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Diario di Viaggio in Bolivia Una terra da scoprire.. dal caldo delle pianure al gelo surreale delle Ande “Viaggiare è passeggiare in un sogno” ha scritto Manuel Lequineche e allora perché non sognare ancora e sempre con viaggi che danno la possibilità di venire a contatto con realtà tali da lasciare echi e ricordi meravigliosi? Il viaggio rappresenta “la misura del bisogno d’altro.. bisogno di conoscenza, stupore, diversità” e poi raccontarlo diventa ancora più gratificante perché risveglia curiosità ed emozione! È bello condividere la bellezza di luoghi vastissimi e anche l’originalità di angoli pittoreschi, sperduti nel mondo, luoghi che possono diventare parte di noi stessi.. luoghi dove noi possiamo lasciare una traccia, ma anche luoghi che lasciano una traccia indelebile nel nostro animo.

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“Viaggiare è passeggiare in un sogno” ha scritto Manuel Lequineche e allora perché non sognare ancora e sempre con viaggi che danno la possibilità di venire a contatto con realtà tali da lasciare echi e ricordi meravigliosi?

Il viaggio rappresenta “la misura del bisogno d’altro.. bisogno di conoscenza, stupore, diversità” e poi raccontarlo diventa ancora più gratificante perché risveglia curiosità ed emozione!

È bello condividere la bellezza di luoghi vastissimi e anche l’originalità di angoli pittoreschi, sperduti nel mondo, luoghi che possono diventare parte di noi stessi.. luoghi dove noi possiamo lasciare una traccia, ma anche luoghi che lasciano una traccia indelebile nel nostro animo.

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Per questo quando mi si è prospettata l’opportunità di un viaggio in Bolivia con un piccolo gruppo.. non ho esitato. La mia avventura in quella nazione definita “il tetto d’America”, in quel paese spesso dimenticato, di giungla, polvere e ghiacci, che sembrava innalzarsi, con ampi gradini naturali, verso il sole… mi aspettava!

E così sono partita, pronta a vivere altre esperienze ed altre emozioni.

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Sono approdata come prima tappa a Santa Cruz de la Sierra, per iniziare quello che veniva chiamato “il Circuito delle Missioni” dei Gesuiti e di conseguenza iniziare anche a comprendere la storia e l’arte degli indios Chiquitanos.

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Santa Cruz, situata nella parte orientale del paese si trovava a soli 400 metri sul livello del mare.. questo fatto la rendeva diversa dalla maggior parte delle altre città boliviane tutte situate ad alta quota nella Cordigliera delle Ande!

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Prima di visitare il centro antico con i suoi monumenti più importanti ci siamo diretti al giardino zoologico, nel famoso Parque Arenal, un luogo immerso nel verde, fresco e tranquillo, di particolare interesse perché abitato esclusivamente dalla fauna nazionale, ben 2300 esemplari che vivevano in uno spazio di 66.000 mq, alcuni, per fortuna, in uno stato di semi libertà.

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A dire il vero io non amo gli zoo.. vedere animali in gabbia, anche se ben tenuti e curati, mi rende triste.. aprirei le gabbie e darei loro la tanto sospirata libertà..

Ciononostante è stato ugualmente simpatico guardare i pigri bradipi che si stiravano mollemente, che facevano toeletta o strisciavano sul selciato, incuranti di coloro che ambivano fotografarli.

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La visita della città a piedi mi è piaciuta: a Santa Cruz de la Sierra si respirava l’atmosfera di una piccola città di frontiera con i bei palazzi coloniali, le piazze tranquille, la gente comunicativa e all’apparenza serena..

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...siamo così arrivati al cuore del vecchio centro o “Casco Viejo”, in Piazza 24 de Septiembre, dove si trovava il monumento più importante della città, la cattedrale chiamata “Basilica Menor de San Lorenzo”, risalente al 1605, al tempo di Francisco de Toledo vicerè del Perù.. Purtroppo negli anni successivi, è stata da arcivescovi e governatori, più volte ricostruita fino ad arrivare, alla fine del XIX secolo, alla sua completa ristrutturazione.

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La chiesa, in stile ovviamente eclettico mi è apparsa in tutta la sua imponenza esteriore, troppo moderna, spoglia e anonima anche se all’interno, conservava, in parte, le decorazioni in legno che rivestivano l’altare nella doratura originaria e quattro sculture provenienti da una missione gesuitica, quella di San Pedro.

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A questo punto ho preferito passeggiare nella piazza e curiosare.. Davanti alla cattedrale, sedute per terra, sostavano mendicanti, venditrici, nel loro costume tradizionale e anche se dimesse nell’atteggiamento, creavano una nota di colore.

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Ho osservato le donne dai tratti molto simili alle peruviane: zigomi alti, volti squadrati, bruciati dal sole, vecchi prima del tempo, donne di ogni età dai capelli corvini acconciati spesso in lunghe trecce…

...alcune mi guardavano prima serie, poi sorridenti, serene, con la dolcezza negli occhi… sembravano dirmi che il mondo era in fondo imperfetto, ma le cui carenze andavano perdonate.. facendo appello alla condiscendenza..

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La mattina dopo, con lo spirito dei veri pellegrini, siamo partiti alla volta delle Misiones Jesuìticas de Chiquitos, attraverso un itinerario che non doveva essere solo culturale, ma anche importante per capire un periodo della storia della Chiesa.

Durante il tragitto tra pianure lussureggianti e rigogliose, la guida ci ha spiegato che fra la fine del ‘600 e il ‘700 i Gesuiti avevano fondato nella savana pianeggiante a nord-ovest di Santa Cruz dieci “Reducciones”, secondo un modello ispirato al socialismo religioso, assecondando le tradizioni indigene…

Era in fondo una pagina della conquista, ma nello stesso tempo un tentativo per costruire una società fondata sull’incontro tra due culture, quella europea-cristiana e quella degli indios..

Poi intorno alla seconda metà del 1700 il re Carlo III, temendo l’eccessivo potere dei Gesuiti ordinò la loro espulsione dai territori spagnoli e.. di conseguenza le missioni decaddero!

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Siamo così arrivati a Conception, un punto importante per il percorso delle “misiones”, dove sorgeva la missione più grande.. siamo entrati mentre si stava celebrando una messa cantata.. l’interno, gremito di folla vestita a festa, mi è apparso molto appesantito dal restauro eccessivo, dall’oro degli altari.. ma la fede delle persone era intensa e commovente.

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Solo il giorno dopo abbiamo iniziato il vero e proprio circuito partendo dalla missione di San Miguel.. bisogna dire che la struttura di queste antiche missioni era pressoché identica nella pianta degli antichi villaggi: davanti alla chiesa si apriva la grande piazza quadrata con una croce al centro che spiccava tra gli alberi fioriti e le alte palme.

La chiesa sorgeva su un lato con il collegio e la casa dei Padri, gli edifici pubblici, il cimitero, gli orti e i laboratori… la missione doveva essere autosufficiente per cui disponeva anche di magazzini accanto alle varie abitazioni degli indigeni.

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Come tutte le altre chiese, anche quella di San Miguel è stata costruita nel 1721 da abili artigiani locali, ovviamente sotto il controllo dei Gesuiti, ed è un esempio originale di fusione tra stile barocco centroeuropeo e creatività indigena!

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Mi ha molto colpito, nella luce del mattino, il piccolo campanile, quasi in miniatura, isolato, e la facciata decorata in modo elaborato che contrastava con l’interno in legno abbastanza essenziale e semplice.

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La piccola chiesa ormai lontana dalla frenetica attività agricola voluta dai Gesuiti si ergeva solitaria, avvolta da un’atmosfera di pace… bella in quella campagna inondata da un’esplosione di colore, circondata da una serie pittoresca di germogli in fiore che si stagliavano nell’intenso azzurro del cielo!

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Dopo San Miguel ci siamo diretti verso San Rafael de Velasco, un’altra missione, una delle più antiche, fondata addirittura nel 1696 e completata nel 1740.. la struttura, anch’essa bella e pittoresca, era l’unica ad aver mantenuto la struttura originale della navata con i rivestimenti di canne.

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Originali anche i porticati con le colonne a torciglione intagliate in tronchi di “cuchi” (legno di carpine), il pulpito, coperto da uno strato di mica lucente.

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Gli elementi di maggior interesse mi sono apparsi poi i deliziosi dipinti a soggetto musicale, inneggianti alla gloria di Dio, l'altare in prezioso stile barocco e, ovviamente, la torre campanaria che in tutte le missioni è sempre esterna.

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La terza missione visitata è stata quella di Santa Ana, inserita nella povertà polverosa di un minuscolo villaggio chiquitano, in un’atmosfera bucolica..

...qui, calpestando quel rustico pavimento in terra battuta, mi sono sentita avvolta da un totale mistico silenzio, quasi un’atmosfera di “siesta”.

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L’interno era particolarmente bello con dipinti originali, di squisita fattura, oggetti d’arte in legno rimasti intatti, nonostante il passare del tempo.

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Alzando poi gli occhi vedevo il tetto a fronde di palma e cercavo di immaginare l’arrivo dei combattivi, potenti gesuiti, animati dalla fede, dal desiderio di convertire in qualsiasi modo al cattolicesimo, a contatto con una popolazione indigena che non li capiva e che non li avrebbe voluti…

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La più grande chiesa era però quella della Missione di San Ignacio, dove ci siamo diretti in seguito.

Fondata nel 1748 oltre ad essere maestosa era anche la più ricca di tutte, praticamente la “capitale” e il centro commerciale di tutte le missioni gesuitiche... però dell’edificio originario, compreso il cortile interno, era rimasto ben poco a causa delle continue moderne ristrutturazioni.

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Ricordo con particolare emozione, di aver assistito ad un suggestivo, dolce canto corale che alcune ragazze del paese stavano provando davanti all’altare, in vista della messa solenne che si sarebbe celebrata la sera… era un coro di voci bianche, argentine..

...tutte le fanciulle erano serie, comprese nella loro missione musicale e devo dire che ho provato una sorta di tenerezza nei loro confronti, di ammirazione per la loro fede semplice e sincera!

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A San Ignacio una caratteristica originale, con effetto suggestivo, era data anche dalle grandi croci in legno, più o meno elaborate, collocate o agli incroci delle strade o al centro delle piazze. In contrasto assoluto c'erano poi delle inverosimili e buffe cabine telefoniche a forma di animali!

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Sulla via del ritorno a Santa Cruz mentre i terreni coltivati e gli appezzamenti agricoli lasciavano il posto alle foreste e alla boscaglia incolta, ci siamo fermati ad ammirare delle particolari formazioni rocciose geologicamente chiamate “Escudo Brasileño”, risalenti addirittura ad una parte del primitivo supercontinente del Gondwana, e curiosamente decorate con lo stemma dei Conquistadores.

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Poi abbiamo proseguito fino a San Javier, fondata nel 1692, la più antica e ultima missione del circuito che abbiamo visitato… La chiesa con il suo bell’altare originale ed i pilastri in legno mi è piaciuta anche perché, a differenza delle altre, sorgeva su un pendio boscoso e godeva di una vista panoramica sulle colline circostanti e sulla vallata.

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Arrivati infine a Santa Cruz ci aspettava l’aereo che ci avrebbe condotto a La Paz, dove siamo sbarcati un po’ frastornati per lo sbalzo immediato di altitudine. A questo punto devo dire che l’arrivo in aereo a La Paz, al di là di un certo normale malessere fisico, è stata un’esperienza unica.. l’emozione di scendere nell’aeroporto più alto del mondo, a ben 4000 metri, nell’immensità arida dell’altopiano .. era indescrivibile.

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La città ci è apparsa, in un primo momento, quasi invisibile, abbarbicata su un dirupo scosceso, al riparo dai venti, sovrastata dalla massa montuosa dell’Illimani (6402 metri), che gli indios veneravano ancora come una divinità! Poi, pian piano ci è apparsa nella sua interezza “panoramica”, immensa, estesa in un terreno digradante che copriva un dislivello, ci hanno detto, di 700 metri.

Il centro era situato a mezza costa, mentre i quartieri residenziali veri e propri, molto più in basso… lo storico spagnolo del XVI secolo, Cieza de Leòn disse già allora che “era un ottimo luogo dove trascorrere l’esistenza. Il clima mite e la vista delle montagne ispirava a rivolgere il pensiero a Dio!”

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Quando il giorno successivo, dopo il difficile acclimatamento all’altitudine, abbiamo iniziato la visita della città, abbiamo notato subito che solo poche strette strade acciottolate e qualche chiesa avevano mantenuto il fascino dell’epoca coloniale della La Paz delle origini.

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Le chiese ovviamente occupavano un posto importante nella visita della città.. la più artistica mi è apparsa la basilica di San Francisco iniziata nel 1548 da frate Francisco de los Angeles e terminata addirittura nel 1700..

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...essa spiccava nella colorita piazza omonima con la sua bella facciata, un notevole esempio di barocco andino, sintesi dell’architettura spagnola e della fantasia ricca di creatività degli indios che avevano inserito i loro motivi decorativi tradizionali.

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Poi c’era l’immensa Cattedrale, in Plaza Murillo.. una struttura impressionante per la sua suggestiva posizione su un ripido pendio, per la sua imponente cupola, per le possenti colonne negli altissimi soffitti, per le spesse mura di pietra e poi per la profusione di vetrate istoriate ...insomma per tutta la grandiosità dell’insieme..

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Ma al di là della maestosità delle chiese, della ricchezza dei musei che ovviamente andavano sempre visitati, se c’era spazio e tempo.. a me è piaciuto molto percorrere a piedi le ripide strade dei quartieri popolari, in particolare intorno alla Calle Sagàrnaga, una delle più pittoresche e vivaci di tutto il quartiere..

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...qui si era sviluppato un insolito mercato chiamato “de Hechicerìa o Mercado de los Brujos” (degli stregoni).

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Infinite erano le bancarelle, i negozietti dove le indios, nei loro costumi tradizionali, vendevano preziosi amuleti di benevole divinità della terra, raccolte in minuscoli sacchetti che non dovevano essere aperti, erbe colorate, semi particolari che servivano per ogni male..

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...giravano anche strane persone.. gli Yatiri o stregoni ambulanti, pronti ad offrire i loro servizi di chiaroveggenza.

Devo confessare che anche io, ottimista per natura, e un po’ credulona, ho comperato il sacchettino di amuleti e la statuina di Pachamama, la madre terra, per il solo piacere di potermi abbandonare a sogni di un’insperata fortuna!

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Tutta la zona più antica sembrava un immenso mercato all’aperto, vivo, chiassoso, con bancarelle ricolme di spezie e frutti tropicali che si alternavano ad altre su cui spiccavano pesanti maglioni di lana di lama, berretti e sciarpe coloratissime.

Qui si poteva incontrare gente di ogni tipo ed era molto piacevole osservare il ritmo della vita locale, le contrattazioni, i sorrisi e gli inviti a comunicare.

In altre vie della parte vecchia, sempre in salita o in discesa, osservando dall’alto i balconi e le tegole arrotondate sembrava quasi di essere in Andalusia: le costruzioni erano disposte a ripiani, lungo i versanti scoscesi che circondavano la città.

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Ma il tempo stringeva e il resto della Bolivia ci aspettava, per cui siamo partiti alla volta di Oruro, l’unica città della fredda landa desolata dell’altipiano meridionale, capoluogo della provincia di Cercado, dove siamo arrivati in tarda serata dopo più di tre ore di un difficile viaggio.

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Il nome della città derivava dagli Uros, una popolazione famosa per la lavorazione della ceramica, e solo nel 1585 Don Francisco de Mediano la battezzò con il nome di San Miguel de Oruro.

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Ricordo che, in quel paese freddo, abbandonato, ho avvertito tutte le difficoltà fisiche dell’altitudine, e di conseguenza anche la solitudine aspra del luogo, per cui con piacere, dopo una notte in uno spartano rifugio, il giorno dopo, sono salita su malandate e vecchie jeep alla volta di Uyuni .

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Il viaggio di trasbordo verso i salares, una delle zone che a detta di tutti era tra le più spettacolari della Bolivia, è durato ben dieci ore e… alquanto massacrante.. ma l’arrivo in quel magico paradiso ha compensato la fatica ed ha cancellato la stanchezza.

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Sotto un cielo terso, con solo un piccolo gregge di nuvole, simili a vele, che punteggiava l’orizzonte, ci siamo trovati di fronte ad un enorme immenso, incredibile deserto di sale, un deserto di 12000 kmq, la più grande distesa salata del mondo a 3650 metri di quota!

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Circa 40.000 anni fa il salar de Uyuni faceva parte del Lago Minchin, un gigantesco lago preistorico. Quando poi il lago si prosciugò si formarono i due deserti salati, quello di Coipasa e il gigantesco Salar de Uyuni.. una vera e propria magia… una spettacolare, abbagliante superficie di salgemma, galleggiante nell’infinito spazio.

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In quella vasta pianura compatta, ogni tanto, si formavano piccoli specchi d’acqua calda che ribollivano naturalmente… qui si rifletteva, alla perfezione, il cielo blu cobalto dell’altipiano e l’atmosfera diventava veramente suggestiva.

Secondo le leggende Inca, nel deserto c’erano questi Ojos de Salar (occhi del deserto di sale) che inghiottivano le carovane di passaggio…

...si trattava appunto di buchi nella superficie salata dai quali usciva l’acqua sottostante, che in certe condizioni di luce accecante erano quasi invisibili, diventando molto pericolosi.

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Ho camminato un po’ frastornata poggiando i piedi su quella distesa bianchissima… l’emozione, oltre al mucho frìo, era indescrivibile, mi circondava un silenzio surreale che rendeva il luogo ancora più magico… l’orizzonte era pressoché invisibile dato che rappresentava il punto di congiunzione tra cielo e terra!

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Proprio ai bordi dell’immensa salina abbiamo scoperto l’hotel Playa Blanca, originalissimo, incredibile, costruito interamente con blocchi di sale.. a parte il tetto di paglia, i tavoli, le sedie, i letti.. tutto era stato scolpito nel sale, per i turisti in cerca di emozione!

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Nel cuore del Salar de Uyuni ci siamo diretti verso l’Isla del Pescado, (isola del pesce), un caratteristico isolotto, la cui forma ricordava un pesce, che raggiungeva i 102 metri di altezza, dalla superficie del deserto di sale. L’altura, un misto di sedimenti calcarei marini e materiale vulcanico, era coperta di cactus giganteschi simili a solerti guardiani e da una miriade di alberi spinosi.

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L’isola spiccava, quasi soprannaturale e metafisica, nel pianeggiante bianco mare delle mattonelle di sale dalla forma esagonale che la circondavano!

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Mi sono guardata intorno… da quella piccola collinetta spinosa potevo allungare lo sguardo fino all’orizzonte.

Mi sentivo sopraffatta non solo da quel paesaggio extraterrestre, ma anche da quel cielo sterminato, lucente, con piccole nuvole evanescenti che andavano a cozzare l’una contro l’altra nell’intenso blu.

Ho cercato di respirare profondamente quell’aria sottile e pungente, l’altitudine dei 4000 metri, mi dava un leggero mal di testa, ma l’atmosfera era talmente bella che avrei voluto poterla gustare ancora e.. ancora!

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Abbiamo invece ripreso le nostre scassate jeep e siamo arrivati a San Juan, un povero paese con quattro case, tra cui uno spartano ostello, dove abbiamo trascorso la notte, un paese sperduto in una landa arida e deserta.. un panorama decisamente diverso da quello che avevo gustato in precedenza!

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Ricordo però una graziosa chiesetta con il tetto di paglia, circondata da un caratteristico cimitero boliviano.. immersa nella più assoluta solitudine, mi sembrava che, oltre che sola, fosse anche un po’ smarrita, eppure aveva una funzione importante.. quella di unire nella fede e nella speranza un popolo che mi dava l’impressione di essere molto, ma molto povero.

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Dopo aver perlustrato la landa e le quattro case, ci siamo goduti il primo tramonto ad alta quota: la sera era trasparente come il cristallo, il sole ardeva sangue e fiamme arancione. La natura esplodeva nel suo aspetto migliore in una sinfonia visiva orchestrata nel cielo e riflessa su quel terreno brullo, sulla landa, sulle cime delle alte montagne.. mi sono persa a quella vista ed ho cercato di assorbire tanta bellezza e di dimenticare i momentanei disagi..

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Poi, dato il freddo pungente, ci siamo tutti rifugiati nella camerata dell’ostello-rifugio e ci siamo preparati a trascorrere la notte…

Ricordo che avvolta nel sacco a pelo e in cento strati di maglioni, nel buio più totale, insieme ad altre 18 persone, ho ascoltato il sospiro del vento che filtrava tra le fessure delle finestre e quando all’alba mi sono svegliata, ho guardato, come una benedizione, i primi spiragli di luce apparire tra le persiane e pian piano farsi sempre più chiari..

...e allora, con un immenso piacere, siamo saliti sulle jeep scassate, che dopo le difficoltà del rifugio, sono sembrate a tutti delle fuoriserie, e ci siamo diretti verso le favolose lagune ad alta quota.

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Attorno a San Juan si estendeva la catena montuosa dei vari vulcani... Alcuni apparivano brulli, altri erano incappucciati da un lieve strato di neve, uno spettacolo incredibile.

Il vulcano Ollangue arrivava addirittura a 5.000 metri di altezza!

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A pochi km sempre da San Juan ci siamo fermati nel sito archeologico delle chullpas, abbiamo percorso un tratto in salita, una vera e propria scarpinata, per andare a scoprire quelle antiche formazioni geologiche utilizzate dalla cultura aymara… le chullpas erano delle tombe Inca che custodivano delle mummie con il loro corredo funerario. Quel luogo, pur nel degrado e nelle varie profanazioni, manteneva ancora un certo aspetto originale con qualche ossa e molti teschi! L’atmosfera intorno era però poco invitante per i vivi.. arida, sassosa, brulla, fredda e anche ventosa, per cui siamo scesi velocemente e ci siamo diretti verso le più pittoresche lagune.

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Dopo i siti deserti e desolati delle Chullpas è iniziata la serie delle bellissime lagune in territori ad alta quota sempre più impervi. Ricordo la Laguna Canapa dove si incominciavano ad intravedere alcuni fenicotteri rosa.

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Poi la Laguna Charkata, immensa a dir poco meravigliosa, incorniciata da superbi rilievi montuosi.

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Arrivati alla laguna Hedionda, ricca di minerali cristallini che brillavano alla luce del sole, abbiamo visto con stupore migliaia di fenicotteri rosa che si esibivano, sembrava proprio per noi, in una originale “danza nuziale”, composta di salti, corse e grida stridule..

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...prima si erano messi tutti in cerchio, uniti appassionatamente, poi si erano divisi, distanziandosi come esperti ballerini... nel frattempo starnazzavano e continuavano ad avanzare ed indietreggiare con un ritmo uguale e sincronico… nessuno andava fuori tempo!

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Nonostante il freddo polare e il gelido vento, non ci stancavamo di ammirarli, sembravano umani e ci stavano trasmettendo il piacere di vivere, di divertirsi, di essere felici. I fenicotteri rosa erano comuni in queste alte e desolate regioni e li abbiamo trovati anche in altre lagune.. una più pittoresca dell’altra..

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Abbiamo proseguito il nostro viaggio e devo dire che quel paesaggio ad alta quota era un susseguirsi di immagini mozzafiato, dai colori unici resi vivi dall’aria limpida, frizzante e rarefatta.. se poi si aggiungeva la cornice delle montagne con i vari vulcani (il Licancabur in primis), spesso velati da nuvolette impertinenti o incappucciati dalla neve...

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...avvertivamo tutta l’estensione, la totale solitudine di quella zona arida, selvaggia, tormentata da un vento che non perdonava… cercavamo di assorbire totalmente la bellezza, riparandoci dal freddo, dal gelo.. ci guardavamo con stupore, perché lo spettacolo bloccava ogni parola e cercavamo solo di entrare in sintonia con tutto ciò che ci circondava!

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E le lagune, procedendo verso il Cile, si caricavano di colori intensi, siamo arrivati alla Laguna Colorada con le sue acque rosso vivo dovute alle alghe e al plancton che crescevano rigogliosi, ci siamo avvicinati fino alle rive orlate di candidi e luccicanti depositi di sodio e magnesio..

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... l’atmosfera attorno a noi era avvolta da una specie di incantesimo… era tutto troppo bello! Frastornati dal vento e dal gelo ci sentivamo in un altro mondo e le banali, normali preoccupazioni dell’esistenza ci apparivano, in quel momento magico, futili e prive di significato.

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Poi ci siamo spostati alla Laguna Bianca, somigliante ad un’enorme chiazza lattea che si riempiva di acqua solo durante la stagione delle piogge..

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A questo punto del percorso, con una piccola deviazione ci siamo spostati a Sol de Manana dove un bacino dei geiger Basin, sparava al cielo acqua calda, getti di vapore, con tutta la sua energia, fino a 50 metri di altezza, un vapore intenso che copriva l’aria di umidità, caratterizzando laghi di lava e fango che ribollivano...

...pozze di origine geotermica, che potevano raggiungere addirittura i 200 gradi di temperatura...

...fumarole incredibili che surriscaldavano l’aria, contrastando visibilmente con il gelo dei 4850 metri di altitudine!

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L’atmosfera intorno era pervasa dal denso aroma dei fumi di zolfo.. un vero e proprio luogo infernale che incuteva timore, in cui la forza della natura non ammetteva confronti.. ci siamo allontanati per tornare alla bellezza delle più pittoresche lagune. questa p

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E siamo così arrivati alla Laguna Verde, a 5000 metri di altitudine, con i suoi meravigliosi riflessi blu, bianco e ovviamente verdi… la laguna era tormentata da un vento gelido che soffiava incessantemente facendo increspare le acque in una spuma bianca e verde. La colorazione verde, ci hanno spiegato, derivava dall’alta concentrazione di piombo, zolfo e carbonato di calcio!

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Dalla riva abbiamo ammirato in lontananza uno spettacolo esaltante.. sullo sfondo il vulcano Licancabur troneggiava maestoso, dominatore.. riuscivamo a mala pena a camminare, sospinti dal vento impetuoso, ma era tutto sempre molto emozionante e meraviglioso. Le lagune proseguivano infinite e non sempre ricordo il nome di tutte… erano comunque affascinanti, uniche sia nell’asprezza del paesaggio, sia nella dolcezza delle colorazioni…

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...il poeta boliviano Mendicaceli esprime in modo vivo questa bellezza: “Assomigliano ad un paesaggio dipinto da un’artista animato dal genio brillante di un Renoir… nella pacata aria diafana alita il sospiro di una grazia ridente!”

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Ed è con queste immagini che siamo arrivati al confine con il Cile ed abbiamo salutato la Bolivia con i suoi imponenti paesaggi, la sua severa bellezza, con i sorprendenti colori dei suoi laghi, delle lagune e dei deserti spazzati dai venti dell’altipiano Andino...

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Dicono che chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita.. come è vero! Le sensazioni, le gioie persino le difficoltà vissute si sono radicate così profondamente nell’animo che ne hanno segnato il cammino per sempre.

Ho raccontato, anche questa volta, un viaggio unico, bellissimo e spettacolare, servendomi di parole e immagini, frammentando una parte di mondo e ricostruendola… ho cercato di fare quello che, come dice Borges, riesce solo nei sogni: scomporre completamente l’universo e poi farlo rivivere come più ci piace, nel miglior modo possibile.

Spero di esserci riuscita!