Diario da Denver 2008 - La convention di Obama

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Diario da Denver. La convention di Obama Lapo Pistelli, responsabile relazioni internazionali Pd, è a Denver per la Democratic National Convention che proclama Barack Obama candidato dei Democratici per la Casa Bianca. 1 - Prime ore a Denver - 25/8/2008 Oltre 11 ore di volo. Il Colorado è separato dall'Italia da 8 ore ore di differenza di fuso orario, una sola in meno della west coast. Una spianata gialla senza vegetazione, più deserto che altro: questa è la prima impressione dell'atterraggio a Denver. La città si prepara alla Convention Democratica che si apre oggi pomeriggio: chiunque incontri per strada ha sulla maglietta o sulla giacca il badge di Obama, vi è un'atmosfera elettrica nell'aria. Ieri sera, downtown era occupata da una festival sull'energia alternativa: ho fatto il pieno di gadget come la chiave dell'albergo in cartoncino riciclato o l'opuscolo fatto di semi che se lo pianti in terra si decompone e si trasforma in un cespuglio di fiori, e poi però l'America resta il Paese con il consumo procapite più alto di energia e con l'emissione procapite più elevata di CO2... A cena, sono andato con alcuni altri amici ad un ricevimento dove ho fatto i primi incontri politici: Madeleine Albright, segretario di Stato di Bill Clinton - Walter Mondale, vicepresidente degli Usa con Jimmi Carter - Howard Dean, presidente del partito democratico e già candidato 4 anni fa, inventore di MoveOn, il primo vero esempio di camapagna elettorale e di raccolta fondi online - e Nancy Pelosi, la speaker italo-americana al Congresso. La scelta di Joe Biden, che incontrai a giugno a Venezia, come vicepresidente qui è molto piaciuta. Non si tratta della soluzione più innovativa o trasgressiva ma di quella che completa i possibili talloni di Achille di Obama e dunque testimonia, se ce ne fosse il bisogno, che stavolta i democrats ci credono davvero e corrono a testa bassa per cambiare ciclo politico in America. Stasera, al Pepsi Center, comincia la Convention... 2 - La Convention è iniziata. I gadget, gli eventi, gli Obama e i Clinton, i Kennedy e l'attore di Hollywood - 26/8/2008 Buongiorno. E' curioso scrivere queste note prima di andare a letto (scherzi del fuso orario) per farvele trovare la mattina, fresche fresche, 24 ore prima di quanto possono fare i quotidiani costretti a saltare un giorno o a scrivere un articolo al buio per non "bucare" ciò che i telegiornali vi faranno vedere oggi. La Convention dunque è cominciata. Denver stamani non era riconoscibile: fin dalle prime ore del mattino, ho assistito ad un formicolìo ininterrotto di micro-iniziative politiche, per strada, in ogni albergo, in ogni grill bar qui a downtown. Venditori di gadget politici - anche qui c'è l'official Obama store e ci sono gli abusivi ! - , attivisti per ogni tipo di causa, locale e globale, e tanto tanto entusiasmo, quello che spesso manca a noi europei un pò sfiatati. Prima che la Convenzione aprisse i battenti, c'è stato il tempo di assistere ad alcuni dibattiti interessanti, uno dedicato all'analisi degli spot elettorali per le primarie passati da tutti i candidati nel corso del 2008 e l'altro sulla campagna elettorale. Al secondo dibattito ho incontrato due altre vecchie glorie del mondo democratico: Gary Hart, ex senatore e candidato presidenziale bloccato da un classico scandalo per un'avventura extraconiugale, e l'ex leader del Senato Tom Daschle, quello che ricevette le sospette buste all'antrace subito dopo la caduta delle Torri Gemelle. Ricordate ?

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Alla Democratic National Convention che proclama Barack Obama candidato dei Democratici per la Casa Bianca

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Diario da Denver. La convention di Obama

Lapo Pistelli, responsabile relazioni internazionali Pd, è a Denver per la Democratic National Convention che proclama Barack Obama candidato dei Democratici per la Casa Bianca. 1 - Prime ore a Denver - 25/8/2008 Oltre 11 ore di volo. Il Colorado è separato dall'Italia da 8 ore ore di differenza di fuso orario, una sola in meno della west coast. Una spianata gialla senza vegetazione, più deserto che altro: questa è la prima impressione dell'atterraggio a Denver. La città si prepara alla Convention Democratica che si apre oggi pomeriggio: chiunque incontri per strada ha sulla maglietta o sulla giacca il badge di Obama, vi è un'atmosfera elettrica nell'aria. Ieri sera, downtown era occupata da una festival sull'energia alternativa: ho fatto il pieno di gadget come la chiave dell'albergo in cartoncino riciclato o l'opuscolo fatto di semi che se lo pianti in terra si decompone e si trasforma in un cespuglio di fiori, e poi però l'America resta il Paese con il consumo procapite più alto di energia e con l'emissione procapite più elevata di CO2... A cena, sono andato con alcuni altri amici ad un ricevimento dove ho fatto i primi incontri politici: Madeleine Albright, segretario di Stato di Bill Clinton - Walter Mondale, vicepresidente degli Usa con Jimmi Carter - Howard Dean, presidente del partito democratico e già candidato 4 anni fa, inventore di MoveOn, il primo vero esempio di camapagna elettorale e di raccolta fondi online - e Nancy Pelosi, la speaker italo-americana al Congresso. La scelta di Joe Biden, che incontrai a giugno a Venezia, come vicepresidente qui è molto piaciuta. Non si tratta della soluzione più innovativa o trasgressiva ma di quella che completa i possibili talloni di Achille di Obama e dunque testimonia, se ce ne fosse il bisogno, che stavolta i democrats ci credono davvero e corrono a testa bassa per cambiare ciclo politico in America. Stasera, al Pepsi Center, comincia la Convention... 2 - La Convention è iniziata. I gadget, gli eventi, gli Obama e i Clinton, i Kennedy e l'attore di Hollywood - 26/8/2008 Buongiorno. E' curioso scrivere queste note prima di andare a letto (scherzi del fuso orario) per farvele trovare la mattina, fresche fresche, 24 ore prima di quanto possono fare i quotidiani costretti a saltare un giorno o a scrivere un articolo al buio per non "bucare" ciò che i telegiornali vi faranno vedere oggi. La Convention dunque è cominciata. Denver stamani non era riconoscibile: fin dalle prime ore del mattino, ho assistito ad un formicolìo ininterrotto di micro-iniziative politiche, per strada, in ogni albergo, in ogni grill bar qui a downtown. Venditori di gadget politici - anche qui c'è l'official Obama store e ci sono gli abusivi ! - , attivisti per ogni tipo di causa, locale e globale, e tanto tanto entusiasmo, quello che spesso manca a noi europei un pò sfiatati. Prima che la Convenzione aprisse i battenti, c'è stato il tempo di assistere ad alcuni dibattiti interessanti, uno dedicato all'analisi degli spot elettorali per le primarie passati da tutti i candidati nel corso del 2008 e l'altro sulla campagna elettorale. Al secondo dibattito ho incontrato due altre vecchie glorie del mondo democratico: Gary Hart, ex senatore e candidato presidenziale bloccato da un classico scandalo per un'avventura extraconiugale, e l'ex leader del Senato Tom Daschle, quello che ricevette le sospette buste all'antrace subito dopo la caduta delle Torri Gemelle. Ricordate ?

C'è un moderato ottimismo sull'esito della campagna di novembre e devo confessare che, dopo aver ascoltato le analisi degli ospiti, mi sento di elogiare i corrispondenti italiani qui negli States, fra gli amici più noti e bravi ricordo Mario Calabresi per Repubblica e Maurizio Molinari per La Stampa, che hanno fatto un ottimo lavoro in questi mesi informando il pubblico di molte sfumature e prospettive che ci rendono oggi spettatori esperti ed informati di quanto capita sotto i nostri occhi. Uno degli aspetti più divertenti di una Convention americana sono i cosiddetti "fringe events", cioè le mille iniziative che associazioni, delegazioni degli Stati, network politici, lobbies di vario genere mettono in piedi nei giorni della manifestazione. Il giornale di oggi ne annuncia un centinaio: si va dalla Creative Coalition di costruttori di case ecosostenibili alla riunione degli elettori di origine ispanica. Nella pausa di pranzo mi butto in un simposio sul valore della filantropia nella società di oggi: tra i relatori svetta il nome di Ted Turner, fondatore della CNN (e se non ricordo male, pure marito di Jane Fonda): oltre 2000 persone in un teatro ascoltano storie di successo di capitani di impresa che hanno poi dedicato le loro risorse a progetti benefici. Un'ora di chiacchiera e poi via verso un altro seminario. C'è il tempo di assistere ad una curiosa scena sulla 16a strada, tipicamente americana: 4 signori presidiano un angolo trafficatissimo innalzando cartelli che dopo la rassicurante scritta "Gesù ti salva" poi spediscono all'inferno ogni tipo di peccatore: politici, liberals, omosessuali e via elencando. Mi ricordano i famosi "nazisti dell'Illinois" dell'indimenticabile film The Blues Brothers che John Belushi fa buttare giù da un ponte. Qui non c'è Belushi, ma nell'arco di pochi minuti si raduna una folla varopinta che inizia a scandire lo slogan "take home your heats", della serie "portati a casa le tue paturnie". In breve arriva polizia in bicicletta, a piedi, in motorino, a cavallo, proprio come nei Blues Brothers. Non succede niente ma il tutto alla fine è assai divertente. Ci sono anche procedure di sicurezza impressionanti per entrare al Pepsi Center e gli accrediti sono assai inferiori alla domanda di partecipazione. All'interno, il colpo d'occhio è davvero mozzafiato: il catino delle 15.000 persone presenti ribolle di slogan e di allegria, gli interventi si alternano con i video e con la musica suonata dal vivo. Ogni intervento cambiano i cartelli che il pubblico alza per incoraggiare gli speaker e che la tv riprende (alla fine della serata ne porto a casa un bel po’). In realtà, fra i giornalisti e i politici c'è un tema solo che si impone nel dibattito di oggi: gli Obama e i Clinton hanno fatto davvero pace ? Se gli elettori di Hillary non si impegnano da qui a novembre, la partita può essere compromessa ma l'accordo fra i due ancora non c'è. Hillary deve pagare tuttora 24 milioni di dollari di debiti, rimprovera Obama di non aver fatto abbastanza per aiutarla e del resto - dicono i più cinici - se Obama perdesse, lei sarebbe pronta a correre fra quattro anni (Mc Cain ha detto che farà comunque un solo mandato). Hillary parlerà domani sera (oggi per voi lettori del martedì), domattina avrò l'occasione di incontrare suo marito Bill Clinton in un dibattito su temi internazionali. Insomma il tempo stringe e la materia è davvero bollente. Due sono i discorsi che stasera hanno infiammato la platea. Per primo il vecchio leone, il senatore Ted Kennedy cui viene tributato uno splendido video biografico e la cui presenza era data stamani "altamente improbabile". Ted Kennedy, ultimo rimasto dei tre fratelli dopo John e Bob, è stato operato a luglio di un tumore al cervello che gli dà poche speranze, ma ruggisce con impressionante coraggio, chiama all'accordo, mette tutto il suo peso politico su questo passaggio decisivo. E poi Michelle Obama, la possibile first lady. E' un discorso molto bello il suo: semplice, toccante, costruisce con perizia le ragioni del sogno americano, la forza dei valori che uniscono, la politica centrata sulla speranza e non sulla paura. Sarebbe già abbastanza così, ma la serata termina, sul palco della famiglia Kennedy che ci ha ospitato grazie ad un provvidenziale incontro con Marialina Marcucci, amica di Carrie Kennedy, con un altro incontro per me emozionante. A seguire con interesse la convention, in golfino blu e con uno zainetto sulla schiena c'è Matthew Modine, l'impareggiabile soldato

Joker di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick e il soldato Birdy, traumatizzato dalla guerra, nell'omonimo film di Alan Parker (con musiche di Peter Gabriel). Torno ragazzo per un attimo e chiedo l'autografo e la foto di rito. Altro che le foto con i politici.... Buonanotte. A domani. Lapo 3 - La politica in altura, l’ossessione democratica di Bill Clinton, i veterani della guerra in Irak, le donne in politica di Emily, l’arrivo di Veltroni, il ristoratore fiorentino e Sean Penn - 27/8/2008 Mi perdonino i lettori molto seri ed esigenti: questi appunti erano nati come una promessa fatta ad alcuni amici e perciò volevano avere un tono abbastanza leggero. Da ieri il diario è sul sito del PD e ieri sera (notte fonda in Italia) sono stato perfino chiamato da una tv che trasmette la convenzione sul satellite il cui conduttore aveva appena letto pezzi del blog e mi chiedeva un commento in diretta. Beh, grazie, grazie a tutti ma, nonostante questo piacevole interesse verso il piccolo oblò aperto sulla convention, non cambierò tono più di tanto. E andiamo a cominciare. Giorno 3. Denver è conosciuta con il nomignolo di "the Mile High City" poichè ad un certo scalino dell'ingresso del Municipio si è esattamente ad un miglio sopra il livello del mare. L'orizzonte è piatto ma in poco più di un'ora di macchina si può salire ad oltre 4000 metri e, del resto, delle 54 montagne americane sopra i 14.000 piedi (circa 4500), ben 52 stanno proprio in questo Stato. Insomma, uno stacco geografico per dire che stiamo facendo politica in altura e sarà pure per questa ragione che la somma dell'adrenalina politica, del jet lag e dell'aria secca e rarefatta ci ha regalato una seconda giornata ancora più intensa della prima. E' evidente che da qui a giovedì sarà un crescendo. La mattina inizia subito molto bene. Il Club di Madrid, l'organizzazione formata da ex capi di Stato e di governo, ha imbastito una tavola rotonda sulla "capacità realizzativa delle democrazie". Il tema è stimolante: i sondaggi globali mostrano che i sistemi autoritari non dispiacciono così tanto perché almeno sono in grado di decidere; così, la vera sfida delle democrazie è dimostrare la loro capacità di scegliere e condurre a compimento i propri obiettivi. Arriva a sorpresa Bill Clinton. A lui è affidato il compito di introdurre: carismatico e disinvolto come sempre, traccia le linee del campo del dibattito e afferma la centralità della sfida del climate change; poi termina quasi malinconico "quando sei stato primo ministro o presidente capisci che non puoi portarti dietro questo titolo a vita ma devi rispondere ad una domanda, quasi una ossessione: come la democrazia può essere capace di realizzare gli obiettivi". Moderano il dibattito Joschka Fischer e Madeleine Albright e discutono assieme personalità del calibro di Ricardo Lagos (Cile), Mary Robinson (Irlanda), Kim Campbell (Canada), Alexandro Toledo (Perù) e altri. Assai vivace e interessante lo scambio sulla convenienza della democrazia in contesti culturali e religiosi diversi come quello del mondo arabo, tema quanto mai hot dopo gli ultimi anni di politica estera di Bush. Downtown all'ora di pranzo è una sorta di supermercato politico che offre eventi per tutti i gusti, una scelta decisamente più ricca di Boston 2004, eterogenea fino alla stravaganza: davanti ai grandi alberghi che ospitano i vip democratici puoi trovare le "mamme in rosa" che manifestano per la non violenza e contro la guerra così come coraggiosi picchetti di sostenitori di Mc Cain; altrove due manifestazioni democratiche ma di opposto orientamento si fronteggiano con megafoni dai due lati della strada: è un acceso scontro fra anti-abortisti e pro-choice (libertà della donna di scegliere) che va in scena davanti allo Sheraton. Partecipo a due seminari fra i tanti possibili.

Il Truman National Security Project ha lo scopo di formare i politici democratici sui temi della sicurezza e della difesa per levare questi temi dalle mani della destra: fra gli speaker due dei possibili senior adviser di Barack, ma mi colpisce vedere (il sistema lobbistico funziona così) le due principali aziende della difesa americana come sponsor della faccenda. Paradossalmente ma simpaticamente, uscendo dall'edificio mi trovo in una situazione che all'inizio non comprendo: due file di militari in divisa ma senza armi camminano sul marciapiede con le movenze assai serie e agguerrite di chi bonifica un'area di guerriglia; molti fotografi attorno, poi alcuni attivisti distribuiscono una cartolina; si tratta dell'organizzazione dei veterani di guerra dell'Irak contrari al conflitto e alla sua gestione. Fuggo all'iniziativa di Emily, la storica associazione di promozione politica delle donne. E' tutto esaurito poiché è attesa la presenza di Nancy Pelosi, di Michelle Obama e di Hillary Clinton, la protagonista della giornata. La capacità di mobilitazione e di fidelizzazione di Emily's list è formidabile e visibile nelle donne che fanno la fila per entrare nel salone per conoscere le altre donne candidate che si apprestano a concorrere nei vari livelli elettivi. Del resto, anche la Convenzione è oggi prevalentemente una giornata al femminile. Intervengono due delle governatrici più in vista del partito, Janet Napolitano dell'Arizona e Kathleen Sebelius del Kansas, che ho incontrato a Chicago a giugno e che è stata nella short list dei possibili vice-presidenti. Donne di una straordinaria concretezza e capacità sulle questioni economiche, donne capaci di incursioni elettorali nel campo repubblicano, una in grado di strappare uno Stato notoriamente conservatore. Il tema della giornata è l'economia, il campo in cui i sondaggi segnalano la maggiore debolezza di Mc Cain: se a novembre l'agenda fosse centrata sulla paura e sulla sicurezza potrebbero essere guai per i dems, ma se i temi saranno prevalentemente domestici ed economici la stanchezza verso Bush è perfino maggiore di quella verso la sua politica estera. Il Pepsi Center ascolta molti Governatori, Massachussets, Pennsylvania, New Mexico, Mexico, Montana, Ohio, una generazione giovane e uno dei due serbatoi tradizionali (governatori e senatori) che da sempre sfornano candidati alla Casa Bianca. Prima di entrare alla Convenzione vado all'aeroporto a prendere Veltroni che ci ha finalmente raggiunto, mentre Fassino ha alla fine rinunciato alla trasferta a causa degli impegni legati alla crisi georgiana. Andiamo diretti a downtown per un primo affettuosissimo incontro con i Kennedy e poi presso la convenzione incontriamo il presidente dei democratici Howard Dean: verifico anche qui un grande calore umano e una immutata attenzione verso il progetto del PD italiano che Dean, del resto, venne a "benedire" nei due congressi fondativi di Roma e Firenze. Ci diamo appuntamento a novembre, dopo le elezioni. Il "keynote speaker" di quest'anno (a Boston nel 2004 fu proprio Obama) è Mark Warner, governatore della Virginia: ritorna ancora il sogno americano, il riscatto dai fallimenti, il paese della seconda e anche terza opportunità, la politica della speranza contro quella della paura ma manca decisamente la magia di 4 anni fa e la platea non si scalda più di tanto. Arriva in prime time il momento di Hillary Clinton che parla in un mare di cartelli bianchi, che recano non slogan ma solo il suo nome, e di stendardi blu con la scritta "unity": ovazione, commozione, un inizio di grande effetto con le pause giuste. Si definisce "madre orgogliosa, americana orgogliosa, senatrice orgogliosa, democratica orgogliosa, orgogliosa sostenitrice di Barack Obama come prossimo Presidente", attacca con ironia Mc Cain, ringrazia i suoi sostenitori. Il discorso enfatizza più volte il sostegno leale a Obama nella battaglia di novembre, chiama all'unità del partito ma detta anche un pezzo importante dell'agenda politica del Presidente, centrata sul tema del welfare e dell'assistenza sanitaria universale. Niente da dire. E' un discorso di grande impatto che dimostra il valore indiscusso di una personalità che non abbandona certo la scena politica. Mugugnano forse quei sostenitori di Obama che si attendevano qualche autocritica per i toni accesi della campagna ma alla fine della serata il candidato presidente non può che essere assai soddisfatto del grande sostegno ricevuto dalla senatrice di New York.

Stasera è serata di feste politiche in tutti i locali del centro: mi affaccio a quella dei dems della Grande Mela dove incontro un giovane ristoratore fiorentino che ha fatto fortuna qui e due colleghi del Pd, Francesco Sanna e Guglielmo Vaccaro, arrivati fin qui in camper a seguire la convention; proseguiamo assieme fino all'evento della New Democratic Coalition, il caucus dei deputati più liberal dell'Asinello americano. Il coprifuoco scatta attorno alla mezzanotte. Una nota di mondanità anche per oggi (non vorrei prenderci troppo gusto): ho puntato stamani il grill bar del Brown Palace come un luogo di potenziali incontri interessanti e ho mangiato il mio consueto hamburger seduto al tavolo stavolta accanto a Sean Penn. Not bad. A domani, fellow democrats ! 4 - Italiani e fiorentini d’America, l’agenda politica, gli incontri con i Clinton e con i Kennedy, lezioni di politica e di unità, il grande Bill, il discorso di Biden, la sorpresa di Obama e l’attesa per il gran finale… allo stadio - 28/8/2008 Si calcola che in giro per il mondo ci sia un'altra Italia, più o meno equivalente in popolazione (a seconda delle generazioni incluse) a quella che in Italia abita davvero. Denver non fa eccezione: al Colorado History Museum è appena terminata una mostra "Italians in Denver" che forniva un dato di partenza formidabile; nel 1910, noi italiani eravamo il 14% della popolazione di questa città, che continua tuttora a nutrire una grande simpatia, non solo calcistica o eno-gastronomica, per i nostri colori. Se poi dici che vieni da Firenze - perdonatemi l'orgoglio di campanile - scopri che la mia città resta uno dei luoghi più amati se lo si è visitato o sta in cima alla lista dei desideri futuri se non se ne è ancora avuta l'occasione. E ciò spiega meglio di ogni altra cosa quando si dice che una città speciale non appartiene solo a chi la abita ma al mondo intero. Mentre la città smaltisce gli stravizi di ieri sera, partecipo di buon mattino ad una grande conferenza sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Oggi questo sarà il tema degli eventi collaterali e anche dei principali interventi alla Convenzione. Una ricerca che fornisce la base della discussione mette sul piatto i due elementi principali. L'agenda americana è cambiata radicalmente in un anno: nel settembre 2007, l'Iraq stava al top delle rilevazioni con il 47%, la salute al 31 %, l'immigrazione al 26%, l'economia al 24%; un anno dopo, l'economia e il lavoro conquistano il primo posto dell'agenda con il 45%, il costo dell'energia il 41%, la salute resta al 30%, l'Iraq cade di quasi 20 punti. In sostanza, ad oggi, i problemi domestici dominano su quelli internazionali anche se alcuni aspetti sono intimamente connessi: secondo il 70% degli elettori di entrambi i partiti, il prossimo Presidente deve occuparsi di ridurre la dipendenza energetica degli Stati Uniti. Come chiosa un analista, la storia insegna che le nazioni crescono e cadono (Spagna, Olanda, Gran Bretagna, Venezia (!), Portogallo) sulla loro forza economica, non su altro. Il secondo dato rivela i danni del bushismo nella coscienza collettiva americana: il 66% degli americani chiede un approccio multilaterale alle crisi internazionali, un nuovo rapporto con gli alleati, a dispetto di un modesto 33% che conferma il metodo Bush "vado-li ammazzo-e-torno"; sull'altro fronte però, vista la scottatura irachena, cresce di quasi 20 punti fra i democratici, di 33 punti fra gli elettori indipendenti, il numero di coloro che chiedono un'amministrazione più "isolazionista", dedicata agli affari americani e meno a quelli mondiali. Richard Holbrooke, ambasciatore alle NU e storico consigliere dem, la mette giù piatta: "America cannot go anymore alone. This was the biggest mistake we did" (l'America non può più andare da sola. E' stato il più grosso errore commesso). Richiama l'esperienza positiva dei Balcani, elogia l'attivismo europeo sulla Georgia ma avverte che l'America intende

mantenere la guida degli affari globali e che con un presidente democratico gli europei devono prepararsi a fare di più. Straordinaria e netta Jessica Matthews del Carnegie Endownment: "se vuoi guidare, te la devi guadagnare; se vuoi parlare di clima, devi stare dentro il protocollo di Kyoto; se vuoi lottare per un diverso modello di energia, devi essere disposto a cambiare stile e organizzazione di vita; se vuoi guidare sulla non proliferazione e sulla libertà, non puoi arretrare su diritti umani e libertà civili con Guantanamo e i via libera all'uso della tortura". Emerge nel dibattito con grande forza una doppia preoccupazione, come ricostruire l'immagine americana nel mondo, un paese non più amato ma nemmeno più temuto nonostante le mostruose spese per la difesa; come rendere però efficaci i principi dichiarati in un mondo dal disordine crescente. Da europeo mi pongo la domanda speculare: quando un presidente innovativo e gradevole leverà ogni comodo alibi anti-americano ma ci chiederà al tempo stesso una maggiore responsabilità, saremo pronti a rispondere ? Non ho molto tempo per trovare la soluzione perché ricevo una telefonata inattesa e graditissima di un amico newyorkese che mi ha visto ieri nei corridoi del Pepsi Center e che mi propone un canale per organizzare di lì a poco un incontro fra Veltroni e Bill Clinton. Proposta accettata senza esitazioni. Di lì a un'ora siamo nel grande albergo che ospita i Clinton e incontriamo sia Bill che Hillary che hanno appena terminato un incontro di ringraziamento con deputati e finanziatori della propria campagna. Hillary appare davvero in grande forma dopo la performance di ieri sera, più ancora di Bill che ha oramai la chioma interamente bianca anche se non è cambiato di niente il volto accattivante da ragazzo invecchiato. Il suo staff preannuncia un discorso storico per stasera, il che spiega l'afflusso ancora più grande di pubblico che preme fin dal mattino sul Pepsi Center. Dopo gli incontri di ieri notte, ho organizzato un pranzo in un ristorante italiano, anzi fiorentino, in una zona residenziale di Denver: mangiamo pasta e pizza eccellente in compagnia di un simpatico gruppo di giovani italiani che vivono qui dopo un matrimonio americano, chi vendendo vino, chi gestendo ristoranti. Qualcuno ha nostalgia di casa, molti altri no: elogiano la qualità della vita, il sistema fiscale; qualcuno comincia a dimenticare l'italiano ma tutti hanno mantenuto fortissimo il segno del nostro Paese nel loro lavoro e nel loro stile di relazione. Molte foto e tanti inviti a tornare qua per sciare sulle montagne del Colorado. Magari ! Dopo il primo vero caffè espresso da qualche giorno in qua, torniamo downtown. Prendo un secondo pessimo caffè con Matt Browne, già capo della policy unit di Tony Blair ed oggi collaboratore di John Podesta al Center for American Progress. Facciamo il punto su alcune iniziative che stiamo pensando di mettere in piedi in Italia fra settembre e la primavera prossima. Marialina ci ha invitato ad una festa della famiglia Kennedy. Confesso la mia emozione: il senatore Ted, dopo lo sforzo di lunedì, è tornato alle sue cure, ma la famiglia è al gran completo. Nel ricordo di Bob e della fondazione a lui dedicata, saluta gli ospiti Ethel, la vedova di Bob, circondata da molti giovani nipoti. Walter, esperto della storia di famiglia, mi ricorda la straordinaria fortuna e sfortuna che ha accompagnato la famiglia di Bob: 11 figli, John John morto in un incidente aereo, un altro in una accidentale sciagura sciistica, un altro ancora - l'unico che, casualmente, vide in diretta tv l'assassinio del padre nella notte di Los Angeles mentre i fratellini dormivano - perduto pochi anni dopo nel tunnel oscuro della droga. Ma sono colpito dalla forza di clan che fa grande questo nome, dalla somiglianza impressionante dei volti e dei gesti della nuova generazione con i volti e i gesti di John, Bob e Ted. E nella festa di questa famiglia, che è stata importante per la vittoria di Obama e per la riconciliazione con i Clinton, puoi vedere un intero mondo politico che in fila stringe la mano a Ethel e ai suoi figli e nipoti come davanti ad una famiglia reale.

In attesa di entrare al Pepsi Center, chiacchiero con Joschka Fischer, l'ex ministro degli esteri tedesco ed una delle personalità politiche europee che preferisco. Veltroni rilascia un paio di interviste in tv, io saluto i già citati Mario Calabresi e Maurizio Molinari e via per la terza serata. La giornata è dedicata essenzialmente alla politica estera, al ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Le misure di sicurezza sono state rafforzate ancora. Ma il primo atto politico della Convenzione di oggi segna il successo della giornata di ieri: comincia la chiamata nominativa delle delegazioni statali; c'è da sciogliere il dilemma di cosa faranno i delegati di Hillary. Quando viene chiamato l'Illinois, lo stato di Obama, i delegati annunciano di attendere cosa faranno quelli di New York, lo stato di Hillary. La senatrice "libera" i propri delegati, rinuncia alla chiamata nominativa e chiede la nomination di Obama per acclamazione. La partita è chiusa alle 4.58, Obama è ufficialmente il candidato, il partito ha trovato la sua unità e l'ha comunicata al Paese. Gran bella lezione per tutti noi. Anzi, approfitto per un'altra considerazione. I discorsi politici americani hanno in genere due assi portanti, talvolta fusi assieme, talvolta no: i valori, la visione, la speranza, l'american dream oppure la concretezza delle politiche, dei numeri, degli obiettivi da raggiungere. Non sentirete mai una parola sul partito, sulle alleanze, sulla macchina interna, sulle regole da cambiare. Esattamente ciò che invece costituisce il 90% dei discorsi politici, delle interviste, dei talk show italiani e che fa dire a noi dei discorsi americani, quasi con fastidio, "ma quando è che parlano di politica ?". So di essere un inguaribile filo-americano ma riconosco a questo sistema un'incoercibile coerenza interna che va ammirata e non ridicolizzata nella battuta che tutto si ridurrebbe al trinomio Dio-patria-famiglia. E se anche così fosse, sono contento che il mio Paese abbia recuperato solo recentemente e dunque tardivamente - e grazie al Presidente Ciampi - un attaccamento alla propria bandiera e al proprio inno come simbolo di unità nazionale. Alle convenzioni americane, i colori sono rigorosamente quelli della bandiera (rosso e blu), le serate finiscono tutte con una breve meditazione spirituale e relativa benedizione e negli intervalli i cantanti intonano i propri pezzi con lo sfondo video che riporta la Dichiarazione di Indipendenza. E' quella religione civile della libertà che non giustifica gli errori americani, ma spiega assai bene perché questo Paese respiri permanentemente il battito del futuro e senta, a torto o a ragione, di avere una missione che va al di là delle pur proprie legittime malinconie. E a me questo piace. Molti sono gli speaker di rango stasera, Madeleine Albright, Evan Bay, John Kerry (il candidato sconfitto nel 2004) ma.... posso dirlo, almeno fino a domani ? Bill Clinton è sempre il numero 1 ! Accolto dalla musica che fu la sua colonna sonora del 1992 "don't stop thinking about tomorrow" dei Fleetwood Mac e salutato poi da "beautiful day" degli U2, l'ex presidente prende per mano la sua platea, quella che lo ama da 16 anni, e la conduce per politica estera ed economia, con toni seri e battute auto-ironiche. Spiega come ricostruire il sogno americano in patria e la leadership americana nel mondo, distrugge in poche cifre otto anni di presidenza repubblicana, ricorda come lui stesso venisse rimproverato di essere giovane e inesperto nel 1992 per dimostrare come anche per Obama soffi a favore il vento della storia e del cambiamento. Per i dems americani, Clinton - se mi passate la battuta - è il migliore, quello che avrebbero rieletto volentieri una terza volta, l'uomo delle due uniche vittorie democratiche negli ultimi 30 anni. Ed è un sentimento giustificato dall'incredibile carisma mostrato anche stasera, carisma che - a me che ho avuto il privilegio di ascoltarlo varie volte - stasera appare perfino un poco frenato per evitare di strafare, di rubare la scena agli altri protagonisti.

Datemi retta, cercate l'intervento sul web, guardate i gesti, gli occhi, sentite il tono, il gioco con la platea e comprenderete perché Bill Clinton cammina tranquillo su una platea che sventola entusiasta bandierine a stelle e strisce. In attesa del gran finale con il vicepresidente designato, passa sullo schermo uno straordinario e commovente video sul ruolo dei militari americani nel mondo. L'esercito e i veterani di guerra sono un segmento assai delicato per questo Paese che ha perso in Irak oltre 4.000 soldati e che ha riportato a casa più di 30.000 invalidi e mutilati che - secondo le stime di Joseph Stiglitz - incidono in spese mediche, risarcimenti e previdenza per circa 600 miliardi. A rappresentarli interviene una giovane donna, con il grado di maggiore, pilota di elicotteri in Irak, abbattuta in volo sopra Baghdad: parla di onore, di rispetto per i guerrieri delle guerre sbagliate, di fallimento della politica estera. Solo quando si allontana dal palco, la platea si accorge che entrambe le gambe sono protesi artificiali. Con una toccante introduzione del figlio, chiude la serata Joe Biden, il vicepresidente designato. Registro pareri discordanti fra di noi nel giudizio sul suo discorso. Personalmente ne apprezzo la misura e l'impianto: prima la storia della propria famiglia, l'elogio della madre come incarnazione del sogno americano, poi l'elogio del Presidente, delle sue qualità, infine l'attacco garbato ma frontale a John Mc Cain, collega di Senato e amico personale, sul fronte della politica estera. Se penso al discorso assai artificiale che ascoltai quattro anni fa a Boston da parte del vice di allora, John Edwards, mi sento di apprezzare molto il garbo e il merito di Biden, che fra l'altro ho conosciuto personalmente. Ma la sorpresa vera è la comparsa inaspettata di Obama al momento dei saluti. Arrivato finalmente a Denver, Obama esce sul palco con tutta la famiglia di Biden, mentre la band suona una delle colonne sonore preferite delle convention democratiche - "we are a family" delle Sister Sledge, Il Pepsi Palace viene letteralmente giù dagli applausi. Obama ringrazia Biden, elogia con grande calore Hillary e Bill Clinton che assistono da uno dei palchi e dà appuntamento all'Invesco Field. Domani, la Convenzione trasloca allo stadio di Denver: da 18.000 a 85.000 presenti e un grande finale che spazierà da Al Gore a Bruce Springsteen. Vorrei andare a sentire un concerto dei Black Eyed Peas che suonano in un evento serale ma confesso che la stanchezza prevale, e poi servono energie per domani. See you, italian democrats ! 5 - Barack Obama - 29/8/2008 Obama ha scelto di mettere in gioco tutte le assonanze emotive possibili con il discorso di stasera. Parla nel giorno del quarantacinquesimo anniversario del commovente discorso di Martin Luther King "I have a dream" e non è più per promuovere le uguali opportunità fra bianchi e neri ma per accettare la nomination alla Casa Bianca. Parla in uno stadio - 85.000 posti - come solo John Kennedy fece al Los Angeles Coliseum nel 1960. Parla all'America intera per dimostrare di essere non solo il candidato più "cool" degli ultimi decenni, l'uomo che legittima l'Obama-mania di un merchandising di magliette, cappelli, badge che ha contagiato chiunque, l'uomo delle 5 copertine su Time in un solo anno, ma il Presidente che sa rappresentare anche l'America profonda, che sa trasformare il soundbyte "it's time for a change" in un insieme di politiche concrete capaci di risollevare l'America dalla sua crisi. Trovare gli accrediti per essere qui è stata la scommessa delle ultime settimane per tanti. Da quando questo diario è on line, mi hanno scritto famiglie italiane che abitano a Denver per chiedermi di aiutarle ad entrare stasera, in questa gradinata di uno stadio di football che

attende fra qualche ora "a night for history" come titola oggi a tutta pagina "Usa today". La scelta di questo immenso spazio ha anche una ragione politica. A novembre, quando si voterà per davvero, ogni singolo Stato è come un collegio uninominale del vecchio sistema elettorale: il candidato che vince di un voto porta a casa tutti i grandi elettori che formalmente eleggono il Presidente. E l'America, un po’ come l'Italia, ha zone in cui vinci sempre e comunque, zone in cui perdi anche se si candida il mago Zurlì, zone che ballano di pochi voti, gli "swinging states". Il Colorado è uno di quelli: distribuire qualche decina di migliaia di inviti agli attivisti dei prossimi mesi, farli essere qui oggi è un modo di realizzare il cambiamento dal basso di cui Obama parla. Il colpo d'occhio, già 4 ore prima del discorso di accettazione finale, fa davvero paura: code chilometriche fuori, un fiume ininterrotto di gente in movimento, banchi del merchandising ufficiale (che finanzia la campagna) presi d'assalto, un grande entusiasmo sugli spalti dentro. Siamo tutti qui per sperare che l'America cambi segno e che questo cambio produca un effetto anche in Europa. Sappiamo quanto 8 anni di Reagan + 4 di Bush padre abbiano plasmato un ciclo politico, come 8 anni di Bush jr. abbiano reso peggiore il mondo, come 8 anni di Clinton abbiano aiutato i democratici a vincere anche qua. Se non ora quando ? In un giorno normale ci sarebbe da raccontare dell'intervento di Bill Richardson, possibile Segretario di Stato, del grande ritorno dell' "ex-prossimo Presidente" Al Gore (come lui si definiva scherzosamente) o degli intervalli musicali con Sheryl Crow o Stevie Wonder, ma stasera tutta questa gente è venuta per un'altra ragione e ogni discorso appare solamente come una tappa di avvicinamento alle 8. Al tramonto, l'Invesco Field è pieno e i fari che sciabolano la platea aumentano la spettacolarità dell'evento. Noto solo adesso, in piedi a coppie, sulle coperture degli spalti dello stadio, gli uomini dei servizi che controllano col binocolo il movimento esterno e interno. Dopo il consueto video introduttivo, che monta foto e spezzoni di campagna elettorale, interviste e dichiarazione di Obama, il candidato fa il suo ingresso sulla lunga passerella che lo porta al podio. Sembra che lo stadio debba crollare dal frastuono degli applausi e dal battito dei piedi sulle gradinate. L'intervento di Obama non è raccontabile. Cercatelo, vedetelo. Sono circa 40 minuti di energia politica pura, di grande concretezza e di scarsa demagogia. Il politico "cool" cede il passo al leader che attacca con durezza l'avversario ("non è che non se ne occupa, non lo sa, non ci arriva"), pone l'obiettivo dell'indipendenza energetica americana dal petrolio arabo in 10 anni, racconta la crisi della middle class, chiama ad un patto fra responsabilità individuale e solidarietà collettiva ("non possiamo camminare da soli"), polemizza con il professionismo politico di Washington ("il cambiamento non viene da Washington ma va a Washington"), dà sostanza a quel bisogno di cambiamento che è stato lo slogan principale di questi mesi. Il candidato democratico attacca frontalmente le lobbies della salute e del petrolio, la potentissima National Rifle Association che tutela e promuove il possesso di armi, le grandi corporation che chiudono le aziende in patria ed esportano i profitti sui grandi mercati finanziari; è un discorso molto radicale, a tal punto che l'inviato di Fox News polemizza subito sulla irrealizzabilità di un programma così impegnativo. Applausi, lacrime, bandierine: nessun canale tv, in serata, può fare a meno di sottolineare l'assoluta eccezionalità della serata che abbiamo vissuto. E' un grande discorso e questo sembra davvero uno di quei pochi momenti politici rispetto ai quali è un privilegio poter dire "io c'ero". Nonostante la potenziale dispersività di uno stadio e i grandi numeri, l'atmosfera elettrica ci tiene tutti legati fino al crescendo finale e alla sorpresa dei fuochi di artificio rossi e blu sulle note di "born in the usa" di Bruce Springsteen. Comincia la campagna vera, Mc Cain annuncerà domani il suo vice per cercare di rubare un pò di scena. I dems americani escono ordinatamente dallo stadio scandendo lo slogan "yes we can".

Stasera è tempo di bagagli. Domattina faremo una conferenza stampa con Veltroni per fare il punto con i corrispondenti italiani e poi voleremo in Italia. Sipario. Ma ritorno con il cuore gonfio di passione per la politica. Quella vera. Quella bella. Quella alta. Quella che ho vissuto in questi giorni.