria nella colonia, presenza che si manife-stò, in questa fase storica, nell’intervento riformatore della metropoli negli equilibri sociali e nelle istituzioni della periferia per mezzo del governo coloniale.

Nelle riflessioni utilitariste sull’impero vengono meno, in tal senso, i timori espressi durante tutto il “Primo” impero, legati all’invadenza del centro negli “affari” delle periferie, i quali vengono ora riarticolati e risolti in una concezione di istituzione politica la cui “pervasività” è “resa necessaria” e “imprescindibile” ― anche qualora essa violi quel-le libertà fondamentali sancite dalla tradizione costituzionale inglese che in madrepatria escludono l’agire pubblico dalla sfera privata ― in virtù di una «New British Imperial identity» che «depends less on ab-stract propositions about the nature of liberty», rispetto alla fase impe-riale precedente. Centrale è in questa nuova fase, ha affermato Mar-

13 J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 127. Majeed cita J. MILL (1824), Essay on Education, cit., p. 44.

14 Cfr. J. FABIAN (1983), Il tempo e gli altri, cit., pp. 62 e segg.; B. COHN, Co-lonialism, cit., p. 21.; D. CHAKRABARTY (2000), Provincializzare l’Europa, cit., p. 22. Una diversità, quella della cultura nativa, che, ha affermato Pietro Costa, «non è esperibile se non nella forma del dominio». P. COSTA, Civitas. Storia della citta-dinanza in Europa, Laterza, Roma–Bari 1999–2001, vol. III, p. 476.

Conclusione 178

shall, «the patriotic duty of British people to accept their places in a hierarchical society»15. Siffatta concezione dell’istituzione politica co-loniale era conforme all’idea utilitarista secondo cui solo l’azione “im-parziale” del Legislatore universale, attraverso un intervento normati-vo “sostanziale”, avrebbe potuto rimuovere gli enormi ostacoli ― la mancanza di una codificazione delle leggi, la loro crudeltà e irraziona-lità, l’assenza di una forma moderna di proprietà privata della terra e della tutela giuridica di essa, la rigida divisione sociale fissata dal si-stema castale, la mancanza di limiti al potere dispotico del re e dei bramini ― che bloccavano il progresso indiano16. In tal senso la posi-zione dei teorici utilitaristi si allontanò molto dal radicalismo britanni-co e, in generale, da tutti coloro che erano orientati nel vedere il go-verno delle colonie come fonte di “corruzione” politico–costituzionale delle istituzioni liberali a fondamento della stessa superiorità britanni-ca: agli occhi di James Mill e, successivamente, di John Stuart Mill, «they could exercice autocratic power over others for their benefit, without themselves becoming corrupted by autocracy»17.

Alla luce di tale concezione Mill aveva criticato nella History le amministrazioni precedenti, e soprattutto quelle di Clive e Hastings, di cui deplorava la mancanza di precisi obiettivi di governo e la conse-guente “disorganicità” ― giudizio, questo, che Mill aveva mutuato da Edmund Burke, del quale egli aveva riportato con minuzia buona par-te degli speeches pronunciati in parlamento durante il procedimento di impeachment contro Warren Hastings18. Esse erano state, poi, criticate, per la pretesa di mantenere “formalmente”, attraverso il Double Go-vernment, una serie di capi ed istituzioni indiane, sistema di governo, questo, che ai suoi occhi fungeva da alibi per non assumersi le respon-sabilità del “duty” ― che consisteva, appunto, nel “dominare per ri-

15 P.J. MARSHALL, Britain Without America, cit., vol. II, p. 591. 16 J. MILL (1858), History, vol. I, book II, ch. IV, pp. 166–7. 17 P.J. MARSHALL, Britain Without America, cit., vol. II, p. 593. 18 J. MILL (1858), History, vol. V, book VI, ch. II. Cfr. E. BURKE, Speech on

the Impeachment of Warren Hastings (17 February 1788), in Id., The Works of Right Honorable E. Burke, vol. VII, Bohn’s British Classic, London 1857 e ID., Speech in General Reply, in Id., The Works, vol. XII, Nimmo, London 1887, p. 25. Per la rice-zione delle figure di Clive e Hastings nell’immaginario politico dell’«età delle ri-forme», si veda N.B. DIRKS, The Scandal of Empire, cit., pp. 313–336.

Conclusione 179

formare, riformare per progredire” ― e realizzare in India il principio della “massima felicità per il maggior numero”. Agli occhi di Mill, infatti, il “duty” che rendeva legittimo il “Trust” alla base del dominio coloniale presupponeva che alla guida dell’istituzione politica colonia-le non vi fossero pochi “mercanti” e “cercatori di fortune” tesi all’e-sclusivo soddisfacimento di interessi privati ― carattere questo che a suo avviso aveva connotato le prime amministrazioni coloniali –, ma un «gruppo di esperti responsabili e capaci», la cui azione fosse con-forme agli interessi dei “Più”19. Mill, in tal modo, dette una risposta al-l’interrogativo, espresso con forza nelle sedute del parlamento britan-nico di «how the British possessions in the East Indies may be gov-erned with the great security and Advantage to this Country, and by what Means the Happiness of the Natives may be best promoted»20.

È in questa cornice che venne formulato il programma riformatore milliano, programma che mostrò in sé la sua coerenza con le dottrine utilitariste elaborate in madrepatria e che previde la creazione di un’istituzione politica “dirigista” ed “esclusiva” ― la cui azione a-vrebbe pervaso sia la sfera pubblica sia la sfera privata, attraverso l’e-ducazione così come la distribuzione della proprietà e la fissazione dei contratti d’affitto della terra, escludendo di fatto dalla gestione della cosa pubblica il “nativo”, espulso dalle strutture amministrative e non coinvolto nei processi decisionali21. Tali riforme erano il presupposto per avviare la società indiana all’economia di mercato e ad un limitato free trade22 ― e dunque al raggiungimento della “piena felicità”23 ―

19 J. MILL (1858), History, cit., vol. III, book IV, ch. I, pp. 3–4. Ciò per ovviare

a che, con le parole di Burke, venisse creata in India una «republic without a people». Cfr. E. BURKE, Speech on the Impeachment of Warren Hastings (17 Feb-ruary 1788), cit.

20 Commons Journals, XXXVIII, pp. 599–600 citato in H.V. Bowen, Britain. The Metropolitan Context, in O.H.B.E., cit., vol. II, p. 543.

21 Cfr. W.H. BURSTON, James Mill on Philosophy and Education, cit., p. 118; D.G. LONG, Bentham on Liberty, cit., pp. 135–46.

22 J. MILL (1820), Elements of Political Economy, cit., vol. IV, pp. 211 e segg. Nella History si veda vol. III, book IV, ch. I, pp. 29–33 e anche ivi, vol. V, book VI, ch. VI, pp. 446–7 e vol. VII, book I, ch. VIII, p. 411.

23 Cfr. E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., p. 81.

Conclusione 180

pur proteggendola, per quanto fosse possibile, dagli effetti nefasti del-la necessaria accelerazione nel percorso storico verso la civiltà24.

La struttura della History of British India riflette pienamente lo snodarsi del discorso riformatore elaborato da Mill: essa dedica i primi tre libri all’analisi critica delle istituzioni indiane indù e musulmane ― alla condanna del “dispotismo orientale”, forma di governo, questa che non lascia spazio né al progresso politico, né a quello economico e sociale ― per poi entrare nel vivo della narrazione delle vicende bri-tanniche in India, attraverso la quale Mill può enucleare il proprio pro-getto di riforma, un progetto che non investe solo la colonia, ma che si estende alla madrepatria. In tal senso l’India è per Mill anche lo “spec-chio” della sua Inghilterra, quel termine di paragone che gli permette di analizzare in controluce e rendere pubblici i “difetti” del sistema politico–istituzionale britannico. Questo elemento di forte critica nei confronti del regime costituzionale della madrepatria caratterizza in modo inequivocabile tutta l’opera e acquisisce il suo apice in corri-spondenza dei numerosi passi in cui Mill fa riferimento al sistema in-glese di Common Law e alla supremazia politica, economica e sociale dell’aristocrazia terriera inglese.

La rilevanza dell’intervento della History of British India nel pro-

cesso di costruzione dell’immaginario politico della prima metà del XIX secolo è testimoniata dall’enorme influenza che le dottrine utili-tariste propugnate attraverso quest’opera e attraverso l’attività politica dello stesso Mill in quanto funzionario della Compagnia delle Indie Orientali, esercitarono sul dibattito e sulle proposte di riforma avanza-te dal governo coloniale. Molti tra i più importanti funzionari e rifor-matori coloniali di questo periodo mutuarono, infatti, sia l’attacco ai “saperi” coloniali precedenti, sia lo spirito riformatore che informava l’intervento teorico–politico di Mill, sia buona parte delle proposte materiali da lui avanzate.

24 Sull’idea, diffusa già dalla metà del XVIII secolo tra i banchi del parlamento,

che a fondamento del “Trust” o del “responsible government” vi dovesse essere la protezione dei nativi dalla rapacità di faccendieri e cercatori di fortune senza scrupo-li, si vedano P. J. MARSHALL, Britain Without America, cit., vol. II, p. 583 e H.V. BOWEN, British India, 1765–1813. The Metropolitan Context, pp. 538–42.

Conclusione 181

Il sistema teorico elaborato da Mill era incentrato su tre riforme fondamentali ― in grado di avviare, secondo il filosofo, l’India al pro-gresso ― concernenti il governo, le leggi e il sistema giudiziario, e il sistema fiscale, riforme che vennero formulate in piena coerenza con le dottrine benthamite. Le opere di Bentham, infatti, e soprattutto On the Influence of Time and Place in Matters of Legislation, il Panopti-con e il Constitutional Code25, furono rispettivamente alla base del di-battito interno alla Compagnia delle Indie Orientali sulla codificazione delle leggi, sulla riforma del sistema carcerario in India e sulla formu-lazione dei codici legislativi indiani che passarono al vaglio del parla-mento ed entrarono in vigore tra il 1846 ed il 1859. Alla base della ri-forma della proprietà della terra e del sistema fiscale furono, invece, le riflessioni di Ricardo a giocare un ruolo determinante: la “rent law” o tassa sulla rendita da lui formulata divenne il caposaldo del progetto milliano di creazione di un’economia agricola fondata sulla piccola proprietà terriera assegnata ai contadini.

È necessario operare, d’altra parte, una distinzione tra quella che fu

l’epoca dei primi riformatori influenzati dal pensiero utilitarista di Ben-tham e Mill ― tra cui, a parte i già citati Thomas Munro, William Ben-tick e Holt MacKenzie, vi furono tra gli altri John Malcolm (governatore dal 1827 al 1839), Charles Metcalfe (Luogotenente–Governatore delle province del nord–est fino al 1838), Mountstuart Elphinstone (governato-re a Bombay dal 1819 al 1827) e Alexander Ross (governatore della pro-vincia di Agra negli anni Trenta) –, una seconda fase delle riforme, ini-ziata con l’attività di Thomas Babington Macaulay, e quella che potrebbe essere definita l’ultima fase, coincidente con il periodo di attività presso la Compagnia di John Stuart Mill (anni Quaranta e Cinquanta), fase ani-mata dai dibattiti sull’abolizione del governo della Compagnia e l’istituzione del governo diretto della corona britannica, conclusasi con la proclamazione dell’Impero in India nel 1876. I contesti in cui si sviluppa-rono queste tre esperienze furono alquanto diversi. Quello in cui operò

25 J. BENTHAM (1792), Panopticon, ovvero La casa d’ispezione, M. Foucault (a

cura di), Marsilio, Venezia 1983; ID. (1793), On the Influence, cit., vol. I, pp. 169–95; ID. (1812), Panopticon Versus New South Wales, cit., vol. IV, pp. 173–248; ID. (1830), Constitutional Code, cit., vol. IX.

Conclusione 182

James Mill era caratterizzato, da una parte, da un grande interesse teorico nei confronti delle questioni indiane e, di conseguenza, da un fervente dibattito intellettuale e, dall’altra, dalla tendenziale apertura del parlamen-to britannico nei confronti di un ripensamento sostanziale del ruolo dell’impero, dei suoi obiettivi e delle sue pratiche ― parlamento che si dimostrò, dunque, particolarmente sensibile alle proposte di riforma a-vanzate dagli esponenti dell’Utilitarismo. Questa fu l’epoca, infatti, come ha sottolineato Huw V. Bowen, in cui «what began as a limited ministe-rial incursion into East India Company affaires during the 1760s became the full–scale Crown assumption of responsability for the Indian Empire in 1813»26.

La seconda fase, quasi contemporanea e immediatamente successi-va alla prima, caratterizzata ancora da un forte interesse del governo metropolitano per le riforme istituzionali in India, registrò un cambia-mento per ciò che riguarda la ricezione delle dottrine utilitariste da parte dell’amministrazione coloniale: esse, a partire da allora, cessaro-no di influenzare direttamente la sfera politica, pur continuando ad es-sere un importante punto di riferimento delle politiche riformatrici del liberalismo whig. Le riforme messe in atto da Macaulay rappresentano al meglio tale ricezione. Nonostante, infatti, egli avesse fatto proprie dottrine quali quella della necessaria codificazione delle leggi, della “pena preventiva”, o il principio del “single seatedness” di chiara ispi-razione benthamita, egli rifiutò alcuni assunti filosofici utilitaristi fon-damentali, quale ad esempio l’idea del Legislatore Universale e della legge come strumento principale di trasformazione della società, oltre a dimostrarsi molto più propenso ad una “rivoluzione culturale”, per mezzo dell’anglicizzazione di massa della popolazione indiana, di quanto non fossero stati Jeremy Bentham e James Mill27.

26 H.V. Bowen, British India, 1765–1813, cit., vol. II, p. 531. 27 Macaulay si ispirò in particolare alle dottrine contenute in J. BENTHAM

(1808), Letter on Scoth Reform, cit., vol. V; Draught for the Organization (1790), cit., vol. IV; Introduction to the Principles (1789), cit., vol. I. Per la ricezione da parte di Lord Macaulay delle dottrine utilitariste si veda nello specifico E. STOKES, English Utilitarians and India, cit., pp. 202 e segg. Per gli elementi di distanza dal paradigma utilitarista rimando direttamente alle opere e agli articoli di T.B MACAULAY, Mill on Government (1829); Westminster Review’s Defence (1829); Utilitarians Theory of Government (1829); Government of India (10 July 1933), in

Conclusione 183

La cosiddetta terza fase si sviluppa in un contesto radicalmente di-verso da quello delle fasi precedenti: l’elemento che lo differenzia ri-siede principalmente nel fatto che si assiste al progressivo venir meno dell’interesse della Compagnia e del parlamento britannico a porre mano alla struttura istituzionale coloniale nel nome del “progresso” e dell’emancipazione dei colonizzati. In tal senso, gli anni Sessanta ― caratterizzati dalle misure autoritarie poste in essere dal governo colo-niale dopo l’ammutinamento dei Sepoy del 1857 ― segnano la fine dell’“età delle riforme” e con esso del fiorente dibattito sulle questioni politico–istituzionali dell’impero in India che avevano caratterizzato in special modo i primi trent’anni del XIX secolo.

Il brusco passaggio dalla fase delle riforme alla fase successiva all’ammutinamento, ha sottolineato Hutchins, è dato dal «tramonto delle speranze di realizzare quelle riforme radicali che erano state frustrate in madrepatria», e dall’avanzare «di idee conservatrici ed autoritarie che vedevano in India il terreno fertile per coltivare le proprie ambizioni» impossibili da soddisfare in quella Gran Bretagna sempre più sottoposta a processi di democratizzazione28. Di fatto quell’India che si era presentata agli occhi di Mill e dei riformatori, come un “laboratorio” politico cessa di essere tale per divenire il luogo centrale delle strategie geopolitiche imperiali negli anni che vanno dal 1857 al 1871 e il simbolo stesso della potenza coloniale britannica nell’“età degli imperi”. In questa nuova fase, si registra una trasformazione radicale dell’immaginario e della cultura politica coloniale in cui si era inscritta la concezione di impero e di “duty”, così com’era stata elaborata dagli utilitaristi e fondata contempo-raneamente sull’idea di “superiorità storica e politica” della madrepatria e sull’idea di “perfettibilità umana”: non sono più il “giusto governo” e le “buone leggi”, formulate in accordo alle “migliori” tradizioni native ad essere il motore della Storia, ma il dominio coloniale tout court, così co-me viene descritto da James Fitzjames Stephen. Con tale concezione vie-ne meno quella “self–reflexivity”29 che aveva caratterizzato la letteratura

Id., Macaulay’s Miscellaneous Writings and Speeches, Longimans & Co., London & New York 1889.

28 F.G. HUTCHINS, The Illusion of Permanence, preface, cit., p. XI. Traduzione mia.

29 J. MAJEED (1992), Ungoverned Imaginings, cit., p. 128.

Conclusione 184

coloniale milliana, attraverso cui i difetti politico–costrituzionali occiden-tali venivano fatti emergere mediante l’analisi delle istituzioni indiane e il “buon governo” per Gran Bretagna e India veniva visto come un obietti-vo “da raggiungere”. La natura e gli strumenti dell’impero, la sua organi-cità politico–costituzionale così come la sua identità e ideologia30 vengo-no ora fondati su di un nuovo “discorso” che prescinde dall’intervento emancipatore, pur continuando a nutrirsi dell’idea di impero come agente del progresso, idea che viene tradotta, in questa nuova fase caratterizzata dal «progressive hightening of racial attitude in Imperial culture»31, nel linguaggio della “missione civilizzatrice”.

In conclusione, se l’opera storiografica di Mill e le riflessioni che l’accompagnarono, rappresentano nei primi decenni del XIX secolo la rielaborazione e la contestualizzazione degli elementi teorici ereditati dall’Illuminismo scozzese ed europeo, dalla riconcettualizzazione del-l’impero degli ultimi decenni del secolo precedente, dalla critica radi-cale e utilitarista alle istituzioni politiche in madrepatria ― una riela-borazione che si pose alla base del discorso imperiale successivo ―, è anche vero che è proprio la tensione tra l’idea di impegno, espressa da Mill riformulando il concetto burkeano di “Trust”, nei confronti dei nativi indiani (e dell’umanità tutta) in vista del progresso, la critica radicale alle istituzioni britanniche e il principio del relativismo giuri-dico e politico benthamita, a determinare l’originalità del discorso mil-liano sull’impero in India. Tale “tensione” fissa uno scarto sostanziale, nonostante la condivisione della fiducia nel dominio imperiale come strumento di progresso, con le finalità e gli strumenti che verranno immaginati e messi in pratica nella fase segnata dalle rivolte indiane, dalla proclamazione dell’impero in India e dal Congresso di Berlino.

30 Un’ideologia, quella imperiale britannica della fase che segue l’ammutinamento

dei Sepoy (1857), che, per quanto “organica” e “strutturata”, non esaurì mai in sé la complessità interna all’impero britannico, derivante sia dall’eterogeità che esso presen-tava – dal punto di vista culturale, sociale, geografico ma anche politico–istituzionale –, sia dai molteplici interessi di cui esso era investito, sia dalla particolare forma di “go-verno indiretto” che lo caratterizzò fin dagli albori. Cfr. P. BURROUGHS, Imperial Institutions and the Government of Empire, in O.H.B.E., cit., vol. III, pp. 170–81.

31 Cfr. J.M. MACKENZIE, Empire and Metropolitan Culture, in O.H.B.E., cit., vol. III, p. 280.

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Indice dei nomi

Abbattista, G. 14, 22, 23, 37, 40, 42, 43, 59, 65, 66, 69, 70, 74, 87, 90, 96, 105, 108, 120, 124, 125, 130, 138, 139, 142, 147, 154, 186 Althusser, L. 56, 186 Anquétil–Duperron, A.H. 68–71, 74, 90, 186, 187 Appadurai, A. 27, 195 Arberry, A.J. 72, 195 Aristotele 53, 55–59, 90 Armitage, D. 25, 26, 29, 186 Aronson, A. 91, 196 Asad, T. 43, 196 Bailly, L. 71, 99, 207 Bannister, S. 187 Barié, O. 14, 59, 196 Bartocci, E. 89 Bayle, P. 42, 45 Bayly, C.A. 25, 186 Bearce, G.D. 36, 74, 196 Beausobre, I. 42 Bentham, J. 32–35, 37, 41, 42, 43, 48, 80, 81, 84, 90, 93, 97, 102, 103–105, 108, 112, 123, 129, 131, 132, 134, 135, 154, 156, 158, 159–164, 166, 171, 175, 179, 181, 182, 184, 186–188, 200 Bennett, G. 29, 186 Bentick, W. 40, 41, 126, 128, 165, 168, 171, 181

Bernal, M. 176, 196 Bernier, F. 59–61, 65, 70 Bhabha, H. 21, 27, 36, 43, 83, 114, 135, 174, 176, 196 Blackstone, W. 48, 188 Bland, R. 24, 188 Bobbio, N. 55, 58, 196 Bodin, J. 54, 55, 59 Boeke, J.H. 141, 196 Bolingbroke, H.J. 188 Borghiero, C. 63 Bossuet, J.B. 55 Boughton Rous, C.W. 74, 188 Boulainvilliers, H. 54 Boulanger, N.A. 54, 55, 61, 63, 69, 88, 94, 188 Bowen, H.V. 179, 180, 182, 196 Bradshaw, B. 28, 196 Brewer, J. 26, 196 Brown, F.K. 119, 119, 196 Buchanan, F.H. 154, 188 Buffon, G.L.L. 69 Burke, E. 22, 23, 29, 30, 31, 35, 70, 82, 109, 141, 161, 170, 178, 179, 184, 186, 188–200, 204 Burrow, J.136, 205 Burston, W.H. 81, 126, 164, 179, 186 Campos Boralevi, L. 197 Cannon, G. 72, 78, 84, 197 Canny, N. 26, 28, 196

Indice dei nomi 208

Capitani, P. 85 Carey, W. 78, 118 Castonnet de Fosses, H. 60, 197 Cavenagh, T. 126, 186 Ceretta, M. 28, 197 Césaire, A. 43, 197 Chakrabarty, D. 33, 133, 174, 177, 197 Chatterjee, P. 127, 174, 197 Clive, R. 36, 49, 77, 96, 107–109, 114, 119, 137, 141, 142, 151, 160, 170, 178, 189 Cohn, B.S. 19, 23, 34, 39, 43, 44, 86, 177, 197 Colebrooke, H.T. 44, 72, 76, 77, 189 Colley, L. 25, 61, 197 Collini, S. 136, 205 Condorcet, N. 59, 133, 190 Conti Odorisio, G. 69, 197 Cornwallis, C. 11, 49, 74, 96, 107, 108, 122, 137–141, 143, 144, 147–150, 152, 153, 155, 157, 160, 162, 166, 171, 172 Corrigan, P. 198 Costa, P. 177, 198 De Guigne, J. 71 Derozio 127 De Pawn, abate 69 Desai, A.R. 140, 198 Dirks, N.B. 19, 30, 43, 178 Dixon, J. 43, 196 D’Orsi, A. 58, 203 Dow, A. 66, 67, 69, 70, 75, 77, 96, 141, 143, 190 Drayton, R. 43, 198

Dubois, J.A. 90, 91, 93, 95, 190 Duff, J.C.G. 96, 190 Dupin, C. 53, 69, 190 Edney, A.H. 43, 198 Embree, A.T. 118, 198 Etherington, N. 117, 198 Fabian, J. 33, 82, 177, 198 Fagiani, F. 112, 186 Fanon, F. 43, 176, 198 Farneti, R. 58, 198 Felice, D. 15, 53–57, 59, 63, 64, 85, 198 Fenélon, F. 54, 83 Ferguson, A. 83, 89, 174 Forbes, D. 129, 136, 186 Foucault, M. 34, 181, 198 Francis, P. 44, 139, 141, 143–145, 147–152, 154, 163, 166, 170, 190 Franklin, B. 24, 190 Franklin, M.J. 75, 77, 78, 198 Freeman, E.A. 190 Gerbi, A. 83, 199 Gellner, E. 105, 199 Gibbon, E. 42 Gikandi, S. 27, 115, 199 Gillies, J. 96, 190 Gilroy, P. 27, 135, 199 Giuliani, G. 14–16, 25, 27, 35, 199 Gladwin, F. 44, 76, 119, 190 Gliozzi, G. 83, 199 Gobineau, A. 83, 84, 190 Goguet, F. 88, 90, 190

Indice dei nomi 209

Grant, C. 30, 35, 38, 48, 101, 110, 112–114, 116, 117–125, 127, 130, 132, 133, 168, 175, 190, 198 Greene, J.P. 23, 199 Guha, R. 15, 21, 33, 38, 44, 73, 86, 115, 124, 127, 130, 139–146, 148, 151, 152, 174, 199 Halévy, E. 42, 111, 112, 170, 199 Halhed, N.B. 74, 76, 77, 191 Hamilton, A. 44, 75 Hastings, W. 30, 35, 36, 49, 69, 72, 75–78, 96, 107, 108, 114, 116, 118–120, 137, 139, 142, 144, 146, 147, 149, 151–154, 160–162, 166–168, 170, 178, 179, 189 Helvétius, C.A. 64, 83, 191 Hobbes, T. 53, 55, 58, 63, 86, 89, 191, 198 Hodgson, B. 77 Holford, G. 11, 191 Holwell, J.Z. 51, 61, 70, 72, 75, 119, 191 Hume, D. 32, 83, 132, 136, 191 Hunter, W.W. 77, 118, 191 Hutchins, F.G. 22, 38, 48, 109–114, 124, 125, 131, 135, 183, 186, 191 Hyam, R. 101, 200 Imbruglia, G. 69, 195 Iyer R. 31, 186 Kalidasa 73

Kaviraj, S. 127, 200 Kendrick, T.D. 200 Kiernan, V.G. 38, 52, 200 Kirkpatrick, W. 76 Koebner, R. 26, 53–55, 57, 186 Koenigsberger, H.G. 26, 200 Kopf, D. 71, 72, 77, 78, 84, 116, 118, 127, 130, 132, 141, 146, 174, 200 Koselleck, R. 19, 40, 89, 133, 176, 200 Knorr, K.E. 163, 186 Kramnick, G. 200 Jayawardena, K. 101, 200 Jones, W. 36, 44, 46, 60, 61, 72–78, 82, 84, 85, 98–100, 102, 119, 120, 129, 152, 192, 195, 197, 202 Joseph, B. 27, 200 Judd, D. 101, 200 La Bruyère, J. 54 Lach, D. 53, 200 Landucci, F. 83, 200 Lanzillo, M.L. 54, 200. Leach, E.R. 140, 202. Le Vassor, M. 54 Lessing, G.E. 133, 200 Leyden, J. 77 Linguet, H. 53, 69, 192, 197, 202 Linneo (Linné, C.) 83 Locke, J. 26, 34, 36, 45, 54, 55, 70, 192, 204 Long, D.G. 179, 200

Indice dei nomi 210

Loomba, A. 100, 200 Luigi XVI 54 Macaulay, T.B. 34, 35, 48, 116, 127, 128, 130–136, 150, 175, 181–183, 192 Machiavelli, N. 54, 59, 62 MacKenzie, J.M. 25, 43, 184, 200, 201 MacKenzie, H. 35, 171, 181 Macintosh, J. 99 MacPherson, C.B. 34, 201 Mahajan, S. 201 Majeed, J. 21, 22, 33, 36, 44, 48, 73, 79, 81, 82, 93, 97, 105, 124, 125, 130, 170, 174, 177, 183, 186 Majumdar, B.P. 128, 201 Mani, L. 116, 201 Marolles, M. 54 Marshall, P. J. 23, 25, 29, 60, 64, 66, 67, 71, 74, 75, 84, 95, 173, 174, 178, 180, 201 Matteucci, N. 22, 55, 196, 201 Mazlish, B. 38, 42, 85, 86, 115, 186 Mazzarino 54 McCully, B. 174, 201 Mehta, U.S. 15, 21, 23, 34, 36, 38, 43, 86, 115, 174, 186. Metcalf, T.R. 31, 128, 156, 186. Mill, J. 13–16, 19–22, 31–45, 47–49, 56, 57, 60, 67, 73–75, 80–110, 112, 114. 115, 118, 120, 123, 126, 126, 128–139, 141, 142, 147–149, 152–186, 199 Mill, J.S. 33, 38, 42, 86, 108,

115, 126, 128, 129, 130, 132, 172, 178, 181, 186, 202, 205 Millar, J. 87, 89, 90, 193 Mignot, E. 71 Minella, W. 57, 201 Minerbi, M. 69, 202 Minto, G.J. 118 Mohl, J. 52, 202 Montesquieu 53, 56, 58–66, 68, 70, 74, 83, 88, 94, 101, 143, 174, 193, 195, 198 Mukherjee, A. 174. Mukherjee, S.N. 60, 61, 72, 74, 140, 141, 146 Munro, T. 108, 156, 160, 166, 167, 170, 171, 181, 193 Ohlmeyer, J.H. 27, 202 Orme, R. 64–66, 94–96, 100, 101, 103, 193 Osterhammel, J. 32, 59, 110, 202 Pagden, A. 27, 202 Pasquino, G. 55, 196 Pateman, C. 34, 202 Peer, D.M. 202 Piccinini, M. 132, 202 Pocock, J.G.A. 19, 20, 22, 24, 26, 202 Porta, P.L. 89, 193 Porter, A. 23, 202 Portinaro, P.P. 7, 29, 202 Pratt, M.L. 27, 203 Quesnay, F. 85, 193 Ramsay, A.M. 54

Indice dei nomi 211

Raychaudguri, T. 127, 203 Ricardo, D. 84, 154, 170, 171, 181, 193 Ricciardi, M. 22, 203 Roebuck, T. 77 Robertson, J. 28 Robertson, W. 75, 87, 94, 95, 96, 124, 168, 193 Roy, R. 35, 118, 127, 146 Rycaut, P. 60, 193 Said, E.W. 14, 33, 34, 36, 38, 39, 46, 52, 63, 79, 86, 174, 176, 203 Salvadori, L. 58, 203 Santoro, E. 112, 186 Sayad, A. 48, 203 Sbarberi, F. 58, 203 Schwab, R. 52, 203 Seal, A. 140, 146, 203 Seeley, J.R. 193, 194 Sen, S. 29, 30, 43, 61, 64, 86, 100, 110, 164, 203 Shakespeare, W. 73 Sharpe, J. 100, 203 Shore, J. 30, 35, 38, 110, 116, 117, 119, 121, 122, 125, 148, 168, 194 Skinner, Q. 55, 203 Sidney, A. 194 Smith, A. 23, 75, 89, 128, 132, 136, 151, 194 Sonnerat, P. 71 Sorbière, S. 55 Spear, P. 141, 203 Spivak, G.C. 21, 27, 33, 34, 115, 141, 176, 199, 203

Stannard, D.E. 113, 203 Stephen, J.F. 48, 132, 183, 194 Stephen, L. 132, 204 Stewart, D. 96, 99, 194 Stokes, E. 31, 108, 11, 112, 123, 126, 136, 139–141, 143, 149, 150, 156, 164, 165, 170, 172, 179, 182, 186, 204 Stoler, A.L. 34, 204 Stubbs, G. 61 Suleri, S. 21, 204 Susobhan, S. 127, 204 Taranto, D. 54, 55, 204 Tennant, W. 154, 194 Thornton, H. 116 Timur 67, 75 Tipu 77, 116 Todorov, T. 83, 204 Travers, R. 36, 144, 204 Trevelyan, C.E. 35, 127, 130, 194 Trevelyan, G.O. 128, 194 Tully, J. 204 Turner, B. 33, 204 Tytler, A.F. 154, 194 Venn, J. 116 Venturi, F. 53, 69, 70, 85, 204 Viswanathan, G. 137, 174, 186 Voltaire 42, 53, 54, 69, 71, 194 Walvin, J. 43, 204 Waring, S. 117, 194 Watts, W. 66 Wellesley, R.C. 115, 116, 118, 137, 195

Indice dei nomi 212

Wertheim, W.F. 141, 204 Wharton, S. 195 Whelan, F.G. 23, 30, 204 Wilbeforce, W. 31, 110,116–119, 123, 195 Wilkins, C. 44, 75, 77, 119, 195 Williams, G. 60, 64, 95, 174, 201 Wilson, K. 25, 27, 204, 205 Wilson, H.H. 31, 77, 82, 87, 95,

96, 118 Winch, D. 136, 205 Wittfogel, K.A. 56, 57, 205 Wood, W. 195 Young, R. 33, 205 Zamagni, G. 54, 69, 70 Zastoupil, L. 35, 54, 115, 128, 130, 132, 192, 202, 205

Finito di stampare nel mese di febbraio del dalla «Ermes. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.» Ariccia (RM) – via Quarto Negroni,

per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma