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1 TORNA A SURRIENTO DIARIO DI VIAGGIO SULLA COSTIERA AMALFITANA Rotary Golfo di Genova 30 APRILE 4 MAGGIO 2009 di PATRIZIA TARGANI IACHINO

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TORNA A SURRIENTO

DIARIO DI VIAGGIO SULLA COSTIERA AMALFITANA

Rotary Golfo di Genova 30 APRILE – 4 MAGGIO 2009

di

PATRIZIA TARGANI IACHINO

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PROLOGO So che per molti di voi sarebbe perfettamente inutile leggere la cronistoria del “the day before”,

dell‟ “ante viaggium”, di quelle fatidiche 24 ore che precedono la mia partenza, immaginandomi a

litigare con le solite camicette i cui bottoni sono talmente sotto pressione da essere stata scelta dal

servizio segreto ligure, a conoscenza del viaggio in Campania, per una missione “militare”: colpire

ed eventualmente abbattere i camorristi in incognito a colpi di bottoni sparati direttamente nelle

gengive con un semplice allargamento del torace. Quindi eviterò certe descrizioni pietose che

comunque si ripetono tragicamente di anno in anno, lasciando a voi la più sfrenata fantasia, certa

che non potrà mai neppure avvicinarsi all‟odiosa realtà. E poi sono veramente rilassata, forse solo

rassegnata, ma stabilmente equilibrata nell‟affrontare il “cosa mi porto?”. In effetti, in modo

assolutamente equo, ho trasferito tutto ciò che potevo dentro la valigia, tanto si carica tutto

sull‟aereo.

Elenco:

Carlo Patrizia

1 jeans, fa giovane. 5, mhmmm, meglio 6, io sono giovane!

1 golf di cotone, tanto farà caldo. 10, beh, 5 di cotone e 5 di caschemire a

quattro fili… se facesse freddo?

1 vestito, tanto va sempre bene. 3, o forse sono 4? Mah, non importa:

meglio uno di più che uno di meno.

1 camicia, basta e avanza. NI: sta per Numero Imprecisato… devo

aver perso il conto.

1 cravatta …

Sciarpe … non ne ha bisogno. Io sì… almeno 3.

1 giubbotto ma non conta perché 7, e allora? Mi servono assolutamente e

lo ha già indosso per partire. poi sono leggeri… non pesano.

Quindi, a parte il fatto che ho dovuto lottare per la chiusura delle due valigie, ricorrendo anche

all‟aiuto del mio adorato e pesante figlio per sentire il sospirato click della serratura, ho solo inserito

il “minimo indispensabile” per un viaggio di cinque giorni. La visuale delle due valigie finalmente

chiuse mi ha regalato una sensazione di sollievo rispetto agli anni precedenti.

“Per forza ti senti più leggera, le sto camallando io!” esordisce il mio topo con uno spiccato

accento ligure.

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“ Aò, guaglio‟, ma che vuo‟ da me? I so‟ femmena e le femmene nun possono porta‟ pesi accussì

grandi!” rispondo con un tono accorato alla Mario Merola.

“Ma come parli?” mi chiede, guardandomi stranito.

“In napoletano, naturalmente. Non dobbiamo andare sulla Costiera Amalfitana?”

“E che c‟entra?”

“Ma topo, se andassi in Inghilterra che lingua parleresti?”

“Inglese”.

“E quindi, dovendo andare a Napoli io m‟adeguo”.

“Lascia perdere, piuttosto datti una mossa!”

“Ohooo, ohooo, ohoooo…..ueeeeee!” obbedisco, imitando Sofia Loren nel celeberrimo film

“Pane, amore e fantasia”. Forse somiglio più a Marisa Laurito, ma sempre napoletane sono!

Dagli occhi sgranati del mio “piccipicci” (P.C.P) non riesco a capire se ho eseguito a regola

d‟arte la famosa “mossa” napoletana, ma l‟aggrottamento della fronte e un leggero ruggito di

sottofondo mi hanno fatto intendere che non era quello il momento per approfondire l‟argomento.

Saliti in macchina, ci siamo resi conto fin da subito che avremmo rischiato di perdere l‟aereo,

rimanendo imbottigliati in una coda interminabile dopo pochi metri. Fortunatamente abbiamo

recuperato in autostrada.

“Hai visto? Ce la possiamo fare!” mi dice il mio topo con un brivido di speranza.

“Yes, webcam”, gli rispondo senza scompormi.

“We can, vorrai dire!” mi corregge bonariamente.

“No, no… proprio webcam… l‟hai appena passata, superando i limiti di velocità”.

Giunti all‟aeroporto, mentre saluto tutti gli amici festosa come un cocker, non posso fare a meno

di notare una cresta di monti imbiancati. Il mio pensiero è diretto immediatamente al piumino

lasciato a casa dopo mille cambiamenti dentro e fuori dalla valigia.

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CAPODICHINO – 30 Aprile 2009

Arriviamo in orario all‟aeroporto di Capodichino e aspetto con ansia che il sole di Napoli riesca

a spuntarla su quelle nuvole minacciose che volteggiano sopra la nostra testa come quella di

Fantozzi. Dopo aver caricato le valigie sul pullman ci dirigiamo verso la prestigiosa azienda

“Sartoria Partenopea”, orgoglio del nostro amico Andrea Bruni che, armato di microfono, ci

accompagna, spiegandoci il “male” di Napoli: la camorra.

Con il termine camorra si indica l'insieme delle attività criminali organizzate, con una marcata

presenza sul territorio, che si sviluppano ed hanno le proprie radici in Campania, e che possono

avere interessi anche al di fuori delle proprie zone d'origine. Sebbene il termine sia usato per

indicare la società criminale nata a Napoli nel XIX secolo e conosciuta anche come Bella Società

Riformata, oggi spesso si tende, erroneamente, ad identificare con questo termine un'unica

organizzazione criminale simile alla cupola mafiosa siciliana o ad altre organizzazioni di uguale

stampo. In realtà la struttura della camorra è molto più complessa e frastagliata al suo interno in

quanto composta da molti clan diversi tra loro per tipo di influenza sul territorio, struttura

organizzativa, forza economica e modus operandi. Inoltre le alleanze fra queste organizzazioni,

qualora si possano considerare tali semplici accordi di non belligeranza fra i numerosi clan operanti

sul territorio, sono spesso molto fragili e possono sfociare in contrasti o vere e proprie faide o

guerre di camorra, con agguati ed omicidi.

La camorra è attualmente considerata una delle maggiori piaghe del meridione d'Italia, al tempo

stesso causa ed effetto di gran parte dei problemi socio-economici della Campania. Il suo potere,

dovuto anche ad appoggi di tipo politico, le consente il controllo delle più rilevanti attività

economiche locali, in particolare modo nella provincia di Napoli. Oggi la Camorra conta migliaia di

affiliati divisi in oltre 200 famiglie attive in tutta la Campania. Sono segnalati insediamenti della

Camorra anche all'estero. I gruppi si dimostrano molto attivi sia nelle attività economiche

(infiltrazione negli appalti pubblici, immigrazione clandestina, sfruttamento della prostituzione,

riciclaggio di denaro sporco, usura e traffico di droga) sia sul fronte delle alleanze e dei conflitti.

Quando infatti un clan vede messo in discussione il proprio potere su una determinata zona da parte

di un altro clan, diventano molto frequenti omicidi e agguati di stampo intimidatorio.

Numerose sono le frizioni e gli scontri tra le decine di gruppi che si contendono le aree di

maggiore interesse. A cavallo tra il 2005 e il 2006 ha destato scalpore nella cittadinanza e tra le

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forze dell'ordine la cosiddetta faida della Sanità, una guerra di camorra scoppiata tra lo storico clan

Misso del rione Sanità ed alcuni scissionisti capeggiati dal boss Salvatore Torino, vicino ai clan di

Secondigliano; una quindicina di morti e diversi feriti nel giro di due mesi. La zona occidentale

della città non è da meno per quanto riguarda numero di clan e influenza sul territorio. Tra le aree

più "calde" si trova il quartiere Vomero, per anni definito quartiere-bene della città e considerato

immune alle azioni dei clan, oggi preda di almeno quattro clan in guerra tra loro e di orde di bande

composte da ragazzini provenienti da altre zone della città, che si ritrovano di sera e di notte per

compiere rapine e violenze di ogni genere (fenomeno delle baby-gang).

Nella provincia, numerosi sono i comuni in mano ai gruppi camorristici, non solo per quanto

riguarda i campi "classici" nei quali opera un clan mafioso (estorsioni, usura, traffico di droga), ma

anche per quanto riguarda le amministrazioni comunali e le decisioni politiche (si vedano i

numerosi comuni sciolti per infiltrazioni camorristiche). Una delle zone più soggette al potere

camorristico è il comprensorio vesuviano. Il 7 febbraio 2008 viene arrestato il boss Vincenzo

Licciardi, tra i 30 latitanti più pericolosi d'Italia. Era considerato il capo dell'alleanza di

Secondigliano.

“Miiiiiiiiiii, ma dobbiamo andare proprio lì? Io tengo „na paura che mi si contuorce „o

stomaco… meno male che Andrea ci ha promesso „a mozzarella di bufala, altrimenti col cavolo che

ci venivo!” esordisco inorridita.

“Taci, donna!” risponde “il camorrista”.

“Uè, tienti „a lingua a posto. I tengo „na capatosta e nun te regge chiù!”

“Tu mi fai „na capatanta, altrochè! Dai, scendi da „sto purmànn!”

“Che c‟è di male? Non siamo a Capo-di-chino?”

Con il termine "camorra" a volte si indica anche un tipo di mentalità, che fa della prepotenza,

della sopraffazione e dell'omertà diffusa i suoi principali punti di forza. In molti casi gli

atteggiamenti di continuità con comportamenti camorristici riguardano anche professionisti,

imprenditori e politici. Cronaca triste di questo paese, presenta la negatività della città, pur

ammettendo che proprio qui si concentra la maggiore produttività. Ed è questa contraddizione che

impera e consente un equilibrio, seppure malavitoso, con le sue illogiche leggi e il suo potere, che ci

costringe ad assistere ad una dicotomia a noi incomprensibile.

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Siamo nella periferia di Secondigliano e l‟impatto non è piacevole: il degrado dei palazzi, i

rifiuti abbandonati ai margini della strada ed altri che hanno preso il posto dei fiori nelle aiuole

spargi traffico, rivelano una Napoli molto differente dalle immagini gioiose e solari delle cartoline.

Scendo da “‟o purmànn” e all‟entrata dell‟azienda ci attende il socio e, più che amico, fratello di

Andrea, Angelo Blasi, il cui viso sorridente m‟ispira subito simpatia. Il suo baffo argenteo si muove

a ritmo delle parole che escono con il giusto orgoglio per un‟azienda storica che dal 1993 lavora

secondo i dettami di una tradizione centenaria, cucendo gli abiti rigorosamente a mano. Angelo ci

spiega che un tempo la struttura era ricoperta da eternit e che sono stati impiegati ben tre mesi per

eliminarlo, poi ci mostra la scala di marmo che porta ai piani superiori, naturalmente lavorata a

mano, operando giorno e notte per la ricostruzione dell‟edificio. Il disegno architettonico è

avveniristico, penso dentro di me che Renzo Piano abbia copiato spudoratamente da loro per

progettare la copertura ad archi del Porto Antico.

Angelo ci fa accomodare in una sala, facendoci notare il pavimento ricoperto da listoni Giordano

(dlin, dlon: pubblicità) su cui spicca un accogliente salotto in pelle giallo senape, luogo per rilassare

il cliente. In fondo, un grande tavolo circondato da comode poltroncine in tinta con il salotto. Alle

pareti, quadri appesi sopra a cassettoncini antichi o quasi… che importa, è l‟effetto quello che

conta! Ai lati estremi del tavolo, due vetrinette espongono camicie, guanti e naturalmente un bel

corno rosso portafortuna con tanto di fiocco a salvaguardia dell‟azienda! Una grande vetrata a

semicerchio si affaccia sul campo operativo e pulsante a pieno ritmo e non posso fare a meno di

immaginare come si possano sentire gli 85 dipendenti: una sorta di Grande Fratello che sicuramente

funziona!

Rigorosamente realizzati a mano i capi della Sartoria Partenopea si richiamano alla grande

tradizione artigianale napoletana, riconoscendone l‟eccezionale vestibilità dovuta alla precisione del

taglio, al pregio dei tessuti e alla cura dei dettagli. E‟ in linea con la filosofia tutta napoletana la

scelta di produrre il total look in un quartiere polare: Scampia, “Secondigliano” è stata la sede

storica. E‟ naturale aver pensato a questa zona dalla quale provengono molti lavoranti, ci spiega il

direttore commerciale dell‟azienda. Attrezzato con un impianto di climatizzazione per la

conservazione dei prodotti finiti, l‟impianto dispone di locali dove la temperatura viene mantenuta

costante attorno ai 21 gradi centigradi, un elemento fondamentale per l‟integrità dei tessuti.

“Ueeeeeee, ma che bella pensata! E‟ pure un elemento fondamentale per evitare la

decomposizione dei dipendenti in estate…ci pensi?”

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Attraversiamo una passerella, guardando i lavoranti operare, tagliare e cucire tutto rigorosamente

a mano. Angelo Blasi ci spiega che a differenza del sarto normale, i suoi dipendenti possiedono

l‟artigianalità della precisione, lavorando otto ore al giorno, ognuno con una specifica mansione.

“Ah, beh, anch‟io ho “l‟artigianalità della precisione”: pulisco la casa tutti i giorni e per tutta la

settimana… vacanze comprese!” squittisco tutta contenta, aspettando un segno d‟approvazione dal

mio piccipicci.

“Sì, ma si vede che non lo fai per otto ore al giorno, visti i risultati!”

“Grrrr, aò, guaglioncello, statte accuorto che nun te regge chiù!”

Mentre Pietro (Pistolese) mi decanta qualche verso di Dante… o chi per esso, rispondendogli con

un sorriso da ebete non avendo capito un tubo, Milla (Dodero) mi fa notare un cartello attaccato alla

porta di uno studio: “Si prega di non entrare ne (scritto proprio così, senza accento… ma che

impuorta, il senso si capisce!) rimuovere il nastro adesivo”. La guardo con aria interrogativa:

“Embè?” Milla mi fa cenno di guardare dentro e vedo un distinto signore in giacca e cravatta

(sicuramente della Sartoria Partenopea, immagino) che lavora davanti ad un pc… invece è la

Finanza, lui può!

Mi faccio gli affari miei, ma continuo ad annotare sul mio quaderno mentre entriamo in una

stanza dove sono esposti i pregevoli risultati della linea sport wear, curata dai figli. Angelo ci

mostra la famosa cravatta napoletana che si distingue dalle altre per l‟uso dei sette fili di seta e

Johnny (Grimaldi) si diverte a provarne una, commentando che il nodo sarebbe venuto troppo

grosso.

“Mi permette?” chiede Angelo, avvicinandosi a Johnny. E con pochi e veloci gesti manipola la

cravatta fino a ottenere un nodo perfetto. Colpito e affondato!

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Andrea (Bruni) ci invita ad attraversare una sala di passaggio mentre risponde alle varie

curiosità. Capto una risposta: “No, non sono cari”, evidentemente riferendosi al costo di ogni abito,

“ sono buoni, direi: 1.800 euro a Milano”.

“Buoni???Milleottocentoerurooooo???” la vocale mi rimane appesa alle labbra, somigliando ad

un pesce appena preso all‟amo ma trattengo lo spasimo dentro di me, pensando che per rifare il

guardaroba al mio topo ho speso 280 euro, e mi sembrava pure troppo!

Mentre seguiamo Andrea, rimango colpita da una vecchia macchina da cucito, Singer, of course,

poggiata su un mobile a fare bella mostra di sé come antico ricordo di un tempo che sembra

appartenere a mille generazioni fa e che invece tutte le nostre mamme hanno vissuto. Ci

soffermiamo a fotografare il prezioso reperto, notando che è stato elettrificato in un secondo

momento ma nonostante ciò contrasta visibilmente con il modernissimo ascensore posto alle spalle,

davanti al quale un lungo tavolo viene imbandito con mozzarelle, pomodori e ogni ben di Dio,

distraendomi dai salti della tecnologia.

Seguo il gruppo che s‟inoltra in una stanza enorme dove riposano gli abiti confezionati e

incellofanati. M‟investe l‟odore di nuovo ma con una narice continuo ad annusare il profumo

intenso dei pomodori e origano. Resisto e continuo a seguire le spiegazioni di Angelo. Qualcuno gli

chiede se non ha paura della presenza dei cinesi e lui risponde che sono in collaborazione con loro.

Addirittura 15 negozi cinesi rivendono i loro prodotti.

“Oddio, se gli abiti napoletani sono venduti dai cinesi, dove vado a comprare gli abiti cinesi che

copiano dai napoletani?”

“Tu sì uscita pazza!”

“Bravo, picciriello, ti sei adeguato pure tu: vedi che a stare in loco cominci a colloquiare nella

lingua locale?”

“Ma vattenne!”

Scendiamo nel campo operativo e una fila di sagome, appese per ordine di taglia e modello,

restano in attesa di essere appoggiate sulla stoffa e poi definiti i contorni, tagliandoli con estrema

precisione. Non sembra un lavoro difficile, soprattutto ricordando che ognuno svolge la propria

mansione per otto ore al giorno ma è proprio qui che nascono i modelli conosciuti in tutto il mondo.

Realizzati a mano, i capi si richiamano alla grande tradizione artigianale napoletana: maniche a

“mappina”, rifiniture effettuate con ago e filo, taglio eseguito da mani esperte di maestri sarti che,

senza l‟ausilio di macchinari, riproducono con perfezione la sagoma del futuro cliente.

Il mio picciriello mi fa notare un omino in un angolo della sala: ha un gilet di lana, le braccia

incrociate dietro la schiena e lo sguardo fisso sui dipendenti.

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“C‟ha un occhio quello”, dice Angelo al mio piccipicci, “sono quarant‟anni che lavora con noi e

non gli è mai sfuggito niente!”

“Farebbe comodo anche a me un tizio così!” commento.

“ E cosa te ne faresti? Ci sei solo tu a casa, vorresti qualcuno che ti controllasse?” mi chiede

l‟ingenuo topo.

“Mica per me… so io, nun te preoccupa‟ che non è cosa!”

Oltrepassiamo una porta di plastica ed entriamo nel deposito delle stoffe, diversificate a seconda

della destinazione: camicie, giacche, pantaloni. Andrea mi fa notare con fierezza una scaffalatura

dove sono riposte le etichette dei propri clienti: Duca d‟Aosta, Paolo D‟Ursi, Barveys New York,

per citarne alcuni… e naturalmente Berti!

Ore 14.15 – “A tavolaaaaaaaaa!!!!!”

A quel richiamo, recepito più dal mio stomaco che dalle mie orecchie, ci catapultiamo sulla

tavola imbandita da ogni squisitezza. L‟esclusivo applomb rotariano si sparpaglia, attaccando ai lati

e di fronte, uscendo dalla, seppur ordinata, mischia con un piatto colmo di pizza, mozzarella di

bufala freschissima, pomodori e origano e il tortano, una specie di pane condito con dadini di

prosciutto e pancetta, il tutto innaffiato da vini locali e birra.

Entusiasta per il banchetto, conquisto uno spazio, afferro ogni cosa e Rosanna (Muratore)

m‟invita a sedermi vicino a lei. Scodinzolo felice, affondando la testa nel piatto. Il primo boccone è

quello della mozzarella e, masticando lentamente per prolungare il piacere, commento in silenzio,

ruotando il polso a mo‟ di elica. Maria Elvira (Amalfitano) mi viene incontro, ridendo: ha già capito

quanto apprezzi i prodotti partenopei!

Dopo aver mangiato e bevuto, godendo e mugolando, la mia amica Fabrizia (Bruna) ed io

abbiamo aspettato il caffè che una gentile signora ha preparato seguendo la ricetta napoletana,

scoprendo il segreto per un così gustoso aroma: un cucchiaio di zucchero versato direttamente nella

moka ancor prima che il caffè fuoriesca!

“Basta poco, che ce vo‟!”

ore 15.00 -

Usciamo satolli e, dopo aver salutato e ringraziato Angelo Blasi per la gentile ospitalità, saliamo

sul pullman che ci porterà a Sorrento, accompagnati da gonfie nuvole nere che si adagiano sui

contorni della città. Maria Elvira, la nostra bella presidentessa, prende il microfono e ringrazia

Andrea (Bruni) per la visita, puntualizzando l‟efficienza dei giovani operosi in questo settore. Poi,

esprimendogli gratitudine per questo primo “assaggio” della città, ci ricorda il sapore della

mozzarella fatta due ore prima e che non aveva neppure visto il frigo, e del pomodoro di cui ormai

abbiamo dimenticato il gusto.

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Annuisco, chiudendo gli occhi, richiamando al palato i piaceri appena gustati nel tentativo di

trattenerli almeno fino al prossimo banchetto.

Procedendo verso Sorrento, il cielo si allarga, abbracciati dal sole tanto sperato. Un gruppo di

grattacieli occupa uno spazio di azzurro e ai loro piedi un fitto strato di tetti si adagia fin verso la

striscia di mare. Percorriamo una strada a scorrimento veloce ma, vista la quantità di macchine che

la occupa, un bimbo di tre anni sopra ad un triciclo ci avrebbe superato tranquillamente più volte.

Le nuvole continuano a giocare nel cielo, tentando di oscurare il nostro agognato sole.

“E no, eh? “Chiste è o‟ paese du sole”, come dice la canzone campana, mica “Napoli e

nuvole”…

Messico e nuvole, la faccia triste dell‟America, il vento soffia la sua armonica, e voglia di

piangere ho… Napoli e nuvole, la faccia triste dell‟Italia, il vento soffia il suo mandolino e voglia

di piangere ho! La, la, la, la, la, la!!

Continuando il tragitto, non posso fare a meno di osservare dal finestrino i numerosi negozi che

si susseguono uno dietro l‟altro. Per via di un rallentamento, faccio in tempo ad annotare sul

quaderno l‟insegna di un negozietto: Mr.Cucito – Le iniziali della tua camicia a 5 euro – la piega

dei tuoi pantaloni in 20 minuti - Il mio pensiero è diretto a Bruni che forse non sa che c‟è chi gli

darà del filo da torcere… prima o poi!

I caffè e le pizzerie “Vesuvio” si sprecano e mi stupisco, data la notoria fantasia dei napoletani.

Ma a proposito: “Dov‟è „sto Vesuvio?”

Un altro ristorante la cui insegna appare come uno schiaffo in faccia alla Campania: “Gorizia”,

che sia un leghista? Comunque, sarà stato un caso, ma il ristorante è desolatamente vuoto.

Scendendo, proprio appena dopo una curva, il panorama di Napoli si offre a noi con tutto il suo

splendore. Siamo sulle alture del Vomero.

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Da questa piazza si vede tutta la città, adagiata sulla valle come un bimbo in una culla. Qui ci

attende una bella ragazza che inizia a raccontare la storia di Napoli che, dopo Roma e Milano, è la

terza città più popolosa con più di 1.055.000 abitanti ed è il più importante centro industriale e porto

mercantile del Mezzogiorno. Da quassù si domina l‟intera valle in cui è adagiata Napoli e la guida

ci indica la sua strada più famosa, la SpaccaNapoli che divide in due la città: da un lato il mare e

dall‟altro le colline. Nella vasta area urbana si riconoscono numerosi quartieri: al nucleo più antico,

caratterizzato dalla regolare collocazione delle strade che si tagliano ad angolo retto e

dall‟addensarsi di edifici, si saldano a Ovest il nuovo quartiere amministrativo e a Est quello

commerciale, dove congiunge la quasi totalità del traffico stradale e ferroviario.

Anche la guida ammette che quel gruppo di grattacieli è un pugno allo stomaco, nonostante sia

altamente efficiente dal punto di vista lavorativo. Altri quartieri, dalle vie strette e a scaloni,

spuntano alla base delle colline di San Martino e Capodimonte dove da qui si può vedere il

palazzo reale, iniziato nel 1783 per volere di re Carlo di Borbone ma compiuto solo nel 1838,

risaltare tra il verde cupo del grande parco che lo circonda.

Naturalmente non mancano le numerose chiese e il Duomo, costruito alla fine del XII secolo e

restaurato più volte nei secoli successivi. Qui viene conservato, custodito e ben protetto il tesoro di

San Gennaro. Pochi sanno che Ianuario era il vero nome del famoso santo. Discendeva, infatti,

dalla famiglia gentilizia Gens Ianuaria. Quindi Gennaro (trasformazione napoletana di Ianuario) non

era il suo nome, bensì il suo cognome. Fonti non ufficiali affermano che il suo nome era Procolo.

“Procolo? Ci credo che hanno cambiato, non avrebbe avuto così tanto successo con quel nome,

sembra uno dei sette nani: Mammolo, Brontolo, Procolo… e poi S. Procolo, non suona bene!”

Aldilà di questo spetteguless, Gennaro resta, senza dubbio, una delle figure più famose del

panorama partenopeo e di tutto il mondo.

La vicenda che vide coinvolto Gennaro avveniva nella prima metà del III° secolo, in piena

persecuzione cristiana da parte di Diocleziano. A quei tempi, Gennaro, vescovo di Benevento, si

recò insieme a Desiderio e Festo (uno lettore, l‟altro diacono) a Pozzuoli per fare visita ai fedeli.

Venuto a conoscenza di questo viaggio, Sessio (diacono dell‟odierna Miseno) gli andò incontro.

Quest‟ultimo venne però fermato lungo la strada e arrestato per ordine di Dragonzio, giudice

anticristiano.

Saputo dell‟accaduto, i tre (Gennaro, Festo e Desiderio) sentirono il dovere di far visita all‟amico

finito in carcere a causa loro. Dragonzio approfittò dell‟occasione per far arrestare anche i tre. La

sentenza fu di adorazione forzata degli idoli agli altari pagani. Naturalmente i tre si rifiutarono.

Al rifiuto, Dragonzio sentenziò: “ Che siano divorati dalle belve nell‟anfiteatro!”

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Si scatenò la ribellione della comunità cristiana che ottenne solo la conversione della pena:

decapitazione. A sentenza eseguita, alcuni cristiani s‟incaricarono di seppellire i martiri e di

conservare un po‟ del loro sangue, rito usuale all‟epoca dei fatti.

Il sangue di San Gennaro fu tenuto in custodia dalla sua nutrice mentre il corpo veniva sistemato

a Fuorigrotta e poi in quelle che oggi sono le Catacombe di S. Gennaro a Capodimonte. Ciò

avvenne circa un secolo dopo la sua morte, durante il mese di Aprile, in cui ancora oggi si ritualizza

una delle liquefazioni annuali. Fu proprio in questo periodo, secondo alcuni storici, che si verificò la

prima liquefazione. Si notò che, in vicinanza delle ossa del Santo, il contenuto delle ampolle da

solido diventava liquido. Ma la data ufficiale della prima liquefazione è il 1389.

Su questo fenomeno si sono fatte molte speculazioni. Alcuni dicono che è un prodigio, altri

affermano che è un falso, dividendo fedeli e scienziati. Durante il Concilio Vaticano II°, la

venerazione di S. Gennaro fu limitata in ambito locale: in pratica fu declassificato come Santo di

serie “B”. Ma la devozione dei napoletani fu, ed è, tale che pochi giorni dopo sui muri della città fu

scritto: “San Genna‟, futtutetenne!” Nonostante tutto moltissimi napoletani (tra i quali l‟autore di

questo articolo, Umberto de Fabio), nel giorno in cui si presume avvenga il miracolo, si affolla nel

Duomo per cercare di vedere le sacre ampolle ed onorare il Santo.

Mi domando come sia potuta resistere un‟ampolla di vetro per settecento anni, passando da

diecimila mani, quando, in casa mia, un servizio di dodici bicchieri della Bormioli non ne regge

neppure uno… forse è questo il vero miracolo!

San Gennaro non significa soltanto devozione religiosa nei confronti di un santo prestigioso. Egli

rappresenta anche un punto di riferimento per credenze popolari, moltissime delle quali pure

superstizioni.

Per coloro che volessero provare e non ne fossero a conoscenza, ecco i numeri di San Gennaro:

9 - 15 - 18 - 53 - 55

Ricordo a tutti che è un numero verde e non occorre il prefisso!

Lasciato il panorama alle spalle, ci dirigiamo verso l‟interno della Certosa di San Martino che

costituisce uno tra i maggiori complessi monumentali di Napoli e, in assoluto, uno dei più riusciti

esempi di architettura e arte barocca insieme alla reale cappella del Tesoro di San Gennaro. Fondata

nel 1325 da Carlo d’Angiò, duca di Calabria, la Certosa fu realizzata da Tino di Camaino e

Attanasio Primario, ma della loro opera restarono solo i sotterranei gotici. Tra la fine del

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Cinquecento e l‟inizio del Settecento gli architetti Dosio e Fanzago, aiutati dai migliori artisti

pittori, rinnovarono la Certosa dandole l‟aspetto attuale. Nel corso dei secoli la Certosa si è

arricchita di un patrimonio di assoluto prestigio tra marmi, affreschi, sculture, arredi e dipinti. Nel

1799 i frati furono allontanati dal monastero che nel 1866 divenne proprietà dello Stato e

Monumento Nazionale con il direttore Giuseppe Fiorelli che lo trasformò in “museo storico” del

Regno di Napoli. Per l‟incantevole posizione e la ricchezza di opere d‟arte, La Certosa venne

prediletta da numerosi letterati, viaggiatori ed eruditi. Oggi, ospita il Museo Nazionale di san

Martino con un‟ampia esposizione dei presepi della scuola napoletana ed è dedicato alla storia della

città.

Sono impressionata per la bellezza e lo sfarzo dei materiali preziosi. Entrare nella Certosa è

come tuffarsi in una festa di colori. I mosaici ricchissimi e variopinti sulle pareti e nei pavimenti mi

prendono per mano, trasportandomi in un mondo fantastico dove il colore è il re e l‟arte della

fantasia la regina. Non ho mai visto nulla di più straordinariamente fastoso, ed essendo un po‟

terrunciella pure io, mi ci trovo come un fagiolo nel suo baccello. Mi volto e non trovo un angolo

che non sia stato ricoperto da marmi policromi o sculture, dipinti e affreschi, dappertutto: alle pareti

come sul soffitto. Non so da dove cominciare a fissare lo sguardo perché tutta questa ridondanza mi

fa girare la testa. Bisognerebbe restare per giorni e giorni a scrutare ogni dettaglio, perché è in ogni

minimo particolare che la mano dell‟artista ha espresso la sua arte, esplodendo in una scenografia

tanto teatrale quanto emozionante. Mi chiedo come è possibile che la mente umana sia stata in

grado di concentrare bellezza, fantasia e lusso in una sola volta e tutta insieme. La nostra guida ci

spiega che gli architetti avevano l'incarico di rimaneggiare i palazzi esistenti e di progettare le opere

su un suolo molto limitato dalle mura urbane. Le opere dovevano rispettare alcuni caratteri imposti

durante l'edificazione, tanto che, nelle costruzioni della Napoli barocca, è possibile individuare una

serie di caratteristiche standard. Per esempio le facciate delle chiese (solo a Napoli ce ne sono 300)

sono rettilinee e spesso non rispettano l‟andamento delle navate; vengono costruite facciate non

slanciate, ma con andamento orizzontale in modo da incastonarsi tra i prospetti degli edifici

adiacenti. Le nuove strutture s‟inglobano in quelle antiche: un fenomeno dei riuso molto spiccato

che mi ricorda Genova.

“Qui non si butta via niente!” ci dice la guida, senza sapere che sono le stesse parole di Renzo Piano

quando aveva utilizzato le vele come schermatura del cantiere all‟epoca dell‟America‟s World Cup.

E ora, per chi ha si è perso le numerose informazioni della nostra brava guida, riporto,

ringraziando internet, avendo ormai il cervello fuori uso e con buchi grandi come il traforo del

Monte Bianco, il “breve” elenco di tutto ciò che è racchiuso nella Certosa.

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Ci sono diverse cappelle nella Chiesa. A destra troviamo la Cappella detta di S. Ugo, che

contiene affreschi dello Stanzione, di Andrea Vaccaro e di Belisario Corenzio e sculture di

Matteo Bottigliero. A destra di questa cappella, si accede alla Cappella del Rosario, decorata dal

Vaccaro e contenente una tela di Battistello Caracciolo. C'è poi la Cappella detta del Battista,

decorata dal Fanzago si presenta con dipinti di Carlo Maratta, di Paolo De Matteis e dello

Stanzione e con sculture di Lorenzo Vaccaro terminate dal figlio Domenico. Nella Cappella

detta di San Martino si trova una decorazione del Seicento trasformata da Nicola Tagliacozzi

Canale nel Settecento; nella cappella ci sono statue di Giuseppe Sanmartino, affreschi di Paolo

Finoglio e, di lato, due tele di Francesco Solimena.

A sinistra troviamo la Cappella detta di S. Gennaro, decorata con marmi commessi del primo

'600, affreschi e tele di Battistello Caracciolo, altorilievi e statue di Domenico Antonio Vaccaro.

A destra di questa si accede alla Cappella di S. Giuseppe, decorata da Domenico Vaccaro. Segue

la Cappella detta di S. Bruno, che presenta una decorazione fanzaghiana e pittorica dello

Stanzione, statue di Lorenzo Vaccaro (terminate dal figlio Domenico), oltre al pavimento e due

angioletti marmorei, sempre opera di Lorenzo Vaccaro. Nella Cappella detta dell'Assunta si trova

una decorazione secententesca completata da Nicola Tagliacozzi Canale, sull'altare e alle pareti

dipinti di Francesco de Mura, nella volta affreschi di Battistello Caracciolo, statue di Giuseppe

Sanmartino. A destra si accede alla Cappella di San Nicola, con affreschi di Belisario Corenzio e

una tela di Pacecco De Rosa.

Non chiedetemi dove o chi le ha eseguite, ma in ognuna di queste cappelle mi hanno colpito le

statue che ritraggono valori e virtù come: La Verginità, La Ricompensa, La Penitenza, La

Solitudine, Il Martirio, L‟Eloquenza, La Fama buona, La Carità e La Fortezza.

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Mi soffermo davanti alla cappella di San Bruno mentre Pietro (Pistolese) commenta insieme alla

guida che il santo deve essere stato ammazzato e la sua bellissima moglie Franca lo contraddice,

asserendo che un santo non deve essere stato per forza ucciso per diventare tale. E lui: “Hai ragione,

cara, vedi me!”

Nel presbiterio, antistante all'altare, c'e la balaustra in pietre dure realizzata su disegno del

Tagliacozzi Canale. L'altare invece è realizzato su disegno di Francesco Solimena. Nell'abside, si

trova il pavimento marmoreo del Fanzago e un grandioso coro ligneo del 1629. Nella parete di

fondo statue di Pietro Bernini e Giovanni Battista Caccini e una Natività di Guido Reni. Nella

volta affreschi del Cavalier d'Arpino e Giovanni Lanfranco. Nella parete destra affreschi dello

Stanzione, di Carletto Caliari. Alla parete sinistra affreschi di Jusepe de Ribera e di Battistello

Caracciolo.

Nella Sala Capitolare ci sono affreschi di Belisario Corenzio, Paolo Finoglio, Battistello

Caracciolo, Massimo Stanzione e Francesco de Mura. Nel Coro dei Conversi ci sono vedute della

certosa gotica e arazzi, e un lavamano di Cosimo Fanzago. La cappella della Maddalena è

affrescata con prospettive; sull'altare si trova una tela di Andrea Vaccaro. Nella sagrestia ci sono

affreschi del Cavalier d'Arpino e di Massimo Stanzione. Nel Passaggio alla Cappella ci sono

affreschi di Massimo Stanzione, Luca Giordano, Paolo De Matteis e Micco Spadaro. La Cappella

del Tesoro è affrescata da Jusepe de Ribera e da Luca Giordano.

Ci sono due chiostri: il primo è il quello detto Chiostro dei procuratori: disegnato dal Dosio

con puteale al centro. Ad esso è collegato il corridoio che porta al Refettorio del XVIII secolo

disegnato da Nicola Tagliacozzi Canale. Il secondo, detto Chiostro Grande, fu disegnato dal

Dosio e rifatto dal Fanzago realizzando le mezze lesene agli angoli dell'ambulacro, i busti sulle

sette porte sone del Fanzago tranne due che sono di Domenico Antonio Vaccaro. La balaustra del

cimiterino dei monaci e di Cosimo Fanzago che realizzò un motivo con teschi ed ossa. Al centro

un puteale del Dosio.

Gulp… sto facendo un‟indigestione di trionfi marmorei, arcobaleni di colori, statue che mi

guardano da tutti i lati… mi sento circondata: sono certa che una di loro, fissandola un po‟ più a

lungo per coglierne i particolari, mi abbia detto: “ Aò, ma che stai a guarda‟!”

Mi defilo e mi concentro sulla balaustra antistante all‟altare, realizzata su disegno di Tagliacozzi

Canale. M‟incanto ad osservarla: sembra un ventaglio di pizzo veneziano, con ripiano in onice e

ovali di lapislazzuli.

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L‟altare invece è stato realizzato su disegno di Francesco Somena. L‟abside vanta un

pavimento marmoreo del Fanzago ed un grandioso coro ligneo del 1629. Nella parete di fondo sono

disposte statue di Pietro Bernini e Giovanni Battista Caccini e una Natività di Guido Reni. Gli

affreschi della volta sono del Cavalier d'Arpino e di Giovanni Lanfranco. Nella parete destra vi

sono affreschi dello Stanzione, di Carletto Caliari; in quella di sinistra invece gli affreschi sono di

Jusepe de Ribera e di Battistello Caracciolo.

“Alla faccia del caciocavallo!!”

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Siamo nella Sagrestia ed è stupefacente il “lavoro certosino” delle pitture sui mobili che

riproducono il Vecchio e Nuovo Testamento. Miniature che andrebbero osservate con più rispetto

che non solo guardate di fuggita. Ma il tempo corre, e pure la guida. Procediamo e varchiamo la

soglia della Stanza del Tesoro. Sembra una stanza degli armadi e il mio picciriello tocchigna con la

curiosità di un bambino, nel tentativo di aprire un‟anta.

“Guarda che non sono lì le tue camicie”, gli sibilo, “ e neppure il tesoro. Lo hanno venduto!”

“Maniman che ne avessero dimenticato un pezzettino…”, mi risponde speranzoso.

Pietro (Pistolese), si sofferma ad osservare un affresco che riproduce La Manna, osservando

acutamente che sono dipinti alberi e corsi d‟acqua, mentre, come si sa, la caduta della manna è

avvenuta nel deserto. Pietro ha il potere di mettere in crisi la guida, la quale lo liquida con un:

licenza poetica!

“E vabbè, tiramminnanzi!” Quando non si sa cosa rispondere si usano le frasi fatte, altrimenti

perché le avrebbero fatte?

Entriamo nella Cappella del Tesoro, affrescata da Jusepe Ribera e da Luca Giordano, dove

gli armadi reliquari sembrano degli acquari preziosi, bordati di nero con fregi dorati. Anche il

“semplice” leggio sembra un trono. Dall‟altro lato dell‟altare si apre la stanza dove venivano iniziati

i novizi. La guida ci fa notare gli affreschi posti in alto che riproducono dei certosini, sotto ad

ognuno dei quali è scritta la virtù da osservare, come la contemplazione, l‟umiltà, ecc. Carlo ed io

rimaniamo impressionati per gli affreschi sui muri e porte, riccamente decorati. D‟altra parte, se

così non fosse, che barocco sarebbe?

Oltrepassiamo il Parlatoio, anche se in effetti non parlavamo mai fra loro, mentre osservo i

dipinti dei certosini in tunica bianca, dandomi l‟idea che fossero stati così anche in carne ed ossa.

“Mission impossibile!” sento dire dal mio topo, guardando le mie smorfie.

Non sono scema, la faccio, e capisco che si riferisce alla mia loquacità.

“Ma se sto diventando autistica”, commento, leggendo il suo pensiero. “Invece, io ti ci vedo.

D‟altronde, il camice bianco lo indossi…”

Quei poveri cristi in tunica bianca potevano parlare fra loro solo una volta la settimana,

circumnavigando il giardino sotto i portici, come dei criceti incrociati con dei bradipi su una ruota.

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Guardo il mio adorato e più lo osservo, più mi convinco che dentro di lui abiti l‟animo del frate

certosino. Oltre al camice bianco ha pure il dono del silenzio, pensando che anche noi

comunichiamo solo una volta la settimana quando, braccato in macchina mentre andiamo a

Ventimiglia il venerdì, riusciamo a raccontarci quello che ci è accaduto all‟inizio settimana. Non so

se è una tecnica ma evidentemente funziona, visto che sono quasi trent‟anni che ci sopp… ops,

amiamo.

Proseguiamo il giro e usciamo nel Chiostro Grande. E‟ stato progettato dal Dosio e rifatto dal

Fanzago che realizzò le mezze lesene agli angoli dell‟ambulacro; i busti sulle sette porte sono dello

stesso Fanzago, tranne due che sono opera di Domenico Antonio Vaccaro. La balaustra del

cimiterino dei monaci è di Cosimo Fanzago che realizzò un motivo con teschi ed ossa. Al centro un

puteale del Dosio.

Mentre approfitto del luogo aperto per “prendere una boccata d‟aria” con la mia amica di fumo

Giò Pedullà, appoggio una mano sopra ad una cosa rotonda. Penso all‟ennesima scultura e

m‟incuriosisco, seguendo i contorni della “cosa” con le dita. Gioco con l‟immaginazione, cercando

di capire cosa rappresenti. Manipolo, accarezzo, tocchigno, mentre la mano scivola, seguendo i

contorni. E‟ sicuramente una testa, penso, certa di non sbagliare. Cerco il naso, gli occhi, le labbra,

ma trovo due solchi nei quali s‟incastrano le dita… Ma che diavolo di roba è?... Inforco gli occhiali

e due buchi neri mi osservano, rivelando la vera identità: teschi?

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Ma perché no? Ognuno può mettere quello che vuole sulla propria balaustra: chi un bel vaso con

i fiori e chi il teschio del frate preferito. La guida ci racconta che ogni certosino curava le ossa del

proprio beneamato, ripulendole per bene, sperando che il morto ricambiasse suggerendogli nel

sonno numeri portafortuna. “Nessuno fa niente per niente, neppure i frati… Che tempi!”

Considerando lo schifo provato, sicuramente mi aspetto che quel tizio mi venga a tirare i piedi,

anziché consigliarmi numeri fortunati e quindi, dopo una rapida carezzina sulla crapa, continuo a

passeggiare, notando ovunque sculture di San Bruni… ops, Bruno, mentre ascolto la moglie Clara

che ci rivela che il cognome originariamente era in effetti Bruno ma che, come spesso accade per un

errore all‟anagrafe, è diventato Bruni. Anche noi abbiamo il cognome “riveduto e scorretto”,

sostituendo la J con la I. Mi chiedo quanti parenti ci siamo persi per strada con queste sviste e se il

sig. Iachini che abita nella mia stessa via non sia un cugino di Carlo che, per un errore anagrafico, si

è trasformato in un assoluto estraneo! Mentre la mia testolina farnetica, osservo le piccole porte

delle celle dei frati, accanto alle quali c‟è una finestrella dalla quale i certosini ricevevano i pasti.

Michele (Bellin) s‟intrufola in una lasciata aperta e… alla faccia delle cellette: sembra un loft con

tanto di terrazza panoramica sulla città! Per commentare tanta “miseria”, Michele, Carlo ed io ci

perdiamo, percorrendo corridoi e stanze come un labirinto. Michele scopre un locale il cui

pavimento è decorato in modo da conoscere giorno e ora attraverso la luce del sole che filtra da una

finestra. E‟ interessatissimo e fotografa i particolari della grande meridiana studiata con astuzia e…

pazienza certosina!

Ritroviamo il gruppo, attraversando diverse stanze nelle quali vi sono delle bacheche che

racchiudono diversi personaggi da presepe. Bisognerebbe avere il tempo per osservare una ad una

le statue che rappresentano i personaggi del popolo nelle loro mansioni. Ognuna racconta una

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storia fatta di piccole cose, e gli oggetti che trattengono in mano o al fianco, come cesti di frutta

dove sono riprodotti gli ortaggi curati nei più piccoli particolari, il vasellame e addirittura piatti

colmi di cibo che sembra pronto da servire in tavola, mantengono inalterato nel tempo l‟atto in

cui sono stati immortalati, quasi fossero in attesa di essere sciolti dall‟incantesimo che li ha

imprigionati. Ogni bacheca mostra uno spaccato di vita, perlopiù contadina e quindi non potevano

mancare gli animali che accompagnavano l‟uomo dell‟epoca: mucche, agnelli, cani, galline e

tacchini di ogni dimensione e posizione.

La moltitudine di pezzi presepiali diversi documenta la produzione sette-ottocentesca di

insigni artisti che ritraggono aspetti diversi, in una dimensione idilliaca e incantata, di una città

che era un crocevia di popoli, culture e mercanzie; nature morte ispirate alla pittura napoletana

del Seicento; tessuti, abbigliamento e monili estremamente accurati e realistici nella cura del

dettaglio opulento; abbondanza di generi alimentari che rispecchiano quanto di meglio i mercati

potevano offrire, se non proprio quanto compariva sulle misere tavole del popolo; ricca

particolareggiata varietà di animali domestici ed esotici; dovunque scenografie pittoresche e

coreografiche in un tripudio di colori e splendori che dovevano dar vita all'immaginario

collettivo, lontano dalla realtà del miserevole quotidiano.

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Sono affascinata dai particolari con i quali sono stati riprodotti, tanto da avere l‟impressione di

udire i loro versi: muggiti, belati, ululati… Oddio, mi stanno facendo una pena terribile,

fortunatamente riconosco il bercio del mio topo che mi chiama. Obbedisco al richiamo ed entro in

una grande stanza buia.

Mi avvicino al mio picciriello e gli sussurro:

“E‟ iniziato da molto?”

“Cosa?”

“Il film. Hai seguito? Di cosa parla?”

“Ma cosa stai dicendo?”

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“Shhhhhhhh, che disturbi tutti! Aspetta, ricomincia .. sarà il secondo tempo…”, poi lo guardo

negli occhi e vedo una lacrima rigargli il volto. Penso che il mio topo sotto sotto è un gran

romanticone e deve essersi commosso per una scena strappalacrime che mi sono persa.

La luce diventa sempre più forte, illuminando il cielo dipinto oltre al vetro che racchiude un

enorme presepe, poi cambia, virando nelle mille sfumature del tramonto, in un continuo alternarsi

del giorno e della notte.

In quella che era la cucina dei monaci della Certosa, allestita come monumentale grotta

artificiale, si trova dunque il presepe creato da Michele Cucciniello, patriota, artista e

commediografo, che nel 1877 donò al Museo la propria imponente collezione di personaggi,

animali e accessori, e poi lavorò alla realizzazione del complesso presepiale.

Al progetto e all'esecuzione dello splendido apparato scenico concorsero Luigi Farina, nel

1879 coautore materiale del presepe, che in fondo al paesaggio roccioso appose la sua firma; lo

scenografo Luigi Masi, che ideò l'illuminazione e il profondo cielo di sfondo; e l'architetto

Fausto Nicolini, che concepì l'impianto del presepe.

Ancora strabiliata come una bambina proseguo, raggiungendo il gruppo. Non posso fare a

meno di notare una statua femminile sdraiata: è la Vergine puerpera, di ispirazione siriaca,

donata alle Clarisse del Convento di Santa Chiara da Sancia di Maiorca, regina di Napoli, devota

francescana e terziaria dell‟Ordine.

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Dall‟espressione sofferente del viso la capisco perfettamente!

Procedendo, passiamo accanto alla carrozza dei governatori eletti, sembra quella di Cenerentola.

Nonostante sia decisamente meno vistosa della precedente, quella reale è soprattutto coronata e in

un attimo sono risucchiata dal mondo delle fiabe.

“Ma, topo, che ci fai là sopra?” chiedo a quel bel tipo che, nonostante il travestimento

accurato, ha il sorriso che ormai riconoscerei al buio.

“Prego, signuri‟, accomodasse!”

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“Ma che dici? Dai, non fare il deficiente che ci cacciano fuori, ma dove diavolo hai rubato quel

vestito? Oh, mio Dio, oh, mio Dio, oh, mio Dio… ci arresteranno di certo e poi chi mi procura le

sigarette?”

“Signuri‟, salite, che la festa a inizia‟!”

“Festa? Ma che festa e festa! Se non ti sbrighi a scendere, la faranno a noi la festa… dai, che il

gruppo è già sparito!”

“Venite, venite, che c‟è o ballo!”

“O ballo? Ma tu si‟ uscito pazzo, o veramente!”

Penso che il mio picciriello abbia voglia di divertirsi e, dopo aver considerato la rarità del

caso, decido di salire sulla carrozza, approfittando della distrazione del guardiano.

“Allora? Che aspettiamo? Portami a „sta festa! Certo che presentarmi vestita in questo modo

non è carino… averlo saputo mi sarei portata quell‟abitino da sera…”, commento mentre mi

sistemo all‟interno della carrozza.

“Ma che dice, signuri‟? Tenite nu vestito che è nu babà!”

“Seeee, vabbè…”, rispondo fra me e me, ma le mani avvertono una stoffa fresca e liscia…

frusciante, vaporosa… anche un po‟ ingombrante, direi… ma che diavolo succede? Mi guardo e il

bulbo oculare mi sporge talmente fuori dalle orbite che penso stia penzolando fra le pieghe del

sontuoso abito che indosso! Mi tocco i capelli… dov‟è finito il mio caschetto alla finta Ilary

Blasi? Al suo posto trovo forcine e boccoli. Mi chiedo se mi sono fatta una canna invece della

solita sigaretta. Forse era una partita andata a male, o forse qualcuno mi ha fatto uno scherzo,

inserendo nel pacchetto del fumo anomalo, fatto sta che mi ritrovo seduta su una carrozza reale di

non so più quale epoca vestita come una principessa, mentre il mio piccipicci, addobbato come un

albero di Natale, è alla guida di sei cavalli bianchi, of course! Beh, non è poi tanto male!

Qualunque cosa abbia fumato mi sta facendo vivere un momento magico, anche perché avere a

totale servizio il proprio marito è il sogno di ogni donna!

“Ti muovi? Sei perennemente in ritardo!” sento riprendermi dal mio terreno consorte.

Volevo ben dire…

Il gioco è bello finché dura poco… ma chi l‟ha detto?

Mi spoglio mentalmente dal mio abito principesco e trotterello vicino al mio solito picciriello,

pensando che, anche se solo per un breve istante, è stato il più bel cocchiere abbia mai avuto.

Stiamo ammirando una “barchetta” reale, alla quale segue un‟altra totalmente dipinta di bianco

ancora più elegante, arricchita con fregi dorati.

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Vorrei tanto rivivere il sogno di un minuto prima: chiudo gli occhi, stringo le palpebre, mi

concentro, ma non accade nulla… forse devo ritrovare il tabaccaio che mi ha venduto le sigarette!

La flotta napoletana viene restituita al Museo di San Martino dopo tre anni di restauri delle sale

che sono state adattate alla presenza delle imbarcazioni restaurate. La Galea di Carlo di Borbone è il

pezzo forte dell'esposizione permanente: una lancia di venti metri in legno intagliato e dorato, con

baldacchino decorato nel "soffitto" da Fedele Fischetti, con lo stemma delle insegne cavalleresche

della città. La galea, che si trova nel museo dal 1875, non si vedeva più da anni e venne raggiunta

pochi anni dopo da un Caicco donato a Ferdinando IV di Borbone dal sultano Selim III. Ma

dobbiamo attendere il XX secolo perché nella collezione faccia il suo ingresso anche la Lancia

reale di Umberto I di Savoia, varata nel 1889, che era conservata nei depositi del Regio Arsenale

della Marina nelle grotte di Palazzo Donn'Anna a Posillipo. Un pezzo di storia della marineria

borbonica e post-unitaria viene raccontato, oltre che da queste tre suggestive imbarcazioni originali,

dai modelli in scala del sette e ottocento, di fregate e cannoniere, navi a elica e a vapore, e da un

rarissimo modello della corazzata sabauda "Regina Margherita", affondata durante la prima guerra

mondiale. Innanzitutto, un intervento architettonico per cambiare i lucernari del tetto in capriate in

abete lamellare, che garantisce, oltre all'aspetto di "arsenale" e alla citazione di luoghi legati alla

marineria, l'immunità dei legni delle navi esposte dall'attacco dei tarli. Poi una soluzione suggestiva:

le navi sono allineate con le prue in direzione di alte finestre ad asola, aperte nelle sale, a

cannocchiale sul mare del panorama mozzafiato di San Martino. Sembra di vederle salpare con

destinazione paradiso. La Galea di Carlo III, una gondola nera servita per il trasbordo dei regnanti

quando partecipavano a feste sul mare o con funzioni di collegamento nel passaggio da una nave

all'altra, con il suo fasciame intarsiato è un esempio delle abilità di una manodopera napoletana che

assicurava qualcosa di più di un artigianato di pregio ai cantieri del re.

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Lungo la parte più alta ed esterna dello scafo la barca esibisce intagli di mostri marini e pesci, un

elenco ittico completo, degno della lunga lista di pesci della canzone del "Guarracino": cozze,

rombi e murene, persino tartarughe e leoni marini riprodotti dalle sapienti mani dell'intagliatore.

Nella seconda sala è ospitata la Lancia Reale di Umberto I di Savoia, quattordici vogatori, legno

bianco intarsiato con un drago marino aerodinamico quasi "futurista" che si slancia dal castello di

prua, un ricco baldacchino. Rossana Muzii, la direttrice del museo di San Martino ha completato la

sezione con materiali che arricchiscono la ricostruzione: nel caso della Lancia di re Umberto sono

esposti dei progetti per abbellirla con drappi e tende di seta azzurra. Nel soppalco, che offre un'altra

prospettiva delle navi esposte, è conservato il Caicco regalato dal sultano a Ferdinando IV tra la

fine del settecento e gli inizi del secolo successivo. Magnifica anche la decorazione di questo scafo

lungo e snello, per solcare le acque in velocità: una profusione di spighe di grano dorate. La Sezione

navale si completa con una collezione di strumenti di bordo, come astrolabi per rilevare la posizione

delle stelle, e sigilli e timbri legati alle singole navi, diari di bordo, e ottanti, che sostituirono gli

astrolabi dopo il primo quarto del settecento. Due piccoli troni da navigazione in velluto rosso sono

in mostra nella sala della Galea di Carlo, a cui si aggiunge una serie di armi bianche e da fuoco

d'"ordinanza" dei corpi della Real Marina Borbonica.

Passeggiamo, osservando le antiche armi, chiedendo spiegazioni a chi è del mestiere: il nostro

generale Pistolese, mentre Michele (Bellin) sorseggia tranzollo (come direbbe il mio oxfordiano

figlio Lorenzo) una Coca – Cola, ma viene subito ripreso da un feroce “mastino napoletano” che

prega il nostro Michelino di recarsi fuori dal museo… ma mica è un bambino, gli è stato insegnato a

non rovesciare la lattina di Coca per terra… Ciò nonostante, Bellin ubbidisce, mentre sogghigno

divertita (così impara a dimostrare meno anni di quelli anagrafici! Ih, ih, ih!). Un secondo dopo

sento il “mastino” raccontare l‟episodio al collega che gli risponde convinto: “Hai fatto benissimo!”

Attraversiamo le stanze del Priore e raggiungiamo una terrazza dalla quale si gode un panorama

incantevole. Mi siedo, chiacchierando con Giò (Pedullà), l‟unica che resiste assieme a me alle

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campagne antifumo, e lascio che il mio sguardo raccolga tutta la bellezza che mi circonda

Pioviggina col sole: i suoi raggi s‟infrangono nelle piccole gocce d‟acqua, tanto fini da sembrare un

magico velo, interrotto da un inaspettato arcobaleno che avvolge tutto il golfo. Ora il quadro è

praticamente perfetto, manca solo una bella fotografia per arrestare per sempre questa immagine

poetica ma… mannaggia alla suorte… o alla mia sciagurata testolina, la macchina fotografica è sul

pullmàn!!!

Cerco di cliccare con la mente il panorama, imprigionandolo in qualche scaffale ancora libero…

“Vuoto, vorrai dire… E di spazio ne trovi finché ne vuoi…” interrompe il mio topastro.

“Guarda che io sono stufa, eh? Nun te regge chiù!” gli ringhio, mentre assaporo gli ultimi istanti

prima di procedere nella visita.

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Ultimiamo il giro, passando tra le stanze elegantemente arredate, considerando che i luoghi più

belli d‟Italia sono già stati occupati dai conventi di monaci e suore di ogni ordine religioso.

“Hai capito „sti Priori!”

Ripercorriamo il tour a ritroso, seguendo fedelmente la guida. Ci ritroviamo nella stanza dei

presepi, incontrando nuovamente la Madonna, sempre sdraiata e sempre sofferente, per poi finire

nel giardino e ancora dai presepi. Sembra di essere in un labirinto o, come nel Monopoli, quando

capiti nella casella che ti riporta al punto di partenza. La guida ammette d‟essersi persa, accusando

un calo di zuccheri. Rimedio offrendole un sorriso confortante e una caramella: “Coraggio, ce la

puoi fare! Portaci via da qui e te ne faccio arrivare un camion a mie spese!” Lei ritrova vigore… e

uscita!

Raggiungiamo gli altri, siamo gli ultimi, ma qui siamo a Napoli e il tempo ha i suoi tempi!

Ore 18.09 – Partenza per Sorrento –

La strada che stiamo percorrendo sembra impossibile per qualsiasi automobilista tranne che per i

napoletani. Conto le volte che abbiamo rischiato l‟impatto con altri pullman. Superano di gran lunga

le sette vite dei gatti, ma questi autisti sono allenati e, nonostante i peli sulle braccia costantemente

ritti e l‟ansia in bilico con la crisi d‟isteria collettiva, usciamo indenni da incidenti. Mi rilasso e

lascio vagare il mio sguardo oltre il vetro. Le strade vivono il caos automobilistico nella più totale

tranquillità, solo le moto riescono a dribblare l‟ingorgo che si è venuto a creare e che molto

probabilmente fa parte della normale viabilità napoletana. Noto che la maggioranza dei motociclisti

ha il casco ma alcuni lo tengono slacciato ed altri, incuranti delle leggi, non sanno neppure cos‟è. Il

traffico cittadino ha aguzzato l‟ingegno napoletano e, alla faccia delle regole, ha sfruttato l‟uso del

sellino per due persone, moltiplicando il numero consentito delle anime trasportabili, molto spesso

due delle quali ancora innocenti. Di fronte a tale visuale, chiedersi se le quattro persone a bordo

dell‟affollata moto avessero avuto o no il casco mi sembra irrilevante! Il 98% degli automobilisti

non conosce l‟uso della cintura di sicurezza, indossandone già una per non far cadere i pantaloni

alle caviglie!

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Siamo in periodo di elezioni e mi colpisce la pubblicità elettorale di un tizio candidato alla Lega

Sud: Là nisciuno è fesso! L‟orgoglio d‟essere meridionale. Paese che vai, espressione che trovi!

Per il PD, un certo Andrea Losco pubblicizza il suo partito: un nome, un programma!

Fiancheggiamo un‟enorme costruzione bianca, è l‟Albergo dei Poveri. La facciata di fronte alla

strada è in ristrutturazione, mentre il retro sembra le rovine romane. Quando si dice l‟importante è

apparire… Mi ricorda le finte riproduzioni delle case di una Cinecittà in piena Napoli!

Finalmente riusciamo a muoverci meglio e le macchine si sono magicamente dissolte o,

semplicemente, spostate sul lato opposto della strada. Il cielo si è riaperto e solo un cumulo di

nuvole si è concentrato sopra la cima del Vesuvio, offrendo, come ha notato Pietro (Pistolese), la

fantastica impressione che sia tornato a sbuffare.

Sentiamo la voce di Andrea (Bruni) raccontare episodi giovanili senza accorgersi di avere il

microfono acceso. Fortunatamente Andrea è un signore e non ci sono stati problemi di gaffes: non

so immaginare se ci fosse stato chissoio al suo posto!

Arriviamo in hotel in ritardo per via della coda. Ci viene offerto un menù delicatissimo e poi,

tutti in camera a disfare le valigie. La stanza è splendida, affacciata sull‟intero golfo, Vesuvio

compreso. Le luci sulla costa creano una moltitudine di lucciole adagiate sulle colline. Penso che da

questa immagine siano nati i famosi presepi napoletani e che, sempre per la poesia del panorama,

siano scaturite facilmente le canzoni napoletane conosciute in tutto il mondo. Solo Johnny

(Grimaldi) si è lamentato per la camera con vista di sguiscio del decantato golfo!

Dopo cena Carlo, i miei amici (Enzo e Fabrizia Bruna) ed io, decidiamo di perlustrare la zona ma

dopo pochi metri ci ritroviamo senza mariti, essendo rimaste troppo a lungo con il muso incollato

ad una vetrina. Rientriamo per non rischiare oltre… intanto i mariti neppure s‟erano accorti della

grave, quanto momentanea, perdita!

Come un boomerang ritornano all‟ovile e come ogni dignitosa coppia ci salutiamo con un

sorriso, per poi berciare al rispettivo consorte come un‟oca strangolata non appena entrati in

camera. Eseguito il compito, m‟infilo nel letto e aspetto che il buio mi accompagni nel mio mondo

preferito. Dopo un quarto d‟ora sono ancora con gli occhi sbarrati e un fastidioso ingombro sul

fianco. Mi giro su un lato, tentando di liberarmi dall‟impiccio ma il bestio continua ad invadere il

mio spazio. In un veloce colpo d‟anca sbatto appositamente sull‟ostacolo, sperando di spostarlo con

garbata fermezza. Sento grugnire, poi rantolare, quasi un lamento soffocato ma ugualmente

molesto. Mi rendo conto che sto respirando un‟aria calda, riciclata e che mi sto aggrovigliando in un

intreccio di gambe pelose e braccia soffocanti.

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Forse una volta non avrei descritto una scena del genere e mai mi sarei sognata di lamentarmene,

ma ho passato gli “anta”: sia anagrafici che sopportabili in un matrimonio di lunga durata e ho

capito che il segreto per rimanere vicini è mantenere una certa distanza… ma cavolo, questo letto è

piccolo perfino per me!

-1 Maggio-

Sveglia alle 7.15… del tutto inutile perché tanto lo ero già! Il cielo è coperto, sono un pochino

preoccupata per il mare, conscia di non possedere affatto un piede marino, e stanca per la notte in

bianco. Fortunatamente dopo una ricca colazione e una (mal)sana sigaretta riesco a distrarmi,

nonostante il mugugno continuo per il mancato riposo.

Il gruppo si unisce nella hall. Raggiungiamo a piedi il porto, mentre cresce la mia ansia,

sperando che non aumenti in pari modo anche il movimento ondoso. Mi tranquillizzo vedendo un

grande traghetto, peccato che quello riservato a noi sia quello più piccolo!

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Come ogni viaggio rotariano che si rispetti non poteva mancare una sorta di piccola sfortuna

riservata ad un membro del gruppo e a lui soltanto. Manca un biglietto!

“Vabbè che siamo genovesi, ma tirate fuori „sto biglietto!”

La questione assume le sfumature di un giallo e dopo aver interrogato amici e persino estranei al

gruppo su chi si fosse impossessato (erroneamente) di due biglietti, riesco a capire a chi manca: ad

una delle figlie di Johnny (Grimaldi)… la sfiga continua!

Risolto il giallo del biglietto, misteriosamente ricomparso, saliamo a bordo, meno male che il

mare sembra piatto… “eppur si muove!”

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“Cavolo, si sballotta!”

Fin dalla partenza del nostro traghetto, un altro tenta una “scianca”, agitando onde e ululati di

giovani tedeschi seduti a poppa. Ad ogni movimento urlano come fossero sull‟ottovolante,

coinvolgendomi in una (per ora) pacata isteria controllata. Massimo (Giordano) mi fa notare che

sono pure in braghette corte e cellulite al vento, ma pieni zeppi di birra già alle 10 del mattino!

Indosso i pantaloni lunghi e al vento mostro altro, credo più piacevole della cellulite, in più sono

astemia… quindi le mie urla soffocate sono proprio da panico!

Mi scappa la pipì e decido di affrontare, con quella parte ligure che ancora permane dentro di

me, il tragitto che porta verso la toilette. Pur sbattendo da un lato e dall‟altro, riesco a trovarmi di

fronte alla porta del bagno. Provo ad aprirla. E‟ chiusa. Non insisto, pensando sia occupato. Attendo

pazientemente, tenendomi saldamente in equilibrio ma dopo cinque minuti inizio a pensare che

qualcuno si stia sentendo male.

“Beh, è logico, visto il movimento ondulatorio del mare”, commento a bassa voce, poi una

signora si avvicina alla porta, aprendola magicamente. Oddio, sono stata ferma ad aspettare per

dieci minuti come un‟imbecille solo perché non l‟avevo aperta nel senso giusto?

“Te l‟avevo di portarti anche il cervello prima di partire!”

E‟ la voce del mio topastro ma non gli rispondo, anche perché a volte (solo qualche sporadica

volta) ha ragione.

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Ore 10.10 – arrivo a Capri

Non appena sbarcati non ho potuto fare a meno di ricordare a quello che avevo pensato l‟anno

che sono venuta con il mio topo poggiando il piede sul molo. Ero delusa, tristemente amareggiata

nel constatare che tutto ciò che avevo sentito dire su Capri si riduceva ad un gruppo di case di

pescatori affacciate su un porticciolo. Sono ligure, perdinci, mica vengo dal Trentino! Sono abituata

a perle ben più preziose di questa manciata di negozietti pieni di souvenir! E‟ tutto qui? Avevo

chiesto al mio piccipicci sempre più stupita dell‟entusiasmo dei turisti. Poi ero salita sulla

funicolare, ammassata insieme a ragazzini urlanti in gita scolastica. Avevo avuto l‟impressione di

essere stata inscatolata come un pesce appena pescato, ma ero riuscita a intravedere il panorama da

un ridotto angolo del vetro, esattamente tra la piega di un gomito e l‟incavo di un‟ascella sudaticcia.

Ricordo che, nonostante la pressione umana, avevo avvertito un frullare d‟ali nello stomaco, un po‟

come quando da ragazzina avevo sbendato gli occhi, scoprendo il primo amore.

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“Ecco Capri, ora capisco”, mi ero detta, rimproverandomi di continuo per aver anche solo messo

in dubbio ciò che da tutti è considerata la perla partenopea.

Ma ancor prima di riprovare quel piacevole effetto di totale ubriacatura della natura, ho gettato

uno sguardo sul motoscafo pronto ad ospitare il gruppo per la visita dei Faraglioni…. Brrrrrr, non ci

penso neppure! Il mio piede poco marino ne aveva avuto già abbastanza e quasi da sé si era diretto

verso luoghi più asciutti e meno ondulatori. A poco è valso l‟incoraggiamento dei miei amici

nell‟unirmi a loro. Ero pronta ad attaccarmi al molo come una patella e rimanere ancorata a terra

qualunque voce avessi sentito. Aveva resistito Ulisse al canto delle sirene, figuriamoci se non

potevo educatamente declinare l‟invito della mia amica Fabrizia! Fortunatamente, a consolidare il

mio rifiuto, si sono unite anche Milla (Dodero) e Clara (Bellin): l‟unione fa la forza e il no di tre

donne un solidale cambio di programma!

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Lasciati gli eroi a solcare le schiumose acque capresi a bordo del potente motoscafo, le tre grazie

si sono sguinzagliate come puledre allo stato brado verso un più invitante richiamo: shopping

sfrenato!

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Mentre il gruppo si deliziava gli occhi attraversando i maestosi Faraglioni, stringendosi nei loro

giubbotti e battezzati dagli spruzzi ripetuti ad ogni tonfo dello scafo, noi “puledre” abbiamo

colmato i nostri irrefrenabili bisogni, scivolando da una vetrina all‟altra, tenendoci d‟occhio per non

perderci e aiutarci negli acquisti. Lo shopping tour è stato proficuo e neppure per un secondo ci

siamo pentite di non aver cavalcato le onde, oltrepassato i Faraglioni e visitato grotte, per quanto

azzurre fossero!

Puntuali come orologi svizzeri, ci riuniamo alle 12.00 con il gruppo, mentre la guida ci spiega la

storia di Capri e Anacapri.

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Dalla costa partenopea e salernitana, tra Capo Miseno ed Amalfi, si erge uno scoglio che è

come un sogno perso nell'azzurro cobalto del suo mare. È l'isola mediterranea invidiata ed esaltata

nelle liriche più famose. È Capri. Il profumo dei fiori, la raffinata sfaccettatura dei colori, le

reminiscenze di un passato millenario, l'ammaliante silenzio rotto solo dal lacerante grido dei

gabbiani, sono alcune delle caratteristiche della favola che sto per raccontarvi.

Il primo scopritore di Capri fu Augusto nel 29 a.C. che innamoratosi dell'isola la toglie dalle

dipendenze di Napoli scambiandola con la fertile Ischia. Inizia il suo dominio privato seguito dalla

fiorente edilizia che il suo successore Tiberio attuò dal 27 al 37 d.C, con la costruzione di ben 12

ville. I primi abitanti dell'isola furono i Teleboi che si stabilirono a Capri nell'VIII secolo a.C.

Dell'antica acropoli greca restano solo le mura di fortificazione. Nel 1906 durante i lavori di

ampliamento nell'albergo Quisisana furono rinvenuti dal medico caprese Ignazio Cerio alcuni resti

di animali preistorici ed armi in pietra. Il nome di Capri, secondo alcuni storici, deriverebbe dal

greco Kapros-cinghiale. Altri invece, l'attribuiscono all'origine latina, cioè Capreaecapre. L'isola ha

una superficie di circa 12 Kmq di lunghezza ed una larghezza di 3 Km.

I grandi eventi politici che si svolsero tra il VI ed il XIX secolo a Napoli, con il succedersi delle

dinastie Angioine, Aragonesi, Spagnole e Borboniche, ebbero a Capri scarsi riflessi. L'isola esposta

alla scorreria Musulmana restava abbandonata a sé stessa e la migliore difesa dei capresi era quella

di disertare l'abitato della Marina per rifugiarsi sulle alture. Capri era povera di risorse e con una

popolazione decimata dalle piraterie e dalla peste.

Fra il Seicento ed il Settecento, si aggiunse la rivalità dei due Comuni di Capri ed Anacapri, per

la non facile regolamentazione dei reciproci diritti di giurisdizione civile ed ecclesiastica.

Attraverso l'ultima eroica vicenda di sbarchi i Francesi completarono le fortificazioni sull'isola e vi

restarono fino al crollo della potenza Napoleonica e alla restaurazione Borbonica del 1815. Capri

esce così dal lungo letargo e si affaccia entusiasta alla vita romantica dell'800.

Iniziarono le corse verso l'isola beata di solitudine e di semplicità paesana, i soggiorni prolungati e

le residenze definitive di artisti, di scrittori, di poeti stranieri. L'albergo Pagano, il primo albergo di

Capri, ospitò nel 1826 il tedesco Augusto Kopisch. L'esodo degli intellettuali russi, dopo la guerra

russo-giapponese del 1905, contribuì a fare di Capri, un rifugio letterario-politico. In quegli anni

giunse Massimo Gorki, accolto benevolmente dall'ambiente cosmopolita dell'isola.

Nella letteratura contemporanea due scrittori si dividono il primato della letteratura caprese: lo

svedese Axel Munthe e l'isolano Edwin Cerio.

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Mentre ascoltiamo la guida, ripercorro le deliziose stradine ormai affollate da turisti provenienti

da ogni parte d‟Europa. M‟inebrio dei profumi della natura e da quello delle botteghe artigianali

dove si producono le essenze. Mi lascio trasportare dai ricordi, passando davanti all‟albergo nel

quale avevo trascorso un breve periodo con il mio topo in occasione di un congresso. Il cuore

aumenta il battito, il ricordo si fa più reale e mi sento ancora stupidamente innamorata… Capri ha

lasciato un segno anche dentro di me!

-Museo della Certosa- Carthusia

La costruzione del monastero della Certosa cominciò nel 1363-65 ad opera di Giacomo Arcucci

su un terreno donato dalla regina Giovanna I d'Angiò. Nel 1553 partirono i lavori di restauro,

ampliamento e fortificazione e fu aggiunta una torre a sud, crollata poi nell'Ottocento. Si accede alla

Certosa tramite un viale alla cui fine c'è l'ingresso con una torre fortificata. A fianco alla torre vi è il

portico della Chiesa. La Certosa è strutturata in tre blocchi di edifici: uno estraneo alla vita del

convento con la farmacia e la chiesa per le donne; uno per i frati conversi e per ospiti esterni con

annessi i granai, le scuderie e i laboratori dove lavoravano i monaci; l'ultimo blocco per la vita di

clausura con le celle intorno al Chiostro Grande e gli altri ambienti intorno al Chiostro Piccolo. Il

Chiostro Grande segue uno schema tardo rinascimentale con archi a tutto sesto su pilastri in pietra,

l'area al centro è organizzata secondo un disegno geometrico con spazi verdi. Il Chiostro Piccolo ha

delicati archi a tutto sesto su colonne romane in marmo. Attualmente è sede di un Liceo Classico,

del Museo Diefenbach, di concerti e manifestazioni. Sono presenti nelle sale del Museo due statue

ritrovate sott'acqua nel 1964, sul fondo della Grotta Azzurra.

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Entriamo in una sala bianca dai muri sgretolati. Alle pareti sono appesi enormi quadri scuri i cui

titoli potrebbero essere quelli di romanzi alla Faletti: “Non devi uccidere”, “Adorazione del mare”,

“ Visione di Cristo” e via su questo tono. Dai colori tetri squarciati da pennellate di luce

improvvisa, ritengo che Diefenbach avesse avuto bisogno di uno psichiatra! Le tele sono molto

rovinate, avrebbero necessità di un restauro ma, come spesso accade, mancano i soldi. Santiago (la

nostra guida) ci racconta la vita di questo originale artista.

Perennemente attaccato dalla stampa dell'epoca si rifugiò sull'isola con alcuni allievi. Qui aprì il

suo museo e decorò l'esterno della casa dipingendo delle figure stilizzate che danzavano. Seguace

della Teosofia, praticava il nudismo, il vegetarianesimo, la riforma dell'abbigliamento, la libertà del

corpo. Diefenbach usava dipingere sul terrazzo vestito con delle lunghe tuniche bianche. I suoi

dipinti avevano le dimensioni più svariate, alcuni addirittura di 6 x 3 metri, aggiungeva nuovi

materiali alla pittura a olio, come bitume misto a sabbia. I suoi lavori creavano suggestioni da cui

traspariva lo stato d'animo del pittore che diceva "il male è mancanza di luce", ed i suoi quadri bui

erano squarciati da lampi di luce.

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Nonostante tutte le sue stranezze, i suoi quadri catturano l‟interesse di chi li osserva,

affascinando per i giochi di luce, come sciabole che tagliano il buio, col significato che nel nero

della vita ognuno conserva un filo di speranza. In fondo, era un bravo ragazzo, magari un po‟ fissato

al ritorno della natura, un figlio dei fiori anche per il look che aveva adottato, una sorta di no global

dell‟epoca… ma non era considerato un po‟ stravagante anche Gesù?

Usciamo dal museo e ci dirigiamo verso i giardini di Augusto, meta obbligata per tutti i turisti.

I passi diventano farfalle che sfiorano il viale fra i colori dei fiori: strelitzie che ricordano

pappagalli muti, o uccelli del paradiso ma strabilianti nel loro abito arancio; bordure di viole del

pensiero, minute, quasi umili nel loro susseguirsi ma forti per l‟intensità dei colori vellutati, e poi

rose, geranei e piante che si lasciano osservare. Sono solo il biglietto d‟ingresso per un più vistoso

spettacolo.

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-I giardini di Augusto-

Sono il luogo più rilassante, ma anche dotato di una vista mozzafiato, dopo aver attraversato la

via della mondanità di Capri, piena di negozi dalle vetrine sfavillanti. Sono frutto di una

sistemazione degli anni '30, commissionata dal magnate tedesco dell'acciaio Krupp, che volle

realizzata anche la via omonima, un capolavoro d'ingegneria fatto di tornanti a picco sul mare, che

collega i giardini e la Certosa a Marina Piccola.

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E‟ impressionante, sembra un grosso intestino (deformazione derivata dalla vicinanza con un

medico per troppo tempo) adagiato sulla roccia.

Ognuna delle terrazze che costituiscono i giardini offre un panorama diverso e il verde

ristoratore è un variopinto insieme dei vari tipi di flora presenti nell'isola. Dalle terrazze infatti si

possono ammirare dall'alto le singolari antiche volte della Certosa, o i Faraglioni, la baia di

Marina piccola o i monti che scendono fino al mare.

Su una delle terrazze è collocata una stele di Giacomo Manzù che rappresenta Lenin, che

soggiornò sull'isola nel 1908.

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Da questo punto, accompagnati dai profumi del pitosforo, si gode di una vista superba a picco

sul mare e ognuno degli amici si scatena nello scatto più esclusivo.

Santiago ci fa notare la villa di Sophia Loren situata su uno scoglio a strapiombo sull‟azzurro del

mare. Peccato che è sempre chiusa e nessuno può godere di tale bellezza!

Clicco, tenendomi a debita distanza dalla ringhiera. L‟altezza è vertiginosa e non mi pare il caso

di superare le mie paure proprio ora. Lo sguardo oltrepassa il limite e si posa su ogni pietra, almeno

lui non rischia di cadere!

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E‟ l‟ora della pappa e dopo aver nutrito gli occhi e il cuore con le bellezze naturali, ora tocca al

nostro stomaco trovare appagamento. Situato a pochi metri dalla Piazzetta, il Capri's dispone di un

moderno ed informale bistrot situato a "cielo aperto" con vista sul mare e di una sala elegantemente

intima con una splendida terrazza con vista sull'intero Golfo di Napoli.

È forse l'unico ristorante situato nel cuore pulsante della vita notturna e modaiola dell'isola, a

regalare una cena superba con uno spettacolo naturalistico unico.

“Beh, superba non direi… senza offesa!”, ma comunque abbiamo mangiato sicuramente troppo

in compagnia delle barzellette degli amici Mario (Viano) e Pietro (Pistolese), al quale il mio

picciriello si è ispirato per la sua performance umoristica riguardo ai carabinieri. Guardo estasiata il

mio topo, invidiando la sua memoria, considerato il fatto che il mio cervello è ormai talmente pieno

di buchi da somigliare ad un pezzo di gruviera… anche un po‟ stagionato! Mi preoccupo

leggermente, vedendo il colore del suo viso. Potrebbe essere considerato come pietra di paragone

per il prestigioso sangue di piccione del rubino che ho ammirato in alcuni negozi capresi. Il prenzo

è terminato e, prima di procedere, si attiva la coda per il bagno.

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Non sempre vige la regola: beati gli ultimi… Il rischio di chi si è attardato è stato quello di

trovare bagni intasati e striscioni di carta igienica ovunque: sembra che ci sia stata una festa… un

po‟ terra terra! Barbara (Giordano) esce elegantissima dalla toilette ma mi accorgo che col piede sta

trascinando una generosa striscia di carta igienica, appiccicata alla suola di una scarpa. Glielo faccio

notare con discrezione, bisbigliandole:

“Guarda, Barbara, che ti stai portando via un pezzo di Capri… e non è la parte migliore!”

Tutti sul pullman – direzione Anacapri.

Anacapri è un comune di 6.586 abitanti della provincia di Napoli, situato sull'isola di Capri.

Sorge sul fianco settentrionale del monte Solaro (che, con 586 m, è la massima vetta dell‟isola);

una seggiovia collega l‟abitato con la vetta del monte, da dove lo sguardo spazia su un vastissimo

panorama, dal golfo di Napoli al golfo di Salerno.

Il più famoso edificio di Anacapri è la Villa San Michele, che fu fatta costruire dallo scrittore e

medico svedese Axel Munthe come propria residenza, adattando un antico convento dedicato

appunto a san Michele, e che oggi è una frequentata meta turistica, anche per il suo splendido

giardino. Non lontano è la chiesa di San Michele (XVIII secolo).

Il gruppo quindi si divide per le due escursioni: il mio piccipicci ed io optiamo per la villa di

Axel Munthe e non tanto per arricchirmi culturalmente, ma per evitare la seggiovia singola che

porta fino in cima al monte Solaro.

Santiago, mentre c‟incamminiamo attraverso una stradina ricca di negozietti che mi distraggono

di continuo, ci spiega la vita di Axel Munthe. Era medico, scrittore, filantropo ed amico degli

animali. Nel 1884, applicò gli studi, appena compiuti, per curare la popolazione colpita dal colera.

Dal 1885 diventò un assiduo frequentatore di Capri e qui costruì la sua casa, Villa San Michele ad

Anacapri, "aperta al sole, al vento, e alla luce del mare" come egli scrisse. Intanto si affermò nella

sua professione e fu nominato medico personale della regina Vittoria di Svezia. Nel 1910 si ritirò a

vivere a Torre Materita a causa di un problema agli occhi che gli rendeva difficoltosa la vista in

presenza di troppa luce. Qui scrisse il celebre libro "La Storia di San Michele", tradotto in

moltissime lingue, in cui narrò della costruzione della sua casa e della raccolta dei reperti in essa

conservati. Muore a Stoccolma nel 1949. Romantico, idealista, amante degli animali, si fa seppellire

con uno dei suoi cani.

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Villa San Michele è stata costruita sui ruderi di un'antica cappella dedicata a Santo. Per la

progressiva costruzione della villa, Alex Munthe non seguì un progetto, ma pochi schizzi fatti su

una parete.

Ammiro ogni particolare, lasciandomi cullare dalla sensibilità di quest‟uomo: ovunque reperti

inseriti direttamente nelle pareti o che trovano una nicchia per far bella mostra di sé. Statue, teste

adagiate su tavolini come se stessero riposando, colonnine, vasellame, ogni angolo è un quadro: una

porzione di tempo che giace nella sua eterna bellezza.

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Più mi addentro nella sua casa e più m‟innamoro del suo animo artistico, della sua semplicità,

del suo modo di approcciarsi ai pazienti e alla sua lealtà nel non promettere l‟impossibile… ma è di

Axel Munthe che sono innamorata o del mio picciriello? Riconosco le stesse qualità che ancora mi

fanno battere il cuore!

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Pavimenti e capitelli si fondono in un‟unica immagine cromatica, creando l‟illusione di

un‟inesistente rialzo.

“E già, tanto ben fatto che fra un po‟ ci sbattevo contro, rischiando un doppio carpiato da

Olimpiade!”

“Per forza, sei la solita distratta!”, aggiunge il mio topastro.

“Ao‟, picciriello, guarda che ritiro tutto quello che ho scritto prima… uff, nun te regghe chiù!”

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Il complesso è articolato su più livelli; lo studio è al primo piano, la loggia attraversa pergole e

colonne per giungere ad un belvedere circolare che affaccia sul Golfo di Napoli.

Da qui si domina tutto il golfo e mi sento trasportata dalla poesia come fossi sulle ali di un

gabbiano…

Mare che avvolgi… ehm… luce che inebri… uhm… terra che ti nutri… uffa, mannaggia agli

ormoni persi chissà dove… non mi viene più nulla, ma l‟intenzione c‟era… se vi basta!

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Nel giardino c'è una tomba greca e una sfinge in granito domina dal belvedere tutta l'isola di

Capri.

“Bella, chissà i poveri Cristi che l‟hanno trasportata fin quassù com‟erano ispirati dalla poesia!”

Percorro il giardino che sembra quello delle favole, passeggiando sotto un pergolato profumato,

accompagnata da una vista incredibile sul mare.

Non stento a credere che Axel si sia innamorato di questo luogo tanto da rimanerci per 56 anni,

peccato che la cecità di un occhio l‟avesse costretto a ripararsi da tanta luce e per questo motivo

abbia dovuto lasciare la sua adorata casa, donandola alla Svezia.

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Onde proteggere gli uccelli migratori di Capri, che all'epoca rischiavano lo sterminio causa una

caccia indiscriminata, Axel Munthe decise di acquistare il terreno costituito dal Monte Barbarossa

al fine di offrire agli uccelli migratori una zona protetta; sosteneva infatti che Capri costituisse un

concerto per gli amanti degli uccelli. La musica, del resto, fu il tema di molte serate trascorse in

compagnia della regina di Svezia, che al pianoforte accompagnava la bella voce di baritono di Axel

Munthe, il quale sapeva anche suonare il violino e il pianoforte.

“Ahi, ahi, beccata qualche dote in più rispetto al mio topo: Axel sapeva anche cantare e suonare,

il mio bercia e non sa neppure cosa voglia dire ritmo! Vabbè, non si può avere tutto dalla vita!”

“Ao‟, guagliuncella… guarda che ora son io che nun te regghe chiù!”

“Ma vattenne, ando vai senza di me, picciriello!”

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Mentre un gruppo era a visitare la splendida villa di San Michele, l‟altro era agguantato al sedile

della seggiovia alla conquista del panorama, a costo di vertigini e beccate d‟aquila!

E anche quassù sono riusciti a portare una statua… ma che fissa!

Rientrati tutti in salvo e riuniti i gruppi, ognuno con la convinzione di aver scelto la visita

migliore dell‟altro, siamo saliti sul pullman per ritornare a Capri…. A sperare, volevo dire, di

tornare a Capri… accidenti a „ste stradine! I peli contro peli con gli altri pullman mi hanno

accorciato la vita molto più di tutte le sigarette fumate finora!

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Comunque, grazie all‟abilità degli autisti, eccoci nuovamente a girare con la mia amica Fabrizia

per gli ultimi, rapidi acquisti prima di lasciare definitivamente l‟isola. L‟oggetto del desiderio è una

cintura formata da un foulard che, a seconda se comprata in piazzetta o sul borgo dei pescatori, ha

un prezzo differente: la sfida alla ricerca di un euro in meno è partita!

Concorrenti in gara:

Milla (Dodero)

Clara (Bellin)

Fabrizia (Bruna)

Patrizia (c‟est moi!)

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La prima a scattare è Clara: piccola ma con muscoli d‟acciaio. I suoi passi veloci mordono

l‟asfalto, rincorsa da Milla che fatica a starle dietro.

Eccole a un testa a testa mentre adocchiano una vetrina. E‟ Clara la prima ad infilarsi. Milla non

demorde, oltrepassando un cesto pieno di cianfrusaglie e buttandosi letteralmente dentro ad un altro,

ricco di più probabili prede.

Fabrizia segue un altro percorso. La inseguo inutilmente. Mi stacca di cinque metri e tenta un

assalto. Ansimo, boccheggio, agonizzo ma non mollo. Recupero le forze e mi spingo oltre

l‟impossibile: superare Fabri non è cosa da poco. Il suo occhio azzurro penetra attraverso la

cozzaglia di souvenir e colpisce! Con una mano trattiene una vittima penzolante: la più bella cintura

abbia mai visto! Il sogno di ogni donna, l‟ambito premio di tanto affannarsi… la voglio, la desidero

più di ogni altra cosa al mondo ma Fabri non cede. Tituba, è incerta su un altro colore.

Mi blocco, forse ce la faccio. Trattengo dentro di me l‟espressione di chi muore dalla voglia di

possedere quell‟oggetto. Fingo indifferenza. “No, non m‟interessa affatto!” sperando che cada nel

tranello ma non mi riesce. Mi arrendo, bisogna anche saper perdere!

Dall‟altro negozio, Milla tenta un recupero, agguanta una preda ma Clara è più svelta: afferra

una, no due, anzi ben tre cinture ed esce vittoriosa con un tempo da record, battendoci tutte!

Soddisfatte e trionfanti, chi più e chi meno, ci raduniamo come docili pecorelle al gregge per

imbarcarci nel più grande traghetto abbia mai visto sulla faccia della terra: un jumbo!

Sono certa che questo bestione mi porterà sana e salva a Sorrento senza che nemmeno me ne

accorga. Salgo con un certo entusiasmo, pronta a godermi la traversata in compagnia della mia

amica, ma appena saliti, pur ammirando l‟interno del traghetto, molto più somigliante ad una nave

da crociera, mi sono accorta che qualcosa non andava dalla processione lenta di persone che

vagavano per i corridoi con un‟aria decisamente triste. Dopo un paio di giri, tanto da sembrare

anime del Purgatorio in qualche girone che più non ricordo (ci vorrebbe il generale a farmi da

suggeritore, n.d.r.) capisco quale sia il problema.

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Peccato che tutti i posti siano già occupati e molte anime, dallo sguardo perso nel nulla, vaghino

alla ricerca di una chimera, osservati dai sorrisi degli altri passeggeri disgustosamente appagati dalla

loro comoda postazione.

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Faccio spalluccia, tse, figurati se do a vedere che sto cercando un posto. Sto sempre in piedi IO,

anche sull‟autobus! Cerco con Fabrizia una parete qualsiasi per appoggiarmi con una certa

eleganza, controllando che ci sia un corrimano per aggrapparmi in caso di ondulamento non

previsto. I nostri consorti sono a terra, in tutti i sensi, trovando un più comodo alloggiamento sul

pavimento.

Dopo mezz‟ora di navigazione, lo sbarco della moltitudine di anime che era riuscita a contenere

il jumbo-traghetto somiglia molto a quello di una mandria di bisonti giunti al capolinea. In un modo

o nell‟altro le coppie riescono a ricongiungersi e a salire sul pullman senza perdersi.

Mentre il pulmino attraversa il centro di Sorrento, brulicante di persone che entrano ed escono

dai negozi, sento la voce inconfondibile di Fabri che scalpita: “Fermate il pullman… voglio

scendere!!!”

Mi sento coinvolta dal richiamo straziante. Mi sta chiamando, cerca un‟alleata, una complice,

insomma un‟amica con la quale condividere un‟innocente scappatella shoppinesca ma il mio

piccipicci non sta bene e sento il dovere di moglie bruciarmi lo stomaco. Avrei avuto la voglia di

inghiottire un Maloox e farmelo passare, ma non ce n‟è stato bisogno: lo sguardo da bassetound del

mio topo mi è bastato! E poi, fra poco più di un‟ora ci aspetta una serata particolarissima: il

Sorrento Musical al teatro Torquato Tasso. Il tempo necessario per un bel bagno ristoratore, con

lavaggio integrale, trucco e capelli compresi, è appena sufficiente e almeno per una volta ero pronta

prima del mio stanchissimo topo!

-Ore 20.00-

Enzo, Fabrizia, Carlo e la sottoscritta, ci rechiamo a piedi, tutti infrichettati, verso il teatro Tasso.

Non vedendo più il gruppo davanti a noi, ci siamo persi ma non tanto quanto la mia amica avrebbe

voluto, allungando il suo aquilesco occhio azzurro fin dentro alla vetrina di un negozio dagli abiti

griffatissimi. Purtroppo per lei, suo marito ha pensato di accelerare i tempi, chiedendo indicazioni

ad un vigile. Ottima manovra se il vigile in questione non stesse già parlando con una signora

straniera, raccontandole tutta la sua vita fin da quando era sul seggiolone. Prima che spiegasse come

gli fosse caduto il suo primo dentino e la sua prima costruzione con i Lego, Enzo è riuscito

abilmente a sparare la domanda e il vigile, con altrettanta velocità, gli risponde allungando il

braccio in direzione della via giusta.

Seguiamo il braccio e dopo poco riconosciamo Andrea (Bruni) che ci sta aspettando all‟ingresso

del teatro. Delle graziose signorine ci danno il benvenuto, accompagnandoci verso quello che

credevo fosse l‟ingresso del ristorante.

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Appena entrata, sono rimasta simpaticamente stupita nel vedere che nella parte superiore del

teatro c‟erano tre file di tavolini romanticamente apparecchiati per due con tanto di lume di candela.

Ma la cosa più straordinaria era che erano tutti rivolti verso il palcoscenico, così da appagare sia la

vista che il palato: una situazione originale come solo i napoletani sanno essere!

Mentre alcuni camerieri si adoperano per servirci la cena, entrano due bravissimi musicisti che,

uno al mandolino e l‟altro alla chitarra, cantano le canzoni napoletane più note (Tagge voluto bene a

te, Monastere e Santachiara, Chillaallà, chillallà, Marruzzella, maruzzè). Passando tra i tavoli, si

preoccupano di nutrire pure le nostre orecchie con dell‟ottima musica.

Mangiamo le prelibatezze del loco, ma mi sento un pelino inguiata, impossibilitata a sfuggire a

tanta napoletanità forzata. Se proprio debbo dirla tutta, le canzoni partenopee conosciute da tutti, me

compresa, non sono quelle che potrei definire la mia passione e, per quanto apprezzi la bravura dei

musicisti, l‟idea di dovermi sorbire un‟intera serata di musiche alla Valerio Merola mi iniziava a

fermarsi sullo stomaco appena dopo la seconda canzone.

Seduta e infrichettata, sorrido, cercando comprensione e solidarietà negli sguardi di qualche

amico. Incontro quello di Massimo (Giordano) che sembra entrare nel mio e unirsi al mio stesso

pensiero: lo stare immobilizzati su quella panchetta ancorata alla parete ci aveva dato l‟impressione

che da un momento all‟altro sarebbero scese delle sbarre dallo schienale per bloccarci come sulle

montagne russe!

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E data l‟ironia della situazione e dell‟analoga similitudine, vengo immortalata da Massimo

proprio mentre la trascrivo.

Incomincio a divertirmi e a lasciarmi andare, tanto da qui non ci si può muovere! Decido quindi

di godermi la serata e i gustosi piatti, leggendo la locandina del Sorrento Musical, scritto in ben

cinque lingue… perfino il giapponese!

La tradizione di due secoli di danze, costumi e musiche partenopee, diventa, sul palcoscenico del

Teatro Tasso, un coinvolgente musical.

La magia di canzoni come “Torna a Surriento” cattura lo spettatore e riporta, con l‟ausilio di

una scenografia fedele sul piano storico, per incanto indietro nel tempo.

Lo spettacolo, della durata di 75 minuti, si propone di raccontare la vita quotidiana della gente

del sud, rappresentandola in quattro diverse scene.

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Nella prima è protagonista il mare. Il panorama è quello del golfo da Marina Grande a Punta

Scutolo: su questo specchio d‟acqua i pescatori si preparano alla pesca quotidiana, rendendo con

il canto (Piscatore e Pusillepo, mandolinata a Napoli, O‟ marenariello, Michelemmà, ecc) più

sopportabile e perfino allegra la fatica di tutti i giorni.

Il mercato ha già una sua musica fatta di chiacchiere e pettegolezzi. Nella piazza tra compere e

scambi nascono storie d‟amore e di gelosia, s‟intrecciano corteggiamenti e litigi al ritmo e con i

passi della Tarantella. Fanno da cornice le note di O‟ sole mio, O‟ paese do sole, Santa Lucia, te

voglio bene assaie e Carmè.

All‟imbrunire e col Vesuvio stagliato all‟orizzonte non si può che cantare l‟amore. I luoghi che

hanno ispirato e stregato tutti i colti viaggiatori del Grand Tour (da Goethe a Wagner, da

Nietzsche a Croce) emanano il loro fascino immutato attraverso le canzoni che proprio in questi

posti furono scritte: Marechiaro, Torna a Surriento, „O surdato nnammurato, „O sapore de cerase.

L‟ultima scena del Musical ricostruisce il momento popolare della festa. Sulla piazza illuminata

a giorno, mentre nel cielo si disegnano le scie dei fuochi d‟artificio, tutti si lasciano afferrare dal

ritmo dei balli (Tarantella Rossini) e cantano la loro gioia di vivere (Popolo Po, Comme facette

mammeta, Dduie paravis e Funiculì Funiculà) pronti ad affrontare, l‟indomani, un‟altra giornata

d‟amore e di lavoro.

“O mamma mia, mi sa che sarà durissima!” dico sottovoce al mio picciriello, chiedendo

mentalmente perdono alla nonna napoletana.

Mi metto “a vento”, cercando la mia inseparabile compagna di fumo Giò (Pedullà) per una siga

del dopo cena e prima che inizi lo spettacolo. Appena il tempo di farcene due di seguito che le luci

del teatro si spengono per poi accendersi sul palco.

Il soffitto del teatro è stellato come il cielo di Napoli. La tenda blu di velluto si apre e il nostro

sguardo si estende verso il panorama della costa dipinta sullo sfondo. Il palco si anima di cantanti,

ballerini e musicanti in costume dell‟Ottocento che manifestano, con il canto e la tarantella, il loro

amore e la loro passione per una tradizione conosciuta in tutto il mondo.

Gli sfondi si susseguono a ritmo delle canzoni. Parlano della gente comune: di pescatori,

artigiani, mestieri che solo in alcuni borghi resistono ancora, tenuti in vita dalle canzoni napoletane

per evitare l‟estinzione.

Le musiche sono quelle che conosciamo tutti e molto spesso sono gli stessi artisti a coinvolgere

il pubblico, incitandolo a battere le mani tenendo il ritmo.

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Mi sto lasciando coinvolgere, soprattutto ascoltando la canzone “Te voio bene…ma tanto tanto

bene saie..è „na catena saie…”, da una voce calda e profonda come un tenore che ha suscitato un

fragoroso applauso generale.

Siamo appena all‟inizio e ho già i palmi delle mani spellati!

Le voci femminili sono squillanti come una cascatella di montagna e, anche se nessuno di noi

distingue le parole della canzone, noto che tutti tamburellano sul tavolo con le dita o vanno a tempo

col piede. “Nel mare luccica un nastro d‟argento…”, cantata da un soprano – “Chiste è o‟ paese du

sole…”, cantata insieme al tenore, unendo le voci come il migliore degli impasti per un‟ottima

pizza… alla napoletana, naturalmente! E poi ancora “‟O surdato nnammorato – “Ohi vita, ohi vita

mia…” e non poteva mancare “‟O sole mio”!

Sono commossa fino alle lacrime e passo da uno stato di euforia al singhiozzo più liberatorio alle

note malinconiche, ballate in un romantico duetto.

E‟ la volta dei musicisti e dei virtuosismi con i propri strumenti: violino, chitarra, fisarmonica,

mandolino e tamburello, in un aumento del ritmo sempre più incalzante fino al fragoroso finale.

Bravissimi!

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Non poteva mancare il ballo tipico napoletano: la tarantella. Ballerini festosi hanno coinvolto il

pubblico, ballando fra le file, mentre dal palco s‟incoraggiava a tenere il ritmo con la battuta delle

mani. Poi, com‟era prevedibile, s‟alzano le note di “Torna a Surriento”, “A che bello caffè”, Tu

vurria‟a pizza”, accolte da tutti con lunghi applausi.

Sarà per la potenza delle voci, per i colori dei costumi o per la musica che sembra di conoscere

da sempre, ma sono talmente eccitata che, pur ricordando d‟essere entrata genovese, ora mi sento

totalmente napoletana!

Le esplosioni delle tarantelle si susseguono alle note di “Chi ha avuto ha avuto, avuto..” fino ad

arrivare a “Jamme, jamme, funiculì, funicolà” in un entusiasmo generale che ha scaldato il

pubblico, ormai con i palmi a brandelli, a cantare a squarciagola, con tanto di ugola rossa come un

ferro incandescente, pur di arrivare alle stesse note dei cantanti! Visto l‟entusiasmo generale, è

scattata la canzone simbolo per eccellenza: “Ohi vita, ohi vita mia”, coinvolgendoci in una

folcloristica orgia di cori!

Sfiniti, come dopo una poderosa ubriacatura di tutti i sensi, nessuno escluso, abbiamo lasciato le

nostre postazioni e, barcollando, abbiamo finalmente raggiunto il nostro albergo. Giunta in camera,

ho cercato di chiudere gli occhi insieme alla luce, ma dentro di me il palcoscenico continuava

ancora a ballare, suonare e cantare… fino all‟alba!

Per chi avesse voglia di conoscere il significato della tarantella, trascrivo quanto è descritto nel

1927 in Le cento città d‟Italia.

Il costume sorrentino era per la donna: vestito cremisi celeste ed arancione; gonna larga e a

pieghe con orli, frange e trine d‟oro; grembiule bianco ricamato; calze traforate. Orecchini a rosette

e pendagli; fili di perle al collo.

Per gli uomini: calzoni neri o verdi al ginocchio, panciotto rosso a doppia bottoniera; giacca

verde, gialla o rossa, calze bianche, fascia di seta a colori con cinture, berretto di lana rossa cascante

a destra.

La danza comincia fra due giovani che si amano; al loro saluto, ai loro primi passi, animati dalla

gioia, dall‟amore, non tardano a seguire la volubilità, il malumore, lo sdegno. Ma il danzante è

quello che ha più ragione e la sua compagna, rientrata in se stessa, gli confessa il torto e cerca di

trattenerlo, umiliandosi fino a piegare un ginocchio al suolo. L‟uomo allora le gira intorno vittorioso

e la perdona, alzandola amorosamente. Ma ben presto succede la scena contraria. Questa volta è

l‟uomo che ha mostrato infedeltà e leggerezza; la donna gli mostra il suo disprezzo allorché egli

piega a sua volta il ginocchio davanti alla bella ed ella non tarda a perdonarlo.

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Allora, felici e giulivi entrambi, mostrano con la loro danza animata e piena di vivacità e di

trasporto, che il loro amore è coronato.

Ho capito adesso perché non sono riuscita a chiudere occhio… tutto quell‟inseguirsi di amore e

corna reciproche, condito da umiliazioni in ginocchio e conseguenti perdoni mi hanno

scombussolato, ribaltando il mio concetto dell‟amore!

-2 Maggio- Risveglio con una voce da trans. Mi rendo conto che meno sono i luoghi dove posso

fumare e maggiori sono le sigarette che brucio con tirate da Humpry Bogart. Il cielo promette una

giornata fantastica, così come il programma che Andrea (Bruni) ha organizzato per oggi: visita a

Positano.

Il problema dello spostamento con il motoscafo mi ronza nella mente come un fastidioso

moscone e pur tentando di cacciarlo, rimandando il pensiero, quello ritorna, insistendo nella

domanda: “Cosa pensi di fare, Patrizia, questa volta? Resterai a terra come un mollusco attaccato

allo scoglio o affronterai il mare, le onde, lo stomaco sottosopra, i tonfi, le crisi di panico, le scene

d‟isteria, lo svenimento e il rantolamento finale?”

Sapete? Se c‟è una cosa che non sopporto di me è quando queste vocine mi lanciano una sfida

come questa. Nulla sarebbe se non ci leggessi quell‟odioso tono sarcastico che presuppone una

ovvia risposta. Mannaggia… ci cado sempre!

-ore 8.30-

Ci siamo tutti, mancano solo le belle figlie di Johnny (Elisa e Anna Grimaldi) e i genitori hanno

manifestato il loro disappunto non appena sono arrivate. In effetti, erano “quasi” in perfetto orario,

avendo rispettato l‟ora del programma precedente e modificato la sera prima (8.45), ma il padre,

prevedendo un femminile slittamento, aveva detto loro di essere pronte per le 8.30 e quindi erano in

ritardo “solo” di quindici miseri minuti!

Quando pensi ad un angolo di paradiso, ad un posto lontano dal traffico, al riparo dalla

confusione e dalla frenesia del quotidiano, pensi alla Costiera Amalfitana.

Una striscia di terra che va da Positano a Vietri sul Mare, bagnata da un mare azzurro intenso, e

riparata da rocce imponenti. Tornanti sinuosi ondeggiano dolcemente in questo paesaggio sognante,

regalando ovunque intense emozioni. I paesi della costiera hanno tutti una caratteristica comune: la

struttura urbanistica. In alto, infatti, si trova il centro storico, con case e dimore antiche, minuscole

cappelle e chiese sontuose, mentre in basso, a livello del mare, è ubicata la spiaggia, collegata alla

parte superiore con una serie infinita di scalette e stradine.

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Bisogna percorrere la Statale Panoramica 163, ovvero il Nastro Azzurro, un'importante arteria

lunga circa 50 km, che inizia a Vietri sul Mare, in provincia di Salerno, e risale terminando al

comune di Meta, dove ci si immette sulla Strada Statale 145 Sorrentina. Lungo il tragitto sono

numerose le piazzole di sosta a picco sul mare, dove è possibile fermarsi a contemplare lo

straordinario panorama della zona.

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-S. Agnello-

S. Agnello è situato tra Piano di Sorrento e Sorrento; il suo territorio si affaccia sul golfo di Napoli e

quello di Salerno ed ha la forma di un rettangolo. Dal punto di vista geologico, il territorio

appartiene all’era Quaternaria; in esso sono particolarmente visibili resti tufacei, dovuti alle eruzioni

del Vesuvio, che hanno reso la costa a picco sul mare di un particolare colore giallo bruciato. Le

origini di Sant'Agnello sono comuni a quelle dell'intera Penisola Sorrentina e risalgono ad epoca

antichissima.

Molte sono le teorie sull’origine di questo territorio: chi crede che esso abbia avuto origine da

un’eruzione del Vesuvio, chi crede che a fondarla siano stati i Lestrigoni o i Cimmeri.

Il primo popolo che giunse in Penisola di cui si hanno prove certe fu quello degli Osci, popolo

dell'Italia meridionale a cui successivamente si unirono i Fenici, all'epoca già molto progrediti. L'8

gennaio 1808 fu una data molto importante per Sant'Agnello: infatti, si determina il distacco di

Piano da Sorrento ed il paese diviene vassallo del nuovo Comune. Questo nuovo stato giuridico non

fu affatto gradito dai Santanellesi i quali, invano, si ribellano. Il 14 maggio del 1866 fu eletto il

primo Consiglio Comunale.

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Ciò che più mi è rimasto nella mente è il verde della natura, forse perché il pullman attraversa il

paese senza alcuna possibilità di fermarci, o forse perché poi non c‟era un granché da vedere. Il

quadro dominante è il panorama che ci accompagna per tutto il viaggio. Santiago c‟intrattiene,

spiegandoci che Sorrento è attraversata da grandi valli, un po‟ come il Gran Canyon: lunghi solchi

pianeggianti che si diramano fino mal mare.

Caratteristica dell‟agricoltura sorrentina è la coltivazione dei limoni, mantenendo una sorta

d‟impalcatura per la vite in alto e nella parte sottostante per gli agrumeti e poi gli ortaggi.

Oltrepassiamo un altro comune, il più alto: S. Agata, dal quale si possono ammirare i due golfi

di Napoli e Salerno. La guida ci racconta dell‟isolamento degli abitanti e che la strada statale è stato

il solo modo per ricollegarsi. Oltrepassiamo uliveti, seguendo curva dopo curva la vista strepitosa

che ci accompagna, forse per distrarci da quel tormentato viaggio. Ecco due isolotti: una, Ligalli, è

di proprietà del famoso Nureiew che diverse volte ha disturbato gli abitanti con le sue feste (o

festini, chi vuol intendere, intenda!) e l‟altra è di Edoardo De Filippo.

“Vedi, topo, alcuni comprano le case di vacanza, altri si comprano l‟isola… Come mai non ne

abbiamo ancora adocchiata una?” chiedo al mio generoso marito.

“Purtroppo erano finite, come gli zucchini… Anche quando tua madre ti ha messo al mondo e ha

cercato disperatamente un pezzo di cervello si è sentita rispondere allo stesso modo: niente da fare,

l‟avevano esaurito!”

“Hai fatto una battuta?”

“No”.

“Grrrr, nun te regghechiù!”

La semplicità della natura è pari all‟ingegno napoletano nello sfruttamento del terreno. Qui la

terra è stata strappata alla natura selvaggia con un paziente lavoro di costruzione dei terrazzamenti,

soprattutto di ulivi e agrumi, lavorandola fino a 1500 mt. di altezza a strapiombo sul mare.

La costa è veramente impressionante: da quassù sembra di vedere gli artigli di un tirannosauro

che si allungano sull‟acqua, pronti ad afferrare una preda.

“Di‟, hai fumato di nuovo, vero? Solo tu puoi avere un‟immagine simile: poeti e scrittori famosi

hanno dedicato alla costa partenopea versi meravigliosi e tu salti fuori con il tirannosauro rex…”,

m‟interrompe il mio dannato picciriello.

“Appunto! Hanno già scritto tutto lo scrivibile… almeno sono originale!” lo liquido.

Sorpassiamo l‟unico punto in cui esiste una spiaggia, frequentata soprattutto d‟agosto. Il

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dislivello è di 300 mt, ma ci sono dei coooooomodi scalini per raggiungere l‟incanto. Penso alla

gente che è disposta a tutto e alla sua determinazione nel conquistare l‟agognata spiaggetta per

mezza giornata di sole, sì perché l‟altra metà è necessaria per risalire!

Nell‟incavo delle curve, stazionano alcune bancarelle con i tipici prodotti: mozzarelle, arance,

pomodori e limoni talmente grandi da sembrare cedri.

Naturalmente quasi tutte le donne conoscono la ricetta del limoncello e ognuna di noi usa (con

varianti personalizzate) gli stessi ingredienti ma per chi avesse voglia di provare la ricetta campana,

ecco l‟originale:

Ingredienti: 1 lt. di alcool per liquori

6 limoni

400 gr. di zucchero bianco

6 foglioline di erba cedrina

½ litro di acqua.

Preparazione: tagliare la buccia superficiale ai limoni e porle con le foglie di erba cedrina

nell’alcool dentro un vaso coperto, lasciandole in infusione per sette giorni. Dopo questo tempo,

filtrare l‟infuso attraverso una vecchia tela. Preparare uno sciroppo leggero facendo bollire l‟acqua

con lo zucchero per cinque minuti e, quando sarà freddo, aggiungerlo nel vaso all‟infuso.

Lasciare ancora riposare tutto per una settimana e filtrare di nuovo attraverso un telo molto fine

affinché il liquore risulti limpido.

Siamo ancora sul pullman e le curve continuano a susseguirsi, incuranti dei nostri stomaci che

chiedono pietà. Qualcuno sembra ascoltare il sordo lamento e ci fermiamo un secondo, il tempo di

fotografare le indicazioni verso il Sentiero degli Dei, chiamato così perché sembrava di camminare

in Paradiso. Si estende mediamente attorno ai 500 mt. sul livello del mare ed offre una vista

impareggiabile che da Praiano e Positano, spazia fino all’isola di Capri ed al Cilento.

Un paio di scarpe da trekking, una macchina fotografica ed amore per le passeggiate all’aria aperta,

sono tutto ciò che occorre per trascorrere una giornata indimenticabile.

“Grazie, ma anche no… almeno non ora che ho lo stomaco al posto delle caviglie!”

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Dopo poco ci fermiamo nuovamente per il cambio di pullman: il nostro è troppo grosso per

poter proseguire la strada verso Positano. Approfittiamo per scattare alcune foto, appoggiandoci al

bordo della ringhiera che ci divide dallo strapiombo sul mare. Vedo Bio (Vasallo) cambiare colore

in viso e mantenere una distanza di sicurezza, mentre c‟invita a non ammassarci tutti sulla punta

estrema. Ormai è notoria anche fra gli aborigeni dell‟Australia la sua paura dell‟altezza, ma questo è

l‟unico punto in cui non sembra d‟essere sulla costiera amalfitana!

Lorenzo (La Terra) mi fa notare una scritta sul muretto che mi protegge dallo strapiombo:

“Pasquale e Giuliana si amano, ma purtroppo il loro amore non può mai esistere. T.V.B.” e mi

chiede quale storia potrebbe celarsi dietro questa frase, stuzzicando la mia fantasia “letteraria”. Ho

il cervello “in pappa” e gli è rimasto poco spazio per svolazzare sulle ali della fantasia, almeno non

in questo momento, ma è proprio da piccoli particolari rubati alla realtà che nascono i romanzi,

quindi mi segno la frase con la promessa di pensarci a mente più fresca… ora la natura mi chiama!

Le rocce sembrano in alcuni punti come quelle di Ventimiglia, con incavi grandi quanto quelle

delle caverne preistoriche, e in altri appaiono come la nostra costa di S. Margherita. Inizio a sentire

un prurito nello stomaco, una specie di svolazzamento, come delle ali che picchiano contro le pareti

per cercare l‟uscita. Mi rimbombano le parole dal “terrunciello” innamorato che di fronte a tanta

bellezza ha voluto firmare il suo pianto sul muro di cemento, freddo e immobile proprio come il suo

amore, affidando a chiunque vi si appoggiasse il suo tormento. Le gole delle rocce, aperte come in

un grido, sembrano rimbalzare quella disperazione nel cielo, mentre il mare inghiotte la

rassegnazione di un amore impossibile…

“Svegliaaaaaaaa!!! Si parte!” mi riprende il mio topo. Lascio il mio pensiero appeso a quelle

rocce, sicura di ritrovarlo al momento più opportuno.

Il gruppo si è diviso in due pulmini. Bio è con noi e continua a chiedersi se reggerà la costa!

Stiamo per arrivare, spero, non prima di passare accanto alla Chiesa di S. Giacomo, la cui cupola

assomiglia a quella di una moschea.

L‟impatto visivo è gradevolissimo: sembra un presepe, una caratteristica alla quale mi sto

abituando. Mi rendo conto che dovrei cambiare immagine per non ripetermi di continuo, ma è

proprio quella che balza agli occhi senza più scostarsi dalla mente.

Sono talmente ossessionata dai presepi che mi sembra di vederne uno anche nella roccia…

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E‟ strabiliante e assolutamente “pittoresco”! Mi chiedo chi abbia avuto un‟idea tanto originale,

ma qui siamo in un paese dove la fantasia e la natura vanno a braccetto e si sa che per l‟ispirazione

occorre un contatto con il silenzio, una pace dei sensi che offra spazio alla poesia e alle idee.

“Ah, ecco perché hai la pace dei sensi , a tutto c‟è una spiegazione”, mi bisbiglia il mio amato,

“sei ispirata!”

Glielo lascio credere, pensando invece che siano i miei ormoni ad essere i..spirati!

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-Positano-

Positano è stata definita la perla della Costiera Amalfitana. Una confusione di case, archi,

cupole, loggiati, buganvillee, precipita dalle pendici dei Monti Comune e S.Angelo a Tre Pizzi,

sfida la gravità, si arrampica, quasi una scogliera, sulla spiaggia ciottolosa, sulle barche.

Incastonato nella montagna, avvolto dalla ricca vegetazione mediterranea, Positano è un borgo

così pittoresco da sembrare una scenografia teatrale spontanea. Visto da mare appare come un

grande presepe, una cascata di casette multicolori digradanti lungo il pendio. Il paese si sviluppa in

verticale. Le abitazioni, addossate le une alle altre, caratterizzate dai portichetti ad archi verso il

mare, sono tinte in colori pastello, dando l'impressione di una pietra preziosa sfaccettata.

Non a caso Positano viene chiamata "la gemma della divina costiera". Le strette stradine, con le

numerose boutiques, scendono ripide tra le case sfociando nella Marina Grande: a Positano non si

cammina, ci si arrampica o ci si cala…

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I suoi paesaggi sono famosi in tutto il mondo. Le sue case bianche, abbarbicate alla collina che

si affaccia sul mare arrivando a lambire la spiaggia quasi a rafforzare il matrimonio di Positano con

il suo limpido mare, la sua architettura caratteristica, composta da vicoli angusti, portici, sottopassi,

gradinate, le sue boutiques dove si offre la famosa moda Positano e le sue suggestive spiagge fanno

di questa cittadina una meta turistica imperdibile.

E difatti, chi se lo perde questo paradiso shoppinesco?

Le quattro moschettiere: Fabrizia (Bruna), Clara (Bellin), Milla (Dodero) ed io partiamo alla

ricerca “matta e disperatissima” del trofeo da portare a casa, travolte da una contagiosa shoppinite

convulsiva! Solo il tempo di una “guardata e fuga” alla spiaggia, alla placida risacca azzurra che

bagna la sabbia dorata, accarezzata dai raggi del sole…. Seeeee, vabbuò… scappoooooooo, il

tempo vola e i negozi mi aspettano!!!

Perdo di vista le altre donne del gruppo: Maria Elvira (Amalfitano), Antonella (Vassallo), Giò

(Pedullà), …. (Viale), Ginetta (Viano), Barbara (Giordano), Franca (Pistolese) e tutte quelle dotate

di una carta di credito o di un portafoglio ben fornito, certa d‟incontrarle in una delle numerose

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boutiques. Fabrizia ed io sembriamo imbizzarrite: di fronte ad una tale quantità di “prede” ci

sentiamo quasi smarrite… sto perdendo i sensi (pure quello della pace) e sento di non riuscire a

reggere tanto ben di Dio! Ma l‟amicizia serve nel momento del bisogno e la mia amica Fabri mi

acchiappa, svegliandomi dall‟intorpidimento. Mi riprendo e ci tuffiamo nei negozi, ingurgitando

uno dopo l‟altro, vestiti, borse, scarpe, parei, costumi, cinture, occhiali, profumi e cianfrusaglie

varie. Avverto un brivido e mi brucia la fronte: che bello! Ho di nuovo la shoppinite acuta… e non

c‟è il mio medico personale a curarmi!

Ovunque ci sono i tipici sandali, oggetti di culto dello stile caprese, ma solo quelli di Canfora

sono gli originali. Il fascino senza tempo del cuoio e della pelle naturale, o in brillanti colori

impreziositi con applicazioni in pietre e bigiotterie hanno conquistato chi è stato emblema di stile

nel mondo: Jacqueline Kennedy Onassis, Grace Kelly, la principessa Marghereth, la principessa

Caroline, Soraya, Maria Callas, Oona Chaplin, Sophia Loren… e Milla (Dodero)!

Dal 1946 Amedeo Canfora e la sua famiglia lavorano con passione riproducendo i modelli storici

e arricchendo le collezioni di anno in anno con nuove creazioni. Più di una volta, nella tarda notte

Amedeo apriva la sua boutique esclusivamente per la first lady Jackie Kennedy Onassis, lasciandole

scegliere i suoi sandali preferiti. Per quell‟occasione fu creato un modello che in suo onore fu

chiamato “K”, formato da un anello di pelle per l‟alluce, anziché il solito infradito. Indicativamente

i prezzi dei sandali arricchiti da pietre gira sui 250 euro!

Mentre Milla (Dodero) e Clara (Bellin) sono alla ricerca degli imitatissimi sandali di cuoio di

Positano fatti su misura e al momento, impreziositi da cristalli, conchiglie, strass e quant‟altro la

fantasia abbia a disposizione, Fabri ed io ingraniamo la prima (veramente avrei la quarta),

arrampicandoci come stambecchi su per le stradine impervie, alla ricerca di un “ricordino”.

Dopo aver girato come due segugi, finalmente ritroviamo a fiuto il negozio che avevamo

adocchiato nella precedente circumnavigazione e che ci aveva ispirato a mo‟ di Leopardi.

Decidiamo di entrare. In un nano secondo veniamo circondate da madre e figlia che hanno già

intuito due prede facili!

“Guardi qui”, dice la prima, mostrando una camicetta deliziosa, “costa una sciocchezza… 300

euro… gliela incarto?”

Comprato!

“Starebbe da Dio con questo paio di pantaloni… è praticamente nato insieme, come si fa a

separarli?”

“Quanto costa?”, chiede timidamente Fabri.

“200 euro… regalato!”

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Comprato!

Sentiti i prezzi, tento una retromarcia molto vile. Lasciare un‟amica nel momento del bisogno

non è da me, ma non è lei quella da salvare!

Il sangue ricomincia a pulsarmi nelle vene, riportandomi alla mente la Lanterna, la Foce, le

canzoni di Fabrizio De Andrè, Govi, i Trilli… sono genovese dalla punta dei capelli fino alle unghie

dei piedi e l‟istinto è quello della fuga ma prevale quello femminile.

Il mio sguardo cade distrattamente su una collana dai colori terribilmente invitanti, giusto il

tempo servito alla implacabile figlia della altrettanto inesorabile madre di accorgersene, prendere

l‟oggetto tra le mani, spruzzarmi un po‟ di effluvio magico et voilà: incartato e pagato 150 euro

senza neppure che me ne rendessi conto!

Decido di uscire, con la scusa di fumare una sigaretta, per fuggire dal ladrocinio legalizzato, da

uno stalking imperseguibile ma soprattutto da quella terribile e appiccicosa donna che mi sta

rincorrendo con tre tipi di borsa in mano…

Sono sconvolta e confusa: divisa dal lasciarmi corrompere e dallo spirito genovese che ancora

aleggia dentro di me.

Resisto o non resisto, compro o non compro… questo è il dilemma!

Opto per un incondizionato crollo e mi ributto dentro al negozio, acquistando ancora un profumo

al limone, mentre Fabri ha un sorriso a trecentosessantadue denti e altrettanti sacchetti al braccio!

I rispettivi mariti ci stanano e ci riportano per la collottola in direzione del pullman.

Peccato, una volta rotto il vaso avevo iniziato a prenderci gusto…

C‟erano ancora così tante belle cosine da comprare… cioè da vedere!

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Saliamo sul pullman e inizia l‟esposizione dei propri acquisti, mostrandoli con un leggerissimo

tono di soddisfazione, ripagato dai commenti di approvazione delle altre compagne di shopping.

Mentre ritorniamo sul pullman più grande, Santiago, la nostra guida, ci intrattiene, spiegandoci

che i ristoranti sul mare servono ovviamente pesce ma in alto c‟è un famoso locale dove viene

cucinata la carne di cinghiale e non a caso si chiama “La tagliata”.

La viabilità è molto limitata proprio per la difficoltà delle strade. I pullman sono costretti a

percorrere la via solo in un senso per evitare l‟effetto Lego. Ad aiutare a smistare i veicoli, c‟è

l‟intervento della polizia stradale. La vigilessa che vedo dal finestrino ha un basco in testa come

quello dei militari e indossa un piumino come i finanzieri dell‟Alto Adige. Santiago commenta con

Michele, il nostro autista, che quando ci sono le donne a regolare il traffico c‟è più caos.

Beh, prova un po‟ tu a ragionare con un piumino addosso in pieno giugno sotto „o sole di Napoli

e magari dopo aver superato gli …anta!!!

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Vorrei gridargli, ma trattengo con diplomazia il pensiero dentro di me, lanciando alla vigilessa,

paonazza in volto, uno sguardo di comprensione e di solidarietà tutta al femminile.

Dopo una gimcana pazzesca, usciamo da Positano per dirigerci verso Conca dei Marini, antico

borgo marinaro, conosciuto per la famosa Grotta dello Smeraldo. In una delle gole, incastonata tra

le rocce a picco sul mare, c‟era la villa di Zeffirelli, oggi venduta e, non essendo stata più abitata da

nessun proprietario, si è riempita di vegetazione selvatica. Ma che peccato! Ricordo di aver

ammirato l‟arredo pubblicato sulla prestigiosa rivista AD ed essermene innamorata subito.

Immaginarla abitata dalle piante mi fa piangere il cuore ma, evidentemente, anch‟esse hanno

preferito le maioliche della casa di Zeffirelli alle nude e, diciamolo, banali rocce: il mondo sta

cambiando e pure la natura!

Le immagini scorrono dal finestrino, come le diapositive di una volta, in un susseguirsi rapido e

confuso. L‟hotel S. Pietro, uno dei top tra gli alberghi; le ceramiche Carola, un tipo di ceramica

lavorata con pietre dure, praticamente infrangibile; la chiesa di S.Gennaro dalla guglia maiolicata, il

tutto accompagnato dalla linea azzurra che fa da sfondo. Sento Santiago parlare dei santi di Napoli e

quando vengo a sapere che addirittura tre degli Apostoli sono stati sepolti in Campania, avverto

qualcuno esclamare: “Vedi Napoli e poi muori!”

Le case hanno il tetto a livello della strada per poi svilupparsi al di sotto di essa. Quelle situate

più in alto sono decisamente più economiche e godono del fatto di essere lontano dalla confusione e

dai rumori, con la possibilità di curare un orticello, mentre quelle affacciate sul mare non hanno

prezzo, pur con tutti gli svantaggi. Molto probabilmente le uniche case che potrei permettermi

sarebbero quelle in miniatura del presepe creato dentro la roccia!

Stiamo attraversando Praiano. Natura, semplicità e genuinità sono le caratteristiche di questo

borgo di circa duemila abitanti, stretto tra mare e pareti rocciose. Anche Praiano, infatti, come gli

altri centri limitrofi, presenta un territorio circostante poco praticabile dal punto di vista agricolo.

Qui la terra è stata strappata alla natura selvaggia con un paziente lavoro di costruzione dei

terrazzamenti, e per questo prevalgono coltivazioni di ulivi ed agrumi. Fanno capolino qua e là gli

immancabili e invitanti peperoncini della costiera.

E subito dopo Furore un piccolo centro, noto con il soprannome di "paese dipinto" per la

presenza di numerosi murales alle pareti rocciose. La zona costiera di Furore parte dallo splendido

fiordo, unico in Italia, un'insenatura naturale che ha reso ancor più affascinante questa zona.

Il pullman si ferma per darci il tempo di rovistare nelle borse o negli zaini e tirare fuori la

macchina fotografica: et voilà! Lo scatto magico memorizza un angolo unico, con il mare a sinistra

e a destra della strada. E‟ incantevole, ma non si credano d‟essere gli unici…. sembra Boccadasse!

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Arriviamo al ristorante e il mio stomaco urla: hip, hip…urrààààà! Ancora una curva e si sarebbe

autoeliminato dal mio corpo…ma non voglio immaginare come!

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Il locale è una casa marina in ameno fondo agricolo confinante col mare Tirreno, trasformata in

struttura recettiva negli anni 50, oggi ingrandita e modificata per adattarla ad

un'eccellente ospitalità. È dotata di panoramicissime terrazze sul mare, giardino e

discesa al mare privata in una baia incantevole con servizio bagno di mare nella

bella stagione.

L' Enoteca adiacente alla sala da pranzo offre tutte le più prestigiose etichette

della ricca produzione campana.

Sopra, a livello strada, nell‟assortito bazar, è possibile comprare le migliori ceramiche artistiche

amalfitana e di tradizione vietrese, ed una scelta gioielleria di cammei e coralli.

Non a caso il pullman posteggia proprio a fianco del negozio e, prima di scendere verso il

ristorante, attraversiamo la boutique dove posiamo gli occhi su qualche “ricordino”, prima che si

perdano nella bellezza del panorama.

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Dopo aver gustato il pranzo con una certa rilassatezza, ci prepariamo per affrontare una tra le più

visitate meraviglie della costiera amalfitana: la grotta azzurra. Si scenderebbe verso il mare,

passeggiando per una romantica via che, fortunatamente per il mio picciriello, è chiusa per lavori,

quindi si deve necessariamente utilizzare l‟ascensore. Il momento è topico e la spensieratezza di

prima, affogata nel cibo, sta dissolvendosi al pensiero di dover affrontare onde, più o meno

tranquille, in chissà quale imbarcadero da strapazzo.

Seppur recalcitrante come una mucca al macello, mi avvio seguendo il gruppo.

Guardo la grande scritta: Grotta dello smeraldo. Ma non era la grotta azzurra? Conoscendo i

colori e le loro mille sfumature, compreso il pervinca, l‟iris, il rosso sangue di piccione, il giallo

Siena, il terracotta, il blu cobalto, il blu pavone, lo zaffiro e quant‟altro, mi chiedo se chi ha coniato

il nome della grotta non fosse affetto da una forma di daltonismo. Insomma, lo smeraldo è verde,

l‟azzurro è come il cielo, perdinci! Mai visto il cielo color smeraldo!

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Mentre giocherello con le parole per distrarmi dall‟impatto con Nettuno, Poseidone e calamari

giganti, vengo presa per la collottola dal mio picciriello e costretta a oltrepassare quella bocca

enorme della roccia che sembra volermi inghiottire tutta intera.

Scoperta nel 1932 da un pescatore locale, la Grotta dello Smeraldo di Conca de' Marini deve il

suo nome alla particolare colorazione assunta dall'acqua che riflette la luce che filtra dalle rocce di

quel tratto di Costiera Amalfitana, creando effetti cromatici dalle strabilianti sfumature: dal blu

cobalto, al turchese al verde smeraldo.

“Ahhhh, ecco spiegato il mistero!”

La Grotta dello Smeraldo, che nell'antichità non era invasa dall'acqua, è ricca di colonne,

stalattiti e stalagmiti dalle forme bizzarre, che creano un ambiente incantato, tappa obbligata per i

turisti che visitano ogni anno la magnifica Costiera Amalfitana. Posta in corrispondenza della villa

imperiale di Damecuta, che la sovrasta, questa spettacolare cavità naturale era conosciuta fin dai

tempi dei romani, anche se, contrariamente alla leggenda diffusa, non vi è alcun canale sotterraneo

che colleghi la villa alla grotta. Tuttavia, non mancano i segni del passaggio dei romani, che nella

Grotta Azzurra hanno lasciato una piattaforma di cemento che fungeva da approdo interno, oltre

che delle statue di divinità pagane ritrovate sul fondo (una di Poseidone, l'altra che rappresenta un

tritone, sono entrambe conservate nel Museo della Certosa di San Giacomo). Si racconta che

l'imperatore Tiberio ne fece suo ninfeo personale.

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Per molti anni la grotta è stata come dimenticata dagli abitanti dell'isola, anche per una diceria

popolare che la voleva abitata da spiriti maligni. Fu scoperta, o meglio riscoperta, il 18 aprile del

1826 dal pittore tedesco August Kopisch e dall'amico Ernst Fries, accompagnati dal pescatore

Angelo Ferraro. Da allora è diventata meta di pellegrinaggio per migliaia di turisti ogni anno.

Per raggiungerla è necessario prendere una barca a remi, guidata rigorosamente dai barcaioli

autorizzati. Gli esperti rematori guidano il visitatore all'interno trainando l'imbarcazione con una

catena murata all'ingresso e facendo stendere tutti sul fondo della barca dal momento che l'entrata

della grotta è alta soltanto un metro. Una volta dentro si apre uno spettacolo mozzafiato. Il

cosiddetto Duomo Azzurro si mostra in tutto il suo splendore, con il suo indimenticabile colore. La

balneazione è vietata ma, a giudicare dalla limpidezza, sono acque decisamente invitanti.

E' una cavità lunga circa 60 metri, larga 25 e profonda dai 22 ai 14 metri. La volta ha invece

un'altezza media di circa 7 metri, ma arriva anche ai 14. Il meraviglioso colore azzurro che si può

ammirare nella grotta è frutto di un complesso fenomeno di rifrazione della luce. Da un ingresso

ormai sommerso più grande di quello da cui si accede attualmente, si riflettono i raggi del sole che

creano questo luminoso spettacolo.

Sono numerosi i cunicoli che si dipartono dall'ambiente principale, sia sopra che sotto il livello

del mare. Sconosciuti ai più, questi cunicoli si pensa che comunichino con la vicina Grotta dei

Guarracini. Di fianco alla piattaforma di epoca romana, si apre la cosiddetta Galleria dei Pilastri,

che si raccorda con un'altra galleria che porta fino alla Sala dei Nomi, chiamata così per le firme

che gli antichi visitatori avevano inciso sulle pareti interne. La galleria prosegue, restringendosi fino

al punto in cui prende il nome di Passaggio della Corrosione e nell'ultima caverna detta Sala della

Corrosione. Qui anche lo speleologo più esperto si ferma, di fronte agli stretti passaggi

inesplorabili e all'aria che si fa irrespirabile.

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Siamo dentro la grotta e sembra d‟essere dentro la bocca della balena di Pinocchio.

I canti dei marinai rimbalzano da una parete all‟altra fino a fondersi e a confondersi in un

intreccio di vocali e note strappalacrime.

Saliamo su una barchetta e mi assicuro che non si esca in mare aperto, continuando a berciare

come un‟anatra strozzata. L‟affascinante marinaio mi porge la mano per salire, distraendomi

dall‟ansia e inizia a muovere la piccola imbarcazione con precisi colpi di remi.

Sarà per la magia del luogo, o per la simpatia del bel terrunciello ma mi sento completamente

soggiogata dal fascino partenopeo e mi accuccio buona buona aguzzando occhi e orecchie!

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E‟ affascinante galleggiare su questa conca di colore incredibile, accompagnati dai canti e dalle

spiegazioni dei marinai. Ognuno di loro grida più forte dell‟altro, raccontando le meraviglie di

questa grotta. Mi sento a mio agio, come una neonata in un grembo materno. Assaporo il dolce

dondolio della barca mentre i suoni si fanno eco. Si avvicinano le pareti ricamate dal tempo e il

marinaio ci fa vedere il profilo di un personaggio: per gli italiani è quello di Giuseppe Garibaldi, e

per i genovesi è quello di Cristoforo Colombo!

“Caspita, è vero… quel masso è stato “lavorato” talmente bene dalla mano di madre natura da

ricordare sia il profilo di Garibaldi che di Colombo, ma se ci fosse stato un gruppo di tedeschi

sarebbe diventato come quello di Marx. Il nostro marinaio è un volpone e fa immaginare quello che

il turista vuole vedere, potrebbe essere Lenin o Clinton… turista che viene, personaggio che trova!

I remi affondano nell‟acqua, come un pennello intinto nella tavolozza di colori. Ci avviciniamo a

quella conca turchese, scivolandoci sopra come sospesi in un cielo. Il buio intorno sembra essere

stato creato apposta per far riflettere tutta l‟intensità di quel colore unico al mondo!

Provo a sfiorare l‟acqua, con la certezza di trovarmi le punta delle dita della stessa sfumatura,

come se fossero state immerse in un barattolo di vernice. E‟ un ambiente da fiaba e qui non avrei

difficoltà a incontrare il mio sirenetto turchino e vivere felici e contenti per tutta la vita!

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“Ma la smetti di fare uso di crack, che mi preoccupo?” mi suggerisce il mio picciriello.

“Perché?” gli domando stupita.

“Per quello che vagamente mi ricordo delle fiabe, non esiste alcun sirenetto turchino. Sono certo

ci fosse La sirenetta e, molto tempo prima, La fata turchina. Ora dimmi come ti è venuta in mente

una cosa del genere?”

“Guardando te!”

Vedere il proprio uomo commuoversi per una frase romantica è piuttosto raro, soprattutto dopo

quasi trent‟anni di matrimonio ma, a ben pensarci, forse quella riga luccicante sul viso del mio topo

era solo una manifestazione incontrollata della propria disperazione.

Era solo una favola…

Trasportata dalla voce del bel marinaio che, inconsapevolmente, mi chiama “pupa” (ricordo che

ad una festa mascherata del Rotary ero travestita da pupa del boss), gli chiedo se fosse possibile

ritornare sull‟acqua turchese (né azzurra e né smeraldo, n.d.r.) per rivivere ancora per un attimo la

“mia” fiaba ma, come Cenerentola, anche lui ha un orario da seguire e con un sorriso gira la barca

verso l‟acqua color della notte. Raggiunge un‟altra immagine che sembra apparire dalle stalattiti,

ripetendo lo stesso gioco: per i piemontesi è la Mole Antonelliana, per i francesi la torre Eiffel.

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Che fantasia… che fascino… che bello!!!

Nessuno si rende conto del brivido che mi percorre tutto il corpo, ormai completamente rapito

dalla magia di quel luogo. Un altro colpo di remi e l‟acqua per incanto si liscia dalle increspature,

facendo apparire un presepe subacqueo in ceramica di Vietri, posto a circa quattro metri di

profondità. Ogni anno, nel periodo natalizio, dei sub s‟immergono nelle acque cristalline e adagiano

Gesù Bambino sul fondale della grotta.

“Ma che beeeeelloooooooooo!” mi dice la mia amica Fabri dopo aver cercato inutilmente di

vedere il presepe sott‟acqua. “E‟ originale!”

“Macché… se loro hanno il figlio appena nato, noi lo abbiamo addirittura bello grande, svezzato

e già diventato famoso: il Cristo degli Abissi a Camogli!

Dal 2005 poi, su iniziativa dell'Azienda di Soggiorno e Turismo di Amalfi, si organizza, nel

periodo estivo, per incrementare e diversificare l'offerta turistica della Costiera Amalfitana, una

originale kermesse intitolata "Le magie alla Grotta dello Smeraldo": una straordinaria

miscellanea di eventi, dalla musica, al teatro al cabaret, che si alternano sul piazzale antistante la la

Grotta trasformato per l‟occasione in una vera e propria piazza sullo splendido mare della Costiera

Amalfitana. Il tutto condito dalla degustazioni dei prodotti tipici della Costiera, tra tutti le

sfogliatelle Santa Rosa inventate alcuni secoli fa dalle suore dell‟omonimo convento di Conca dei

Marini.

Il giretto è terminato e quella mezzoretta trascorsa in compagnia di un giovane moraccione,

piacione e galante come tutti i meridionali sanno essere, mi ha ubriacato i sensi, stimolando fantasie

dimenticate e riportando a galla ormoni assopiti, o in via d‟estinzione. Mi sento tutta ringalluzzita,

nonostante intuisca dalla mano tesa del marinaio che la sua galanteria non era del tutto spontanea, e

chiedo al mio topo d‟essere generoso con chi ha saputo risvegliare emozioni un po‟ assopite, certe

di non ritrovarle più!

Ritorniamo all‟esterno, aspettando sul piazzale di cemento la barca che ci porterà ad Amalfi.

Eccitata dall‟avventura appena vissuta, mi diverto a lasciarmi andare in una performance al limite

della decenza. Lo sguardo è perso nell‟azzurro, che sia mare o cielo non ha alcuna importanza, e il

corpo respira l‟aria con ancora il petto ansimante per ciò che ha provato all‟interno di quella grotta.

Lascio intuire l‟appagamento dei sensi, e non solo, aspirando il fumo di una sigaretta, mimando

l‟estasi di un incontro clandestino. E‟ un gioco, solo un gioco per movimentare il gruppo

particolarmente disciplinato, inconsapevole di quanto sarebbe accaduto in seguito. Mai nella mia

vita ho sentito la necessità di chiedere perdono per il mio comportamento a volte leggero e quei

pochi minuti di frivolezza sono rimasti chiusi nel mio cuore come un nodo alla gola.

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C‟imbarchiamo e continuo a giocare, spacciandomi per una montanara in balia di una prossima

crisi isterica per una forte allergia all‟acqua e al suo “dolce” movimento ondulatorio. Il mio topo si

siede all‟interno dell‟imbarcazione, mentre io vengo “rapita” dai miei “angel‟s sea” per distrarmi

dall‟ansia marina.

Ci allontaniamo dalla grotta azzurra, lasciando una scia bianca dietro a noi.

Provo un senso di tristezza, senza capirne il motivo. Un attimo prima ero euforica, ora qualcosa è

cambiato. Penso d‟essere affetta da depressione bipolare ma forse è solo perché non ho il mio

picciriello accanto a me!

Un‟onda improvvisa, causata dal passaggio di un‟altra barca, mi distrae, costringendomi a

riprendere lo show precedente. Vedo Enzo (Bruna) uscire dal bagno, tenendosi ai lati della porta e

fra me e me ridacchio, pensando a come deve aver vissuto là dentro durante il piccolo “maremoto”!

Il papà di Tiziana (Traversa) mi suggerisce versi poetici, guardando la costa che ci accompagna

verso Amalfi ma, pur sforzandomi, non mi viene in mente nulla. Mi sento vuota, privata delle mie

emozioni abituali, ma siamo a Napoli… forse me le ha rubate qualche marinaio!

Siamo arrivati. Scendono tutti. Aspetto il mio topo che mi dice di non stare bene. Penso agli

scossoni in barca e a un po‟ di stanchezza per le notti quasi in bianco. Gli offro una caramella, un

chewingum, è tutto quello che ho in borsa ma non pensavo che avrebbe avuto bisogno di ben altro!

Il gruppo si allontana, oltrepassa la piazza. Allungo il passo per non perderli di vista ma con la

coda dell‟occhio vedo Carlo appoggiarsi alla ringhiera, piegato in due.

Marco (Dodero) è insieme a me e invita Carlo a sedersi su una panchina mentre vedo il gruppo

sparire nella via insieme a Santiago. Scorgo Massimo (Giordano) chiudere la fila e lo chiamo a gran

voce.

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Per fortuna mi ha sentito e sta accorrendo, comprendendo che c‟è qualcosa che non va. Gli

spiego cosa sta accadendo: Carlo si tiene il petto con una mano, si sente soffocare e dal suo viso si

legge la paura… non c‟è un minuto da perdere. Massimo pensa sia giusto chiamare un‟ambulanza e

si avvicina ad un tassista per chiedere informazioni. Marco trattiene la calma ma è evidente che

cerca di controllarla per tranquillizzare Carlo. Massimo chiama il 118 e l‟ambulanza arriva in due

minuti, nonostante il traffico. Fortunatamente l‟ospedale è a solo un chilometro ma quel suono che

si avvicina mi perfora il cuore per un tempo infinito. Gli infermieri aiutano Carlo a salire. Mi

avvicino per stargli accanto, ma mi dicono che può accompagnarlo una sola persona. Faccio un

passo indietro, accarezzando Carlo con lo sguardo. Lascio andare Massimo: oltre che medico è un

amico, il migliore. La porta scorrevole dell‟ambulanza si chiude. Appena il tempo di rassicurare

Carlo, ma forse l‟ho solo pensato, forse non sono riuscita neppure a dirgli di stare tranquillo… non

ricordo. L‟ultima immagine che mi è rimasta è quella di quel sorriso forzato e la sua voce che mi

dice di non preoccuparmi. Cerco di controllarmi e di non far vedere la paura che mi sta strozzando

la gola come la sensazione che lui sta provando.

Rimango con Marco, con gli occhi aggrappati a quella ambulanza mentre sparisce dietro una

curva e con il suono della sirena che mi penetra nella pelle.

Una parte di me è andata via con lui e cò che è rimasto a fissare la strada si è sgretolato come un

castello di sabbia colpito da un‟onda improvvisa, dissolvendomi nell‟attesa.

Marco mi accompagna verso un bar. Lo seguo come un automa. Ci sediamo e ordiniamo

qualcosa da bere. Le mani mi tremano, sto per crollare. La mia maschera da giullare si sta

sciogliendo, lasciandomi nuda di fronte a chi, forse, non mi ha mai visto realmente.

Ci raggiunge Enzo e Fabrizia (Bruna) che si sono preoccupati nel non vederci nel gruppo. Dopo

poco arrivano anche Barbara (Giordano), Milli (Dodero), Michele e Clara (Bellin): sento il loro

abbraccio, il loro silenzio interrotto da qualche battuta per ingannare l‟attesa delle notizie.

Non oso chiamare. Aspetto con lo sguardo fisso su quella curva che ha inghiottito Carlo nella

speranza di vederlo comparire con quel suo sorriso buono al quale non so resistere. Mi manca

terribilmente e penso a quanto basti poco per tramutarlo in una smorfia di dolore. Penso alle mie

goliardiche performance per giocare, smuovere e divertire gli amici, mentre Carlo stava già male

ma non mi aveva detto nulla per non preoccuparmi. Penso… mentre mi rattrapisco in un pianto che

a stento riesco a nascondere. Un altro terribile pensiero si è impossessato della mia mente e non

riesco a cacciarlo via: ho paura di perderlo e di non rivederlo mai più.

Trascorre un tempo che mi sembra infinito e Barbara viene avvertita da Massimo: Carlo sta

meglio. Gli hanno fatto una flebo, lo hanno scoagulato e messo un cerotto alla nitroglicerina. Ha

avuto un attacco di angina e dovrebbe essere ricoverato in attesa di ulteriori accertamenti.

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Nel frattempo il gruppo ha terminato la visita ad Amalfi e si è già sparsa la voce dello stato di

Carlo. Ho dato loro le notizie del miglioramento, tranquillizzandoli. Il pullman è in attesa e gli

amici che mi hanno sostenuto hanno deciso di rimanere ancora al mio fianco, chiamando un altro

pulmino che ci avrebbe accompagnato a Sorrento quando Carlo sarebbe stato in grado di lasciare

l‟ospedale. Da quel momento, Marco e Milla (Dodero), Michele e Clara (Bellin), Massimo e

Barbara (Giordano), io e Corrado (Giglio) che si è unito a noi, siamo andati al Pronto Soccorso,

sincerandoci dello stato di salute di Carlo, mentre gli altri sono partiti per rientrare in albergo.

Non essendo un romanzo ma un semplice diario di viaggio, tralascio ciò che ho provato nel

rivedere il mio picciriello, un po‟ emaciato, bianco in volto, con la flebo attaccata e gli occhi

lucidi… potrei vincere il premio per un concorso letterario di Harmony. Dirò solo che il mio cuore

ha ripreso a respirare e con lui anche la voglia di ringraziare tutti coloro che ci sono rimasti accanto!

Solo dopo essersi assicurati che Carlo stesse realmente bene e con la raccomandazione di

ripetere le analisi l‟indomani, siamo saliti sul pulmino, affrontando con cautela il lungo tragitto che

ci separa da Sorrento.

Dopo un bel po‟ di tempo e altrettante curve, Barbara (Giordano) lamenta lo scombussalamento

inevitabile per una qualsiasi persona che non sia Wonder Woman o Super Man! Spesso sono i

migliori a crollare ed ecco anche Barbara cedere le armi di fornte all‟ennesima curva.

Arresto del pulmino in una piazzola e cambio di posto: io passo dietro, incrociando le dita delle

mani e pure quelle dei piedi, raccomamdandomi mentalmente al mio stomaco perché non faccia i

capricci, mentre l‟autista scrive con il pennarello indelebile sulla fiancata: sorpassare a sinistra,

malati a bordo!

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-3 Maggio-

Il programma di oggi per noi è differente: a Castel dell‟Ovo abbiamo preferito visitare l‟ospedale

di Sorrento. Carlo sta meglio. Ha dormito, ma deve ripetere gli esami. Ce la prendiamo con calma,

rallentando i tempi. Anche il viaggio, con i ritmi delle gite, ha contribuito ad accumulare stress e

non ci si rende mai conto di non essere più delle Ferrari da corsa!

Il Vesuvio ci guarda tristi, incupito dal cielo che a stento trattiene le sue lacrime. Dopo una

tranquilla colazione ci siamo diretti verso l‟ospedale, passeggiando nella via principale,

approfittando nel fare qualche acquisto con calma.

I colleghi di Carlo sono gentilissimi e mentre aspettano i risultati degli esami, chiacchierano sulla

situazione sanitaria, sulla mancanza di giovani medici preparati in sostituzione degli anziani: stessa

tiritera in tutta Italia. L‟atmosfera è tranquilla e ne approfitto per “visitare” le toilettes. Inevitabile la

scritta dietro la porta del bagno: “N‟ce stanno pure i n‟fremiere e mieriche ricchione”.

Ridacchiando, penso di raccogliere tutti i messaggi scritti nei bagni degli ospedali d‟Italia per un

libro di sicuro successo, altro che scervellarsi per tessere romanzi!

E‟ l‟ora di pranzo e Carlo, con tutte le raccomandazioni, è stato dimesso. Dopo un corroborante

panino in un pub all‟aperto pieno di inglesi che guardano la partita della propria squadra su un mega

schermo, rientriamo in albergo, attraversando il “budello” e ultimando gli acquisti.

E‟ calata improvvisamente la temperatura. Si è azato un tale vento che ha chiuso il cielo in una

morsa gelida inaspettata. Affrettiamo il passo per evitare la pioggia che sembra abbia l‟intenzione di

sfogarsi proprio su di noi. Poi ci ripensa, provando un pelo di comprensione nei nostri confronti.

Dopo solo poche gocce, il vento cambia la direzione delle nuvole, accatastandole sopra a Napoli e,

nello specifico, sopra le teste dei nostri infreddoliti amici.

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Stretti nei loro giubbotti, hanno visitato la strada principale che divide in due la città:

Spaccanapoli, la Cappella di San Severo, San Gregorio Armeno, Castel dell‟Ovo, Borgo Marinari,

Piazza Plebiscito e il Maschio Angioino, accompagnati dalla guida e dalla pioggia. Tutto sommato

noi ce la siamo cavata, schivando un vento decisamente anomalo sia per la stagione che per Napoli.

Dalla finestra della nostra camera, osservo affascinata il mare. Ha virato colore ed ora riflette

quello grigio delle nuvole. Sembra uno specchio magico che rimanda le emozioni del cielo,

coinvolgendo gli stati d‟animo di chi lo guarda.

Il cono del Vesuvio è ormai un‟ombra scura e ai suoi piedi le increspature del mare appaiono

come il ribollire della sua rabbia.

Mi sdraio accanto a Carlo e riposiamo. Alle 17,30 ci prepariamo per fare un altro giretto

rilassante. E‟ piacevole passeggiare a braccetto del mio picciriello senza curarci del tempo,

riprendendo una serenità solo apparente, ma che ci distrae, ingannando la tensione.

Sono le 19.00. Fabrizia mi chiama, avvertendo che sono appena tornati. Il tempo è stato breve

quanto un respiro ma questo si sa. Quando lo si trascorre in modo sereno sembra che la sabbia della

clessidra scivoli più velocemente di quando ci si annoia.

Rientrando in albergo, incontriamo una processione: è la festa di S. Antonio, il patrono della

città. E‟ festosa, baccaiona con tanto di banda e la coda di fedeli si estende ovunque, occupando

tutta la via principale. Tentiamo una strada diversa, pensando di farla franca, ma il “biscione” ci

impedisce il passo. Affrontiamo l‟orda di gente vestita a modo, tagliandola di netto. Sembra più

facile attraversare Corso Europa con il semoforo verde, ma riusciamo a raggiungere l‟albergo giusto

il tempo di cambiarci per la cena.

-ore 20.00 Ristorante la Favorita “O’ Parrucchiano”-

C‟era una volta a Sorrento, esattamente centoquarant‟anni fa, un seminarista che si innamorò di

una bella compaesana e perse la vocazione. Siccome nel seminario aveva imparato a cucinare, aprì

un ristorante che chiamò La Favorita, ma che la gente, in ricordo dei trascorsi religiosi del suo

fondatore, chiamò sempre ’O Parrucchiano (in dialetto, “il parroco”). Il ristorante andò benissimo,

tanto che è ancora qui: i due non ebbero figli, ma alla loro morte ne prese le redini un nipote, padre

dell‟attuale proprietario. Tutto rimase quindi in famiglia, e familiare è ancora oggi la gestione,

anche se la capienza del locale (cinquecento coperti) e i numerosi stranieri che lo frequentano gli

hanno sottratto un po‟ di atmosfera.

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I proprietari lo definiscono "Museo dell'ospitalità", secondo me è molto ma molto di più! Un

fantastico ristorante nel cuore di Sorrento, entrato ormai da tempo nell'Associazione Locali Storici

d'Italia, composto di tre sale: una interna, una veranda e un giardino.

Attraversiamo il locale, accompagnati da una straordinaria quinta scenografica che ci conduce,

salendo una scalinata, ad una serra tutta vetri e piante. Intorno alle sale un suggestivo giardino

profumatissimo di limoni e glicini che riesce a creare attorno agli ospiti un'atmosfera indescrivibile.

Poiché la cucina merita per l‟estrema cura e la qualità dei piatti, trascrivo quanto siamo riusciti

ad inglobare durante la cena colorita non solo per le sfumature rubino del mio stremato picciriello,

ma anche perché stasera c‟è il derby Genoa – Sampdoria e gli amici, tifosi delle squadre avversarie,

esultano o si attapirano a seconda dei goal segnati. Bio (Vassallo) è il più entusiasta e manifesta la

sua esaltazione con svariati brindisi collettivi ogniqualvolta un giocatore della sua squadra del cuore

colpisce la palla, grazie alla microspia incorporata all‟orecchio!

Antonella (Vassallo) al terzo passaggio intorno ai tavoli, mi si avvicina, pregandomi di non

trascrivere nulla a riguardo per non lasciare tracce delle debolezze sportive del marito…

“Tranzolla”, le rispondo, che nel gergo “oxfordiano” di mio figlio significa: tranquilla!

Mai fidarsi di chi ha una penna in mano e che ha il “compito” di segnare tutto ciò che si muove

intorno a lei, soprattutto quando si tratta di Patrizia: la pseudoscrittrice che impazza!

Riassunto delle gesta di Bio: si alza di scatto, allarga le braccia al cielo, compie un giretto

intorno a se stesso e abbraccia ogni componente dei tavoli posti vicino al suo con un sorriso che gli

nasconde gli occhi, praticamente al ritmo di ogni piatto! Mi aspetto che arrotoli la camicia,

scoprendo il torace come i giocatori quando segnano, correndo per tutto il ristorante come fosse uno

stadio e urli a squarciagola a mo‟ dei radiocronisti brasiliani: gooooooooooooooaaaaaaaaaallll!!!!!!

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MENU

Frivolezze dello chef:

Involtini di gamberetti in foglia di limone

Conchiglia con calamari al gratin

Mozzarella in foglia di limone

Panzerottino della casa

Fiori di zucchine ripieni

***

Ravioli con gamberetti in salsa di scampi

***

Regina del golfo al forno sul letto di patate

Insalata capricciosa

***

Babà – Sfogliatelle – Delizie al limone

Non so se mi spiego!!!!

Lorenzo (La Terra - sampdoriano), seduto al mio stesso tavolo, con il viso contrito per le

esaltazioni di Bio (genoano), tenta di distrasi dalle sofferenze sportive, raccontandomi di essersi

perso a Napoli e di essere entrato in una chiesa senza sapere che era quella di San Gennaro,

assistendo al miracolo dello scioglimento del sangue. Nonostante tutto, la Samp perde il derby. San

Gennaro avrà fatto pure il miracolo… ma non chiedetegli l‟impossibile!

Carlo è allo stremo per il forte mal di testa causato dal cerotto alla nitroglicerina e non ce la fa

più. Si alza e si allontana, cercando una tregua nel giardino attorno al ristorante. Michele (Bellin)

era giù caput per il pranzo generoso a Napoli e aveva dato forfait. Io non ho mai chiuso occhio e

sembra che abbia avuto un incontro molto ravvicinato con Mike Tyson! Qualcuno aveva già

glissato anche la gita a Napoli per riprendere le forze e non dover ritornare a Genova in posizione

orrizontale! Questo viaggio sta decimando il gruppo! Seppur, più o meno, giovane e forte sono

costretta ad ammettere che non è facile divertirsi e che per la prossima volta mi allenerò come per le

Olimpiadi!

Per fortuna la cena è finita… andiamo in pace!

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-4 Maggio Reggia di Caserta-

Oggi è l‟ultimo giorno e il cielo ci ha fatto un regalo. Aprendo le finestre ho respirato il suo

azzurro, godendo finalmente del panorama prima di tuffarmi nella chiusura delle valigie. Se

all‟andata il tempo per questo delicato compito si era dilungato al punto da ricorrere al mio amato

figlio, ora sento che mi manca terribilmente la sua “pesante” presenza e che mi occorrerà tutto il

mio ingegno per far entrare nelle valigie i nuovi acquisti senza dover cercare un altro pezzo da

novanta (nel senso dei chili) per chiuderle. Incredibilmente ci riesco e dopo una rapida colazione,

alle 8.30 in punto siamo pronti per visitare la Reggia di Caserta.

Mentre siamo nella hall, aspettando di essere tutti presenti, alcune amiche (Milintenda, moglie

Bruni) si avvicinano, porgendomi un‟immaginetta. E‟ quella di Santa Patrizia. Capisco subito il

perché del gesto e le ringrazio commossa per la comprensione nei miei riguardi, condividendo un

momento di solidarietà femminile per lo stato d‟ansia vissuto ad Amalfi.

Patrizia, nata nel VI secolo d. C., discendente dell'imperatore Costantino, venne educata alla

corte di Costantinopoli. Ancora giovanissima decise di dedicare la sua vita alle opere di bene e

fece voto di verginità, contro la volontà dell'imperatore Costante II che l'aveva già destinata in

moglie. Fu quindi costretta a fuggire per mantenere il suo impegno e la fedele nutrice Aglaia e le

sue ancelle l'accompagnarono nel suo viaggio verso Roma, dove ricevette da papa Liberio il velo

verginale e il consenso a fondare un ordine religioso. Patrizia ritornata a Costantinopoli, rinunciò ad

ogni pretesa sulla corona imperiale per poi partire in pellegrinaggio verso la Terra Santa.

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Colpita da una terribile tempesta naufragò sulle coste di Napoli, qui si fermò sull'isolotto di

Megaride, nelle cui grotte visse insieme alle consorelle con cui fondò l'ordine delle patriziane.

Questi luoghi scavati nel banco tufaceo su cui poggia la costruzione del castel dell'Ovo, sono

conosciuti come i romitori di Santa Patrizia e l'unica cella che ancora conserva affreschi alle pareti

viene identificata dalla tradizione popolare come la sua.

Patrizia giunta a Napoli distribuì i suoi averi ai poveri e si dedicò ad alleviare le pene dei

sofferenti, ma dopo poco lei stessa seguito di una brevissima malattia morì. Donna Aglaia sempre

fedele a lei, organizzò dei solenni funerali a cui parteciparono sia il vescovo che il duca di Napoli.

Il suo corpo venne messo su un carro tirato da due torelli indomiti che miracolosamente

mansueti condussero il corpo al Monastero dei SS. Nicandro e Marciano, retto dai padri basiliani.

Luogo che lei stessa aveva indicato come sua sepoltura. Nel 1864 le spoglie della Santa furono

traslate nel monastero di san Gregorio Armeno, in cui è conservato anche il reliquiario con il suo

sangue che, come quello di San Gennaro, miracolosamente si liquefa. Patrizia, altra vergine

fondatrice, ma di fede cristiana, la cui storia affonda le radici nel luogo più antico della città, dal

1625 è anche compatrona della città.

Cavolo! E chi se la perdeva un‟occasione come questa? A parte il fatto che non sapevo che S.

Patrizia fosse sepolta a Napoli, non immaginavo neppure che fosse in “gara” con l‟altro patrono

della città: San Gennaro e che, come lui, avesse il reliquario del suo sangue!

Mi onora portare il suo nome ma, nello stesso tempo, mi ribolle il mio di sangue al pensiero che

fra i due santi, stessi patroni della stessa città e con lo stessa caratteristica della liquefazione

miracolosa, debba sempre averla vinta l‟uomo sulla donna! Alzi la mano chi conosceva la storia di

Santa Patrizia, oltre ai napoletani, of course! Forse molti meno di quanto ci si possa immaginare. E

quella di San Gennaro? La sua fama ha oltrepassato il confine meridionale e sono certa che pure

Bossi debba tenere una sua immaginetta nel portafoglio!

Comunque sono contenta, anche perché penso di avere molti punti in comune con lei e non solo

per le stesse guanciotte tonde ma, e soprattutto, per quel desiderio di aiutare chi ha bisogno. Inoltre,

a parte il non aver rispettato il voto di castità durante la prima parte della mia vita, fatto che sto

adempiendo in modo del tutto naturale e non certo per aspirare a diventare santa, l‟idea di essere

trainata da due focosi torelli nel mio ultimo viaggio non mi dispiace neppure un po‟!

“Che dici, topo? Se po‟ fa‟?”

“Tu si‟ uscita pazza!”

Lo prendo per un sì, tanto mi accontenta sempre!

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Appena saliti sul pullman, Antonella (Vassallo), come degna moglie di un amministratore, ci

chiede l‟obolo per la mancia da dividere tra la nostra guida Santiago e l‟autista (20 euro) ma, per

non essere ricordata da tutti come la rompiscatole ciucciasoldi, si raccomanda con me di non essere

segnalata… seeeee, come no!

Colpita e affondata!

Arriviamo dopo due ore di pullman, rispettando l‟appuntamento con Santiago.

La prima cosa che mi colpisce è la maestosità del palazzo, sembra Versailles.

“Che intuito! Indovina un po‟ da chi ha copiato Carlo III?” mi chiede il mio adorato.

“Mhhhmm, da quel tizio che si è un po‟ montato la testa e che crede d‟essere un Dio?” azzardo,

togliendo le ragnatele dal mio cervello.

“Ma no, cosa c‟entra Berlusconi ora… Mi riferivo al Re Sole!”

“Ma non sono parenti?”

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Ci avviamo verso l‟entrata. Una fila di “vu‟ cumprà”, posizionati ai lati del viale, espongono la

loro merce: ombrellini, sculture lignee africane, occhiali, tamburi e libretti sulla Reggia.

Mai visto un assemblamento così assortito di ogni paese ammucchiarsi sopra ad un unico telo:

Cina, Africa e Napoli, confusamente mescolati con una illogica fantasia commerciale!

“Illogica mica tanto… oggi il sole picchia come il suono dei tamburi che ci sta perforando le

orecchie e un paio d‟occhiali sul naso o quel simpatico ombrellino di carta cinese ci riparerebbero

dalla luce!” afferma il mio topo.

“Dai raggi del sole, forse, ma non da questi instancabili venditori! Sembra uno sciame di

mosche: più le cacci e più ti ronzano intorno!” gli rispondo, cercando di allontanare un “moscone”

che mi continua a perseguitare con il suo tamburo in pelle di cammello, o chi per esso.

Mi avvicino a Santiago e al gruppetto che si è creato intorno a lui, pensando di essermi persa

qualcosa d‟importante. Lo vedo ritirare le carte d‟identità. M‟incuriosisco e vorrei partecipare

anch‟io, ma Franca (Pistolese) mi dice che non mi riguarda, sono piccola: per gli over 65 il biglietto

è scontato!

Dopo una breve pausa caffè, Santiago parte con le spiegazioni e, nonostante il disturbo dei

tamburi, capto qualche frase.

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Il Palazzo reale di Caserta fu voluto da Carlo III di Borbone, il quale, colpito dalla bellezza del

paesaggio casertano e desideroso di dare una degna sede di rappresentanza al governo della capitale

Napoli ed al suo reame, volle che venisse costruita una reggia tale da poter reggere il confronto con

quella di Versailles, allora ritenuta il non plus ultra delle dimore regali. Inizialmente la reggia

venne costruita a Napoli ma Carlo di Borbone spaventato dai possibili attacchi da parte dei pirati la

trasferì a Caserta che si trovava più nell'entroterra quindi era più protetta.

Dopo il rifiuto di Nicola Salvi, afflitto da gravi problemi di salute, il sovrano si rivolse

all'architetto Luigi Vanvitelli, a quel tempo impegnato nei lavori di restauro della basilica di Loreto

per conto dello Stato Pontificio. Carlo III ottenne dal papa di poter incaricare l'artista e nel

frattempo acquistò l'area necessaria dal duca Michelangelo Gaetani, pagandola 489.343 ducati,

una somma che seppur enorme fu certamente oggetto di un forte sconto: il Gaetani, infatti, aveva

già subito la confisca di una parte del patrimonio per i suoi trascorsi antiborbonici.

Il re chiese che il progetto comprendesse, oltre al palazzo, il parco e la sistemazione dell'area

urbana circostante, con l'approvvigionamento da un nuovo acquedotto (Acquedotto Carolino) che

attraversasse l'annesso complesso di San Leucio. La nuova reggia doveva essere simbolo del nuovo

stato borbonico e manifestare potenza e grandiosità, ma anche essere efficiente e razionale.

Il progetto si inseriva nel più ampio piano politico di Carlo III, che voleva spostare le principali

strutture amministrative dello Stato a Caserta, collegandola alla capitale Napoli con un vialone

monumentale di oltre 20 km. Questo piano fu però realizzato solo in parte; anche lo stesso palazzo

reale non fu completato della cupola e delle torri angolari previste inizialmente.

Vanvitelli giunse a Caserta nel 1751 e iniziò subito la progettazione del palazzo

commissionatogli, con l'obbligo di farne uno dei più belli d'Europa. Il 22 novembre di quell'anno

l'architetto sottopose al re di Napoli il progetto definitivo per l'approvazione. Due mesi dopo, il 20

gennaio 1752, genetliaco del re, nel corso di una solenne cerimonia alla presenza della famiglia

reale con squadroni di cavalleggeri e di dragoni che segnavano il perimetro dell'edificio, fu posta la

prima pietra. Tale momento viene ricordato dall'affresco di Gennaro Maldarelli che campeggia

nella volta della Sala del Trono.

L'opera faraonica che il re di Napoli gli aveva richiesto spinse Vanvitelli a circondarsi di validi

collaboratori: Marcello Fronton lo affiancò nei lavori del palazzo, Francesco Collecini in quelli

del parco e dell'acquedotto, mentre Martin Biancour, di Parigi, venne nominato capo-giardiniere.

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L'anno dopo, quando i lavori della reggia erano già a buon punto, venne iniziata la costruzione

del parco. I lavori durarono complessivamente diversi anni e alcuni dettagli rimasero incompiuti.

Nel 1759, infatti, Carlo III era salito al trono di Spagna ed aveva lasciato Napoli per Madrid.

I sovrani che gli succedettero (Ferdinando IV, divenuto poi Ferdinando I), Gioacchino

Murat, che all'abbellimento della reggia diede un certo contributo, Ferdinando II e Francesco II,

col quale ebbe termine in Italia la dinastia dei Borbone) non condivisero lo stesso entusiasmo di

Carlo III per la realizzazione della Reggia. Inoltre, mentre ancora nel XVIII secolo non era difficile

reperire manodopera economica grazie ai cosiddetti barbareschi catturati dalle navi napoletane

nelle operazioni di repressione della pirateria praticata dalle popolazioni rivierasche del nordafrica,

tale fonte di manodopera si azzerò nel secolo successivo con il controllo francese dell'Algeria.

Infine, il 1 marzo 1773 morì Vanvitelli al quale successe il figlio Carlo: questi, anch'egli valido

architetto, era però meno estroso e caparbio del padre, al punto che trovò notevoli difficoltà a

compiere l'opera secondo il progetto paterno.

“E daghela con „sti Carli… non avevano una gran fantasia a quel tempo in fatto di nomi ma in

quanto a progettini del genere non si può proprio dire nulla!”

La reggia, definita l'ultima grande realizzazione del Barocco italiano, fu terminata nel 1845

(sebbene fosse già abitata nel 1780), risultando un grandioso complesso di 1200 stanze e 1790

finestre, per una spesa complessiva di 8.711.000 ducati. Nel lato meridionale, il palazzo è lungo 249

metri, alto 37,83, decorato con dodici colonne. La facciata principale ha 26 colonne poste fra una

finestra e l'altra. Nel complesso, la reggia ricopre un'area di ben 47.310 metri. Oltre alla costruzione

perimetrale rettangolare, il palazzo ha, all'interno del rettangolo, due corpi di fabbricato che

s'intersecano a croce e formano quattro vasti cortili interni di oltre 3.800 metri quadrati ciascuno.

“Milleduecento stanze? Millesettecentonovanta finestre? Oddio… come sono contenta di essere

nata in questo secolo”, esulto, abbracciando d‟istinto il mio sbalordito topo che con il suo sguardo

sembra chiedermi il perché.

Lo accontento, certa che altrimenti si torturerebbe per tutto il giorno e non deve subire altri

stress.

“Penso con orrore che sarei stata sicuramente una di quelle povere disgraziate costrette a

pulirle!”

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Accanto al portone centrale sono ancora visibili i basamenti sui quali dovevano essere poste le

statue della Giustizia, della Magnificenza, della Clemenza e della Pace, virtù attribuite al re.

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Oltre la soglia dell'entrata principale alla reggia si apre un vasto vestibolo ottagonale del

diametro di 15,22 metri, adorno di venti colonne doriche. A destra e a sinistra si aprono i passaggi

che portano ai cortili interni, mentre frontalmente un triplice porticato immette al centro topografico

della reggia. In fondo, un terzo vestibolo dà adito al parco.

Su un lato del vestibolo ottagonale si apre il magnifico scalone reale, un autentico capolavoro di

architettura tardo barocca, largo 18,50 metri alto 14,50 metri e dotato di 117 gradini, immortalato in

numerose pellicole cinematografiche.

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Mentre ci avviamo per oltrepassare l‟ingresso, veniamo coinvolti in un “fuggi, fuggi” al quale

sono abituata, essendo un‟assidua frequentatrice del mercato di Piazza Palermo dove è facile

assistere a scene similari. Questa volta, però, sono un gruppetto di venditori ambulanti partenopei a

scappare al rumore degli zoccoli della polizia a cavallo, anziché i “vu‟ compra‟”.

Oltrepassiamo l‟atrio e una visuale fantastica si apre a noi come il miglior biglietto da visita:

ecco il parco giochi del re!

“All‟animaccia del parco giochi… non si vede il fondo!”

E‟ impressionante! Occorre pigiarci in un pulmino elettrico, vicini vicini come tante sardine

sotto sale, per giungere dalla parte opposta. Alcuni, più coraggiosi, affrontano la “passeggiatina”

senza neppure uno zaino da Pronto Soccorso sulle spalle, altri noleggiano una bicicletta e partono

come dovessero conquistare la maglia rosa, altri ancora possono godersi il parco, trasportati da una

carrozzella a disposizione dei turisti.

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Accarezzo il muso di un baio che aspetta tranquillo. Il suo manto è lucido come il raso e i raggi

del sole, accarezzando il dorso, creano un gioco di ombre e sfumature cromatiche quanto un velluto.

Sono tentata di chiedere al proprietario che tipo di shampoo adoperi, invidiosa della setosa

criniera…

“Ma è possibile che non ti vengano altri aggettivi che non siano riguardanti le stoffe: raso,

velluto, seta”, mi chiede il mio adorato.

“A‟ guaglio‟, tengo poche cose in „sta capa, di più „n ce stanno… tirramoinnanzi che nun

teregghechiù!”

Arriviamo all‟estremo opposto alla reggia e la visuale è fantastica. Mi ricorda gli studi di

prospettiva che avevo imparato a scuola. E tutto mi sarebbe sembrato più semplice se ci avessero

portato in gita scolastica da queste parti.

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Oltre a essere situata in una delle più belle pianure d‟Italia, ai piedi delle bellissime colline

casertane, la reggia di Caserta possiede il più scenografico parco di tutto il mondo, disperso di

fontane e cascate. I giardini, in parte all‟inglese e in parte ispirati ai modelli francesi, sono abbelliti

da statue, eseguite dai migliori scultori partenopei sotto la guida di Carlo Vanvitelli. Anche se il

progetto iniziale risultava molto più raffinato e vasto, e ci furono successive riduzioni dovute a

contingenze di tipo economiche, quello di Caserta resta, in ogni caso un progetto mastodontico

legato all‟idea della magnificenza reale della casa Borbonica.

Con le foto cerchiamo di ricostruire l‟intero asse principale del parco, partendo dal cancello

d‟ingresso al parco e continuando per il violone centrale si incontra una prima fontana.

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La Fontana dei Delfini: un massiccio volume d‟acqua si raccoglie in un lagno di forma

rettangolare, la figura di un mostro marino con la testa e il corpo di un delfino, opera dello scultore

Gaetano Salomone, tra gli artisti più importanti nel gruppo dei scultori della Reggia

Continuando si incontra la Fontana di Eolo, i rilievi posti sulla facciata rappresentano lo

Sposalizio di Teti e Peleo; il Giudizio di Paride e sono il prologo dell‟episodio rappresentato dalla

fontana con il gruppo di Eolo che sollecitato da Giunone, suscita la furia dei venti contro Enea e i

Troiani. Le opere sono di Brunelli, Salomone, Violani, Persico e Solari.

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Proseguendo nel percorso che man mano si

estende in salita si incontra la Fontana Di Cerere,

la dea delle messi (a lato), opera dello scultore

Salomone rappresenta Cerere che sostiene la

medaglia della Trinacria.

Dalle conchiglie, dai Tritoni e dalle anfore delle

due divinità a lato della Dea, rappresentanti due

fiumi siciliani, sgorgano lunghi zampilli d‟acqua.

La Fontana di Venere e Adone è la penultima fontana che fa capo alla lunga piscina, rievoca il

mito dell‟amore di Venere e Adone: la dea inginocchiata prende la mano di Adone, scongiurandolo

di essere prudente nell‟imminente caccia; Adone, ignaro dell‟incombente tragedia, calma le paure di

Venere. Nel complesso marmoreo sono presenti le ninfe sdraiate sulla roccia, e il cinghiale che

ucciderà Adone, in un atteggiamento d‟attacco.

La foto sotto mostra in parte l‟ultima fontana, la Fontana di Diana e Atteone, alle cui spalle è

possibile vedere la cascata. Anche in questo caso il gruppo scultoreo narra la mitologia greca: Diana

(a destra) attorniata dalle sue ninfe, e sulla sinistra, Atteone assalito dai suoi stessi cani mentre viene

trasformato in cervo dopo aver visto la Dea nuda.

Un altro particolare del gruppo, la ninfa di destra che fa segno alla dea della presenza di Atteone.

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Ascolto Santiago raccontare tutta la “soap-opera mitologica” ma lo scroscio della cascata

confonde le spiegazioni e sono costretta a ricorrere ad Antonella (Vassallo), la Tre Cani del gruppo

rotariano, per un breve riassunto dell‟ultima puntata.

La Fontana di Venere e Adone narra la tragica storia della dea innamorata del bellissimo

cacciatore che sarà ucciso per gelosia da Marte (o Vulcano) sotto le mentite spoglie di cinghiale.

Mentre la Fontana di Diana e Atteone racconta la storia di Atteone che, malgrado la proibizione,

aveva osato guardare la dea della caccia nuda e fu perciò divorato dai suoi stessi cani e trasformato

in cervo.

“Accipicchia che tipino! Comunque non è molto lontano da quello che avrebbe fatto Veronica al

suo chiacchierato Berlusca, con una prevedibile differenza. La first lady, indossate pubblicamente le

corna del cervo, avrebbe immortalato il suo consorte (o ex, vedremo) in un meno nobile animale: un

maiale da cortile!

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L‟acqua nasce 80 metri più in alto da una grotta alla quale si accede attraverso due rampe

laterali: viene condotta qui grazie all‟imponente Acquedotto Carolino, una meraviglia d‟ingegneria

la cui costruzione durò solo pochi anni (1753 – 1769).

Oggi, per evitare sprechi, si ricicla la stessa acqua attraverso un sistema di pompe idrauliche.

Osservo questa meraviglia nel suo insieme, pensando a dove posso collocare una cosa del genere

a Ventimiglia. D'altronde, anche la nostra casetta è per noi una “reggia”, e seppur ci sia un certo

distinguo tra Carlo e Carlo, nessuno mi vieta di copiare… almeno l‟idea delle fontane e della

trasformazione in animale a duratura memoria!

“Non capisco se è una promessa o una minaccia!” interviene il mio picciriello.

“Nun te preoccupa‟… Capisciamme!”

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Mentre alcuni componenti si riposano sul bordo della fontana, altri si sparpagliano per visitare il

Giardino Inglese posto ad est della Fontana di Atteone che, insieme a quello Italiano, completano il

parco.

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L‟ingresso è sontuoso: palme delle Canarie, cicas, araucarie che sembrano toccare il cielo,

provenienti dall‟Australia e dalla Nuova Zelanda, querce che forse erano già lì prima che nascesse il

giardino, magnolie enormi, cedri e una maclura, originaria del texas, che da gran tempo se ne sta

tranquillamente sdraiata a terra e continua a vegetare, eucalipti fra i primi ad essere portati in

Europa dall‟Australia. Il giardino è famoso anche per una straordinaria collezione di camelie e per

alcuni splendidi alberi di canfora, oltre alle numerose orchidee spontanee.

“Canfora? La canfora che si usa mettere negli armadi viene da un albero?” chiedo stupita al mio

topo.

“Ma cosa credevi che nascesse già a forma di palline come quelle che hai in testa?”

“Senti, picciriello, tu mi devi fa‟ nu regalo… mavattenne! Comunque, devi proprio nascere

fortunato nella vita, questo è certo!” considero, cambiando discorso.

“Hai detto una novità! Cosa ti ha colpito, a parte il sole sulla tua testolina?”

“Nel nostro giardino crescono spontanee le erbacce, in quello del re saltano fuori le orchidee, ma

ti rendi conto? Mi sorge spontanea una domanda: ma se mettessi dei cartelli nei vasi e in quella

specie di pagliaio che chiamiamo prato con scritto Giardino Reale dici che lo capiscono?”

“Ma chi?”

“Le piante, no?”

“Ricordami di farti fare una tac cerebrale quando torniamo a Genova, mi sto preoccupando!”

La foto ricordo è d‟obbligo mentre il rumore della cascata non mi dà più alcun fastidio. In fondo

non è molto dissimile da quello che sento quotidianamente nelle orecchie!

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Mentre ci avviciniamo al pulmino per rientrare, sento ancora Santiago dare ulteriori spiegazioni

storiche ma ormai gli acufeni hanno preso il sopravvento e capto solo che una volta pagavano in

natura…

“In natura?” chiedo, interessatissima.

“Sì”, mi risponde garbato, “per non dare valore al denaro!”

“Furbo il Carletto, nééééé?” Poi mi rivolgo al mio Carlo, lanciandogli un‟occhiataccia come a

dire: “Nun ce prova‟!”

Corrado (Giglio), legandosi al fatto storico appena ascoltato, mi racconta che a suo nonno,

medico dei casini di allora, spesso toccava ricevere pagamenti del genere… poverino! Ridendo,

pensa che sia stato l‟unico medico morto povero ma sicuramente con il sorriso sulle labbra!

Mentre Rosanna (Muratori), suo marito ed io ci ripariamo dal sole, che sembra essersi caricato le

pile, all‟ombra delle fronde di un albero (debitamente chiamato col suo nome latino dalla prof) del

quale non ricordo neppure a che genere appartenga, la zia di Tiziana (Traversa) s‟inoltra per il viale

in una rilassata passeggiata.

L‟autista del pulmino scalpita: ha un orario da rispettare e altri gruppi da prelevare. Ci pressiamo

nuovamente sul “giocattolo elettrico” e preleviamo la povera zia che, richiamata velocemente, tenta

di venirci incontro arrancando alla meno peggio.

Rientriamo, pronti a visitare l‟interno del palazzo. Siamo all‟interno dell‟atrio e Santiago c‟invita

ad indossare delle cuffie che permetteranno a tutti di ascoltare le sue spiegazioni.

“Uno, due tre…prova… funziona! Che figata! Sembra di essere nella trasmissione di “Non è la

Rai”, quella dove Ambra Angioini, allora quindicenne, presentava aiutata dai suggerimenti di

Gianni Boncompagni tramite cuffie, appunto.

Dopo qualche tentennamento per posizionare l‟auricolare in modo corretto, schiaccio il tasto

play e sento la voce della nostra guida, già a metà dello scalone, che parte con la storia. Comincio a

trascrivere tutto quello che riesco ad acchiappare, muovendo i piedi senza guardare e senza neppure

accorgermi che Santiago è sparito dentro la prima delle innumerevoli sale ma ascoltare la sua voce

mi tranquillizza: è una strana sensazione che mi accompagna, è con me e dentro di me… si vabbè…

ma dove diavolo è finito? Aiutooooooooo!!! Questo coso riceve, ma non mi permette di

comunicare, e Dio sa quanto ho bisogno di parlare con qualcuno…

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“ Se è per quello lo fai di continuo: al telefono, per strada, con i muri! Quel coso non è mica un

cellulare! Dai, vieni avanti… cre..ativa!” mi rincuora il mio amato topo che mi riconduce per la

diritta via.

Trotterello vicino al mio “cane da pastore”, continuando a prendere appunti sconclusionati come

quelli di un ricoverato in un istituto di salute mentale ad una lezione di fisica alla Bocconi.

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Entrando, un triplice porticato collega l‟atrio con i vestiboli ottagonali a quello centrale, da cui

parte, sulla destra, lo scalone reale. L‟effetto prospettico, salendo, è stupendo!

Al baricentro il re poteva vedere chi arrivava e regolarsi di conseguenza se defilarsi o ricevere la

visita!

“Geniale! Io al massimo mi devo nascondere in bagno e far scrosciare l‟acqua nella doccia per

defilarmi!”

Seguo il gruppo, cercando di non perdermi e di raccogliere più elementi possibili, ma la quantità

di ciò che offre il palazzo è immensa e il mio cervello è come il mio cellulare quando mi consiglia

di scaricare delle immagini perché già colmo di fotografie. Mi faccio coraggio e cerco di “scaricare”

qualche ricordo, facendo spazio per le nuove emozioni.

Siamo nella prima sala, credo addirittura sia l‟ingresso, e sembra di essere Gulliver nella terra dei

giganti. Qui è tutto enorme: gli spazi, i soffitti, le finestre, gli stucchi, le porte… Mi colpiscono i

lampadari e continuo a ringraziare Dio di non essere nata in quell‟epoca!

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La prima sala è quella degli Alabardieri, con dipinti di Domenico Mondo (1785), alla quale

segue quella delle guardie del corpo, arredata in stile Impero e impreziosita da dodici bassorilievi di

Gaetano Salomone, Paolo Persico e Tommaso Bucciano. La successiva sala, intitolata ad

Alessandro il Grande, si trova al centro della facciata principale e funge da disimpegno tra

l'Appartamento Vecchio e l'Appartamento Nuovo.

L'Appartamento Vecchio, posto sulla sinistra, fu il primo ad essere abitato da Ferdinando IV e

dalla consorte Maria Carolina ed è composto da una serie di stanze con pareti rivestite in seta della

fabbrica di San Leucio. Le prime quattro stanze, di conversazione, sono dedicate alle quattro

stagioni ed affrescate da artisti quali Antonio Dominici e Fedele Fischetti. Segue lo studio di

Ferdinando II, con dipinti a tempera di Filippo Hackert che rappresentano vedute di Capri,

Persano, Ischia, la Vacchieria di San Leucio, Cava di Salerno e il giardino inglese della reggia

stessa. Dallo studio si accede, mediante un disimpegno, alla camera da letto di Ferdinando II, i cui

mobili però furono distrutti e rifatti in stile Impero dopo la morte del sovrano a causa di una

malattia contagiosa.

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E‟ grandioso persino il modellino della Reggia e credo che la Mattel si sia ispirata a questo per

creare la villa super accessoriata di Barbie!

Da qui in avanti è tutto un susseguirsi di stanze dopo stanze, inanellate le une con le altre,

attraversate con lo stupore dei bambini di fronte a tanta maestosità.

Quello che mi ha colpito più di ogni altra cosa è la bellezza degli affreschi dei soffitti, tanto che

credo di aver fotografato solo quelli ma ogni particolare avrebbe meritato più attenzione per

memorizzarlo nella mente. Sono certa che se potessi vedere le fotografie che ogni amico ha scattato,

a parte quelle che riprendono la prima visuale d‟impatto come la sala del trono, avrei un intero

puzzle da comporre, riproducendo una alla volta le sale visitate.

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Oltre la camera è la sala dei ricevimenti, che, mediante una serie di anticamere, è collegata

direttamente alla Biblioteca Palatina e quindi alla cosiddetta Sala Ellittica, che ospita un fulgido

esempio di presepe napoletano.

“E figurati se proprio qui mancava lu presepe!”

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L'Appartamento Nuovo, posto sulla destra della sala di Alessandro il Grande, fu costruito tra il

1806 ed il 1845. Vi si accede tramite la Sala di Marte, progettata da Antonio de Simone in stile

neoclassico e affrescata da Antonio Galliano. Proseguendo oltre l'adiacente Sala di Astrea, con

rilievi e stucchi dorati di Valerio Villareale e Domenico Masucci, si giunge quindi all'imponente

Sala del Trono, che rappresenta l'ambiente più ricco e suggestivo degli appartamenti reali.

Questo era il luogo dove il re riceveva ambasciatori e delegazioni ufficiali, in cui si

amministrava la giustizia del sovrano e si tenevano i fastosi balli di corte. Una sala lunga 36 metri e

larga 13,50, ricchissima di dorature e pitture, che fu terminata nel 1845 su progetto dell'architetto

Gaetano Genovese.

Intorno alle pareti corre una serie di medaglioni dorati con l'effigie di tutti i sovrani di Napoli, da

Ruggero d'Altavilla a Ferdinando II di Borbone (tranne Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat),

poi un'altra serie con gli stemmi di tutte le province del regno, mentre nella volta domina l'affresco

di Gennaro Maldarelli (1844) che ricorda la cerimonia della posa della prima pietra.

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Noto che in questa superba sala non ci sono i soliti mega lampadari che mi avevano scioccato

nelle stanze precedenti, soprattutto quelli a gocce e non solo per l‟immancabile immagine di quelle

poverette che erano costrette a pulirli non so come, ma perché mi ricordano l‟impianto elettrico che

ho fatto saltare mentre pulivo i miei lampadari come fazzoletti in un catino insaponato!

16 mt. di altezza,13,5 mt. di larghezza, 36 mt. di lunghezza, delimitano questo splendido luogo

riccamente ornato. Lungo l‟intero perimetro conto 28 pilastri binati in stile corinzio che ripartiscono

lo spazio intervallato da finestre su un lato e porte sull‟altro. Un particolare gioco di luci è garantito

dalle scanalature e dallo stucco dorato che adornano le pareti.

Qui tutto è dipinto d‟oro e i soffitti sono riccamente affrescati: se non qui, dove se no?

Sopra ad uno dei puff ricoperti di velluto azzurro polvere, non a caso, delimitati da cordoni per

non toccare, noto molte “manate” che affiorano dal contropelo del velluto, e scorgo pure un nome,

scritto con la punta del dito, a memoria del suo passaggio: Vittorio. Ormai mi aspetto di tutto, anche

scritte tipo “Lavami” come quelle lasciate sui cofani delle macchine sporche da qualche igienista

intollerante!

Le successive stanze rappresentano il cuore dell'Appartamento Nuovo e furono ultimate dopo il

1816. Tra queste si ricorda la camera di Gioacchino Murat, in stile Impero, con mobili in mogano

e sedie con le iniziali dello stesso Murat.

Stiamo attraversando le stanze delle quattro stagioni: Primavera, Estate, Autunno e Inverno,

caratterizzate dagli affreschi che variano colori e soggetti a seconda della stagione rappresentata.

L‟arredo è piuttosto scarno: qualche consoles che, per quanto preziose, ormai, dopo aver visto la

sala del trono, sembrano semplici appoggia vaso; e qualche sedia, giusto per non lasciare le pareti

completamente disadorne.

In fondo non c‟era molto da pulire, penso con la mente ossessionata di una colf!

Siamo nella stanza di Francesco II. Contiene in realtà mobili interamente rifatti. Quelli originali

furono distrutti per itmore di contagi dopo la morte di Ferdinando II per coxite, nel 1859. L‟attuale

arredo è stile impero. Il letto ha una suggestiva forma a barca, sopra al quale campeggia un quadro

sacro di Luigi Nicoli: Gesù nel tempio indica ai farisei la vedova che lascia l‟oblio.

“Sarà anche suggestivo ma quel letto è piuttosto piccolo per essere quello di un re. Mi ricorda

molto quello dove siamo alloggiati e nel quale le nostre sempre più stanche membra non sono

riuscite a riposare per otto ore di fila!” commento.

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“Neppure per tre, se è per questo! Avevo sempre una parte del tuo corpo addosso!” mi risponde

il mio picciriello le cui borse sotto gli occhi, ormai talmente gonfie da sfiorare terra, confermano le

notti in bianco.

“Ah, come si cambia… una volta non ti sarebbe dispiaciuto!”

La voce di Santiago nelle cuffie dice che a quel tempo i re erano monogami e che il re dormiva

con la propria moglie.

Mi si ferma la saliva in gola: siamo arrivati al punto tale da dover inserire una frase come questa

tra le informazioni storiche???

Commento con Lucia (La Torre) che è normale che il marito dorma con la propria moglie… è

con le altre che “agisce”!

Seguono la stanza da lavoro e il boudoir della regina, dietro al quale si trovano il bagno, con una

vasca rivestita in bronzo dorato, e la toilette.

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Dopo aver macinato chilometri e consumato le suole delle scarpe fino al limite dell‟indecenza,

arriviamo alla sala della Biblioteca, fondata da Maria Carolina e arricchita da Ferdinando II.

Contiene oltre dodicimila volumi di letteratura, di arte militare, filosofia, storia, diritto, scienze, ecc.

Rosanna (Muratori) passa, osserva il grande tavolo posto della centro della sala, commentando a

bassa voce: “Cattedra!” ma non abbastanza per non essere raccolta da Giò (Pedullà) che mi riferisce

la battuta.

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Bio (Vassallo) è affascinato come me dai soffitti, preziosi come merletti e si chiede come poter

usufruire di tali disegni.

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Eccoci nella sala del Presepe, l‟home-theatre dell‟epoca!

Prima dello sciagurato furto di centinaia di pastori, avvenuto qualche anno fa, il presepe

occupava il palcoscenico del piccolo teatro di corte, utilizzato per le rappresentazioni prima che

venisse ultimato il teatro vero e proprio. Oggi, rifatto ispirandosi ad una diversa concezione

architettonica, il presepe occupa la parte centrale del vano.

Sbaglierebbe chi pensasse di ritrovare qui le arcane atmosfere di una nuova Betlemme: il Presepe

qui è vita vera, specchio della vita quotidiana vissuta ogni giorno dal popolo. Perciò le scene

mutavano e si arricchivano di anno in anno, anche con l‟intervento personale dei sovrani.

E‟ la volta della stanza con i bozzetti della Reggia, eseguiti tramite incisioni su rame e poi

“fotocopiati”. Una piacevole indigestione di colori!

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Siamo giunti quasi al termine, me ne accorgo dal fatto che ormai il gruppo si è diradato. La sala

che stiamo attraversando è squallida in confronto a ciò che abbiamo appena lasciato. Il colore delle

pareti è rosso e i pavimenti sembrano rifatti, una specie di graniglia dello stesso colore delle pareti,

bordato di nero. Qualcuno chiede spiegazioni a Santiago che non sa rispondere: beccato!

“Allora è umano”, mi consolo, pensando a tutta la quantità di nozioni che ci ha sapientemente

esposto.

Qui sono esposti vari quadri, uno dei quali ci colpisce, mostrando una veduta sul golfo di Napoli

con tanto di Vesuvio in eruzione e Lanterna di Carlo Borravia.

Sono allo stremo delle forze e ormai vado strisciando contro i muri, scontrando quasi il quadro

che ritrae i principini, Ferdinando e Gabriele di Borbone, dipinto da Giuseppe Bonito.

Dopo una rapida occhiata, giusto il tempo di osservare che uno dei principini ha voluto farsi

ritrarre con un coltello in mano puntato contro il fratello, trattengo dentro di me il mio commento

dispregiativo: “Maschi… what else!”

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Dulcis in fundo, la stanza con il ritratto ufficiale del re! Deo gratias!

Consegniamo l‟apparecchio magico che ha permesso ad ognuno di noi di ascoltare la guida come

in un confessionale e il conto non torna. Cavolo, qui qualcuno sta cercando di fregarsi il congegno!

L‟idea di un giallo ambientato alla reggia comincia a insinuarsi tra le stanze del mio cervellino ma

svanisce velocemente, trovando sia l‟oggetto che il sospetto reo di esserselo incamerato

erroneamente.

Salutiamo Santiago, congratulandoci con lui per l‟ottimo servizio svolto con la massima

professionalità e simpatia, consegnandogli il nostro “tangibile” ringraziamento.

Il numero per contattare Santiago che, ricordo, parla quattro lingue è: 3341047036

Appena saliti sul pullman, la nostra Presidentessa Maria Elvira (Amalfitano) agguanta il

microfono e con una voce dolcissima ringrazia amici e ospiti per il rigore, il rispetto, la puntualità e

l‟educazione che ha contraddistinto questo gruppo.

“Difatti, troooooppo corretto e talmente per bene che non sono riuscita a “pizzicare” nessuno!”

aggiungo sottovoce.

Sulla scia del lungo applauso per Andrea (Bruni) per la perfetta e affettuosa organizzazione,

Maria Elvira gli cede il microfono. Sinteticamente, forse per la commozione, Andrea risponde che

ha marciato per ottenere almeno il bel tempo. Grazie a tutti!

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-ore 13.10- Capua- Masseria Giòsole

La masseria GiòSole si estende per circa 50 ettari entro un'ansa del fiume Volturno. Frutteti,

campi di grano, lunghi filari di olivi, orto, costituiscono un ambiente di grande bellezza e

suggestione. In un piccolo laboratorio vengono preparate conserve, confetture, frutta sciroppata e

succhi di frutta. Da un vecchio fienile è stato ricavato il ristorante, che propone la gustosa cucina

del luogo. L'ospitalità è offerta in confortevoli camere, suites e appartamenti. Gli Ospiti hanno a

disposizione vasti spazi verdi a giardino, una grande piscina, tennis, campetto di pallone e di

pallavolo, biciclette.

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“Ohhhhh, finalmente si magna!”

Questo è il luogo ideale per digerire tutta la Reggia e fare spazio alle prelibatezze

dell‟agriturismo. Dai volti degli amici leggo un pari entusiasmo: tutti pronti ad inforcare la forchetta

e darci dentro nel cibo come un aratro! Le portate si susseguono e spariscono immediatamente. Il

cibo è genuino e provo meno sensi di colpa nell‟ingurgitarlo come un tacchino!

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Carlo ed io siamo seduti allo stesso tavolo di Johnny Grimaldi e famiglia e ancora un po‟ mi si

strozza il dolce in gola, disquisendo con lui su quanto siano salutari le passeggiate sui monti, mentre

la moglie, con la quale sono perfettamente in sintonia, non è dello stesso parere.

L‟ambiente è già un invito al ritorno alla natura e l‟argomento principale del pranzo è la dieta.

Cavolo, ci stiamo straffogando di formaggette e salumi e mi capita a fianco un igienista, un

naturopata, un salutista, uno sportivo, insomma un rompicaciotte?

La dolce sposina subisce, ma arraffa i formaggi: solo per oggi sgarro a ruota libera, ma sono

certa che dal giorno dopo, l‟implacabile naturista la rimette in riga.

A dire il vero, forse la lady di ferro è lei e Johnny sembra un setter affettuoso e dolcissimo, ma

sulla questione montagna non si piega. Sua moglie sì… raggomitolandosi su una poltrona! Come la

capisco e, sentendomi in dovere di difendere la sua pigra posizione, intervengo per solidarietà

femminile.

“Ma perché non vai a passeggiare con gli stambecchi o i cervi a primavera anziché stressare la

tua adorata?”

Spero non si sia offeso per la mia spontaneità, ma se così fosse chiedo umilmente scusa, certa

che per punizione mi toccherà accompagnarlo almeno fino al Fasce!

Non si fa a tempo a bere il caffè che vedo i tavoli svuotarsi come se avessero sentito la sirena di

un allarme antincendio!

Ma caspita! Non fa mica bene partire così di fretta dopo pranzo ma il pullman può aspettare..

l‟aereo no! Quindi, lasciando a malincuore un luogo che non ho potuto apprezzare appieno,

soprattutto perché di pieno c‟era già lo stomaco, fumo avidamente una mezza sigaretta come fossi

Humpry Bogart e salgo per ultima, come al solito!

Il tempo tiene anche se grossi nubi si stanno stringendo le une alle altre, litigando con i raggi del

sole. Il paesaggio cambia rapidamente e dalla campagna si passa al degrado della statale:

“signorine” attendono un cliente in preda a raptus pomeridiani e poco più avanti un divano

abbandonato, logoro e malconcio, sembra essere messo apposta per rendere meno scomoda l‟attesa!

Sulla stessa strada lo sguardo cade su una esposizione di manufatti artistici: statue che ritraggono

Gesù a braccia aperte verso il cielo di tutte le grandezze! Paese che vai, sculture che trovi e al posto

dei sette nani o delle Venere di Milo, qui va molto di moda mettere un bel Cristo in giardino

all‟ombra di una buganvillea!

Il viaggio è terminato, ma le emozioni che ho vissuto continuano a girare come un criceto nella

sua ruota, a cominciare dalla vista “da infarto” di Amalfi in poi. Il resto… è un‟altra storia!

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E‟ con questa immagine che saluto i miei compagni di viaggio, ringraziando per primo Andrea

(Bruni) per l‟aver voluto organizzare una gita in un luogo magico, dove la poesia della natura riesce

a convivere con il lato peggiore dell‟essere umano, la camorra, regalandoci l‟opportunità di

conoscere i profumi, assaporare la gastronomia, ricordare le melodie e visitare la cultura partenopea

in un intenso abbraccio durato pochi giorni.

Ringrazio la nostra dolcissima Presidentessa, Maria Elvira (Amalfitano) che con la sua eleganza

ha “condotto” in modo ineccepibile l‟anno rotariano.

Ringrazio la ditta “Ontano” per l‟inaspettato e graditissimo omaggio rivolto a tutte le signore.

Ringrazio gli amici che, chi più e chi meno, ha sopportato la mia frivola compagnia.

Ringrazio di cuore coloro che mi sono stati vicini in un momento particolare.

Ringrazio Pietro Pistolese che mi ha suggerito (e insegnato) l‟idea di aggiungere le foto al diario.

Ringrazio il mio picciriello perché senza di lui non andrei molto lontano.

E infine… ringrazio Dio, perché… beh, Lui lo sa!

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Se io fossi san Gennaro non sarei cosi' leggero

Con i miei napoletani io m'incazzerei davvero

Come l'oste fa i conti dopo tanto fallimento

Senza troppi complimenti sarei cinico e violento

Vorrei dire al costruttore del centro direzionale

Che ci puo' solo pisciare perche' ha fatto un orinale

Grattacieli di dolore un infarto nella storia

Forse e' solo un costruttore che ha perduto la memoria

Nei meandri dei quartieri di madonne e di sirene

Paraboliche ed antenne sono aghi nelle vene

E nei vicoli dei chiostri di pastori e vecchi santi

Le finestre anodizzate sono schiaffi ai monumenti

E' come sputare in faccia ai D'angio' agli Aragona

Cancellare via le tracce di una Napoli padrona

E' lo sforzo di cagare dell'ignobile pappone

Sulle perle date ai porci da Don Carlo di Borbone

E' percio' che mi accaloro coi politici nascosti

Perche' solamente loro sono i veri camorristi

A cui Napoli da sempre ha pagato la tangente

E qualcuno l'ha incassata con il sangue della gente

E per certi culi grossi il traguardo e' la poltrona

E per noi poveri fessi basta solo un Maradona

E il miracolo richiesto di quel sangue rosso chiaro

Lo sa solo Gesu' Cristo che quel sangue e' sangue amaro

Lo sa il Cristo ch'e' velato di vergogna e di mistero

Da quel nobile alchimista principe di Sansevero

E con lui lo sa Virgilio il sincero Sannazzaro

Giambattista della Porta che il colpevole e' il denaro

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E nessuno dice basta per il culto della festa

E di Napoli che resta sotto gli occhi del turista

Via i vecchi marciapiedi che hanno raccontato molto

Pietre laviche e lastroni seppelliamoli d'asfalto...

...l'appalto

Ma non posso piu' accettare l'etichetta provinciale

E una Napoli che ruba in ogni telegiornale

Una Napoli che puzza di ragu' di malavita

Di spaghetti cocaina e di pizza margherita

Di una Napoli abusiva paradiso artificiale

Con il sogno ricorrente di fuggire e di emigrare

E di un popolo che a scuola ha creato nuovi corsi

E la cattedra che insegna qual'e' l'arte di arrangiarsi

Io non posso piu' accettare l'etichetta di terrone

E il proverbio che ogni figlio e' nu bello scarrafone

E mi rode che Forcella e' la kasba del furbone

Che ti scambia con il pacco uno stereo col mattone

Se io fossi San Gennaro giuro che vomiterei

La mia rabbia dal Vesuvio farei peggio di Pompei

E poiche' c'ho preso gusto con la scusa del santone

Io ritengo che sia giusto fare pure qualche nome

Chiedere a Pino Daniele che fine ha fatto terra mia

Siamo lazzari felici quanno chiove 'a pecundria

Napule e' 'na carta sporca Napule e' mille paure

Ma pe' chhiste viche nire so' passate 'sti ccriature

Da Pontano a Paisiello Giulio Cesare Cortese

Da Basile a Totonno Petito fino a Benedetto Croce

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Da Di Giacomo a Viviani poi Caruso coi Parisi

Da Toto' ai De Filippo fino a Massimo Troisi

C'e' passato Genovesi e Leopardi con orgoglio

La romantica Matilde e il mattino di Scarfoglio

Filangieri Cardarelli tutto l'oro di Marotta

C'e' passata la madonna che ora vedi a Piedigrotta

Un Luciano De Crescenzo Bellavista di Milano

E Sofia che da Pozzuoli oggi parla americano

Un Roberto De Simone che le ha preso pure il cuore

Ora cerca di sfruttarala Federico Salvatore

Ma non posso tollerare chi si arroga poi il diritto

Di cambiare e trasformare tutto cio' che e' stato fatto

Di chi vuol tagliar la corda con la vecchia tradizione

Di chi ha messo nella merda la cultura e la canzone

Io non posso sopportare che un signore nato a Foggia

Porta Napoli nel mondo e la stampa lo incoraggia

E che il critico ha concesso al neomelodico l'evento

Di buttare in fondo al cesso Napoli del novecento

Perche' ancora io ci credo e mi incazzo ve lo giuro

Che Posillipo e Toledo li divide un vecchio muro

Come quello di Berlino che ci spacca in due meta'

Uno e' figlio 'e bucchino l'altro e' figlio 'e papa'

Se io fossi San Gennaro giuro che mi vestirei

Pulcinella Che Guevara e dal cielo scenderei

Per gridare alla mia gente tutto cio' che mi fa male

E finire da innocente pure io a Poggioreale

Perche' come Gennarino sono vecchio in fondo al cuore

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La speranza Iervolino puo' lenire il mio dolore?

Io ho capito che la vita e' solo un viaggio di ritorno

Che domani e' gia' finito e che ieri e' un nuovo giorno

Sembra un gioco di parole ma mi sento piu' sicuro

Coi progetti dal passato e i ricordi del futuro

E alla fine del mio viaggio chiedo a Napoli perdono

Se ho cercato con coraggio di restare come sono.

Questo è lo sfogo di Napoli, di uno che vive la sua città e il suo dramma. Un uomo che ama e

che soffre per ciò che è costretto a subire, impotente nel combattere quel male che uccide, che

distrugge e manipolizza il cittadino e lo Stato ma urla la sua rabbia: unica arma per difendere la sua

dignità e l‟orgoglio di essere napoletano.

Notizia - Durante il nostro viaggio è stato arrestato il terzo camorrista Raffaele Diana.

L‟uomo, originario di San Cipriano d'Aversa, inserito nell‟elenco dei trenta latitanti più ricercati

d‟Italia, è ritenuto elemento di primo piano del cartello criminale dell‟agro aversano, con interessi

nella zona di Modena. Lo hanno trovato in via Torino, a Casal di Principe, nascosto in un cunicolo

per accedere al quale gli agenti, con l'aiuto dei militari dell'Esercito, hanno dovuto sfondare la

parete di un sottoscala. Il capo della mobile casertana, Rodolfo Ruperti, ha riferito che l‟uomo era

armato di pistole, con colpi in canna, ma non ha fatto in tempo ad opporre resistenza. Messo in

manette, ha fatto i complimenti ai poliziotti. Il

proprietario dell'appartamento, Paolo Landolfo,

senza precedenti particolari, è stato anch'egli

arrestato con l'accusa di favoreggiamento. Il blitz è

scattato alle 17.30, quando agenti e militari hanno

circondato diverse abitazioni della zona. Dopo due

ore di ricerche è stato scoperto il bunker, occultato

dietro una scarpiera basculante. Appena visti i

poliziotti ha detto che era armato ma che voleva arrendersi. Appena estratto fuori dal cunicolo ha

consegnato un sacco con all‟interno due pistole, munizioni e silenziatori. Secondo il vicequestore

Ruperti era pronto ad usare quelle armi. In casa gli agenti hanno trovato dei dvd de “Il Padrino”,

della fiction “Il capo dei capi” e dei vangeli, tutto risultato appartenente al latitante.

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Un arresto eccellente che avviene dopo il recente insediamento del nuovo questore di Caserta,

Guido Longo, l'uomo che nel 1998 arrestò il capo dei capi del clan dei Casalesi Francesco

Schiavone detto “Sandokan”.

Per un camorrista che entra in gabbia, la polizia ha messo in libertà alla Reggia di Caserta un

numeroso quantitativo di cardellini venduti illegalmente! GIUSTIZIA E‟ FATTA! Speriamo

continui così!

Dopo tanta “napolitanità” ho voglia d‟indossare i miei “strassun” e ricordarmi che “semu de

Zena… e semu de Foxe!” , sperando di coinvolgervi nel mio mondo! Un grazie di cuore a tutti!

La mia Liguria

E di pietre grigie

salate dall'onda perpetua,

accarezzate dal vento di libeccio,

corrose dal tempo e dal maestrale,

ti affacci, lingua di terra

odorosa di mare, di limoni e ulivi,

costretti in nastri fertili e faticosi,

aggrappati con le radici

a quel seno generoso di cui si nutrono.

Aspra e dura come la tua gente,

nascondi le tue perle più preziose

sotto picchi di rocce scoscese

dove il mare a volte riposa.

Patrizia Targani Iachino

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Boccadasse

Seduta sopra ad un gradino di pietra

che odora di scoglio,

resto ad ascoltare.

Come una nenia,

il mare culla questo borgo

nell'incanto di una giornata limpida di luce,

rubata al mese di Ottobre.

Le piccole case, vicine le une alle altre

come a sostenersi nel corso degli anni,

sembrano tanti gatti appisolati,

godendo il tepore del sole.

I colori pastello dei muri sono sbiaditi

e in alcuni punti mostrano i segni dell'età.

Sulle facciate, alcune persiane appaiono

come occhi semichiusi,

accecati dal riverbero del mare.

Tutto intorno

le colline osservano pigre il respiro del mare.

Come incantate

dal continuo movimento delle onde leggere,

abbracciano il mio sguardo,

impedendo l'oltre.

Tutto è fermo ed è come appare.

Solo la risacca smuove l'aria

e rompe il silenzio

di un ozio apparente.

Patrizia Targani Iachino

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Il teatro Tasso e la sua storia

Si è riaperto a Sorrento, dopo più di un decennio di chiusura e di ristrutturazioni, il Cinema

Teatro “Tasso”, ubicato nell'antico convento dei Padri Teatini a Piazza S. Antonino oggi sede

del Municipio. Qui, negli anni Venti del l'area retrostante il grande edificio conventuale che

era un tempo l'orto dei Teatini. Gli spettacoli, com'è intuibile, erano anche teatrali; risale in

proposito al 1921 la prima stagione lirica estiva (ne esiste ancora una locandina), che fu

organizzata dai signori Mass Col passare degli anni unico gestore degli spettacoli del Teatro

Tasso rimase Vincenzo Lancia e Fiat. L'imprenditoria teatrale era dunque per Vincenzo

un'attività secondaria e nacque sicuramente per passione personale e per iato un degno

continuatore dell'opera del padre Vincenzo. Egli incrementò l'att

Se io fossi san Gennaro non sarei cosi' leggero

Con i miei napoletani io m'incazzerei davvero

Come l'oste fa i conti dopo tanto fallimento

Senza troppi complimenti sarei cinico e violento

Vorrei dire al costruttore del centro direzionale

Che ci puo' solo pisciare perche' ha fatto un orinale

Grattacieli di dolore un infarto nella storia

Forse e' solo un costruttore che ha perduto la memoria

Nei meandri dei quartieri di madonne e di sirene

Paraboliche ed antenne sono aghi nelle vene

E nei vicoli dei chiostri di pastori e vecchi santi

Le finestre anodizzate sono schiaffi ai monumenti

E' come sputare in faccia ai D'angio' agli Aragona

Cancellare via le tracce di una Napoli padrona

E' lo sforzo di cagare dell'ignobile pappone

Sulle perle date ai porci da Don Carlo di Borbone

E' percio' che mi accaloro coi politici nascosti

Perche' solamente loro sono i veri camorristi

A cui Napoli da sempre ha pagato la tangente

E qualcuno l'ha incassata con il sangue della gente

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E per certi culi grossi il traguardo e' la poltrona

E per noi poveri fessi basta solo un Maradona

E il miracolo richiesto di quel sangue rosso chiaro

Lo sa solo Gesu' Cristo che quel sangue e' sangue amaro

Lo sa il Cristo ch'e' velato di vergogna e di mistero

Da quel nobile alchimista principe di Sansevero

E con lui lo sa Virgilio il sincero Sannazzaro

Giambattista della Porta che il colpevole e' il denaro

E nessuno dice basta per il culto della festa

E di Napoli che resta sotto gli occhi del turista

Via i vecchi marciapiedi che hanno raccontato molto

Pietre laviche e lastroni seppelliamoli d'asfalto...

...l'appalto

Ma non posso piu' accettare l'etichetta provinciale

E una Napoli che ruba in ogni telegiornale

Una Napoli che puzza di ragu' di malavita

Di spaghetti cocaina e di pizza margherita

Di una Napoli abusiva paradiso artificiale

Con il sogno ricorrente di fuggire e di emigrare

E di un popolo che a scuola ha creato nuovi corsi

E la cattedra che insegna qual'e' l'arte di arrangiarsi

Io non posso piu' accettare l'etichetta di terrone

E il proverbio che ogni figlio e' nu bello scarrafone

E mi rode che Forcella e' la kasba del furbone

Che ti scambia con il pacco uno stereo col mattone

Se io fossi San Gennaro giuro che vomiterei

La mia rabbia dal Vesuvio farei peggio di Pompei

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E poiche' c'ho preso gusto con la scusa del santone

Io ritengo che sia giusto fare pure qualche nome

Chiedere a Pino Daniele che fine ha fatto terra mia

Siamo lazzari felici quanno chiove 'a pecundria

Napule e' 'na carta sporca Napule e' mille paure

Ma pe' chhiste viche nire so' passate 'sti ccriature

Da Pontano a Paisiello Giulio Cesare Cortese

Da Basile a Totonno Petito fino a Benedetto Croce

Da Di Giacomo a Viviani poi Caruso coi Parisi

Da Toto' ai De Filippo fino a Massimo Troisi

C'e' passato Genovesi e Leopardi con orgoglio

La romantica Matilde e il mattino di Scarfoglio

Filangieri Cardarelli tutto l'oro di Marotta

C'e' passata la madonna che ora vedi a Piedigrotta

Un Luciano De Crescenzo Bellavista di Milano

E Sofia che da Pozzuoli oggi parla americano

Un Roberto De Simone che le ha preso pure il cuore

Ora cerca di sfruttarala Federico Salvatore

Ma non posso tollerare chi si arroga poi il diritto

Di cambiare e trasformare tutto cio' che e' stato fatto

Di chi vuol tagliar la corda con la vecchia tradizione

Di chi ha messo nella merda la cultura e la canzone

Io non posso sopportare che un signore nato a Foggia

Porta Napoli nel mondo e la stampa lo incoraggia

E che il critico ha concesso al neomelodico l'evento

Di buttare in fondo al cesso Napoli del novecento

Perche' ancora io ci credo e mi incazzo ve lo giuro

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Che Posillipo e Toledo li divide un vecchio muro

Come quello di Berlino che ci spacca in due meta'

Uno e' figlio 'e bucchino l'altro e' figlio 'e papa'

Se io fossi San Gennaro giuro che mi vestirei

Pulcinella Che Guevara e dal cielo scenderei

Per gridare alla mia gente tutto cio' che mi fa male

E finire da innocente pure io a Poggioreale

Perche' come Gennarino sono vecchio in fondo al cuore

La speranza Iervolino puo' lenire il mio dolore?

Io ho capito che la vita e' solo un viaggio di ritorno

Che domani e' gia' finito e che ieri e' un nuovo giorno

Sembra un gioco di parole ma mi sento piu' sicuro

Coi progetti dal passato e i ricordi del futuro

E alla fine del mio viaggio chiedo a Napoli perdono

Se ho cercato con coraggio di restare come sono.

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