Diario Di Carlo Fiocco Storia Di Un Deportato 2010

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zio a  na  N l  e   e    n  C    o  a     i r       z  a      a      i  b      c  i      n      o i            s  e         s  r        i                 A Diario di Carlo Fiocco “Storia di un deportato” Carlo Fiocco Matricola 32882  

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Diario di Carlo Fiocco“Storia di un deportato” 

Carlo Fiocco

Matricola 32882 

 

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Diario di Carlo Fiocco

“Storia di un deportato”

Carlo Fiocco

Matricola 32882

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Trascrizione dai manoscritti di Carlo Fiocco ©

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1. Indice dei contenuti

1.  Indice dei contenuti ............................................................................................ 3 

2. 

Prefazione ........................................................................................................... 4 

3.  La vita prima della guerra (1922-1941) .............................................................. 6 

4.  La chiamata alle armi (1942) .............................................................................. 7 

5.  La prima destinazione operativa ....................................................................... 9 

6.  La caduta del fascismo (1943) ......................................................................... 11 

7.  La cattura da parte dei tedeschi (1943).......................................................... 13 

8.  Il viggio per la deportazione (1943) ................................................................. 15 

9. 

Il numero di matricola ...................................................................................... 17 

10. Lavoro in fabbrica ............................................................................................ 19 

11. La fame .............................................................................................................. 20 

12. La vita trascorre al campo ............................................................................... 21 

13. Nuovi amici (1944) ............................................................................................ 23 

14. Le sigarette ....................................................................................................... 24 

15. Di nuovo in partenza ........................................................................................ 26 

16. 

Trasferimento alla fabbrica di birra ................................................................. 27 

17. Cominciano i bombardamenti ......................................................................... 29 

18. La fuga ............................................................................................................... 31 

19. Via da Gratz e ritorno ....................................................................................... 33 

20. La fuga ............................................................................................................... 35 

21. Finalmente in italia a Tarvisio .......................................................................... 36 

22. Arrivo a Gemona ............................................................................................... 38 

23. 

Pericolo delle foibe ........................................................................................... 39 

24. Arrivo ad Udine ................................................................................................. 40 

25. Arrivo a Feltre ................................................................................................... 41 

26. Arrivo ad Agordo .............................................................................................. 42 

27. La vita senza guerra ......................................................................................... 43 

28. Conclusioni…………………………………………………………………………....44

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2. Prefazione

Quando Carlo Fiocco, da anni socio della Sezione di Brugherio dell’AssocianazioneNazionale Carabinieri da me presieduta, iniziò a raccontarmi i suoi vivi ricordi diquell’esperienza che aveva fortemente segnato la sua esistenza, rimasi affascinatodall’importanza storica di quei racconti e dall’insegnamento che io stesso ne traevo divolta in volta.

Ricordi che erano lucidamente rimasti impressi nella sua mente tanto da ricordareparticolari, nomi, semplici gesti che in quelle situazioni drammatiche assumevanoun’importanza tale da dare la forza per andare avanti.

Fui felice quando si convinse a scrivere questi ricordi in modo che chiunque potesse

ripercorrere quel periodo storico insieme a lui e ne potesse cogliere la forza dei suoiracconti e tutti gli insegnamenti morali che traspirano da ogni passo e che si possonofacilmente cogliere tra le righe.

La prima cosa che mi ha catturato nel leggere i suoi appunti sono stati i Valori, quellicon la “V” maiuscola, che in una situazione drammatica come quella vissuta neicampi di prigionia si sono addirittura rafforzati, solo per citarne alcuni:

- Famiglia

- Solidarietà

- Amicizia

- Fedeltà alla Patria

- Spirito di corpo e di sacrificio

Valori che al giorno d’oggi troppo spesso vengono dimenticati.

 A tutto ciò si percepisce, riga dopo riga, il forte attaccamento alla vita, considerata ilbene più prezioso non solo per sé stessi ma soprattutto per i propri cari, la tenacia con cui giorno dopo giorno si gadagnava la sopravvivenza… sì, perché lì ogni giornola cosa più difficile era riuscire a sopravvivere.

“Piangere non si poteva, bisognava resistere ed affrontare la situazione…”  parole dette da un ragazzo, Carlo, partito in guerra non ancora ventenne, lontano

dagli affetti più cari, dal calore della famiglia a soffrire la fame, i disagi e le brutalitàdei suoi aguzzini, ma con tanta voglia di non buttare via la sua vita e di farcela adogni costo ad uscire dal quell’incubo per poter tornare a casa e “costruire” finalmentela sua vita.

Fame, brutalità, cattiverie inaudite, terrore, lo hanno accompagnato giorno dopogiorno per ben 4 lunghi anni, in cui solo con grande forza d’animo e quei Valori benradicati, ha trovato la forza di guardare avanti e di non mollare mai!

Di fronte a quella giovane mamma, di cui si legge nel suo diario, disposta ad offriresé stessa per un pugno di sale, e a giovani soldati disposti a rischiare la propria vitaper recuperare delle buccie di patate da arrostire sulla stufa, una riflessione èd’obbligo.

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Siano questi racconti di insegnamento a tanti giovani che spesso non si accorgono diciò che hanno per le mani, della fortuna di vivere in tempo di pace e in una situazionedi benessere e troppo spesso dimenticano quei Valori così importanti per condurreuna vita dignitosa.

E’ un diario che si legge tutto di un fiato come fosse un romanzo avvincente che ci farimanere tutto il tempo col fiato sopseso pagina dopo pagina. E la cosa che piùcolpisce il lettore è che sembra un romanzo ma si tratta di storia vera.

Intendo aprire questo importante documento storico, il Diario di Carlo Fiocco, propriocon la frase con la quale lo stesso Carlo conclude il suo racconto:

“Spero che questo diario venga letto e possa far capire ai giovani di oggiquante gioie e quanti dolori si possono sopportare nella vita, e comesolamente con veri Valori e perseveranza si possano superare tante avversità”

Grazie Carlo!

Vincenzo Panza

 Ass. Naz. Carabinieri - Sez. di Brugherio

Il Presidente

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3. La vita prima della guerra (1922-1941)

Nato a Canale D’Agordo il 13 Novembre 1922. Nato nell’era fascista, nelle scuolebisognava seguire le direttive del fascismo, il Duce per noi era un idolo perciò sidiventava Balilla avanguardista e giovane fascista.

Ma pensando oggi, la vita era grama, miseria, mal nutriti e poco lavoro per i capifamiglia. Noi eravamo un popolo di emigranti ma nell’era fascista le frontiere eranochiuse.

Una strada possibile era la conquista dell’impero in Etiopia, e mio padre persopravvivere è partito per Asmara un’avventura pericolosa lasciando la famigliasenza notizie, poi con la conquista dell’impero mio padre è tornato e si è aperto piùstrade per un lavoro in Patria, ma tante famiglie si sono aperte le strade perl’immigrazione America, Francia, Germania e Svizzera ed altre ad abbassare il capoper l’umiliazione, era dura tornato a casa.

Mio padre pensava tanto alla famiglia io avevo 15 anni mio fratello 8 e il più piccolo4. Le elementari le avevo finite da qualche anno, avendo ripetuto due anni per nonlasciare la piccola da sola, cosa fare, mio padre mi portò in un paesino vicino inun’officina meccanica che era una delle più prestigiose della provincia di Belluno.Lavorai tre anni e riuscii ad apprendere un mestiere con bravura.

Nel frattempo in paese si verificò un tragico evento di epidemia di tifo e vi morironoparecchie persone. Lo presi anch’io, mia madre, mio fratello, mia nonna. Io ero il piùgrave, si è creato un lazzaretto in paese che era costituito da circa 1.000 abitanti.Riuscii a superarla ma ci volle un anno per tornare normale.

Finito l’apprendistato trovai lavoro in un cantiere edile per la costruzione di galleriaper la condotta d’acqua per far funzionare grosse centrali idroelettriche. Ero benvoluto dalle maestranze e divenni un meccanico specializzato e guadagnavo bene.Lavorai dal Gennaio al Dicembre del 1941.

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4. La chiamata alle armi (1942)

Poi arrivò la cartolina della chiamata alle armi, abile al servizio militare. Nel Gennaio

del 1942 mi presentai al distretto di Belluno, ero già assegnato al Corpo Alpini delladivisione Tridentina che successivamente verrà sterminata nella campagna diRussia.

Poichè io avevo una professione, venniassegnato al 4° Reggimento GenioTeleferisti a Peschiera sul Garda, dove sifece l’istruzione e poi venni indirizzato aicampi di addestramento con la specialitàdelle famose teleferiche, che io nel mondo

civile già conoscevo.In Alto Adige si affrontò la realtà vera dellavita militare con il reggimento di Bolzano alquale appartenevamo. Eravamo in II°Guerra Mondiale ed è lì che si vennero aformare i primi genieri guastatori.

Dopo aver effettuato l’addestramento ladestinazione era il fronte Russo, oltre laprima linea. Parecchi della mia compagniahanno accettato l’incarico, un mio amico

mi incitava “vieni anche tu” e nonostante ilCapitano della compagnia ci rendesse lavita impossibile decidemmo di andare inRussia.

Questo mio amico così tanto bravo non èpiù tornato.

La situazione del conflitto era diventata mondiale. Ci chiamarono al comando pereffettuare una visita medica, lo scopo era l’idoneità per andare in Russia, io ero fraquesti.

Ci mandarono a GardaVeronese dove si dovevacompletare l’11maCompagnia autonoma digenieri teleferisti. Ciprepariamol’equipaggiamento in attesadi ordini, si dovevacostruire una teleferica perattraversare il fiume Don inRussia.

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Cosa pazzesca, era già l’autunno del 1942 e gli eventi bellici non erano dei più rosei.

Si preparava una disfatta in particolare per i nostri soldati, che non erano in buonaccordo con le truppe tedesche con le quali eravamo peraltro alleati.

Restammo così a Garda, in attesa di altre destinazioni intanto la guerra continuava. A scaglioni ci mandano a casa a salutare le nostre famiglie.

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5. La prima destinazione operativa

 A cavallo tra Febbraio e Marzo arriva poi l’ordine, la Dalmazia, Montenegro terra ad

alto rischio di guerra partigiana. Arrivati a Bari per l’imbarco con tutta la compagnia edue automezzi un lancione 3 Ro e la vettura del capitano.

 Appena imbarcati ci hanno fatto indossare il giubbotto salvagente, non capivamo ilperché, e lo scoprimmo solo dopo, erano stati segnalati dei sommergibili inglesi. Arrivammo sulla costa Dalmata e lì abbiamo sentito la guerra, ero un continuocrepitare di mitragliatrici, paura e fame non c’era tempo per poter sfamare tutti questigiovani militari. Ci fanno trasferire dalla nave su di un grosso barcone ed arrivammosu di un secca dove finiva il mare, era Cattaro al confine con il Montenegro.

La Compagnia era costituita da circa 180 persone, tre plotoni, io facevo parte del

terzo plotone comandato da un Ufficiale e sotto ufficiali comandati dal CapitanoDomenichini che portava con orgoglio la medaglia della “Marcia su Roma” fatta con ilDuce nel 1922.

Eravamo una Compagnia speciale ed autonoma, col il compito di costruire unagrossa teleferica di produzione tedesca che andava dal porto di Cattaro alla capitaledel Montenegro, da dove era partita la nostra Regina Elena.

Dovevamo superare unamontagna attraversare untratto di mare e ricollegarcialla montagna di fronte quasi

a picco a circa 800 m.collegato al momento con deigrossi tornanti stradali moltopericolosi.

Il materiale per la telefericaera sparso su tutto il territorioe bisognava recuperarloperché altre società private,che erano state ingaggiateper la costruzione della

teleferica erano fallite primadi portarle a termine.

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Si creò un grosso magazzino per ilrecupero e lo smistamento del materialeper destinazione su tutto il percorso daipiloni di sostegno alle stazioni di partenzae di arrivo. Tutto era progettato etrasmesso su una montagna di disegni, inostri ufficiali erano ingegneri, architetti,devo dire che eravamo tutti bravi. Si sonoformate le squadre, partivano dalla basedi partenza per i piloni al montaggio, allachiodatura a caldo, io sono statodestinato alla chiodatura a caldo, sipartiva dalla base dovevamo levare ibulloni per passare poi alla chiodatura

con dei ribattini anche con il diametro daventi e lunghi anche 10 cm.

Si saldava con il carbone e man mano sisaliva con l’impalcatura fino a 9-10-20 m.magari a picco sopra una roccia dimontagna.

Si lavorava, ma si era anche in guerra e quando succedeva qualcosa si dovevaprendere il fucile ed andare in rastrellamento contro i partigiani che ci seguivano.

Momento brutto per i nostri soldati contro i partigiani.

Sono stato in ospedale per un malore e làho potuto vedere tante cose, la nottearrivavano diversi lancioni carichi di morti,il cimitero era vicino all’ospedale,scavavano fosse comuni e seppellivanotanti nostri soldati e intanto il nostrolavoro alla teleferica continuava.

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6. La caduta del fascismo (1943)

Eravamo già anche abbastanzaavanti, fino al 25 Luglio del 1943quando succede l’imprevedibile, lacaduta del Fascismo.

Da quel momento venni chiamato afar parte con dei Carabinieri ad unasquadra per il mantenimentodell’ordine pubblico.

La situazione era critica.

La sera via radio sentimmo lanotizia dell’armistizio dell’8Settembre del 1943, tutti fermi,vedemmo arrivare le truppetedesche che si accamparono poco lontano dal nostro magazzino e caserma, nonesistevano ordini, tutte le sera dalla nostra caserma partiva una squadra di soldatiper la guardia al nostro magazzino.

Una di queste sere c’ero anch’io, mi ricordo questo particolare, ho detto: ”ragazziquesta sera stiamo attenti, teniamoci pronti e non leviamo le scarpe, così sedobbiamo scappare…..”.

Era l’alba del 14 Settembre quando ci arriva l’ordine di rientrare subito in casermaper vie secondarie.

I partigiani hanno riferito ai nostri ufficiali “ noi attacchiamo i tedeschi, ora tocca a voi,o con noi o contro di noi”

La situazione era tragica.

Mentre rientriamo sul sentiero, armati inassetto di guerra, incrociamo unapattuglia tedesca che rientrava, unafitta al cuore, non succede niente noi

proseguiamo e loro ugualmente, maappena giunti in caserma non troviamopiù nessuno.

Intanto si cominciò a sparare, saliamosulla montagna che era fortificata eprotetta e si incominciò la lotta, i primiferiti e caduti, noi dall’altoproteggevamo i nostri soldati e ipartigiani che assaltavano i tedeschiassediati in un grosso edificio.

Noi avevamo solo fucili ed un paio dimitragliatrici, loro invece erano più

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armati e possedevano anche dei mortai con i quali riuscivano facilmente araggiungerci anche dietro i nostri ripari.

Una volta ero con altri genieri dietro un riparo, avevamo fame, “vado io giù incaserma a cercare qualcosa” dissi.

Ho rischiato molto, i tedeschi mi hanno individuato e hanno cominciato a spararmi,ma sono riuscito nel mo scopo.

Stavamo mangiando quando sentiamo un sibilo e “ciuff”, un proiettile di mortaioarrivò in mezzo al gruppo ma non scoppiò, “ragazzi” dissi io “qualcuno ci ha protetti,potevamo morire tutti”.

La sparatoria continuava, ma verso sera vedemmo tre soldati tedeschi che venivanoverso di noi con la bandiera bianca. Non potevamo crederci, i tedeschi siarrendevano! E intorno fu silenzio.

Il giorno seguente arrivarono i famosi STUKAS tedeschi, che sganciarono le bombein picchiata. Era la fine.

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7. La cattura da parte dei tedeschi (1943)

Il giorno 16 Settembre 1943, non potrò mai dimenticare quel giorno, arrivarono itedeschi armati in caserma e dissero “deponete le armi e arrendetevi”.

Eravamo tutti sul piazzale vestiti solo di calzoncini in attesa del rancio serale, ma incamerata avevamo tutto pronto per un’eventuale fuga.

Cosa facciamo?

Ci portano via inmaniera rude, i mieiamici piangevano, comefacevamo a recuperare

la nostra roba.Io affronto il tedescosulla porta dellacamerata, avevo mezzapagnotta in mano e dissi“mangia” aveva fameanche lui, mi lasciòpassare e poteirecuperare tutti gli zainiche ho potuto prendere.

In mezzo alla cameratac’era il mucchio di fucilidella nostra resa, i mieiamici non ci credevano.

Ci portarono via tutti, eravamo tanti, e ci portarono nel palazzo dell’agricoltura dove itedeschi avevano la loro sede.

Ragazzi, dico io, non so cosa faranno di noi, i tedeschi non ci perdonano iltradimento.

Io raccontai i racconti di mia madre nella I° guerra mondiale del 1917 nel bellunese,

l’anno dell’invasione, i tedeschi si portarono via tutto, persino le mucche. Li hannoridotti alla fame e nella maggior parte dei casi addirittura alla miseria.

C’è da aspettarsi di tutto.

Ci misero in fila ed incominciarono a contarci, “il decimo fuori” , è la fine!

Poi è successo qualcosa e ci lasciarono liberi e ci portarono al porto di mare doveera pronta una nave, era una nave italiana, ci fecero salire, ma la nave rimase inporto per almeno 8 giorni, mangiando solo ogni tanto, non so come abbiamo fatto aresistere.

I tedeschi ci piazzarono alle armi di batteria antiarea.

Ogni tanto venivano a cercare dei volontari per fare dei servizi, scortati naturalmente,poi tornavano e stranamente portavano anche qualcosa da mangiare. In queste

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circostanze, come spesso accade, si è formato un gruppetto di veri amici, si tenevauno zaino con qualche scorta di viveri.

Del nostro gruppo, quando venivamo chiamati a sorte, ognuno cercava di portare acasa qualcosa da mangiare che si metteva in quello zaino.

Ma dopo tante peripezie, ci si apprestava a partire, siamo verso la fine di Settembre.

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8. Il viggio per la deportazione (1943)

La nave esce dalle Bocche di Cattano che è un’insenatura del mare Adriatico, ilcomandante prende il largo e sapeva che a sud (Bari) c’erano gli alleati, sarebbestata la nostra liberazione, ma intervennero gli aerei tedeschi e ci fecero cambiarerotta altrimenti ci avrebbero bombardato, e questo noi loi sapevamo.

Potevamo scorgere unaformazione di navicariche di prigionieriitaliani provenienti dallaGrecia.

La traversata della naveè stata lunga, siamogiunti a Trieste, forseavevano inizialmenteintenzione di sbarcarcilì, ma poichè c’erano deitumulti, siamo ripartitialla volta di Venezia, ilmare era grosso e moltidi noi sono stati male.

Giunti sulla banchina in

attesa dello sbarco, ilprimo a scendere èstato il nostro Capitanocon un altro ufficiale.

“Mi riconoscete?”

“Sono il vostro capitano, ora allineatevi, chi è veramente fascista si faccia avanti perunirsi ai nostri amici e camerati tedeschi.”

Nessuno si mosse.

Erano già pronti i carri bestiame. Sui binari i tedeschi erano molto organizzati perchè

temevano che qualcuno potesse scappare.Era necessario avere anche degli abiti civili.

Siamo stati stipati dentro i carri bestiame e hanno sbarrato le porte. Si parte!

 Avevamo saputo che i nostri macchinisti, quando si trovavano in mezzo allacampagna rallentavano.

Non so nemmeno io come ho fatto, ma sono riuscito ad aprire una porta, vado dai imiei amici e dico “io ci provo e mi butto giù per una scarpata” mentre pensavo “seposso mi salvo...” proprio in quell’attimo un soldato che era sul nostro vagone mettefuori la testa e si butta, il tedesco che era armato all’esterno del carro ha capito ciò

che stava accadendo e, come il nostro soldato si è buttato, lo ha falciato con unaraffica di mitra.

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 A quel punto ci ho ripensato perchè sarebbe stato da stupidi sacrificare la vita così.

Intanto il treno viaggiava e si presumeva andasse verso Udine e Tarvisio sul confineaustriaco.

Dopo parecchio

tempo il treno siferma, penso inprossimità delconfine. Credofossimo in prossimitàdi una segheriaperchè vedevo dellecataste di tavole.

 Aprono le porte deinostri vagoni e cidanno della minestrada mangiare e poicalci e sberle conbrutalità per farciscendere dal carroche era pure alto,tentammo di prendere tutto quello che potevamo, anche niente, e ritornare a saltaresul carro che come ripeto era molto alto.

Un mio amico che era anche un tipo coraggioso, non è stato abbastanza veloce nelsaltare sul carro e un tedesco lo ha buttato con il calcio del fucile, l’ho visto piangere.“Ragazzi!” Dico io “bisogna farci coraggio, la vita sarà dura cerchiamo di

sopravvivere”.Intanto dei nostri soldati, si eranoaccorti che sotto quelle cataste ditavole c’era del vuoto, per cuitentando di eludere lasorveglianza dei tedeschi, siinfilarono sotto.

I tedeschi se ne sono accorti ehanno iniziato a sparare raffiche dimitra sotto le cataste. Non so

quanti si siano salvati e quantisiano morti là sotto.

Passato il confine siamo giunti in Austria a Villach. Là vedemmoqualcosa di terribile. Una cinta direticolato doppia elettrificata dacorrente elettrica circondata datorri con soldati armati dimitragliatrice. Ho visto donnecambiare vecchi stracciati ed

impauriti e certamente affamati.

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9. Il numero di matricola

Ci mettono in fila con un passaggio obbligato e distribuiscono le piastrine “papir” colnumero di matricola.

Il mio numero è “32882”, ma i numeri non erano progressivi, sicchè la nostra, l’11Compagnia Teleferici 4 Corpo d’Armata di Bolzano si sfasciava, fino ad alloraavevamo sempre tentato di stare uniti.

È stato un momento tragico per noi.

Mi ricordo che poi ci schierarono e dissero di consegnare tutto ciò che avevamo, abiti

civili e militari, tutto quanto c’era nello zaino. Sono rimasto solo con quello che avevo

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addosso. Sono riuscito a tenere solo il cucchiaio e il tegame per il rancio, un tegamein ferro smaltato. Quello era tutto ciò che mi era rimasto.

Ero rimasto nudo.

Il giorno dopo ci schierarono nuovamente e chiamarono dei numeri, “ dal numero al

numero, fuori” per le varie destinazioni ai campi.Fra questi gruppi c’ero anch’io, una guardia armata ci ha scortati al treno e nessunosapeva la destinazione.

Non so quanti chilometri abbiamo viaggiato nè quanto tempo abbia impiegato il trenoperchè bisognava dare la precedenza ai treni militari.

Finalmente arriviamo, ci portano in un campo circondato da un reticolato conall’interno tante baracche che dovevamo occupare.

 All’interno solo letti a castello a 3 livelli, stretti, con un pagliericcio con un po’ di pagliadentro ed una coperta di lana grezza.

Ritengo che in quel campo ci fossero circa 2000 prigionieri provenienti da varie armidell’esercito. Eravamo al campo di Kapfenberg, vicino al campo di Mauthausen.

 Altra adunata e via verso le varie fabbriche di destinazione, tutte adibite allaproduzione bellica.

Un grosso gruppo, del quale feci partre anch’io, partì scortato da guardie armate, allavolta di un grosso insediamento industriale.

Qui ci destinano sul posto di lavoro, io capito con un altro militare mai conosciutoprima, era calabrese.

Dovevamo fare 2 turni, uno per turno, 6-14 e 14-22.

Il capo reparto mi inserisce nel gruppo, eravamo in cinque e dovevamo sagomaredei pezzi per la produzione dei Panzer.

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10. Lavoro in fabbrica

Il lavoro era duro e doloroso, e il lavoro peggiore venne assegnato a me.

Con un grosso martello dovevo levare dei manufatti dalla bocca di un forno ad unatemperatura di 1400 gradi.

Dal calore io stesso fumavo come una torcia.

Quel pezzo di acciaio incandescente veniva afferrato da una lunga e grossa tenagliae veniva aggangiato ad una gru azionata da una ragazza polacca che trasportava ilpezzo sul grosso maglio per essere lavorato, per poi essere riportato su enormipresse per lo stampaggio.

Il ciclo di lavorazione durava circa un’ora, dopodichè erano necessari 15 minuti diriposo per potersi riprendere.

Questo significa quanto fosse duro quel lavoro.

Mentre la squadra si riposava in cerchio sulle panche, io dovevo stare lontano, nonpotevo parlare con loro, era proibito, io ero bollato come un traditore.

Mi assegnarono un armadietto per riporre la mia giacca militare e mi diedero ungrembiule di amianto per non prendere fuoco io stesso.

Terminato il turno, si doveva tornare al campo e la strada era lunga, penso 6-7chilometri.

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11. La fame

 Arrivati al campo c’era l’appello, poi tutti in fila per il rancio, una brodaglia con rape epatate. La mattina ci davano una fetta di pane nero e un cucchiaio di marmellata,questa era la nostra vita da quel momento.

Fame, tanta fame.

Eravamo già in autunno inoltrato del 1943, intorno al campo c’era del’erbetta e persopravvivere andavamo a tagliare quell’erbetta per metterla in quel tegamino dibrodaglia.

In cucina si pelavano le patate e le buccevenivano gettate in un mucchio nel cortile

e noi come bestie affamate ciavventavamo sopra, nella speranza dipoter recuperare qualcosa, si lavavano epoi si cercava di arrostirli sulla stufa chec’era nella baracca.

Bisognava farsi forza per sopravvivere.

Molti miei amici sono purtroppo deceduti, non sono riusciti a farsi forza e si sonolasciati andare. Erano giovani forti e belli, ma sono morti.

Intanto si stava avvicinando il Natale del 1943, si cercava di resistere, era orrendo,

stipati in quella baracca, chi piangeva, chi pregava, all’improvviso entra un sacerdoteitaliano che si commuove tanto e dice “ragazzi coraggio, io vi assolvo tutti”. Nonricordo se aveva ostie con sè per la comunione.

Vicino al campo c’erano dei filaritriangolari con sotto le patate, i tedeschi leconservavano così, le coprivano con dellefoglie coperte da uno strato di terraricavato da fossati laterali per lo scaricodell’acqua piovana. In questo modo siconservavano fino a primavera comefossero appena raccolte. I tedeschi

sapevano che noi eravamo molto affamatie vigilavano giorno e notte con guardie armate. Una notte, io non ce la facevo più edissi “ragazzi io vado a rubare le patate” loro mi scoraggiarono, se vai non torni più,sapevo benissimo il rischio che correvo, ma l’alternativa era rischiare di morire difame.

Ci andai e tornai con un sacchetto pieno di patate. Abbiamo mangiato tutti , maquello non era il primo rischio.

Quante volte la notte mentre si tornava dal lavoro, visto che le guardie non sempre ciaccompagnavano da vicino, tentavamo di farlo nuovamente, ma le sentinelle quandose ne accorgevano ci sparavano addosso.

Bisognava rischiare, tanto la vita non aveva più alcun valore.

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12. La vita trascorre al campo

Poi col passare del tempo mi sono ambientato nel posto del lavoro, i capi repartoerano tutti di una certa età in quanto i giovani erano tutti sotto le armi.

Nei reparti c’erano molti deportati di tutte le nazionalità, francesi, serbi, polacchi, ecc.

Poichè il capo mi conosceva, ogni tanto mi assegnava alcuni incarichi al maglio,dovevo scaricare delle sbarre incandescenti levate dal forno.

Un serbo anziano, veramente cattivo, mi guardava male perchè sapeva che ero unprigioniero italiano, il capo lo sapeva e quando litigavamo se la rideva. Quando luinon mi passava in tempo i materiali io gli dicevo in tedesco “schnell” (veloce) e lui midiceva “maledetto italiano” .

Un altro vecchietto, questo era tedesco, era un artista, teneva in tasca una medicinama non riusciva a prenderla perchè si doveva lavorare.

Non parlava con me perchènon si doveva parlare con unprigioniero traditore.

Io lo aiutavo e poichè erasenza denti mangiava lamollica del pane nero che siportava da casa. Le croste le

nascondeva in un posto e midiceva “aspetta, poi valle aprendere” sapeva che eroaffamato.

Dopo il lavoro si tornava alcampo, ci si metteva in fila perprendere la razione di minestra a base di rape, poi verso le 11 di sera si andava nellebaracche dove c’era il mio posto letto.

Un giorno entro nella baraccae non trovo più la mia branda.

 Avevano cambiato posto.

Non trovavo più la mia robal’ho cercata e ho racimolatoquel po’ di vestiario che hotrovato.

Mi hanno assegnato unabranda con un pagliericciolasciato da un altro, forse era

morto.Piangere non si poteva, bisognava resistere ed affrontare la situazione.

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 A volte tornando dal lavoro la sera si trovavano i tedeschi schierati col mitra, nonsapevamo se volevano ammazzarci, ma comunque ci terrorizzavano.

Dopo qualche giorno sul pagliericcio che avevo ereditato trovai una brutta sorpresa,era pieno di pidocchi, non ero il solo, pensate che si organizzavano addirittura legare sul tavolo sul pidocchio che era più veloce.

Me li sono portati a casa fin dopo la prigionia.

Un giorno i tedeschi hanno piazzato nel campo una batteria antiaerea con 18 cannedi fuoco azionate da un radar, ciò ci ha fatto capire che stavano incominciando leprime formazioni per i bombardamenti.

Un giorno nel campo chiamano un gruppo di circa 20 militari, sento pronunciare“32882” ero anch’io nell’elenco.

Le guardie armate ci conducono in un posto tetro, brutto, lontano dal campo ci fannoentrare in uno stanzone e dicono spogliatevi di tutto, poi entrate per fare la doccia.

Sopra di noi abbiamo effettivamente notato delle docce, ma abbiamo anche notatonello stanzone delle bocche e dei portelloni che avevamo capito che potevanoessere adeguati per bruciare, quindi per l’eliminazione.

Ci siamo impauriti e dico “ragazzi qui ci fanno fuori”. Adesso vediamo se dalle docceesce acqua o gas. Eravamo pronti a morire, ma è uscita acqua e ci siamo salvati.

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13. Nuovi amici (1944)

Eravamo giunti all’inizio del 1944. arriva un gruppo di prigionieri, erano Carabinieri evenivano da Roma, si trattava di un corpo speciale di scorta ai militari.

Mi sono fatto dei veri amici tra di loro.

Hanno tanto sofferto perchè loro subivano un trattamento particolarmente crudele.

Me ne ricordo uno in particolare che mi sono fatto amico, aveva coraggio, si dovevasopravvivere.

Ricordo un episodio accaduto nell’autunno del 1944, in un campo c’erano degliolandesi che raccoglievano delle patate, ci siamo accordati per farci lasciarenascosto in un posto un sacco di patate.

“Quando suona l’allarme aereo, poichè i tedeschi vanno nei rifugi, noi usciamo eandiamo a prenderlo”. E così abbiamo fatto. Con il sacco di patate in spalla abbiamoincontrato un civile armato di pistola che ci intima “Alt” con la pistola puntata cichiede “papir”. Io ero con il mio amico Carabiniere, ci guardiamo, lui era solo e noi indue.

Gli siamo saltati addosso, lo abbiamo lasciato vivere, ma non si poteva rinunciarealle patate, la fame era troppa.

Siamo all’inizio del 1944, il lavoro in fabbrica diventava sempre più duro e la razionedi viveri sempre più scarsa.

In fabbrica mi sono schiacciato il dito medio della mano sinistra, sono andato ininfermeria del campo, avevo un male terribile, non me la sentivo proprio di andare alavorare.

Mostro il dito al medico che mi dice “non posso darti riposo, ma se ti strappo l’unghiati dò 2 giorni”.

Ho allungato la mano e ho detto “strappa”.

Me l’ha strappata, e sono svenuto dal dolore.

Ho trovato due amici uno calabrese l’altro emiliano, erano disperati anche loro,facemmo un patto di sangue “se facciamo delle azioni e uno di noi viene preso daitedeschi non deve rivelare i nomi dei suoi complici, a costo della vita.”

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14. Le sigarette

Non lontano dallo stabilimento c’era uno scalo ferroviario.

La notte dopo il lavoro una volta siamo andati ad ispezionarlo, erano circa le 22,c’erano tanti vagoni merci con porte sigillate e naturalmente sorvegliate da guardiearmate.

Ci siamo muniti di una spranga di ferro nascosta sotto i vestiti, eravamo pronti a tutto.Quando le guardie passavano, ci nascondevamo dietro le ruote dei vagoni. Abbiamoaperto tante porte quante ne abbiamo potuto fare nella speranza di trovare qualcosada mangiare.

I treni arrivavano dall’Italia carichi di coperte, materassi, munizioni, di tutto insomma.

 Alla fine ho trovato unpo scatolone pieno di sigarette “Nazionali”.“Ragazzi questa è fortuna” i lavoratori tedeschi non trovano sigarette da comperare,quanto è il pane per noi.

Così potevamo scambiarle per del pane nero.

Dovevamo passare sotto la torre di controllo che era ben illuminata con le guardiearmate.

Col cuore in gola siamo riusciti a passare.

Bisognava rischiare. Siamo andati di corsa nel bosco.

Nello scatolone c’erano circa 300 pacchetti di sigarette. Le abbiamo divise e poi leabbiamo nascoste un po’ dappertutto.

Era molto rischioso, ma per quelle sigarette gli operai tedeschi ci avrebbero dato untozzo di pane nero.

Tutti si sono chiesti come potessero quei prigionieri italiani avere delle sigarette,anche gli altri prigionieri del campo se lo chiesero.

Ero in fabbrica durante il turno dalle 14 alle 22, quando il capo reparto, scortato dadue agenti si dirige verso di me. I due “Polizei” chiedono di Fiocco, “sono io” dico.“vieni con noi al comando”. Mi dirigo verso il mio armadietto per depositare ilgrembiule e prendere la mia giacca militare, ma quando apro l’armadietto i poliziottitrovano 30 pacchetti di sigarette.

Sbarrano gli occhi senza dire niente. Il motivo del mio arresto l’ho capito poi.

Un francese collaboratore dei tedeschi mi ha denunciato dicendo che gli avevorubato un indumento.

I poliziotti però si ricredono e capiscono che io non ho rubato nulla, fanno anche delleverifiche sul campo e sul cartellino timbrato in fabbrica.

Entrando in commissariato ho detto, ora mi ammezzeranno di botte. Entrando nelcomando ho sentito grida inumane, non c’era certo da stare tranquilli.

Sono stato circondato da Polizei, e subito mi hanno chiesto “perchè hai tutte questesigarette?” io tutto tranquillo senza alcun timore rispondo “sono stato fatto prigioniero

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in Dalmazia (che allora era considerata provincia italiana) e poichè c’è il monopolioitaliano, questo è il bottino che mi sono portato”. Poi mi fanno la solita domanda“Badoglio o Mussolini?” io calmo rispondo “noi qui stiamo pagando gli sbagli deinostri capi”. I Polizei rimangono senza parole, mi hanno restituito il mio sacchetto disigarette e hanno comunicato al capo del campo che stavo tornando.

 Appena arrivato al campo il capo mi ha voluto nel suo ufficio e naturalmente hosubito una tartassata. Ho passato veramente un brutto momento che nondimenticherò.

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15. Di nuovo in partenza

In fabbrica ero controllato, per cui mi sono detto “o la va o la spacca”.

Io e il mio amico con cui dividevo il turno, abbiamo escogitato un sistema per cuieravamo presenti all’appello per la partenza dal campo, in fabbrica era timbrato ilcartellino, ma non ci presentavamo al posto di lavoro.

Questo sistema è andato avanti per circa 20 giorni, poi un giorno nel campo diconcentramento viene esposto un avviso con i nomi di 20 prigionieri compreso il mioe quello del mio amico, per un trasferimento con partenza immediata.

 Abbiamo pensato “è finita, campo di punizione per poi finirci”.

Prima di partire dal campo di Kapfenberg ”, doveva essere Marzo 1944, mentredormivo su quel pagliericcio pieno di pidocchi, per tre notti mi sono svegliatopiangendo.

Solo dopo ho saputo che proprio in quei giorni era morta la mia nonna Caterina chemi aveva visto partire e non mi ha visto tornare.

Povera nonna aveva tanto sofferto, aveva patito anche la fame, aveva 75 anni eallora gli anziani non avevano tutta l’asssistenza che hanno oggi. Mia nonna eravedova dal 1935 quando mio nonno a 82 anni, tornando dalla montagna da 2000mt.per la fienagione, percorrendo la strada comunale è stato investito da un criminale inmoto. È morto sul colpo e l’investitore è stato assolto da ogni accusa perchè fascista.

Era un bravo nonno.

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16. Trasferimento alla fabbrica di birra

Ma torniamo al trasferimento, scortati da guardie armate, arriviamo in una grossa

fabbrica di birra, Breurei Puntigam alla periferia di Graz in Austria.Nel cortile le guardie ci allineano per l’appello e ci presentano alla direzione comedelle bestie rare poi ci interrogano per capire le nostre professioni ed individuare ilavori più appropriati.

Ci assegnano l’alloggio in un fabbricato di proprietà della birreria.

Il dormitorio aveva letti a castello, una specie di mensa e la cucina nella qualelavorava un francese come cuoco che cucinava ciò che la direzione della fabbrica glipassava.

Il cibo era scarso, tanto scarso che eravamo tutti affamati.

Il lavoro di per sè non era poi così male ma ci guardavano con molta diffidenza.

Io entrai in un piccolo reparto come addetto alla manutenzione delle macchine rotantidi imbottigliamento della birra oltre alla manutenzione elettrica e telefonica.

Il mio capo che viveva con la moglie nei locali della birreria, avevano anche un figlioche non ho però mai visto perchè era militare, all’inizio mi guardava con diffidenza eparlava poco, poi visto il mio comportamento, mi ha preso in simpatia e mi mandavada sua moglie per fare qualche lavoretto in casa e così mi allungava di nascostoqualcosa da mangiare.

Era anche un bravo professionista ed era un bolzanino che aveva optato per la

Germania perciò parlava sia tedesco che italiano. Negli altri reparti c’era tutta genteanziana e tante donne, francesi, e credo fossero tutti prigionieri perchè ogni tantoricevevano quei pochi viveri dalla Croce Rossa.

Mi invidiavano un po’ per il posto che occupavo io perchè potevo anche andare alavorare in qualche ufficio per guasti elettrici o telefonici.

Intanto il conflitto continuava e non era così roseo per i tedeschi.

 A Stalingrado in Russia avevano perso e i bombardamenti incominciavano adintensificarsi e anche i viveri incominciavano a scarseggiare.

 Anche il nostro cuoco francese si lamentava che non aveva più sale, la situazione

iniziava ad essere veramente critica.Poi io ho pensato, in birreria per fare il ghiaccio ci vuole il sale. Riuscii a trovare ildeposito del sale, naturalmente non era sale marino, ma era pur sempre sale, cosìpotei sistemare il cuoco per la cucina.

Ne portai circa 50 kg. Spalancarono gli occhi e si chiesero come avessi potutoprocurarmelo.

Come dicevo bisogna rischiare per sopravvivere.

Nella birreria, vicino al mio reparto, c’erano i bagni per lavarci ed il water.

Quando andavamo in bagno, nel calare i pantaloni si schiacciavano i pidocchi piùgrandi tra le pieghe dei pantaloni.

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C’era una ragazza italiana con un bambino piccolo, forse avuto da un militaretedesco, mi supplicò di portarle un po’ di sale, mi disse ti do quello che vuoi. Le dissi“mi devi solo ringraziare”, povera ragazza.

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17. Cominciano i bombardamenti

Come dicevo i bombardamenti si intensificarono e da allora a turno, sabato edomenica si doveva andare alla stazione ferroviaria a riparare i binari danneggiati daibombardamenti.

Ormai i bombardamenti erano quotidiani, di notte gli americani con le fortezze volantiscortate dai caccia velocissimi che miravano alla postazione antiaerea emitragliavano su tutto ciò che si muoveva.

Quando si andava in stazione, la prima cosa da fare era andare a vedere dove sitrovava il rifugio antiaereo, ed infatti non passava giornata che non suonassel’allarme.

Era terribile, guai a chi cadeva, nessuno se ne occupava, il cuore si era indurito.Nella stazione di Graz era tutto un groviglio di rotaie contorte e vagoni distrutti.

Una volta notai addirittura tre locomotive una sopra all’altra come se le avesseromesse così apposta, e questo dà un’idea della violenza dei bombardamenti e dellospostamento d’aria dovuto alle esplosioni.

Nel ritorno a casa si notavano poi palazzi sventrati, macerie dappertutto e tanti morti.

Passava una pattuglia armata che li contava e chi aveva morti in famiglia non potevanemmeno piangerli, era proibito piangere altrimenti li portavano via e sparivano.

Nella nostra fabbrica si produceva solo birra e penso fosse segnalata perchènonostante passassero sempre le fortezze volanti non hanno mai sganciato bombe.

Lì vicino invece c’era una fabbrica di Moto Puk che veniva bombardata per cuicadevano bombe lì vicino.

Vicino a noi c’era un’altra grossa fabbrica di birra che è stata trasformata in fabbricadi materiale bellico.

Sembra impossibile, ma appena è stata incominciata la produzione bellica l’hannorasa al suolo.

La razione di viveri era sempre più scarsa e anche la popolazione tedesca non se lapassava bene e molti iniziavano a capire che si andava verso una disfatta.

I nostalgici credevano in un miracolo del Fuehrer e nella sua arma segreta.

Noi prigionieri eravamo consapevoli che se la Germania avesse vinto la guerra noi acasa non ci saremmo più tornati.

Un giorno è venuto in laboratorio un Polizei  e ha chiesto al mio capo una personarispettabile e di fiducia perchè doveva riparare un guasto elettrico al loro comando.

Il mio capo disse è questo italiano, ed andai io.

Feci quello che c’era da fare e appena finito mi salutarono e con discrezione me netornai a casa.

Si andava verso l’autunno del 1944 e a quanto si capiva era l’armata Russa cheavanzava verso la zona nostra, cioè il confine dell’Ungheria che era vicino a noi.

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Un giorno, durante la raccolta delle patate, mi trovavo per caso vicino ad una stradadi comunicazione importante e vidi una moltitudine di donne, uomini e anziani ebambini a piedi con grossi carri trainati da buoi, vacche e qualche cavallo, enaturalmente al suono di qualche violino. Erano ungheresi e passavano epassavano, un corteo infinito.

Non si riuscì a capirne la destinazione ma certamente era per effetto delle truppeRusse che avanzavano.

 Ad un certo punto venne l’ordine per noi prigionieri, ma anche per i civili, a turno perogni paese, di andare verso il confine più vicino per scavare dei grossi fossati perritardare l’avanzata sovietica.

Era Dicembre 1944 ci alloggiarono in una scuola e ci troviamo 20 italiani e 20francesi, sul pavimento un po’ di paglia ed una coperta, c’era anche una stufa, latemperatura arrivava anche a meno 30 gradi.

Infatti quando si scendeva in cortile per lavarsi, l’acqua della pompa non si faceva in

tempo a portarla sul viso che era già ghiacciata.Nell’aula accanto ci saranno stati circa 40-50 uomini Russi infagottati nei loropastrani e con i loro zoccoli di legno.

C’era tanta fame e loro se avevano qualcosa da mangiare ce la offrivano.

La mattina alle 5 veniva un militare tedesco e diceva “aufstein bitte” (alzatevi prego!)passava un treno per caricarci e portarci al lavoro con una destinazione a circa 30km.

Lungo il tragitto saliva altra gente, non si arrivava mai.

Bisognava dare la precedenza ai treni militari e passavano le ore.

Facevano l’appello per ogni gruppo, c’era una marea di gente, di tutte le razze. Siiniziava il lavoro con delle palificazioni in legno lungo tutto il percorso con un sistemamolto ingegnoso.

Il percorso era lungo 2 Km e a mezzogiorno passava un carretto che distribuiva unabrodaglia di rape, era un miracolo prenderla.

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18. La fuga

Intanto si continuava ma si studiava anche il modo di evadere e naturalmente anchedi mangiare.

Ci siamo trovati in 3 amici dopo l’appello e mentre la guardia era in altri postiabbiamo deciso di scappare in aperta campagna dove c’erano delle fattorie dicontadini.

C’erano solo donne e tanti bambini e anche donne ukraine per il lavoro nei campi.

C’erano dei grossi covoni di fieno, abbiamo incominciato a scavare per trovare rifugioed infatti riuscimmo a ripararci bene dal freddo.

Dovevamo però risolvere il problema della fame. In queste grosse fattorie ciguardavano meravigliate, ragazzi giovani e belli.

Lì vicino c’era una scuola di guerra per militari tedeschi e le ragazze portavano lorodel cibo con un carretto, al ritorno ciò che non veniva consumato lo portavano a noi.

Non ci sembrava vero.

I nostri sventurati compagni di viaggio si chiedevano come facessimo.

Loro erano stanchi e affamati e andavano avanti da qualche settimana in quellostato.

Si doveva però trovare qualche altro sistema.

Il mattino, come ogni giorno, la guardia venne a dare la sveglia ma nessuno simosse.

Era terribile, i francesi urlavano “alzatevi voi italiani” e noi non volevamo cedere.

Volevano essere superiori a noi finchè poi un gruppetto di altri italiani ed altrettantifrancesi decidevano di accontentare il tedesco.

Ma c’era un problema, il tedesco segnalava il nostro rifiuto e naturalmente non sipoteva stare lì a dormire, lo capimmo quando la prima mattina venne a farci visita lapolizia.

Non sentirono scuse.

Iniziarono a picchiarci con botte da massacrarci e con urla spaventose ci dissero dialzarci. Bisognava reagire.

Mi trovai con un giovane militare di 17 anni impaurito, venne da me pensando chepotessi aiutarlo, lo aiutai e trovammo una fattoria di contadini che era composta soloda 3 vecchiette e una sposa con una bambina. Il marito era stato spedito al fronte enon sapevano nemmeno loro dove si trovasse. Per questo ci offrirono qualche lavoroda fare e noi lo facemmo con serietà in cambio ci sfamavano.

 A mezzogiorno mettevano in tavola una grossa scodella con minestra e pasta eognuno si serviva da quella stessa scodella.

Loro erano ospitali e capivano certamente il dramma di noi giovani soldati prigionierie non hanno mai pensato di segnalarci alla polizia.

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 Andammo avanti così per qualche settimana.

Il mio giovane amico milanese era sempre attaccato a me, sentiva un senso diprotezione.

Si avvicinava il Natale del 1944, volevo tornare dai miei amici sventurati nella birreira

da dove ero scappato per poi tornare nella scuola.Era una pazzia lo so.

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19. Via da Gratz e ritorno

Siamo andati in stazione, abbiamo comprato un biglietto per Graz, abbiamo viaggiatotutta notte e siamo arrivati la mattina di Natale.

Una mattinata serena e fredda.

 Ad un certo punto suona l’allarme, delle grosse formazioni di fortezze volanti eranogià nel limpido cielo a sganciare bombe.

Ricordo che la contraerea tedesca colpì una di queste fortezze volanti e si è vistol’equipaggio americano buttarsi col paracadute mentre l’aereo esplose sopra la città.

La fine che fece l’equipaggio fu terribile.

Tornati nella scuola il ragazzo milanese si ammalò di orecchioni, aveva i testicoligrossi e che gli facevano molto male. Presi una coperta strappai una fascia e me lamisi al collo per sostenere il suo peso e lo portai via di lì.

Non soffrì più povero ragazzo.

Presi nuovamente il trenino e tornai nella birreria.

La guerra continuava e sapemmo che gli alleati erano sbarcati in Francia con tanteperdite umane ma con successo, prendendo posizione in linea e iniziando adavanzare contro la potente armata tedesca.

Noi che eravamo vicini al confine ungherese sentivamo dell’avanzata delle truppe

sovietiche.I tedeschi si rendevano conto che non avevano più molte risorse per fronteggiare letruppe nemiche al fronte e anche nella nostra birreria diedero fucili in mano a donnee anziani e li mandarono verso il fronte sovietico.

Purtroppo è andata male, i sovietici hanno bloccato e disarmato questi civili, gliuomini li hanno rispediti a casa mentre le povere donne se le sono tenute.

Ora anche i più nostalgici incominciavano a capire che il sistema si stava sgretolandoe il loro entusiasmo incominciava a vacillare.

I bombardamenti si intensificavano sempre di più di giorno e di notte e la fame era

sempre di più, tanta fame.Come si faceva a sopravvivere?

I miei amici sempre prigionieri, addetti alla manovalanza, un giorno mi si sonoavvicinati e mi hanno detto che sui binari, che arrivavano fino all’interno della birreria,binari che servivano per trasportare la birra, c’erano dei carri provenienti dall’Italiacarichi di granoturco.

Un carico preziosissimo.

Si doveva rubarlo per poi macinarlo. Io dico “ragazzi, prendetene più possibile eportatemelo che poi ci penso io”.

I ragazzi si legarono le estremità dei pantaloni e della giacca per poter riempire ivestiti il più possibile di grano.

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Naturalmente consapevoli del grande rischio che correvano.

Vicino al dove avevamo trovato rifugio, c’era una fattoria abbandonata dove c’erauna specie di mulino con macina per poter macinare il cibo per gli animali. Poichèera guasta, ed io ero stato a lavorare in fabbrica come operaio elettromeccanico, mimisi a lavorarci su per ripararla, ma lo dovetti fare di nascosto in quanto lì vicino c’erauna strada molto trafficata e percorsa anche dalla polizia.

 Alla fine riuscii a metterla in funzione e dissi ai ragazzi che quella sarebbe stata lanostra salvezza. “Mangeremo polenta, magari solo polenta ma ci sfameremo”.

Per poter macinare si doveva aspettare l’allarme aereo ed il bombardamento con lebombe che cadevano proprio lì vicino per via di quella nota fabbrica PUK che comeho già detto era continuo bersaglio di bombardamenti. Mentre i miei compagni disventura durante l’allarme antiaereo andavano nel rifugio, io mettevo in moto ilmulino e macinavo.

Vada come vada, tanto ormai la vita non valeva un soldo bucato e io mi dicevo “se

devo morire, almeno muoio con la pancia piena”.Ho macinato per molte notti e sempre durante i bombardamenti con le bombe checadevano proprio lì vicino, ma si doveva rischiare e mi è andata bene, a me e ai mieisventurati compagni.

Siamo giunti così a Marzo, Aprile, non sapevamo che in Italia i tedeschi si stavanogià ritirando, ma all’orizzonte della città di Graz già da un mese si erano ammassatele truppe Russe.

Di notte si vedevano bagliori di fuoco, e di giorno i caccia russi ci facevano visitamitragliando dappertutto.

Si vedevano i soldati tedeschi ormai sfiniti che si ritiravano, ormai era il caos.I soldati tedeschi andavano rastrellando tutte le donne giovani per portarle lontanedal fronte russo. Non ho mai saputo dove le portassero ma loro avevano paura.

Noi italiani superstiti ci siamo radunati per decidere il da farsi.

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20. La fuga

Le nostre guardie erano ormai scappate con gli altri militari in ritirata, e noi ci siamodetti “se rimaniamo qui, i Russi non sanno nemmeno se siamo prigionieri o soldatitedeschi, questi ci catturano e ci deportano in Siberia”, così decidemmo di scappareal più presto.

Lì vicino c’era una stazione ferroviaria secondaria e sui binari c’erano dei carribestiame scoperti e secondo alcune informazioni sarebbero dovuti partire per l’Italia. Abbiamo così racimolato tutto quello che avevamo, vestiario e quel poco damangiare che avevamo trovato, ma ancora una volta si doveva rischiare.

Non sapevamo infatti dove sarebbe andato il treno ma si doveva tentare.

Il treno partì.Tutti speravamo che quella era la nostra salvezza.

Viaggiammo di notte poi ad un certo punto il treno si fermò. Dove siamo? Nessuno losapeva. Scesi dal treno camminammo tutta la notte lungo i binari trascinandocidietro le nostre povere masserizie fino all’alba.

 Ad un certo punto scorgiamo un treno fermo.

Dove andrà, forse in Italia?

Ci proviamo, non avevamo atre alternative. Il treno parte e poi si ferma, decidiamo diproseguire a piedi sempre lungo i binari. Finalmente qualcuno dice “siamo in Italia”eravamo a Tarvisio suolo italiano.

C’era una confusione inimmaginabile, le truppe tedesche armate con tuttol’armamento erano ormai in ritirata.

Noi eravamo in cinque, cinque amici inseparabili dai tempi della birreria, siamo statisempre uniti e non ci siamo mai separati, nemmeno nella confusione.

Se c’era qualcosa da mangiare la si divideva tra tutti, un unione per la vita.

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21. Finalmente in italia a Tarvisio

Un mio caro amico, si chiamava Dario, era di Feltre (Belluno) non si staccava mai dame, era sconvolto ed impaurito. L’ho portato fino a casa. Finita la guerra ci siamofrenquentati anche con le nostre famiglie. Lui mi diceva “Carletto tu mi hai riportato acasa e salvato la vita”.

Ma torniamo a Tarvisio. Dovevamo trovare un rifugio per la notte. Incontriamo unasignora austriaca e le diciamo che siamo prigionieri italiani e le chiediamo se cipoteva dare aiuto.

Le ci ha detto “vi aiuto io, i tedeschi sono andati via, prima avevano il comando acasa mia” la signora era la moglie del capo stazione di Travisio.

 Appena saputo che erano arrivati a Tarvisio tanti soldati italiani, giovani e sofferenti, ipartigiani locali sono venuti da noi e ci hanno detto “dateci una mano cheattacchiamo i tedeschi”. Gli ho risposto “noi ne abbiamo passate tante, non fatepazzie, i soldati tedeschi sono in ritirata ma sono armati fino ai denti, lasciateli stare”.Per fortuna ci hanno dato ascolto altrimenti sarebbe stata una strage.

La signora ci ha nascosti in soffitta fino al giorno dopo quando è venuta a chiamarciper dirci che era tornata la calma e che non si vedevano più soldati tedeschi in giro.

Poi ci ha detto che lei aveva conservato la bandiera italiana.

L’abbiamo presa e siamo saliti sul tetto per sventolarla.

Un urlo di gioia.Viva l’Italia libera!!

Ci siamo abbracciati tutti.

Ma non era ancora finita.

Giravano ancora tante bande armate, era necessario avere prudenza, ci eravamosalvati la vita fino a quel momento, non potevamo rischiare ora. Siamo rimastinascosti ancora finchè non è tornata la calma, poi la sera siamo partiti da Tarvisioalla volta di Gemona.

Ci incamminammo sempre con il terrore di incontrare bande armate, la strada erabuia, i ponti distrutti dalle bombe, ad un certo punto sentiamo un rumore, era unmezzo, un autocarro, una bella sorpresa, era un autocarro degli Alleati, 8° BrigataBritannica.

Siamo soldati italiani, prigionieri dei tedeschi fuggiti da un campo di prigionia.

Questi soldati alleati ormai capivano l’Italiano e ci hanno accolti bene, ci chiedononotizie, era il primo mezzo alleato dopo la ritirata tedesca.

come possiamo aiutarvi?

Ci caricarono a bordo e ci portarono avanti per una decina di chilometri, poi dissero“davvero di più non possiamo”.

Basta uscire da questa valle, chiamata la Valle del Ferro.

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Siamo arrivati dove si apriva la pianura. Eravamo molto stanchi, trovammo un riparodove ripararci per qualche ora. Ripartiamo di buon ora per raggiungere la primameta, Gemona.

Nel frattempo arrivano tanti altri soldati prigionieri, stracciati, stanchi, affamati, matutti con lo stesso desiderio di di poter trovare la strada del ritorno per poterriabbracciare le proprie famiglie, se esistevano ancora.

Erano di tutte le regioni d’Italia, dal Nord al Sud.

Intanto si continuava ad incontrare le truppe alleate, vittoriose che erano partitedall’Africa con tante perdite e difficoltà all’inseguimento delle truppe tedesche inritirata.

Era già Maggio 1945, e noi non eravamo a conoscenza della resa dei tedeschi.

Intanto si era formata una fila infinita di… , si possiamo dire così, di straccioni italiani,giovani e meno giovani, di tutte le armi dell’esercito italiano.

Era qualcosa di impressionante da non poter descrivere ciò che i nostri occhivedevano.

 Ad un certo punto mi si presenta davanti una scena orribile, un uomo sul ciglio dellastrada, era irriconoscibile da tante botte aveva preso. “cosa è successo” gli chiedo.Era stato riconosciunto come un seguace di Mussolini, un repubblichino.

Dico, “ma questo sta morendo da quante botte ha preso”. E noi soldati prigioniericonoscevamo il sapore delle botte.

Lì per lì pensai di farmi dare un fucile per porre fine alle sue sofferenze, poi lacoscienza mi ha detto che non lo avrei potuto fare. Non avrei mai potuto ucciderequell’uomo. Allora decisi di riprendere la marcia e lo lasciammo al suo destino.

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22. Arrivo a Gemona

 Arrivammo finalmente a Gemona del Friuli.

 Avevano costituito una specie di porto di ritorno, ma da mangiare niente.

Non si capiva niente da tanta gente si era ammassata, c’era di tutto, chi rideva, chipiangeva.

Quello era il destino dell’esercito italiano.

Riuscimmo almeno a riposarci in modo da poter proseguire il viaggio verso Udine.

 Avevamo infatti sentito dire che ad Udine avevano costituito un’organizzazione per losmistamento di tutta questa gente verso le loro destinazioni di residenza.

Finalmente si tornava a casa.

Sempre noi cinque ci confrontiamo e decidiamo il da farsi.

Decidiamo di partire di notte che c’è meno confusione. Ma non vi era mai fine alpeggio, e ancora una volta abbiamo rischiato la vita.

Partiti da Gemona abbiamo sconfinato in Jugoslavia e abbiamo perso l’orientamento.

Ci siamo perduti, finchè da lontano abbiamo scorto una casetta sperduta.

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23. Pericolo delle Foibe

L’abbiamo raggiunta, era notte. Abbiamochiamato e ci siamo fatti riconoscere. Venne adaprirci una signora, molto coraggiosa, le dicemo“ci siamo perduti, ci può aiutare” e lei disse venitevi aiuto. Ad un certo punto arrivarono degli uominiarmati che ci intimarono l’Alt e dissero “sietefascisti, siete traditori”. La fortuna volle che lasignora disse “sono miei ospiti, hanno chiestoaiuto a me, vengono dalla prigionia, guardatecome sono conciati”. Volevano fucilarci. “avete

corso un bel rischio” disse quella coraggiosasignora.

Infatti erano partigiani di Tito, e come si è poi saputo ce l’avevano a morte con tutti gliitaliani, saremmo certamente finiti nelle tristemente famose foibe.

 Ancora una volta la fortuna ci aveva assistiti.

La mattina successiva partimmo alla volta diUdine, sempre a piedi trascinandoci dietro lenostre masserizie.

Questa volta però decidiamo di percorrere la

strada principale che già era piena di straccionicome noi. Stanchi e affamati.

Vedemmo tanti di questi militari straccioniammassati verso un grosso fienile.

Era stracolmo di zaini e materiale dell’esercitoitaliano che i tedeschi avevano sequestrato.

Buttammo via tutti i nostri stracci, gli scatoloni esacchi che ci trascinavamo dietro.

Ci tenemmo solo la roba più cara che finalmente

potemmo rimettere ancora una volta nei nostrizaini militari.

Tutti gli altri fecero lo stesso, tanto è vero che sul ciglio della strada per centinaia ecentinaia di metri era tutto un cumulo di stracci.

Sono certo che una cosa del genere nella miavita non la vedrò mai più.

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24. Arrivo ad Udine

 Arrivati ad Udine tutto era più organizzato.

Infatti c’erano i camion militari alleati che caricavano quante più persone potevanoper portarle nelle varie destinazioni.

Ed ora, cari ragazzi, noi cinque dovevamo separarci.

Io sono rimasto con il mio inseparabile amico Nino sul camion militare alleatostrapieno di poveracci come noi.

I ponti sul fiume Tagliamento erano stati fatti saltare tutti dalla ritirata tedesca, cosìavevano fatto una pista sul letto del fiume.

Infine con quel camion raggingemmo Treviso, era notte. Il mio amico Nino disse “ioconosco una famiglia” ma Treviso era solo un cumulo di macerie e Nino ormai noncapiva più nulla e non riusciva ad orientarsi.

Io suggerii di andare verso la campagna e dissi “lì troveremo un fienile dove riparci”.

Infatti una famiglia di contadini ci alloggiò nel fienile, ma qualcosa mi insospettì nelcomportamento di quei contadini e dissi a Nino “non chiudiamo occhio” e così pianopiano ci siamo allontanati.

Vagammo ancora di notte nella speranza di trovare qualcosa di meglio.

Camminando si fece giorno, eravamo ancora nella provincia di Treviso e trovammo

finalmente un posto per la prima accoglienza con persone gentili e premurose chenon sapevano più cosa fare per noi.

 Avevano saputo che incominciavano a passare i soldati superstiti dai campi diprigionia tedeschi..

 A questo punto pensavamo solo a raggiungere le nostre famiglie.

I mezzi di trasporto erano del tutto bloccati, ad un certo punto scorgemmo uncamioncino carico di bare, vuote naturalmente, ci fecero salire sul cassone sopra lebare, destinazione Feltre, il paese di Nino.

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25. Arrivo a Feltre

Il camioncino si fermò in mezzo alla città di Feltre.

Nino venne riconosciuto con salti di gioia ed abbracci. Eravamo forse i primiprigionieri.

Ci portarono dai loro famigliari, padre, madre, fratelli e sorella. Non credevano ai loroocchi vedendo un figlio ritornare a casa dopo tanti mesi senza più notizie.

Ci ospitarono per la notte, finalmente in una stanza con due letti soffici. Non riuscivonemmeno a prendere sonno.

Nino mi chiese “riesci a dormire?”

“no, non riesco” prendemmo una coperta la stendemmo sul pavimento eincominciammo a dormire. Dopo tanti anni abituati a dormire per terra osemplicemente sulla paglia, quello era il nostro giaciglio.

Il giorno dopo trovai a Feltre un mio paesano, si chiamava Gino, era pure un miocoscritto.

Credo venisse dalla Jugoslavia.

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26. Arrivo ad Agordo

Riuscimmo a trovare una corriera che andava fino ad Agordo, sempre in provincia di

Belluno. Infatti ad Agordo trovammo dei paesani, ormai lì c’erano le truppeamericane e la gente ci andava per poter trovare qualcosa da mangiare tramite letruppe alleate.

Come mi videro mi saltarono addosso, eravamo tra i primi sopravvissuti e nonpensavano di trovarci ancora vivi.

Mi fecero tante feste, abbracci, e mi dicevano “Carletto, Carletto” questo era il nomecon cui mi chiamavano in paese.

 Arrivati al paese, Canale d’Agordo, famoso per essere diventato il paese di PapaGiovanni Paolo I.

Ci conoscevamo bene, all’epoca quando era ancora in seminario, ci chiamavamo pernome e ci frequentavamo spesso.

 Appena sceso dalla corriera tutti incominciarono a chiamare il mio nome.

È stato lì che fatalmente si trovava una signorina, sentito il mio nome ha capito di chiero figlio, lei conosceva bene tutta la mia famiglia.

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27. La vita senza guerra

Quella signorina, giovane e bella, si chiamava Antonietta, che poi è diventata miamoglie.

Ci sposammo nel 1949, ci siamo voluti tanto bene. Da questa unione sono nati tre

splendidi figli, due femmine ed un maschio. Abbiamo lavorato tanto con un’unione sostenuta da tanto amore.

La salute ci ha aiutato e con la nostra unione prima abbiamo costruito casa a Canalepoi, poichè Canale non offriva un futuro per i nostri figli, era un paese di emigranti,per il oro bene arrivai a Brugherio in provincia di Milano.

Misi su casa e i nostri figli poterono studiare nella vicina Monza, trovarono lavoro, sisposarono tutti e tutti si sistemarono con una propria casa.

Ora sono nonno di sei nipoti e di due pronipoti.

Ora sono tanto anziano, e scrivo queste memorie prima che la memoria vengameno, ma sono contento perchè così i miei figli possano sempre ricordarsi del loropapà e della loro mamma che purtroppo da 4 mesi ci ha lasciati, e precisamente il 7Luglio 2007.

Una Mamma che tutto ha dato per la famiglia e per i suoi adorati figli, e per il suoadorato marito.

Non potrò mai dimenticarla, l’ho tanto seguita nella sua malattia e vorrei tanto poterlaseguire ancora, se fosse qui. Quanto è stata tranquilla e paziente benchè soffrissetanto, ora la prego e lei, sono certo, dal Paradiso mi seguirà.

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28. Conclusioni

Questo è un diario di storia vera e vissuta di un militare tanto giovane che ha vissutoda deportato e da civile.

Spero che questo diario venga letto e possa far capire ai giovani di oggi quante gioiee quanti dolori si possono sopportare nella vita, e come solamente con veri Valori eperseveranza si possano superare tante avversità.

Carlo Fiocco

Brugherio 13 Novembre 2007

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 Associazione Nazionale CarabinieriSezione di Brugherio - "Virgo Fidelis"

71° Nucleo Volontariato e Protezione Civile

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