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Diario di Viaggio in Etiopia del nord Attraverso la rotta storica di un medioevo polveroso Avevo già da tempo desiderato cogliere un panorama completo delle attrattive storiche, culturali, paesaggistiche ed anche etnografiche del Nord Etiopia, di cui avevo spesso, dai miei genitori, sentito accennare.. si parlava della realtà complessa di quel paese che, per poco tempo, era stato anche considerato quasi come “una culla ricca di testimonianze di civiltà antiche sorprendentemente vicine alla nostra.”. Inoltre desideravo cogliere spunti ed immagini di un mondo che era vissuto attraverso storia e leggenda, una roccaforte cristiana che aveva cercato di resistere al maremoto dell’Islam che avanzava… distruggendo parte della popolazione massacrata nelle gole delle montagne, spaventando i Cavalieri della Croce che avevano cercato rifugio altrove e gli anacoreti che si erano infine affidati nelle mani del Signore….

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Diario di Viaggio in Etiopia del nordAttraverso la rotta storica di un medioevo polveroso

Avevo già da tempo desiderato cogliere un panorama completo delle attrattive storiche, culturali, paesaggistiche ed anche etnografiche del Nord Etiopia, di cui avevo spesso, dai miei genitori, sentito accennare.. si parlava della realtà complessa di quel paese che, per poco tempo, era stato anche considerato quasi come “una culla ricca di testimonianze di civiltà antiche sorprendentemente vicine alla nostra.”.

Inoltre desideravo cogliere spunti ed immagini di un mondo che era vissuto attraverso storia e leggenda, una roccaforte cristiana che aveva cercato di resistere al maremoto dell’Islam che avanzava… distruggendo parte della popolazione massacrata nelle gole delle montagne, spaventando i Cavalieri della Croce che avevano cercato rifugio altrove e gli anacoreti che si erano infine affidati nelle mani del Signore….

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L’arrivo nella capitale etiope, Addis Abeba, al mattino presto, non è stato impressionante… la città mi è apparsa come un grosso paese, caotica, superaffollata, piuttosto anonima, eppure l’entusiasmo ed il desiderio di vedere ha prevalso sulla negatività del primo giudizio, dovuto peraltro alla stanchezza: il centro cittadino infatti con gli enormi mercati polverosi, dagli odori impossibili, pieni di vita e di bancarelle, mi ha colpito subito.

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Siamo poi andati a visitare due luoghi nevralgici e importanti, il Museo Nazionale ed ovviamente il Mercato, uno ricco di storia del passato, l’altro sprizzante tutta la vitalità del presente.

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Il Museo Nazionale è stato interessante sia per i reperti sabei che testimoniavano l’intenso scambio culturale tra l’altopiano etiopico, la costa eritrea e addirittura la penisola arabica, sia per l’esposizione dei suggestivi abiti indossati un tempo dalle alte cariche dell’impero e il trono intarsiato di legno dell’imperatore.

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Devo però dire che, tra tanta ricchezza, sono rimasta incredibilmente presa dalla piccola Lucy, il più antico scheletro completo (o quasi) di ominide, ritrovato il 30 Novembre del 1974, nella valle dell’Awash, vissuto ben tre milioni e mezzo di anni fa.

Quell’esemplare di femmina adulta dell’età apparente di 25 anni, fu battezzata Lucy, in onore di una canzone dei Beatles, ma in amarico era nota col nome di Dinqinesh che romanticamente significava “tu sei meravigliosa”!

A dire il vero io di meraviglioso non vedevo niente, anche se cercavo di farla rivivere con l’immaginazione: era un piccolo, gracile scheletro con un cranio un po’ scimmiesco.. mi hanno raccontato che la piccola donna era morta sulle rive di una palude, probabilmente di sfinimento e per sua fortuna nessun animale predatore aveva rovinato il suo corpo che era poi sprofondato nel fango… e nel corso dei millenni si era fossilizzato fino a diventare roccia.

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Il mercato, dove ci siamo diretti dopo, come tutti i mercati africani, mi è apparso ricco di immagini, di colore, di odori pregnanti come quelli particolari delle spezie che penetravano nel naso e nella gola, che facevano tossire e bruciavano gli occhi. Tutto era Africa, anche il sorriso dei ragazzi, delle donne che ti invitavano a comprare, dei bambini che mi circondavano curiosi.

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Lì si poteva comperare di tutto, da un Kalashnikov a un cammello, dall’incenso più prezioso ad un sacco di farina… la guida ci ha riferito che la gente del luogo diceva addirittura che vi si poteva trovare anche una nuova anima!

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Il giorno dopo, più riposata sono andata a vedere il Museo Etnografico ubicato nell’ex palazzo del governatore.. subito la guida ci ha portati nel mondo di Hailé Selassiè.. abbiamo ammirato le sue stanze, nonché il suo bagno e la camera da letto.

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Bella anche la sorprendente gamma di croci sacre, trittici ed affreschi e poi quella parte dedicata all’artigianato locale delle varie regioni.

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Poi, usciti dal palazzo, ci siamo diretti verso il monte Entoto, la più alta cima della città di Addis Abeba, fittamente ricoperta di eucalipti, alberi piantati dall’imperatore Menelik II che aveva anche voluto costruirvi il suo palazzo… a causa di tutto quel verde che lo circondava, il luogo era considerato il vero “polmone” della città.

Dall’alto lo sguardo poteva spaziare verso la veduta panoramica di Addis Abeba.. e tra gli alberi e le abitazioni spiccava la chiesa di Entoto Myriam con la sua forma ottagonale.

Non abbiamo potuto visitarla dato che era chiusa ed allora via in aeroporto e con un piccolo e traballante velivolo ci siamo spostati verso nord, a Bahar Dar, una cittadina sulle grigie acque del lago Tana.

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Verso sera, un po’ scombussolata dal precario volo, mi sono concessa una passeggiata… la luce della luna insieme ad una moltitudine di stelle pennellava di striature argentee tutto il panorama che mi circondava e sopra l’argento si disegnavano le ombre bluastre degli alberi. Il lago invece pareva dormire placido in quella atmosfera serale.. pareva gustare la bellezza che lo avvolgeva, il canto dei grilli e la pace della sera!

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Il mattino dopo, di buonora, ci aspettava la navigazione attraverso la dolce natura incontaminata del lago per visitare le chiese più significative con i loro commoventi cicli pittorici. Faceva freddo e accatastati su una piccola barca a motore, rompevamo il silenzio e la pace del lago.

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Non abbiamo incontrato né animali, né persone, solo un singolare personaggio che trasportava su una specie di canoa di giunchi un grosso pellicano bianco che si godeva tranquillo il panorama!

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Siamo così arrivati, un po’ intirizziti alla penisola di Zeghie, siamo sbarcati ed abbiamo iniziato un percorso a piedi attraverso quella vegetazione tropicale e le piantagioni di caffé, fino ad arrivare ad uno dei più antichi monasteri ortodossi del lago, Ura Kidane Mehret. La costruzione, molto ben conservata, faceva parte di un complesso risalente al XVI secolo e, come la maggior parte delle chiese etiopi, anche questa aveva una forma circolare divisa in tre anelli per ricordare la Santissima Trinità.

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Ho percorso nel buio più polveroso, il primo cerchio dato che era l’unica area visitabile ai fedeli, dedicata alla preghiera… il secondo era riservato al clero ed il terzo conteneva una copia dell’Arca dell’Alleanza.. (ogni chiesa in Etiopia ne era provvista).

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La bellezza di questo piccolo monastero era dato dai dipinti su tela raffiguranti scene bibliche: i colori ricchi, vibranti e luminosi spiccavano nel buio.. rosso, giallo, verde oliva, blu.. era un’esplosione d’arte sopraffina che riempiva ogni centimetro di parete.

I colori, ci hanno spiegato, venivano applicati direttamente su una carta fibrosa incollata poi al muro.. ecco allora santi, angeli tra varie decorazioni, e soprattutto San Giorgio, patrono dell’Etiopia, risplendere di grazia e bellezza.

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Erano opere arcaiche caratterizzate da un gusto molto accentuato per la semplificazione delle figure, da una tendenza al disegno geometrico e da un modo particolare, semplice di interpretare certi temi. In un paese in cui l’analfabetismo comprendeva la maggioranza della popolazione questi dipinti avevano la funzione importante di insegnare, di narrare storie e verità della religione. Per i monaci l’immagine aveva solo un valore didattico!

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Dato poi che le onde limacciose del Lago Tana si erano svegliate, era impossibile procedere con la piccola, malconcia barca, per arrivare ad un’altra chiesa senza bagnarsi completamente e magari rischiare un bagno fuori programma.. per cui ci siamo inoltrati, con grande spirito di avventura, a piedi, e per una buona ora abbiamo camminato attraverso quella fitta vegetazione, tra piante di limoni e di caffé.

Erano luoghi incontaminati di straordinaria quiete, in assoluto contatto con la natura, luoghi dove, non era retorico affermare che il tempo pareva essersi fermato.

Costeggiavamo capanne di paglia, immerse nella vegetazione, rallegrate dalle urla di bimbi laceri e scalzi che ci osservavano un po’ curiosi e all’inizio diffidenti.. e poi donne, abbrutite dal lavoro, con un viso scarno, sofferto, ma sorridente.

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Siamo così arrivati al Monastero di Beta Maryan dove abbiamo ammirato i favolosi dipinti da poco restaurati, dai colori luminosi e brillanti..

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La guida, a questo punto, ci ha spiegato che nel 1500, incalzati dalle incursioni musulmane, i preti copti avevano sentito la necessità di trovare luoghi nascosti e protetti per mettere in salvo i testi sacri e tutte le tradizioni religiose che avrebbero rischiato di essere cancellate e distrutte dagli invasori. Le isolette del lago divennero allora un sicuro rifugio per i religiosi e gli eremiti che vi fondarono appunto una serie di monasteri, autentici scrigni non solo di cultura, ma soprattutto d’arte.

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Nel pomeriggio, dopo aver affrontato la traversata del lago sempre più “imbizzarrito”, siamo andati in jeep, tra strade sterrate e sempre più polverose, fino a Tis Issat (“l’acqua fumante”), luogo meglio conosciuto per le cascate del Nilo Azzurro, chiamato dagli indigeni Baḥr al-Azraq.

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Il percorso a piedi attraverso viottoli faticosi ed anche ripidi è stato uno spettacolo superlativo.. eravamo nel cuore di una natura grandiosa e devo confessare che quel tragitto desolato e sassoso mi ha entusiasmato più delle cascate stesse!

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Lo spettacolo di quel getto fumante che si buttava da circa 50 metri, a dire il vero, doveva essere grandioso nel periodo delle “grandi piogge”… ci hanno raccontato che raggiungeva i 400 metri di larghezza… noi eravamo invece in inverno, nella stagione “secca”, per cui tutto l’insieme mi è apparso inferiore alle aspettative, una specie di scarso gocciolio.

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La cascata d’acqua era dunque molto sacrificata… inoltre ci hanno raccontato che una centrale idro-elettrica, da poco costruita, prelevava gran parte dell’acqua che prima fluiva abbondante solo per le cascate e quindi aveva ridotto la sua potenza.

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Mi è invece piaciuto molto il percorso in jeep attraverso quei villaggi avvolti nella nebbia, polverosi e abbandonati da Dio… spesso ci fermavamo e subito crocchi di bambini ci assalivano, prima titubanti poi via via sempre più intraprendenti. Le donne poi mi colpivano .. portavano con fatica enormi pesi sul capo e mi facevano meditare sulla loro dura vita di lavoro!

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Siamo così arrivati alla stupenda Gondar, nel cuore dell’altopiano etiopico, definita anche la “Camelot d’Africa” per i suoi numerosi castelli merlati dallo stile composito molto poco etiopico e per le bellissime chiese.. Gondar era rinomata anche per essere stata la prima città imperiale voluta da Fasiladas, nel 1636, una città murata in perfetto stile medioevale portoghese.

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E proprio dalla cittadella reale circondata da alte mura di pietra, solitaria e maestosa, avvolta dal silenzio di un passato grandioso, ormai lontano e dimenticato, è iniziata la nostra visita. Il palazzo di Fasiladas era il più antico e il più notevole tra i vari castelli imperiali.. con la sua torre rettangolare ed i balconi in legno, troneggiava tra i tanti edifici diroccati che lo circondavano.

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Altri castelli sorgevano nel recinto imperiale.. il castello della regina Mentewab per esempio e poi la sala della musica dell’imperatore Dawit con l’enorme sala dei banchetti, il palazzo di Iyasu I.

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A Gondar gli imperatori si sbizzarrirono.. scavarono fosse per i leoni, costruirono bagni per le principesse, moltiplicarono le chiese, decorarono le loro dimore con specchi e mobili d’avorio, aprirono dodici porte nel muro di cinta ciascuna attribuita ad una funzione particolare.. fecero di questa città una meraviglia vietata agli europei.

Ora vedevo molti palazzi rovinati per essere stati bombardati dagli inglesi o dagli stessi italiani, ma non apparivano totalmente distrutti.

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Tutti rievocavano l’atmosfera opulenta di un passato grandioso, ed io mi perdevo ad immaginare lo sfarzo, le cerimonie, magari gli intrighi di corte di quel passato che prendeva vita e riviveva nel mio presente.

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La zona aveva proprio il caratteristico sapore d’altri tempi.. mi sembrava conservasse una sua sciupata dignità, come una vecchia signora che aveva vissuto bene la sua vita e non si vergognava dei segni lasciati dal tempo!

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Usciti dalla cittadella imperiale ci siamo diretti alla chiesa di Debre Berhan Selassie, la più famosa del paese, un esempio dell’arte figurativa etiopica del seicento.. il suo nome significava “Trinità della Montagna di Luce” e mi è apparsa veramente originale non solo per la sua architettura esterna molto suggestiva...

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...ma soprattutto per il suo soffitto tra le cui travi si potevano ammirare le testine alate di ottanta cherubini dai grandi, attoniti occhioni neri sorridenti, i piccoli angeli sembravano fatti in serie ed invece ognuno aveva un’espressione enigmatica leggermente diversa, ogni viso aveva una caratteristica unica.

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Quegli straordinari affreschi erano stati dipinti verso la fine del XVII secolo ed erano veramente incredibili e suggestivi, inoltre la scarsa luce all’interno del tempio, la solitudine del recinto, i dipinti di scene storiche e religiose alle pareti laterali della chiesa, il fatto stesso di essere a piedi nudi (caratteristica di tutte le chiese etiopi) creavano nel visitatore una specie di piacevole e ammirata soggezione.

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Per concludere la nostra visita in questo luogo antico ci siamo diretti ai bagni di Fasiladas… su un’ampia vasca rettangolare si ergeva una piccola, ma graziosa torre-castello a due piani circondata da un fossato. Ci hanno raccontato che ad Epifania il fossato veniva riempito d’acqua ed i fedeli vi si buttavano per rivivere il sacramento del battesimo per immersione!

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A pochi km da Gondar abbiamo sostato presso il villaggio dei Falashas a Walleka, nato per ospitare gli artigiani ebrei etiopi.. in questo luogo dove erano stati confinati, gli ebrei si erano dedicati con successo al commercio di ceramiche, manufatti di tessitura. Ora il villaggio era stato quasi interamente abbandonato.. restavano pochi ebrei dediti alla fabbricazione di vasi di terracotta e statuette.. in un ambiente povero e decisamente poco invitante.

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Ripreso il percorso in jeep ci siamo spostati verso sud est e nonostante il lungo tragitto da percorrere sono rimasta ammirata e spesso incantata dall’aspra bellezza del paesaggio dell’altopiano etiopico.. la zona aveva una configurazione primordiale…

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...magma di rocce, deserti aridi con macchie di brume di sabbia, calanchi pittoreschi che si intervallavano a piccoli e fertili angoli di verde molto bucolici, perché, grazie alla vicinanza dell’equatore, le zone montuose dell’Etiopia erano abitabili e coltivabili tutto l’anno anche ad altezze molto elevate.

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E quando poi attraversavamo qualche agglomerato di case, che erano in fondo baracche, che non si immaginava come stessero in piedi, vedevamo la terra battuta spandere polvere ad ogni alito di vento… eppure tutto aveva un suo caratteristico fascino.

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E così siamo arrivati a Lalibela, la città santa, la Gerusalemme d’Etiopia, un suggestivo villaggio fatto di casupole e tukul sparsi tra i monti ( perché era difficile parlare di città..), un luogo mistico di pellegrinaggio di difficile accesso perché costruito ai piedi di una catena montuosa che culminava a più di 4000 metri…

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Un villaggio dunque posto a 2600 metri di altitudine, che si offriva al visitatore non solo con il fascino bucolico e mistico che lo pervadeva, ma anche con la grandiosità delle sue chiese ipogee di pietra dal colore rossastro in cui si rivelava tutto lo splendore della religione Cristiano- Copta. Mi hanno spiegato che nel lontano 1200, un re della dinastia etiope Zaguè, di nome Lalibala, aveva deciso di costruire, nella sua città, una copia dei monumenti esistenti a Gerusalemme.

Ci aveva messo tutto il suo impegno e la sua fede disponendoli al di qua e al di là di un modesto torrente che, strano a dirsi, aveva battezzato Giordano. Perché quell’idea? Bisogna sapere che in quei tempi turbolenti per le continue invasioni e guerre, era quasi impossibile dall’Etiopia raggiungere, in pellegrinaggio, la città santa di Gerusalemme e quindi perché non farla rivivere in loco?

Fin qui niente di particolarmente straordinario, ciascun re poteva costruire le chiese per i suoi fedeli dove e come voleva.. l’idea invece eclatante di Lalibala fu quella di volere che le chiese non fossero costruite normalmente sul terreno, svettanti al cielo, ma scavate nella montagna… sotterranee!

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Si racconta inoltre che l’ispirazione per tutte queste costruzioni ipogee fosse nata dalla mente del re perché due angeli, arrivati da Gerusalemme gliel’avrebbero comunicata in sogno.

Per esempio Bet Gabriel Rafael, una delle tante bellissime chiese ipogee, in pietra arenaria rossa era stata edificata proprio per onorare gli angeli “progettisti”.. e forse si pensava che quella monumentale chiesa fosse anche residenza della famiglia reale.

Ora si raggiungeva percorrendo uno stretto ponticello in pietra, un po’ usurato dal tempo e ci appariva subito favolosa.

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Forse anche per la collaborazione celeste, visitare Lalibela è stata per me un’esperienza unica tanto da restare attonita, incantata, sorpresa sia per le costruzioni labirintiche nella roccia, sia per l’umanità che pullulava attorno agli edifici religiosi..

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Ma andiamo per gradi… il primo impatto è stato alla chiesa del “Salvatore del Mondo” ovvero la Bet Mediane Alem.. forse la più grande chiesa ipogea del mondo… imponente, maestosa anche sotto l’impalcatura del restauro. Sono entrata attraverso un buio tunnel che era più uno stretto pertugio e sono sbucata poi in un piccolo cortile rischiarato da un lembo di cielo azzurro che si intravedeva dalle grandi finestre a croce e mi sono trovata davanti ad una facciata di rosso tufo la cui massa era ritmata da pilastri quadrangolari di un peristilio.

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Come ogni monastero di Lalibela, anche questo era religiosamente custode di preziose sacre reliquie, soprattutto croci copte di straordinaria bellezza.. in ogni monastero abbiamo ammirato una croce diversa, d’oro, d’argento, riccamente intarsiata.. tutte ci venivano mostrate dai sacerdoti addobbati con i paramenti sacri delle cerimonie. C’era poi, sempre in ogni chiesa, una copia dell’Arca dell’Alleanza che custodiva i libri sacri.

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Ma cos’era questa famosa Arca dell’Alleanza avvolta nel mistero e nella leggenda? Tutto veniva fatto risalire alla storia d’amore tra Salomone e la regina di Saba che si era rifugiata alla sua corte per sfuggire alle invasioni del suo paese.

Si racconta che da quella relazione nacque Menelik, il primo imperatore della dinastia salomonide. Ebbene la regina, tornata in patria, mandò suo figlio a Gerusalemme perché crescesse in forza e saggezza accanto al padre… e qui la storia prende varie direzioni, la più comune è quella legata al furto da parte del giovane dell’Arca dell’Alleanza del Tempio, preziosa reliquia perché conteneva le Tavole della Legge date da Dio a Mosé sul Monte Sinai.

Si racconta ancora che il giovane principe l’avesse portata ad Axum, dove risiedeva il suo palazzo reale, e protetta entro mura ciclopiche… ma il fatto certo è che l’arca fu in seguito ricercata in ogni luogo e non più ritrovata… forse era stata nascosta in una di queste chiese ipogee?

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La visita dunque è proseguita, alla ricerca dell’Arca Santa e ci siamo diretti a Bet Maryam, una piccola chiesa graziosa...

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...e poi a Bet Golgotha, alla quale si accedeva dopo aver attraversato baracche fatiscenti, avvolte nella polvere e nella povertà… l’interno delle chiese era però fantastico ricco di affreschi un po’ rovinati dal tempo, ma carichi di suggestione, inoltre bisogna dire che pur essendo state intagliate in un unico blocco di roccia quelle chiese rupestri non possedevano, meno colonne, archi e cupole di quelle costruite pietra su pietra!

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I pellegrini poi non si contavano in quella città santa ed erano molto più numerosi dei turisti, mi apparivano laceri, spesso malati e lebbrosi, dormivano per terra avvolti nelle loro tonache bianche… e allora, guardando quella umanità derelitta si aveva l’impressione di essere tornati indietro nel tempo, indietro di mille anni.. in un medioevo polveroso!

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Uno dei monumenti più raffinati di Lalibela, tra le chiese ipogee, la più famosa era quella di San Giorgio, la Bet Giyorgis in stile axumita ( IV sec. fino al IX sec.)… ed era anche quella che ho apprezzato di più! Un po’ fuori dal centro abitato, sotto gli alberi mi è apparsa, a fior di terra, una lastra a forma di croce greca a bracci uguali… era il tetto della chiesa ornato da tre croci greche inserite l’una nell’altra!

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“San Giorgio” era stata scavata nel suolo secondo un progetto cruciforme, unico in Etiopia e dall’alto si vedeva soltanto il tetto con le croci greche concentriche. Soltanto risalendo per un tratto il pendio della montagna si scopriva la sua forma slanciata, alta una dozzina di metri, a tre piani, ovviamente sotto terra, e intagliata in un solo blocco di pietra.

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Mi è piaciuta molto questa visita alle varie chiese… per tutta la giornata ho camminato per bui pertugi, salendo e scendendo strette e rovinate scale di pietra, però ero entusiasta… per fortuna anche se non era bello vederle, molte chiese erano avvolte da solide impalcature e avviate al lento restauro.

Altre rimanevano un po’ abbandonate a loro stesse, buie e piene di pulci tanto che bisognava entrare munite di alti calzari di plastica… e penso fosse proprio questo il problema di quel villaggio santo: la sua conservazione.

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Ma nonostante tutto, quando la sera, al momento della preghiera, gli abitanti e noi pochi turisti, ci siamo riuniti ai bordi dei profondi fossati che circondavano le chiese, l’atmosfera mistica poteva innalzarsi fino al cielo.

Le donne preparavano le rotonde focacce d’injera con la farina di miglio nelle loro bancarelle, o vendevano i tipici fasci d’erba profumata con fiori gialli da spargere nelle case, i bambini recitavano a memoria le loro preghiere tratte dai testi sacri.

Tutto era uno spettacolo che colpiva l’immaginazione, e ci si rendeva conto di come a Lalibela la chiesa stesse regolando ancora il ritmo dei giorni e quello della vita dei suoi abitanti.

Dopo la suggestiva sosta a Lalibela abbiamo ripreso il nostro viaggio verso nord.

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Un viaggio difficile, perché per ben dodici ore abbiamo subito traballamenti e scossoni attraverso quelle strade sterrate che sembravano più dei viottoli di montagna, ma il percorso era fantastico per la bellezza dei paesaggi che stavamo attraversando.

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Eravamo nella terra del Tigray dove oltre alle strade dissestate che erano un punto fermo, c’era la polvere che entrava nei polmoni se appena lasciavamo aperto il finestrino della jeep, c’era il silenzio dei luoghi disabitati dove l’unico rumore era quello del motore della nostra auto… eppure, come per magia, non appena ci fermavamo ecco comparire qualche indigeno locale… da dove erano spuntati?

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Inoltre mandrie di bovini, bufali, cammelli erano gli incontri più diffusi… mi sentivo sprofondare nello spazio immenso di quel paesaggio così forte e sconfinato.. mi sentivo odorare di terra e sogno.. eravamo realtà e cielo.

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Durante le numerose soste guardavo affascinata quella natura che mi circondava e i miei pensieri fremevano in flutti di nuove idee.. di poesia!

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Gli Etiopi che incontravamo ci osservavano curiosi.. la loro vita era povera e semplice, i loro occhi limpidi e profondi, ma anche provati dal lavoro, dalle fatiche e dalle difficoltà di una vita dura in luoghi così desolati!

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Arrivati a Macallè siamo subito andati a visitare il caratteristico mercato povero, disordinato, polveroso, ma sempre vivace.. un mercato dove non c’era niente di possibile da comperare… tutto era confusamente accatastato in un ammasso di sporcizia e di gente, tanto da non riuscire a distinguere i vari sacchi di mercanzia dalla terra dove erano appoggiati.

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Ripreso il percorso siamo ritornati a fare un tuffo nella religione del passato con la visita alle varie chiese rupestri del Tigray. Ci hanno detto che erano ben 120, tutte abbarbicate sui picchi montani, posizionate negli anfratti più sperduti, celate dalla vegetazione o mimetizzate tra le rocce.. si stagliavano in tutta la loro magnificenza!.

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Attraverso una lunga scalinata siamo arrivati alla prima chiesa, quella di Abraha Atsbeba fondata appunto dai due re che le avevano dato anche il nome. Caratteristica per il suo lineare porticato, la chiesa ospitava anche, al suo interno, una scatola di legno in cui erano apparentemente stati riposti i corpi mummificati dell'imperatore Abreha e di suo fratello Atsbeha, la cui madre era nativa di questa regione.

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Appena sono entrata sono rimasta affascinata dalla bellezza dei dipinti sulle pareti e sul soffitto.. purtroppo molti erano rovinati e non c’era abbastanza luce per poterli ammirare bene, eppure erano suggestivi… raccontavano storie legate alle vicende della religione in Etiopia.

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La seconda chiesa rupestre che siamo andati a visitare, Chirkos a Wukro, era più accessibile, dedicata al martire bambino Quirico di Tarso, appariva solitaria, sperduta tra le falesie, circondata da una sconfinata distesa d’ignoto, ed era suggestiva nel suo evidente abbandono.

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Pareti e soffitti della chiesa mostravano infatti segni di danni da incendio, attribuiti, secondo la tradizione locale, ad un sacco nel XVI secolo da parte di un Iman. Il sagrato comprendeva inoltre i resti di alcuni italiani che erano stati interrati durante il tempo della loro occupazione.

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Abbiamo poi raggiunto Adrigat il cui nome significava “Paese dei Campi” poiché giaceva in mezzo ad una fertile conca, tutta circondata da alte Ambe… appena arrivati abbiamo subito notato l’evidente contrasto tra le povere casupole della città e la lussuosa, ricca, imponente chiesa cattolica da poco costruita.

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In questa località del Tigray era impossibile non andare a visitare il sacrario dei caduti italiani, infatti durante la guerra d’Abissinia la città fu occupata dal generale Barattieri e sostenne per due lunghi mesi l’assedio degli Abissini, nonostante una grave epidemia di tifo.. furono molti i caduti, ma alla fine la città fu liberata dal generale Baldissera che diede vita alla colonia d’Eritrea.

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Dopo questo tuffo nella storia recente abbiamo proseguito il nostro viaggio sempre verso nord attraversando il suggestivo, panoramico paesaggio sconfinato etiope. Era bello il percorso attraverso quelle lontananze che sembravano estendersi oltre la linea dei monti, delle Ambe, in quei paesi così diversi da noi che ci facevano emozionare scoprendo sempre nuove immagini, vivendo nuovi incontri, apprezzando ogni angolo che appariva dopo una curva.

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Era bello viaggiare, mi sentivo in totale sintonia con quella natura così varia, che intervallava morbide vallate, a picchi aspri, forti e inaccessibili, che mi incantava quando alzavo lo sguardo verso una falesia e lo allungavo su, sempre più in alto, verso il cielo azzurro che sembrava vegliare e proteggere quelle meraviglie naturali.

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E così sono arrivata al solitario e romito monastero di Debre Damos, costruito in cima ad una rupe, uno dei meno accessibili tra tutte le chiese rupestri, il più antico d’Etiopia.. risalente forse al VI secolo d. C., costruito in puro stile axumita. Si trovava su un’Amba, cioè sulla sommità piatta di un monte e noi abbiamo raggiunto solo la base dopo aver arrancato attraverso un viottolo sassoso e ripido.

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Il mio sogno di vedere il monastero è però fallito miseramente perché la sacra chiesa era raggiungibile solo arrampicandosi tramite una corda.. servivano dunque mani e piedi e braccia robuste.. a questo punto tutti gli uomini, dato che alle donne era vietato l’accesso, in fila, uno dopo l’altro tentarono di issarsi come dei Tarzan.. chi riusciva, era aiutato poi da un forzuto monaco che con un poderoso strattone lo trascinava per lo sforzo finale!

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Seduta su una pietra ho guardato gli incredibili e spesso infruttuosi sforzi dei miei compagni di viaggio per salire in quel luogo sacro e isolato, in quel mondo autonomo dove giovani e vecchi sacerdoti vivevano ancora coltivando la terra e pascolando il poco gregge così da non scendere mai o quasi mai a valle.

Ho anche ripercorso la storia della nascita di Debre Damo che era centrata sui “Nove Santi” venuti dalla Siria in Etiopia per diffondere il cristianesimo proprio nella regione del Tigray.

Uno di loro, San Abuma Aregawi aveva scelto come luogo di preghiera il monte di Debre Damo e vi aveva costruito una chiesa… la leggenda narrava anche che fosse stato aiutato da un serpente per inerpicarsi.

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Dopo questa esperienza negata alle donne, il giorno dopo abbiamo ripreso il nostro viaggio avventura… ci aspettava la sosta a Yeha per visitare il Grande Tempio precristiano, forse uno dei più antichi edifici “in piedi” in Etiopia risalente probabilmente al 700 a.C. Il tempio era il luogo di culto delle prime religioni della zona.. sono stati trovati infatti alcuni reperti ebraici che attestavano forse la discendenza da re Salomone e dalla regina di Saba.

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In seguito il tempio è stato anche utilizzato nel VI secolo d.C. come chiesa cristiana e questo spiegherebbe il fatto di essersi conservato decentemente fino ad oggi. La costruzione era decisamente imponente, maestosa… alcuni blocchi di arenaria erano lunghi più di tre metri, uniti tra loro con una tale perfezione da non poterci infilare nemmeno una monetina da 5 centesimi!

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Dopo Yeha siamo arrivati ad Axum e prima di addentrarci nella città, abbiamo fatto una digressione per visitare Dongar ed ammirare ciò che restava del grandioso palazzo attribuito, dalla leggenda, alla regina di Saba. Sarà stato veramente suo?

Storia e leggenda avvolgevano la vita di quella grande regina.. ultimamente alcuni storici avevano però affermato che il “Palazzo della regina di Saba” era “il tipo di abitazione che un prospero axumita, forse un nobile o un alto funzionario del IV secolo d.C. potrebbe avere costruito per se stesso”, ma io preferivo immaginare il contrario e vedere con la fantasia la mitica e bella regina salire quella scalinata.. (l’unica che pareva restare in piedi) ed entrare nelle sue stanze seguita da uno stuolo di ancelle fedeli…. sognando forse il suo amato Salomone!

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L’ultima tappa di questo viaggio prima di tornare ad Addis Abeba è stata nella città di Axum, molto importante per essere stata la capitale del Regno di Axum nel periodo attorno alla nascita di Cristo, poi è declinata verso il XII secolo a causa del nascente impero etiopico sorto più a sud. Ci siamo subito diretti al Parco delle Stele, veramente impressionante.. in nessuna civiltà si erano mai intagliati nella viva roccia, scolpiti ed eretti simili blocchi di pietra.

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La Stele più importante raggiungeva i 33 metri di altezza e superava persino l’obelisco di Hatshepsut a Karnak. Quasi tutti quei monoliti poggiavano su un basamento di granito, costellato da piccole cavità, probabilmente destinate a raccogliere offerte.

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Sulla prima fascia poi era scolpita una finta porta fornita addirittura di chiavistello per ingannare l’osservatore.. ma aldilà non c’era che il pieno assoluto, anche se era bello pensare che forse proprio quella finta porta potesse, magicamente, aprirsi sul passato e svelare misteri, miti e leggende di un popolo che non esisteva più. Si susseguivano poi una decina di piani decorati da false finestrelle.. la stele poi si assottigliava man mano che saliva e l’insieme pareva evocare una specie di grattacielo!

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Guardandomi intorno vedevo parecchie stele risollevate… ma altre giacevano ancora a terra, spaccate in più punti. Questi singolari monumenti erano forse a destinazione funebre, usati come pietre tombali, ma alcuni archeologi hanno ipotizzato che la maggior parte di essi avevano un carattere commemorativo… innalzati in onore dei sovrani locali.

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Le stele di Axum servivano a mostrare al mondo l’autorità, il potere o la munificenza delle famiglie regnanti. Tra le memorie di quel regno antico e potente, bellissima era la snella stele di re Ezana, finemente incisa come un casa-torre, che si innalzava, per 24 metri, in quel cielo blu cobalto, con i suoi nove piani, scolpita in un unico pezzo di granito, la cui cima aveva la caratteristica forma di testa di scimmia.

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In quello stupendo parco gli obelischi si sprecavano ciascuno con forma diversa e spesso anche stravagante come uno dei tanti, di cui non ricordo la denominazione, largo e piatto come una sogliola! La conformazione delle stele era tuttora avvolta nel mistero, infatti nessuno finora era ancora riuscito a capire il significato simbolico del loro diverso aspetto.

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Lasciato il parco delle stele siamo andati a scoprire quella che veniva chiamata la “Piscina della regina di Saba”, dove certamente la regina non avrebbe neanche messo piede.. un bacino d’acqua verdastra un po’ fatiscente e limacciosa che però veniva raccolta dai locali.. forse per abbeverare gli animali.

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Nei dintorni poi di questa cittadina sonnolenta e tranquilla, a dispetto del glorioso passato, abbiamo visitato una zona archeologica di grande interesse, il palazzo di re Kaleb, che è stato l’ultimo grande re axumita, abbarbicato su una collinetta da cui potevamo godere una bella visione panoramica su tutta la valle sottostante fino alle montagne che si stagliavano all’orizzonte.

Il palazzo, purtroppo, era ormai inesistente, invece piuttosto interessante era l’adiacente necropoli con le tombe sotterranee, ormai vuote, abitate solo da pipistrelli, a cui si accedeva attraverso ripidi e malconci gradini di pietra.

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A breve distanza dal parco delle stele si trovava la Chiesa di Santa Maria di Sion, la nuova chiesa ortodossa di Axum, enorme, fondata da Hailè Selassiè.. una chiesa che mi ricordava la forma di una cipolla di dimensioni colossali.

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Al suo interno si potevano ammirare alcuni interessanti dipinti ma soprattutto il prezioso, antico libro del Vecchio Testamento, un gioiello d’arte per le sue raffigurazioni eccezionali e ben conservate.

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Accanto alla nuova chiesa sorgeva la vecchia chiesa di Santa Maria di Sion, dove non era possibile entrare, forse perché, secondo la tradizione copta, che sfociava in leggenda, si custodiva la mitica e leggendaria Arca dell’Alleanza con i frammenti delle Tavole della Legge trafugate da Gerusalemme da Menelik, il figlio della regina di Saba e di re Salomone.

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Ormai il nostro viaggio si era concluso, ritornati ad Addis Abeba rimanevano ancora negli occhi e nel cuore le distese di una natura sconfinata, selvaggia e primordiale che mi era congeniale, culla di mille etnie dalle forti tradizioni.. tutto ciò che è bello, che abbiamo vissuto intensamente, passa velocemente…

...i giorni sfuggono tra i giorni.. ma perché non si può qualche volta bloccare il tempo? Per fortuna esistono i ricordi che si possono distillare in emozioni.

La vita è bellezza, custodita dentro un guscio di mondo e i viaggi la ravvivano sempre e la svelano.. ebbene proprio per questo è veramente necessario che tutti i nostri sogni impregnino sempre, ma sempre, la nostra volontà di vedere e di scoprire nuovi posti, nuove realtà.

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“L'Etiopia è l'ultima delle terre abitate. Da qui in poi tutta la regione che corre verso oriente è deserta. Né alcuno è in grado di dire di quale natura essa sia” (Erodoto)