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1 DIMENSIONE SOCIALE DELLA FEDE Premessa Per questo argomento mi sono fatto guidare dalla Evangelii Gaudium, documento programmatico, secondo molti, della linea di Papa Francesco; in particolare voglio partire dal n. 177. Per capire gli interventi di questo papa si deve sempre ricordare che viene dall’Argentina, America Latina dove, a partire dal Vat II, si forma una nuova coscienza di Chiesa. Le situazioni di impoverimento e dipendenza economica esigono un’evoluzione delle modalità di vita della fede che vengono tratteggiate in tre punti fondamentali: 1-Fare i conti con la realtà storica e non solo con i principi e integrare questa realtà alla luce delle scienze umane come: sociologia, politologia, economia ... e anche storia e cultura del popolo 2-Verificare la moralità (giustizia o ingiustizia) in coerenza con il vangelo e con l’aiuto della teologia. 3-Cercare una possibilità concreta per un’azione comune che possa trasformare quella realtà e liberare i poveri. Si tratta del metodo del vedere giudicare agire che già aveva recepito papa Giovanni XXIII nella Mater et Magistra al n. 217: vedere, giudicare, agire. I momenti definiti dalla Joc, fondata in Belgio nel 1925 dal card. Joseph-Léon Cardijn. Nella Sollicitudo Rei Socialis 41 Giovanni Paolo II riprende e amplia i tre passaggi. La Chiesa di quelle zone sudamericane decise di assumere pienamente la scelta preferenziale dei poveri, di cui si era discusso nell’ambito del Concilio. In particolare in Argentina prevale una linea che privilegia, nell’analisi e valutazione dei fenomeni, l’idea che il popolo, dalla propria esperienza e sapienza popolare, può comprendere il Vangelo e viverlo dentro la storia senza forzature o tradimenti. Da qui i ripetuti appelli alla fede popolare e all’impegno per i poveri. Il kerigma Il testo che ci interessa della Evangelii Gaudium n. 177 dice: Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità.” Affermazione semplice e diretta ma densa di contenuti da cui partire per questa riflessione. Il kerigma è proclamazione, annuncio, il cuore della fede espressa in sintesi. È un kerigma quello fatto dagli apostoli nell’annuncio del Signore risorto.(at 2,22) È un kerigma quello che fa Gesù in Lc 4,16-21 quando annuncia l’anno del Signore. È un kerigma il magnificat di Maria in Lc 1,46 ss. È un kerigma il credo che sintetizza i contenuti della fede.

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DIMENSIONE SOCIALE DELLA FEDE

Premessa

Per questo argomento mi sono fatto guidare dalla Evangelii Gaudium, documento programmatico, secondo molti, della linea di Papa Francesco; in particolare voglio partire dal n. 177.

Per capire gli interventi di questo papa si deve sempre ricordare che viene dall’Argentina, America Latina dove, a partire dal Vat II, si forma una nuova coscienza di Chiesa. Le situazioni di impoverimento e dipendenza economica esigono un’evoluzione delle modalità di vita della fede che vengono tratteggiate in tre punti fondamentali:

1-Fare i conti con la realtà storica e non solo con i principi e integrare questa realtà alla luce delle scienze umane come: sociologia, politologia, economia ... e anche storia e cultura del popolo

2-Verificare la moralità (giustizia o ingiustizia) in coerenza con il vangelo e con l’aiuto della teologia.

3-Cercare una possibilità concreta per un’azione comune che possa trasformare quella realtà e liberare i poveri.

Si tratta del metodo del vedere giudicare agire che già aveva recepito papa Giovanni XXIII nella Mater et

Magistra al n. 217: vedere, giudicare, agire. I momenti definiti dalla Joc, fondata in Belgio nel 1925 dal card.

Joseph-Léon Cardijn. Nella Sollicitudo Rei Socialis 41 Giovanni Paolo II riprende e amplia i tre passaggi.

La Chiesa di quelle zone sudamericane decise di assumere pienamente la scelta preferenziale dei poveri, di

cui si era discusso nell’ambito del Concilio.

In particolare in Argentina prevale una linea che privilegia, nell’analisi e valutazione dei fenomeni, l’idea che

il popolo, dalla propria esperienza e sapienza popolare, può comprendere il Vangelo e viverlo dentro la

storia senza forzature o tradimenti. Da qui i ripetuti appelli alla fede popolare e all’impegno per i poveri.

Il kerigma

Il testo che ci interessa della Evangelii Gaudium n. 177 dice:

“Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità.”

Affermazione semplice e diretta ma densa di contenuti da cui partire per questa riflessione.

Il kerigma è proclamazione, annuncio, il cuore della fede espressa in sintesi.

È un kerigma quello fatto dagli apostoli nell’annuncio del Signore risorto.(at 2,22)

È un kerigma quello che fa Gesù in Lc 4,16-21 quando annuncia l’anno del Signore.

È un kerigma il magnificat di Maria in Lc 1,46 ss.

È un kerigma il credo che sintetizza i contenuti della fede.

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Tanti altri passi possono essere analizzati ma questi mi sembrano indicativi e sufficienti per vedere le implicanze fra fede e dimensione sociale.

Cominciamo dall’annuncio di Pietro in Atti 2,22 che, che a prima vista può sembrare lontano dall’argomento, o almeno così è spesso interpretato. È il discorso alla folla il giorno di Pentecoste subito dopo la discesa dello Spirito Santo:

" Uomini d'Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret - uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete - , dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere".....

Anche S. Paolo baserà su un kerigma simile il suo annuncio apostolico. In 1Cor 2,2: " Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso..."

Il contenuto di questo kerygma è l'annuncio della morte e risurrezione di Gesù Cristo secondo le scritture fatto sotto l'azione dello Spirito Santo da chi ne è stato testimone.

Il punto fondamentale è la testimonianza diretta degli apostoli. Nel vangelo di Giovanni, dove abbiamo la maggiore lunghezza dei racconti post-pasquali per l’aggiunta dell’appendice cap. 22, si dice:

“Questo ( Giovanni) è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera”.

Quelli degli apostoli non sono discorsi persuasivi di sapienza, ma testimonianza diretta fatta come manifestazione dello Spirito e della sua potenza (1 Cor 2,4).

Gli apostoli sanno che non annunciano una dottrina di uomini ma fatti, opere, di Dio per il suo popolo.

È l’aver vissuto con Gesù, aver ascoltato il suo insegnamento, aver visto le sue opere, aver vissuto, mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione ( cfr.Atti 10,41) che dà peso alla testimonianza degli apostoli e di Paolo, il quale ha conosciuto solo il Cristo risorto: “Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.. ( 1 Cor 15, 8-10)

Il kerigma degli apostoli: la morte e resurrezione di Gesù

La morte di Gesù, prima ancora di essere frutto di ingiustizia e violenza contro l’innocente, è segnata nel suo destino di uomo dal momento che si incarna: accettare l’incarnazione da parte del Figlio era già accettare di morire. Non fosse stato così non sarebbe stata vera incarnazione.

La novità sta nella la vittoria sulla morte e l’apertura del Regno dei cieli; un evento escatologico inteso come futuro, ma che agisce sul presente, che lo cambia e che è anticipato nel presente.

Innanzitutto Gesù doveva morire perché ha accettato di condividere con noi l’intera dimensione umana, tranne che nel peccato. Ma la modalità della morte assume un significato ancora più grande perché innocente, crocifisso fra malfattori - la croce patibolo degli schiavi, escluso dalla città.

La sua risurrezione è vittoria contro la morte e anche contro l’ingiustizia e la violenza che ha subito lui e con lui è vittoria contro ingiustizia e violenza in generale, e contro il peccato che le genera.

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Come ci dice Ebrei 5,7-9, egli pregò per essere liberato dalla morte e fu esaudito, ma dopo la passione e la morte. Da questo viene la liberazione integrale sua e nostra, di tutti, da peccato, violenza e ingiustizia; e infine dalla morte. Questa apertura è la speranza cristiana.

Il Figlio si spoglia di sé, si fa uomo, servo(Fil 2,5), fino a manifestarsi nel volto degli oppressi e emarginati ( Mt 25).

Dunque la memoria della passione, morte e resurrezione del Signore, diventa memoria e della passione di tutti i poveri ed esclusi e, nel comando dell’amore; diventa impegno per la promozione umana degli oppressi e dei poveri. Non è un caso se, nelle prime comunità, fossero presenti queste categorie di persone. Lino, il primo papa dopo Pietro, era uno schiavo.

La comunità cristiana nasce e si costituisce attorno alla memoria di questa vicenda di Cristo, e ci invita a proseguire il dono di noi stessi per i fratelli. Il primo nucleo dei vangeli è costituito dalla passione e risurrezione.

Fare memoria della passione di Gesù è per noi un fatto eucaristico. Nell’eucarestia si celebra il mistero di liberazione dal peccato, dalle strutture di peccato e si fonda la solidarietà operativa dell’amore del Padre nel Cristo per mezzo dello Spirito.

Se tutti ponessimo la sofferenza e la povertà degli altri come criterio di misura e valutazione degli eventi e come limite delle nostre azioni, se la povertà e la sofferenza attuali, ma anche la memoria della sofferenza passata, fossero poste come elemento fondante una riflessione globale, ne verrebbe davvero qualcosa di nuovo che può ingenerare nuove visioni e nuovi progetti per la società.

La memoria della resurrezione si fa progetto di liberazione da tutte queste ingiuste sofferenze. Croce e resurrezione hanno in sé un messaggio di liberazione e di vittoria sul male non solo dopo, non solo in senso intimistico o escatologico, ma fin da ora.

Matura l’idea di una fede che non invita semplicemente a sopportare l’ingiustizia in attesa del paradiso ma che da ora indica la liberazione dei poveri come realizzabile e anticipo del Regno di Dio.

È liberazione da ora dai segni di morte. Il risorto condivide con i vivi la vita. La salvezza non è solo redenzione dal peccato per un paradiso futuro; piuttosto tende a operare per la liberazione integrale fin da ora.

La storia della passione di Gesù diventa memoria di tutte le sofferenze fisiche, morali, sociali, belliche degli uomini e delle donne di ogni tempo. Gesù è il crocifisso che si è addossato i nostri dolori, per le sue piaghe siamo stati guariti. In Lui si identificano i sofferenti in attesa di liberazione, coloro che aspettano di essere riscattati dal sangue dell’innocente.

Nel quarto canto del servo Yahweh, figura di Gesù, egli, prendendo su di sé le nostre sofferenze e i nostri dolori, li ha resi passaggio di liberazione, li ha resi pieni di senso. Ma alla fine del suo tormento vedrà la luce. Potremmo anche dire che si svela il senso di quella sofferenza, che questa è parte e cammino verso la liberazione.

Il kerigma di Gesù in Luca 4, il programma

Si matura l’idea di pro-seguire le opere del Gesù storico, che libera dal male già ora, e non solo del Cristo risorto ed escatologico che prepara una riscossa solo alla fine dei tempi. Egli, il risorto, opera già ora

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attraverso di noi, chiamati a proseguire le sue opere, ad attuare le sue parole ora, come liberazione – salvezza.

Il secondo kerigma è quello di Gesù in Lc 4. Egli entrato nella sinagoga di sabato, dopo essere stato nel deserto dove si è preparato alla missione, legge il brano di Isaia 61,1 s:

“Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione,e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi.”

L’oggi di Dio diventa tutta la storia della salvezza dalla vocazione di Abramo, alla liberazione di Israele dalla schiavitù, ai miracoli di Gesù, alla risurrezione e alla liberazione escatologica finale. L’oggi di Dio è il dinamismo dell’eterno che entra nel tempo e lo rende tempo di salvezza. Così i giorni non sono più portatori di morte, non sono più cattivi. (cfr Ef 5,16) Questo è il programma che Gesù dichiara di perseguire nella sua missione. Il tempo da kronos, che divora i figli, diventa kairos, tempo di salvezza per questa “irruzione” dell’eterno di Dio nel Figlio, dentro il tempo.

A Nazaret si scandalizzarono di questo annuncio di liberazione che si deve realizzare in lui. Non potevano credere che lui rendeva presente l’opera del Padre. La risurrezione fa sì che si renda evidente e si realizzi questa opera.

Al cap. 24 di Lc i discepoli di Emmaus riconoscono che Gesù è stato profeta potente in parole e opere, che il progetto di Gesù di Lc.4 è realizzato. Ancora però non credono avvenuta l’opera che il Padre ha compiuto in lui: la risurrezione.

Se la sequela di Gesù diventa pro-sequela cioè missione di pro-seguire la sua opera, noi siamo chiamati a operare questa liberazione che assume caratteristiche sociali e politiche; siamo chiamati ad un’opera che prefigura il Regno che è presente.

Gesù passa insegnando e operando

È vero che il vangelo non è un manifesto politico, ma in sé è come il piccolo sasso che fa cadere gli imperi, i colossi d’argilla. (Dan 2,26-49) Mette in discussione, infatti, le azioni che sono contro la giustizia e la pace, segni del Regno.

Le parole e opere di Gesù, narrate dai vangeli, hanno determinato la sua crocifissione. Il suo agire ha messo in discussione i poteri politico e religioso del suo tempo perché annunciava il vangelo di liberazione degli schiavi e dei prigionieri e frequentava i peccatori, accoglieva i piccoli e i poveri, guariva gli infermi: svolgeva un programma rischioso per i potenti e pericoloso per lui.

I potenti rischiano una ribellione contro il loro potere dispotico, che sia un potere morale o politico. Gesù invece incorre nel pericolo della sua vita e viene ucciso.

La decisione dei potenti fa risaltare la dimensione politica della sua opera, della sua missione. Egli infatti reputava il più piccolo ed escluso come figlio di Dio uguale al più grande e potente. E anzi doveva essere preferito proprio perché escluso e da tutelare. Gesù dichiara beati i poveri, i miti, i misericordiosi, coloro che cercano giustizia. Dichiara santi coloro che danno da mangiare agli affamati …

La risurrezione è il fatto che garantisce e dà sostanza a ciò che gli apostoli hanno visto e sentito prima della crocifissione: se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra speranza ( Cfr 1 Cor 15,14).

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Ciò che Gesù ha detto e fatto ha un significato preciso in sé. I vangeli ripetono spesso che Gesù si aggirava per i villaggi insegnando e operando.

1- Passava per incontrare e farsi incontrare. Era itinerante nel mondo, non restava chiuso in un luogo sacro. Neanche noi possiamo testimoniare la fede nelle sacrestie. La Chiesa in uscita, anche perché chiesa di popolo che è per sé fuori. (Papa Francesco lo ripete E.G.20-24) Noi siamo dunque chiamati a passare fra le persone, a farci incontrare e a incontrare le persone con calore fraterno, a coinvolgerci con le loro vite, le loro vicende, testimoniando l’amore del Padre, nelle situazioni da assumere come nostre perché sono nel nostro contesto.

2- La Vergine ci insegna che si comprendono i fatti solo nell’ascolto della Parola di Dio. Conservava queste cose meditandole nel suo cuore. (Lc 2,19) Solo così può lentamente comprendere l’azione di Dio. Anche per noi l’ ascolto e la contemplazione della Parola di Dio ci apre la porta della fede. Così possiamo leggere e interpretare i segni dei tempi, operare in essi dando ragione della speranza che è in noi. Possiamo vivere il vangelo nei contesti della nostra storia.

3- Operava, compiva miracoli verso i poveri, ammalati, piccoli …erano gesti di fraternità, di solidarietà, di amore. Qui è d’obbligo il riferimento al capitolo 25 di Matteo, al soccorso agli affamati, assetati, ignudi, pellegrini e forestieri, ammalati, carcerati, per indicare il suo volto e il segno del suo operato (ricordiamo le opere di misericordia che sono ricordate nella Bolla Misericordiae vultus n. 15) …La testimonianza sua era di amore concreto, che toglie dalla povertà mentre comunica l’amore del Padre.

Dunque Cristo ha vinto la morte e noi siamo proiettati nella sua vita eterna. Cristo ha vinto il peccato e noi entriamo nella dimensione della misericordia. Ne siamo protagonisti come coloro che ne usufruiscono, e come coloro che la testimoniano avendola ricevuta. Misericordia indica l’amore tenero di Dio verso tutti, in particolare i poveri, e ci invita all’azione.

Dice J. Ratzinger (in Gesù di Nazareth Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria editrice Vaticana-Città del Vaticano 2011, pg 97):“ Vita eterna non significa …la vita che viene dopo la morte …Vita eterna significa la vita stessa, la vita vera, che può essere vissuta anche nel tempo e che poi non viene più contestata dalla morte fisica…”

Se è così allora siamo già nel regno di giustizia, amore e pace; già e non ancora come si diceva più spesso qualche anno fa per sfuggire alla tentazione del fondamentalismo.

Siamo in cammino, ma un cammino che prefigura e in qualche modo anticipa pace, giustizia e amore.

Il concetto di giustizia, amore e pace che impariamo dall’annuncio del Regno di Dio diventa motivo critico di ciò che si compie per capire ciò che non è giustizia e che non è pace e non è amore. ( La chiamavamo: riserva escatologica)

Solo nel Regno ci sarà perfezione; questo determina nella storia un costante cammino verso la perfezione della misericordia del Padre.

Una nuova attenzione alla vita delle singole persone e dei popoli ci porta a vedere situazioni di emarginazione e di scarto, come si dice oggi; si deve allora partire dalla percezione della sofferenza, dalla compassione e dalla misericordia verso i poveri e sofferenti.

Il Kerigma della Vergine Maria: il magnificat canto di liberazione dei poveri

Questo ci porta al cantico del Magnificat, l’altro testo kerigmatico e poetico che ho citato all’inizio da Lc 1, 46 ss.

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Nel Magnificat Maria rilegge l’intera storia della salvezza che culmina in questo mistero dell’incarnazione del Figlio in lei.

Vede l’azione di Dio che interviene e lo “magnifica” mentre “esulta il suo spirito in Dio salvatore”.

L’atteggiamento è di fiducia e di speranza, sa che Dio guarda i poveri a partire da lei stessa: “Ha guardato all’umiltà della sua serva”.

Egli è il difensore del povero, dell’orfano, della vedova e del forestiero (cfr Es 22,20-26); ha già fatto grandi cose per il suo popolo e interverrà ancora: “di generazione in generazione la sua misericordia si stende …”.

Di colpo il Magnificat assume la forza di un canto di liberazione:

“Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi.”

Questa è politica! Certo non quella dei partiti o degli antipartito, ma lo è nel senso nobile del termine. Qui troviamo le motivazioni per noi.

Il Kerigma del credo e l’opera di salvezza del Padre e dello Spirito

Arriviamo così la quarto tipo di kerigma. C’è un teologo italo – argentino, nato in Italia, Lucio Gera1, teologo argentino molto stimato dal papa Francesco e che molto ha influito nel suo modo di pensare. Egli, Gera, partendo dal Credo, analizza il kerigma che riguarda Cristo incarnato morto e risorto, la sua missione di ricapitolare tutte le dimensioni dell’esistenza (tutto l’uomo) e di riconciliare tutti gli uomini nell’armonia di giustizia e pace fin da ora. Come abbiamo visto.

Ma aggiunge inserisce tutto questo nel kerigma trinitario. Kergima dell’opera del Padre dove la paternità universale implica la fraternità universale e la uguale dignità degli uomini.

Il Padre è creatore e salvatore. Se c’è un unico Padre allora tutti gli uomini sono fratelli, uguali. Uno solo è il Padre e uno solo il Maestro. Da questa affermazione deriva la concezione di uguaglianza che ha abbattuto il desiderio di superiorità di alcune persone o di alcune “razze” su altre. Questa uguale dignità è la base di ogni riflessione sui diritti e doveri, e così via ...

Il padre creatore, secondo Gera, indica una dimensione secolare creazionale e una salvifica della grazia. Quella creazionale fonda la dimensione “razionale” e sapiente di un’etica all’interno della società. È il contenuto di Gaudium et Spes 36, la giusta autonomia delle realtà terrene (G-S. 36 e 41); dalla G.S. sappiamo che la fede conferisce luce e forze per i compiti (G.S. 42) secolari. Se un credente li trascura mette in pericolo la sua salvezza eterna (G.S. 42).

Ma la fede non elimina la ragione, semmai la illumina e purifica.2

1 Nato a Pasiano – Pordenone nel 24 e morto nel 2012.- Il testo di riferimento qui è La religione del popolo EDB

Bologna2015pg 97-98 2 Cfr Deus Caritas Est n.28: “ … essa ( la fede ndr) è una forza purificatrice per la ragione stessa….. La fede permette

alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la

dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro

che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente

contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora,

essere riconosciuto e poi anche realizzato”. Vedi anche l’Istruzione per i cattolici impegnati in politica della

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C’è anche un kerigma dell’opera dello Spirito che è proprio quello che dà la forza per questi compiti.

Dio, infatti, può operare attraverso di noi, anche se non contro la nostra libertà. Bonhoeffer, in Resistenza e Resa, racconta di una impiccagione di alcuni ebrei ad Auschwitz. Fra loro c’era un giovane che si divincolava più a lungo di altri. Fra coloro che erano obbligati ad assistere qualcuno, ebreo, si chiese: “Dov’è Dio in questo momento”.

Come mai non è intervenuto per difendere il suo popolo. Come mai non interviene per abbattere i potenti e innalzare gli umili, mandare i ricchi a mani vuote e saziare i poveri.

Il grido era verso un Dio liberatore, come quello dell’Esodo e del Deuteronomio. Un rabbino presente commentò: “è sulla forca con lui”.

Questa risposta non può sfociare nella morte di Dio, ma nella sua azione attraverso l’intero suo popolo, quello dei centoquarantaquattromila e quello della moltitudine immensa. (Apc 7,2-14)

Così ci poniamo la domanda che si sono fatti teologi cristiani ed ebrei dopo la seconda guerra mondiale e cioè: come dire Dio dopo Auschwitz?3

Forse rispetto all’antico Israele noi, positivisti, non abbiamo occhi per vedere l’azione di Dio. Dobbiamo forse ripensare a Mt. 25 in cui il volto di Gesù è quello del povero, un volto non visto. Tutti, sia quelli che stanno alla sua destra che quelli che stanno alla sua sinistra chiedono: “ quando ti abbiamo visto affamato …?”.

Gesù ci evangelizza attraverso questi affamati, assetati, ignudi … la risposta non è solo vestirli, ma vedere Gesù, cioè vederli e amarli come fratelli e liberarli dalla loro indigenza, dalle strutture che li impoveriscono. (Questa economia uccide E.G. 53 ) La speranza è riposta nello scoprirci fratelli, nello stabilire relazioni di fiducia reciproca la quale può ridare spinta a tutta la convivenza civile.

La forza è quella dello Spirito di Dio, dell’Amore di Dio, l’amore che ci rivela fratelli, da cui la necessità di stabilire fra noi altri criteri che non siano il predominio, il possesso, il potere.

L’ascolto e la contemplazione di Dio ci può orientare nell’evangelizzazione, nell’annuncio ai poveri come in Luca 4. Annuncio di liberazione che, come la forza del Verbo, è immediatamente operativa.

Spesso non riusciamo a vedere nei tempi che viviamo, i segni del Regno di Dio. Spesso non siamo capaci di analizzarli e di recepirli come segni di speranza. Kasper, nel suo “Fede e storia”, sostiene nella seconda parte dellibro, che lo Spirito evangelizza direttamente il mondo, prima della Chiesa. A noi sta vedere i segni del Vangelo, i segni del Verbo, le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nella storia, come dice la E.N. 70.

Leggere i segni dei tempi è leggere l’azione di Dio nella nostra storia, è leggere il farsi del Regno di Dio. Questa è la base per un annuncio di speranza dentro fatti che sembrano invece di depressione. Questo

Congregazione della fede n 6: “La “laicità”, infatti, indica in primo luogo l’atteggiamento di chi rispetta le verità che

scaturiscono dalla conoscenza naturale sull’uomo che vive in società, anche se tali verità siano nello stesso tempo

insegnate da una religione specifica, poiché la verità è una.” 3 Vale la pena ricordare l’affermazione di Th. Adorno del 1966: “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna

forma d'arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile.” In Dialettica negativa, Einaudi,

Torino 2004 p. 326; e anche il testo di Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo,

Genova, 1991, scritto nel 1987 in cui riafferma che è possibile la salvezza ma tornando al tema della responsabilità. La

stessa riflessione fecero Metz con “La fede nella storia e nella società” Quriniana Brescia 1977, e Moltmann con Il Dio

crocifisso, Queriniana Brescia 1972.

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significa offrire alle persone la Parola che prima deve essere accolta dentro di noi con l’ascolto e diventare vita per noi.

Saremo creduti se siamo credenti e così diventati credibili per le nostre azioni e pensieri, come ha detto qualcuno.

La speranza si fonda sull’amore che è l’identità di Dio. Vivere l’amore al prossimo significa vivere la comunione con Dio, amare le persone del suo stesso amore, come le ama lui, che ha dato il figlio e nel figlio se stesso.

Noi siamo chiamati ad uscire da una pastorale ingessata, ad uscire come invita papa Francesco. Ci stiamo aprendo ad una nuova evangelizzazione che parta da nuovo entusiasmo e da nuovo linguaggio, come chiedeva cinquant’anni fa Giovanni XXIII.

È infatti lo Spirito che rende possibile ciò che sembra impossibile, che scompiglia senza posa le situazioni e così crea speranza di futuro.( O.A. 37)

La missione ci aspetta, come sempre e mi piace ricordare l’invito conclusivo di Benedetto XVI all’omelia di Verona ormai nove anni fa:

“Portate il lieto annuncio ai poveri, fasciate le piaghe dei cuori spezzati, proclamate la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, promulgate l'anno di misericordia del Signore (cfr Is 61, 1-2). Ricostruite le antiche rovine, rialzate gli antichi ruderi, restaurate le città desolate (cfr Is 61, 4).”

La scelta dei poveri

Perché tanta insistenza per questo amore preferenziale per i poveri. L’amore di Dio è per tutti, nessuno escluso. La scelta dei poveri e di una Chiesa povera e per i poveri fu l’argomento di una parte iniziale del vaticano II.

Questa scelta era stata auspicata da Giovanni XXIII nel Radiomessaggio dell’11 settembre 1962, un mese prima dell’inizio del concilio, in cui disse:

“In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta qual è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti e

particolarmente la Chiesa dei poveri.”4

Ci fu anche un famoso discorso del card. Lercaro il 6 dicembre 1962, nel primo periodo del concilio, in cui

chiedeva che il tema dell’evangelizzazione dei poveri fosse considerato come tema centrale. La povertà

doveva essere intesa come modo d’essere essenziale della Chiesa.5

Il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari

celebrarono un’Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma. C’era anche mons L. Bettazzi.

Dopo questa celebrazione, firmarono il Patto delle Catacombe. I firmatari s’impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.

4 EV 1/25*l

5 Vedi C. Lorefice Dossetti e Lercaro. La chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Concilio Vaticano II, Paoline

Milano 2011 pg 149-285

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Ci chiediamo: perché esiste in Dio questa opzione? Un risposta la potremmo enucleare anche da Isaia 40, 1-11, che troviamo anche nel salterio:

Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri.

È evidente la premura per quelli che sono in situazione di debolezza per qualsiasi motivo. Dio è fedele a ogni uomo, è il pastore di tutti, di tutto il gregge; ama tutti e singolarmente e come popolo, ci vuole tutti come interlocutori.

Per questo si china su chi è più fragile, sugli esclusi dalla comunità perché più bisognosi di sostegno; e invita la sua comunità a prendersi cura di loro.

Noi leggiamo i racconti della nascita di Gesù fra i pastori, nella mangiatoia. Ma la vera ragione teologica della scelta dei poveri la espone Paolo in Fil 2,5.6

Il Verbo incarnato condivide con noi tutto e lo fa fino alla morte di croce. La condivisione ha come premessa la spoliazione di sé; qui si fonda la visione di Chiesa povera per i poveri. Questa è la fondazione teologica della scelta dei poveri: la condivisione di Dio.

Questa scelta sarà assunta da Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis dell’87, al n. 42 e proposta a tutta la Chiesa come scelta evangelica.7

Contro questa scelta stanno le strutture di peccato che Giovanni Paolo II denunciava nella Sollicitudo rei socialis n. 36. Egli riconobbe soprattutto due atteggiamenti come origine di strutture di peccato: “ brama esclusiva di profitto” e “ sete del potere a qualsiasi prezzo”.

Il segno caratteristico del peccato è “il privilegio di sé”, cioè l’egoismo nel senso pieno, che è il contrario dell’amore, della carità, della bontà morale.

Nella relazione ciò significa che l’altro è visto come possibile nemico, rivale oppure come strumento, o addirittura non visto, non guardato, guardato con indifferenza.

Dovremo scoprire la virtù della sobrietà come premessa della condivisione, ma ancora più come scoperta del valore della dimensione umana superiore che non si accontenta dei consumi materiali, che ha altre esigenze. La vita ha in sé un valore che il denaro non può né dare né togliere. È uno strumento importante ma è strumento. La ricchezza è un dono da condividere, il dono di Dio della creazione destinato a tutti gli uomini.

Il valore della comunicazione di amore fraterno è il valore che costruisce comunione e armonia. Quante volte ci siamo detti che occorre cambiare gli stili di vita; occorre, però, cambiare prima i riferimenti secondo i quali noi pensiamo la vita e la organizziamo.

6 “Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso

assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.” 7 “ Desidero qui segnalarne uno( dei temi indicati dal magistero n.r): l'opzione, o amore preferenziale per i poveri. É,

questa, una opzione … testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano,

in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica egualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro

vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l'uso dei beni. Oggi poi, … questo amore

preferenziale, con le decisioni che esso ci ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di

mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non

prendere atto dell'esistenza di queste realtà. …La nostra vita quotidiana deve essere segnata da queste realtà, come

pure le nostre decisioni in campo politico ed economico.”

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Cambiare gli stili di vita non significa immiserire la vita stessa ma arricchirla di valori non mercantili. La vita ha in sé qualcosa di divino, siamo immagine di Dio. Questo la rende degna di essere vissuta per sé, per la capacità di godere del bello, del buono, del giusto, vivere dell’amore di Dio condiviso fra noi, vivere nell’armonia dei fratelli.

Tanta insistenza sulla scelta dei poveri, fondata teologicamente in Cristo incarnato, oggi si deve misurare con una loro presenza particolarmente evidente sia per la persistenza della crisi sia per l’arrivo di moltitudini di immigrati. Queste presenze sono segno di mancanza di giustizia, sintomo di peccato e disordine.8

Papa Francesco viene dall’America latina che ha fatto di questa scelta il punto centrale della sua pastorale di liberazione. L’impegno per strutture giuste orientate al bene comune, l’impegno per operare carità e giustizia inizia dai poveri per sottrarre a situazioni disumanizzanti loro e noi. Se li lasciamo lì siamo già noi disumanizzati.

L’impegno non può essere solo sociale, ma politico. Nella Octogesima Adveniens (n.46) Paolo VI raggiunge una chiarezza nel verificare che non basta agire nel dimensione economica, o del volontariato sociale diremmo noi, occorre arrivare alla politica, la quale è un modo esigente, anche se non l’unico, di vivere l’amore per i fratelli.

E nella E.N., il n. 70 indica ai laici la dimensione della loro vocazione e santificazione nel mondo vasto della politica e dell’economia … .9

8 Secondo il rapporto ISTAT del 15 luglio 15, rilevata dalle spese delle famiglie, nel 2014 in Italia abbiamo quasi un

milione e mezzo di famiglie (5,7% di quelle residenti) in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni 102

mila persone (6,8% della popolazione residente). Come quella assoluta, la povertà relativa coinvolge, nel 2014, il 10,3%

delle famiglie e il 12,9% delle persone residenti, per un totale di 2 milioni 654 mila famiglie e 7 milioni 815 mila

persone. Il modello italiano di povertà sembra essere la conseguenza di un sistema di welfare che ha scaricato sulle

famiglie compiti e responsabilità, le quali nei paesi del Nord e Centro Europa sono invece condivisi dalla collettività e

almeno parzialmente a carico dello Stato. Tra le famiglie con stranieri la povertà assoluta è più diffusa che nelle

famiglie composte solamente da italiani: dal 4,3% italiane, al 12,9% per le famiglie miste, fino al 23,4% per quelle

composte da soli stranieri. Al Nord e al Centro la povertà tra le famiglie di stranieri è di oltre 6 volte superiore a quella

delle famiglie di soli italiani, nel Mezzogiorno è circa tripla. Abbiamo in Italia tre milioni di disoccupati, due milioni

circa di lavoratori a tempo determinato, quattro milioni circa di lavoratori part time. Da questa situazione lavorativa

precaria deriva un disagio grave e una difficoltà di previsione di futuro. Dati da Centro studi UNIMPRESA 11 ottobre

2015.Lo stesso dicasi per il fenomeno attuale dell’immigrazione, con tutte le figure che questo termine comporta.

Nell’ambito dell’EXPO l’ 11 settembre è stato presentato il rapporto: Cibo di guerra – 5° rapporto sui conflitti

dimenticati, curato da Caritas Italiana, Famiglia Cristiana e Il Regno e pubblicato dal Mulino. Vi si analizzano le cause

della grande immigrazione dovuta a guerre scatenate dall’imperizia politica dell’occidente, alle sciagurate guerre del

Golfo, seguite dall’interpretazione opportunista delle primavere arabe, interpretazione di comodo e pensate a nostro

favore politico ed economico. Favore non verificatosi in seguito. Le guerre sono soprattutto in Afganistan, Pakistan,

Iraq, Siria da cui provengono molti rifugiati che vanno verso l’Europa centrale e del nord. E poi dall’Africa in

particolare Nigeria, Libia, Somalia. Molti altri conflitti, soprattutto in Africa, non sono neanche rilevati. Ci sono zone

dove avvengono conflitti non rilevati, ritenuti non importanti. Sono zone spesso rivendicate per ricchezza di sottosuolo

o per la fertilità dei terreni. Oltre alla guerra è da sottolineare il fenomeno dell’accaparramento delle terre da parte,

soprattutto, di USA e Cina in Africa. Le terre messe a frutto producono derrate alimentari che immediatamente vengono

portate nei paesi che acquistano le terre. Inoltre occorre considerare che le immigrazioni sono per noi, paese di vecchi,

una risorsa economica e demografica. Gl’immigrati non sono più del 7% della popolazione e devono rimpiazzare gli

italiani emigrati nel resto d’Europa: grosso modo circa centomila all’anno. Si calcola che, per mantenere i livelli di

sviluppo attuali, l’Europa ha bisogno entro il 2020 di circa quaranta milioni di nuovi europei. 9 “Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale,

dell'economia; così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della

comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte all'evangelizzazione, quali l'amore, la famiglia,

l'educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza.”

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Pio XI aveva già parlato della carità politica in una udienza alla FUCI del 18-12-1927, la data è importante ( tempo del fascismo) come è importante vedere i destinatari. Nella FUCI si preparò la classe dirigente che dopo la guerra governò l’Italia. A loro disse:

“Il campo più vasto della carità è quello della carità politica, del quale si può dire che nessun altro gli è superiore, tranne quello della religione.”

Benedetto XVI nella C.V. al n. 7 parla del bene comune per il quale è necessaria l’opera dei cristiani che osservano il comandamento dell’amore.10

Diverse sono le cose da annotare.

Da CV 7 emerge un concetto di società espresso in prima persona: noi tutti. È un concetto molto più caldo e supera quella dimensione di terzietà a cui spesso facciamo, o facevamo ricorso. Questo implica un impegno in prima persona dei credenti nella società come luogo del lavorio culturale, progettuale, realizzativo delle relazioni e dei corpi intermedi. La società è il soggetto attivo della ricerca del bene comune e ne è anche il destinatario. Averlo espresso in prima persona plurale indica la assunzione diretta delle responsabilità sociali e politiche di ognuno di noi.

Nella bolla di indizione dell’anno giubilare della Misericordia, al n. 20 viene proposto il rapporto misericordia e giustizia. Spesso per giustizia si intende ammonizione severa e punizione adeguata alle azioni sbagliate. Il Dio dell'Esodo e dell’Alleanza sul Sinai è il Dio fedele alle promesse per questo è giusto. La sua giustizia si esprime in questa fedeltà. La giustizia di Dio è qualcosa che salva, ristabilisce, determina il diritto dell'uomo: nel patto d’Alleanza Dio chiede al suo popolo questa difesa della giustizia e del diritto. La giustizia nasce dal riconoscere l'altro come persona e dal riconoscere quanto gli è dovuto per il fatto che è persona. Dio si manifesta “giusto” quando crea l'uomo e subito lo riconosce come persona, lo vuole come tale; gli si rivolge alla ricerca del dialogo e della comunione, non è uno strumento per lui. Noi non siamo suoi strumenti; semmai interlocutori e collaboratori.

Impegnarsi per il bene comune, è esigenza di giustizia e carità e diventa impegno politico preciso. Il tipo di impegno del cristiano nella società deve essere alla luce della Deus caritas est al n. 28:“La Chiesa non può e non vuole prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta. Non può e non deve mettersi al posto dello stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini della lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare.”

Ci troviamo così a parlare di impegno politico, oltre che sociale. In campo sociale ci sono molte iniziative da parte del mondo cattolico. Noi abbiamo una tradizione di cooperazione straordinaria, cooperazione basata su una visione antropologica relazionale da cui sorgono i beni relazionali che costituiscono il tessuto della società. Questo impegno può e deve essere il campo nel quale acquisiamo competenze e abilità per entrare nella dimensione politica. Non siamo chiamati tutti a fare i parlamentari a qualsiasi livello, ma a essere cittadini responsabili.

10 “ Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel

“noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale … Ogni cristiano è

chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d'incidenza nella pólis. È questa la

via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la

carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. …Come ogni impegno per

la giustizia, esso s'inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l'eterno.”

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La crisi non è solo finanziaria, né solo economica. La crisi è politica, è crisi di modello di sviluppo ed è soprattutto crisi culturale, di pensiero.

Il nostro sistema sociale e politico ha urgente bisogno di un ricambio di idee e progetti, di partecipazione dell’intera società, ancor prima che di leader. In questo senso la funzione dei corpi intermedi, che in questi ultimi decenni sembrano ignorati, va riscoperta e rilanciata.

È un lavoro di lungo termine, ma va fatto comunque. Questo spetta all’intera Chiesa che deve formare le coscienze, ma l’impegno diretto è soprattutto di tipo secolare e spetta alla vocazione laicale.11

Un nuovo pensiero

Un’altra considerazione va fatta da una citazione della Caritas in veritate: “..il mondo soffre per mancanza di pensiero”.12

Solo con uno slancio di pensiero possiamo comprendere meglio il senso della nostra vita e il nostro essere una sola grande famiglia. Possiamo conoscere la dignità umana e il modo migliore di promuoverla.

È sempre la riflessione sulla verità dell’uomo il punto cruciale, lo snodo.

Benedetto XVI nella CV 75 dice:

“… oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica.”

L’uomo subisce una riduzione quantitativa, mercantile, individualista ed egoista. È un oggetto e come tale viene trattato. L’uomo è un ingranaggio del sistema economico-finanziario.

Pensiamo alla manipolazione della vita umana di cui ci si sente padroni: è considerata un prodotto e come tale gestita, venduta e comprata.

Conclusione: una soluzione dalla formazione di chi già opera

Di fronte ai problemi noi non possiamo accettare questa riduzione. Di fatto le nostre iniziative culturali, assistenziali, sociali ed economiche sono su una linea alternativa. Già stanno costruendo un nuovo modello di società sulla base di una concezione antropologica specifica dove socialità significa prossimità, condivisione, visione solidale. Qui c’è costruzione di beni relazionali sui quali si forma un nuovo tessuto di società.

Forse è qui che dobbiamo lavorare: dare consapevolezza a chi vi opera, alla comunità dei credenti, della novità culturale e politica del nostro agire sociale. Le caritas diocesane e parrocchiali dovrebbero essere luoghi di crescita di coscienza anche politica, senza fare “politica”, ma facendo cultura politica; facendo discernimento.

Questo è il novum politico e sociale, che costituisce il nostro originale apporto.

Concludiamo ricordando Isaia 1, 10-20 dove descrive il vero culto a Dio a cui siamo chiamati:

11

Ricordiamo la GS 43:“Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori

siano … possano avere pronta una soluzione concreta,…; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità,

alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero.” 12

Caritas in veritate n 53 citando la Populorum Progressio al n 85.

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“…Che m'importa dei vostri sacrifici senza numero? dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova.”

Come ci ricordò Benedetto XVI citando S. Agostino nella Deus Caritas est: che cos’è uno stato senza giustizia se non una grande banda di ladri. Il vero culto è operare per la giustizia e questo è compito della politica, oltre che del volontariato e delle opere di carità. L’eucarestia stessa, ricordando quanto detto sopra, è assumere impegno per l’amore al prossimo, per il bene comune e per la giustizia.

Franco Appi