Difficile parlare di un filo d’erba · d'accordo e restai ad aspettarlo. Non passava nessuno e le...

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Storie dall’arte– Difficile parlare di un filo d’erba www.scritturacome.com • [email protected] 1 Difficile parlare di un filo d’erba Lotta di toni, perdita di equilibrio, caduta dei "principi", inattesi colpi di tamburo, grandi interrogativi, tensioni apparentemente senza scopo, impeti e nostalgie apparentemente laceranti, catene e legami spezzati, contrasti e contraddizioni: questa è la nostra armonia. Su questa armonia si fonda la composizione: un rapporto di colori e linee indipendenti, che nascono dalla necessità interiore e vivono nella totalità del quadro. (Wassily Kandinsky - Lo spirituale nell’arte – Bompiani 1995)

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Difficile parlare di un filo d’erba

Lotta di toni, perdita di equilibrio,

caduta dei "principi", inattesi colpi di

tamburo, grandi interrogativi, tensioni

apparentemente senza scopo, impeti e

nostalgie apparentemente laceranti,

catene e legami spezzati, contrasti e

contraddizioni: questa è la nostra

armonia. Su questa armonia si fonda la

composizione: un rapporto di colori e

linee indipendenti, che nascono dalla

necessità interiore e vivono nella

totalità del quadro.

(Wassily Kandinsky - Lo spirituale

nell’arte – Bompiani 1995)

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Non avevo chiuso occhio tutta la notte e

non mi costò molta fatica alzarmi presto.

In verità ero già pronto ad alzarmi

ancora prima che suonasse la sveglia.

Avevo preparato tutto la sera prima,

tutto quello che mi poteva servire.

Giusto il tempo di lavarmi e vestirmi ed

ero in strada. In un attimo l’aria fresca

mi liberò dal torpore del sonno mancato e

calmò l’emozione che me lo aveva tolto. I

lampioni erano ancora accesi nonostante

fosse ormai giorno.

Mi avviai a piedi e lungo la strada

ripassai mentalmente il contenuto dello

zaino per assicurarmi di non aver

dimenticato nulla. Giunto sotto casa del

mio maestro citofonai due volte come

d'accordo e restai ad aspettarlo. Non

passava nessuno e le serrande dei negozi

erano chiuse, tranne quella del bar

vicino al capolinea. Mi girai al rumore

della serratura e vidi che il portone si

stava aprendo.

"Buona giornata, maestro", dissi. "Buona

giornata a te", rispose "sarà bel tempo

oggi. Siamo fortunati”. Proseguimmo l'uno

accanto all'altro verso la fermata del

pullman di linea che ci avrebbe condotti

non lontano dall'inizio del sentiero.

"Hai mangiato qualcosa?", mi chiese.

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Non avevo mangiato nulla e sapevo di non

aver fatto la cosa giusta perché avrei

potuto sentirmi male.

"No", risposi imbarazzato.

"Ci fermiamo a far colazione prima di

partire così avremo il tempo di

digerire”.

Rifocillati da un paio di brioche,

salimmo su un pullman un po’ malridotto,

i tubolari di acciaio dei sedili erano

ossidati e in alcuni punti anche un po’

arrugginiti; la seduta e gli schienali

erano di finta pelle di chissà quale

colore, e qua e là usciva un po’ di

gommapiuma.

Prendemmo posto in fondo per rimanere

vicini e sistemare i nostri zaini sui

sedili accanto. Sulle prime scambiammo

qualche parola su come avevamo passato la

notte e su quel che ci aspettavamo da

quella giornata poi il traballare del

pullman semivuoto ci suggerì di chiudere

gli occhi per radunare le forze da

spendere durante la giornata.

Scendemmo lungo la strada provinciale

vicino a un muretto che evitava ai

passanti di cadere nel fosso sottostante.

Proseguimmo per pochi metri fino a

incontrare un’edicola con la statua della

Madonna, ai piedi della quale erano stati

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sistemati dei fiori di plastica ormai

scoloriti dal sole e dalla pioggia.

"Si parte da qua”, disse il maestro.

"Come ti senti ?"

"Bene", replicai, "sono pronto."

"Il tragitto è lungo, ma ne vale la

pena."

Iniziammo a camminare uno dietro l'altro

in silenzio con lo stesso passo lento, un

piede avanti all'altro. I sassi

scricchiolavano sotto la suola rigida

degli scarponi e ogni tanto una lucertola

capitata lungo la via si affrettava a

trovar scampo nella macchia bassa che

costeggiava il sentiero. Piccole farfalle

bianche si posavano sui fiori viola dei

cardi. Niente altro. Passo dopo passo il

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respiro diventava sempre più percettibile

e mi sembrava di non riuscire più a

governarlo. Non dissi niente ma chiesi

solamente se prevedeva delle soste lungo

il cammino per prendere fiato e magari

bere un po’.

Il maestro rispose che ci saremmo fermati

una volta raggiunto il valico. Prima non

si poteva, mi spiegò, perché si sarebbe

interrotto il ritmo dell'andatura, che

poi sarebbe stato faticoso riprendere.

Dal valico, aggiunse, si potevano vedere

due orizzonti che sarebbero diventati uno

solo una volta arrivati in cima. C'era

ancora parecchia strada per la vetta, ma

diversa da quel sentiero ripido e

faticoso che stavamo percorrendo, tutto

uguale, che serpeggiava lungo il fianco

della montagna senza l'ombra di un solo

albero. Feci di tutto per resistere e per

non farmi sopraffare dall'affanno. Cercai

di inseguire una fantasia, un ricordo, e

poi una canzone; nella mente ne ripetevo

continuamente il motivo come un disco

difettoso. Pian piano mi abbandonai a

quella cantilena e quasi mi dimenticai la

fatica e tutto quello che c’era intorno.

Arrivammo sul luogo che il mio maestro

aveva scelto per la sosta. Li ci

togliemmo gli zaini e prendemmo le

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borracce. Sputai il primo sorso d'acqua

con il quale mi ero sciacquato la bocca

arida. Poi bevvi soddisfatto e mi sedetti

con la schiena appoggiata a un sasso.

"Tutto bene?", disse il maestro.

"Bene", risposi. "A un certo punto ho

creduto di non farcela ma poi... ecco, mi

sembra impossibile essere arrivato qui."

Infatti il desiderio di non deluderlo e

la fatica non mi avevano lasciato ricordo

del cammino. Solo in quel momento mi resi

conto dove fossi arrivato.

I due orizzonti delimitavano realtà

completamente diverse. Da una parte la

pianura da cui eravamo venuti, dall'altra

i crinali dei monti, uno dietro l'altro

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come le onde del mare. Tutto era immerso

in una luce abbagliante velata di foschia

che dava al panorama l'aspetto surreale

di una visione. Mi sentii invadere da una

inaspettata contentezza, dovuta forse

all’aria o all’aver trovato la canzone

giusta; io preferivo pensare che quel che

stavo provando lo dovevo solo alle mie

gambe e agli scarponi. Ero un puntino in

bilico fra il mondo e il cielo senza

essere parte né dell’uno né dell’altro,

un puntino con un paio di gambe e un

maledetto fiatone. E il mondo e il cielo

erano già diventati un’altra cosa, nel

tempo del cammino, quanto non lo so. Il

sole era alto.

"E voi maestro che vedete da qui?", dissi

cercando una risposta alle mie emozioni.

Era seduto accanto a me, anche lui

appoggiato al masso, ma non mi ero

accorto che aveva gli occhi chiusi. Alla

mia domanda li aprì e sorrise.

"Mi dispiace, maestro", aggiunsi subito

balbettando.

"Non credevo che..."

"Tenevo gli occhi chiusi solo per

ascoltare."

Non riuscivo a percepire suono diverso

dal ronzio delle orecchie e dal vociare

dei miei pensieri, per il resto solo un

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ondular di montagne che non faceva

rumore. Non capivo ma sapevo che non

avrei dovuto disturbarlo, che dovevo

aspettare paziente di rimettermi in

marcia dietro di lui. Ma ero li e non

potevo dimenticarlo. Ero ai confini del

mondo ed ero con lui. Ci doveva essere

una ragione.

"Maestro, vi prego, parlatemi del mondo",

dissi infine.

"Mio caro, parlar del mondo è difficile

come parlare di un filo d'erba", rispose

prontamente, come se aspettasse la mia

domanda e ne avesse meditato da tempo la

risposta.

"Ma anche gli asini conoscono l'erba",

esclamai infastidito.

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"Si, ma l'asino e il bue la mangiano, la

formica vi si arrampica, noi la

calpestiamo, il botanico la studia. Lo

stesso è per quello che tu chiami mondo”.

“Capisco”, dissi per non contrariarlo.

“Da quassù vediamo la cresta di questo

monte che stiamo scalando e lontano da

noi altri monti fino all'orizzonte.

Laggiù in quel paesino il mondo è fatto

di mattoni e travi corrosi dal tempo, di

tetti d'ardesia nera, di stalle e di

biada e l'unico orizzonte è la fine della

strada provinciale. In città, lo sai

bene, il mondo è fatto di asfalto,

cemento e scatole di latta e l’orizzonte

è il profilo dei tetti, sfrangiato dalle

antenne”.

Detto questo si alzò, si rimise lo zaino

sulle spalle e aspettò che facessi lo

stesso anch'io, poi lentamente

riprendemmo il cammino.

Avrei voluto spiegarmi, replicare, ma

riuscii solamente a balbettare:

"Maestro capisco quel che dite, è

senz’altro vero ma..." Mi fermai dietro

di lui che girandosi mi pregò

semplicemente di fare attenzione.

"Guarda bene dove metti i piedi", mi

disse, "muovi ogni passo con decisione e

poi fermati. Qui il sentiero è

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strettissimo e sassoso, e a destra è

scoperto. Ma non ti preoccupare è solo

per una decina di metri."

Dopo il primo passo mi fermai come mi

aveva detto appoggiandomi alla parete

rocciosa alla mia sinistra e, guardando

giù verso il burrone, trattenni il fiato.

Provai un brivido e pensai: un salto e

sarebbe finito tutto. Anche il mondo.

"Maestro", continuai timido appena

ripreso il sentiero, "parlatemi del ....

parlatemi, maestro."

"Ogni uomo prima o poi vorrebbe sapere

del mondo e chiede ad altri cosa sanno o

cosa hanno capito. Altri prima di te

l’hanno chiesto ai propri padri o ai

propri maestri e questi a loro volta ai

padri e ai maestri, ma la risposta è

stata sempre: parlare del mondo è

difficile come parlare di un filo d'erba.

Tu vuoi sapere del mondo, figliolo. Prima

devi essere tu a dirmi del mondo. Ora

però fa molta attenzione. Inizia un

passaggio difficile ma non pericoloso

perché non è esposto come quel tratto di

sentiero che abbiamo appena percorso.

Guarda, c'è una corda fissa sulla parete

di sinistra, ti ci dovrai attaccare.

Dobbiamo superare un canalino di roccia,

ma se sarai calmo non ci saranno

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problemi. Adesso vai avanti e aspettami

lassù in cima dove riprende il sentiero.

Non aver paura, reggiti alla corda con la

mano sinistra e con la destra afferra

questo appiglio. Guarda dove metti i

piedi. Questo sasso sembra un ottimo

scalino. Comincia a salire. Io rimango

dietro per accertarmi che tu non metta un

piede in fallo."

Ero timoroso di aprire, per così dire, la

via e allo stesso tempo mi dava sicurezza

sapere che c'era qualcuno che vigilava

sulla fiducia accordatami.

Salivo lentamente ma con decisione,

sentivo il mio respiro contro la parete e

la mia mente nelle mani e nelle gambe,

afferravo la corda e toccavo la roccia,

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sceglievo gli appigli, saggiavo la

resistenza di uno sperone, facevo

attenzione a non smuovere sassi che

potevano cadere giù colpendo il maestro

che attento mi seguiva. Toccare la roccia

mi dava un piacere fisico. Ne percepivo

il tepore e la consistenza e mi stupivo

della sua durezza, giacché il colore e

l'aspetto mi evocavano la mollezza del

magma da cui si era formata. Superato

quel passaggio apparve di nuovo

l'orizzonte, il cielo e le cornacchie che

volavano in picchiata verso la valle per

poi riprender quota. Il maestro mi

raggiunse e sorridendo mise la mano sulla

mia spalla.

"Allora", mi disse, "cos'è per te il

mondo?"

Il mondo era dentro di me, era il mio

respiro divenuto regolare, le membra

fresche di aria tersa, la gioia di

chiudere gli occhi e ascoltare quel

momento, e vedere la luce e l’infinito

oltre l’orizzonte. Il mondo era la mia

gratitudine per lui che mi aveva condotto

fin lassù, ma parlare era difficile,

difficile come parlare d’un filo d’erba.

"Il mondo, maestro", dissi soltanto, "é

in questo istante”.

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Riprendemmo a camminare. Il sentiero era

un po’ ripido ma agevole. Il maestro mi

precedeva curvo a causa della pendenza

del terreno. La sua testa spuntava appena

dietro lo zaino che sovrastava di poco i

polpacci robusti coperti da calzettoni

rossi. Non parlavamo. Il rumore dei passi

ci teneva compagnia e, nonostante fossero

parecchie ore che camminavamo, era ancora

sonoro e ben ritmato. Sembrava quasi che

avessimo più energie di quando eravamo

partiti e questo alimentava il mio stato

di grazia.

"Arrivati in vetta mangiamo", disse il

maestro.

"Quanto manca?", osai chiedere.

"Siamo quasi arrivati", rispose.

Strano a dirsi ma li per li non mi fece

piacere. Stava succedendo tutto e troppo

in fretta. La contentezza che mi aveva

invaso aveva bisogno di tempo per colarmi

dentro e appartenermi. Arrivati in cima

sarebbe finito tutto e non ci sarebbe

stato più spazio per andare. Il mondo

sarebbe tornato piccolo, asfaltato e

rumoroso. Non commentai e paziente

continuai a camminare.

Scorgemmo all'improvviso la cima, segnata

da una croce, che spuntò dietro una curva

del sentiero. Ancora pochi passi, gli

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ultimi, affrettati, goffi, scoordinati

dalla sorpresa e dalla voglia di

lasciarsi andare. Le gambe tremavano,

perdevano tensione, stavo quasi

inciampando mentre, sorridendo di me

stesso, volevo abbracciare il mio

maestro. Eravamo arrivati.

L'orizzonte ci circondava. C'era vento e

faceva piacere. Sentivo l'aria come una

presenza partecipe della nostra

conquista. Ero in cima al mondo e non

c’era un filo d’erba.

Con mia grande sorpresa il maestro tirò

fuori dallo zaino una bottiglia di vino e

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due bicchieri di metallo. Lo stappò e ne

versò per tutti e due.

"Lo abbiamo meritato. Anzi", aggiunse

offrendomi il bicchiere, "te lo sei

meritato."

Bevvi d'un sorso quel vino fresco di

zaino che ci rese allegri. Non riuscivo

più a distinguere ciò che avevo pensato

da quel che avevo detto e sentito. Il

pensiero fluiva libero riportandomi

immagini di luce. Sembrava impossibile

che solo poche ore prima davanti ai miei

occhi ci fosse il bar degli autisti e il

pullman sgangherato.

Ci sdraiammo con la testa sugli zaini e

la schiena sui sassi, uno accanto

all’altro e rimanemmo così a guardare il

cielo. Lassù, sorretti da quella vetta,

non c’era più terra né orizzonte, solo

aria densa, viva, abitata dal vento e dai

colori. E quello era un altro mondo.

"Maestro a che pensate?", ebbi il

coraggio di dire.

"Al fatto che ognuno cerchi di sapere da

altri la ragione del mondo”.

“Perché non dovrebbe?”

“Pensa a quello che mi hai detto mentre

salivamo. Il mondo è in quest’istante, mi

hai detto”.

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“Maestro in quell’istante c’era solo la

mia emozione”.

“La vita di ognuno è un susseguirsi di

istanti e di emozioni”.

“Maestro non burlatevi di me”.

“Non mi sto burlando di te, sto solo

parlando del mondo come tu mi hai

chiesto”.

“Allora maestro, ditemi, qual è per voi

la storia del mondo, in quest’istante”.

Cambiò posizione, si mise seduto e

cominciò a guardarmi sorridendo. Poi

riprese a parlare.

"In questo momento la storia del mondo

non è come le altre storie perché non

c’era una volta… no, all'inizio non c'era

niente, neanche un filo d’erba, non c'era

nulla che esistesse e che fosse in grado

di rappresentare tanta nullità. Proprio

nulla. C'era soltanto tutto quel che non

era.

Non era buio e non era luce, non era

silenzio né suono, non era aria e non era

il vuoto, non era evento e non era tempo.

E continuò a non essere finché un piano,

uno solo sibilante e sinistro, non lo

ferì. Quel nulla, profanato da tanta

violenza, non fu più tutt’uno e si

schiuse nelle sue dimensioni, diventando

spazio. Il pensiero lo catturò, concepì

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per lui l'infinito, definì gli opposti e

lo rese reale. Da rette recise

sgorgarono, liberi come monadi, punti

senza dimensione che andavano vagando

leggeri accumulandosi e dissolvendosi.

Uno cadde sul piano infinito. Vi affondò

per poi rimbalzare, oscillare e

riconquistare la superficie. Poi un altro

e un altro ancora, un crepitio di perle

che sul piano andavano a trovare pace”.

Il mio maestro parlava con aria solenne e

sognante e io assorto ascoltavo il suo

racconto, che mi sembrava

straordinariamente chiaro e logico.

“All'improvviso un guizzo, un trillo, un

baleno”, continuò. “Sinuosa una curva si

contorce poi si rigonfia e continua a

fluire lungo il piano che l’accoglie

paziente. Ecco una retta sfrecciare come

uno squillo di tromba che vigoroso e

tagliente tiene la nota mentre una nube

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rosata lentamente colora il piano. È

l'alba. Le forme stanno nascendo. Un sole

rosso appare prepotente graffiando di

luce lo spazio circostante. Sembra che

avanzi, che esca dal piano, è un tuono

che si avvicina raccolto e rifratto da

parabole lontane. L'eco di quel suono si

ricompone in un nuovo sole e poi in un

altro, un altro ancora. È un miraggio, un

caleidoscopio di colori puri senza

materia è l'aria che trema di caldo

mentre germogli di forme vagano per lo

spazio lungo raggi di luce."

“Maestro” esclamai incantato "questa è

davvero la storia del mondo."

Su quella vetta, non poteva essere che

quella. C'era il sole e l’aria che

vibrava di vento, le onde delle montagne,

e laggiù la pianura. Il maestro sorrise e

aggiunse:

"La prossima volta mi racconterai tu una

storia del mondo."

Iniziammo a scendere velocemente, a

balzelloni, soprattutto dove il sentiero

era più ghiaioso, lasciandoci scivolare

insieme ai sassi smossi dal nostro peso.

Il sole era ormai basso e nascosto dalla

cima che ci lasciavamo alle spalle.

Rumori nella mia mente e forme lungo un

raggio di luce, il vino fresco, la

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sensazione del metallo sulle labbra, la

croce, le direzioni infinite, le rette

recise come vene, lo zaino che mi colpiva

le spalle, io che lo reggevo con le mani,

eravamo soli, non avevo l'affanno ma

dolore alle ginocchia.

Raggiungemmo il valico e ci fermammo.

L'orizzonte che avremmo abbandonato era

rosato, come pure i ciuffi di nuvole

alte. Vedevo i monti ondeggianti e il

piano deformato da una miriade di punti.

Volevo parlare, volevo che il mio maestro

sapesse, volevo spiegare a me stesso ma

riuscii solo a dire: "È bello", e mi

vergognai: avevo rovinato tutto. Volevo

evocare il silenzio, il sibilo del piano,

le trombe e la luce, il fluttuare delle

forme e "bello" non vuol dir tutto

questo. Era vero, parlar del mondo è

difficile come parlar d’un filo d’erba.

Avevo bisogno di un parola con la "a",

con un suono caldo che si pronuncia a

bocca aperta, libera da vergogne, un

suono morbido e accogliente, che si

espande senza confini; avevo bisogno di

una parola con la "i", che mi ricordasse

il tintinnio del cristallo, ne evocasse

la purezza e i colori; avevo bisogno di

una parola con la "t" che si erge sulle

altre lettere come una croce, che

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percorre le dimensioni ideali e ne

insegue gli opposti; avevo bisogno di una

parola con la "s" per indicarmi la via

per scivolare in quello spazio di luce,

per galleggiare insieme a quelle forme,

bozzoli di materia, larve di realtà. Una

"a", una "t", una "i", una "s" o

un'ampolla, una croce, un cuneo e un

sentiero, ovvero una nota, un rumore, un

grido e un sibilo: di questo avevo

bisogno per descrivere il mondo ma forse

questo era l'inizio di un'altra storia.

"Ci torneremo", aggiunsi.

Rimisi lo zaino sulle spalle e lo seguii

come avevo fatto fino ad allora. Avrei

dovuto dirgli che ero felice, ma era

inutile.

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Ecco, figliolo, quel giorno sono

diventato quello che sono. Quei raggi di

luce non mi hanno più abbandonato, e se

guardi bene quella foto sbiadita puoi

ancora vedere la nube rosa che illuminava

la pianura.