VIAGGI | Sud America - Bolivia Cile Paesaggi e leggendebassi arbusti e grossi ciuffi di erba gialla...

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Avventure nel mondo 1 | 2014 - 27 ............................................................................. O ttobre 2013 Michelle-Li, mia figlia, quest’anno di 19 anni, ogni volta che parto mi consegna un disegno fatto da lei sulla prima pagina del mio taccuino, cosi lo trasforma in amuleto, in una sorta di talismano. In aereo apro il taccuino e con mia sorpresa trovo disegnato in rosa un fenicottero in volo con scritto: mio padre sempre in volo, poi, in uno spigolo della pagina, “torna presto”. Se non ora, quando? Vamos per il Sud America, inizia la mia transumanza. E’ autunno, lungo le solitarie spiagge Ioniche del mio sud, mentre la primavera è a pochi metri dalle nuvole, a La Paz. Nuestra Señora de La Paz, mi accoglie al mattino prestissimo con la luce bianca della luna. Sono passati 32 anni quando arrivai per la prima volta in Bolivia, allora il gruppo era capitanato da Rosaria Ferrauti, i veterani la ricordano come una giovane bionda romana forgiata nel ferro. Era uno dei primi “Camino Real” e portava tutto lo stile immacolato di “Avventure nel Mondo”. Niente prenotazioni anticipate, cellulari e posta elettronica era solo fantascienza.....insomma il viaggio si inventava all’arrivo, alla ricerca di uomini e mezzi e si dormiva nei sacchi a pelo, dove era possibile: nelle scuole, nelle stazioni ferroviarie, dove c’era una dimora abbandonata anche senza tetto, in piccoli alberghi senza tante pretese....... insomma si viaggiava con il cuore.........che bella invenzione.........un grazie va a Paolo e Vittorio. La Paz, La Paz, orgogliosa e coraggiosa, asimmetrica e tentacolare, che divora le colline, si espande senza argini, mattoncini rossi a perdita d’occhio con le casette non intonacate, tutto un sali scendi, oggi animata da gente proveniente da ogni parte del Paese con abiti coloratissimi, bombette verdi, nere e marroni portate da donne dalle lunghe trecce nere dalla forma rotonda e infagottata, il volto piatto e la pelle bruciata e dalle “polleras” gonne larghe, corte e variopinte indossate sopra diversi strati di sottovesti, nonché uomini con scialli quadrati, forgiati dal freddo e dal vento..... insomma “Bellisario” cos’è tutto questo, un mondo ancestrale o stai spolverando solamente un’ antico libro di antropologia!!!! Tutti gentili e pronti al sorriso, tutti per rendere omaggio a San Francesco e a Evo Morales, il presidente socialista di origine india ed esponente dei “cocaleros” i coltivatori di coca, per restituire terra, diritti e dignità alle popolazioni indigene contadine. In ogni muro di La Paz leggo: Evo si, Evo cumple, Evo, Gracias por tu obras. Oggi è anche giorno di mercato nella parte alta di La Paz, un intreccio di deliziosi respiri di “aymara” e “quechua”, i due principali gruppi etnici boliviani. Mi è difficile assegnare un’età alle donne che portano i bambini legati sulla schiena con drappi multicolore. Quanto è buona la “quinoa” che viene coltivata da oltre 5000 anni sugli altipiani pietrosi delle Ande, una sorta di riso locale, non di meno l’infuso di coca, come energetico e toccasana per problemi di altitudine.....insomma queste scene di mercato insieme al mio piccolo gruppo di alpinisti, che già voglio bene, verranno riesumate nella mente, quando avrò bisogno di scaldarmi nelle fredde giornate d’inverno. Lasciamo “Chuqiyapu” chiamata cosi dalla popolazione “Quechua” e “Aymara e percorriamo centinaia di chilometri in autobus; l’unica luce è quella della luna e dei fanali dell’autobus, fino a raggiungere la seconda città più alta del mondo, Potosi, a 4.067 metri sul livello del mare, quasi a toccare cielo e stelle con un dito. Potosí è regale, fu ricca come testimonia la sontuosità in decadenza dei palazzi, delle chiese, dei portoni finemente intarsiati, grazie al “Cerro Rico”, la montagna a punta che la sovrasta e che un tempo era ricolma di argento. Con l’argento estratto da questa montagna si potrebbe idealmente costruire un ponte tanto lungo da unire la Bolivia con la Spagna. Mentre il ponte di ritorno lo si potrebbe fare con le ossa dei minatori rimastici seppelliti dentro, come scrive con una immagine terribile ed efficace Eduardo Galeano, in “Le vene aperte del Sud America”. Le donne attendono alla finestra o sulle porte il rientro dei mariti e dei figli. Questa mattina insieme a Renatos, un ex minatore, che indossa il “ponchos” multicolore e a tracolla porta la “chulpas”, una borsa in tessuto contenente foglie di coca, equipaggiati con calzoni, giacca vento, caschetto, torcia e mascherina ci arrampichiamo su strette scale e arranchiamo sulle ginocchia strisciando per terra negli stretti cunicoli della miniera d’argento di “Cerro Rico”. Rimaniamo due ore sotto terra, al buio totale, con la sola luce degli elmetti dove incontriamo ragazzi giovanissimi che lavorano in condizioni di vita disumane, esposti a diversi agenti chimici e a gas velenosi quali polvere di silice, gas arsenico, vapori di acetilene. Un minatore, non molto giovane, sta in una strettoia con una gamba dritta, una flessa e la testa piegata sulla spalla, ha la guancia gonfia dalle foglie di coca che sta masticando per non sentire la fatica; sta martellando una parete di roccia per ricavare un buco di 20 cm in cui infilare la dinamite. Abbiamo comprato e offerto foglie di coca, tutti masticano di continuo foglie di coca, è l’unico modo Testo e fotografie di Salvatore Francesco Bellisario VIAGGI | Bolivia - Cile Paesaggi e leggende da un Bolivia Cile Breve – Gruppo Bellisario VIAGGI | Sud America - Bolivia Cile 01

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Ottobre 2013Michelle-Li, mia figlia, quest’anno di 19 anni, ogni volta che parto mi

consegna un disegno fatto da lei sulla prima pagina del mio taccuino, cosi lo trasforma in amuleto, in una sorta di talismano. In aereo apro il taccuino e con mia sorpresa trovo disegnato in rosa un fenicottero in volo con scritto: mio padre sempre in volo, poi, in uno spigolo della pagina, “torna presto”. Se non ora, quando? Vamos per il Sud America, inizia la mia transumanza. E’ autunno, lungo le solitarie spiagge Ioniche del mio sud, mentre la primavera è a pochi metri dalle nuvole, a La Paz. Nuestra Señora de La Paz, mi accoglie al mattino prestissimo con la luce bianca della luna. Sono passati 32 anni quando arrivai per la prima volta in Bolivia, allora il gruppo era capitanato da Rosaria Ferrauti, i veterani la ricordano come una giovane bionda romana forgiata nel ferro. Era uno dei primi “Camino Real” e portava tutto lo stile immacolato di “Avventure nel Mondo”. Niente prenotazioni anticipate, cellulari e posta elettronica era solo fantascienza.....insomma il viaggio si inventava all’arrivo, alla ricerca di uomini e mezzi e si dormiva nei sacchi a pelo, dove era possibile: nelle scuole, nelle stazioni ferroviarie, dove c’era una dimora abbandonata anche senza tetto, in piccoli alberghi senza tante pretese....... insomma si viaggiava con il cuore.........che bella invenzione.........un grazie va a Paolo e Vittorio. La Paz, La Paz, orgogliosa e coraggiosa, asimmetrica e tentacolare, che divora le colline, si espande senza argini, mattoncini rossi a perdita d’occhio con le casette non intonacate, tutto un sali scendi, oggi animata da gente proveniente da ogni parte del Paese con abiti coloratissimi, bombette verdi, nere e marroni portate da donne dalle lunghe trecce nere dalla forma rotonda e infagottata, il volto piatto e la pelle bruciata e dalle “polleras” gonne larghe, corte e variopinte indossate sopra diversi strati di sottovesti, nonché uomini con scialli quadrati, forgiati dal freddo e dal vento.....insomma “Bellisario” cos’è tutto questo, un mondo ancestrale o stai spolverando solamente un’ antico libro di antropologia!!!! Tutti gentili e pronti al sorriso, tutti per rendere omaggio a San Francesco e a Evo Morales, il presidente socialista di origine india ed esponente dei “cocaleros” i coltivatori di coca, per restituire terra, diritti e dignità alle popolazioni indigene contadine. In ogni muro di La Paz leggo: Evo si, Evo cumple, Evo, Gracias por tu obras. Oggi è anche giorno di mercato nella parte alta di

La Paz, un intreccio di deliziosi respiri di “aymara” e “quechua”, i due principali gruppi etnici boliviani. Mi è difficile assegnare un’età alle donne che portano i bambini legati sulla schiena con drappi multicolore. Quanto è buona la “quinoa” che viene coltivata da oltre 5000 anni sugli altipiani pietrosi delle Ande, una sorta di riso locale, non di meno l’infuso di coca, come energetico e toccasana per problemi di altitudine.....insomma queste scene di mercato insieme al mio piccolo gruppo di alpinisti, che già voglio bene, verranno riesumate nella mente, quando avrò bisogno di scaldarmi nelle fredde giornate d’inverno. Lasciamo “Chuqiyapu” chiamata cosi dalla popolazione “Quechua” e “Aymara e percorriamo centinaia di chilometri in autobus; l’unica luce è quella della luna e dei fanali dell’autobus, fino a raggiungere la seconda città più alta del mondo, Potosi, a 4.067 metri sul livello del mare, quasi a toccare cielo e stelle con un dito. Potosí è regale, fu ricca come testimonia la sontuosità in decadenza dei palazzi, delle chiese, dei portoni finemente intarsiati, grazie al “Cerro Rico”, la montagna a punta che la sovrasta e che un tempo era ricolma di argento. Con l’argento estratto da questa montagna si potrebbe idealmente costruire un ponte tanto lungo da unire la Bolivia con la Spagna. Mentre il ponte di ritorno lo si potrebbe fare con le ossa dei minatori rimastici seppelliti dentro, come scrive con una immagine terribile ed efficace Eduardo Galeano, in “Le vene aperte del Sud America”. Le donne attendono alla finestra o sulle porte il rientro dei mariti e dei figli. Questa mattina insieme a Renatos, un ex minatore, che indossa il “ponchos” multicolore e a tracolla porta la “chulpas”, una borsa in tessuto contenente foglie di coca, equipaggiati con calzoni, giacca vento, caschetto, torcia e mascherina ci arrampichiamo su strette scale e arranchiamo sulle ginocchia strisciando per terra negli stretti cunicoli della miniera d’argento di “Cerro Rico”. Rimaniamo due ore sotto terra, al buio totale, con la sola luce degli elmetti dove incontriamo ragazzi giovanissimi che lavorano in condizioni di vita disumane, esposti a diversi agenti chimici e a gas velenosi quali polvere di silice, gas arsenico, vapori di acetilene. Un minatore, non molto giovane, sta in una strettoia con una gamba dritta, una flessa e la testa piegata sulla spalla, ha la guancia gonfia dalle foglie di coca che sta masticando per non sentire la fatica; sta martellando una parete di roccia per ricavare un buco di 20 cm in cui infilare la dinamite. Abbiamo comprato e offerto foglie di coca, tutti masticano di continuo foglie di coca, è l’unico modo

Testo e fotografie di Salvatore Francesco Bellisario

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Paesaggi e leggendeda un Bolivia Cile Breve – Gruppo Bellisario

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Bolivia

per resistere fisicamente e mentalmente nelle viscere del “Cerro Rico”. Risalendo verso l’uscita, giungiamo in una grotta in cui è posizionata la statua del diavolo, ritenuto dai “mineros” il proprietario di ciò che loro estraggono dalle viscere della “Pacha mama”, la madre terra. Quando entrano in miniera, ci racconta Renatos, i minatori si prostrano di fronte alla statua e chiedono benevolenza e protezione, offrendo in cambio foglie di coca, alcool, e sigarette, perché non si porti via un altro minatore. Anche questa notte viaggiamo su un autobus locale, i chilometri sono tanti. In Bolivia l’infanzia tramonta presto. Questa notte, nel cuore della notte perché è l’una del mattino, durante un bus stop, la bambina che vedo dietro al bancone di una bottega, ha solo

quattro anni, e mi chiede un bolivar per fare uso del bagno, e io vedo la moneta passare dalla mia mano a quella della piccola che corre dietro al bancone con una bambola in mano. Passi veloci e solo tanta voglia di giocare. “Piccola bambina, tutta ninna nanna, ti porto con me nella città dei Balocchi, almeno per un giorno”.Vado via in silenzio, cercando di soffocare le grida di ribellione nella mia testa. Quando arriviamo a Tupiza le stelle paiono non volere lasciare nemmeno un angolo nero al cielo. “Buenos Dias Tupiza”, ben svegliata; distesa lungo le rive del fiume oggi il tuo cielo è di un manto azzurro-blu. Jachy, la nostra giovane guida nel giro alle “Quebradas”, mamma di 3 figli, indossa un pesante scialle di colore scuro con inserti colorati ed un curioso cappello cilindrico adornato da un pennacchio di lana. I “Quebradas” sono letti di fiumi in secca, costellati da canyon, crinali erosi da vento e pioggia, rocce multicolori dalle forme più disparate che evocano paesaggi ed atmosfera da Far West. Vamos; con un mini van 4x4 raggiungiamo la “Quebrada di Palmira”, un vallone creato dal letto in secca di un fiume

attorniato da rocce che variano dall’ocra al rosso, dal marrone al seppia, dal verde al blu, al grigio. Segue la “ Puerta del Diablo” con costoni rocciosi simili a lame di coltello che si ergono a lato del letto del fiume in una radura sassosa punteggiata di cactus ed arbusti; poco oltre, in un’ansa, la “Valle de Los Machos”, formazioni rocciose che ricordano i “Camini delle Fate” della Cappadocia. Rocce che di profilo fanno pensare a fortificazioni e dimore fiabesche di gnomi e maghi. Ci addentriamo a piedi fra le pareti strapiombanti del “canyon del Duende”. Jacky decide di portarci in un punto panoramico per consentirci di ammirare dall’alto le formazioni rocciose di “Toroyoj”, che si ergono lungo il corso del rio “S. Juan de Oro”; una è particolarmente curiosa, è chiamata “la Testa del Inca” per la straordinaria rassomiglianza con il volto di un essere umano. Nella vallata, alcuni condor volteggiano nel cielo azzurro alla ricerca di prede. E’ un continuo saliscendi tra colline rocciose ricoperte da bassi arbusti, giganteschi cactus, sperduti casolari, greggi di lama al pascolo, piccoli e polverosi villaggi dalle misere case in mattoni di terra e paglia. Coraggiose acacie vorrebbero scuotersi di dosso la polvere. Ci fermiamo a “La Poronga”, località che prende il nome da una roccia dalla forma fallica che si erge lungo la strada poco oltre il villaggio di “Charahota”. Miracolo di equilibrio. Fanno da sfondo, colline dai colori straordinari: blu, verdastre, rosse, viola; colorazione dovuta alla presenza di differenti minerali. In un piccolo villaggio che mi sfugge il nome, forse non ha neanche un nome, una vecchia signora che fuma una sigaretta mi ricorda che c’è vita; ha i capelli grigi raccolti in due grandi trecce: è intenta a separare le patate appena raccolte in base alle dimensioni. Un bambino mangia con gusto da una ciotola un brodo caldo dove galleggiano qualche patata e alcuni pezzi di pannocchia bollita. Cinguettio di ragazze che lavano i panni in piccoli rigagnoli. Da camion e vecchi autobus, alcuni “campesinos” scaricano le proprie mercanzie; sul cassone di un vecchio camion decine di bistecche di lama, messe ad essiccare...è un quadretto veramente delizioso. Il sole sta tramontando e decidiamo di fermarci a “Torre Huayco” accanto ad una chiesetta tutta intonacata di bianco, mentre le rocce si infiammano nella calda luce del tramonto. Vorrei fermarmi oltre ma Jacky viene verso di me, mi raggiunge e, assieme, ci allontaniamo di qualche metro. Quando fa cosi, la gente deve dire qualcosa, mi invita a rientrare a Tupiza. Mi spiega che è molto superstiziosa ed è restia a muoversi col buio per paura del “Karikari”, un’oscura presenza che secondo la superstizione addormenta i viandanti notturni e sottrae loro il grasso corporeo. Questi, una volta svegli non sono più gli stessi, agiscono in modo strano, si ammalano facilmente e spesso muoiono. Insomma anche qui la gente vive di fiabe e magia. ..Ok Jacky, il tuo inglese è perfetto e il tuo racconto calza bene!! Vamos. Un intenso odore di legna inizia a salire dai comignoli delle case. Questa mattina, non una

nuvola increspa il cielo azzurro, oltrepassiamo il posto di polizia situato alla periferia di Tupiza e ci fermiamo alla “Quebrada di Palala”, un deposito alluvionale disseminato di formazioni rocciose rossastre a forma di pinna, non mancano foto e momenti di abbandoni contemplativi. Lasciato il letto del fiume, la pista comincia a salire con stretti tornanti lungo il crinale della montagna. In una dozzina di chilometri siamo in un punto panoramico posto a 3750 metri, da cui si gode una vista mozzafiato su “El Sillar”, un vasto anfiteatro formato da concrezioni rocciose a forma di guglia e da canyon s. Gli animali al pascolo controllano il nostro passaggio alzando la testa per riprendere subito dopo a brucare. Un luogo da sogno. Dopo aver superato un passo a 4200 metri, costellato di ingressi di vecchie miniere, d’oro, d’argento e rame, tuttora in attività, scendiamo verso l’altipiano tra brulle montagne ricoperte da bassi arbusti e grossi ciuffi di erba gialla chiamata “paja brava”, utilizzata per ricoprire i tetti delle case. Il viaggio continua su piste di sabbia, salite e discese piene di grossi sassi sui quali le nostre Toyota si arrampicano come pachidermi. Siamo tutti stipati con allegria nella Toyota 4x4 Land Cruiser di Santos, basso di statura, dai tratti e dal contegno molto dignitoso, calmo e composto nei gesti, preciso in tutte le parole. E’ lui il primo autista, il capogruppo, quello che sta al volante della prima auto del convoglio; segue la Jeep di Pedro e Demerida, carica di viveri, acqua, gasolio, un fiore di plastica rosso sul cruscotto e quant’altro serve per portare a spasso matti come noi. Pedro è anche un bel personaggio. Se ne intravede la passata bellezza. Silenzioso, parla molto a segni: gesti di gola, alzate di sopracciglio, piccole rotazioni di testa. Linguaggio senza parole della gente di alta quota; ci intendiamo sulla vita con Pedro. Demerida è la nostra cuoca, una donna grande, con ossa solide, natiche da giumenta e tette come meloni vivi, e una testa rotonda, perfetta, corazzata da un duro casco di capelli neri, che sembra la cuffia di ferro di un guerriero medievale e un sorriso grande quanto una casa … insomma una “Quechua”. Che bella invenzione è Demerida, ora tutta per noi. Inizia la parte più spettacolare del tour.........Siiiiiiiii, fai bene amico Santos, benissssimo, ad alzare il volume, è questa la musica adatta al paesaggio: Pink Floyd...”Set the controls for the heart of the sun” ...Regolate i comandi del cuore del sole...CHE BELLO!!!!! Ora si che c’è colonna sonora. Giungiamo al valico posto a 4860 metri d’altitudine, qui il cielo abbraccia la terra in una splendida veduta della vallata sottostante dominata dai picchi della “Cordillera andina” che si specchiano nelle acque della “Laguna Morejon”. Segue la “Laguna Celeste”, a quota 4600 metri, con numerosi lama al pascolo, un piccolo gregge di vigogne selvatiche e tantissimi fenicotteri rosa che si nutrono nelle acque salmastre del lago. Nel silenzio, rotto solo dai sibili del vento, saliamo su un rilievo da cui si ha una splendida veduta dell’intera laguna di un colore turchese intenso. Lasciata la laguna, entriamo nella riserva nazionale di fauna

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01 Licancabur02 Al mercato di Potosi

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Bolivia

andina “Eduardo Avaroa”. La pista ora sabbiosa, attraversa una zona costellata di piccoli laghi asciutti; ci dirigiamo verso la meta finale di oggi, “Quetena Chico”, borgo minerario ai piedi del vulcano “Uturuncu”. Le strade sono deserte, i cavi della luce rigano il cielo; alcuni bambini giocano nella carcassa di un’automobile abbandonata, altri corrono come matti, come formiche, come piccioni sorpresi da un brusco movimento. Hanno i piedi scalzi. Mentre il sole sta calando dietro le montagne, passeggiamo per le vie senza più respiri, né parole di “Barrancas”, in mezzo alla solitudine totale. Qui gli uomini hanno lasciato le loro case piantate sulla roccia. La chiesa, il piccolo cimitero, piccole architetture spontanee costruite in pietre a secco, stanno crollando, si sfasciano lentamente a ogni pioggia. La bellezza di questo luogo è incomparabile, come se reggesse il simbolo di una vita finita, di una tradizione abbandonata ,di una natura spenta e inodore. Oggi ho veramente toccato il cielo con un dito. Martedì, primavera qui in Bolivia; anche questa mattina il cielo è di un azzurro che spezza il cuore. Il mondo si ingentilisce, si colora, la luce dell’alba si riflette sulle rocce. In cucina c’è eccitazione e nell’aria un buon odore. Demerida sfaccenda con tazzine e acqua bollente; oggi appare titanica e ferrigna mentre canticchia una canzone d’amore e che abbraccio con vivo sentimento di amicizia. Prima tappa del mattino alla “Laguna Hedionda Sur” conosciuta anche come “Laguna Negra”, per la colorazione che le acque assumono all’imbrunire. Transitiamo dalla “Kollpa Laguna”, sulle cui rive sorge un piccolo borgo di “mineros” che vivono estraendo cloridrato di sodio dal lago, per raggiungere il “Salar de Challviri”. Non è molto esteso; il sale pur avendo uno spessore limitato, è ugualmente fonte di sostentamento per la popolazione locale, che provvede a raccoglierlo in piccoli mucchi. Alla piccola “Laguna Polques” facciamo un bagno nelle calde acque termali. Le colline ricoperte di arbusti e paja brava, ora lasciano il posto ad un deserto sabbioso cosparso di grossi massi. In questo scenario d’alta quota circondato da montagne spruzzate di bianco, le “Rocas de Dalì”, grosse rocce su un aspro pendio sabbioso, richiamano opere e stile del surrealista e celebre pittore spagnolo “Salvador Dali’. Amo il “Dali’ “ e questo paesaggio desertico che si ritrova in alcune sue tele, dove tutto apparentemente senza vita, sfugge alle logiche dello spazio, della verosimiglianza e del tempo e abbraccia invece la ragione dell’inconscio, insomma del sogno. Al confine Cileno di “Hito Cajon”, nel mezzo del deserto, troviamo una piccola casetta con due sbarre a lato, piazzata in mezzo al nulla, sull’altopiano a 4300 metri. Non ci sono torrette, né militari armati pronti a scrutare facce sospette. Bussiamo alla porta e ci apre un militare Boliviano infreddolito di nome Gabriel, con un viso paonazzo, dall’aria gonfia e l’uniforme scolorita. Gli chiedo, in questo angolo di mondo: “Dónde puedo comprar un café con leche y medialunas para mí y mis compañeros?”, mi guarda un po perplesso e poi sorride...mio caro Gabriel, anche tu sei un “figlio

del popolo” cosi recitava il nostro “Pasolini” e sei qui per portare cibo ai tuoi quattro niños. Qui non è affatto un posto dimenticato da “Dio”, come direbbe qualcuno, al contrario, mio caro Gabriel, il vento spazza la polvere e “Dio” è più presente qui che altrove con la sua infinita bontà. E’ cosi, siamo in Cile, a “San Pedro de Atacama”,fatto di terra e di facce di tutto il mondo, di avventurieri e di ragazzi con zaini in spalla, di musica, insomma un avamposto nel deserto. Stasera “picadillas caliente” e birra insieme a Marcos,,la nostra nuova compagnia cilena, dalla pelle scura e dai lineamenti secolari, che si dimostra affabile e amico. San Pedro de Atacama è il punto di partenza per molteplici escursioni. Vamos. Siamo nella “Reserva Nacional los Flamencos” che accoglie la “Valle de la Luna”,un paesaggio stremato, senza ombra di vegetazione ma solo pietre, sabbia e pilastri appassiti di sale. Questo “santuario” di roccia parla di scenario lunare, ma io non conosco la luna e credo che la spedizione fatta sul satellite è un’altra delle nostre leggende.....insomma, senza tanti giri di parole, questo è il mio “Pianeta”. Manca poco al tramonto e il nostro Marcos ci porta attraverso un sentiero, poco battuto da turisti chiassosi e distratti, in alto dove rocce solitarie offrono uno spettacolare tramonto sulla “Valle de la Luna”. Le vette frastagliate della “Cordillera de la Sal” e i paesaggi della valle mutano colore man mano che i minuti scorrono passando da un pallido rosa a un rosso acceso, e io, canticchio a bassa voce la psichedelica canzone dei Pink Floyd “Julia Dream” ….Sogno Julia, la sogno regina, regina di tutti i miei sogni…....ora “La valle de la luna” appare tutta porpora e oro…Gracias Marcos. Sono circa le 5,00 del mattino, è buio e fa freddo, ci troviamo nella piana di “El Tatio” a 4320 m, uno dei campi geotermici più grandi del mondo, alimentato da “geyser” gorgoglianti e da soffioni con un sottofondo di acqua in ebollizione, zampilli e fischi simili a quelli prodotti da un esercito di pentole che brontolano allegramente sul fuoco. Arriviamo prima dell’alba in quanto ogni “geyser” è sormontato da una colonna di vapore che si condensa nell’aria fredda, e i pennacchi di vapore

scompaiono come l’aria si riscalda. E’ un vero spettacolo che ci toglie il fiato di buon mattino. Mentre filtriamo nel paesaggio con “The dark side of the moon” dei Pink Floyd, Marcos ci racconta che per alcune popolazioni locali, come gli “Aymara”, dietro a questi potentissimi getti di vapore si cela in realtà un dolore. Secondo un’antica leggenda, infatti, i “geyser” di questo altipiano sarebbero gli “occhi” della terra che, stanca dei continui sconvolgimenti naturali come eruzioni e terremoti, “piange” lacrime bollenti rivolta verso il cielo. Marcos, el Inglés es perfecto, entendemos muy bien la leyenda. I geyser reagiscono ai nostri passi con sbuffi di acqua calda. Basta guardarsi attorno per capire che queste acque gorgoglianti sono un santuario perfetto.Insomma, stiamo camminando in un outlet della meraviglia. A sorpresa appare anche un uccellino a godersi lo spettacolo.....è tutto cosi bello, magico e la musica di “Roger Water, David Gilmour e compagni” rende ancora più grandioso paesaggio e leggenda. “Hoy es jueves y son la mitad del viaje”, cosi recita “Paolo” il mio compagno di viaggio.

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03 Laguna Colorada04 Fiore d’alta quota

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Bolivia

Versi di “Pablo Neruda ” mi accompagnano verso la “Laguna Chaxa”. Non un filo d’erba, non cresce niente, nemmeno il ramo spinoso di un’acacia, ma un continuo vorticar d’ali di fenicotteri, pivieri, folaghe e anatre in mezzo a cristalli appuntiti e aria dall’odore acre. Qui non piove da mezzo secolo, anche se ogni anno il 31 marzo, piove per mezz’ora e questa pioggerellina è sufficiente a far fiorire il paesaggio, a tingerlo di rosso con milioni di “piccole rose di Atacama”, fiorellini che resistono poche ore prima di essere incenerite dal sole, cosi racconta “Luis Sepulveda”. Si sentono risate di ragazze nella notte. Mi ritrovo di nuovo al confine boliviano accompagnato dal vulcano “Licancabur” a 4700 metri. Il mio nome, qualcuno dice il mio nome, lo dice bene, con tutte le lettere al posto giusto. Devo essere matto. Qualcuno mi conosce qui? Cammino verso la voce, il suono del mio nome svolazza per l’aria. In mezzo alla polvere ora vedo il gesto della mano....è Pedro. Che bello, amico mio boliviano rivederti, riabbracciare insomma tutta la mia squadra boliviana: Santos, Pedro e Demerida. Il capo guida fa una manovra rapida, una breve retromarcia per scansare un masso e poi ingrana la prima...Vamos per le “lagune boliviane”. Un gruppo di vigogne pascola felice ai bordi del sentiero, sono animali d’alta quota, selvaggi, liberi. Sono affascinato dai riflessi lucenti del mantello fulvo e panna delle vigogne, con fiocchi colorati sulle orecchie...mi guardano impassibili. Ci fermiamo alla “Laguna Blanca”, dal candido color latte. E’ mezzogiorno, l’acqua di alcune pozze è ancora gelata. Ci spostiamo alla attigua “Laguna Verde” famosa per le sue metamorfosi di colore; quando soffia il vento diventa di un verde caraibico a causa dei minerali di piombo, arsenico e zolfo sciolti nelle sue acque velenose. Ci arrampichiamo su una vicina montagna ai piedi del “Licancabur”, alto 5960 metri, per vedere lo spettacolo offerto dalle “Lagune, Blanca e Verde”, separate da una sottile lingua di sabbia, due intense macchie di colore su una tavolozza dalle mille sfumature. Intorno pascolano alcuni lama. Ripassiamo la “Laguna Polques”, imbocchiamo una pista diretta verso nord e superiamo un passo a 4960 metri, l’altitudine massima che tocchiamo in questo viaggio e giungiamo cosi ai “geyser Sol de Manana”. Dalle bocche viene eruttato fango bollente, schiuma con acqua ribelle e vapore a temperature molto alte. Il giallo, a tratti, diventa arancione maturo, color albicocca. E’ come se qualcuno, la sotto, stesse spremendo continuamente il tubetto di una tinta. Raccolgo uno strano oggetto pietrificato. Ha un bel colore violaceo “Souvenir from Sol de Manana”. Siamo a circa 4900 metri. Santos è un eccellente autista, grande, grandissima esperienza, guida con maestria, lo guardo, quasi di nascosto, mentre fissa la pista davanti a noi. Lungo la pista ci imbattiamo in piccoli mausolei chiamati “Animitas”, ci racconta Santos che sono testimonianze di incidenti. All’interno ci sono fotografie, rottami della macchina, vetri e oggetti personali appartenuti al defunto. Ora la pista è

in discesa verso la “Laguna Colorada”. Eccola dall’alto che appare ammantata di colore rosso cupo, quasi bordeaux, per la presenza di alghe e plancton che abbondano nelle acque ricche di minerali, e che contrasta con il colore delle rive, di un bianco scintillante per la presenza di gesso e borace. E’ uno dei momenti più intensi del viaggio. Diversi vulcani incorniciano questo paesaggio paradisiaco. Faccio un lungo giro intorno alla laguna accompagnato da un vento che spazza tutto e che mette in scena la sua follia, quasi a voler dire che è lui il signore del luogo. La riva è popolata da migliaia di fenicotteri delle tre specie presenti in Sud America, “andina, chilensis e di James”, che qui vengono a riprodursi.Una ragazza cilena dai capelli lunghi e neri che scendono fin sulle spalle, un miraggio di bellezza, mi guarda per un po’senza dire nulla, poi mi dice: Increíble.. todo es tan maravilloso. Guardo la ragazza cilena negli occhi, senza riuscire a dire nulla. Certamente anche qui qualche divinità folle si è sbizzarrita con la natura e io perdo il senso della realtà, la nozione del tempo, il ritmo delle abitudini quotidiane e sguazzo in prodigiosi deliri. Mi chiedo se ha senso cercare altri orizzonti quando avverti che qui il mondo sembra al completo….. Vamos Santos. La jeep balla sulla pista, grandi uccelli saltellano al nostro passaggio e la polvere vola in mulinelli danzanti. Coloratissimo tramonto al “Mirador puntas negras” mentre Santos mi parla delle comunità locali: mi racconta che spetta a loro le decisioni relative al turismo, insomma sono le comunità che autorizzano la costruzione di un albergo o di un caffè, credo di aver capito!! Sempre le comunità amministrano la giustizia secondo la legge locale, che prevale su quella statale, che prevede, per i reati più gravi, anche la pena di morte per linciaggio….insomma, non sono sicuro di aver capito tutto bene!!! Gracias Santos. Ora il cielo è un mosaico di stelle e il generatore si è appena avviato per illuminare le nostre stanze…la doccia è un miracolo..buenas noches Bolivia. Questa mattina il cielo si è raggomitolato sopra

i vulcani, ha un colore che non esiste nella gamma degli arcobaleni. E’ un azzurro perfetto. Ritorniamo alla “Laguna Colorada” per l’alba al “Mirador aguas calientes”. L’acqua lungo la riva è gelata. Nella vivida luce mattutina le bianche piume dei fenicotteri, spiccano sul rosso intenso della superficie del lago. Lasciata la laguna ci immettiamo in un ambiente ancora più arido e secco; il deserto sabbioso d’alta quota di “Silioli”. Folate di vento scuotono i nostri fuoristrada. Ci fermiamo alla “Ciudad di piedra”, così chiamata per alcuni grossi massi dalle forme bizzarre, sculture naturali dovute all’azione erosiva del vento; tra esse “ l’Arbol de Piedra “, una roccia dalle fattezze arboree. Attraverso il deserto ci spingiamo ad un gruppo di rocce conosciuto con il nome di “Vizcachillas”, habitat naturale della vizcacha, una specie di coniglio selvatico con una lunga coda. Usciamo dal parco nazionale di “Avaroa”, costeggiando le vette della “Cordillera andina” che fungono da spartiacque e da confine con il Cile. Il paesaggio riprende la connotazione dei giorni precedenti, basse colline con arbusti e paja brava. Giungiamo alle ultime lagune, distanti poche centinaia di metri l’una dall’altra, popolate da folte colonie di fenicotteri. Sono le Lagune “Honda”, di colore bianco con sfumature turchese, “Charcota”, dall’acqua purpuree, ed “Hedionda nord”. Mentre ci spostiamo all’ultima, la “Laguna Canapa”, due volpi attraversano la strada; sono abituate alla presenza di turisti e si fermano in attesa di cibo. Dopo un tratto di pista sassoso, assai disastrato, ci immettiamo su una strada da poco ultimata, che collega la miniera di “San Cristobal” al confine cileno. In lontananza il cono fumante del vulcano “Ollague”,ancora attivo. Dopo il “Salar di Chinguana”, un misto di sale e terra, attraversato dalla ferrovia che collega “Uyuni” al “Cile”, passiamo “S. Juan del Rosario”, grosso villaggio ad un’altitudine di 3660 metri, e cosi arriviamo, come ultima tappa di oggi, ad “Atullcha”, il villaggio natale della nostra Demerida. Alcune ragazze trasportano sulle spalle

VIAGGI | Bolivia - Cile 05 Cratere del vulcano Tunupa06 Licancabur07 Demerida a Chipaya

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Page 5: VIAGGI | Sud America - Bolivia Cile Paesaggi e leggendebassi arbusti e grossi ciuffi di erba gialla chiamata “paja brava”, utilizzata per ricoprire i tetti delle case. Il viaggio

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05 Cratere del vulcano Tunupa06 Licancabur07 Demerida a Chipaya

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faticose fascine di legna che riscalderanno le modeste abitazioni e qualche minestra di patate o di mais. Ed ecco qui, l’atteso “Salar de Uyuni”.Qui si respira sale, si vive nel sale e il sale è l’unica pietra che si mangia sul pianeta terra. Mi racconta Demerida una leggenda che narra che il “Salar” sia nato da una lite di gelosia, tra montagne. La montagna “Yana Pollera” era innamorata dei vulcani “Q’osqo” e “Thunupa”. Quando “Yana Pollera” partorì il piccolo “Kalikatin” i due vulcani presero a combattere tra loro e “Yana Pollera” fu costretta a mandare il figlio lontano. Per nutrirlo inondò di latte la piana che li divideva. Il “Salar” è bianco per il latte di “Yana Pollera” ed è salato per le lacrime di dolore versate pensando al figlio lontano…..Gracias Demerida. Questa sera la luna è un trionfo, sgomita con l’orizzonte del vulcano “Tunupa” pur di sorgere. Luna compagna. Il sole è già sorto e ci sei solo tu a specchiarti in quella immensità infinita di nulla .. o di tutto… memoria di un antico mare. Quasi magicamente si alza da questo mare bianco la “Isla de Inkahuasi” o “Casa dell’Inca”, dove gli “Inca” sostavano nei loro spostamenti verso sud. L’isola e’ formata da sedimenti calcarei marini e materiale vulcanico che hanno creato un terreno sufficientemente fertile da permettere la crescita di grandi e piccoli cactus, piante erbacee e licheni. Un sentiero conduce sulla parte alta dell’isola da dove si domina la superficie piatta del “Salar”, in un contrasto singolare con la verticalità di centinaia di cactus giganti, piante centenarie alte decine di metri. Il silenzio, l’assenza di punti di riferimenti, la perdita di prospettiva creano un’atmosfera praticamente unica al mondo. Lasciamo nelle prime ore del pomeriggio, la più vasta pianura salata al mondo e attraversiamo il “Salar” in tutta la sua lunghezza per arrivare a “Coquesa”, sotto l’imponente vulcano “Tunupa”, sacro al popolo “Aymara”. Già dal villaggio il vulcano ci consente di vedere i colori dei minerali esplosi: il bianco del carbonato di calcio, il verde del rame, il rosso del ferro. Visitiamo una grotta sulle pendici del Vulcano “Tunupa”, dove all’interno sono custoditi i corpi di uomini mummificati da un migliaio di anni, appartenuti all’antica popolazione “Chipaya”. Ci sono offerte da poco deposte nella grotta.

Cespugli verdi e stentati provano a crescere fra cumuli di pietra inerte. Ci racconta Santos, quanto sia stretto ancora oggi, il legame che le popolazioni andine sentono con i loro antenati. Con tutta la mia squadra, compreso Santos e Pedro, decidiamo di arrampicarci fino al cratere “Tunupa”. Camminiamo in silenzio, si sente il nostro respiro. Qualche sosta per mettere d’ accordo i nostri passi diversi. Tre ore di marcia ci portano sul belvedere della caldera, a 4890 m. E’ un dono grandioso del paradiso, non dell’inferno. I colori conoscono improvvise diversità: al rosso si aggiunge un giallo esplosivo, tinte di un incendio...un’ apoteosi. Sono tocchi di un pittore su questo affresco geologico. Non ci vuole occhio per i luoghi sacri, penso mentre ridiscendo e il vulcano è già alle mie spalle. Grande scena. I nostri amici boliviani danno via libera a chiacchiere senza fine.....“Puedo entrar a la cocina?” Anche questa mattina Demetria sa come portare allegria in cucina e soddisfare i nostri palati; basta un’ impasto di farina e acqua in una scodella e Vamos con le calde ciambelle. Prima di lasciare il grande “Salar”, passiamo accanto a pozze d’acqua chiamate gli “ojos del salar”, aperture che fredde acque sotterranee si sono create attraverso lo strato di sale e che gorgogliando emergono in superficie. Transitiamo per le vaste saline di “Colchani”; alcuni uomini, con le mani di pergamena crepata e muscoli di acciaio, stanno ammassando il sale in grossi mucchi per caricarlo su vetusti autocarri. Ci portiamo al villaggio; qui il sale dopo essere stato scaricato, viene iodizzato ed insaccato con rudimentali macchinari. Attendo la luna, che sorge tardissimo. Non voglio essere da nessun’altra parte del mondo. Questa mattina percorriamo una pista praticabile solo nella stagione secca, in una girandola di piccoli villaggi semi abbandonati: Salinas S. Martin – Challacota – Canton C. Belen - Chipaya – Escara - Escara Chico – Huachacalla, tutte, con una antica chiesetta intonacata di bianco, in un paesaggio di vette innevate. Arriviamo cosi ad Oruro. Con un lunghissimo abbraccio, lungo un’eternità, salutiamo i nostri amici boliviani…”gracias Santos, gracias Pedro e gracias con tanto

“calor” Demerida”. Il viaggio è stato grande anche grazie a voi. Ed eccoci nuovamente a “La Paz”, con i quartieri residenziali ed i moderni grattacieli dalle pretese avveniristiche sul fondo della vallata. Il suono delle campane mi conducono verso “Plaza S.Francesco”. La chiesa di “S. Francesco”, costruzione in pietra del XVI° secolo, contrasta con il bizzarro monumento dedicato alle tre grandi civiltà boliviane “tiahuanaco, inca e moderna” che la fronteggia nella parte alta della piazza. I marciapiedi sono brulicanti di passanti, di fiori, ortaggi e verdure disposti a terra in mucchi ordinati e fotografi ambulanti con antiquate macchine fotografiche. La banda suona per la strada. Attraverso “Calle Sagarnaga”, raggiungo il “mercado de brujos“, il mercato delle streghe; sulle bancarelle fra erbe e strane pozioni noto becchi di uccelli rinsecchiti, feti di lama e statue della “Pachamama”. Cammino per ripide strade affollate, mi inoltro nel “mercado negro”, un fitto labirinto di bancarelle, con merce d’ogni sorta. Lascio la parte più folkloristica e caratteristica della città per quella più moderna; mi tuffo nell’animata “Avenida El Prado”, l’arteria commerciale con uffici, negozi e prestigiosi hotels, che percorro fino a “Plaza del Estudiante”,dove avveniristiche costruzioni riflettono l’immagine del monumento a “Simon Bolivar”, l’artefice dell’indipendenza boliviana. El Alto te lo ritrovi sopra alla testa. Incombe minacciosa, quasi a voler cadere di sotto. La luna si è decisa a sorgere; per me è l’ultima luna. Oggi è il primo Novembre. L’acqua, figlia delle piogge, arriva qui a “La Paz” a Novembre, e puntuale il cielo si presenta grigio e carico d’acqua, insomma, il sole è scomparso. Mi ritrovo di nuovo tra le nuvole, tra uomini rasati, che lavorano in camicia bianca e cravatta, fresche di lavanderia, con hostess che ci servono cornetti caldi e caffè e la tromba di Miles Davis che parla nella mie orecchie. Adios alla tavolozza di colori: al verde giada, alle sfumature di cobalto, al giallo zolfo, al porpora rugginoso, al rosso granata, all’arancio sulfureo, all’ocra spinto,al bianco perfetto, insomma, all’arlecchino geologico. Adiòs a La paz e il Rio Choqueyapu, Adiòs alle stradine che recitano la “Pacha Mama”, salvaguardare la Madre Terra, difenderla per garantire la sopravvivenza dell’umanità……. …semplicemente, fine delle trasmissioni.

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