di Domenico Garofalo - AIDLaSS – Associazione … Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative...

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1 Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative di Domenico Garofalo Sommario: NOTA INTRODUTTIVA. – PARTE PRIMA - I PROFILI DI CARATTERE GENERALE. – 1. Il perdurante interesse per il tema della frammentazione organizzativa. – 2. Le ragioni del fenomeno. – 3. (segue) … e le sue possibili catalogazioni. – 4. L’interesse del diritto del lavoro per il datore di lavoro. – 5. La “rimaterializzazione” dell’impresa tra ricentralizzazione del contratto di lavoro e autonormazione. – 6. Frammentazione, potere organizzativo e libertà di iniziativa economica privata. – 7. Flessibilità versus decentramento: alternativa o concorso?. – PARTE SECONDA – I MODELLI DI TUTELA. – 8. Ricondurre la riflessione sul lavoratore: i modelli di tutela. – SEZIONE I - I CARDINI DEL SISTEMA DI TUTELA. – 9. La perdurante vigenza del divieto di interposizione. – 10. La responsabilità solidale. – 10.1. Responsabilità solidale versus codatorialità. – 10.2. La responsabilità solidale nella normativa dell’Unione europea. – 10.3. (segue) … e nell’ordinamento interno. – 10.4. Le alternative alla responsabilità solidale. – 10.5. Responsabilità solidale e termini decadenziali. – 10.6. La responsabilità solidale come regola e non come eccezione. – 11. La tutela nel cambio di appalto. – 12. Decentramento e sostegno al reddito. SEZIONE II – LA CODATORIALITÀ DE IURE CONDITO ET DE IURE CONDENDO. – 13. La codatorialità. – 13.1. La teoria della codatorialità. – 13.2. Le varie nozioni di codatorialità. – 13.3. La giuridificazione della codatorialità. – 13.4. Le critiche alla teoria della codatorialità. – 13.5. I problemi indotti dalla codatorialità. – SEZIONE III - LE PROSPETTIVE. – Premessa. – 14. La somministrazione: un modello di tutela. – 15. La parità di trattamento tra diritto interno e dell’Unione Europea. – 16. L’impresa tra responsabilità sociale e interesse economico. – 16.1. Dalla hard law alla soft law nell’era della globalizzazione. – 16.2. La responsabilità sociale d’impresa come veicolo di garanzie sociali nella filiera produttiva. – 16.3. La responsabilità sociale d’impresa: volontaria ma incentivata. – 16.4. La responsabilità sociale d’impresa tra valutazione teorica ed effetti sistemici. – 17. La “dipendenza economica”: dal diritto dell’impresa al diritto del lavoro (una tecnica di tutela riflessa). – PARTE TERZA - OLTRE LA FRAMMENTAZIONE ORGANIZZATIVA: IL LAVORO NELLA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE. – 18. Il lavoro tra quarta rivoluzione industriale e collaborative economy. – 18.1. Il lavoro nell’industria 4.0. – 18.2. Sulle ceneri della fabbrica fordista nasce la fabbrica 4.0. – 18.3. Un potenziale rientro dei processi di produzione nell’UE ma senza un aumento dell’occupazione. – 18.4. La trasformazione «in» lavoro «del» consumo: la c.d. platform economy. – 18.5. L’Agenda Europea per l’economia collaborativa del 2 giugno 2016. – 18.6. Il lavoro on demand della gig economy: parole d’ordine “insicurezza e discontinuità”. – 18.7. Lavorare per (grazie a) un algoritmo. – 18.8. Gli effetti collaterali della tecnologia: servification, stress, time porosity. – 18.9. La nascita di nuove diseguaglianze e discriminazioni. – 19. Le sfide per il diritto del (nuovo) lavoro. LA FUNZIONE REGOLATIVA DEL DIRITTO DEL LAVORO DALLA UNIFORMITÀ DI TRATTAMENTO ALLA RAGIONEVOLE DIFFERENZIAZIONE. NOTA INTRODUTTIVA All’interno dell’ampio tema cui sono dedicate le Giornate di Studio dell’Associazione per l’anno 2017, «Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e collettivi», si è scelto di incentrare la riflessione sulle risposte che l’ordinamento interno (ovviamente non perdendo di vista le indicazioni provenienti dall’UE) ha fornito ai problemi indotti dalle nuove forme di organizzazione di impresa, non sempre del tutto idonee a guidare i fenomeni in atto, affiancando alle soluzioni date alcune proposte. Dopo dieci anni di ampio e serrato dibattito sulla figura del datore di lavoro — interrogativo sul quale si è incentrato il Convegno di Catania del 2009 — che ha visto

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Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative

di Domenico Garofalo

Sommario: NOTA INTRODUTTIVA. – PARTE PRIMA - I PROFILI DI CARATTERE GENERALE.

– 1. Il perdurante interesse per il tema della frammentazione organizzativa. – 2. Le ragioni del fenomeno. – 3. (segue) … e le sue possibili catalogazioni. – 4. L’interesse del diritto del lavoro per il datore di lavoro. – 5. La “rimaterializzazione” dell’impresa tra ricentralizzazione del contratto di lavoro e autonormazione. – 6. Frammentazione, potere organizzativo e libertà di iniziativa economica privata. – 7. Flessibilità versus decentramento: alternativa o concorso?. – PARTE SECONDA – I MODELLI DI TUTELA. – 8. Ricondurre la riflessione sul lavoratore: i modelli di tutela. – SEZIONE I - I CARDINI DEL SISTEMA DI TUTELA. – 9. La perdurante vigenza del divieto di interposizione. – 10. La responsabilità solidale. – 10.1. Responsabilità solidale versus codatorialità. – 10.2. La responsabilità solidale nella normativa dell’Unione europea. – 10.3. (segue) … e nell’ordinamento interno. – 10.4. Le alternative alla responsabilità solidale. – 10.5. Responsabilità solidale e termini decadenziali. – 10.6. La responsabilità solidale come regola e non come eccezione. – 11. La tutela nel cambio di appalto. – 12. Decentramento e sostegno al reddito. – SEZIONE II – LA CODATORIALITÀ DE IURE CONDITO ET DE IURE CONDENDO. – 13. La codatorialità. – 13.1. La teoria della codatorialità. – 13.2. Le varie nozioni di codatorialità. – 13.3. La giuridificazione della codatorialità. – 13.4. Le critiche alla teoria della codatorialità. – 13.5. I problemi indotti dalla codatorialità. – SEZIONE III - LE PROSPETTIVE. – Premessa. – 14. La somministrazione: un modello di tutela. – 15. La parità di trattamento tra diritto interno e dell’Unione Europea. – 16. L’impresa tra responsabilità sociale e interesse economico. – 16.1. Dalla hard law alla soft law nell’era della globalizzazione. – 16.2. La responsabilità sociale d’impresa come veicolo di garanzie sociali nella filiera produttiva. – 16.3. La responsabilità sociale d’impresa: volontaria ma incentivata. – 16.4. La responsabilità sociale d’impresa tra valutazione teorica ed effetti sistemici. – 17. La “dipendenza economica”: dal diritto dell’impresa al diritto del lavoro (una tecnica di tutela riflessa). – PARTE TERZA - OLTRE LA FRAMMENTAZIONE ORGANIZZATIVA: IL LAVORO NELLA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE. – 18. Il lavoro tra quarta rivoluzione industriale e collaborative economy. – 18.1. Il lavoro nell’industria 4.0. – 18.2. Sulle ceneri della fabbrica fordista nasce la fabbrica 4.0. – 18.3. Un potenziale rientro dei processi di produzione nell’UE ma senza un aumento dell’occupazione. – 18.4. La trasformazione «in» lavoro «del» consumo: la c.d. platform economy. – 18.5. L’Agenda Europea per l’economia collaborativa del 2 giugno 2016. – 18.6. Il lavoro on demand della gig economy: parole d’ordine “insicurezza e discontinuità”. – 18.7. Lavorare per (grazie a) un algoritmo. – 18.8. Gli effetti collaterali della tecnologia: servification, stress, time porosity. – 18.9. La nascita di nuove diseguaglianze e discriminazioni. – 19. Le sfide per il diritto del (nuovo) lavoro. – LA FUNZIONE REGOLATIVA DEL DIRITTO DEL LAVORO DALLA UNIFORMITÀ DI TRATTAMENTO ALLA RAGIONEVOLE DIFFERENZIAZIONE.

NOTA INTRODUTTIVA All’interno dell’ampio tema cui sono dedicate le Giornate di Studio dell’Associazione per l’anno 2017, «Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e collettivi», si è scelto di incentrare la riflessione sulle risposte che l’ordinamento interno (ovviamente non perdendo di vista le indicazioni provenienti dall’UE) ha fornito ai problemi indotti dalle nuove forme di organizzazione di impresa, non sempre del tutto idonee a guidare i fenomeni in atto, affiancando alle soluzioni date alcune proposte. Dopo dieci anni di ampio e serrato dibattito sulla figura del datore di lavoro — interrogativo sul quale si è incentrato il Convegno di Catania del 2009 — che ha visto

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una contrapposizione tra funzionalisti e codatorialisti, si è ritenuto di riportare l’attenzione sul lavoratore, e, segnatamente, sulla tutela di quello occupato all’interno di un’impresa la cui struttura organizzativa non è più quella presa a modello dallo Statuto dei lavoratori, ma si è profondamente trasformata. Lavorare per una impresa diversamente organizzata (rispetto al modello tradizionale degli anni ‘70) o per una piattaforma tecnologica (c.d. collaborative economy) induce a ragionare su temi, problematiche ed esigenze nuove, ma in parte antiche, ponendo all’interprete tre interrogativi: cosa c’è, cosa manca, cosa si può proporre, perché il diritto del lavoro mantenga la propria funzione. Nella prima parte della relazione, dopo brevi cenni di carattere generale sul fenomeno della frammentazione organizzativa e sulle sue cause — tema ampiamente esaminato nelle relazioni catanesi di Marzia Barbera e Valerio Speziale —, si darà conto delle tendenze emergenti, nella direzione di una nuova materializzazione dell’impresa e di una ritrovata centralità del contratto di lavoro, seppur in altro contesto e quindi con altri presupposti e ricadute, anche alla luce delle recenti scelte di politica legislativa. La seconda parte sarà interamente dedicata ai modelli di tutela nella doppia prospettiva dell’esistente, migliorabile, e dei possibili sviluppi. L’analisi ruota intorno a cinque concetti chiave: l’individuazione di un sistema di tutele a valenza generale; la possibile esportazione in altre fattispecie di frammentazione organizzativa del modello della somministrazione; l’incentivazione della responsabilità sociale d’impresa; l’estensione del concetto di dipendenza economica dal diritto dell’impresa al diritto del lavoro; l’abbandono dell’uniformità regolativa in favore di una differenziazione per modelli organizzativi. La terza ed ultima parte affronta il tema più scivoloso perché concerne fenomeni in fieri, sui quali possono farsi solo supposizioni, non esistendo un tessuto normativo né interno né dell’UE a cui ancorarsi; ma tale constatazione non consente di ignorare il fenomeno, apparendo opportuno, se non proprio obbligatorio, formulare delle proposte. Sullo sfondo, astraendo dal tema specifico trattato, si staglia l’interrogativo che chiude la relazione sul futuro del diritto del lavoro in un mondo del lavoro in continuo divenire, sempre più spesso condizionato da tre fattori negativi: un profitto senza etica, una classe politica sempre più concentrata su se stessa ed infine, ma non meno importante, una sempre più diffusa disaffezione per il lavoro. PARTE PRIMA - I PROFILI DI CARATTERE GENERALE 1. Il perdurante interesse per il tema della frammentazione organizzativa L’incidenza sul diritto del lavoro delle continue modificazioni dell’organizzazione del lavoro e dei modi di produzione con l’emersione di nuovi modelli e le continue prove di resistenza a cui le regole e gli istituti giuridici lavoristici sono sottoposti spiegano la continua attenzione che la nostra Associazione ha dedicato a questi fenomeni, con una non casuale periodicità: va ricordato che nel 1985 a Napoli si discusse di «Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro» (relatori Franco Carinci e Giancarlo Perone); nel 1999 a Trento si parlò di «Diritto del lavoro e nuove forme di decentramento produttivo» (relatori Pietro Ichino, Pietro Lambertucci e Roberto Romei); a Catania nel 2009 (relatori Valerio Speziale, Marzia Barbera e Alessandro Bellavista) la riflessione fu incentrata su “La figura del datore di lavoro”; infine, oggi a Cassino si affronta il tema della «Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e collettivi». La scelta dell’Associazione di ritornare sul tema è stata assolutamente opportuna e condivisibile alla luce dei fenomeni socio-economici che stanno rapidamente modificando il modo di lavorare e mettendo a dura prova le categorie giuridiche tradizionali (amplius infra - Parte Terza della relazione). Mutamenti dell’impresa e trasformazioni del lavoro costituiscono i due aspetti del cambiamento determinato dalle innovazioni tecnologiche e dalla globalizzazione, con

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l’effetto che non è possibile cogliere le trasformazioni del lavoro (o come spesso si dice: “il lavoro che cambia”) trascurando i mutamenti dell’impresa, che ha sempre più diffusamente abbandonato la tradizionale strutturazione di tipo verticale e optato per un modello integrato di tipo orizzontale1 che si regge su una fitta rete di rapporti societari e/o contrattuali (contractual integration)2, fino all’ipotesi estrema di celarsi dietro una piattaforma tecnologica. Questi mutamenti organizzativi hanno assunto varie sembianze, oscillando tra rapporti di natura non gerarchica (cooperazione relazionale)3 e rapporti connotati da supremazia economica e giuridica tra imprese, che in un certo qual modo, riproducono la struttura gerarchizzata dell’impresa fordista4. In ogni caso, la riflessione sulle implicazioni delle trasformazioni organizzative sui rapporti di lavoro, con una netta preferenza per le vicende dei rapporti individuali, si è differenziata a seconda delle modalità attraverso le quali si è manifestata la frammentazione dell’impresa: da un lato, sono state analizzate le forme di decentramento realizzate attraverso strumenti contrattuali (esternalizzazioni, appalti, anche combinati con cessione di ramo d’azienda, subappalti, subfornitura, somministrazione, franchising)5; dall’altro lato si è studiato il fenomeno delle imprese organizzate in forma di gruppo (relazione societaria o meramente proprietaria)6 o, più di recente, in rete7. Ad ampliare il discorso concorrono le manifestazioni del fenomeno che fuoriescono dal perimetro dell’art. 2094 c.c., coinvolgendo tipologie negoziali (co.co.co., lavoro autonomo, lavoro libero professionale e, prima dell’abrogazione, lavoro accessorio), accomunate tra loro, ma anche alla fattispecie del lavoro subordinato, per un verso, dalla dipendenza economica (infra), e per altro verso, dall’inserimento nell’organizzazione

1 Ghera, 2003; Tosi, 1991, 613-616, che parla di «terziarizzazione dell’apparato produttivo»; Mazzotta, 2006, 164. 2 D’obbligo, ma anche per vivo apprezzamento, il rinvio alla monografia del 2004 di Luisa Corazza. 3 Perulli, 2007, 30; Idem, 2014, 466; Barbera, 2010, 11. 4 Trasformazioni a mezza strada tra il vecchio e il nuovo, secondo Treu, 2012, 9. 5 Quadri, 2004, 67 ss. 6 Carabelli, 2009. 7 Tosi, 2014a, Secondo Scarpelli (2012, 1421-1451, spec. 1424), il fenomeno della disarticolazione del processo produttivo può manifestarsi in due modi differenti: a) può assumere la guisa della esternalizzazione, cioè dell’attribuzione all’esterno di una funzione o di una parte di attività prima gestita direttamente (dimensione dinamica del fenomeno); b) ovvero può assumere le sembianze del decentramento, cioè di una organizzazione frammentata su più soggetti giuridici (dimensione statica). I caratteri essenziali del fenomeno, nella sua duplice dimensione, sono individuabili, da un lato, secondo le prassi seguite e dall’altro lato, in base alle finalità perseguite, che sono così sintetizzabili: 1) aggirare i vincoli giuridici sopportati dal decentrante (ad esempio, in relazione alle soglie occupazionali); 2) riduzione dei costi del lavoro (conseguenti all’applicazione del CCNL che vincola il decentrante); 3) trasferire il rischio della impossibilità della prestazione a latere datoris et praestatoris; 4) acquisire specializzazioni assenti in azienda (si tratta delle esternalizzazioni virtuose di cui parla Speziale, 2010). Entrambe le schematizzazioni, fenomenica e teleologica, sono puramente descrittive, non potendosi escludere la combinazione o la sovrapposizione dei diversi fenomeni; in ogni caso, tali schematizzazioni non determinano differenze di disciplina. De Luca Tamajo (2007, 6) afferma che l’evoluzione dei modelli organizzativi consente di declinare la terziarizzazione in due modi. Si ha «terziarizzazione interna» quando vengono cedute a terzi parti del processo produttivo, ma che restano all’interno dell’impresa committente (intra moenia) allo scopo di coniugare il decentramento funzionale con la contiguità spaziale delle produzioni. In questa ipotesi di terziarizzazione, l’esternalizzazione ha una valenza giuridico contrattuale, anche se di fatto i lavoratori interessati dal fenomeno operano all’interno dell’organizzazione per perseguire i fini dell’impresa committente. La seconda declinazione della terziarizzazione riguarda il reclutamento della forza lavoro (insourcing). In questo caso, il decentramento non riguarda la produzione, ma il reclutamento del personale e la titolarità dei rapporti di lavoro.

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del committente8. In alcuni casi i diversi fenomeni si presentano intersecati tra di loro (si pensi all’appalto affidato non ad un’impresa ma ad un lavoratore autonomo). L’indagine ha riguardato le ricadute di tali fenomeni sul rapporto di lavoro e l’individuazione degli strumenti di contrasto del conseguente abbassamento delle tutele del lavoratore ovvero la ricerca del punto di equilibrio9 tra i valori dell’economia e del profitto (art. 41 Cost.; art. 16 Carta di Nizza; libertà economiche e tutela della concorrenza previste nel TFUE) e quelli della tutela del lavoro in tutte le sue forme (artt. 3, 4, 35 e ss. Cost. e diritti sociali enunciati nel TFUE e nella Carta di Nizza)10. Da ultimo l’attenzione si sta spostando verso il fenomeno (ancora sfuggente) del fare impresa “sul” e “tramite” le piattaforme digitali, frutto della c.d. collaborative economy, che pone due diversi interrogativi: se ci sia un datore di lavoro/committente e come debba essere qualificata la prestazione commissionata tramite Internet. 2. Le ragioni del fenomeno Nel XX secolo si è assistito ad una straordinaria metamorfosi dei processi produttivi, basata oltre che sulla novità degli strumenti di produzione (come accaduto durante la prima e la seconda rivoluzione industriale o, più recentemente, con la seconda età delle macchine, amplius infra Parte Terza), anche sulla evoluzione dei modi di organizzare l’impresa che, da tecnostruttura integrata che assicurava la concentrazione del processo di produzione, è divenuta una rete di unità autonome o semi-autonome tra loro legate da forme elastiche di coordinamento11. Tra le ragioni di questa evoluzione vanno segnalati, con riferimento alle grandi imprese, lo spostamento di potere dai manager agli azionisti e, per le medio-piccole, l’esigenza di reggere la concorrenza in un mercato globalizzato. Nei nuovi modelli organizzativi si ha una concentrazione dell’attività a cui è connesso il differenziale competitivo e una esternalizzazione di quelle considerate non strategiche, che riguardano tanto la funzione produttiva quanto vari servizi (assistenza legale, gestione del personale, ricerca, manutenzione, call center, ecc. … ), attraverso una catena di subfornitori (in senso lato), con il triplice effetto di ridurre i rischi, ottimizzare i costi e guadagnare in termini di flessibilità12. Attraverso questi assetti organizzativi l’impresa persegue vari obiettivi: avere un esatto controllo dei costi attraverso il passaggio dal produrre (make) all’acquistare (buy)13; avvalersi di competenze specialistiche non possedute; infine, neutralizzare le fluttuazioni del mercato, scaricando l’eventuale contrazione dell’attività sulla filiera delle imprese collegate. A questi tre obiettivi si potrebbe aggiungere anche quello di tenere all’interno dell’impresa i segmenti a maggiore tasso di profitto ed esternalizzare quelli a più basso rendimento, con una traslazione all’interno dell’impresa della logica di mercato, anche se, stando all’analisi della evoluzione dei modelli organizzativi (amplius infra), si registra negli ultimi anni una inversione di tendenza verso la ricentralizzazione, interpretabile anche quale risposta ad una serie di problemi connessi alla gestione delle esternalizzazioni c.d. intra moenia (liceità dei controlli sui dipendenti dell’appaltatore o

8 Perulli, 2004a, 13, ss.; Treu, 2012, 10, parla di «diversificazione dei contenuti e dei tipi di lavoro». 9 Del Punta, 2000, 52; Treu, 2012, 11. 10 Treu, 2012, 9, suggerisce di ricercare gli strumenti giuridici e le politiche del lavoro che consentano la regolazione di tali fenomeni, attraverso un’analisi delle diverse manifestazioni delle variazioni delle imprese e del lavoro, nella prospettiva della tutela e della promozione del lavoro nell’impresa che cambia. Sul tema d’obbligo il rinvio a Napoli, 2008. 11 De Luca Tamajo, 2007, 4; Del Punta, 2000, 52-54. 12 De Luca Tamajo, 2007, 6; ancor prima v. Idem, 1999, nonché Idem, 2002. 13 Sul rapporto tra costo interno di amministrazione e costo esterno di transazione come fattore che determina l’impresa ad optare tra il make o il buy, v. Quadri, 2004, 61, spec. nota 247.

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fornitore; lesività dei comportamenti dei dipendenti delle società terze; moltiplicazione dei soggetti chiamati a gestire il conflitto sindacale)14. È quasi scontato dire che, tra le ragioni del fenomeno, un ruolo determinante ha assunto la globalizzazione che ha determinato una trasformazione silenziosa del sistema nazionale e transnazionale di bilanciamento e regolazione del potere prima esercitato e dominato dagli Stati, ora impotenti nei confronti dell’economia globale15. L’effetto è la creazione di una asimmetria tra economia e Stato, per cui (parafrasando Adam Smith) vi sono da un lato, nazioni senza ricchezza e dall’altro ricchezze senza nazione16. 3. (segue) … e le sue possibili catalogazioni In assenza di una nozione legale che ricomprenda tutte le manifestazioni del fenomeno della frammentazione organizzativa, la dottrina, giuslavoristica17 e non solo18, ha elaborato una serie di definizioni e ha tentato in vario modo di ricondurre a sistema le fattispecie concrete. Tra i vari tentativi si segnala quello di Vallauri19, che parte dal passaggio dall’impresa verticalizzata a quella a “rete”, attraverso quella integrata, per catalogare i vari fenomeni di frammentazione. L’A. sottolinea che per poter parlare del fenomeno della scomposizione dell’impresa occorre fare chiarezza sul significato dei molti termini impiegati per indicare questa vicenda, posto che si fa un uso indistinto e/o promiscuo di espressioni - quali esternalizzazione, outsourcing, insourcing, terziarizzazione, segmentazione del ciclo produttivo, decentramento, downsizing, spin-off - che invece hanno significati differenti e che sono riconducibili all’interno di diversi livelli e contesti semantici20. Una prima differenziazione consente di collocare in un’autonoma area concettuale espressioni quali segmentazione del ciclo produttivo, decentramento e downsizing, che stanno ad indicare la scelta dell’imprenditore di scomporre la propria azienda per rendere più agile la produzione, facendo proprio lo spirito del buy e abbandonando almeno in parte quello del make. Ad una diversa categoria sembrano riconducibili le definizioni relative agli strumenti tecnici21 attraverso i quali l’imprenditore può realizzare le proprie scelte organizzative, e quindi i termini esternalizzazione, outsourcing, insourcing, terziarizzazione, spin off22. Infine, ad un distinto livello di indagine, si collocano gli istituti giuridici di cui si compongono i summenzionati strumenti tecnici quali, a titolo esemplificativo, il trasferimento d’azienda, l’appalto di opere o servizi, la subfornitura ed i licenziamenti per motivi economici.

14 De Luca Tamajo, 2007, 9. 15 Il capitale nello spazio globale sfugge alle categorie del legale e dell’illegale per diventare potere “translegale” (così Beck, 2010). 16 Galgano, Cassese, Tremonti, Treu, 1993. 17 Sul fenomeno dell’outsourcing v. Quadri, 2004, 20 ss.; v. anche la descrizione del fenomeno fatta da Ferruggia, 2013. 18 Per un’ampia analisi delle elaborazioni in ambito economico, di organizzazione aziendale e sociologico si rinvia a Barbera, 2010, e Speziale, 2010. 19 Vallauri, 2003. Sul tramonto dell’impresa verticalizzata con l’emergenza del fenomeno post-fordistico e dell’impresa a rete v. anche Quadri, 2004, 27 ss. e 55. 20 Vallauri (2003, 726-730) opera una esaustiva ricognizione delle posizioni dottrinali, riportando il significato attribuito da ciascun Autore ai termini richiamati. V. anche Perulli, 2004a, 5-6, nonché Quadri, 2004, 20 ss. 21 Secondo Brollo (1991, 135) si tratta non di strumenti ma di percorsi «molteplici e distinti». 22 Secondo Scarpelli, 1999, 351, per «pratiche di esternalizzazione» si intende l’insieme di strumenti tecnico giuridici a mezzo dei quali realizzare il progetto di riarticolazione aziendale. Contra, Gallino, 1996, 99, che al termine “esternalizzazione” riconduce le scelte sia organizzative sia della strumentazione tecnica da utilizzare.

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Dopo l’analisi del significato delle varie espressioni, Vallauri conclude che i criteri per distinguere i vari strumenti utilizzati per scomporre l’azienda sono essenzialmente due: da un lato, il meccanismo negoziale attraverso cui si concretizza il procedimento, dall’altro, il tipo di azienda destinata a garantire la riacquisizione della funzione decentrata23. Sintetizzando il dibattito, può sostenersi che il fenomeno della scomposizione e ricomposizione dell’impresa è riconducibile a tre ipotesi. La prima è quella delle reti di impresa, caratterizzata da interrelazioni tra diverse imprese così intense da dare corpo ad una organizzazione a rete24. La seconda è quella dell’impresa–rete, che si ha quando l’organizzazione si sviluppa intorno ad un nucleo centrale o dominante con affidamento di più segmenti a soggetti terzi “serventi” attraverso contratti commerciali (appalto, franchising, subfornitura, trasporto, convenzione) o di lavoro autonomo. Si realizza in tal modo un’ipotesi di integrazione contrattuale (contractual integration)25, dando vita all’impresa leggera, caratterizzata cioè dalla esternalizzazione di parti o fasi dell’attività produttiva. La terza ed ultima manifestazione è quella del gruppo di imprese, e cioè di società collegate tra loro (a volte attraverso meccanismi proprietari) con struttura gerarchica (società capogruppo)26; si configura in tal modo un’ipotesi di integrazione societaria27. L’elemento comune ai tre fenomeni è “la rete”, che sia di imprese, di contratti o di società, con possibile intersezione tra di esse. Possiamo introdurre, infine, una quarta declinazione del concetto di rete, quella del world wide web, sempre più applicata alla produzione tanto da parlarsi ormai di “Internet of Things”, di cui più diffusamente si tratterà nella Parte Terza. 4. L’interesse del diritto del lavoro per il datore di lavoro Può considerarsi un dato acquisito che il diritto del lavoro, abbandonando il suo tradizionale disinteresse verso l’impresa, abbia spostato il proprio baricentro da una all’altra parte del rapporto di lavoro, occupandosi in maniera sistematica proprio dell’impresa, assunta, nelle sue trasformazioni e nuove articolazioni, al centro delle riflessioni della dottrina giuslavoristica28, anche per esigenze di responsabilizzazione

23 Vallauri, 2003, 728. 24 Tosi, 2014a. 25 Corazza, 2004. 26 Lunardon, 1996. 27 Carabelli, 2009, 92-93; Carinci M.T., 2015, 3. 28 Molto articolata è la riflessione sulla nozione di impresa di Marzia Barbera (2014), secondo la quale un terreno di incontro tra il diritto del lavoro e il diritto dell’impresa è costituito dalla analisi dell’impresa a partire dalle norme di organizzazione che la connotano. Tale approccio consente di far valere la pretesa del diritto del lavoro di governare i rapporti di autorità insiti nell’impresa – organizzazione. Un secondo terreno di incontro è costituito dalle teorie che studiano l’evoluzione del concetto di interesse sociale e vedono emergere l’idea che esiste un interesse comune (o meglio zone di interesse comune) tra tutti gli stakeholder (idea dell’impresa come bene comune, ovvero come risorsa condivisa la cui sostenibilità dipende dalla partecipazione di più constituencies al suo governo). Sulla base di queste premesse, Barbera analizza, ovviamente, in senso critico, le diverse concezioni di impresa oggi in circolazione. La prima riguarda il rapporto che intercorre tra l’impresa e le unità minori nelle quali essa si articola, sul quale Cavallini evidenzia il diverso approccio del giudice nazionale rispetto a quello europeo, avendo il primo adottato una nozione funzionale di unità produttiva, a differenza del secondo che opta per una nozione puramente fisico – geografica. Differenza che rinviene dalle diverse finalità perseguite ai due livelli. Da questo diverso approccio emerge la molteplicità di significati attribuibili alla nozione giuridica di impresa. La seconda concezione è quella che guarda all’impresa come espressione della libertà economica dell’imprenditore. È quanto emerge dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sugli ostacoli alla concorrenza prodotti dall’esercizio dell’autonomia collettiva (sentenze Viking,

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della stessa in ordine a valori, principi e norme costituzionali (compatibilità della libera iniziativa economica con la sicurezza, la libertà e la dignità umana e comunque con l’utilità sociale)29. Secondo Treu, il diritto del lavoro, prima dei recenti sviluppi, si è occupato dell’impresa sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro, come proiezione della iniziativa economica del datore di lavoro30 — in assonanza con le tesi giuscommercialistiche — per la sua capacità di compressione dei diritti del lavoratore31. Tale approccio è stato adottato dal legislatore che è intervenuto sull’organizzazione del lavoro, limitando il potere dell’imprenditore di modellarla a misura esclusiva delle sue esigenze produttive (ma v. infra) e considerando come patologiche o fraudolente le articolazioni dell’impresa finalizzate a depotenziare le tutele dei lavoratori (v. l’art. 2112 c.c. e la l. n. 1369/1960)32. Nel Congresso di Catania si discusse di come l’innovazione tecnologica33 e la globalizzazione avessero inciso sul contratto di lavoro, determinando la scissione tra esercizio del potere datoriale e imputazione delle responsabilità connesse al rapporto di lavoro, nonché della facoltà accordata al datore di lavoro di scegliere la disciplina applicabile al rapporto. Sotto il primo profilo, si è preso atto che nei processi di esternalizzazione l’impresa si avvale di varie forme di collegamento negoziale. Questi rapporti tra imprese diverse possono essere “semplici” (è il caso della somministrazione), oppure “più complessi” (come nell’appalto); in altri casi si attinge a modelli di integrazione produttiva o di collaborazione (gruppi di imprese e reti di imprese)34, con una dilatazione dello spazio interno delle imprese35. Sotto il secondo profilo, il datore di lavoro, operando su scala transnazionale (frammentazione in ambito europeo36) può scegliere tra più sistemi giuridici, realizzandosi una sorta di competizione regolativa37. L’atteggiamento della dottrina giuslavoristica verso il fenomeno della frammentazione dell’impresa è stato abbastanza sofferto, nella misura in cui ha dovuto prendere atto che esso si poneva in antitesi con il contratto di lavoro costruito su una configurazione

Laval e Ruffert). La terza concezione è quella della impresa socially embedded, cioè nella quale i lavoratori partecipano alla gestione dell’impresa, rivalutando la costruzione di democrazia industriale elaborata da Sinzeihmer, 1916). Tale costruzione, ritenuta datata da Barbera, si ricollega all’idea della impresa come bene comune (socially embedded), teorizzata dall’economista Masahiko Aoki. Teoria in realtà approfondita da studiosi di diritto commerciale ed economisti, meno dai giuslavoristi, con qualche eccezione (Perulli, 2013a), condizionati dalla contrapposizione concettuale e ideologica tra autonomia e funzionalizzazione dell’impresa. Queste riflessioni sulla concezione dell’impresa come bene comune potrebbero aiutare a ripensare il significato della libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.). L’ultima idea di impresa è quella dell’impresa come organizzazione del lavoro digitalizzata, che Barbera abbina alla rivoluzione tecnologica (Impresa 4.0). 29 Zoppoli L., 2015, 204. 30 Persiani 1966. 31 Treu, 2012, 7 ss. 32 Tosi, 2014a, XIV, che mettendo in parallelo rete di imprese e gruppo di imprese evoca, in relazione a queste ultime «l’antico approccio patologico e il sospetto dell’abuso del diritto, consumato sotto lo schermo della personalità giuridica (incorporat veil)»; v. anche Romei, 2016. 33 Ma prima ancora v. Carinci F., 1986. 34 Romei, 2016, 510. 35 Secondo Mazzotta (2013, 22) la disarticolazione dell’organizzazione produttiva ha acquisito sembianze diverse col passare del tempo, in quanto al decentramento produttivo conseguente alla fuga dalle rigidità imposte dallo Statuto dei lavoratori si è sostituito un fenomeno nuovo di interscambio tra centro e periferia e di integrazione e disintegrazione del ciclo produttivo che richiede una continua ridefinizione dei confini dell’impresa. 36 Romei, 2016, 521-522. 37 Barbera, 2014, 631-632.

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binaria del rapporto di lavoro, come tale difficilmente armonizzabile con una organizzazione del lavoro caratterizzata dalla compresenza di più soggetti che possono a vario titolo e in forme diverse interagire con l’esecuzione della prestazione di lavoro. Secondo Romei, la reazione della dottrina lavoristica può essere ricondotta a due diversi approcci. Il primo richiama il principio della unicità del datore di lavoro, desumendolo dall’art. 2094 c.c. 38, pur se alla nozione codicistica di datore di lavoro “formale”, inteso come colui che stipula il contratto di lavoro (e quindi è creditore della prestazione e titolare di tutti i diritti, poteri e obblighi che la legge riconnette al contratto di lavoro, desumibili dagli artt. 2082, 2086, 2094 c.c.), l’ordinamento, a partire dalla l. n. 1369/1960, ha sostituito la nozione di datore di lavoro “sostanziale”, inteso come soggetto titolare dell’organizzazione produttiva in cui opera il prestatore di lavoro a prescindere dalla stipula con esso del contratto di lavoro (criterio di effettività)39. Nell’arco di circa sessant’anni il legislatore, senza mai manomettere l’impianto codicistico, a più riprese ha ribadito tale scelta con una serie di disposizioni che arrivano ai giorni d’oggi. Una conferma dell’opzione a favore del datore di lavoro sostanziale proviene proprio dall’art. 29, co. 1, d.lgs. n. 276/2003, allorquando individua le caratteristiche dell’appalto genuino, tra le quali l’organizzazione dei mezzi necessari all’esecuzione dell’appalto con assunzione del rischio di impresa40. Anche dalla cessione d’azienda ex art. 2112 c.c. può desumersi la rilevanza dell’inserimento nell’organizzazione produttiva che, ceduta, porta con sé i contratti di lavoro dei prestatori ivi impiegati senza necessità del loro consenso, per cui anche in questo caso datore di lavoro è il titolare dell’organizzazione41. Molti Autori concordano sulla utilizzazione, per l’individuazione del datore di lavoro, della stessa grammatica concettuale utilizzata in materia di accertamento della natura subordinata di un rapporto di lavoro42. Il criterio della effettiva utilizzazione viene poi declinato in senso soggettivo, per cui è datore di lavoro chi esercita di fatto i poteri direttivo e disciplinare, ma anche in senso oggettivo, individuandosi il datore di lavoro in colui che beneficia anche indirettamente delle utilità che derivano dall’inserimento della prestazione lavorativa all’interno del ciclo produttivo della propria azienda (datore di lavoro in senso funzionale)43. Si tratta, secondo i sostenitori di tale teoria, di un principio generale dell’ordinamento lavoristico, sopravvissuto alla stessa abrogazione della l. n. 1369/1960, avendo corretto in senso sostanziale l’art. 2094 c.c., offuscandosi la nozione di parte del contratto di lavoro (infra)44. La teoria dell’unicità del datore di lavoro ha prodotto come effetto la configurazione come norme eccezionali – quindi soggette ad una interpretazione restrittiva – delle disposizioni che regolano tutti i fenomeni di outsourcing.

38 Romei, 2016, 514, nel chiedersi se il principio della unicità della figura del datore di lavoro rappresenti davvero uno strumento in grado di tutelare il prestatore di lavoro o se al contrario costituisca una scatola vuota, parla di vera e propria «ossessione» per tale principio. 39 Mazzotta, 2006, 159. 40 Mazzotta, 2006, 165; Tosi (2017, 3), che preferisce l’espressione «filo conduttore»; Alvino, 2014, 87; Carinci M.T., 2016, 734. 41 Carinci M.T., 2016, 735; ancor prima v. Cester, 2005. 42 In specie v. Mazzotta, 2006, 162, e Idem, 2013, 27; v. altresì Del Punta, 1995. 43 Folta è la schiera dei c.d. “funzionalisti”; tra di essi v. Mazzotta, 2013; Barbera, 2010, 223 ss.; Carinci M.T., 2015, 14-15; Nicolosi, 2012, 66-67. Secondo Romei (2016, 515) è la legge ad adottare un approccio funzionalistico distribuendo diritti e oneri in capo ai soggetti coinvolti in relazione alle rispettive sfere di incidenza e di vantaggio. 44 Contra Romei, 2016, 512, che nega viceversa valore di principio alla «unicità del ciclo produttivo», che pur utilizzato come criterio empirico per risolvere casi dubbi, non ha un fondamento normativo.

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Atteggiamento ben diverso ha assunto un’altra parte della dottrina, che, abbandonando il principio dell’unicità del datore di lavoro e cercando di ricondurre i fenomeni di frammentazione dell’impresa all’interno dello schema tradizionale ex art. 2094 c.c., sostiene l’ipotesi della pluralità di datori di lavoro con una titolarità congiunta del rapporto di lavoro. Si tratta della teoria della codatorialità (v. infra), che propone una declinazione al plurale del principio sostenuto dall’altra parte della dottrina45. Invero, la codatorialità viene prospettata anche in senso «sostanziale», a proposito di fenomeni normativamente non riconducibili alla codatorialità in senso «formale»; è il caso della somministrazione, la cui disciplina prevede un esercizio dei poteri datoriali scisso tra somministratore e utilizzatore; lo stesso dicasi per la responsabilità solidale, tramite cui si aggiunge al debitore principale un ulteriore debitore46. Al dilemma “codatorialità sì, codatorialità no” si è preferita, nello sviluppo della relazione, l’opzione per la “codatorialità anche”, sostenendosi la valenza generale delle tecniche di tutela che presuppongono la unicità del datore di lavoro e la eccezionalità, allo stato47, dell’ipotesi della codatorialità. 5. La “rimaterializzazione” dell’impresa tra ricentralizzazione del contratto

di lavoro e autonormazione Nell’analisi della dilatazione degli spazi, interno ed esterno, dell’impresa, si parte dall’assunto che quest’ultima abbia subito una progressiva smaterializzazione e deterritorializzazione. La smaterializzazione conseguirebbe alla sua evoluzione da organizzazione di beni materiali a insieme di conoscenze, competenze, relazioni e procedure, immesse sul mercato: consisterebbe cioè in una immateriale «capacità di stare sul mercato»48. Tale analisi spesso ha assunto come postulato la perdita di centralità della funzione del contratto di lavoro nell’organizzazione di impresa, dandosi per scontato che la ricerca da parte delle imprese di una maggiore adattabilità al mercato e di una maggiore flessibilità attraverso le esternalizzazioni costituissero condizioni di contesto durevoli se non proprio irreversibili. Tale postulato è stato da ultimo fondatamente messo in discussione da Barbera, secondo la quale tali condizioni sono di recente, in parte, cambiate, nel senso che la crescente instabilità dei vantaggi competitivi e la temporaneità dei risultati economici ad essi associati hanno annullato i benefici della smaterializzazione dell’impresa, ridisegnando la geometria delle relazioni economiche tra imprese. Oggi la capacità competitiva delle imprese si impernia sulle competenze, sul sapere (tecnologico, organizzativo, relazionale) e sulla capacità di percepire i cambiamenti, il che richiede relazioni di scambio continuative e strutturate, nonché coordinamento sia tra le imprese legate sul piano produttivo sia tra le imprese e i lavoratori. Ecco che il contratto di lavoro è tuttora centrale, in quanto consente di conservare il capitale di conoscenze accumulate e di garantire la cooperazione durevole del lavoratore al raggiungimento del risultato produttivo49.

45 Speziale, 2006. 46 De Luca Tamajo, 2007, 16; Carinci M.T., 2008, 14 e 118. 47 Tosi, 2014a, XVII, secondo cui il diritto del lavoro è costretto ad ammettere «la prevalenza delle letture pluralistiche nell’approccio al tema, a ben vedere le sole compatibili con gli istituti di nuova introduzione». 48 Romei, 2000, 175. 49 Barbera M., 2014, 633; non dissimilmente Caruso, 2017, 13-14, secondo il quale «Senza poter ampliare il discorso, basta limitarsi, a questo proposito, a evidenziare il fatto che nell’organizzazione del lavoro post fordista, e ancor di più in quella che scaturisce dalla quarta rivoluzione tecnologica digitale (l’industria 4.0 e l’ufficio 2.0), accreditate ricerche, a partire da documenti OCSE, dicono che la risorsa umana fortemente riqualificata sarà fattore strategico di aumento della produttività. Alle risorse umane

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Questo modello di impresa istituisce un rapporto nuovo con i lavoratori e richiede un approccio altrettanto nuovo con cui guardare al lavoro, considerato che il capitale umano e la conservazione delle competenze interne diventano centrali nel riposizionamento strategico delle imprese. Il lavoratore nella nuova organizzazione di impresa è mobilitato come soggetto e non solo come individuo, ponendosi su un orizzonte di maggiore ricchezza professionale, di maggiore responsabilità e quindi di maggiore libertà50, pur con le inevitabili disuguaglianze nelle opportunità legate al lavoro svolto tra chi è incluso nei processi di innovazione e chi ne è escluso51. Questa nuova organizzazione del lavoro incide, poi, sul contratto di lavoro. Nelle riflessioni sul tema fatte da Giugni, e di seguito da Liso, sulla questione del rapporto tra contratto e organizzazione, si è dato atto della rilevanza della organizzazione nel contratto di lavoro, escludendosi però che ciò potesse ampliare l’area del debito gravante sul lavoratore, ovvero influire sulla qualità della subordinazione52. In tale costruzione, attraverso le esigenze dell’organizzazione si misurava il carattere oggettivo dell’interesse dell’impresa, costituente il presupposto del legittimo esercizio del potere imprenditoriale53. Sulla stessa lunghezza d’onda si poneva Liso, sia pure in un contesto mutato, riguardandosi alla impresa come luogo in cui vengono fatte valere anche le ragioni dei lavoratori, con l’effetto che l’inerenza del contratto all’organizzazione non rileva solo ai fini della puntualizzazione dei comportamenti dovuti dal lavoratore, come sostenuto da Persiani54 e da Marazza55, ma anche per definire posizioni di vantaggio ed interessi del lavoratore diversi da quello alla percezione del salario56 (sul punto v. infra). Nell’attualità v’è ancora fiducia nella capacità del contratto di catturare la dinamica dei rapporti sociali e produttivi con la doppia funzione di rispondere alle richieste di differenziazione delle tutele che provengono dalle imprese e a quelle di autodeterminazione che provengono dai lavoratori57. Ancora, si ritiene che il contratto di lavoro possa svolgere, unitamente alla contrattazione collettiva e alla legge, una funzione di regolazione del lavoro con una valenza negativa di protezione della sfera personale e positiva di affermazione di libertà e diritti personalizzati e individualizzati58. Su quest’ultima prospettazione solleva qualche, non contestabile, perplessità Barbera, che dubita della possibilità che l’impresa standard, pur richiedendo maggiore intelligenza e flessibilità nell’uso delle risorse dei lavoratori, sia disponibile poi a dare spazio alla loro domanda di libertà e alla loro capacità di determinarsi. Per altro verso, l’evoluzione dell’organizzazione dell’impresa basata sulla combinazione tra tecnologia e capitale umano spinge la stessa verso l’autonormazione, nella doppia declinazione di regolare le condizioni di lavoro sulla base dell’autonomia individuale e di assumere su base volontaria obblighi di natura sociale, con il declino della eteroregolamentazione delle condizioni di lavoro (legge, contratto collettivo). Ciò determina il venir meno di un controllo esterno dei valori e degli interessi di cui

verranno richieste caratteristiche di performance inedite in termini di controllo delle nuove tecnologie digitali»; pur se l’A. aggiunge che «Si tratta, spesso, di competenze acquisibili solo nel mercato esterno all’impresa e non disponibili nel mercato interno anche con relativi processi di riqualificazione; ma anche caratteristiche di adattabilità, talento, responsabilità individuale, relazionali e psicologiche e che tutto questo darà luogo a profondi processi di sostituzione del lavoro». 50 Tiraboschi, 2006; Guarriello, 2000, 192. 51 Barbera, 2014. 52 Persiani, 1966. 53 Giugni, 1963, 233 e 318; Persiani, 1970. 54 Persiani, 1966. 55 Marazza, 2002. 56 Liso, 1982, 32-71, nonché Carabelli, 2004. 57 Del Punta, 2014, 36. 58 Caruso, 2010.

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l’impresa è portatrice, fonte di possibili vincoli e condizioni di legittimità del suo agire. Si assiste sostanzialmente ad una “aziendalizzazione” delle regole59. La contrattazione individuale delle condizioni di lavoro costituisce il percorso regolativo più idoneo per processi gestionali che tendono ad ottimizzare le risorse disponibili, nonché lo strumento più funzionale ad una partecipazione del singolo lavoratore ai programmi aziendali. A monte, v’è un crescente divario tra i lavoratori a bassa qualificazione e quelli ad alto potenziale di conoscenza e di sapere tecnologico che possono fare a meno della eteroregolamentazione, con una sostituzione al conflitto tradizionale tra capitale e lavoro di un conflitto interno al mondo del lavoro; bisogna però affrettarsi a dire che questo distinguo non va sopravvalutato in quanto anche i soggetti ritenuti (professionalmente) più forti soggiacciono alla regola di mercato della domanda/offerta che quindi incide fortemente sul loro potenziale di contrattazione, specie quando la concorrenza è a livello globale (amplius infra – Parte terza della relazione)60. L’altra faccia dell’autonormazione sono le strategie di responsabilità sociale dell’impresa (RSI) con un recupero della dimensione collettiva o pubblica degli interessi. Le prassi di RSI sono rivolte sia all’ambiente interno, e quindi verso i lavoratori, sia all’ambiente esterno, con un crescente ruolo, quale attore politico e non solo economico, delle imprese. In questa accezione, la RSI non costituisce più un vincolo esterno eteroimposto dallo Stato al mercato, ma una scelta volontaria dell’impresa che ne accresce la legittimità nei confronti del territorio e dei lavoratori (amplius infra). L’impresa si erge a “garante” del benessere dei dipendenti, dei fornitori, dei consumatori, della comunità locale, della salubrità dell’ambiente circostante. Emerge, quindi, un’etica di impresa. Anche sulla tendenza dell’impresa post-fordista a porsi come centro autoreferenziale del processo di ri-regolazione dei rapporti di produzione, Barbera61 solleva perplessità nella misura in cui essa porta con sé una cultura tesa necessariamente (e naturalmente) ad aggravare la posizione d’obbligo che i lavoratori assumono con il contratto di lavoro. Il lavoratore è obbligato a condividere le regole di fondo del contesto, dilatandosi l’area del debito del lavoratore che deve collaborare al raggiungimento di un risultato produttivo, senza essere tenuto a fare propri quell’interesse e quei fini62; ovviamente, il rischio è che dall’apertura alla società si passi alla sua colonizzazione63. La prospettiva e le connesse perplessità sono degne della massima attenzione, evitando facili entusiasmi e preconcetti pessimismi e, piuttosto, cercando un realistico punto di equilibrio, tra valori costituzionalmente tutelati. 6. Frammentazione, potere organizzativo e libertà di iniziativa economica

privata Dalle considerazioni sin qui svolte emerge che il fenomeno del decentramento64, nelle sue varie declinazioni, pone due interrogativi: se il fenomeno della dissociazione tra datore formale e datore sostanziale (utilizzatore) sia comunque riconducibile allo schema dell’art. 2094 c.c. (rapporto binario), ovvero se richieda un riadattamento della fattispecie alla struttura delle organizzazioni complesse; come si atteggi il rapporto tra contratto di lavoro e organizzazione.

59Bavaro, 2012.60 Del Punta, 2014, 15 ss. 61 Barbera (2014, 643), in modo molto efficace, cita l’esempio delle auto di marche straniere dei dipendenti Fiat dello stabilimento di Mirafiori, che su iniziativa aziendale vengono coperte con un telo trasparente sormontato da un cuore spezzato! 62 Carabelli, 2004. 63 Barbera, 2014, 644. 64 Marinelli 2002, 2 ss., nonché Quadri, 2004, 23 ss.

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Per rispondere al primo interrogativo, conseguente all’incidenza delle trasformazioni organizzative sull’identità del datore di lavoro65, si vuol richiamare quanto affermato da Ghera, secondo cui si avverte nelle massime giurisprudenziali la tendenza a rivisitare, in sintonia con una parte della dottrina, la nozione della subordinazione accogliendo un modello diverso da quello tradizionale della subordinazione-eterodirezione; si tratta del «modello della subordinazione continuità o semplice coordinamento della prestazione nello spazio e nel tempo, incentrato più che sulla struttura gerarchica, sulla cooperazione funzionale e quindi sull’inserimento della prestazione nell’organizzazione produttiva»66. Quindi, al modello di stampo taylorista-fordista della subordinazione-eterodirezione, si affianca quello post-fordista della subordinazione-coordinamento, connotato da un livello elevato di autoregolazione (autonomia nella subordinazione)67. Tale evoluzione è resa possibile proprio dalla configurazione in chiave tecnico-funzionale e non socio-economica della subordinazione-obbligazione, in grado di ricomprendere le molteplici e diversificate modalità attuative dell’obbligo lavorativo, comprese quelle degerarchizzate e professionalmente elevate (subordinazione-eterodirezione vs subordinazione-coordinamento)68. La previsione codicistica, infatti, non visualizza un tipo sociale-normativo di lavoratore, identificandolo con quello eterodiretto della fabbrica fordista, ma piuttosto visualizza nell’impresa un modello sociale-normativo di organizzazione del lavoro e della attività produttiva, sicché nella definizione dell’art. 2094 c.c. il modello del prestatore, e quindi del contratto di lavoro non è riducibile alla figura del lavoratore eterodiretto ma è piuttosto da riferire alla figura più ampia del collaboratore nell’impresa; è dunque il modello dell’impresa-organizzazione con le sue trasformazioni a proiettare le sue caratteristiche mutevoli sulla fattispecie tipica del contratto di lavoro subordinato69. Nel codice civile non si rinviene un tipo sociale-normativo di prestatore di lavoro subordinato oppure autonomo, bensì viene in rilievo una figura onnicomprensiva di lavoratore, identificato dalla inseparabilità della persona dal lavoro70, non esclusiva del lavoro subordinato, come viene confermato dalla stessa Costituzione (artt. 4, 35)71. Per rispondere al secondo interrogativo, tenendo a mente il fecondo dibattito sul tema, alimentato dai contributi di Ghera, Persiani, Liso, Marazza e Carabelli, prima citati, giova qui fare qualche considerazione (costituendo un passaggio obbligato ai fini della complessa valutazione delle conseguenze dei fenomeni di decentramento produttivo sui singoli rapporti di lavoro) sull’incidenza della organizzazione dell’imprenditore non solo sul contratto di lavoro, ma anche sulle modalità indirette di utilizzazione del lavoro altrui attraverso l’impiego di varie fattispecie negoziali che prevedono il coinvolgimento di altri soggetti che assumono la veste del datore di lavoro72. In questa prospettiva, di sicuro rilievo teorico è la problematica dell’eventuale riconoscimento normativo in capo all’imprenditore fruitore del lavoro altrui (ma non parte del contratto) di un potere di conformazione della prestazione che possa estrinsecarsi nei poteri direttivo, disciplinare, di controllo e nello ius variandi; ciò sia in

65 Treu, 2012, 9. 66 Ghera, 2003, 66; Tosi, 2017, 4. 67 Ghera, 2003, 67. 68 Ghera, 2003, 67; Ferraro, 1998, 485 ss. 69 Ghera, 2003, 61; Ferraro, 1998, 475-480 ss.; Garilli, 2002; Tosi, 2017. 70 Grandi, 1999, 309 ss. 71 Ghera, 2003, 62. 72 Pone per primo la questione Marazza, 2002, 27 ss., in relazione ad imprenditori «che dirigono la prestazione di lavoro di dipendenti altrui o di propri dipendenti che non hanno mai varcato i cancelli della fabbrica», allo scopo proprio di sondare «l’origine dei poteri che vengono esercitati sul lavoro altrui o da parte di soggetti che formalmente non sono parti del contratto».

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termini di indagine sulla eventuale esistenza di siffatta fattispecie sia in chiave delimitativa delle posizioni potestative dell’imprenditore in punto di disciplina73. Da un punto di vista squisitamente organizzativo, l’utilizzo di tipologie contrattuali che consentono all’impresa — proprio attraverso le varie forme di decentramento — di organizzarsi diversamente dall’impresa tradizionale (oltre ad essere suggerito da un’accurata valutazione dell’alternativa costi74/benefici economici e normativi rispetto al modello standard) è determinato dal vantaggio competitivo connesso alla scelta di un contratto commerciale in luogo di un contratto di lavoro subordinato75. Posta la necessità di utilizzare il lavoro altrui per le finalità perseguite dall’organizzazione produttiva, nell’ipotesi in cui tale bisogno viene soddisfatto con l’assunzione diretta di personale nulla garantisce al datore di lavoro di poter raggiungere il risultato sperato, atteso che – com’è noto – l’obbligazione di lavorare (con tutte le disquisizioni teoricamente sostenibili76) non è un’obbligazione di risultato ma di mezzi o di diligenza; viceversa, se la medesima esigenza viene soddisfatta attraverso l’utilizzo di un contratto commerciale, esso consente a chi fruisce della prestazione indiretta di lavoro di garantirsi il risultato dedotto nel contratto. La conseguenza sul piano economico è quella di poter traslare il rischio dell’inutilitas della prestazione (come l’impossibilità della prestazione che incombe sul datore di lavoro) sul soggetto titolare del contratto di lavoro, che non è il fruitore, andando ad allocare quindi tale costo economico altrove77, salvo l’utilizzo di strumenti di contrasto di tali effetti indiretti quali, ad esempio, quelli in materia di assenteismo di cui agli accordi FIAT del 2010 (Pomigliano d’Arco e Mirafiori)78. Il fine chiaramente ravvisabile è quello di cercare di raggiungere quell’optimum “weberiano” costituito dalla razionale esigenza di calcolare le conseguenze delle scelte economiche, specie in ordine ai profili di certezza del diritto, godendo per esempio del vantaggio di “scaricare” il costo sociale del lavoro all’esterno dell’organizzazione produttiva, con la creazione delle diseconomie esterne, appunto, all’impresa. Ciò posto in breve quanto all’analisi economica del fenomeno in esame, sui profili relativi all’incidenza dell’organizzazione dell’imprenditore nel diritto del lavoro, l’attenzione non può che andare alle consolidate elaborazioni degli Autori che si sono approfonditamente occupati del tema79, a cominciare dalla monografia di Persiani del 1966, con la precisazione preliminare che la riflessione classica della veste giuridica da attribuire all’organizzazione nel contratto di lavoro dell’impresa tradizionale sonda l’area del debito del lavoratore tradizionale, mentre gli interrogativi relativi all’impresa diversamente organizzata consentono anche di soffermarsi su ulteriori situazioni creditorie del prestatore (nei confronti del fruitore oltreché verso il datore di lavoro). La ripresa del fondamentale contributo di Persiani80, tuttavia, consente di evidenziare una netta distinzione di piani (almeno in dottrina, perché in giurisprudenza – come si

73 Atteso che il discorso che ha come riferimenti il potere e l’organizzazione si sviluppa in chiave di apposizione di limiti a tali prerogative imprenditoriali: Liso, 1979, 24. V. anche l’interessante rilettura della posizione di Liso effettuata da Gaeta, 2014. 74 Si impiega questa nozione in un’accezione ampia, essendo ricompresi per esempio i cc.dd. “costi transattivi” (Coase, 1995) perché la scelta di organizzare diversamente l’impresa consente di abbattere la gestione della negoziazione con i singoli lavoratori. Su questi aspetti cfr. Carabelli, 2005a; Idem, 2005b; Corazza, 2004 e Razzolini, 2012a, ed ivi ulteriori indicazioni dottrinali. 75 Corazza, 2004. 76 Da ultimo, per una rilettura della distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato, v. Borzaga, 2012, 24 ss.; Marazza, 2005, ed ivi riferimenti di dottrina; Menegatti, 2012. 77 Per alcune notazioni si v. Carabelli, 2004, § 7. 78 V. Carinci F., 2011. 79 Si fa propria la considerazione, ma al contempo l’invito, di Magnani (2005a), che ragionando proprio di «Contratti di lavoro e organizzazione» invoca il metodo storico «oggi fuori moda» perché esso fa parte del metodo generale della discussione razionale. 80 Sul potere di conformazione della prestazione di lavoro v. Persiani 1966, 187 ss.

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vedrà alla luce di Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201 – il discorso parrebbe assestarsi su nuove fondamenta) proprio in merito al fondamento giuridico dell’organizzazione dell’imprenditore: premessa l’inesistenza di una autonoma situazione giuridica soggettiva di “potere di gestione aziendale”81, se nel contratto di lavoro il potere organizzativo del datore (quale manifestazione tipica dell’interesse “esclusivo” del datore, nel senso di essere del tutto estraneo al prestatore, all’efficiente funzionamento dell’organizzazione produttiva) viene giuridificato grazie proprio al contratto, tipo normativo che consente di legittimare questo potere in una relazione negoziale di tipo collaborativo82, fuori dal singolo rapporto di lavoro — nell’assunzione della decisione imprenditoriale di organizzare “diversamente” l’azienda decentrandola — il fondamento normativo non sta nel contratto di lavoro (che non c’è, di proposito)83, ma nell’ordinamento generale, in primis negli artt. 4184 e 42, co. 285 Cost. Dove termina l’area coperta dalle norme applicabili in presenza della fattispecie di cui all’art. 2094 c.c. e dove inizia la sfera che sta fuori dal contratto ma trova l’ombrello protettivo della proprietà e della impresa economica è operazione non suscettibile di misurazione precisa. Ciò che è indubbio è che l’impresa diversamente organizzata sfrutta una posizione tutelata dall’ordinamento ma non dal contratto di lavoro subordinato, con tutti i pro e i contra che tale allocazione comporta; la pretensività del risultato atteso dal fruitore, concernente l’attuazione del rapporto commerciale, non influisce direttamente sulla posizione dei lavoratori, non esposti ad alcun potere giuridico dello stesso. In questo senso, la presenza di una doppia organizzazione (del datore e dell’utilizzatore) interessata all’esecuzione della prestazione non si traduce in una duplicazione di posizioni creditorie86. In ogni caso, difettando la fattispecie del contratto di lavoro, la posizione d’interesse del fruitore della prestazione all’efficiente esecuzione del lavoro non è ‘armata’ (con l’esclusione della somministrazione87) del complesso di situazioni creditorie che accedono al rilievo che l’ordinamento attribuisce al momento organizzativo nel rapporto di lavoro, nel senso che i poteri direttivo, disciplinare, di controllo e lo ius variandi non possono essere esercitati nei confronti di persone che non sono propri dipendenti88 e la tutela dell’interesse organizzativo dell’utilizzatore viene dall’ordinamento mediata attraverso l’attribuzione di tali situazioni giuridiche soggettive attive al datore di lavoro formale, che però è tenuto ad eseguire diligentemente l’obbligazione – di risultato – dedotta nel contratto commerciale. Ove si consideri poi che sovente, nella filiera del decentramento, il datore di lavoro formale si trova in una posizione squilibrata, che spesso assume le forme della dipendenza economica nei confronti dell’utilizzatore (infra), l’interesse comune degli imprenditori all’esecuzione corretta della prestazione da parte dei lavoratori comporta una continua ingerenza del fruitore sulla organizzazione del lavoro del datore. Inoltre, in particolari tipologie contrattuali quali la

81 Marazza, 2012, 119 ss. 82 Carinci F., 2010.83 Liso (1979, 40) sottolinea la distinzione fra organizzazione di lavoro e quell’organizzazione «più ampia e complessa». Ancor prima Persiani (1966, 270 ss.) confrontava il potere organizzativo del datore di lavoro con la possibilità di conformare l’obbligazione (ma non la prestazione di lavoro) presente in altri contratti – quali l’appalto e il lavoro autonomo – ma per far risaltare in maniera netta l’evidente diversità dei due fenomeni. Da ultimo si vedano le considerazioni di Voza, 2015, § 3. 84 Su questi aspetti cfr. Marazza (2012, 1272 ss.) che parla di «poteri di organizzazione dell’attività». 85 Carabelli, 2012, 82. 86 Ma v. Carabelli, 2004, secondo il quale le modifiche organizzative si riflettono sull’obbligazione di lavoro con un’accentuazione della collaborazione a scapito della subordinazione. 87 Alla quale Marazza (2012, 69) passim, affianca la fattispecie del distacco. 88 Né, ovviamente, il solo art. 41 Cost. consente all’imprenditore di «incidere, unilateralmente e senza il previo consenso, sulla posizione giuridica altrui» (Marazza, 2012, 126), difettando appunto la fonte del contratto di lavoro inter partes.

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subfornitura, la concessione di vendita, il franchising e i cc.dd. “appalti a regia”89, il tipo negoziale prescelto dalle parti potrà attribuire al committente un sempre più intenso potere di ingerenza che, pur formalmente indirizzato alla controparte commerciale, di fatto si potrà tramutare nell’organizzazione dell’attività dei lavoratori. È il fenomeno della contrattazione diseguale fra imprese, ipotesi in cui tra soggetti imprenditoriali che operano sul mercato quali operatori in posizione di formale parità vengono a strutturarsi una serie di rapporti che, a dispetto dell’anodina forma della relazione negoziale, sono caratterizzati da legami di autorità-subordinazione istituiti dal contratto; reti caratterizzate da dominanza ‘relativa’, ove alcune imprese risultano “economicamente dipendenti” nei confronti di un’altra, in forza di un rapporto negoziale che consente all’impresa dominante di «estendere ad una relazione esterna la stessa gerarchia che caratterizza i suoi rapporti di produzione interni»90. Insomma, la scelta dell’impresa diversamente organizzata di optare per il mercato (opzione esterna, col contratto commerciale), in luogo della gerarchia (opzione interna, col contratto di lavoro) per l’utilizzo del lavoro altrui, sconta, sul piano giuridico, la diminuzione delle posizioni creditorie e organizzative del fruitore sui singoli prestatori, riequilibrata tuttavia da un’organizzazione di tipo verticale che, comunque, consente al committente di ristabilire con il legame contrattuale il rapporto di potere nei confronti del datore di lavoro formale. D’altro canto, poi, la circostanza che non vi sia un contratto a fondare (e quindi legittimare) quel potere di organizzare diversamente l’impresa — perché già predeterminato in astratto dall’ordinamento giuridico — consente prima facie di liberarsi da quel sistema di limiti all’esercizio del potere organizzativo del datore di lavoro che la normativa legale e contrattuale impone a protezione della persona che lavora. Sotto questo profilo l’assenza di limiti (sostanziali, formali, procedurali, interni, esterni, ecc.) di fronte alla scelta dell’impresa diversamente organizzata — opzione che pur incide sul versante delle tutele lavoristiche — è un dato acquisito, forse solo leggermente mitigato da alcune prerogative che l’autonomia collettiva è riuscita a conquistarsi nell’ambito della contrattazione (ma che non incidono sulla scelta organizzativa dell’impresa) e dai larghi margini costituti dai contro-limiti enucleabili dalla trama costituzionale (quali l’utilità sociale ed il rispetto della dignità umana che pur sempre sono finalizzati ad arginare operazioni economiche ai limiti del patologico) e dal saggio bilanciamento con altri principi (art. 4 Cost.) e norme (art. 2103 n.t. c.c.). Se si escludono, infatti, le manifestazioni patologiche del fenomeno in cui «l’esercizio del potere non autorizzato dal tipo contrattuale prescelto dalle parti può anche determinare la riqualificazione giuridica del rapporto di lavoro» (e «al di fuori dei casi in cui la dissociazione tra titolarità del rapporto ed esercizio del potere direttivo è consentita dalla legge»)91, in tutte le ipotesi in cui il potere di conformazione della prestazione che nasce con il contratto di lavoro viene concretamente esercitato dal fruitore, vanno individuati, nella fisiologia dei rapporti commerciali, gli strumenti con i quali i singoli lavoratori possono rappresentare i propri interessi. Quanto, invece, alla possibilità di soffermarsi sui contro-limiti al potere dell’imprenditore di organizzare diversamente — polverizzandola — l’azienda, il richiamo al costituzionalizzato diritto al lavoro e alla disposizione in materia di mobilità endoaziendale come modificata dall’art. 3, d.lgs. n. 81/201592, si badi, può servire solo nel momento genetico della scelta organizzativa senza incidere sul momento funzionale

89 V. Marazza, 2012, 115 ss. 90 In termini, Lo Faro, 2008. 91Marazza, 2009, 1282 ss. In giurisprudenza, da ultimo, sull’utilizzazione indiretta di lavoro con appalti sprovvisti dell’essenziale elemento della organizzazione dell’appaltatore, con conseguente riconduzione del rapporto in capo al committente, v. Cass., sez. lav., 7 febbraio 2017, n. 3178, inedita.92 Garilli, 2016; Brollo, 2016a.

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dell’integrazione contrattuale di tipo commerciale venutasi a generare93 e solo nelle ipotesi in cui la scelta imprenditoriale determini nei confronti dei lavoratori la conseguenza di modificare il datore di lavoro formale. Se si escludono, cioè, i casi nei quali l’utilizzo di forza lavoro viene a monte pianificata senza alcuna assunzione in capo al vero fruitore della prestazione (es.: subfornitura o franchising, dove i dipendenti delle imprese “affiliate” non hanno alcun rapporto giuridico col committente), in tutte le altre fattispecie nelle quali l’imprenditore primo datore di lavoro decide di liberarsi di personale destrutturando l’organizzazione produttiva (es.: insourcing, classico caso in cui si verifica un “cambio di casacca”), si pongono due interrogativi: il primo, relativo al diritto alla stabilità dell’occupazione dei dipendenti, protetto dal principio costituzionale richiamato, che sollecita un necessario bilanciamento con l’art. 41 Cost.94; il secondo concerne la dilatazione della flessibilità interna all’organizzazione riconosciuta dopo il Jobs Act, che, ampliando i poteri di gestione nell’azienda, attribuisce al datore una nuova alternativa al decentramento (v. infra par. 7)95. L’intervento della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza del 7 dicembre 2016, n. 2520196, statuisce che il fondamento giuridico del giustificato motivo oggettivo (da ora g.m.o. per brevità) si può rintracciare nell’autonoma e libera scelta organizzativa dell’impresa di strutturarsi in maniera differente dal momento antecedente al licenziamento, anche nella prospettiva di un aumento del profitto e di riduzione dei costi, e quindi che l’art. 3, l. n. 604/1966 consente opzioni di riorganizzazione del lavoro e di ristrutturazione dell’azienda comportanti recessi97; tale pronuncia, confermando l’insindacabilità delle scelte imprenditoriali di esternalizzare segmenti del ciclo produttivo98, si segnala per l’aggancio di tale scelta, oltre che ai noti principi costituzionali, anche all’art. 3, l. n. 604/1966, e dunque non più solo ad un principio ordinamentale esterno al rapporto di lavoro e riferito alla libertà d’iniziativa economica privata, ma anche ad una norma che regola in maniera diretta il singolo contratto di lavoro subordinato99. Definito «liberista»100, quest’approdo della Sezione Lavoro consente anche di completare la parabola che ha portato al progressivo avvicinamento (sia sul piano della fattispecie sia su quello della disciplina) del g.m.o. al licenziamento collettivo per riduzione del personale: se fino a ieri nessuno dubitava della legittimità di una procedura di espulsione delle eccedenze definitive di personale motivata, a monte, dalla scelta dell’impresa di appaltare, delocalizzare, ecc., oggi nessuno può più dubitare che se l’assunzione della medesima decisione comporta, a valle, dei licenziamenti individuali per g.m.o., quest’ultimo sussiste e giustifica la condotta datoriale101. Insomma, mantenendo l’impostazione del discorso sui licenziamenti economici ancorato alla duplice fase, la prima relativa alla decisione aziendale (oggi ancor più rafforzata e garantita, dopo la decisione del Supremo Collegio) e la seconda funzionale all’individuazione dei singoli dipendenti da estromettere, «l’unico vero limite al

93 E, dunque, poco o nulla serve nel discorso sui possibili poteri che il fruitore può esercitare sui dipendenti del datore di lavoro formale. 94 Già Liso, 1979, 65. 95 Ancora, Liso, 2015. 96 Per un primo commento v. Maresca, 2017; Speziale, 2017a; Caruso, 2017; diversa è la posizione di Persiani (2017, 134), che valuta positivamente l’intervento della Corte di Cassazione riconoscendole di aver «correttamente verificato i risultati del ragionamento problematico confrontandoli con l’autorità del punto di vista giuridico». Tale principio è stato ribadito da Cass. 19 aprile 2017, n. 9869. Sul tema v. Balletti, 2017. 97 Espressamente Speziale, 2017a, 29. 98 Atteso che la pronuncia, di fatto, inibisce qualsiasi valutazione a monte delle ragioni economiche ed organizzative del recesso (Speziale, 2017a, 20). 99 Caruso, 2017, 1 ss. 100 Speziale, 2017a, 4. 101 Si cfr. già Cass. nn. 662/1998; 13021/2003; 18416/2013.

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licenziamento economico»102 resta la regola del repechâge e, in relazione al licenziamento collettivo, il rispetto dei criteri di scelta, ma nella consapevolezza che – sul piano rimediale – tanto nei confronti del primo quanto nei confronti del secondo limite, dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti103, sono ridotte al lumicino le ipotesi in cui il giudice potrà annullare la decisione imprenditoriale, imponendo la reintegrazione, che è previsto nei casi di discriminazione e in quelli comportanti nullità radicale dell’atto di recesso. 7. Flessibilità versus decentramento: alternativa o concorso? La riforma del diritto del lavoro del 2003 (c.d. riforma Biagi) ha dato sostegno alle «pratiche di disintegrazione verticale, decentramento produttivo, esternalizzazione, outsourcing, ecc.»104. Allargando lo spettro temporale di riferimento all’ultimo quindicennio e tenendo conto anche della elaborazione giurisprudenziale, ci si chiede se sia del tutto condivisibile tale affermazione. L’abrogazione della l. n. 1369/1960 ad opera del d.lgs. n. 276/2003 e la contestuale adozione di una disciplina, invero abbastanza scarna, dei principali strumenti attraverso i quali si realizza il decentramento, e cioè l’appalto, il distacco e i gruppi di impresa (artt. 29, 30 e 31), sembrerebbero avvalorare l’opinione prima richiamata. Di seguito il legislatore ha normato il fenomeno del contratto di rete (d.l. n. 5/2009, cit.), avendo disciplinato quello di subfornitura già nel 1998 (l. n. 192/1998) e la direzione ed il coordinamento delle società nel 2003 (art. 5, d.lgs. n. 6/2003, come modificato dall’art. 5, d.lgs. n. 37/2004); interventi che hanno giuridificato modelli di organizzazione produttiva già esistenti nella realtà economica. Di tanto ha preso atto il legislatore lavoristico implementando il nucleo di disciplina introdotto nel 2003, tendenzialmente in funzione protettiva del lavoratore, con l’estensione della responsabilità solidale in relazione: a) alla tipologia di appalto; b) al periodo di operatività della stessa; c) ai soggetti nei cui confronti essa opera, con le uniche due eccezioni, in materia di appalto, della derogabilità alla responsabilità solidale ad opera della contrattazione collettiva e del beneficio accordato all’appaltante della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore, deroghe, guarda caso, entrambe investite dall’iniziativa referendaria, evitata con l’abrogazione delle norme “incriminate” (d.l. n. 25/2017 conv. in l. n. 49/2017). Quindi, un intervento legislativo in materia di decentramento tutto sommato molto contenuto, a fronte di quello ben più massiccio sul versante della flessibilità intra moenia, che ha investito l’intera disciplina del rapporto di lavoro, dapprima puntando alla pluralizzazione dei sottotipi (d.lgs. n. 276/2003) e alla liberalizzazione dell’utilizzo degli stessi (l. n. 92/2012), incentrati sulla durata del rapporto e della prestazione onde sfuggire alle rigidità della disciplina del rapporto di lavoro standard; successivamente, privilegiando il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, flessibilizzato nella misura massima consentita (sono stati modificati gli artt. 4, 13 e 18, Stat. lav.), e alleggerito dalla concorrenza delle fattispecie di lavoro non subordinato, con l’eliminazione dell’associazione in partecipazione e l’applicazione alle collaborazioni etero-organizzate dal committente della disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Come si vede, confrontando l’intervento legislativo in tema di decentramento con quello in tema di flessibilità, si ha la netta percezione di un’azione a due velocità o se si preferisce a diversa intensità, il che induce a interrogarsi sul perché di tale scelta legislativa.

102 Speziale, 2017a, 1; v. anche Brollo, 2016b, 244-247. 103 Scarano, 2015. 104 Ex plurimis Voza, 2004, 190.

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Prima di dare una risposta non appare fuori luogo un richiamo della vicenda FIAT, consumatasi a cavallo tra il 2009 e il 2011, caratterizzata dalla scelta aziendale di depotenziare la minacciata delocalizzazione, in cambio di un recupero di efficienza e produttività, intervenendo in via di contrattazione collettiva sull’organizzazione del lavoro e sull’assenteismo105. Una spiegazione possibile potrebbe essere ricercata nella volontà di incentivare, e in ogni caso assecondare, una riverticalizzazione dell’impresa, ovvero il recupero dell’autorità a scapito del mercato, attraverso una flessibilità organizzativa interamente ricondotta all’interno dell’impresa. Gli indici della disponibilità del legislatore ad assecondare le istanze imprenditoriali di flessibilità organizzativa intra moenia sono disseminati nel Jobs Act e in special modo nei decreti legislativi nn. 23, 81 (spec. art. 3) e 151 (spec. art. 23) del 2015106. A tali indici normativi si potrebbe aggiungere anche la diversa configurazione del giustificato motivo oggettivo proposta nella recente sentenza della Cass. n. 25201/2016 (v. supra § 6). Tale enunciazione, innegabilmente recessiva a livello di tutela del lavoratore, appare in perfetta sintonia con il Jobs Act, potendosi ipotizzare una spinta alla reinternalizzazione nell’assecondare e non ostacolare le scelte organizzative dell’impresa. Ancora, in sintonia con tale impostazione appare anche la riformata disciplina in tema di eccedenze temporanee di personale. Infatti, nel riformulare la normativa sulla CIGS, ribadita la causale della crisi ed elevata ad autonoma causale la solidarietà, sono scomparse le due causali della ristrutturazione e della conversione aziendale, sopravvivendo solo quella della riorganizzazione. Prima facie, tale scelta legislativa ha suscitato qualche perplessità, ponendo agli interpreti interrogativi sul motivo della messa fuori gioco dall’ambito di intervento della CIGS delle scelte aziendali tese alla ristrutturazione dell’apparato produttivo o alla sua riconversione. La scelta, viceversa, appare perfettamente coerente con l’impostazione complessiva del Jobs Act, che è quella di supportare, anche nei momenti di crisi, i sistemi produttivi organizzati intra moenia; del resto, un supporto al reddito a fronte di una riorganizzazione realizzata attraverso l’esternalizzazione non avrebbe senso. In ogni caso, tra i criteri adottati per l’approvazione dei programmi di intervento CIGS per riorganizzazione aziendale (d.m. n. 94033/2016) campeggia l’ipotesi «della ricomposizione dell’assetto dell’impresa e della sua articolazione produttiva», nonché gli «investimenti per impianti fissi ed attrezzature direttamente impegnate nel processo produttivo», oltre che «l’attività di formazione e riqualificazione professionale rivolta al recupero e alla valorizzazione delle risorse interne». Stona con tale impostazione il solo criterio del recupero occupazionale dei lavoratori sospesi nella misura minima del 70%, per la cui realizzazione al rientro in azienda e al riassorbimento in altre unità produttive della medesima impresa, il legislatore ha affiancato il «riassorbimento (…) all’interno (…) di altre imprese». Nel silenzio del decreto ministeriale quest’ultima ipotesi potrebbe riguardare fenomeni di

105 Nell’accordo FIAT 15 giugno 2010 rilevano i punti 5 e 8; il punto 5 sulle pause prevede una riduzione delle pause con monetizzazione dei minuti di decremento da corrispondere solo per le ore di effettiva prestazione lavorativa con esclusione delle assenze la cui copertura retributiva è per legge e/o contratto parificata alla prestazione. Il successivo punto 8 disciplina è specificatamente destinato al contrasto dell’assenteismo, prevedendosi la non copertura retributiva a carico dell’azienda (ma resta quella a carico dell’INPS) delle assenze per malattie ricadenti in periodi di astensioni collettive, manifestazioni esterne, messa in libertà. Inoltre, per le assenze connesse allo svolgimento delle tornate elettorali, con esclusione di chi svolge funzione di presidente, segretario e scrutatore di seggio con regolare nomina, certificata, si prevede la chiusura dello stabilimento con l’utilizzo degli istituti retributivi collettivi (PAR/ferie) e con recuperi produttivi senza oneri a carico dell’azienda; infine, è prevista la gestione “equilibrata” dei permessi retribuiti nell’arco della settimana lavorativa. Sul punto v. Balletti, 2011. 106Ricci M., 2016.

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decentramento, salvo a non leggere nella previsione una riedizione della mobilità ex l. n. 675/1977. Ulteriore conferma della scelta di politica legislativa effettuata dal Jobs Act promana dall’emananda disciplina del “lavoro agile”107, nel quale l’opzione di riportare il lavoro all’interno dell’organizzazione aziendale emerge in maniera direi quasi prepotente. Si registra la compresenza, in tale disciplina, dello scopo dell’incremento della competitività unitamente ad una organizzazione del lavoro per “obiettivi”; detto in termini più espliciti, la diversa organizzazione del lavoro prevista attraverso lo smart working punta allo stesso proposito sottostante ai fenomeni di esternalizzazione, ponendosi in concorrenza con essi. In sintesi, l’ipotesi sostenibile è che l’iniezione da parte del Jobs Act di massicce dosi di flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro (in entrata, in corso e in uscita), possa costituire un antidoto al decentramento, ovvero, detto in altre parole, che è proponibile una nuova e diversa declinazione della flexicurity, coniugando flessibilità e monodatorialità. Certo, non può affatto escludersi il rischio che la flessibilità gestionale, ancorché agevolare una ricentralizzazione dell’impresa, riportando il lavoro “all’interno delle mura”, si riversi proprio nel lavoro esternalizzato, abbassando ulteriormente i livelli di tutela dei lavoratori non solo esternalizzati, ma ancor più flessibilizzati. Il recente passato è segnato, purtroppo, da interventi legislativi caratterizzati da una eterogenesi dei fini: si può citare il contratto a termine acausale, pensato per le grandi realtà (Poste italiane) ma poi utilizzato dal monodipendente; o ancora il lavoro accessorio, ideato (come occasionale) per remunerare il giardiniere dei condomini ma poi adoperato dalle Pubbliche Amministrazioni. Tale constatazione empirica ci porta a contatto con quella che si ritiene essere una sorta di “palla al piede” del diritto del lavoro, e cioè l’uniformità regolativa riguardata non dall’angolo di visuale del lavoratore, bensì da quello del datore di lavoro. Se ci si colloca in questa prospettiva le poche differenziazioni regolative esistenti nel nostro ordinamento sono riconducibili alla consistenza dell’organico aziendale, peraltro mai normata in relazione al momento fisiologico della vita dell’impresa. Non da ora, si è evidenziata l’insufficienza di tale criterio, richiamandosi la nozione comunitaria che distingue la PMI rispetto alla grande impresa con il riferimento anche al volume di affari o al fatturato. Inoltre, la dimensione dell’organico aziendale, se si eccettua il collocamento dei disabili, riguarda essenzialmente l’intervento CIG e la disciplina del licenziamento; viceversa, nessun limite è dato rinvenire in quella della flessibilità gestionale (sottotipi) ed organizzativa, che quindi possono concorrere. Si è in presenza, dunque, di una totale omologazione che ha finito con l’incidere anche sulle scelte dell’impresa. A incentivare l’omologazione delle stesse ha concorso peraltro anche il legislatore, che, sia pure per il “nobile” fine di favorire l’occupazione dei soggetti svantaggiati, ha incoraggiato nei fatti la flessibilità organizzativa, accordando determinati benefici a chi ha optato per la somministrazione, in luogo dell’assunzione diretta108, per di più con il vantaggio di non dover sottostare ai limiti e alle condizioni previsti in materia. È evidente che alla omologazione regolamentare ha corrisposto quella delle scelte organizzative, specie a livello di piccole imprese. Probabilmente è arrivata l’ora di liberarsi (anche) di questo condizionamento e prevedere una diversificazione in base al modello organizzativo prescelto per l’accesso ai benefici assunzionali e per gli investimenti. A livello UE una differenziazione è già

107 V. il d.d.l. n. S-2233-B, approvato dal Senato della Repubblica il 3 novembre 2016. 108 Si allude al riconoscimento dei benefici assunzionali in favore dell’utilizzatore a cui oggi si aggiunge anche la computabilità nella quota d’obbligo dell’utilizzatore dei disabili somministrati ove la missione duri più di 12 mesi; sul punto v. interpello Min. lav. 30 dicembre 2016, n. 23, in tema Filì, 2015.

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prevista utilizzandosi il criterio della occupazione sufficientemente stabile109; a tale criterio si potrebbe aggiungere quello del modello organizzativo prescelto. L’ipotesi è quella di mettere in alternativa tra di loro la flessibilità organizzativa, non governabile dal legislatore se non nella misura limitata già in essere, e quella gestionale, questa sì nella disponibilità del legislatore. Un esempio di dualismo regolamentare è la disciplina del licenziamento per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 (d.lgs. n. 23/2015). Se scelte di questo tipo fossero accusate di attentare ai cardini della libertà di iniziativa economica privata e della libera concorrenza, si potrebbe replicare che le scelte dell’imprenditore restano libere ed insindacabili, in quanto condizionato attraverso la diversificazione regolamentare sarebbe l’accesso ai benefici accordati dal legislatore. Del resto, un esempio lampante di diversificazione è rinvenibile nella aziendalizzazione della regolamentazione autonoma110. PARTE SECONDA – I MODELLI DI TUTELA 8. Ricondurre la riflessione sul lavoratore: i modelli di tutela Dall’analisi delle varie manifestazioni del fenomeno è dato constatare come l’ampia riflessione sul tema si sia per così dire biforcata. Da un lato, l’attenzione si è focalizzata sulle forme di decentramento consolidate (potremmo dire tradizionali) che non mettono in discussione l’unitarietà del centro di imputazione (appalti, subappalti, trasferimento di ramo di azienda con coevo appalto, subfornitura, trasporto, distacco e somministrazione)111; dall’altro lato, una riflessione parallela si è sviluppata su forme di decentramento affidate a relazioni tra imprese (collegamenti societari o tra imprese, cioè gruppi di imprese e reti di imprese) delle quali il legislatore si è occupato, ma non a livello giuslavoristico con un evidente vuoto di disciplina. Tale ampia e feconda riflessione ha messo a nudo un sistema per nulla coerente e razionale112 al quale solo in parte può sopperire il criterio funzionalistico della individuazione del datore di lavoro con quanto ne consegue in termini di imputazione del rapporto di lavoro, incentrata sull’effettiva utilizzazione del lavoro altrui. Peraltro tale criterio, secondo Treu, riflette le incertezze del concetto di subordinazione, definita in base a criteri diversi, quali l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione (etero-organizzazione) in abbinamento o in alternativa all’assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro (eterodirezione), o, ancora, la sopportazione del rischio economico o la titolarità dell’interesse soddisfatto dalla prestazione. Ciò conferma la difficoltà di individuare un assetto regolativo unificato in questa materia e l’utilità di affidarsi piuttosto a un insieme di tecniche articolate che «valorizzino anche gli strumenti di autoregolazione contrattuale, quelli intercorrenti tra le singole imprese e quelli collettivi»113. A supporto di tale impostazione si possono richiamare per un verso i recenti interventi della giurisprudenza sui gruppi di imprese e sulla operatività del regime di solidarietà

109 Si fa riferimento ai regolamenti UE in tema di incentivi all’occupazione, ultimo dei quali è il reg. n. 651/2014. 110 Barbera, 2014. 111 Sul trasferimento d’azienda come forma giuridica di esternalizzazione, v. Perulli, 2003a; Idem, 2007, 35 ss., con ricchi spunti comparati. 112 Barbera, 2010, 228. 113 Treu, 2012, 14.

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nella subfornitura114; per altro verso, l’intervento legislativo del 2013 (d.l. n. 76/2013, conv. in l. n. 99/2013) in tema di codatorialità nelle reti di impresa (art. 30, co. 4-ter, d.lgs. n. 276/2003)115 o di assunzione congiunta in agricoltura o da imprese in rete (art. 31, co. 3-bis e 3-ter, d.lgs. n. 276/2003). Un siffatto intervento del legislatore, diversificato per istituti, denota un atteggiamento dello stesso che evita di imporre alle imprese tutele protettive classiche, ma al contempo non accetta supinamente le nuove realtà organizzative e tenta di contemperare le contrapposte esigenze, sovrapponendo alla titolarità formale del contratto di lavoro l’effettivo utilizzo delle prestazioni di lavoro: a ben vedere in alcuni casi l’utilizzo sostituisce la titolarità, in altri si affianca ad essa, mettendo in discussione uno dei cardini della tradizione lavoristica che è quella della unicità del datore di lavoro116. Le tecniche di imputazione del rapporto adottate dal legislatore sono pertanto estremamente variegate; una prima ipotesi è quella della distribuzione di poteri e obblighi tra più soggetti (è quanto accade nella somministrazione e nel distacco); una seconda ipotesi attinge alla tecnica della responsabilità solidale (appalto, a volte combinato con la cessione del ramo di azienda, nonché trasporto e figure contermini)117; infine, si prevede la coimputazione del rapporto (nella codatorialità tra aziende in rete e nell’assunzione congiunta da parte di imprese agricole in gruppo o in rete con imprese non agricole). Quest’ultimo intervento legislativo è stato letto in modo antitetico, essendovi chi lo richiama a supporto della tesi della codatorialità e chi, al contrario, proprio in ragione dello stesso, esclude che tale tesi possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento fuori dalle ipotesi espressamente previste. Il nodo da sciogliere, a mio parere, non è tanto quello della fondatezza di tale tesi, pur ben argomentata dai suoi sostenitori, quanto quello dell’area da essa coperta; per essere più chiari, bisogna stabilire che rapporto esista tra la tecnica di tutela strutturata in relazione alle varie manifestazioni del fenomeno della frammentazione organizzativa e la codatorialità, potendosi ipotizzare un rapporto concorrente, alternativo o meramente residuale. La vasta letteratura formatasi sul tema, riguardata nella sua globalità, dà la netta sensazione dei “separati in casa”: da un lato, si collocano quelli che si occupano delle tecniche di tutela invocabili nelle ipotesi di esternalizzazione; dall’altro lato, i “codatorialisti” che si concentrano sul lavoro prestato nelle organizzazioni di lavoro complesse, con l’effetto di complicare, anziché semplificare la soluzione di un problema che è già complesso. Di seguito si intende verificare se esistono tecniche di tutela a valenza generale utilizzabili indifferentemente in relazione ad entrambi i fenomeni, riservando alla codatorialità un ruolo residuale (ma non marginale) o se si preferisce di rincalzo alle tecniche di tutela generali; sostanzialmente, si rifugge, come già detto, dall’angoscioso dilemma “codatorialità sì / codatorialità no”, optandosi per “codatorialità anche”. L’analisi dei modelli di tutela viene articolata in tre parti, dapprima esaminandosi quelli più consolidati, con un andamento ad intensità crescente, e poi quelli proposti, utilizzandosi come ponte tra i primi e i secondi proprio la codatorialità. SEZIONE I - I CARDINI DEL SISTEMA DI TUTELA.

114 V. App. Venezia (ord.) 13 luglio 2016, che ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003, nella parte in cui non estende il regime di solidarietà anche al contratto di subfornitura per contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost. e 31 CDFUE. 115 Razzolini, 2015. 116 Treu, 2012, 11. 117 Quadri, 2004, 295 ss.

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9. La perdurante vigenza del divieto di interposizione Le coordinate ordinamentali all’interno delle quali la frammentazione organizzativa è stata realizzata sono state tradizionalmente segnate dalla l. n. 1369/1960, attraverso la regolazione – rectius individuazione dei presupposti di ammissibilità – degli schemi interpositori consentiti e la repressione di quelli che si ponevano al di fuori di questa area di legittimità. Il venir meno, con l’espressa abrogazione stabilita dal d.lgs. n. 276/2003, di questa normativa – che ha rappresentato in un certo arco temporale la “codificazione” del divieto di rapporti interpositori – è tuttavia qualcosa di diverso dal venir meno del divieto di rapporti interpositori ex se. Il nuovo ordine normativo ha mutuato, infatti, dalla l. n. 1369/1960 la stessa tecnica regolatoria basata sulla diade “disciplina dell’interposizione ammessa/repressione dell’interposizione diversa da quella ammessa”; ciò rappresenta pertanto una diversa codificazione del divieto di rapporti interpositori, ma nulla di più. La progressiva dilatazione dell’area di legittimità dei modelli interpositori che si è registrata nell’evoluzione legislativa degli ultimi anni – sino allo sganciamento da requisiti causali della somministrazione che ne rappresenta la forma più estrema – è comunque sottoposta a precise condizioni, che ne segnano al contempo la liceità. È questa la ragione che ha portato la massima parte dei commentatori a ritenere che l’abrogazione della l. n. 1369/1960 non abbia travolto il divieto di interposizione118. I “modi” attraverso cui questa tesi è stata espressa sono stati differenti ed estremamente raffinati – si è detto che la «macrogeografia delle esternalizzazioni» non è mutata, sebbene ci siano stati cambiamenti a livello micro119; ancora, si è affermato che il d.lgs. n. 276/2003 ha compiuto un’operazione «inversa e allo stesso tempo speculare» rispetto a quella della l. n. 1369/1960, configurando la somministrazione quale “fattispecie assorbente” di tutte le pattuizioni che consentono di utilizzare lavoro subordinato attraverso un soggetto interposto e, quindi, «catalizzatore idoneo a verificare la legittimità e/o a sanzionare tutte le pattuizioni atipiche aventi ad oggetto la mera fornitura di lavoro subordinato altrui»120; – ma ognuno di essi prende atto di un dato semplice ed innegabile: il d.lgs. n. 276/2003 prima e il d.lgs. n. 81/2015 dopo ampliano l’area di ricorso alla flessibilità organizzativa, ma, allo stesso tempo, pongono una delimitazione a quest’area e sanzionano tutte le fattispecie che si collocano all’esterno della stessa. La sanzione – non inaspettatamente – è nella sostanza quella “antiquata” stabilita dalla altrettanto “antiquata” l. n. 1369/1960: l’imputazione del rapporto al soggetto che ha utilizzato la prestazione121; ma è più che questo. Il divieto di interposizione ha la sua matrice nello stesso contratto di lavoro subordinato: «la grammatica concettuale spesa per l’individuazione dei tratti del lavorare “in modo subordinato”» è la stessa di quella utilizzata per ricostruire le fattispecie interpositorie122.

118 Si vedano, oltre agli Autori citati di seguito nell’analisi dei vari profili di questa tematica, Bonardi, 2004; Del Punta, 2004; Ichino, 2004a; Quadri, 2004, 274; Speziale, 2004a, Magnani, 2005b. Minoritaria è invece la tesi secondo cui il divieto di interposizione è stato, a seguito del d.lgs. n. 276/2003, definitivamente espunto dall’ordinamento, cfr. Romei, 2005; Miscione, 2004; Tiraboschi, 2003 e, sia pure in posizione estremamente critica, Chieco, 2004. 119 Carinci M.T., 2004, 4 ss. 120 Zappalà, 2004, 293-294. 121 Su questi profili vedi gli Autori citati a nota 127. 122 È questa l’incisiva immagine di Mazzotta, 2006, 159-163, che osserva come il “disvalore dell’ordinamento” verso la scissione tra utilizzazione del lavoro e titolarità del rapporto vada oltre la regolazione data della materia dell’interposizione in un determinato (e mutevole) assetto regolativo, ed «è insito nella invenzione stessa del concetto di subordinazione». Il tipo contrattuale dell’art. 2094 c.c. – già “prima e oltre” l’introduzione del divieto di interposizione di cui alla l. n. 1369/1960 – «dà concreto sviluppo alla mediazione, operata a livello costituzionale, fra la regola mercantilista che considera

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L’art. 2094 c.c. stabilisce il principio secondo cui «chi presta attività di lavoro in condizioni date […] è lavoratore dipendente proprio di quell’impresa, quale che sia lo schema giuridico apparentemente utilizzato»123, stabilendo un nesso tra effettiva utilizzazione della prestazione e schema del lavoro subordinato, lo stesso che è (inevitabilmente) posto alla base dell’indagine giurisprudenziale sulle fattispecie interpositorie124. Il graduale ampliamento legislativo della legittimità di tali fattispecie determina una speculare riduzione dell’area del divieto di interposizione, ma non ne determina l’eliminazione e, pertanto, esemplificando in questa sede profili che saranno partitamente analizzati successivamente, non si ha più una preclusione assoluta «di affidare in appalto o subappalto o in qualsiasi altra forma anche a società cooperative l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l’impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore» [art. 11, lett. a), l. n. 1369/1960], ma è ammesso il contratto con il quale un soggetto «mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore» (art. 31, d.lgs. n. 81/2015); tuttavia questo contratto deve essere stipulato con un’agenzia di somministrazione autorizzata ai sensi del d.lgs. n. 276/2003 (che prevede al Capo I del Titolo III una dettagliatissima regolazione in materia di regime autorizzatorio e accreditamenti), oltre ad essere sottoposto a una serie di limiti formali e sostanziali enucleati ora agli artt. 31 ss., d.lgs. n. 81/2015. La violazione di tali “precondizioni” di ammissibilità determina l’instaurazione di un rapporto diretto tra lavoratore e utilizzatore (art. 38, d.lgs. n. 81/2015)125. Stesso discorso vale per gli appalti, consentiti dall’art. 29, co. 1, d.lgs. n. 276/2003, in una gamma di ipotesi sicuramente maggiore rispetto al passato, comunque delimitata dalla legge, al di fuori della quale scatta la sanzione dell’imputazione del rapporto di lavoro subordinato al «soggetto che ne ha utilizzato la prestazione» (così il co. 3-bis

indifferente la forma acquisitiva del lavoro e la dimensione protettiva di stampo solidaristico, che collega al rapporto di lavoro subordinato e tendenzialmente solo ad esso una serie di tutele/posizioni di vantaggio (art. 41 Cost.)». 123 Mazzotta, 2006, 159. Valorizza la centralità dello schema codicistico, all’interno di una più generale riflessione sui mutati scenari, Barbera, 2010, 235 ss.: «la “dematerializzazione” dello spazio interno dell’impresa sembra aver prodotto fra i suoi effetti una “ripersonalizzazione” del rapporto, vale a dire una riconsiderazione del datore di lavoro come parte di un contratto, con una contemporanea rivitalizzazione delle tecniche civilistiche di controllo della relazione contrattuale. Un processo che si potrebbe descrivere come un ritorno dal nesso materiale al nesso contrattuale». 124 Non è un caso che la giurisprudenza assolutamente dominante ritenga vigente il divieto di interposizione anche a seguito dell’espressa abrogazione della l. n. 1369/1960: si vedano, ex multis, Cass. S.U. 26 ottobre 2006, n. 22910; Cass. 12 ottobre 2006, n. 21818. L’immediata riconducibilità del divieto di interposizione alla fattispecie codicistica è recisamente affermata da Cass. 4 novembre 2011, n. 22894: «già soltanto ex art. 2094 c.c. non è consentito separare la titolarità ex parte datoris del rapporto di lavoro dal soggetto che in concreto ha utilizzato e diretto la prestazione del lavoratore». Ancora in questo, senso costante giurisprudenza penale (Cass. pen., Sez. III, 20 aprile 2006, n. 20758; Cass. pen. 18 aprile 2007, n. 21789; Cass. pen. 30 novembre 2005, n. 4454; Cass. pen., Sez. III, 25 novembre 2004; Cass. pen., Sez. III, 6 aprile 2005; Cass. pen., Sez. III, 28 gennaio 2005). 125 Analogamente Del Punta, 2008, 131 ss.: «la permanenza di un divieto generale, e sia pure non assoluto, di interposizione, che si presenta qui come matrice categoriale di un divieto di somministrazione, scaturisce, altresì, da un preciso vincolo di sistema. In un contesto nel quale la somministrazione di manodopera è considerata lecita soltanto in quanto svolta professionalmente e debitamente autorizzata da un organismo pubblico, non si può ammettere che essa venga esercitata surrettiziamente, celandosi dietro le forme di un contratto di appalto». Il principio del divieto di intermediazione di manodopera rappresenta pertanto ancora oggi un «elemento centrale del sistema» (Speziale, 2010, 30), «una forma ordinaria di organizzazione dell’impresa» (Carinci M.T., 2000, 19).

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della norma)126. La medesima reazione è collegata dall’ordinamento alla violazione delle condizioni di cui all’art. 30, co. 1, per il distacco, secondo la logica binaria che è stata evidenziata in apertura. L’identico esito di queste sanzioni – al di là del loro differente meccanismo di operatività (nullità del contratto ovvero ricorso giudiziale volto a chiedere la costituzione del rapporto di lavoro)127 – conferma la permanente «forza di attrazione che sui processi di disgregazione dell’impresa ha ancora il tipo contrattuale del lavoro subordinato»128, scilicet il fondamento nel paradigma dell’art. 2094 c.c. di un generale principio di divieto di interposizione. Il principio in esame, per altro verso, ha conservato intatto il suo rilievo sul piano penale anche a seguito del d.lgs. n. 276/2003129, e nell’art. 603-bis c.p.130 sullo sfruttamento di manodopera131. La legislazione della “flessibilità organizzativa” va letta dunque come actio finium regundorum dell’area del divieto, non come soppressione di questo. Uguali considerazioni possono essere svolte per i più complessi fenomeni dei gruppi di impresa e dei contratti di rete di cui al d.l. n. 5/2009, conv. in l. n. 33/2009132, riportati dai più recenti orientamenti giurisprudenziali all’interno dello schema codicistico

126 Per tutti De Luca Tamajo, 2002, 46 ss., che individua l’area di liceità dell’appalto in relazione al solo profilo “giuslavoristico” dell’esercizio dei poteri direttivi e gerarchici dell’appaltatore, evidenziando l’inidoneità del profilo “commercialistico” ad evitare la «discrasia sistematica» dell’imputazione del rapporto in deroga all’art. 2094 c.c. Non va peraltro dimenticato – come osserva Speziale, 2010, 30 – il riferimento all’“interposizione illecita” contenuto nello stesso d.lgs. n. 276/2003, all’art. 84, co. 2, nella prevista elaborazione di «codici di buone pratiche e indici presuntivi in materia di interposizione illecita e appalto genuino, che tengano conto della rigorosa verifica della reale organizzazione dei mezzi e della assunzione effettiva del rischio tipico di impresa da parte dell’appaltatore». 127 Sottolineano l’uniformità sostanziale dell’apparato sanzionatorio del d.lgs. n. 276/2003 rispetto a quello del precedente assetto normativo, inferendone la permanenza del generale divieto di interposizione, Scarpelli, 2004; Speziale, 2010, 30 ss.; Zilio Grandi, Sferrazza, 2012. Una differente lettura in Maresca, 2007, secondo il quale la frammentazione dei vari apparati sanzionatori collegati alle diverse forme di decentramento produttivo illegittime esclude la permanenza nell’ordinamento di un divieto generale di interposizione nelle prestazioni di lavoro; e in Romei, 2005, 735, che ritiene che l’apparato sanzionatorio abbia nel d.lgs. n. 276/2003 una funzione diversa da quella del previgente regime: «non più il mezzo per far reagire sul piano giuridico una situazione di fatto che già presentava i caratteri del rapporto di lavoro, […] ovvero un apparato puramente repressivo a presidio di un divieto occhiutamente vigilato dal legislatore; ma la semplice previsione dei presupposti di legittimità dell’istituto; una semplice reazione dell’ordinamento all’utilizzo di istituti al di fuori dei presupposti di legge». 128 Mazzotta, 2006, 163. Ritiene invece che «nella nuova disciplina del decentramento produttivo, il principio della necessaria coincidenza tra titolarità formale e titolarità sostanziale del rapporto di lavoro sembra svaporare, a favore di un principio che afferma la distribuzione delle responsabilità tra i diversi attori dell’operazione di decentramento» Corazza, 2009, 18. 129 Per una disamina delle più significative pronunce sul tema (Cass. pen. 20 aprile 2006, n. 20758; Cass. pen. 6 aprile 2005, n. 17851; Cass. pen. 25 novembre 2004, n. 861) si rinvia a Zilio Grandi, Sferrazza, 2012, 129 ss. 130 In argomento v. Miscione, 2017 e Silva, 2016, 474 ss. 131 Sul tema del contrasto al lavoro irregolare v. la ricerca curata da Gottardi, 2016. 132 Sugli ultimi arresti giurisprudenziali in subiecta materia (Cass. 21 aprile 2016, n. 8068, Cass. 25 febbraio 2016, n. 9682 e Cass. 12 aprile 2016, n. 7121) vedi Carinci M.T., 2016, 733 ss., che sottolinea la valenza di «presidio, esterno ed aggiuntivo, del principio di inderogabilità delle norme giuslavoristiche» della tradizionale regola che individua in via generale il datore di lavoro nel datore di lavoro “sostanziale”. Una differente lettura del fenomeno dei gruppi societari, che esclude la possibilità di criteri di imputazione del rapporto di lavoro fondati sul concetto di datore di lavoro effettivo, in Romei, 2016, 519 ss.

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attraverso l’ascrizione della «titolarità del rapporto al soggetto-datore che utilizzi effettivamente le prestazioni dei dipendenti dell’appaltatore»133. 10. La responsabilità solidale

10.1. Responsabilità solidale versus codatorialità La tecnica di tutela più diffusa nelle ipotesi fisiologiche di frammentazione dell’organizzazione produttiva è senza dubbio quella della responsabilità solidale, in forza della quale al debitore «naturale» (il datore di lavoro) se ne affianca un altro (l’utilizzatore della prestazione di lavoro)134. La ratio di tale tecnica di tutela varia a seconda dell’istituto per il quale essa è prevista. Nell’appalto genuino il committente non ha potere direttivo nei confronti dei lavoratori e, pertanto, prevale la finalità di garanzia e di tutela della concorrenza nei rapporti tra imprese, il che spiega la scelta dell’inutilizzabilità della regola della parità di trattamento (v. infra). Per altro verso, risponde ad una finalità protettiva del lavoratore, addossando al committente una responsabilità per il sol fatto di ricavare delle utilità dall’esecuzione di prestazioni di lavoro da parte di soggetti che non sono suoi dipendenti. Viceversa, nella somministrazione, fermo restando la funzione di garanzia nei confronti dei lavoratori somministrati, la responsabilità solidale corrisponde ad una diversa ripartizione dei poteri all’interno dello schema contrattuale con attribuzione all’utilizzatore del potere direttivo tipico del rapporto di lavoro135. Il coinvolgimento dell’utilizzatore nella garanzia dei crediti e della posizione contributiva del lavoratore “esternalizzato” viene ritenuta una forma di «codatorialità sostanziale»136. A quest’ultimo riguardo, secondo Speziale137, il legislatore, con l’introduzione di nuove tutele, si pensi alla responsabilità solidale prevista da più disposizioni normative138, avrebbe influenzato la soluzione del problema dell’individuazione del datore di lavoro. Le tutele di cui innanzi sono espressione a loro volta delle responsabilità congiunte, come tecnica di regolazione delle esternalizzazioni e delle forme di decentramento produttivo, sostenendosi che queste costituiscano scelte organizzative non contrastabili, cui si riconducono varie tecniche di tutela quali la penalizzazione delle esternalizzazioni, sub specie di imputazione del rapporto al reale utilizzatore della prestazione; la condivisione di responsabilità non necessariamente economiche; la responsabilità solidale, quale paradigma generale per tutelare il lavoratore coinvolto nel decentramento139, accrescendo la garanzia patrimoniale del dipendente e realizzando una coazione economica indiretta alla selezione dei partners contrattuali. Si tratta comunque di tecniche che «non sono di per sé sufficienti a determinare una fattispecie di codatorialità». Nella codatorialità – prosegue Speziale – «il rapporto fondamentale nascente dal contratto di lavoro rimane invariato nei suoi obblighi principali (lavoro, retribuzione, sicurezza), ma incrementa il numero delle parti coinvolte, determinando obbligazioni soggettivamente complesse. La esistenza di prestazioni che coinvolgono, nelle rispettive posizioni di debito e credito, tre soggetti configura una forma di responsabilità solidale

133 Mazzotta, 2013, 27, nell’analisi di Cass. 29 novembre 2011, n. 25270 (su questa pronuncia v. anche Razzolini, 2012b). 134 Tosi, 2012; Perulli, 2007, 33, il quale sottolinea, giustamente, l’incidenza del dispositivo di tutela nell’orientare la scelta dell’impresa principale al momento dell’elezione del partner commerciale. 135 Romei, 2016, 516. 136 De Luca Tamajo, 2007, 16; Carinci M.T., 2008, 14 e 118. 137 Speziale, 2010, 21 – 25. 138 Artt. 1676 c.c., 2112, co. 6, cc., 29, co. 2, d,lgs. n. 276/2003, 35, co. 28, d.lgs. n. 223/2006 e 26, co. 4, d.lgs. n. 81/2008. 139 Corazza, 2009, 104.

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attiva e passiva in capo ai due datori di lavoro, ben conosciuta nel diritto civile e confermata dalla stessa giurisprudenza nei pochi casi in cui si è occupata del problema di più datori nel medesimo rapporto. Non è, viceversa, possibile parlare di obbligazioni alternative o facoltative, che presuppongono sempre una possibilità di scelta tra prestazioni diverse, che, nel nostro caso, non sussiste. (…) I codatori di lavoro sono responsabili delle obbligazioni nascenti dal rapporto (ad esempio la retribuzione o l’obbligo di sicurezza). In base ai principi in tema di solidarietà, il lavoratore potrà pretendere le intere prestazioni nei confronti di ciascun debitore, che, dopo aver adempiuto, potrà rivalersi nei confronti dell’altro. Il vincolo solidale nasce direttamente dall’art. 1294 c.c. e non richiede alcuna espressa manifestazione di volontà perché vi è un'unica fonte delle obbligazioni»140. La solidarietà prevista dal codice può determinare un'estensione delle responsabilità. Ad esempio, mentre l'art. 29, d.lgs. n. 276/2003, prevede la solidarietà solo per «i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti» (anche premi Inail), se vi è la codatorialità l’impresa principale risponderà anche del risarcimento di tutti i possibili danni subiti dal lavoratore. Inoltre, il debito di sicurezza del committente, sempre nell'ipotesi di codatorialità, è quello generale che deriva dall'art. 2087 c.c. e dalle disposizioni speciali in materia che riguardano il datore di lavoro e non quello previsto dall'art. 26, d.lgs. n. 81/2008. Nel caso di previsione normativa espressa in materia di responsabilità solidale, come nel caso della somministrazione, sarà applicabile solo quella141. Quindi, i sostenitori della codatorialità preferiscono quest’ultima alla responsabilità solidale in ragione della portata della tutela, che è generalizzata nella codatorialità e limitata nella responsabilità solidale, con riferimento sia alle posizioni tutelate sia alle fattispecie negoziali per le quali essa è prevista. A questo riguardo la dottrina è divisa; secondo alcuni anche la responsabilità solidale, a prescindere dalla codatorialità, ha una portata generale in quanto la legge richiederebbe che i processi di esternalizzazione e disintegrazione verticale dell’impresa comportino l’obbligo di quest’ultima di rispondere delle eventuali distorsioni che queste modalità di organizzazione e di produzione comportano. Tutte le imprese così coinvolte saranno responsabilizzate rispetto ai crediti dei lavoratori attinti da esternalizzazione in considerazione del fatto che i contratti commerciali tra imprese determinano modalità organizzative e di produzione che concretamente incidono sui rapporti di lavoro di chi concorre con il proprio lavoro alla realizzazione dei contratti commerciali posti in essere. In quest’ottica, il collegamento contrattuale fra contratto commerciale e contratto di lavoro costituirebbe una forma di “contatto sociale qualificato”. Pur in assenza di contratti che leghino i dipendenti dell’appaltatore al committente, appare innegabile che tra questi sussista un contatto sociale che consiste nella partecipazione alla medesima operazione economica. Analoga riflessione viene svolta per il trasferimento d’azienda142. Di avviso contrario sono quelli che qualificano la responsabilità solidale come tecnica di tutela non generalizzabile, in quanto rinviene la propria fonte in specifiche, anche se sempre più diffuse, norme di legge143. L’ordinamento non reprime ma reagisce al fenomeno, apprestando protezione alle imprese decentrate e ai loro dipendenti (infra), così riconoscendo i poteri di fatto del soggetto che governa l’integrazione contrattuale. Si tratta di un’azione dall’esterno del contratto, imponendo una regola di proporzionalità tra intensità dei poteri esercitati dall’impresa principale e oneri su di essa incombenti, con un rapporto direttamente

140 Speziale, 2010, 77-79; Pilati, 2015, 150. 141 Speziale, 2010, 79-80. 142 Venturi, 2010, 847. 143 Così Romei, 2016, 517; in senso adesivo Maio, 2016, 795, che assumendo la responsabilità solidale come meccanismo sanzionatorio, esclude che si possa sanzionare ciò che la legge ammette con l’art. 30, co. 4-ter, d.lgs. n. 276/2003.

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proporzionale. L’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003, norma apparentemente generale, contiene in sé il germe della differenziazione, proprio in relazione all’interesse del lavoratore ad agire nei confronti del committente che sarà assente nelle relazioni contrattuali non caratterizzate da disparità di forza tra committente e appaltatore. Viceversa, nelle relazioni rette da elementi gerarchici e di potere con la presenza di piccoli subappaltatori, l’ordinamento consente di mobilitare il sistema della responsabilità condivisa144. Le due tesi innanzi sinteticamente richiamate vanno assoggettate a verifica, in quanto ove la responsabilità solidale fosse ricollegabile a tutte le possibili forme di decentramento e/o esternalizzazione, dandosi così fiato alla tesi dell’applicazione generalizzata della responsabilità solidale, quest’ultima potrebbe assurgere al rango di principio generale dell’ordinamento.

10.2. La responsabilità solidale nella normativa dell’Unione europea In ambito UE la responsabilità solidale costituisce strumento contro eventuali effetti distorsivi indotti dalle esternalizzazioni145. L’opzione dell’allargamento della base debitoria attraverso l’imputazione delle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro ai soggetti imprenditoriali, parti contrattuali nell’ambito di rapporti di subcontracting, è considerata funzionale alla garanzia dell’adempimento in favore dei dipendenti del subcontractor146. Tuttavia, non si coglierebbe lo spirito della normativa europea laddove non si evidenziasse il “contrappeso” dalla stessa apprestato a garanzia della libertà economica (che può legittimante estrinsecarsi anche in esternalizzazioni), ovvero il cd. principio di proporzionalità, in forza del quale gli Stati membri devono prevedere la possibilità per il committente di sottrarsi alla responsabilità mediante l’adempimento di obblighi di diligenza147. In tema, in base agli artt. 53, par. 1 e 62 del TFUE, è stata adottata la dir. 2014/67/UE concernente l’applicazione della dir. 96/71/CE148 relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi e recante modifica del regolamento (UE) n. 1024/2012 relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di informazione del mercato interno (“Regolamento IMI”), il cui art. 12 disciplina la «Responsabilità di subcontratto»149. La responsabilità solidale, salvo che per il settore edile150, è configurata come una facoltà («possono») nei casi di subcontratto a catena151. 144 Ferruggia, 2013, 818-820. 145 Cfr. CGUE 12 ottobre 2004, causa C-60/03, Wolff-Muller c. Pereira Felix, in https://curia.europa.eu. 146 Cfr. Risoluzioni del Parlamento europeo 11 luglio 2007 e 26 marzo 2009. In argomento v. Nicolosi, 2012, 35. 147 Cfr. CGUE 9 novembre 2006, causa C- 433/04, Commissione c. Regno del Belgio, in curia.europa.eu. 148 Direttiva relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, attuata in Italia con l’emanazione del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 72, abrogato dal d.lgs. 17 luglio 2016, n. 136, emanato in attuazione della successiva dir. 2014/67/UE. 149 Subcontract si traduce “subappalto”: cfr. Picchi F., 2006. 150La normativa in esame prevede, con disposizione precettiva, che nell’esecuzione di contratti di servizi nel settore edile (art. 12, paragrafo 2), gli Stati membri emanino misure atte a garantire che, in caso di subcontratti a catena, il contraente diretto del datore di lavoro prestatore di servizi che distacca i propri lavoratori, sia solidalmente responsabile – in aggiunta o in luogo del datore di lavoro - per le «eventuali retribuzioni nette arretrate corrispondenti alle tariffe minime salariali e/o contributive dovute a fondi o istituzioni comuni» (cfr. art. 12, paragrafo 1, cit.). 151 Il paragrafo 1 dell’art. 12 prevede per gli Stati, previa consultazione delle parti sociali, la facoltà («possono») di adottare misure addizionali, in modo non discriminatorio e proporzionato, atte a garantire che, nei casi di subcontratto a catena, «il contraente di cui il datore di lavoro (prestatore di servizi) rientrante nell'art. 1, par. 3, della direttiva 96/71 sia un subcontraente diretto (…), in aggiunta o in luogo del datore», possa essere tenuto responsabile dal lavoratore distaccato riguardo a eventuali retribuzioni nette arretrate corrispondenti alle «tariffe minime salariali» ed alla contribuzione «a fondi o istituzioni comuni delle parti sociali», purché l’obbligo attenga alle condizioni di lavoro e occupazione disciplinati

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Dalla lettura della normativa viene subito in rilievo che la disciplina comunitaria non ritiene necessario prevedere una tutela in favore dei lavoratori nell’ipotesi di insussistenza della “catena”, ovvero a fronte della stipulazione di un solo subcontratto, salva la possibilità di deroga consentita agli Stati membri (art. 12, par. 4). Nel settore edile (contraddistinto dalle attività elencate nell’allegato alla dir. 96/71/CE), la dir. 2014/67/UE configura, viceversa, un vero e proprio obbligo in capo agli Stati in quanto tenuti a garantire i crediti dei lavoratori attraverso il vincolo solidale gravante sul committente ove contraente diretto. Per inciso, in ambito edile, alla luce delle specificazioni dettate nell’allegato alla dir. 96/71/CE, la responsabilità solidale, pur presupponendo la sussistenza di una catena subnegoziale, si estende a figure ulteriori rispetto all’appalto, quali il nolo a caldo, la fornitura e posa, la subvezione152. Le legislazioni degli Stati membri possono, tuttavia, introdurre forme di esonero dalla richiamata responsabilità, prevedendo l’assunzione e l’adempimento di obblighi di diligenza (art. 12, paragrafo 5). Ai sensi della citata normativa, infatti, gli «Stati possono, nei casi di cui ai paragrafi 1, 2 e 4, prevedere che il contraente, che abbia assunto gli obblighi di diligenza definiti dal diritto nazionale, non sia responsabile». La norma deve essere letta alla luce del considerando n. 37 della direttiva, ai sensi del quale gli Stati possono garantire al contraente l’esonero da responsabilità in caso in cui questi abbia «adottato misure di dovuta diligenza (…) che possono comprendere (…) misure (…) in merito alla documentazione comprovante il rispetto degli obblighi amministrativi e delle misure di controllo necessarie per assicurare l’effettiva vigilanza sul rispetto delle norme applicabili». Come già rilevato, la direttiva pare fare applicazione dei principi giurisprudenziali fissati dalla Corte di Giustizia UE in tema di libertà economica in base ai quali meccanismi di attribuzione automatica e inderogabile di responsabilità in capo al committente (ove non sia disciplinata la possibilità per il committente stesso di sottrarvisi) possono integrare una “sproporzionata” compressione della libertà economica dello stesso153. Sul punto v’è da ricordare, tuttavia, che la dir. 2014/67/UE, ai sensi dell’art. 12, par. 4, offre agli Stati membri la facoltà, purché nel rispetto dei principi di non discriminazione e proporzionalità, di prevedere regimi di solidarietà “più rigorosi”, anche in settori ulteriori rispetto a quello edile (… in settori diversi da quelli di cui all’allegato della direttiva 96/71/CE). La discrezionalità affidata agli Stati membri nella regolamentazione della materia potrebbe essere comunque oggetto del vaglio dei giudici europei, nel caso in cui, nel recepire la dir. 2014/67/UE, i primi abbiano adottato (o confermino) regimi di solidarietà troppo “gravosi” per il committente, come tali lesivi del principio di proporzionalità. Quest’ultimo chiarisce perché la direttiva configuri la responsabilità solidale solo in capo al «contraente di cui il datore di lavoro è un subcontraente diretto», nonostante l’esplicito riferimento ai «casi di subcontratto a catena». In estrema sintesi, la normativa europea in tema di responsabilità in materia di appalto si connota per un regime che cerca di coniugare in nome del principio di proporzionalità le esigenze dell’impresa con la tutela dei lavoratori. Quindi, da un lato, è esclusa l’estensione della responsabilità del committente all’intera catena di subappalto, fermo restando la derogabilità da parte degli Stati membri (art. 12, par. 4); dall’altro lato, nei rapporti di subcontraenza diretta, la responsabilità solidale può essere sostituita con «altre misure esecutive appropriate», purché sanzionino in maniera «efficace e proporzionata» il contraente in caso di frodi ed abusi nei confronti dei lavoratori

dalle fonti nazionali in relazione alle materie ed istituti fissati dall’art. 3, par. 1, dir. 96/71/CE. Agli Stati è già riconosciuta la facoltà di prevedere il vincolo della solidarietà in caso di appalti transnazionali, in virtù dei generali principi del mercato interno come interpretati dalla CGUE 12 ottobre 2004, causa C-60/03, Wolff-Müller, cit. 152 In tal senso, Carosielli, 2014. 153 CGUE 9 novembre 2006, causa C-433/04, Commissione c. Regno del Belgio.

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distaccati154. Sull’applicazione della normativa citata è chiamata a vigilare la Commissione UE (cfr. art, 12, par. 7). A completamento del quadro normativo sovranazionale va menzionata, altresì, la dir. 2009/52/CE, emanata in materia di sanzioni e provvedimenti a carico dei datori di lavoro occupanti cittadini di Paesi terzi, il cui soggiorno sia irregolare. Tale direttiva è stata recepita dall’Italia con il d.lgs. n. 109/2012 al fine di rafforzare la normativa atta a disincentivare l’utilizzo non regolamentato di manodopera extracomunitaria, con la previsione della responsabilità solidale dell’appaltante di cui il datore di lavoro è subappaltatore diretto, per le sanzioni finanziarie e gli arretrati retributivi, con potenziale coinvolgimento di tutti i soggetti della filiera negoziale in caso di loro conoscenza/conoscibilità dell’irregolare soggiorno del lavoratore occupato, salvo che non abbiano serbato la diligente condotta stabilita e richiesta dal legislatore nazionale155. A fronte di tale quadro normativo europeo, si passa a verificare quale modello di responsabilità contrattuale ha adottato il nostro ordinamento, e nello specifico se, a fronte di un criterio selettivo tipologico, possa ipotizzarsi la vigenza di un principio di carattere generale in tema di responsabilità solidale negli appalti156.

10.3. (segue) … e nell’ordinamento interno Come rilevato da Romei tale tecnica di tutela sta avendo una diffusione crescente e, se non prevista dalla legge, viene riconosciuta dalla giurisprudenza. Le ipotesi legali riguardano: la somministrazione (art. 35, co. 1, d.lgs. n. 81/2015; l’appalto e il subappalto (art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003)157; il contratto di trasporto (art. 83-bis, co. 4-bis - 4-sexies, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv., con modificazioni, in l. 6 agosto 2008, n. 133 e novellato dalla l. n. 190/2014); la cessione di ramo d’azienda con contestuale contratto di appalto (art. 2112, co. 6, c.c.); la codatorialità (art. 30, co. 4-ter, d.lgs. n. 276/2003); i gruppi di impresa (art. 31, co. 3-bis e 3-quinquies, d.lgs. n. 276/2003); le reti di impresa (art. 31, co. 3-ter e 3-quinquies, d.lgs. n. 276/2003)158; il distacco transnazionale (art. 4, co. 4 e 5, d.lgs. n. 136/2016). Un’ipotesi ulteriore di responsabilità solidale, letteralmente circoscritta ad appalti e subappalti, è quella prevista in materia di risarcimento dei danni, in favore del lavoratore dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, ove non risulti indennizzato ad opera dell’INAIL o dell’IPSEMA. Detta responsabilità è esclusa per i danni

154 Tale disposizione sembra indicare che la “sanzionabilità” del committente debba essere connessa ad un comportamento colposo o doloso dello stesso; in una parola, ad una responsabilità del contraente a monte della catena, nel verificarsi dell’inadempimento degli obblighi dettati dalla normativa giuslavoristica, perpetrato in danno dei dipendenti del subcontractor. Così Carosielli, 2015a. 155 Per ulteriori approfondimenti si veda Carosielli, 2015b. 156 In questo senso v’è chi ritiene che l’art. 12, § 4, dir. 2014/67/UE, riconosca agli Stati membri la possibilità di prevedere la responsabilità solidale lungo l’intera filiera degli appalti «in settori diversi da quelli di cui all’allegato della direttiva 96/71/CE», nella sostanza facendo assurgere l’istituto a meccanismo regolatore privilegiato dei fenomeni di outsourcing latamente intesi (Carosielli, 2015a).157Cester, 2008; Izzi, 2014.158 L’operatività della responsabilità solidale anche in relazione al fenomeno delle reti di impresa è desunta da Perulli (2014, 473-474) da una assimilazione tra il contratto di rete e il negozio di affidamento tra consorzio e consorziati, in relazione al quale la giurisprudenza ha esteso il sistema della responsabilità solidale previsto per gli appalti. In questa ipotesi, il negozio di affidamento tra consorzio e consorziati è stato qualificato come fenomeno di sub-derivazione dal negozio di appalto e in definitiva di subappalto. Secondo Perulli, tale scelta giurisprudenziale può essere applicato anche allo schema della rete di impresa, estendendo in tal modo la responsabilità solidale, così responsabilizzando le imprese retiste rispetto ai crediti dei lavoratori coinvolti, pur se non si tratta di una soluzione di carattere generale, ma verificata in base alla tipologia di rete (gerarchica o paritetica), nonché alle concrete modalità di impiego del fattore lavoro.

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conseguenti ai rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici159. Le ipotesi di estensione giurisprudenziale afferiscono ai rapporti riconducibili, nei gruppi di impresa, all’unico centro di imputazione (c.d. UCI), nonché al contratto di subfornitura. Un’ulteriore problematica riguarda il contratto di trasporto in quanto, pur essendo stata introdotta da ultimo una responsabilità solidale anche per tale fattispecie contrattuale (v. art. 83-bis, cit. supra), questa, come tecnica di tutela, si presenta attenuata rispetto a quella prevista per l’appalto e il subappalto, per cui rimane tutt’ora attuale il dibattito circa la assimilabilità del contratto di trasporto a quello di appalto (v. infra), onde invocare il più favorevole regime rimediale previsto per quest’ultimo. Appare evidente come la tecnica di tutela qui esaminata copra tutte le forme di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione, anche indiretta, della prestazione lavorativa.

10.4. Le alternative alla responsabilità solidale Trasferendoci dal piano della estensione della responsabilità solidale (regola) a quello della esclusione della stessa (eccezione), sono prospettabili, come alternativa alla responsabilità solidale, ben cinque ipotesi. La prima è quella dell’esonero ad opera dell’autonomia collettiva, prevista dall’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003 e dall’art. 8, co. 2, lett. c), d.l. n. 138/2011, conv. in l. n. 148/2011. Com’è noto, il d.l. n. 25/2017, conv. in l. n. 49/2017160, onde evitare il referendum abrogativo della prima disposizione richiamata, dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale161, ha espunto dal testo dell’art. 29, co. 2, sia la previsione relativa alla preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore sia quella della non operatività della responsabilità solidale ove i contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore individuino metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti162. La soppressione del primo periodo dell’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003 potrebbe contribuire a rinvigorire la mai decollata facoltà di deroga alla predetta disposizione prevista dall’art. 8, co. 2 lett. b), d.l. n. 138/2011, conv. in l. n. 148/2011 che, tuttavia, per un verso, resta sottoposta a vincoli funzionali in ragione della circostanza che le intese raggiunte a livello aziendale o territoriale devono essere finalizzate agli specifici obiettivi indicati nel co. 1 del citato art. 8163e, per altro verso, fa riemergere i dubbi e le criticità prospettate dalla dottrina all’indomani della introduzione del meccanismo derogatorio in discorso164. Salvo un ulteriore intervento legislativo volto a ripristinare la disposizione testé abrogata non può non destare perplessità l’aver voluto eliminare una norma derogatoria affidata alla contrattazione collettiva nazionale, lasciando in vita quella affidata alla contrattazione di prossimità, sia pure nei limiti e alle condizioni ivi previste.

159 Riccobono, 2012, 993, che auspica de iure condendo l’estensione anche della responsabilità solidale prevista per i soli lavoratori impiegati in appalto dall’art. 26, co. 4, d.lgs. n. 81/2008. 160 V. l’art. 2, co. 1, lett. a), e b), d.l. 17 marzo 2017, n. 25. 161Corte cost. 21 gennaio 2017, n. 27.162 Apprezzava tale meccanismo esonerativo Tursi, 2015, 123. Qualche cenno in Lozito, 2016, 134-140. 163 Cfr., in tal senso, Mutarelli, 2013, 725. Uno dei rari esempi di ricorso alla derogabilità prevista dall’art. 2, d.l. n. 138/2011 al regime legale di responsabilità solidale, è costituito dall’accordo aziendale del 27 marzo 2015 con il quale la Oropan s.p.a. (assistita da chi scrive), in qualità di committente, si è impegnata ad assumere, con contratti di lavoro a tempo indeterminato, i dipendenti della cooperativa che eseguiva in appalto la produzione, ricevendo, come contropartita l’esonero dal vincolo di solidarietà. V. in proposito, Garilli 2012; Izzi, 2016, 824, nt. 30. 164 In tema, v. amplius, Albi, 2012, 1638 ss. V. altresì Scarpelli, 2012, 1440-1441.

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La seconda ipotesi è riconducibile al meccanismo previsto dall’art. 83-bis, co. 4-bis, d.l. n. 112/2008, conv. in l. n. 133/2008, come novellato dalla l. n. 190/2014, che prevede l’esonero dalla responsabilità solidale in presenza della verifica preliminare da parte del committente della regolarità del vettore e del subvettore in ordine agli adempimenti degli obblighi fiscali, retributivi, contributivi e assicurativi. La terza ipotesi è quella che potrebbe essere prevista dal contratto di rete165. Con riferimento a quest’ultimo, pur escludendo l’operatività automatica tra tutti i partecipanti al contratto di rete166, al quale occorre far riferimento, Treu ritiene che con la codatorialità si instaura volontariamente un regime di solidarietà tra i codatori, come conseguenza fisiologica dell’istituto167. Si discute se il contratto di rete possa derogare al regime di responsabilità solidale, prevalendo la risposta negativa, non potendosi consentire una responsabilità solidale affidata alla autonomia delle imprese retiste, in quanto si legittimerebbe il contratto di rete a introdurre una eccezione persino più ampia di quella prefigurata dall’art. 8, d.l. n. 138/2011, cit.168. Si aggiunge che «accordi volti a limitare o escludere la responsabilità solidale per alcuni dei codatori possono avere effetti solo nei rapporti interni tra i codatori stessi, ma non possono essere opposti al lavoratore. Una volta riconosciuta, cioè, la qualità di datore di lavoro a tutti i retisti, non sembra possibile escludere alcuni degli effetti, come per l’appunto la responsabilità per i diritti derivanti dal rapporto di lavoro»169. Secondo altri la codatorialità ha un’efficacia derogatoria rispetto al consueto regime di responsabilità solidale, ma subordinatamente all’accettazione delle regole di ingaggio da parte dei lavoratori retisti, da formalizzarsi attraverso il rinvio nel contratto individuale170; a tale lettura si obietta che la norma non prevede l’accettazione, ma ove fosse ammissibile, la stessa andrebbe estrinsecata in sede assistita171. La quarta ipotesi attinge non al meccanismo esonerativo, bensì alla manleva tramite il fondo patrimoniale comune172 o un apposito patrimonio destinato173 per garantire l’adempimento delle obbligazioni solidali, ex art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003174. La quinta ed ultima ipotesi, de iure condendo, potrebbe essere quella di un esonero condizionato, ove la contrattazione collettiva istituisca forme alternative assicurativo –

165 Tursi, 2015, 125. 166 V. circ. Min. lav. n. 35/2013. 167 Treu, 2015, 19-23; secondo Perulli (2014, 473 ss.) il principio giurisprudenziale di estendere il sistema della responsabilità solidale prevista per gli appalti e subappalti anche all’ipotesi in cui l’appaltatore sia un consorzio che ha affidato l’esecuzione del contratto ad impresa consorziata, potrebbe essere esteso alle reti di impresa, in ragione di una assimilazione dal punto di vista funzionale. 168 Razzolini, 2014a. Adesivamente Perulli (2014, 502), secondo cui «se il legislatore ha statuito l’effetto inderogabile di responsabilità congiunta nella fattispecie di codatorialità derivante dall’assunzione di lavoratori effettuata da imprese legate mediante un contratto di rete, non si capisce perchè si dovrebbe ritenere che nell’ipotesi analoga in cui i lavoratori vengano “ingaggiati con le regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso”, tale effetto legale tipico di datorialità possa venire eliminato dall’autonomia privata». 169 Alessi, 2015, 103. 170 Biasi, 2014. 171 Maio, 2016, 796, nota 32. 172 V. l’art. 3, co. 4-quater, d.l. n. 5/2009, cit.; ai sensi del n. 2 del co. 4-ter al fondo patrimoniale comune si applicano in quanto compatibili gli artt. 2614 e 2615, co. 2, c.c.; in ogni caso, per le obbligazioni contratte dall’organo comune in relazione al programma di rete, i terzi possono far valere i propri diritti esclusivamente sul fondo comune. Per un commento critico a tale disposizione v. Bredariol, 2015, 86 ss., nonchè Cafaggi, Iamiceli, Mosco, 2012, 491. Secondo Di Salvatore (2015, 254-255), «la costituzione di un fondo patrimoniale ad hoc sembra escludere la responsabilità personale e solidale degli imprenditori aderenti alla rete». 173 V. l’art. 2247-bis, co. 1, lett. a) c.c. 174 Tursi, 2015, 125, che parla di neutralizzazione degli effetti della responsabilità solidale per le obbligazioni derivanti dai contratti di lavoro in regime di codatorialità.

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mutualistiche che garantiscano lo stesso tipo di tutela e fermo restando in ogni caso che, ove tali strumenti di garanzia si rivelino inefficaci, resta salva la possibilità per il lavoratore di azionare il meccanismo della responsabilità solidale175.

10.5. Responsabilità solidale e termini decadenziali Un profilo critico della disciplina della responsabilità solidale, stranamente passato sotto silenzio nella riflessione sul tema, afferisce al termine decadenziale previsto dall’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003, in due anni dalla cessazione dell’appalto, ridotto ad un anno per il contratto di trasporto, entro cui il lavoratore può avvalersene; viceversa, nessun limite temporale è previsto per la somministrazione e la codatorialità, ex art. 31, co. 3-quinquies, d.lgs. n. 276/2003. Pur comprendendo le ragioni sottostanti all’apposizione del termine decadenziale, con tutta evidenzia individuabili nella tutela dell’“affidamento” da parte di appaltante e committente, nella realtà la diversificazione tra il termine decadenziale per invocare la responsabilità solidale e quello di prescrizione dei diritti del lavoratore produce un doppio effetto negativo, soprattutto nel caso, più che frequente, del cambio di appalto. Il primo effetto negativo si riverbera in capo ai prestatori di lavoro che non solo si vedono di fatto restringere il termine prescrizionale da 5 a 2 anni, onde farlo coincidere con quello decadenziale della responsabilità solidale, ma sovente non esercitano l’azione di responsabilità solidale nel termine breve fissato dalla legge in quanto, essendo utilizzati dall’impresa subentrante nello stesso appalto, subiscono il metus dell’appaltante. Si tratta in sostanza di applicare alla responsabilità solidale negli appalti o nel trasporto lo stesso principio enunciato dalla nota sentenza della Corte costituzionale n. 63/1966, in materia di decorrenza della prescrizione. A ben guardare il secondo effetto negativo si riverbera anche in capo all’impresa appaltatrice (economicamente debole), che, a fronte di un termine prescrizionale quinquennale a tutela dei crediti dei propri dipendenti (ma nel cambio di appalto ex dipendenti), vede chiudersi l’ombrello della responsabilità solidale anni prima di quanto spiri il termine prescrizionale, con l’effetto (che sovente si verifica nella realtà) che gli ex dipendenti attendano il decorso del termine decadenziale prima di agire nei confronti del proprio ex datore di lavoro, onde tenere indenne l’appaltante. Ciò spiega il perché, sempre nella prassi, al momento del cambio di appalto si chieda al dipendente una rinuncia a pretese pregresse anche non in sede protetta, confidando nello spirare del termine di impugnativa semestrale, ex art. 2113 c.c., prima che spiri quello decadenziale per la responsabilità solidale. La rinuncia intanto viene sottoscritta dai lavoratori se v’è “l’assenso” dell’appaltante, onde scongiurare il rischio che il lavoratore cessato per qualunque ragione dal rapporto col nuovo appaltatore entro i due anni possa avvalersi della responsabilità solidale. Alla luce di tali considerazioni forse è arrivato il momento di agganciare il termine per l’esercizio dell’azione per far valere la responsabilità solidale a quello prescrizionale, facendo retrocedere le ragioni dell’“affidamento” a favore di quelle della tutela dei soggetti economicamente deboli, come già accade nel caso della somministrazione, così escludendosi una violazione del canone UE della proporzionalità.

10.6. La responsabilità solidale come regola e non come eccezione Alla luce del ragionamento sin qui svolto è possibile sostenere che la frontiera della responsabilità solidale è decisamente mobile176, e, allo stato, salvo a mettere in

175 V. l’art. 90, co. 4 e 5, Carta dei diritti universali del lavoro. Va precisato che, secondo la Carta, la gestione delle forme assicurative sarebbe affidata al Fondo di garanzia di cui al d.lgs. n. 297/1982. 176 Carosielli, 2017.

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discussione le ipotesi di estensione giurisprudenziale177, ha un ambito di applicazione generalizzato, sia pure con differenze tra un’ipotesi e l’altra in ordine all’assoggettamento o meno ad un termine decadenziale di vigenza e alla durata dello stesso termine. Si è parlato di un «sistema a geometria variabile nel tempo e nello spazio»178. Il nodo da sciogliere sta nella qualificazione di tale tutela, e cioè se costituisce una eccezione alla regola che delle obbligazioni retributiva e contributiva risponde solo il datore di lavoro, ovvero sia divenuta regola tutte le volte in cui della prestazione lavorativa si avvantaggi un soggetto diverso dal datore di lavoro, per la realizzazione del proprio fine produttivo, a prescindere dalla localizzazione intra o extra moenia della prestazione. Può allora rispondersi affermativamente all’interrogativo prima posto nel senso che la responsabilità solidale è divenuta oramai un principio immanente nell’ordinamento lavoristico al pari del divieto di interposizione, operante tutte le volte in cui non ricorra quest’ultimo fenomeno179; sarebbe, quindi, il rovescio della medaglia dell’interposizione nel senso che in qualsiasi fenomeno di decentramento opererebbe nelle manifestazioni fisiologiche la responsabilità solidale ed in quelle patologiche l’interposizione vietata.

11. La tutela nel cambio di appalto Al fenomeno del cambio di appalto il legislatore ha dedicato a distanza di poco tempo due disposizioni; si allude agli artt. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003 e 7, co. 4-bis, d.l. n. 248/2007, conv. in l. n. 31/2008, i quali si (pre)occupano rispettivamente dell’appaltatore entrante, escluso dal regime dell’art. 2112 c.c., e di quello uscente, cui non si applica la disciplina dei licenziamenti collettivi. Si tratta, quindi, di due norme esonerative. In sintesi, nel caso di cambio di appalto in uscita non v’è licenziamento collettivo e in entrata non v’è trasferimento di ramo d’azienda; in mezzo v’è un licenziamento individuale plurimo per g.m.o. da parte dell’uscente e una coeva assunzione ex novo da parte del subentrante: chi si occupa abitualmente di cambi di appalto ben conosce i problemi conseguenti a questo farraginoso meccanismo “mirabilmente” ideato dal legislatore, nel quale l’impresa uscente e quella entrante abitualmente assumono le sembianze dei due capponi nelle mani di Renzo (alias, il committente). Di taglio concessivo all’impresa è la norma del 2015 che accorda l’esonero contributivo al datore di lavoro che subentra in un appalto di servizi e assume, ancorché in attuazione di un obbligo preesistente stabilito da norme di legge o di contrattazione collettiva, un lavoratore per il quale il datore di lavoro cessante fruisce di detto esonero, ovviamente nei limiti della durata e della misura che residua180. Della tutela del lavoratore coinvolto nel cambio di appalto, in funzione di garanzia dell’anzianità maturata nell’attività appaltata, si è occupato nel 2015 il Jobs Act, equiparandola a quella aziendale, per tutelare il lavoratore nel caso di

177 Mollo, 2015, 113 ss., secondo il quale se il rinvio operato dall’art. 29, co. 1, d.lgs. n. 276/2003 all’art. 1655 c.c. assolve alla funzione di definire, delimitandolo, il perimetro applicativo della disciplina del titolo III della legge Biagi è arduo oltrepassare il dato letterale senza violare le regole basilari dell’attività ermeneutica. 178 Costa, 2016. 179 Dello stesso avviso è Riccobono, 2012, 993, sia pure de iure condendo. Sui vantaggi derivanti dall’applicazione generalizzata del principio di responsabilità solidale v. Corazza, 2009, 20. 180 V. l’art. 1, co. 181, l. n. 208/2015, che accorda per le nuove assunzioni uno sgravio biennale pari al 40% dei contributi obbligatori.

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sospensione/riduzione dell’attività181, ovvero nel caso di licenziamento illegittimo per il calcolo delle indennità risarcitorie nel contratto a tutele crescenti182. In entrambi i casi, nel silenzio delle norme, la tutela opera a prescindere dalla fonte (legge, contratto collettivo o clausola di bando di gara) in forza della quale è avvenuta l’assunzione. La ratio di tali interventi legislativi è rinvenibile, a mio parere, nell’incipit della norma esonerativa del 2007, secondo cui nelle more della «completa attuazione» della normativa in materia di tutela dei lavoratori impiegati in imprese che svolgano attività di servizi in appalto, al fine di favorire la piena occupazione e di garantire l’invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori, il passaggio di questi ultimi dal vecchio al nuovo appaltatore non comporta l’applicazione della disciplina sui licenziamenti collettivi, a condizione che il passaggio sia avvenuto a parità di condizioni economiche e normative previste dai CCNL o a seguito di accordi collettivi, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Tale disposizione fa chiaramente riferimento al fenomeno del cambio di appalto, essendole totalmente estraneo il diverso fenomeno della genuinità dell’appalto, che anzi viene presupposta. La “completa attuazione” deve, quindi, essere intesa come implementazione delle tecniche di tutela già previste dall’ordinamento in favore dei lavoratori coinvolti nei fenomeni di esternalizzazione, ma che nel cambio di appalto sono assenti a livello legislativo, ad eccezione delle due disposizione introdotte nel 2015 prima richiamate. Si ha motivo di ritenere, per converso, che la piena tutela di questa categoria di lavoratori sia già normata dovendosi applicare l’art. 2112 c.c. che però l’art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003 esclude operi nel cambio di appalto183. La tesi si regge su una lettura di tale dispositivo alla luce della normativa in materia emanata successivamente, la cui ratio è riconducibile al principio della continuità occupazionale, sia pure diversificando la tecnica utilizzata, e cioè esonerativa dai vincoli tipici del licenziamento con riferimento al datore di lavoro perdente appalto, e di garanzia dell’anzianità nell’attività appaltata, con riferimento al lavoratore coinvolto nel cambio di appalto. Partendo dal primo profilo, se non fosse garantita la continuità occupazionale dei lavoratori, il datore di lavoro che perde l’appalto sarebbe obbligato innanzitutto al rispetto della procedura prevista per i licenziamenti collettivi e per quelli individuali, a seconda che si configuri l’una o l’altra fattispecie estintiva. In ogni caso, il datore di lavoro sarebbe obbligato al pagamento del contributo di licenziamento184. Viceversa, proprio in ragione della supposta continuità occupazionale, il legislatore ha esonerato il datore perdente appalto da tali vincoli/oneri185. Al riconoscimento dell’anzianità nell’attività appaltata in funzione di tutela del lavoratore coinvolto nei cambi di appalto, provvedono le due disposizioni del Jobs Act prima richiamate. Di rilievo, ai nostri fini, è il rinvio della norma sulla CIG all’«attività appaltata», che viene assimilata o equiparata all’«unità produttiva». Non potendo per ovvi motivi qui riprodurre l’ampio dibattito sulla nozione di unità produttiva186, va preso atto che la riflessione sull’attività svolta in appalto si è concentrata sulla cantieristica edile e industriale, riconoscendosi l’esistenza dell’unità produttiva a condizione che vi sia

181 V. l’art. 1, co. 3, d.lgs. n. 148/2015, in relazione all’anzianità di effettivo lavoro presso l’unità produttiva per l’intervento CIG. 182 V. l’art. 7, d.lgs. n. 23/2015. 183Cester, 2014.184 V. rispettivamente gli artt. 7, l. n. 604/1966, 4, l. n. 223/1991 e 2, co. 34, l. n. 92/2012. 185 Quanto alla non applicazione dell’art. 24, l. n. 223/1991, v. l’art. 7, co. 4-bis, d.l. n. 248/2007, cit.; per la non applicazione dell’art. 7, l. n. 604/1966, nuovo testo, v. il co. 6 della stessa disposizione, come modificato dall’art. 7, co. 4, d.l. n. 76/2013, cit.; ed infine, quanto all’esonero dal contributo v. l’art. 2, co. 43, l. n. 92/2012, come modificato dall’art. 1, co. 164, l. n. 232/2016, che ha reso definitivo l’esonero prima limitato ad un triennio (2013-2015), prorogato al 2016. 186 Per un’efficace sintesi v. Ponte, 2015.

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adibito, in via continuativa, un certo numero di lavoratori e che venga gestito un appalto della durata di almeno un mese187. Poiché il legislatore valorizza l’anzianità nell’attività appaltata, è sostenibile che l’appalto si sia di fatto sovrapposto alla nozione di unità produttiva, tanto più che ai fini della identificazione di quest’ultima si ritiene alternativo e non più concorrente il requisito dell’autonomia finanziaria o tecnico funzionale188. Tutti gli interventi legislativi innanzi citati stanno progressivamente estendendo ai lavoratori coinvolti nei cambi di appalto le tutele accordate dall’art. 2112 c.c., la cui diretta applicazione è stata esclusa nel 2003 con la discussa disposizione contenuta nell’art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003, fortemente criticata per la non aderenza alla normativa europea in materia di trasferimento d’azienda189. Il fenomeno della cessione di ramo di azienda è stato ed è tuttora al centro di un dibattito vivacizzato dal ripetuto intervento del legislatore e dall’atteggiamento della giurisprudenza. Sintetizzando tale dibattitto, si discute se l’autonomia funzionale del ramo d’azienda oggetto di cessione debba preesistere a quest’ultima (tesi retrospettiva), ovvero possa essere valutato in relazione alla potenzialità di quanto ceduto a consentire l’esercizio dell’attività d’impresa (tesi proiettiva). Il legislatore del 2003, sopprimendo il termine «preesistente», ha mostrato di aderire alla seconda tesi, ma la giurisprudenza ha continuato ad aderire alla prima tesi190. Le censure alla disposizione sub art. 29, co. 3, personalmente condivise, trovano valido fondamento nell’errata formulazione della norma che valorizza la «struttura organizzativa e operativa» del nuovo appaltatore e non anche l’attività ed i lavoratori acquisiti col subentro, che negli appalti labour intensive costituiscono “l’azienda” oggetto di traslazione191. Per come è scritta, detta norma appare orientata più verso lo pseudo-appalto che non a disciplinare il diverso fenomeno del cambio-appalto. Tale errata formulazione della norma crea una inammissibile diversificazione tra aziende manifatturiere e terziarie, per cui ciò che è trasferimento nel settore della produzione potrebbe non esserlo nel settore dei servizi. Un tentativo adeguatore della norma in esame ai parametri comunitari192 si è avuto con la legge comunitaria del 2016 che ha inserito due incisi nel corpo del co. 3, e cioè «dotato di propria struttura organizzativa e operativa» (riferito al nuovo appaltatore) e più oltre «ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità d’impresa»193; anche tali modifiche fanno nuovamente ed erroneamente riferimento all’appaltatore e non all’attività (azienda) acquisita tramite il cambio di appalto. Probabilmente al legislatore non è chiara la nozione di ramo di azienda, oggetto di traslazione; ed è altrettanto verosimile che il legislatore ignori la posizione in materia

187 V. circ. INPS 19 gennaio 2017, n. 9. 188 V. circ. INPS 19 gennaio 2017, n. 9, pt. 2.1; da ultimo v. msg. INPS 31 marzo 2017, n. 1444. 189 Vedi l’art. 1, n. 1), lett. b), dir. 01/23/CE. Per la giurisprudenza comunitaria in tema di ramo di azienda vedi CGCE 18 marzo 1986, causa C-24/85, Spijkers; CGCE 9 dicembre 2004, causa C-460/02 Commissione vs Repubblica Italiana; CGCE 12 febbraio 2009, causa C-466/07 Klarenberg; CGUE 6 marzo 2014, causa C-458/12, Amatori; con riferimento specifico al cambio di appalto vedi CGCE 11 marzo 1997, causa C-13/95, Suzën. Cfr. Quadri, 2004, 99 ss. 190 Per un’efficace sintesi di tale dibattito, con una opzione per la tesi proiettiva, in quanto aderente al dato normativo, come novellato nel 2003, v. Tosi, 2014b. V. anche Cester, 2014. 191 V. l’art. 50, d.lgs. n. 50/2016, sul quale si rinvia a Lamberti, 2016; per la cessione di ramo di azienda dematerializzato v. Cass. nn. 21917/2013 e 17366/2016. 192 Va detto che la Commissione europea aveva aperto nei confronti dell’Italia una procedura di pre-infrazione, sollevando dubbi circa la compatibilità dell’art. 29 col diritto dell’Unione Europea, e nello specifico con la dir. 2001/23/CE, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia, che ritiene sufficiente per la configurabilità del trasferimento d’azienda il passaggio di un gruppo organizzato di lavoratori impiegato nell’appalto. 193 V. l’art. 30, co. 1, l. 7 luglio 2016, n. 122.

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della Corte di Cassazione, ribadita da due recenti pronunzie del 2016; nella prima (n. 9682/2016) si valorizza l’autonomia funzionale del ramo ceduto; nella seconda (n. 7121/2016) pronunziata proprio in un caso di ramo dematerializzato, si identifica quest’ultimo nell’attività dei lavoratori quando essa risulti il bene aziendale prevalente. Non si condivide pertanto la lettura delle modifiche apportate all’art. 29, co. 3, fondata su tale orientamento del Supremo Collegio, sostenendosi che quest’ultima disposizione leghi l’effetto successorio tipico dell’art. 2112 c.c. al fatto che l’appaltatore subentrante, che abbia assunto la manodopera precedentemente impiegata, si limiti a proseguire pedissequamente un servizio «senza disimpegno particolare della propria autonoma organizzazione di impresa (…) e senza apporto di alcuna reale innovazione operativa in termini strumentali e funzionali»194. L’errore commesso dal legislatore ed avallato da tale interpretazione sta nel far rimbalzare sul ramo oggetto di traslazione ciò che avviene dopo che quest’ultima è stata realizzata, cioè le scelte organizzative e di innovazione che il cessionario possa per ipotesi apportare al cespite acquisito dopo la sua cessione. La norma era e rimane illegittima rispetto alla normativa UE nella misura in cui aprioristicamente esclude ciò che secondo quest’ultima costituisce cessione di ramo d’azienda. Al contempo è costituzionalmente illegittima perché dispone della fattispecie legale (cessione d’azienda o ramo), al solo fine di agevolare i cambi di appalto, e cioè il committente, per gratificarlo una seconda volta dopo avergli consentito l’esternalizzazione. Un’ulteriore conferma di quanto sin qui sostenuto promana da un’altra recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha ritenuto sussistente la fattispecie dell’art. 2112 c.c. nel caso opposto al cambio di appalto, e cioè quello della reinternalizzazione dell’attività. La Corte, richiamando l’elaborazione della CGUE arriva alla conclusione che nel processo di reinternalizzazione è rinvenibile un’ipotesi di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, specie quando l’attività si fonda essenzialmente sulla manodopera195. Come si vede la Corte di fatto ha disapplicato l’art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003. A questo punto diventa singolare che la stessa attività, se retrocessa, configura il trasferimento di ramo d’azienda, mentre se trasferita da un appaltatore ad un altro non lo sia. Peraltro, giova ricordare che l’inapplicabilità al cambio di appalto dell’art. 2112 c.c. penalizza oltre ai lavoratori, anche l’impresa in scadenza di appalto, creando un effetto distorsivo; quest’ultima, infatti, a differenza delle altre imprese che concorrono all’aggiudicazione dell’appalto, sarà condizionata nell’offerta per il nuovo appalto dai costi connessi all’anzianità dei propri dipendenti, con verosimile non aggiudicazione del nuovo appalto. Conclusivamente, non sembra che i profili di criticità che caratterizzano la disposizione contenuta nell’art. 29, co. 3, cit., anche dopo la sua novellazione, possano ritenersi superati. Passando ora ad esaminare la tutela occupazionale dei lavoratori coinvolti nel cambio di appalto, disciplinata nel settore pubblico dal codice degli appalti (si rinvia sul punto alla relazione di Franca Borgogelli), in quelli privati essa è affidata alle previsioni della contrattazione collettiva, che si limita a prevedere la conservazione del livello occupazionale (ma non dei trattamenti economici e normativi), attraverso l’assunzione ex novo da parte del datore di lavoro subentrante, sempre che non risultino modificate le condizioni generali del contratto di appalto, in quanto in tale ipotesi non v’è alcun obbligo, ma solo un confronto sindacale finalizzato a verificare in che misura può garantirsi il posto di lavoro alle dipendenze del subentrante. La gran parte dei CCNL prevede clausole specifiche dedicate alla regolazione della cessazione di appalto e/o subentro di nuovo appaltatore, sebbene con livelli di dettaglio e di tutela molto differenziati da settore a settore. È quasi superfluo rilevare che le

194 Esposito, 2016, 757. 195 V. Cass. 15 marzo 2017, n. 6770.

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pattuizioni di fonte collettiva più significative -sotto il duplice profilo sia della procedimentalizzazione dei processi di affidamento all’esterno e di gestione del subentro di nuovo affidatario196, sia delle previsioni mirate alla tutela dei livelli occupazionali- si rinvengono nei CCNL che regolano i rapporti di lavoro nei comparti economico-produttivi maggiormente interessati dal fenomeno degli appalti. In alcuni di questi si coglie bene la tensione sopra evidenziata in quelle clausole che, nel regolare le operazioni di successione tra imprese appaltatrici, distinguono tra subentro a parità di termini, modalità e prestazioni contrattuali [ipotesi nella quale il subentrante si impegna a garantire l’assunzione di tutti i lavoratori occupati nell’esecuzione dell’appalto con il predecessore (in genere l’obbligo opera per i dipendenti a tempo indeterminato ovvero per quelli in possesso di una certa anzianità aziendale al momento della cessazione del precedente contratto di appalto)] e subentro a condizioni differenti, ipotesi in cui, invece, l’assunzione dei lavoratori dipendenti dell’appaltatore cessante dovrà costituire oggetto di consultazione (ed eventuale accordo) al fine di preservare, nel nuovo contesto tecnico-organizzativo, quanto più possibile, i livelli occupazionali197. Ebbene, alla luce della novellata formulazione dell’art. 29, co. 3 d.lgs. n. 276/2003, in situazioni analoghe a quelle del primo tipo, specie se trattasi di servizi ad elevata (se non esclusiva) incidenza del fattore lavoro, è ipotizzabile che sarà ben difficile, in concreto, accertare la presenza di quegli «elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa», con la conseguente applicabilità dell’art. 2112 c.c. In alcuni casi l’autonomia collettiva giunge a stabilire, in caso di cambio di appalto o di subentro, garanzie sostanzialmente analoghe a quelle stabilite dalla disposizione codicistica da ultimo richiamata, prevedendosi la prosecuzione del rapporto di lavoro con il nuovo appaltatore, senza soluzione di continuità e con salvaguardia delle «condizioni economiche e normative individuali in godimento con riguardo ai trattamenti fissi e continuativi e agli istituti legati all’anzianità di servizio»198. In altri settori, gli obblighi di assunzione in caso di cambio di appalto sorgono solo al raggiungimento di soglie numeriche di lavoratori coinvolti199 e, talvolta, sono limitati ad una percentuale di quelli precedentemente occupati dall’appaltatore cessante200.

12. Decentramento e sostegno al reddito Un profilo dei fenomeni di decentramento tendenzialmente poco esplorato è quello del sostegno al reddito in favore dei lavoratori che in essi sono coinvolti. I problemi riguardano essenzialmente il campo di applicazione degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, recentemente riformati dal d.lgs. n. 148/2015.

196 V. l’art. 9-bis CCNL Metalmeccanica e installazione impianti Industria del 26 novembre 2016, che con specifico riferimento alla cessazione di appalti pubblici di servizi, introduce incisivi obblighi di informazione e consultazione sindacale. 197 V. in tal senso l’art. 4, CCNL 31 maggio 2011 Pulizia e servizi integrati multi servizi – Industria; l’art. 146, CCNL Metalmeccanica e installazione impianti PMI del 29 luglio 2016; l’art. 16, CCNL Mobilità/area contrattuale – Attività ferroviarie del 16 dicembre 2016, parr. 2.3 e 2.4; l’art. 6, CCNL Igiene ambientale aziende private del 6 dicembre 2016 e art. 6, CCNL Igiene ambientale aziende municipalizzate del 6 dicembre 2016; l’art. 36 CCNL Autonoleggio e autorimesse, del 26 luglio 2016; l’art. 53 CCNL Telecomunicazioni del 30 maggio 2016; l’art. 94, CCNL Agenzie di sicurezza sussidiaria non armata – aziende di servizi del 16 aprile 2014; l’art. 43 CCNL Pulizia e servizi integrati multiservizi – artigianato del 18 settembre 2014; l’art. 9 CCNL Istituzioni socioassistenziali –Fenascop, del 3 luglio 201; l’art 74 CCNL Istituzioni socioassistenziali – Uneba, del 8 maggio 2013. 198 V. l’art. 16, CCNL Mobilità/area contrattuale – Attività ferroviarie del 16 dicembre 2016, par. 2.3; nonché l’art. 37 CCNL Trasporto a fune del 12 maggio 2016. 199 V. l’art. 18 CCNL Agenzie di sicurezza sussidiaria non armata del 22 dicembre 2014; l’art. 208 CCNL Amministratori di condominio – aziende di servizi, del 28 gennaio 2016. 200 V. l’art. 208 CCNL Amministratori di condominio – aziende di servizi, del 28 gennaio 2016.

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Il condizionamento che discende dal decentramento può riguardare o l’esclusione delle imprese utilizzate in outsourcing dal campo di applicazione della cassa integrazione guadagni (si pensi alla non fruibilità della CIGS da parte delle imprese del terziario), oppure l’esclusione in ragione del numero dei dipendenti (si pensi alla non fruibilità della CIGS da parte delle imprese industriali con meno di 16 dipendenti). Di tale situazione si è reso conto il legislatore, ormai da più di trent’anni, estendendo la fruizione della CIGS alle imprese tradizionalmente riconducibili al c.d. indotto della grande impresa industriale, che operano in favore della stessa in appalto o in subfornitura201. L’intervento nel caso di appalti di mensa e di pulizia è in diretta connessione con la contrazione dell’attività dell’impresa committente e in ogni caso è circoscritto alla durata del contratto. Nel caso di intervento a sostegno delle imprese artigiane con influsso gestionale prevalente l’intervento, da un lato, deve essere in diretta connessione con la sospensione o riduzione dell’attività dell’impresa che esercita detto influsso e, per altro verso, è limitato al periodo in cui quest’ultima impresa faccia ricorso agli strumenti di sostegno al reddito. Con specifico riferimento a questa ipotesi, il legislatore ha precisato, invero sin dal 1991, che si ha influsso gestionale prevalente quando in relazione ai contratti che hanno ad oggetto l’esecuzione di opere o la prestazione di servizi o la produzione di beni o semilavorati costituenti oggetto dell’attività produttiva o commerciale dell’impresa committente, la somma dei corrispettivi fatturati abbia superato nel biennio precedente il 50% del fatturato complessivo dell’impresa artigiana202. All’indotto sono riconducibili altre due attività e cioè quella di vigilanza e quella di logistica. Nel primo caso l’estensione introdotta in via temporanea nel 1993 è stata stabilizzata nel 2012; si deve viceversa alla riforma del 2015 l’estensione dell’intervento CIGS alle attività di logistica, che sono ricomprese tra le imprese esercenti attività commerciali («comprese quelle della logistica»), a condizione che impieghino più di 50 dipendenti. Il legislatore ha opportunamente colmato una lacuna nell’intervento di sostegno al reddito in favore delle imprese che operano in appalto, che costituiscono una delle realtà più diffuse proprio nel settore della logistica. Va detto che v’erano stati precedenti giurisprudenziali che, attingendo ai criteri qualificatori dell’attività di impresa ai fini dell’intervento CIG, speciali rispetto a quelli validi per l’inquadramento previdenziale, avevano già ritenuto fruibile l’ammortizzatore da parte di tale tipologia di imprese, pur con gli opportuni distinguo in relazione al tipo di attività svolta. Non del tutto condivisibile, quanto a soglia numerica, appare l’equiparazione alle aziende esercenti attività commerciali, considerata la enorme diffusione anche nel settore manifatturiero (si pensi al fenomeno dello scorporo della logistica effettuata anni addietro dalla FIAT previa cessione del relativo ramo d’azienda). Viceversa, non condivisibile è la non ricomprensione nel campo di intervento della CIG dei lavoratori somministrati, espressamente richiamati dal d.m. 1 agosto 2014, n. 83473, che detta(va) i criteri di concessione degli ammortizzatori sociali in deroga (art. 2, co. 1). Quest’ultima inclusione paradossalmente convalida l’esclusione, in quanto le agenzie di

201 Il primo intervento è riconducibile all’art. 23, l. n. 155/1981, per le aziende che forniscono servizi di mensa; è seguito quello del 1991 per le aziende artigiane con influsso gestionale prevalente; e da ultimo, l’intervento è stato esteso in via definitiva alle imprese di pulizie dalla l. n. 92/2012. Va segnalato anche il decreto interministeriale 23 marzo 2011 che introduce una misura strutturale, complementare all’intervento per le grandi imprese in amministrazione straordinaria, a sostegno delle aziende subfornitrici che potranno accedere al Fondo Centrale di Garanzia. 202 V. l’art. 20, co. 5, d.lgs. n. 148/2015.

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somministrazione sono inquadrate a livello previdenziale nel settore terziario, e non commercio e pertanto sono escluse dal campo di applicazione della CIG203. Ovviamente tale conclusione si regge sull’inquadramento delle agenzie per il lavoro ai fini previdenziali, ben diverso da quello autonomo e rilevante ai fini dell’intervento CIGS, ancorato alla definizione civilistica dell’art. 2195, n. 1, c.c., in base alla quale «è industriale l’attività produttiva non solo di beni ma anche di servizi, purché l’attività produttiva sia finalizzata alla costituzione di una nuova attività»204. L’operatività dell’inquadramento civilistico è peraltro fatto salvo proprio dall’art. 49, co. 3, l. n. 88/1989, che provvede all’inquadramento previdenziale delle aziende205. È da verificare a questo punto se le agenzie per il lavoro producano un servizio finalizzato alla costituzione di una nuova utilità. Orbene, la forza lavoro somministrata partecipa in maniera diretta all’attività svolta dall’impresa utilizzatrice, mutuandone le caratteristiche; si pensi ai servizi di pulizia, per i quali è previsto l’intervento CIGS, ove questi ultimi risentano della crisi dell’impresa industriale, in favore della quale gli stessi sono effettuati, con l’effetto che non può escludersi che lo stesso valga per i lavoratori somministrati, a condizione che il loro impiego avvenga all’interno di imprese industriali. L’obiezione che l’agenzia può somministrare forza lavoro indifferentemente in favore di imprese industriali e commerciali non è idonea a scalfire detta soluzione, al pari di quanto accade per l’indotto, in relazione al quale l’intervento CIGS è ammesso solo per i lavoratori impiegati in appalti in favore di imprese industriali. In ogni caso, escludere i lavoratori somministrati in favore delle imprese industriali, dall’intervento CIGS crea una palese disparità rispetto alla concessione della CIGS a tutte le imprese riconducibili al c.d. indotto delle imprese industriali, prima richiamate, anche quando le agenzie per il lavoro risentono della crisi delle imprese utilizzatrici, come ha dimostrato l’estensione ai lavoratori somministrati della Cassa Integrazione Guadagni in deroga. Un sostegno al reddito in favore dei somministrati può provenire dal Fondo bilaterale istituito sin dal 1997, a parziale compensazione di tale esclusione. Ed infatti, già prima del d.lgs. n. 148/2015, sono stati sottoscritti una serie di accordi, integrati da quello del 25 novembre 2015, attuativo delle previsioni contenute nel d.lgs. n. 148/2015, e recepiti con appositi decreti interministeriali. Il Fondo, istituito presso Forma.Temp con gestione e contabilità separata, assicura ai lavoratori somministrati a termine una prestazione di sostegno al reddito in caso di cessazione del rapporto, cui consegua un periodo di disoccupazione, residuando la possibilità di individuare ulteriori prestazioni ai sensi del d.lgs. n. 148/2015. Il modello di tutela bilaterale, con la doppia riforma degli ammortizzatori sociali del 2012-2015, è stato esteso a tutta l’area non coperta con l’intervento dei Fondi bilaterali di sostegno al reddito e, in mancanza, del FIS, tenuto conto che la riforma del 2015 ha abbassato la soglia per l’obbligatoria iscrizione agli stessi dagli originari 16 agli attuali 6 dipendenti. Una riflessione a parte va fatta con riferimento al requisito per l’accesso alla CIG, dell’anzianità di effettivo lavoro di almeno 90 giorni, alla data di presentazione della domanda di concessione, presso l’unità produttiva per la quale è richiesto il trattamento206; ma sul punto si rinvia supra al §11 sul cambio di appalto.

203 Sia pure con riferimento alla disciplina previgente al d.lgs. n. 148/2015, il Ministero ha ribadito l’esclusione dal campo di intervento della CIGS dei lavoratori somministrati, anche nella ipotesi in cui l’utilizzatore versi in una situazione di crisi aziendale (interpello Min. lav. 20 gennaio 2016, n. 3). 204 Circ. INPS 6 marzo 2000, n. 58, a proposito delle attività di logistica, distingue tra servizio commerciale e servizio industriale, ricorrendo il primo nel caso di mera intermediazione tra il produttore e il distributore finale. 205 V. Cass. 25 marzo 2015, n. 6012, in MGI, 2015, e prima ancora Cass. 5 marzo 2004, n. 4535, in MFI, 2004, 3, nonché Cass. 25 gennaio 2007, n. 1675, in MGI, 2007, 1. 206 V. l’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 148/2015.

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SEZIONE II – LA CODATORIALITÀ DE IURE CONDITO ET DE IURE CONDENDO

13. La codatorialità

13.1. La teoria della codatorialità Il ponte tra i modelli di tutela già normati e quelli proponibili (v. infra) è rappresentato dalla codatorialità nei termini che di seguito si vanno a precisare. La teoria della codatorialità207 — che ha trovato cittadinanza in altri ordinamenti208 — parte da un assunto per arrivare ad una conclusione209. L’assunto è la specialità delle tecniche di tutela predisposte dall’ordinamento in favore dei lavoratori coinvolti nei fenomeni di organizzazione del lavoro non tradizionale, ricomprendendo in tale espressione tutte le ipotesi in cui tra il lavoratore e il datore di lavoro formale si interpone a vario titolo un terzo soggetto. Tali tecniche di tutela differiscono a seconda che il fenomeno si manifesti in modo patologico o fisiologico, essendo peraltro a volte difficile individuare la linea di confine tra le due manifestazioni210. Alla tecnica di tutela della codatorialità211 non viene ricondotta l’ipotesi patologica di simulazione del rapporto di lavoro in capo a un soggetto per dissimulare quello esistente in capo ad un altro soggetto, normativizzata nel 1960, in relazione alla quale opera il meccanismo della imputazione del rapporto al reale datore di lavoro212. Viceversa, nelle ipotesi di manifestazione fisiologica del fenomeno, che vede il suo campo elettivo nel lavoro prestato all’interno dei gruppi di imprese, all’interrogativo “chi è il datore di lavoro?”213 si risponde che sono (co)datori di lavoro tutti i soggetti ai

207 Un riferimento già in Natoli A., 1979, I, 414 ss. 208 Per una analisi comparata v. De Luca Tamajo, 2007, 16; Perulli, 2007, 30. Sull’esperienza statunitense v. Speziale 2010, 12 ss. ed ancor prima Corazza, 2004, 227. Con specifico riferimento all’esperienza francese, ed in particolare al groupements d’employers v. Barbera, 2010, 53; Belardi, 2015, 282-287. Sulla codatorialità d’Oltralpe e d’Oltremanica v. Ratti, 2012, 309 ss. (responsabilità vicaria inglese) e 311 ss. (coemployeurs francesi). 209 Speziale, 2006; Idem, 2010; Razzolini, 2009; Corazza, 2009; Raimondi, 2012; Pilati, 2015, 149 ss.; Treu, 2015; Belardi, 2015, 275 ss. Nutrita è la schiera di quelli che non la condividono tra i quali si segnalano Nogler, 1994; Carinci M.T., 2007; Barbera, 2010; Pinto, 2010; Nicolosi, 2012; Alvino, 2014; Biasi, 2014; Borelli, 2014; Ratti, 2015. 210 Sul differente approccio, specie da parte della giurisprudenza, nel caso di situazioni patologiche, ovvero fisiologiche, v. Greco, 2013, 134 ss. 211 Per la codatorialità non solo tecnica rimediale, ma anche «opportunità, implicante una chiara assunzione delle responsabilità datoriali, che può essere consapevolmente scelta», v. Pilati, 2015, 152. 212 Speziale, 2010. 213 Nogler (1994, 208), intitolando il paragrafo «A la recherche de l’employer perdu», in relazione al lavoro prestato nel gruppo di imprese richiama il pensiero di Vardaro (1989, 109 ss.) secondo cui «consegue una diversa inquadratura della stessa fattispecie portante del diritto del lavoro, dal momento che il punto di osservazione risiede non tanto nell’analisi della “mutazione antropologica del lavoratore subordinato”, quanto in quella dell’evoluzione della posizione e della nozione di datore di lavoro, “sul cui interesse creditorio è modulata la presa in considerazione della persona del lavoratore subordinato da parte dell’ordinamento giuridico statale”». La ricerca del datore di lavoro, secondo Barbera (2010, 16), non sarebbe influenzata dal fenomeno della smaterializzazione dell’impresa atteso che «dall’impresa si risale pur sempre ad un soggetto giuridico, sia esso singolo (l’imprenditore) o collettivo (la società o il gruppo) e non si è smaterializzata neppure come luogo in cui si svolge il lavoro umano si forma l’identità sociale della persona, né come luogo di esercizio dei diritti». Peraltro, la domanda sembrerebbe addirittura “oziosa”, atteso che, sempre secondo Barbera (2010, 24) «per il codice, non solo non importa chi sia il datore di lavoro, ma non importa neppure chi sia il datore di lavoro effettivo, nel senso di effettivo utilizzatore della prestazione, a meno ché non vi siano finalità fraudolente (art. 1344 c.c.),

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quali è riconducibile l’organizzazione in cui è inserito il lavoratore214. Si tratta, quindi, di una tecnica rimediale215 a valenza generale, con una amplificazione del principio di effettività, a cui attinge il diritto del lavoro, in forza di specifiche coordinate normative (si pensi alla indisponibilità del tipo contrattuale ovvero alla repressione dei fenomeni interpositori). Quindi, per codatorialità si intende la imputazione o la imputabilità stabile e perdurante del rapporto di lavoro a più soggetti, formalmente autonomi, quali imprenditori216 che, per collegamenti societari o per integrazione contrattuale,217 possono essere considerati codatori e quindi rispondere congiuntamente delle obbligazioni rivenienti dal contratto di lavoro; alla tradizionale coppia binaria del rapporto di lavoro (datore / lavoratore)218 si sostituisce la presenza dal lato del creditore di lavoro di una pluralità di soggetti (una sorta di job sharing a parti invertite e cioè un master sharing219).

13.2. Le varie nozioni di codatorialità Prima di esaminare le critiche opposte a tale teoria e i problemi che essa pone, giova evidenziare che in assenza di una definizione legale220 anche dopo l’intervento legislativo del 2013, l’elaborazione sul tema ha prodotto una serie di nozioni a seconda dell’angolo prospettico utilizzato. Una prima lettura distingue tra codatorialità in senso debole e in senso forte.

simulazione (art. 1414 c.c.), ovvero specifici divieti», tanto che «superato il divieto generale di interposizione di manodopera, è stato possibile al legislatore tornare all’art. 2094 e rinviare anche per il lavoro somministrato a terzi alla disciplina tipica del lavoro subordinato». Sempre con riferimento alla domanda “chi è il datore di lavoro?” cfr. Ratti (2016, 383) secondo il quale nel dialogo diacronico delle relazioni presentate al convegno AIDLASS di Trento del 1999 e di Catania del 2009, l’interrogativo «di chi sei dipendente?» avrebbe perso centralità, facendo «sorgere la questione di determinare quali siano le esigenze di tutela connesse al trattamento in concreto applicabile al prestatore di lavoro e chi siano i soggetti obbligati a garantire per esso». Ancor prima Ratti (2012, 307 ss.) sottolineava l’importanza delle trasformazioni del capitalismo e dell’organizzazione produttiva per dare risposte all’interrogativo «di chi sei dipendente?», donde la teoria della codatorialità. 214 De Simone, 1995; Eadem, 2015; Speziale, 2006; Idem, 2010; Razzolini, 2009; Raimondi, 2012; Esposito, 2014; Ciucciovino, 2014. Sulla peculiare definizione di datore di lavoro contenuta nel d.lgs. n. 81/2008, indipendente dalla tipologia contrattuale, e concentrata sul contatto tra il soggetto protetto e l’ambiente lavorativo in cui si viene a trovare v. ancora Speziale, 2010, 17 ss. 215 Contra Chieco (2015, 212), secondo il quale «la codatorialità è una tecnica positiva di formale legittimazione ex ante di più soggetti partecipi di un contratto di rete all’utilizzazione delle prestazioni di lavoro acquisite mediante uno speciale contratto di lavoro e non più uno strumento per sanzionare ex post l’utilizzazione promiscua delle prestazioni lavorative». 216 Speziale (2006, 44) esclude la codatorialità «nei casi in cui il committente sia una persona fisica che non esercita attività professionale o di impresa, perché in questo caso, anche se vi sono relazioni di mercato, non sussistono le condizioni che giustificano una tutela speciale dei lavoratori dell'appaltatore. Ed ovviamente l'esclusione deve operare anche in tutti i casi in cui il fornitore sia una persona fisica senza addetti alle proprie dipendenze». 217 Speziale, 2006, 43 ss.; Alessi, 2015, 94. Contra Alvino (2014, 117 ss.), che ricostruisce i rapporti tra lavoratore e potenziali codatori come più contratti di lavoro subordinato bilaterali. 218 Nicolosi, 2012, 58 ss. Per contro, Speziale (2010, 72 ss.) attinge alla definizione enucleata dalla giurisprudenza comunitaria sull’art. 39 TCE in materia di libera circolazione, per identificare la codatorialità anche nei confronti della impresa che promuove il decentramento produttivo in ambito comunitario. 219 Biasi, 2014, 19; Tursi, 2015, 119. 220 Mazzotta (2013, 19) sottolinea l’assenza di una nozione legale di codatorialità con tutto ciò che ne consegue in termini di riconduzione ad essa dei vari fenomeni in cui entra in crisi la tradizionale bilateralità del rapporto di lavoro subordinato.

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Quest’ultima ricorre nel caso di impiego cumulativo e promiscuo del lavoratore da parte di vari datori di lavoro, come accade nelle imprese di gruppo e da ultimo nelle reti di impresa, con contitolarità del rapporto di lavoro; in tale accezione la codatorialità impatta con la struttura bilaterale del rapporto di lavoro, imputandosi quest’ultimo a più soggetti tra di loro solidalmente responsabili221. Viceversa, alla codatorialità in senso debole sono riconducibili sostanzialmente tre ipotesi; la prima ricorre quando v’è una distribuzione atipica dei poteri fra datore (formale) e utilizzatore (sostanziale); la seconda si ha quando ad un terzo che intrattenga relazioni commerciali col datore di lavoro vengono accollati oneri economici a favore dei dipendenti di quest’ultimo (solidarietà)222; la terza ricorre quando il lavoratore si muove all’interno dei gruppi societari; in questo caso, l’impiego del lavoratore può essere alternativo, e cioè, pur permanendo la titolarità del rapporto in capo ad una determinata società, il lavoratore può essere distaccato presso società collegate. Sostanzialmente, in questa nozione “debole” di codatorialità rientrano tutte le ipotesi legalmente previste di scissione tra chi assume il lavoratore e chi lo utilizza, nelle quali si crea un disallineamento tra la posizione formale di datore di lavoro e il creditore della prestazione. Ancora, la codatorialità può essere intesa come formula descrittiva o prescrittiva; nel primo caso è descrittiva di un determinato istituto di diritto positivo (utile anche per colmare lacune normative), ad esempio, nel caso della somministrazione (ove c’è una scissione autorizzata tra datore e utilizzatore)223, del distacco (resta anche in questo caso distinta la posizione dei due soggetti implicati), degli appalti (ove opera, per garantire il lavoratore, il meccanismo della responsabilità solidale, senza alterare la struttura binaria del rapporto di lavoro)224. L’espressione è, quindi, utilizzata a fini meramente descrittivi, in quanto è la legge ad escludere la riconducibilità del rapporto di lavoro a più soggetti225. Più problematico è il discorso relativo alle organizzazioni di lavoro complesse per le quali la nozione di codatorialità assume valenza prescrittiva, cioè tale da delineare uno statuto protettivo (ma non solo) per il lavoratore che in esse si trovi ad operare226.

13.3. La giuridificazione della codatorialità Il quid novi rispetto alla enunciazione della tesi della codatorialità è rappresentato ratione temporis dall’intervento legislativo del 2013 (d.l. n. 76/2013, cit.)227, con l’intenzione di favorire la mobilità del personale all’interno del nuovo modello di impresa in rete228; si fa riferimento nello specifico all’art. 30, d.lgs. n. 276/2003, in tema

221 Mazzotta, 2013, 19; De Simone, 1995, 13; Nicolosi, 2012, 63-64 [secondo la quale la ricostruzione binaria troverebbe addentellato anche nella giurisprudenza comunitaria (CGUE 21 ottobre 2010, causa C-242/09, in RIDL, 2011, II, 470 ss.)]; Raimondi, 2012, 307. Secondo Speziale (2006, 37-39), la codatorialità «può essere realizzata senza mutare la struttura del rapporto di lavoro». 222 De Luca Tamajo, 2007, 16. 223 Nella somministrazione il legislatore ha disciplinato la scissione distribuendo poteri, responsabilità e tutele, ed escludendo che durante il periodo di missione possa insorgere una coimputazione del vincolo; così Corazza, 1999a; Ichino, 2000; Niccolai, 2003. 224 Carinci M.T., 2008, 14. 225 Niccolai, 2016, 163 ss. 226 Mazzotta, 2013, 20. 227 Si tratta secondo Perulli (2014, 492) di un disposto che nella sua estrema sinteticità lascia insoddisfatti per molteplici motivi; ciononostante, secondo Chieco (2015, 206 ss.), l’introduzione del «regime “legale”» di codatorialità per le imprese in rete, al pari dell’assunzione congiunta, rappresenta un vero e proprio cambio di rotta del diritto del lavoro, testimonianza di quella stratificazione normativa di cui ha parlato in passato Gino Giugni. 228 Greco, 2014, 380. Treu (2015, 8) nel ricordare che prima dell’intervento del 2013 l’impiego del personale da parte di imprese diverse, anche partecipanti a un contratto di rete, è stato regolato per lo più

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di distacco, che al co. 3-ter, con una disposizione che non ha nulla a che vedere con il distacco229, prevede la codatorialità dei lavoratori «ingaggiati»230 con regole stabilite attraverso il contratto di rete231. Alla codatorialità sembra far riferimento anche il successivo art. 31, che consente l’assunzione congiunta di lavoratori per lo svolgimento di attività da parte di imprese agricole appartenenti allo stesso gruppo, ovvero da imprese legate da un contratto di rete, quando almeno il 40% di esse sono imprese agricole232. Tale intervento, si sostiene, esplicita una possibilità già esistente nell’ordinamento, escludendosi che viga il principio (come vincolo di sistema) della unicità del datore di lavoro233. La norma del 2013 ha quindi un valore confermativo e promozionale234 e trasforma la codatorialità da rimedio giudiziario235 a strumento ordinario di gestione delle risorse umane all’interno delle reti236. L’intervento legislativo del 2013 ha suscitato un ampio dibattito che non accenna a placarsi e che ha prodotto a livello sistemico tre ipotesi interpretative. La prima valorizza detto intervento che legittimerebbe nel nostro ordinamento il rapporto di lavoro unico con una pluralità di datori, riconducibile alla figura delle obbligazioni soggettivamente complesse237, ovvero alla prestazione cumulativa238. Il

con il ricorso agli istituti del distacco, del comando, o del prestito di manodopera, elaborati dalla giurisprudenza e precisati dal legislatore nel 2003, ne ha evidenziato l’inadeguatezza, per le loro caratteristiche strutturali, a soddisfare le necessità espresse dalle aziende in rete. 229 V. anche De Michele (2013, 71) che utilizza la locuzione «codatorialità da “distacco”». 230 Secondo Alessi (2015, 99) «quando la legge parla di dipendenti “ingaggiati” fa riferimento non solo ai lavoratori (subordinati e autonomi) i cui contratti di lavoro sono conclusi specificamente per l’attuazione del programma, ma anche ai dipendenti delle singole imprese che vengano destinati a svolgere la loro prestazione a favore della rete attraverso l’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, senza che ciò comporti una novazione del rapporto di lavoro». 231 La scarsa diffusione della codatorialità tra le imprese in rete, nonostante la diffusione di quest’ultimo fenomeno, è evidenziata da Alvino, 2016, 761. 232 Secondo Biasi (2014, 7-8) l’intervento legislativo del 2013 ha elevato la codatorialità a «elemento di sistema», ma in assenza di definizione e di regolamentazione. Sul rapporto tra le due norme, peraltro, le posizioni non sono uniformi, giacché vi è chi individua nella codatorialità una vera e propria contitolarità del rapporto e nell’assunzione congiunta una mera condivisione degli oneri burocratici-amministrativi connessi all’assunzione dei lavoratori (Alessi, 2015, 93; Carinci M.T., 2015, 32 ss.; Chieco, 2015, 208 ss.), e chi li legge come istituti analoghi ed equivalenti (Alvino, 2014, 141; Perulli, 2014). 233 Razzolini, 2013, 33. Sulla scomposizione dell’unicità della figura datoriale, vero “classico” del diritto del lavoro, v. Nicolosi, 2012, 10. 234 Treu, 2015, 13. 235 V. Cass. n. 25270/2011 ed ancor prima la n. 4274/2003. A proposito di quest’ultima pronuncia Greco (2013, 125 ss.) ritiene che il Supremo Collegio consideri il collegamento economico – funzionale tra le imprese gestite da società del medesimo gruppo di per sé non sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti a un rapporto di lavoro con una sola delle società siano estensibili anche alle altre, se non quando sia possibile provare l’esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. La Corte avrebbe accolto quell’orientamento dottrinario secondo cui «può esserci un’impresa unitaria senza esserci un soggetto altrettanto unitario» (Galgano, 2004, 686), pur senza giungere ad una compiuta elaborazione che rivede la subordinazione in chiave di possibile contitolarità nel contesto dell’impresa di gruppo, richiamando semplicemente la responsabilità solidale. 236 Tursi, 2015, 119. 237 Greco, 2014, 397 s.; naturalmente da questa impostazione deriverebbe, secondo l’A., che «nel caso in cui uno soltanto dei datori in rete risolve il contratto di lavoro, il rapporto si estingue». V. anche Perulli, 2014, 492. 238 Biasi, 2014, che intravede nella codatorialità, ex art. 30, co. 4-ter, d.lgs. n. 276/2003 un’ipotesi di «pluralità di negozi tra loro collegati ed in rapporto di principalità-accessorialità», individuando nel contratto di assunzione originario il logico antecedente dei rapporti obbligatori, accessori o ausiliari, del lavoratore con le altre imprese retiste.

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legislatore del 2013 non ha dettato la disciplina della codatorialità, rimettendola alla normatività privata239 e quindi al contratto di rete (o meglio alle regole di ingaggio stabilite attraverso il contratto di rete240). Quindi, l’autonomia privata può configurare la codatorialità in termini di obbligazione soggettivamente complessa, promanante da un unico contratto di lavoro, anziché (ma ciò resta possibile) come pluralità concorrente di contratti. Tale configurazione determina un potere direttivo distribuito tra tutti i codatori: una sovranità diffusa in luogo della tradizionale monarchia241. Una diversa posizione, agganciandosi alla ricorrenza delle specifiche condizioni previste dalla norma, ne fa derivare che l’intervento del 2013 confermerebbe l’esistenza della regola generale, secondo cui il rapporto di lavoro non può essere complesso, ma al più plurimo, relegando la codatorialità (ma anche la contitolarità per le imprese agricole) al rango di eccezione a questa regola242. In posizione minoritaria, ma sostanzialmente adesiva a quest’ultima tesi, v’è chi sostiene che il legislatore abbia utilizzato il concetto di codatorialità non nel senso di contitolarità del rapporto, bensì «quale modalità di declinazione del distacco, specificamente un’ipotesi di distacco “a parte complessa” nel contesto di un contratto di rete»243. La contiguità tra codatorialità e distacco è peraltro evidenziata dalla lettura del dato normativo. La compenetrazione tra i due istituti può argomentarsi a partire dalla sedes materiae in cui è collocata la disciplina della codatorialità, inserita nell’art. 30, d.lgs. n. 276/2003 e non nell’art. 31; inoltre tra codatorialità e distacco v’è in comune l’automatica sussistenza dell’interesse del distaccante in forza dell’operare della rete. A tali elementi si aggiunga, altresì quello della temporaneità che caratterizza intrinsecamente il distacco e la codatorialità, ove quest’ultima si caratterizza quale modalità di declinazione del primo. L’elemento di distinzione tra i due istituti, parafrasando la circolare del Ministero del lavoro n. 35/2013, consiste nella possibilità che rispetto al «personale ingaggiato» «il potere direttivo (possa) essere esercitato da

239 «Perno della riforma», secondo Sitzia, 2015, 230-235, Sul punto v. Emiliani (2015, 197 ss.), secondo il quale in tema di codatorialità emerge preponderante il nuovo ruolo riconosciuto generalmente ai privati quali produttori di diritto (appunto la c.d. normatività privata), pratica applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale ed effetto della c.d. abstention of the law o della materiale incapacità dello Stato a governare determinati fenomeni. In materia di codatorialità il legislatore quindi, ha affidato ai privati la disciplina delle regole, «dettata non già dall’esigenza di una degiuridificazione, ma dalla diversa esigenza di assicurare, in una materia nella quale l’efficienza la fa da padrone qual è indubbiamente quella delle reti di imprese, la produzione di un diritto efficiente» (201-202). Di contrario avviso è Perulli (2014, 500), secondo il quale la codatorialità non implica rinvio in bianco alle capacità dell’autonomia privata, dovendo «filtrare i valori e i principi dell’ordinamento, nonché le soluzioni tecniche individuate dalla dottrina». 240 Il riferimento all’ingaggio potrebbe essere segnale di possibilità applicative della codatorialità anche al di fuori dello schema del 2094 c.c. (per tutti, Alessi, 2015, 99) e quindi anche riferita ai collaboratori, nonché ad un momento successivo a quello della originaria assunzione. E tuttavia il termine potrebbe far semplicemente riferimento all’impiego dei lavoratori (la norma parla chiaramente di “dipendenti ingaggiati”) oltre che forse rendere in italiano il francese ‘engagé’, nella suggestione della disciplina francese della codatorialità. 241 Tursi, 2015, 120. 242 Tursi, 2015, 121; Alvino, 2014, 141, per il quale «il contratto di lavoro subordinato con pluralità di datori di lavoro […] costituisce, invece, un “contratto di lavoro subordinato speciale». Un contratto, in altri termini, dotato di una propria autonomia tipologica rispetto al contratto di lavoro subordinato bilaterale enunciato dall’art. 2094; e già, prima dell’introduzione della norma, Pinto, 2013, 67: «Allorché il legislatore è intervenuto a regolare questa o quella situazione riconducibile ai fenomeni di integrazione produttiva, infatti, lo ha sempre fatto riconoscendo che anche l’operatore economico sottordinato svolge una reale e concreta funzione imprenditoriale (per di più, giuridicamente rilevante). E ciò vale anche sotto il profilo dell’organizzazione e della gestione dei dipendenti; i quali, quanto meno dal punto di vista giuridico, non possono essere affatto considerati quali «terminali produttivi» dell’impresa capofila». 243 Peruzzi, 2015a, 265.

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ciascun imprenditore che partecipa al contratto di rete»244. A questa tesi, non restrittiva al pari della seconda, ma “negazionista”, si obietta che lascerebbe totalmente scoperto il fenomeno, pur esistente nella realtà, dell’uso promiscuo di lavoratori e dell’esercizio promiscuo del potere direttivo sui dipendenti, anche al di fuori di reti o gruppi di impresa245. Di poco successivo all’intervento legislativo in parola è una recente pronuncia del Supremo Collegio, in tema di distacco nei gruppi di imprese, dalla quale si è desunto il superamento della regola imperativa che individua come datore di lavoro quello “sostanziale”, lasciandosi ai soggetti che partecipano della struttura complessa la scelta se assumere congiuntamente il lavoratore, divenendo codatori formali, oppure optare per il distacco con una ripartizione delle posizioni giuridiche contrattuali tra il datore di lavoro formale e quello o quelli sostanziali che utilizzano il lavoratore. L’effetto è quello di elevare a regola generale la scelta da parte dei partecipanti all’organizzazione complessa di scegliere a chi imputare le posizioni soggettive proprie del datore di lavoro246. Di contrario avviso è chi ritiene la norma sul distacco nelle reti di imprese norma speciale non elevabile a regola generale per tutte le organizzazioni plurisoggettive247. Oltre che per le ricadute sul piano sistemico non v’è unanimità neanche in relazione all’interpretazione delle nuove disposizioni, in ragione della diversa espressione utilizzata dal legislatore nelle due norme, disquisendosi circa la sovrapponibilità248 o meno249 dei due concetti di codatorialità e di assunzione congiunta. La diversità tra le due fattispecie viene ricondotta alla fonte, nel senso che nella codatorialità, ex art. 30, cit., si è in presenza di una struttura più complessa, consistente nel collegamento tra un contratto di rete e un contratto di lavoro250; viceversa, nel caso dell’assunzione congiunta ex art. 31, cit., si è in presenza di un contratto di lavoro con una pluralità di parti a latere datoris251. In tale ipotesi il lavoratore instaura un rapporto di lavoro con una pluralità di datori sotto il profilo sia formale, sia sostanziale, che

244 Peruzzi, 2015b, 20 ss. 245 Tursi, 2015, 121, che definisce la tesi «semplificatrice». 246 V. Cass. n. 8068/2016. Ancor prima, si era espressa in questi termini Razzolini, 2014b, 693; Cagnin (2015, 279 ss.), secondo la quale la possibilità di estensione della codatorialità al distacco infragruppo trovava conforto nell’interpretazione dell’introduzione della codatorialità quale tentativo del legislatore di andare oltre la sfera del datore di lavoro formale fino a ricomprendere tutti i datori di lavoro sostanziali consentendo di garantire maggiori tutele ai lavoratori coinvolti, v. anche Pinto, 2013, 55 ss.; nonché Razzolini, 2013, 50. A livello giurisprudenziale, l’A. segnala un atteggiamento ondivago (prima ovviamente della pronuncia del 2016), diversamente da quanto accade oltralpe in relazione al co-emploi. 247 Carinci M.T., 2016, 738, nonché Esposito, 2016, 753, secondo cui il riferimento alla rete da parte dell’art. 30, co. 4-ter, d.lgs. n. 276/2003, «segni un ambito preciso e non un’apertura indistinta – quasi un disinvolto abbrivio per nuove flessibilità gestionali – a rilievo lavoristico di qualsivoglia cointeressenza economica fra imprese». 248 Perulli, 2014, 502; Alvino, 2015, 223 ss. In giurisprudenza, v. Cass. n. 8068/2016. 249 Biasi, 2014, 117; Greco, 2014, 380; Alessi, 2015, 90-93 (codatorialità e assunzione congiunta come istituti distinti ma potenzialmente cumulabili); Chieco, 2015, 208-209: Peruzzi, 2015a, 257; Idem, 2015b, 12 ss.; Sitzia, 2015; Romei, 2016, 519. 250 Romei, 2016, 519; Maio, 2016. Ma v. anche Peruzzi, 2015a, 258-269, nonché Idem, 2015b, 15 ss., che fa discendere la distinzione tra fattispecie da altri fattori, come l’affidamento della disciplina in un caso alla contrattazione e nell’altro alla decretazione ministeriale, ovvero la qualificazione dell’assunzione congiunta, diversamente dalla codatorialità, come contitolarità del rapporto e non semplice istituto funzionale ad adempimenti burocratico – amministrativi, oppure l’immediata operatività della codatorialità. 251 Secondo Chieco (2015, 208-209) «con l’assunzione congiunta, quindi, ci troviamo di fronte alla tipizzazione normativa di una fattispecie ascrivibile alla (discussa) categoria del contratto plurisoggettivo di scambio caratterizzato dalla presenza di più parti senza che, tuttavia, sussista una comunione di scopo, una finalità comune capace di unificare gli interessi diversi delle parti medesime».

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rispondono in solido delle obbligazioni contrattuali, previdenziali e di legge, che scaturiscono dal rapporto di lavoro. La condizione fissata dalla legge è il collegamento tra le imprese agricole che procedono all’assunzione congiunta, rinvenibile o dall’appartenenza allo stesso gruppo252, o dall’identità proprietaria (stesso proprietario o soggetti legati da un vincolo di parentela o affinità entro il terzo grado), ovvero infine dal contratto di rete (ma in questo caso con presenza anche di imprese non agricole nel limite massimo del 60%). Interessante è la modalità di comunicazione dell’assunzione congiunta, che fa capo nei gruppi alla capogruppo, nella monoproprietà al proprietario, ed infine nelle restanti ipotesi delle “imprese di famiglia” e in rete al soggetto ad hoc individuato in base ad uno specifico accordo253 o dal contratto di rete254. Sugli stessi soggetti ricadono gli adempimenti previdenziali255. Dovendo optare tra la sovrapponibilità o meno delle due espressioni utilizzate dal legislatore, va detto che milita in senso negativo il criterio ermeneutico secondo cui tra due possibili interpretazioni di una norma deve essere privilegiata quella che dà un senso alla stessa, legittimandone l’esistenza; appare chiaro che la tesi della sovrapponibilità priva totalmente di significato la seconda disposizione con l’aggravante che se fosse sovrapponibile concettualmente introdurrebbe una inspiegabile e ingiustificabile limitazione, prevedendo la presenza di almeno il 40% di imprese agricole. A tale argomento se ne può aggiungere uno ulteriore, ricavabile dal nesso che esiste tra il co. 3-ter e il co. 3-bis, che prevede la possibilità di assunzione congiunta da parte di imprese agricole tra loro collegate a livello proprietario, per cui il successivo co. 3-ter rappresenta l’estensione alle imprese in rete della facoltà prevista nel co. 3-bis, ma a condizione di una presenza “agricola” nella rete. La diversità tra le due fattispecie si riverbera sulle conseguenze riconducibili all’utilizzazione di uno schema piuttosto che l’altro; e infatti, mentre nell’assunzione congiunta la legge prevede la responsabilità solidale a carico dei datori di lavoro, parte del contratto, nulla dice per la codatorialità, pur se la responsabilità solidale dovrebbe discendere in maniera automatica dall’assunzione della posizione di datore di lavoro256. Circa l’ambito soggettivo di operatività della responsabilità solidale tra le imprese in rete, in caso di assunzioni congiunte, si pone l’interrogativo se la stessa ricade su tutte le imprese in rete o solo su quelle che procedono all’assunzione congiunta, come previsto dall’art. 31, co. 3-quinquies, d.lgs. n. 276/2003. A tale riguardo, lo stesso Ministero del lavoro ha escluso una solidarietà “automatica” tra tutti i partecipanti al contratto di rete, dovendo rifarsi ai contenuti dello stesso257.

252 Per la nozione di gruppo di impresa la norma rinvia all’ipotesi del collegamento/controllo ex art. 2359 c.c., nonché alla nozione di gruppo di imprese enunciata nella normativa in materia di istituzione di un CAE (dir. 2009/38/CE, attuata con il d.lgs. 22 giugno 2012, n. 113, in sostituzione del d.lgs. 2 aprile 2002, n. 74, attuativo della dir. 94/45/CE ). 253 L’accordo deve essere depositato presso una associazione di categoria che va individuata nella denunzia aziendale presentata dal referente unico (v. circ. INPS 2 luglio 2015, n. 131). 254 V. l’art. 2, d.m. 27 marzo 2014; d.d.g. 28 novembre 2014, e 4 dicembre 2014, nonché circ. Min. lav. 6 maggio 2015. 255 V. circ. INPS 2 luglio 2015, n. 131, che definisce tale soggetto «referente unico». 256 Greco, 2014, 398. 257 V. circ. Min. lav. n. 35/2013, letta da Alvino (2016, 763) nel senso della possibile esclusione ad opera del contratto di rete della responsabilità solidale dei codatori, il che colliderebbe con la previsione sub art. 31, co. 3-quinquies, d.lgs. n. 276/2003; lettura contraddetta dal chiaro riferimento della circolare «a tutti i partecipanti al contratto» (v. anche le critiche di Perulli, 2014, 501). Le posizioni della dottrina sono tuttavia, quanto all’ambito ed alle possibilità regolative del contratto di rete e dell’ingaggio, tutt’altro che uniformi; rispetto a chi ritiene la norma – e l’interpretazione ministeriale – come una delega in bianco alle geometrie variabili determinate dai codatori, altra parte della dottrina, invece, pone come conseguenza della duplicità della posizione soggettiva dal lato datoriale la condivisione delle responsabilità in materia

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Al di là delle questioni interpretative evidenziate, si pone il quesito se queste due norme abbiano tipizzato il fenomeno della codatorialità, sostenendosi che essa è stata “nominata”, più che tipizzata; l’art. 30, comma 4-ter, riconduce la codatorialità all’esercizio del solo potere direttivo e non invece alla contitolarità del rapporto nel suo complesso, a differenza di quanto accade nell’art. 31, comma 3-quater. Perciò la facoltà del contratto di rete di regolare la codatorialità va intesa come diretta a stabilire quale tra i vari datori di lavoro in rete sia abilitato all’esercizio del potere direttivo come può desumersi dalla natura permissiva della disposizione258.

13.4. Le critiche alla teoria della codatorialità Le critiche alla teoria della codatorialità non sono venute meno neanche dopo l’intervento del 2013 testè riassunto, anzi hanno paradossalmente tratto da esso nuova linfa. Le obiezioni mosse alla teoria della codatorialità, pur nella loro varietà, possono essere sintetizzate, richiamando il pensiero di Mazzotta259, il quale parte dalla constatazione che i fenomeni di integrazione tra cicli produttivi portano in emergenza il gap che esiste tra la dimensione economica e quella giuridica del fenomeno; sotto quest’ultimo profilo rileva l’esistenza di un interesse organizzativo aziendale condiviso da più imprese che trascende la pluralità di contratti e la soggettività giuridica delle singole imprese. Discendono dalla proiezione giuridica del fenomeno una serie di questioni sintetizzabili in quattro interrogativi e cioè: qual è il grado di integrazione tra i codatori; qual è la distribuzione tra i codatori dei poteri tradizionali attribuiti al datore di lavoro; quali effetti si riverberano sul trattamento dei lavoratori; quali sono gli schemi giuridici che possono consentire di inquadrare sistematicamente la fattispecie, tenuto conto della specificità delle singole ipotesi di codatorialità. L’obiezione di fondo che l’A. oppone alla tesi della codatorialità è di carattere sistematico, in quanto «la materia è il terreno di elezione della distinzione, più che della ricerca di un denominatore comune o di un comune filo conduttore che consenta di riannodare fili altrimenti sparsi. In buona sostanza, occorrerà discettare di una pluralità di codatori, a seconda delle diverse esigenze economiche che la scelta della codatorialità intende soddisfare e, soprattutto, alla luce degli strumenti giuridici utilizzati allo scopo»260. Sulla base di questa premessa, Mazzotta critica la tesi di Speziale, qualificandola «un coraggioso sforzo» per dare una risposta strutturata a tali problematiche, definendo prescrittivamente i tratti fondanti della codatorialità, facendo leva, da un punto di vista civilistico sul collegamento negoziale e da quello lavoristico rivisitando il concetto di

di salute e sicurezza e la responsabilità congiunta per crediti pecuniari; per questi Autori, le regole di ingaggio potrebbero riguardare solo i profili funzionali della prestazione resa a favore della rete o i modi di impiego congiunto dei lavoratori (Alessi, 2015, 89; Chieco, 2015, 211); secondo una terza posizione la solidarietà nel debito prevista come ineludibile nel caso di assunzione congiunta troverebbe nella codatorialità il valore di regola, suscettibile di incontrare limitazioni pattizie nel regime di responsabilità concretamente individuato da parte dei retisti, fermo restando che le regole stabilite nel contratto di rete dovrebbero in ogni caso - salvo a trovare regolamentazione nell’autonomia collettiva - essere portate, e quindi accettate, nel contratto individuale di lavoro (Sitzia, 2015, 240; Biasi, 2014, 145; Zoppoli L., 2015, 211 s. che valorizza una lettura del contratto di rete come contratto normativo o da riportarsi all’autonoma categoria del “terzo contratto”). 258 Ratti, 2015, 166; Greco, 2014, 398-399; Peruzzi, 2015a. 259 Mazzotta, 2013. 260 Mazzotta, 2013; ma ancor prima Idem, 1988, 362; Nogler, 1994, 223. Secondo Ratti, 2015, 165, la prospettiva codatoriale deve rispondere ad una logica funzionalistica per la quale essa si connota in guise differenti, a seconda del contesto e dei fini che l’ordinamento intende realizzare; la codatorialità può richiamarsi per la soluzione del caso concreto, ossia per estendere la portata di taluni schemi giuridici al ricorrere di elementi specifici.

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subordinazione, onde riadattarlo alle strutture economico – organizzative complesse col risultato di non mettere in discussione l’imputazione formale del rapporto, ma estendendola ad un altro soggetto (il codatore). Secondo Mazzotta, la teoria della codatorialità, più che ancorabile al presente, è proiettabile sul futuro261, potendo costituire la base per un nuovo modello di normazione meno legata agli elementi fondanti della materia262. Quanto accaduto a livello normativo nel 2013 sembrerebbe dar ragione a Mazzotta, visto che per poter parlare di codatorialità c’è stato bisogno di un intervento legislativo nel 2013, peraltro circoscritto a due specifiche ipotesi, non potendosi elevare l’eccezione a regola o per confermare una regola che non c’è263. Ma la vera obiezione che Mazzotta oppone alla tesi della codatorialità è che la stessa rende “opaca” la distinzione tra appalto lecito e interposizione illecita264, estendendo a forme lecite di integrazione orizzontale del ciclo produttivo, ancorchè caratterizzate da una situazione di sottoprotezione sociale dell’impresa appaltatrice, le conseguenze sanzionatorie proprie dell’interposizione vietata, anzi va oltre, in quanto nell’interposizione vietata il datore di lavoro resta uno, e cioè quello sostanziale, viceversa con la codatorialità si ha un raddoppio della posizione del datore di lavoro265. Tutti coloro i quali attingono alla codatorialità come congegno rimediale, amplificano il principio di effettività utilizzato dal legislatore266, che ne predetermina gli effetti giuridici, nel caso sia di diversa qualificazione del rapporto, sia di diversa imputazione dello stesso; per cui l’ampliamento di tale principio oltre la previsione legale va assoggettato a ripensamento, in quanto più che recuperare sicurezze, produce nuove incertezze267. L’individuazione del datore di lavoro sostanziale va effettuata utilizzando l’armamentario messo a disposizione dell’ordinamento e non certo scalvacandolo268. Passando, poi, alla confutazione degli assunti posti a base della teoria della codatorialità, e partendo dal primo, e cioè il collegamento negoziale, Mazzotta esplicita le ragioni del suo dissenso in relazione al fenomeno dei gruppi di imprese. Preliminarmente, Mazzotta evidenzia la difficoltà di trasferire sul piano lavoristico lo schema del collegamento negoziale, come detto posto a base della tesi della codatorialità, che, viceversa, è utile a ricostruire i nessi che legano i contratti commerciali. La tesi della codatorialità non è in grado di superare il salto o il gap che esiste tra la dimensione economica e giuscommercialistica del fenomeno (che presuppone una causa unitaria e complessa dell’operazione) e la dimensione lavoristica

261 Tale valutazione sembra essere condivisa dallo stesso Speziale, 2013, 3 ss., quando, evidenziando la non rinviabilità della questione della codatorialità con riferimento ai gruppi di impresa genuini, auspica una legislazione speciale che a fini generali regoli la materia, sulla falsariga di altri Paesi quali Francia, Gran Bretagna e Canada. 262 In tal senso, ancor prima, v. Pinto (2010, 406), secondo il quale il ragionamento di Speziale sarebbe coerente de iure condendo, ma suscita perplessità de iure condito. Peraltro, sempre secondo Pinto, la tesi della codatorialità striderebbe con alcune previsioni normative al cui fondo v’è un forte intreccio tra diversi soggetti economici (es. artt. 4, co. 15-bis, 12, e 24, l. n. 223/1991; 31, d.lgs. n. 276/2003). Contra Speziale (2013, 10 ss.), secondo il quale le disposizioni in questione non sembrano tali da poter confutare la tesi della codatorialità, non essendo pensate per regolare ipotesi in cui il coordinamento tra soggetti economici si svolga con un’intensità tale da costituire un’impresa integrata secondo determinate caratteristiche. In replica v. ancora Pinto, 2013, 60-66. 263 Romei, 2016, 519; adesivamente Greco, 2014, 394. 264 Quadri, 2004, 227 ss. 265 Mazzotta, 2013; Romei (2016, 518) che richiama a tale riguardo il fenomeno della subfornitura. 266 Sul principio di effettività v. Barbera, 2010, 29. 267 Pinto, 2013; Niccolai, 2016, 164. 268 Pinto, 2013.

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che non può prescindere dall’autonomia formale e strutturale delle singole imprese implicate nell’affare269. La fragilità della tesi della codatorialità emerge prepotentemente proprio dalle riflessioni, come detto risalenti, del rapporto di lavoro nei gruppi di impresa, che non sono andate oltre una mera descrizione del fenomeno270. Non miglior fortuna hanno avuto le tesi del «soggetto unitario», che hanno valorizzato l’organizzazione del complesso imprenditoriale prescindendo dalla soggettività delle singole società271 e rischiando di far scivolare il rapporto di lavoro verso prospettive neo-istituzionaliste272. In ogni caso, i tentativi di individuazione all’interno dei collegamenti societari di un centro unitario di imputazione del rapporto di lavoro subordinato finiscono, come già detto, col rendere “opaca” la linea di confine tra fenomeni di gruppo leciti e fenomeni illeciti o fraudolenti; altrettanto fa rispetto a forme organizzative complesse perfettamente lecite, a fronte di una realtà caratterizzata da un moto pendolare tra accentramento e decentramento273. Ancora, la tesi della codatorialità rischia di accreditare prospettive comunitaristiche del rapporto di lavoro estranee alla nostra cultura274. A supporto di tali obiezioni, soccorre l’atteggiamento della giurisprudenza che ha optato per tecniche funzionaliste275, preservando lo schermo della soggettività giuridica delle varie società, senza avventurarsi sul terreno scivoloso della ricerca del datore di lavoro, cui imputare il rapporto di lavoro276. Nella sostanza o si è ipotizzato un uso promiscuo del lavoratore, oppure il collegamento societario è stato utilizzato al fine di individuare l’organico a cui agganciare l’applicazione di determinate discipline lavoristiche. In altri casi la giurisprudenza ha coinvolto nel rapporto di lavoro la società capofila, utilizzando indici empirici, quali a) l’unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) l’integrazione tra le attività esercitate tra le varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico e amministrativo finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese con uno svolgimento indifferenziato e contemporaneo in favore dei vari imprenditori. La rilevanza della soggettività giuridica dei soggetti coinvolti nelle organizzazioni di lavoro complesse caratterizza a ben guardare anche la disciplina dell’appalto, in relazione al quale emerge l’ipotesi vietata solo quando l’apporto dell’appaltatore (esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa) sia totalmente assente.

269 Mazzotta, 2013; v. anche Romei, 2016, 518 e 520, il quale minimizza la portata di Cass. n. 25270/2011, in ragione del rinvio da parte di quest’ultima all’art. 2497 c.c., che disciplina la responsabilità della società controllante nei confronti dei soci della controllata e non è estensibile alla imputazione del rapporto di lavoro. 270 Branca, 1965; Nogler, 1994, 208; con riferimento al profilo collettivo v. Lunardon, 1996. 271 Carabelli, 1991; Carinci F., 1991; Meliadò, 1991. Per una ricostruzione delle concezioni soggettiva ed oggettiva dell’imprenditore, anche con riferimento agli ordinamenti spagnolo, tedesco, inglese e francese, v. Nogler, 1994, 210 ss. 272 Mazzotta, 2013, 24. 273 Perulli, 2004a, 7-12; Mazzotta, 2013, 25. 274 Mazzotta, 2013, 25, secondo cui l’inerenza del rapporto di lavoro all’azienda e non alla persona del datore di lavoro, dedotta dall’art. 2112 c.c. e dal suo antecedente nella legge sull’impiego privato del 1924, che Speziale richiama a conferma della propria ricostruzione, era non a caso l’argomento forte della dottrina corporativo-istituzionalista del rapporto di lavoro. In tema v. Carinci F., 1983. 275 Barbera, 2010, 33. Sull’importanza dell’approccio funzionalistico nell’ideazione della codatorialità v. Alessi, 2015, 88. 276 Nogler (1994, 212-213) parla di «binario tendenzioso».

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Conseguentemente, la tesi della codatorialità rischia di contraddire il dato positivo277. Se quest’ultimo viene individuato nelle due disposizioni introdotte nel 2013 (d.l. n. 76/2013, cit.), la portata delle stesse va fortemente ridimensionata, con l’effetto che risulta preferibile ricondurre la codatorialità tra gli strumenti di regolazione del potere datoriale e se tali disposizioni attribuiscono il potere direttivo ad un soggetto diverso dal datore, la codatorialità finisce per assolvere alla funzione di “esimente”, integrando un’ulteriore eccezione, oltre a quelle della somministrazione e del distacco278, rispetto al divieto di dissociare la titolarità del rapporto e l’esercizio del potere direttivo279. Un diverso utilizzo dell’istituto, pensato a tutela del lavoratore potrebbe viceversa moltiplicare gli obblighi posti a carico dello stesso, e quindi indebolirne la posizione, manifestando una indesiderabile eterogenesi dei fini280. Con riferimento, poi al secondo assunto, e cioè la rivisitazione del concetto di subordinazione, per riadattarlo alle strutture economico – organizzative complesse, onde comprendere le obiezioni di Mazzotta conviene riepilogare la posizione di Speziale281. Secondo quest’ultimo, la codatorialità «non è una tecnica inconciliabile con la subordinazione o uno strumento incompatibile con mercati globali e competitivi, ma costituisce, al contrario, una risposta già sperimentata per contrastare la “perdita di senso” del diritto del lavoro a fronte dei nuovi processi di segmentazione dei processi produttivi»282. Il recupero del senso del diritto del lavoro, quindi, passerebbe attraverso l’attribuzione a soggetti estranei ai rapporti di lavoro della titolarità formale e sostanziale del contratto, riconoscendo la validità di una subordinazione di fatto. La causa unitaria e complessa dell’unico contratto derivante dal collegamento negoziale determina l’importazione degli effetti legali dei contratti di lavoro anche in capo al committente283. Per tentare di dimostrare questa tesi, Speziale attinge alternativamente a quelle di Ghera, relativa alla subordinazione – coordinamento, ovvero di Napoli, della subordinazione come inserimento nell’organizzazione altrui284, oppure ancora alla tesi di matrice giurisprudenziale (Corte cost. 12 febbraio 1996, n. 30 – relatore Mengoni) della subordinazione come doppia alienità, secondo cui la subordinazione «è determinata dal concorso di due condizioni che negli altri casi non si trovano mai congiunte: l’alienità (nel senso di destinazione esclusiva ad altri) del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è utilizzata, e l’alienità dell’organizzazione produttiva in cui si inserisce»285. A ben guardare, però, l’Autore ritiene sufficiente ricorrere alla teoria generale del diritto e al dibattitto sulla subordinazione, andando oltre la lettura fordista dell’art. 2094 c.c., con una interpretazione della disposizione orientata all’attuale situazione socio-economica, che implicherebbe una nozione plurale e non monista di subordinazione. Si tratterebbe di applicare all’art. 2094 c.c. il metodo tipologico funzionale, giungendosi ad affermare la possibilità di costituire il vincolo di

277 Romei, 2016, 517. 278 Sulla non riconducibilità del distacco e della somministrazione alla codatorialità v. Speziale, 2010, 71-72. 279 Chieco, 2015, 212, secondo cui fuori dalla fattispecie disegnata nel 2013 «la fattispecie che si configurerà non potrà che essere quella dell’utilizzazione indiretta delle prestazioni da parte dei soggetti diversi dal datore di lavoro: utilizzazione illecita ed irregolare, con applicazione delle relative sanzioni (ad es. somministrazione irregolare ma anche - ove concretamente configurabile - appalto privo dei requisiti richiesti), salvo che essa non risulti lecitamente formalizzata e concretamente strutturata in termini di distacco». 280 Ratti, 2015, 166-167. 281 Speziale, 2010, 54-58 e 65 ss. 282 Speziale, 2010, 54. 283 Speziale, 2010, che combina il canone lavoristico della subordinazione con il principio civilistico del collegamento negoziale; Raimondi, 2012. 284 Napoli, 1995. 285 Speziale, 2010, 58.

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subordinazione in capo all’imprenditore principale, anche se non esercita direttamente il potere direttivo, secondo un modello già consolidato a livello normativo (si pensi alla somministrazione o al distacco). In questa prospettiva, Speziale evidenzia la perdita di valore della direzione per finalità qualificatorie. Se si considera l’impresa integrata, poi, il potere direttivo sovente è esercitato dal soggetto utilizzatore della prestazione, che lo fa anche nell’interesse dell’impresa principale o committente che dir si voglia, con una sorta di utilizzazione delegata del potere direttivo, invero non incompatibile con le categorie civilistiche di riferimento (v. art. 1338 e 1392 c.c.), che induce ad invocare la c.d. contemplatio domini e cioè la esteriorizzazione al terzo lavoratore che il potere direttivo è esercitato in nome e per conto dell’impresa principale. Tale stato di cose non appare ostativo alla configurazione della codatorialità nell’impresa integrata, in quanto la condivisione degli assetti organizzativi e degli interessi coinvolti giustifica l’identità o la somiglianza tra disposizioni dell’impresa principale e direzione delle prestazioni lavorative, in quanto entrambe finalizzate a soddisfare esigenze comuni nell’impresa integrata286. Secondo Mazzotta, la tesi di Speziale (apparentemente) ancorata all’art. 2094 c.c.287, sia pure in una versione rivisitata, costituisce la tecnica antitetica della subordinazione che porta alla individuazione della interposizione con la quale condivide la stessa grammatica concettuale288. Ne è dimostrazione la svalutazione dell’esercizio del potere direttivo che viceversa costituisce il discrimen tra appalto e interposizione. La subordinazione, ancorché fondare la codatorialità, resta l’unico criterio selettivo per distinguere il vero datore di lavoro da quello fittizio289. Una conferma promana dalla giurisprudenza che ricava dall’art. 2094 c.c. il criterio identificativo della interposizione290. Obiezioni specifiche alla teoria della codatorialità vengono poi sollevate con riguardo al fenomeno dei gruppi di imprese, in relazione ai quali la stessa punta su tre concetti chiave. Il primo è quello della dipendenza economica o dell’impresa dominante291, ma la normativa che se ne occupa (subfornitura) afferisce ad una relazione tra imprese di cui riafferma l’autonomia, ancorchè l’una economicamente dipendente dall’altra, che la teoria della codatorialità di fatto invece esclude292. Il secondo concetto chiave riguarda la forte integrazione contrattuale o societaria con un richiamo all’art. 2497 c.c., in tema di responsabilità della controllante293; ma in questo

286 Speziale, 2010, 65 ss. 287 Speziale (2010, 33 ss., 39-40), secondo il quale la disposizione del codice civile non esclude, in astratto, la possibilità di un unico contratto di lavoro con diversi datori; Chieco, 2015, 209. 288 Mazzotta, 2006, 159 ss. 289 Veneziani, 1990, 617; Nogler, 1994, 213. 290 V. Cass. n. 25270/2011; ma ancor prima Cass. S.U. n. 22910/2006 che, secondo Nicolosi (2012, 61) avrebbe preso atto della coesistenza di più datori di lavoro nei gruppi di impresa, di cui uno avente rapporti contrattuali con i lavoratori e l’altro rapporti non contrattuali, oltrepassando l’apparente multidatorialità, con selezione di un solo soggetto cui imputare il rapporto di lavoro. «In tale selezione essa trascura la barriera formale del contratto di lavoro e guarda oltre, concentrandosi sulla reale consistenza del rapporto, svoltosi permanentemente alle dipendenze di colui il quale non detiene il relativo contratto». A sua volta Alessi (2015, 85-86) ritiene che la conclusione cui è pervenuta la Cassazione a Sezioni Unite, omaggio del dogma dell’unicità del datore di lavoro, cozzi con la possibilità di immaginare situazioni in cui la prestazione lavorativa soddisfa simultaneamente l’interesse di più datori di lavoro, si pensi a quanto accade con la somministrazione. 291 Speziale, 2006, 37 e 44. 292 Pinto, 2013. 293 L’importanza della disciplina codicistica rinvenibile sub art. 2497 ss. c.c. promanerebbe dalla valenza di «embrionale statuto organizzativo» della suddetta regolamentazione che, secondo Perulli (2014, 493), attesterebbe la nascita del fenomeno della codatorialità nel campo della regolazione giuslavoristica dei gruppi di imprese.

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caso, si attinge ad un aspetto patologico che nulla ha a che vedere con la diversa imputazione dei rapporti di lavoro. Distinguendo tra il ruolo di coordinamento e direzione, fisiologico, dalla ingerenza della società capogruppo nella gestione del rapporto di lavoro, la verifica va fatta in questa seconda direzione a nulla rilevando il rapporto societario294. Con riferimento infine al terzo concetto chiave, e cioè all’immanente interesse di gruppo (ma ciò potrebbe valere anche per l’interesse di rete), può obiettarsi che lo stesso rinnega l’essenza della subordinazione ancorata non alle finalità produttive dell’imprenditore, ma alla ricorrenza dei poteri tipici del datore295. L’ultima obiezione, opponibile alla teoria della codatorialità, di carattere sistematico, è l’inerenza alla stessa della responsabilità solidale che si fonda su disposizioni eccezionali, in quanto tali insuscettibili di applicazione estensiva o analogica296 (su questo profilo v. supra), il che osta ad una codatorialità elevata a sistema297. Dalle considerazioni svolte emerge la impraticabilità sul piano concreto delle teorie sulla codatorialità, ove si abbandoni il tradizionale terreno dell’imputazione del rapporto. Invocare l’intervento del legislatore con disposizioni generali e astratte significherebbe appiattire le diversità e vanificare le scelte organizzative tendenti a recuperare competitività, considerato che il fenomeno dei gruppi e delle reti «è il regno delle differenze»298. Diverso sarebbe un intervento della contrattazione collettiva, più idonea al governo delle differenze e a modellare trattamenti adeguati alle singole specifiche realtà. Solo la contrattazione collettiva può dare un fondamento alla codatorialità, coniugando flessibilità e competitività da un lato e strumenti di protezione dall’altro lato299.

13.5. I problemi indotti dalla codatorialità Mettendo da parte le critiche opposte alla teoria della codatorialità, la contitolarità dei rapporti di lavoro ove prevista dalla legge (artt. 30 e 31 d.lgs. n. 276/2003) determina una serie di implicazioni, tra le quali possono segnalarsi: 1) le modalità di esercizio dei poteri dei datori contitolari del rapporto, con specifico riferimento all’esercizio dello ius variandi e del potere disciplinare; 2) la qualificazione giuridica (se distacco o trasferimento) dell’utilizzo dei lavoratori presso le diverse unità produttive dei codatori; 3) la possibile continuità del rapporto di lavoro, ove il lavoratore intrattenga successivi contratti alle dipendenze di diverse società del gruppo; 4) l’applicazione dei diritti sindacali; 5) la parità di trattamento da osservarsi da parte dei diversi datori300. Una risposta articolata a tali interrogativi è stata fornita da Razzolini301. Partendo dalla codatorialità vista sotto il profilo del condebito, l’A., attingendo alla tesi di Busnelli, individua l’effetto tipico del condebito (o usando l’espressione di Busnelli dell’obbligazione soggettivamente complessa) nella solidarietà ex art. 1294 c.c., che si specifica nel caso come obbligazione collettiva. Detta solidarietà si estende non solo agli obblighi retributivi e contributivi, ma a tutti gli obblighi del datore di lavoro302.

294 Cass. n. 25270/2011. 295 Niccolai, 2016, 169. 296 Sostanzialmente adesiva la posizione di Corazza (2004, 250), considerato che invoca un intervento legislativo per introdurre un generale sistema di responsabilità solidale. 297 Niccolai, 2016. 298 Mazzotta, 2013; viceversa auspicato da Speziale, 2010, e Biasi, 2011. 299 Niccolai, 2016, 170-171. 300 Treu, 2012, 15. 301 Razzolini, 2009, § 5. 302 Nello stesso senso, Speziale, 2010, 78-79, secondo cui «Il vincolo solidale nasce direttamente dall’art. 1294 c.c. e non richiede alcuna espressa manifestazione di volontà perché vi è un'unica fonte delle

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La soluzione prospettata da Razzolini è stata poi estesa da Speziale (v. supra)303. In materia di sicurezza opereranno i principi fissati dal d.lgs. n. 81/2008 e quindi gli obblighi di prevenzione graveranno sui soggetti individuati dal Testo Unico304; per quanto riguarda la delega di funzioni, pensata per un datore di lavoro singolo, ben può essere conferita da più codatori ad un unico soggetto nel rispetto del principio di effettività e dei requisiti anche formali previsti dall’art. 16, d.lgs. n. 81/2008305. Per quanto concerne, poi, il profilo del trattamento retributivo, applicabile ad un dipendente del gruppo, non c’è alcun trattamento aggiuntivo, salvo lo svolgimento di mansioni superiori, oppure la previsione di una “indennità di funzione”. Passando alla codatorialità vista sotto il profilo del concredito, quest’ultimo coinvolge le modalità di esercizio delle facoltà e delle prerogative riconducibili alla contitolarità. L’interesse del gruppo orienta il modo di esercizio dei poteri del datore di lavoro, ma non ne postula un esercizio congiunto o simultaneo che sarebbe impossibile dal punto di vista pratico. La soluzione si avvicina alla tesi della obbligazione correale attiva, secondo la quale se un unico rapporto fa capo ad una pluralità di soggetti, ciascuno di essi ne dispone per intero come se fosse un unico creditore306; ne consegue che se l’attività lavorativa è finalizzata a perseguire gli scopi comuni del gruppo, cionondimeno ciascuna società esercita singolarmente il proprio potere direttivo e conformativo307. L’adempimento dei generali obblighi di diligenza e fedeltà deve conformarsi alle caratteristiche dell’organizzazione della rete, con la conseguenza che l’inadempimento da parte del lavoratore sarà tale nei confronti di tutti i codatori, perché ad essi è diretta la prestazione e l’esercizio del potere direttivo e disciplinare di ciascuno è da presumersi iuris et de iure conforme alla volontà di tutti gli altri308; è pertanto indispensabile regolare nel contratto di rete non già la titolarità del potere direttivo quanto le sue modalità di esercizio309. Come ipotesi specifica di esercizio del potere direttivo Razzolini richiama la mobilità del lavoratore presso un’altra società, qualificabile piuttosto che come distacco come trasferimento, quindi assoggettato alla sussistenza delle comprovate ragioni tecnico-organizzative-produttive. Per altri profili del condebito e del concredito, Razzolini sostiene che si può ricavare la soluzione applicando analogicamente norme che regolano casi simili o materie analoghe, cioè, ipotesi di più soggetti co-datori di lavoro. Il riferimento è alla disciplina della somministrazione, invocata ad esempio per quanto concerne la parità di trattamento e l’esercizio dei diritti sindacali310. Del pari dalla disciplina della somministrazione possono ricavarsi le modalità di esercizio dello ius variandi, ma nel caso di assegnazione a mansioni superiori, intanto si potrebbe invocare la solidarietà se le altre società siano state informate.

obbligazioni». V. anche Greco, 2014, 398; Perulli, 2014, 492; Tursi, 2015, 127. Sulla solidarietà come elemento strutturale della codatorialità v. Chieco, 2015, 211. 303 Speziale, 2010, 79-80. 304 Tursi, 2015, 128 e 129 e Treu, 2015, 23-25, il quale evidenzia l’importanza della formalizzazione dei ruoli nelle imprese retiste. 305 Treu, 2015, 25. Per un approfondimento in tema di tutela della salute e sicurezza nella frammentazione d’impresa v. Camasta, 2016. 306 Branca, 1957, 154; Nogler, 1994, 222. 307 Secondo Greco (2014, 398), la risoluzione del rapporto da parte di un solo codatore determina l’estinzione anche nei confronti degli altri. In senso conforme, Tursi, 2015, 129. Sull’ampliamento degli obblighi del lavoratore e conseguentemente del potere disciplinare dei codatori, Raimondi, 2016, 158. 308 Speziale, 2010, 86; sull’esercizio dei poteri disciplinare, direttivo e di controllo, singolarmente ed in autonomia da parte del datore di lavoro v. Perulli, 2014, 492-493. 309 Greco, 2014, 398; Tursi, 2015, 125-128. 310 Pinto, 1999, 456, sostiene la parità di trattamento, ma desumendola dall’art. 2358 c.c. a proposito delle facilitazioni concesse ai dipendenti di società controllante e controllata per l’acquisto di azioni.

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Lo stesso dicasi per l’esercizio del potere disciplinare, con una gestione da parte della direzione o amministrazione del gruppo. Per quanto riguarda la continuità del rapporto di lavoro, attingendo ad esperienze estere, la si potrebbe riconoscere ove il lavoratore abbia intrattenuto successivi contratti alle dipendenze di diverse società del gruppo311. Estremamente problematico risulta essere il computo dei dipendenti sotto un duplice profilo; da un lato, a quale impresa retista si imputano i lavoratori codati312; dall’altro lato, qual è l’organico di riferimento per individuare la tutela (ad esempio in materia di licenziamenti) applicabile a questi ultimi: come si vede, l’alterazione del rapporto binario ingenera siffatte problematiche. Sotto il primo profilo sono state prospettate due ipotesi; la prima è quella della imputazione del lavoratore codato a tutti i codatori313; la seconda è quella della imputazione a ciascun imprenditore retista pro parte314; si applicherebbe in buona sostanza il criterio di computo previsto dalla legge per i lavoratori part-time. Più problematico è rispondere al secondo interrogativo. Se si attinge al criterio dell’unico centro di imputazione, elaborato dalla giurisprudenza per il gruppo di imprese, si dovrebbe concludere per l’organico unico, cioè quello risultante dalla sommatoria degli organici delle varie imprese retiste315. La soluzione convince, ma con la precisazione che tale meccanismo di computo varrebbe solo per individuare la disciplina applicabile al lavoratore codato, con un’applicazione rovesciata del noto principio “cuius incommoda et eius commoda”. Un ulteriore problema si pone in relazione al licenziamento per motivi economici, sia individuale sia collettivo; per entrambi si discute se i criteri di scelta debbano essere rapportati alla singola impresa retista che procede al licenziamento o a tutte; idem per quello individuale in relazione all’obbligo del repechâge. La soluzione di entrambi i problemi riporta ovviamente alla considerazione unitaria o meno delle imprese retiste, ma questa volta in riferimento non al solo lavoratore codato (per il quale si può richiamare quanto detto a proposito del computo dell’organico), ma anche a quelli assunti dalle singole imprese retiste. Soluzioni massimaliste non sono proponibili, dovendosi tener conto del livello di integrazione contrattuale esistente tra le imprese316. La giurisprudenza d’oltralpe estende la valutazione circa la giustificazione del licenziamento economico all’intero gruppo d’imprese a cui appartiene quella che ha disposto il licenziamento317.

311 Razzolini, 2009, § 5. 312 Concreta applicazione della soluzione da dare al problema è poi quella di come “gestire” i limiti del contingentamento nelle percentuali fissate dalla legge o dalla contrattazione collettiva nell’utilizzo delle forme flessibili di impiego (per tutti, il contratto a termine), consentendo ad esempio di collegarle al numero dei lavoratori impiegati nel conseguimento del programma di rete (Alessi, 2015, 97; più prudente, Perulli, 2013b, 87). 313 Speziale, 2010, 84. 314 Tursi, 2015, 129-130. 315 Speziale, 2010, 84; Greco, 2014, 398. 316 Speziale, 2010, 84-85; con specifico riferimento al repechage, Tursi, 2015, 130, obietta alla soluzione positiva che per il passaggio da una impresa retista all’altra occorre il consenso di quella che dovrebbe ricevere il lavoratore in esubero; ovviamente, su questo aspetto potrebbe giocare un ruolo decisivo quanto previsto nel contratto di rete o in accordi ad hoc. Analogamente, sulla corretta individuazione dell’organizzazione realizzata con il contratto di rete come parametro di riferimento per valutare la legittimità o l’illegittimità del licenziamento e per individuare le tutele applicabili, Carinci M.T., 2015, 41. Più perentorio Biasi, 2014, 160, per il quale il datore “originario” fungerebbe da primo e principale obbligato, specialmente nelle ipotesi di condanna alla reintegra. 317 La Corte di Cassazione francese prende atto della sostanziale confusione di interessi, attività e gestione prevedendo che l’obbligo di reclassement sia adempiuto all’interno del gruppo, pena l’ingiustificatezza del licenziamento. Alla responsabilità derivante dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento si fa conseguire la responsabilità solidale dei diversi datori coinvolti. Nonostante il diffuso richiamo da parte

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Le soluzioni innanzi indicate sono astrattamente condivisibili, pur se non sempre coerenti con l’unitarietà dell’impresa di gruppo318. Al rinvio operato da Razzolini alla disciplina della somministrazione, può fondatamente obiettarsi che detta disciplina stante la sua eccezionalità è insuscettibile di applicazione analogica, in quanto essa vede succedersi nella posizione di titolare del potere direttivo diversi soggetti che restano distinti sul piano diacronico, mentre sul piano sincronico l’astratta codatorialità che coinvolge somministratore e utilizzatore non crea situazioni di sovrapposizione, in ragione della finalità dell’istituto che è quella di consentire ad un soggetto che non è datore di lavoro di utilizzare e dirigere le prestazioni del lavoratore somministrato319. Sul problema degli effetti indotti dalla codatorialità, questa volta rimbalzati sul fenomeno delle reti di imprese, è tornato di recente Maio secondo cui la giuridificazione della codatorialità quale strumento (fattore di convenienza) gestionale nella regolazione del personale chiamato a lavorare per la rete pone varie questioni con riguardo alla tenuta dello statuto protettivo del lavoratore retista, nonché alla imputazione degli effetti protettivi del contratto di lavoro320. Come emerge da quanto innanzi detto e dall’elaborazione giurisprudenziale sulle realtà organizzativamente complesse, a molti degli interrogativi posti da Maio è stata già data esauriente risposta. In ogni caso la complessità dei problemi (e delle connesse soluzioni) indotti dalla codatorialità non milita certo a favore della sua assunzione a paradigma di tutela dei lavoratori coinvolti nei fenomeni da essa considerati.

dell’ordinamento francese al coemploi è tuttora controverso se i co-employeur siano responsabili per imputazione indiretta del rapporto di lavoro ovvero per via extracontrattuale, avendo la giurisprudenza francese sempre considerato in senso bilaterale il contratto di lavoro (Ratti, 2016, 387 – 388, ed ivi ampi richiami alla giurisprudenza d’oltralpe). Sulla codatorialità in Francia, sia in dottrina (gruppo come “personne morale”), sia in giurisprudenza (employer conjoint) v. Perulli, 2014, 496 ss. 318 Treu, 2012, 15. 319 Tursi, 2015, 120. 320 Secondo Maio (2016, nota 6) nello specifico si tratta di analizzare: 1. la disciplina delle influenze e dei poteri all’interno della rete e le conseguenti ricadute sul rapporto di lavoro; 2. le conseguenze sul contratto di lavoro in caso di recesso di una impresa dalla rete o per effetto della ridefinizione degli accordi originari; 3. la riferibilità della ricordata normativa alle sole reti di fatto, atteso che distacco e codatorialità sembrerebbero presupporre l’esistenza di soggetti distinti; 4. cosa debba intendersi per «operare della rete» che fa sorgere in automatico l’interesse organizzativo del distaccante, legittimando il distacco dal titolare formale del contratto di lavoro; 5. se anche nel caso della codatorialità resti centrale il requisito della c.d. temporaneità del distacco e della determinatezza dell’attività o se, invece, l’istituto non possa essere impiegato per far fronte ad esigenze permanenti di utilizzo condiviso di una prestazione di lavoro; 6. se la norma presupponga implicitamente la condizione che il dipendente in regime di distacco o codatorialità venga poi effettivamente impiegato per lo svolgimento delle attività che le imprese hanno deciso di svolgere in comune; 7. quale sia l’ampiezza effettiva del rinvio in bianco operato dal legislatore alle regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso, attesa la natura essenzialmente inderogabile del tradizionale statuto protettivo del lavoratore; 8. l’estendibilità di questo modello anche al di fuori della rete al lavoro nelle c.d. Società collegate e nei gruppi di impresa e la possibilità altrimenti di sperimentare nei casi non contemplati dalla norma altre forme di codatorialità; 9. quale sia nel caso della c.d. codatorialità il regime della responsabilità (ad es. per gli obblighi di sicurezza, per i pagamenti dei crediti, per l’adempimento degli obblighi assistenziali e previdenziali, per l’illegittimo esercizio del poteri ecc.) con riferimento ai diversi modelli di imputazione possibili (complementare, cumulativa, solidale, alternativa); 10. quale sia l’inquadramento corretto dell’obbligazione soggettivamente complessa assunta dal lavoratore nei confronti di una pluralità di creditori; 11. quali siano gli effetti del recesso dal rapporto di lavoro irrogato da uno soltanto dei datori in rete; 12. come si calcolano i requisiti dimensionali che danno adito all’applicazione delle diverse discipline di legge protettive del lavoratore; 13. se ricorra la possibilità di sviluppare una contrattazione collettiva di rete e in che rapporto si ponga con le altre contrattazioni di diverso livello.

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SEZIONE III - LE PROSPETTIVE Premessa I limiti che connotano i modelli di tutela sin qui esaminati inducono a chiedersi se non si possa “alzare l’asticella”, ipotizzandone ulteriori. Le strade percorribili sono diverse e vanno dalla generalizzazione di quelli già normati (è il caso della somministrazione tramite agenzia e della parità di trattamento) all’incentivazione della responsabilità sociale d’impresa ovvero al rafforzamento della tutela della “dipendenza economica” come tecnica di tutela riflessa.

14. La somministrazione: un modello di tutela All’ipotesi prospettata nel titolo del presente paragrafo giova premettere un veloce excursus sull’evoluzione della disciplina della somministrazione, all’origine fornitura di lavoro temporaneo. La coincidenza tra titolarità del rapporto di lavoro e sua fruizione – risultato di una evoluzione normativa in cui l’edificazione del sistema di tutela del lavoro si era mossa insieme alla rigorosa determinazione sia dei soggetti tutelati sia dei soggetti gravati degli obblighi relativi321, definitivamente consacrata dalla l. n. 1369/1960 – era stata nel corso del tempo “manipolata” dalla giurisprudenza in conseguenza dei mutamenti del sistema produttivo322. La prima incrinatura normativa di tale assetto è stata determinata dalla l. n. 196/1997323, che aveva introdotto la fornitura di lavoro per ipotesi tassative e connotate da una chiara straordinarietà o transitorietà324, rappresentando pertanto una «eccezionale deroga al generale divieto di interposizione»325. Tale divieto viene successivamente travolto dal d.lgs. n. 276/2003, che introduce una nuova tipologia di somministrazione a tempo indeterminato, per la quale si riprende la precedente tecnica normativa di individuazione dell’area di accesso attraverso una puntuale elencazione casistica delle ipotesi ammesse326; e ridefinisce l’area di agibilità della somministrazione a tempo determinato, attraverso una formulazione ampia e generica che fa riferimento a ragioni di carattere «tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo», con una sostanziale liberalizzazione del ricorso a questo istituto che trova un argine nella sola fissazione – demandata alla contrattazione di livello nazionale dei sindacati comparativamente più rappresentativi – di «limiti quantitativi di utilizzazione». Il processo di apertura legislativa verso la somministrazione viene brevemente interrotto con la l. n. 247/2007, che abolisce la somministrazione a tempo indeterminato, ma riprende successivamente con la l. n. 191/2009, che, oltre a reintrodurre la possibilità di ricorrere a questa tipologia negoziale, demanda alla contrattazione aziendale e

321 Su questi profili, v. per tutti Mazzotta, 1979, 295 ss.; Caruso, 2005, 523. Il divieto di interposizione, per altro verso, era riconducibile a una regola di trasparenza nell’acquisizione del fattore lavoro, diretta a garantire ai lavoratori subordinati l’effettivo esercizio dei loro diritti fondamentali (De Simone, 1995, 173 ss.), e ad un «principio di non dissociazione» collegato alla logica di intervento dell’ordinamento nel governare le forme di impiego del fattore lavoro (Carinci M.T., 2000, passim). 322 Si è rilevato (Del Punta, 1995, 630 ss.; De Luca Tamajo, 2002, 40 ss.) come la giurisprudenza avesse aperto la disciplina del 1960 ad equilibrate soluzioni sostanzialmente adeguate alle mutate esigenze del sistema produttivo, con una pragmatica opera di “legittimazione” di operazioni di esternalizzazione motivate da effettive necessità di organizzazione dei processi produttivi. 323 Quadri, 2004, 81 e 212; Nicolosi, 2012, 65. 324 Elencate all’art. 1, co. 2. 325 Carinci M.T., 2002, 25. 326 V. l’art. 20, co. 3.

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territoriale il potere di prevedere nuove ipotesi; e continua con la l. n. 134/2012, che amplia ulteriormente il ventaglio di queste. Parimenti nel senso della liberalizzazione si muove l’intervento che riguarda la somministrazione a tempo determinato, che con la l. n. 92/2012 viene svincolata dal requisito causale in caso di primo rapporto di durata non superiore a dodici mesi e nelle ipotesi individuate da contratti collettivi nell’ambito di processi organizzativi determinati da particolari ragioni (nel limite complessivo del sei per cento del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva)327. L’eliminazione del vincolo causale è poi la strada seguita dal legislatore del Jobs Act nel realizzare la completa apertura dell’accesso all’istituto328. Nella prima fase della riforma (d.l. n. 34/2014, conv. in l. n. 78/2014) l’intervento riguarda la somministrazione a tempo determinato, il ricorso alla quale diviene del tutto acausale, nei limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi329 applicati dall’utilizzatore330. Nella fase successiva, l’abolizione del requisito causale viene operata anche nella somministrazione a tempo indeterminato: il d.lgs. n. 81/2015 sostituisce alle precedenti condizioni di accesso il semplice limite del «venti per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore». La progressiva liberalizzazione dell’istituto qui sommariamente ripercorsa accompagna un mutamento del contesto produttivo e della strutturazione stessa dei modi di produzione; e, per altro verso, si inserisce in un processo di regolazione più ampio delle modalità di frammentazione dell’impresa che parimenti è volto a eliminare vincoli pregressi (vedi in particolare l’evoluzione della disciplina in materia di appalti). Se la somministrazione di lavoro, al momento della sua introduzione, ha rappresentato un paradigma eversivo nella regolazione del rapporto tra impresa e lavoro331, in questo mutato scenario, paradossalmente, vale di fatto sia a riportare «all’interno del perimetro aziendale»332 lavorazioni altrimenti esternalizzate attraverso contratti di appalto e reti di imprese, sia a recuperare alcune tutele per il lavoratore perse negli assetti in esame. Quanto al primo profilo, la somministrazione consente la «reinternalizzazione di segmenti del processo produttivo prima affidati all’esterno tramite contratti di appalto», riportandoli sotto il controllo dell’imprenditore, e coniugando pertanto le esigenze – altrimenti difficilmente conciliabili – di flessibilità organizzativa e di diretta conformazione delle prestazioni lavorative333. Tale mediazione – attualmente sancita nella stessa definizione normativa della somministrazione quale contratto «con il quale un’agenzia di somministrazione […] mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la

327 Indicate all’art. 5, co. 3, d.lgs. n. 276/2003; v. Riccardi, 2013. 328 In tema Filì, Riccardi, 2015, 293 ss. 329 Che, ai sensi dell’art. 51, d.lgs. n. 81/2015, sono «i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria». 330 Con la specificazione che «è in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo determinato di lavoratori di cui all’articolo 8, co. 2, l. n. 223 del 1991, di soggetti disoccupati che godono, da almeno sei mesi, di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, e di lavoratori “svantaggiati” o “molto svantaggiati” ai sensi dei numeri 4) e 99) dell’art. 2, reg. UE n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, come individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali». 331 Vedi, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, Speziale, 2004a, 277 ss.; Chieco, 2004. 332 Calcaterra, 2016, 581 ss. 333 Ibidem.

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direzione e il controllo dell’utilizzatore»334 – rimanda immediatamente al problema del fondamento di questi poteri, tradizionalmente propri della figura datoriale. Secondo Ghera l’inserimento del lavoratore temporaneo (ora somministrato) nella organizzazione dell’impresa utilizzatrice modifica sostanzialmente più che il contenuto tecnico-funzionale della subordinazione il tipo della collaborazione, essendo questa finalizzata esclusivamente alla somministrazione di lavoro alle imprese utilizzatrici e non, secondo le previsioni dell’art. 2094 c.c., al coordinamento organizzativo delle attività lavorative. Il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo realizza, quindi, un sottotipo qualificato da una speciale forma di subordinazione. La tecnica utilizzata dal legislatore per “specializzare” il contratto di lavoro temporaneo, secondo Ghera, è degna di nota perché influisce più in profondità e dall’interno, attraverso il nesso subordinazione – collaborazione, sulla funzione organizzativa e quindi sulla causa del contratto335. Secondo altri, l’istituto, sin dalla sua introduzione nel 1997, rimanda alla tesi della codatorialità, sostenendosi che dalla relazione trilaterale tra i soggetti coinvolti in questo tipo di operazioni (somministratore, utilizzatore, lavoratore) scaturisce un rapporto di lavoro caratterizzato dalla duplicazione del creditore della prestazione lavorativa: tanto l’utilizzatore quanto il somministratore sono da qualificare come codatori di lavoro336. Si è sostenuto che – una volta acquisito il dato che il rischio delle sopravvenienze negative nel rapporto può essere oggetto di una “transazione commerciale” volta al trasferimento della funzione assicurativa nei confronti del lavoratore (tipica della posizione datoriale) a un soggetto specializzato nella gestione del relativo rischio – «viene meno ogni ostacolo concettuale allo sdoppiamento della figura del datore di lavoro e alla configurabilità di un rapporto di lavoro caratterizzato dalla compresenza di due creditori di un’unica prestazione lavorativa», soggetti che sono per altro verso condebitori, per numerosi titoli, nei confronti del lavoratore337. A conferma che la formulazione dell’art. 2094 c.c. non presenta argomenti in senso contrario alla “compatibilità logica” fra il tipo legale del lavoro subordinato e la dissociazione tra titolare del contratto di lavoro e utilizzatore della prestazione338, si osserva che «la norma nulla dice circa il soggetto con il quale il lavoratore può contrarre e obbligarsi: essa dunque non esclude la possibilità che, con il contratto di lavoro subordinato, il lavoratore A si obblighi verso il soggetto B a prestare il proprio lavoro in favore e sotto la direzione del soggetto C o di una serie indeterminata di altri soggetti»339.

334 Art. 30, d.lgs. n. 81/2015. 335 Ghera, 2003, 80-81; Romei, 2005, 735 ss. 336 Per questa ricostruzione Tiraboschi, 1999, 315 ss. 337 Ichino, 2004a, 297. Sull’emersione di una figura di datore di lavoro in senso “funzionale” nella fattispecie della somministrazione di lavoro v. Barbera, 2010, 223 ss. Contra Romei, 2016, 514, secondo il quale lo schema della somministrazione “per definizione” esclude la codatorialità, stante l’asimmetria della distribuzione di poteri e diritti tra somministratore e utilizzatore nonché l’eccezionalità della dislocazione del potere direttivo. Sulla duplicazione di posizioni creditorie nella somministrazione, che non dà luogo a codatorialità, v. anche Speziale, 2010, 31. 338 La dottrina maggioritaria ha invece tradizionalmente affermato l’incompatibilità del rapporto interpositorio con il tipo legale di cui all’art. 2094 c.c., considerando la coincidenza tra titolarità e utilizzo del rapporto lavorativo elemento essenziale e qualificante della stessa fattispecie di cui alla norma codicistica (per tutti Mazzotta, 1979, 263 ss.). 339 Ichino, 2004a, 295. In critica a questa costruzione Chieco, 2005, 340 ss., secondo il quale l’identità dell’oggetto dei due contratti (prestazione di lavoro) «non comporta la duplicazione della posizione creditoria, in quanto, a fronte dello stesso oggetto del credito, vi sono diversi soggetti obbligati nei due contratti, quindi due diversi rapporti obbligatori».

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La compatibilità tra lo schema dell’art. 2094 c.c. e la dissociazione fra titolarità del contratto ed esercizio delle prerogative datoriali è stata affermata anche – in elaborazioni concettuali che seguono percorsi diversi – da altra parte della dottrina340. Consegue alla sostenuta possibilità di una duplicazione del creditore della prestazione lavorativa la negazione che il rapporto tra lavoratore e utilizzatore costituisca un rapporto di mero fatto: «si tratta invece di un rapporto intessuto di precisi obblighi giuridici reciproci tra queste due parti, fondato su due contratti che esse hanno rispettivamente stipulato con lo stesso soggetto: il somministratore, il quale svolge così un ruolo di “cerniera” contrattuale tra i due»341. La negazione della qualificazione del rapporto de quo come di mero fatto si ritrova, per altro verso, anche in costruzioni differenti dell’istituto, e segnatamente nella riconduzione della somministrazione allo schema del contratto a favore di terzi – che rinviene la fonte costitutiva della «relazione giuridica, fonte cioè di diritti ed obblighi» fra lavoratore ed utilizzatore nel «doppio ordine di impegni» contenuti nei contratti (di somministrazione e di lavoro) che vi sono a monte342 –; o nel richiamo, a vario titolo, dello schema del collegamento negoziale come connotativo di tale operazione commerciale343. L’attribuzione all’utilizzatore dei poteri di conformazione della prestazione di lavoro viene conseguentemente “letta” in modi diversi: quale conseguenza diretta della duplicazione del creditore della prestazione lavorativa che connota l’istituto344; quale risultato mediato dei rapporti tra i vari schemi contrattuali – fondato, volta a volta, sulla «sommatoria degli impegni contenuti nei due schemi» nelle ricostruzioni della somministrazione quale contratto a favore di terzo345, su una “clausola di rinvio” che innesta sul contratto commerciale di somministrazione le regole che costituiscono la disciplina del contratto di lavoro346, sul collegamento negoziale tra contratto di somministrazione e contratto di lavoro347) –; quale oggetto di una delega (implicita e parziale) dal somministratore all’utilizzatore348 o oggetto «di un nuovo tipo contrattuale che è direttamente finalizzato a fornire un “servizio” (il lavoro) che deve garantire la

340 Si veda Spagnuolo Vigorita L., 1992, 81; Bellocchi, 2001, 174 ss.; Marazza, 2004, 104 ss.; Corazza, 2009, 9 ss. 341 Ichino, 2004a, 294. 342 Mazzotta, 2009, 948-949. 343 Perulli, 1999a, 237 ss., sostiene che il collegamento negoziale, nella sua accezione propria di «situazione rilevante per l’ordinamento e produttiva di effetti giuridici», rappresenta il fondamento della radicale scissione tra titolarità del contratto di lavoro ed effettiva fruizione e gestione della prestazione lavorativa». Sul collegamento negoziale quale base della somministrazione ex d.lgs. n. 276/2003 – e, in precedenza, della fornitura di lavoro ex l. n. 196/1997 – si veda anche Maresca, 1998, 202 ss.; Corazza, 1999b, 65 ss.; Carinci M.T., 2000, 425 ss., Tullini, 2003, 92 ss.; Ferraro, 2004, 157 ss.; Romei, 2016, 514, 515. Contra Chieco, 2005; Speziale, 2004a, 313 ss.; Ichino, 2004a, 292 ss. 344 Secondo Ichino, 2004b, 94, 95, «tra gli elementi costitutivi della posizione giuridica del datore di lavoro che nel rapporto trilatero vengono imputati contemporaneamente all’uno all’altro soggetto spicca per importanza il diritto al corretto svolgimento da parte del lavoratore della prestazione lavorativa, prestazione che costituisce oggetto al tempo stesso del contratto di lavoro temporaneo e del contratto di fornitura e della quale entrambe le imprese devono essere considerate a tutti gli effetti come creditrice nei confronti del lavoratore (mentre la somministratrice, ne è, al contempo stesso, condebitrice con il lavoratore verso l’utilizzatrice)». 345 Mazzotta, 2009, 948, 949: «risponde alla ratio della legge, che è interna alla causa del contratto di lavoro fra agenzia e lavoratore e del contratto di somministrazione, che il lavoratore somministrato sia inserito a tutto tondo nell’organizzazione produttiva dell’utilizzatore. Il che significa che quest’ultimo è destinato a divenire, per tutta la durata del rapporto, il datore di lavoro sostanziale» 346 Chieco, 2005, 344 ss. 347 Per questa tesi Corazza, 1999b, 65 ss.; Carinci M.T., 2000, 425 ss., Perulli, 1999a, 237 ss.; Ferraro, 2004, 157 ss.; Ciucciovino, 2004, 98 ss. 348 Bonardi, 2004, 136, 137.

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stessa utilità propria del lavoro subordinato e, quindi, deve necessariamente essere organizzata dal destinatario finale della prestazione»349. Quale che sia la ricostruzione teorica alla quale si acceda sui meccanismi attraverso cui si realizza, la somministrazione determina così l’attribuzione al soggetto utilizzatore dei tipici poteri datoriali di disposizione del fattore lavoro350, consentendo a questo di gestire in via diretta e all’“interno” della propria organizzazione produttiva le lavorazioni per le quali si avvale di lavoratori somministrati351. Nell’attuale assetto di regolazione dei fenomeni di esternalizzazione, il principio di parità di trattamento – che costituisce un architrave della somministrazione sin dal momento della sua introduzione352 – provvede il lavoratore di una fondamentale protezione che non sussiste in modelli “alternativi” quali gli appalti o le reti di imprese. La parità di trattamento tra lavoratori somministrati e lavoratori dell’utilizzatore – imposta ex ante dalla legislazione comunitaria/UE353, anche nel caso di fornitura di lavoro temporaneo transnazionale tramite agenzia354 – è stata estesa355 dalle norme da ultimo intervenute in subiecta materia al complessivo «trattamento economico e normativo»356, nella logica di una tendenziale e globale357 equiparazione dei soggetti che prestano il proprio lavoro in una stessa organizzazione produttiva358. Alla stessa matrice di tutela del lavoratore è da ricondurre il regime di responsabilità solidale tra somministratore e utilizzatore, che nell’assetto delineato dal Jobs Act ha una latitudine sconosciuta ai modelli di responsabilità stabiliti negli appalti o nei gruppi di impresa. L’art. 35, co. 1, d.lgs. n. 81/2015 prevede che «l’utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e a versare i relativi contributi previdenziali, salvo il diritto di rivalsa verso il somministratore», stabilendo in tal modo una responsabilità del soggetto che fruisce della prestazione che è solidale, indipendente da quella del titolare del rapporto lavorativo (e nella specie non

349 Speziale, 2004b, 303 ss. 350 Oltre che i poteri direttivo e di controllo contemplati dall’art. 30, lo ius variandi, che trova espresso riconoscimento nell’art. 35, co. 5, d.lgs. n. 81/2015, e «compete all’utilizzatore come corollario del potere organizzativo sulla prestazione lavorativa oggetto del contratto di somministrazione» (Ichino, 2004a, 300). 351 La disciplina della somministrazione – come osserva Persiani, 2012, 413 – «consegna un modello legale di sdoppiamento delle prerogative datoriali, cioè tra titolarità del rapporto e del potere direttivo, che però mantiene i suoi contenuti e le sue caratteristiche proprio perché queste sono condizioni dell’utilità del lavoro somministrato come del lavoro di chi è distaccato». 352 V. l’art. 23, co. 1, d.lgs. n. 276/2003. 353 La dir. 2008/104/CE stabilisce all’art. 5: «per tutta la durata della missione presso un’impresa utilizzatrice, le condizioni di base di lavoro e d’occupazione dei lavoratori tramite agenzia interinale sono almeno identiche a quelle che si applicherebbero loro se fossero direttamente impiegati dalla stessa impresa per svolgervi il medesimo lavoro». 354V. art. 1, par. 3, lett. c, dir. 96/71/CE.355 La norma previgente faceva riferimento, più limitatamente, «a condizioni di base di lavoro e d’occupazione». 356 Così l’art. 35, co. 1, d.lgs. n. 81/2005: «Per tutta la durata della missione presso l’utilizzatore, i lavoratori del somministratore hanno diritto, a parità di mansioni svolte, a condizioni economiche e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore». Il riferimento al principio di parità di trattamento ritorna, strumentalmente a questa previsione, nel co. 2 dell’art. 33, relativo alla forma del contratto di somministrazione. 357 Il principio di parità di trattamento e non discriminazione sancito nel co. 1 dell’art. 35 viene completato dal co. 3 della stessa norma, per quanto riguarda le erogazioni economiche correlate ai risultati e la fruizione dei servizi sociali e assistenziali. 358 Valorizza altresì la funzionalità dell’obbligo della parità di trattamento all’imposizione di «regole di correttezza tra le imprese, garantendo una concorrenza genuina e non basata sul costo del lavoro», Romei, 2016, 215.

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condizionata all’inadempimento o alla previa escussione di quest’ultimo)359, non derogabile (né a livello individuale, né a livello collettivo)360, e non sottoposta a termini decadenziali. Il rafforzamento della posizione creditoria dei lavoratori somministrati derivante dalla disposizione è di immediata evidenza, come pure lo è la loro maggiore tutela rispetto a quella stabilita per i lavoratori in appalto (v. supra). Una maggiore protezione per il lavoratore in somministrazione può essere individuata anche sul piano della stabilità occupazionale. Il dato che le agenzie operano su un mercato che sopravanza quello della singola impresa e, quindi, sono di per sé idonee a garantire ai propri dipendenti una continuità occupazionale superiore a quella assicurata da un comune operatore economico361, acquista una maggiore pregnanza a seguito del nesso stabilito tra somministrazione a tempo indeterminato e assunzione del prestatore con contratto a tempo indeterminato dall’art. 31, d.lgs. n. 81/2015. La tutela del lavoratore che scaturisce da questa innovazione, per altro verso, è particolarmente significativa ove si consideri il generale trend di precarizzazione dei rapporti di lavoro che segna il lavoro “ordinario” nella recente legislazione (si pensi, tra l’altro, alla liberalizzazione dei contratti di lavoro a termine e allo smantellamento delle tutele per i licenziamenti individuali). La somministrazione conclusivamente, combinando flessibilità dello strumento e meccanismi di tutela dei lavoratori (tra i quali il collegato sistema di welfare privato), pare realizzare un equilibrato «contemperamento tra libertà economica e protezione sociale»362, consentendo così di superare la valutazione negativa che di essa è stata fatta, sostenendosi, da un lato, che il mercato del lavoro non è più connotato da incontro tra domanda e offerta di lavoro, bensì tra domanda e fornitura di lavoro363, con una sostanziale appropriazione dell’offerta di lavoro da parte delle imprese fornitrici di manodopera364; dall’altro lato, che i contratti temporanei, «perfettamente in linea con obiettivi economici, al contrario non rispecchiano una “scelta di valori” operata dall’ordinamento giuridico a favore della stabilità occupazionale e tale, pertanto, da dover condizionare la diversa finalità perseguita dall’economia»365. Non sembra azzardato, pertanto, annoverare la somministrazione tra i modelli di tutela del lavoratore esposto alla scissione tra datore di lavoro formale ed utilizzatore sostanziale della sua prestazione nei vari modi consentiti dall’ordinamento. 15. La parità di trattamento tra diritto interno e dell’Unione Europea

359 Filì, 2015, 219, 220, sottolinea il collegamento tra la norma in commento e l’art. 33, co. 2 – che stabilisce che con il contratto di somministrazione l’utilizzatore assume l’obbligo di «rimborsare al somministratore gli oneri retributivi e previdenziali da questo effettivamente sostenuti in favore dei lavoratori» – e le positive ricadute in termini di protezione dei prestatori: «nel caso in cui l’utilizzatore abbia già versato il dovuto al somministratore ma questo abbia omesso di provvedere al pagamento delle retribuzioni ovvero dei contributi, escusso dai lavoratori o dall’Inps come obbligato in solido, l’utilizzatore potrà rivalersi sul somministratore per ripetere quanto già versatogli». Contra Furlan, 2016, 623. 360 Su questo profilo Bano, 2004, 338. 361 Schmid, 2011, 1. 362 Romei, 2016, 516, che porta a conferma di ciò l’utilizzo di questo strumento per promuovere l’occupazione dei soggetti svantaggiati. Analoghe osservazioni in Ciucciovino, 2014, 19 ss. 363 Barbera, 2014, 632. 364 Carabelli, 1999; Lo Faro, 2003, 56. 365 Speziale, 2017b, 62.

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Come già detto il principio della parità di trattamento è stato confermato per i lavoratori somministrati, ma è scomparso per i dipendenti dell’appaltatore366, anche quando gli stessi lavorino all’interno dell’impresa appaltante, fianco a fianco dei dipendenti di quest’ultima (art. 29 cit.). La scelta legislativa è criticabile quanto meno sotto due profili: in primo luogo, la parità di trattamento è idonea a contrastare una competitività tra imprese basata esclusivamente sull’abbattimento del costo del lavoro367 e, quindi, sul c.d. dumping sociale (v. infra); in secondo luogo, proprio negli appalti c.d. interni non è agevole giustificare la disparità di trattamento solo in ragione della diversa dipendenza (“casacca”)368. Non condivisibile appare a questo riguardo la critica di Treu, il quale, dopo aver dedotto l’evanescenza del concetto di appalti interni, afferma che «(…) il principio di eguaglianza non è in grado da solo di superare la frammentazione dello status lavorativo determinato dai processi di flessibilità dell’impresa e di “bucare il velo” della personalità giuridica dietro cui si celano entità economicamente unitarie»369; infatti, il principio di parità di trattamento non tende “a bucare il velo”, ma semplicemente a superarlo, o se si preferisce a neutralizzarlo; comunque, si conviene con Treu quando afferma che, in ogni caso, la scelta legislativa ha definito l’ambito entro cui tale principio può agire, escludendolo a partire dal 2003 per gli appalti370. Con riferimento a questi ultimi, l’abrogazione del principio di parità di trattamento ha creato un nuovo fronte di criticità, riferito a rischi di discriminazione sulla base della nazionalità in contrasto con il diritto comunitario (UE). Ricordiamo che l’art. 3, d.lgs. n. 72/2000, in materia di distacco dei lavoratori nell’ambito di prestazioni transnazionali di servizi, aveva stabilito, in attuazione di quanto previsto dalla dir. 96/71/CE, il principio di parificazione dei trattamenti attribuiti ai dipendenti delle imprese appaltatrici transnazionali rispetto a quelli applicati ai dipendenti delle appaltatrici nazionali (co. 1), nonché, con riferimento agli appalti endoaziendali, l’obbligo, per le imprese transnazionali, di applicare ai lavoratori distaccati trattamenti minimi non inferiori a quelli applicati dall’impresa committente ai propri dipendenti (co. 3). Tale ultima disposizione, fino all’abrogazione dell’art. 3, l. n. 1369/1960, è stata ritenuta superflua371 per effetto, appunto, del combinato disposto della norma della legge del 1960 e dell’art. 3, co., 1, d.lgs. n. 72/2000, con l’effetto che la regola stabilita dall’art. 3, co. 3, d.lgs. n. 72/2000 avrebbe comunque trovato applicazione per i dipendenti delle imprese appaltatrici transnazionali poiché rientrante tra quelle disposizioni legislative (ivi inclusa la disposizione di cui all’art. 3, l. n. 1369/1960) applicabili ai lavoratori che effettuano prestazioni lavorative analoghe nel luogo di esecuzione del contratto di appalto372. L’abrogazione dell’art. 3, l. n. 1369/1960, come evidenziato dalla dottrina373, ha determinato una situazione di discriminazione tra le imprese appaltatrici transnazionali, ancora assoggettate, per effetto dell’art. 3, co. 3, d.lgs. n. 72/2000, al principio di parificazione dei trattamenti minimi (assumendo come parametro di

366 Carabelli, 2009, 105-106, che critica la scomparsa dell’uniformità di trattamento dei dipendenti degli appaltatori e subappaltatori in una realtà come quella italiana caratterizzata dall’assenza di una legislazione sui minimi di trattamento salariale, nonché di un sistema di contrattazione collettiva ad efficacia generale in grado di coprire tutte le imprese operanti sul territorio. 367 Treu, 2012, 12, e Angiolini, Carabelli, 2016. 368 Barbera, 2010, 226. 369 Treu, 2012, 13. 370 Treu, 2012, 13. 371 Chieco, 2002, 798. 372 Lozito, 2013, 46, ricostruisce la vicenda. 373 Chieco, 2004, 94-95 che riteneva l’abrogazione della norma ex lege n. 1369/1960, produttiva di una discriminazione basata sulla nazionalità vietata ai sensi degli artt. 49 e 50 TCE (oggi, rispettivamente, artt. 56 e 57 del TFUE), nonché di dubbia legittimità costituzionale perché in contrasto con gli artt. 11 e 117, co. 1 Cost. Sulla questione v. altresì i rilievi di Orlandini, 2012, 54-55.

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riferimento quelli applicati dal committente) e le appaltatrici nazionali non più soggette alla medesima regola. Ma anche nella disciplina italiana del distacco transnazionale il principio della parità di trattamento tra lavoratori distaccati e lavoratori nazionali si è venuto via via sfumando, apparendo, quindi, ormai superata la cennata criticità. Il d.lgs. n. 136/2016 di attuazione della dir. 2014/67/UE, abrogando il d.lgs. n. 72/2000, attuativo della dir. 96/71/CE, si è, infatti, limitato a prevedere che «al rapporto di lavoro tra le imprese di cui all'articolo 1, commi 1 e 4, e i lavoratori distaccati si applicano, durante il periodo del distacco, le medesime condizioni di lavoro e di occupazione previste per i lavoratori che effettuano prestazioni lavorative subordinate analoghe nel luogo in cui si svolge il distacco» (art. 4, co. 1, d.lgs. n. 136/2016), laddove l’espressione «medesime condizioni di lavoro e occupazione» va letta ai sensi dell’art. 2, lett. e), del medesimo decreto secondo cui «condizioni di lavoro e di occupazione» sono «le condizioni disciplinate da disposizioni normative e dai contratti collettivi di cui all'articolo 51 del decreto legislativo n. 81 del 2015 relative alle seguenti materie: 1) periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo; 2) durata minima delle ferie annuali retribuite; 3) trattamenti retributivi minimi, compresi quelli maggiorati per lavoro straordinario; 4) condizione di cessione temporanea dei lavoratori; 5) salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; 6) provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e giovani; 7) parità di trattamento fra uomo e donna nonché altre disposizioni in materia di non discriminazione». Come si può notare, si tratta di istituti per i quali esiste già una disciplina inderogabile di legge (generalmente in attuazione di direttive europee) e pertanto l’autonomia della contrattazione sia collettiva sia individuale su tali aspetti è fortemente condizionata. Dal punto di vista sistematico ed ermeneutico rileva il dato che il principio di parità di trattamento nel d.lgs. n. 136/2016 ha perso quella valenza generale che si coglieva nella formulazione dell’art. 3, d.lgs. n. 72/2000374, frutto di una scelta autonoma e creativa del legislatore italiano che poneva l’Italia fuori dal solco tracciato dalla dir. 96/71/CE che nulla prevedeva in merito trattandosi di direttiva, emanata sulla base del capo III (I servizi) del titolo IV (Libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali) del TFUE e non del titolo X (Politica sociale) del TFUE375. Il riferimento alla disciplina del distacco transnazionale e all’assenza di un principio generale di parità di trattamento, sposta dunque la riflessione dall’ambito interno a quello europeo e cioè all’atteggiamento delle istituzioni dell’UE di fronte ai fenomeni di frammentazione organizzativa e delle conseguenti ricadute sui diritti sociali, registrandosi una dissociazione tra l’esigenza di tutela del mercato interno e dei suoi pilastri (libertà di stabilimento delle imprese, artt. 49-55 TFUE; libera prestazione di servizi, artt. 56-62 TFUE; tutela della concorrenza) e la promozione e protezione dei diritti sociali che con il Trattato di Lisbona (firmato nel 2007 ma in vigore dal 2009) sono stati elevati al rango di norme primarie376. Dallo studio realizzato dal Parlamento europeo nel 2015 dal titolo «EU social and labour rights and EU internal market law»377 emerge chiaramente questa dissociazione nonché la continua tensione che a partire dal 2007 si è creata tra i principi fondamentali

374 Svaluta tale differente formulazione della norma, ribadendo il principio di parità di trattamento, circ. INL n. 1/2017, § 6. 375 Corti, Sartori, 2016, 274-477; Corti, 2016, 505 ss. e ivi ulteriori riferimenti bibliografici. 376 Quanto alla dottrina che si è ampiamente occupata di questi temi, rinunciando a qualsiasi pretesa di esaustività, si rinvia agli Atti del convegno AIDLASS (2016), e segnatamente alle relazioni di Chieco, 2016; Pizzoferrato, 2016; Ales, 2016; si rinvia inoltre alla bibliografia presente in Carinci F., Pizzoferrato, 2015, e segnatamente a quella contenuta nei capitoli IV.2 di Casale, IV.3 e IX di Traversa. 377 European Parliament, Directorate General for Internal Policies, EU social and labour rights and EU internal market law, 2015, http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2015/563457/IPOL_STU(2015)563457_EN.pdf

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del mercato interno e i diritti sociali. Sotto questo profilo si tratta quasi di un upgrade del rapporto che la Commissione UE aveva commissionato nel 2010 a Mario Monti378. Nello studio del 2015 si mette in luce la necessità di porre al centro dell’agenda delle istituzioni UE proprio il principio di parità di trattamento per i lavoratori che svolgono la loro prestazione in un Paese membro diverso da quello di residenza in connessione con l’esercizio da parte di un’impresa della libera prestazione di servizi in un Paese diverso da quello in cui è stabilita. I c.d. «posted workers», cioè i lavoratori utilizzati nel distacco transnazionale all’interno dell’Unione, rappresentano, infatti, l’anello più debole della catena, con addirittura una importante differenziazione al loro interno tra uomini e donne, che fa emergere, anche in questa situazione, un diverso impatto di genere del fenomeno. La delicatezza e centralità delle questioni che ruotano intorno ai lavoratori distaccati all’interno dell’UE appare inconfutabilmente dall’esame di alcuni atti del Parlamento europeo e della Commissione. Proprio la Commissione europea, a marzo 2016, ha elaborato una proposta di direttiva che tende ad una «revisione mirata della direttiva sul distacco dei lavoratori per contrastare le pratiche sleali e promuovere il principio che lo stesso lavoro nello stesso posto dovrebbe essere retribuito nello stesso modo», da aggiungersi alla direttiva di applicazione del 2014, a sua volta complementare e rafforzativa rispetto a quella del 1996379. «La Commissione si è prefissata di puntare ad un mercato unico più profondo e più equo quale priorità tra le principali del suo mandato. La proposta di apportare modifiche mirate alla direttiva sul distacco dei lavoratori integra e completa le disposizioni di cui alla direttiva di applicazione, che va recepita entro il 18 giugno 2016 (…) Secondo una giurisprudenza costante, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi sono ammissibili solo se giustificate da motivi imperativi di interesse generale, relativi in particolare alla tutela dei lavoratori, e devono essere proporzionate e necessarie. La presente proposta di direttiva rispetta tale requisito perché non armonizza il costo del lavoro in Europa e si limita a quanto necessario per garantire

378 Il rapporto “Una nuova strategia per il mercato unico” del 9 maggio 2010 è stato commissionato a Mario Monti dal Presidente della Commissione europea Barroso, con ampia discrezionalità di indagine e di coinvolgimento delle Istituzioni Ue e delle parti sociali europee, leggilo in http://www.politichecomunitarie.it/comunicazione/17368/rapporto-monti-una-nuova-strategia-per-il-mercato-unico. Nel rapporto si dà atto che «fra il 2007 e il 2008 le decisioni della Corte di giustizia dell'Unione europea sulle cause Viking, Laval, Rüffert e Commissione contro il Granducato del Lussemburgo hanno riproposto una vecchia frattura mai sanata: la divisione fra i sostenitori di una maggiore integrazione del mercato e coloro che considerano l'appello alle libertà economiche e alla soppressione delle barriere normative la parola d'ordine per smantellare i diritti sociali tutelati a livello nazionale. Riproporre questa scissione potrebbe allontanare dal mercato unico e dall'UE una parte dell’opinione pubblica - i movimenti dei lavoratori e i sindacati – che nel corso del tempo è stata una sostenitrice fondamentale dell'integrazione economica. Le sentenze della Corte hanno evidenziato le fenditure createsi in due direzioni fra il mercato unico e la dimensione sociale a livello nazionale. In primo luogo, le cause hanno portato alla luce le tensioni cui è soggetto l'attuale quadro normativo relativo al distacco dei lavoratori, in un contesto di condizioni di lavoro e sociali divergenti fra Stati membri, e la particolare sensibilità ai rischi di dumping sociale e di concorrenza sleale percepiti. In secondo luogo, le decisioni della Corte hanno dimostrato che il campo di applicazione del diritto dell'UE si estende al contenzioso collettivo di lavoro». E, ancora, nello stesso documento si precisa che: «le sentenze della Corte di giustizia precedono l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, che fissa esplicitamente l'economia sociale di mercato come uno degli obiettivi dell'Unione e rende la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea vincolante a livello del trattato. Questi elementi dovrebbero definire un nuovo contesto giuridico nel quale le preoccupazioni e i problemi sollevati dai sindacati dovrebbero trovare una risposta adeguata. Tuttavia, se così non fosse, andrebbero esaminati i margini per ulteriori azioni strategiche». 379 Dir. 96/71/CE e successiva dir. 2014/67/UE.

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condizioni adeguate al costo della vita e al tenore di vita nello Stato membro ospitante per la durata della missione dei lavoratori distaccati. (…) La presente proposta di direttiva non va pertanto al di là di quanto necessario per il conseguimento del suo obiettivo»380. È molto interessante osservare le reazioni a tale iniziativa della Commissione da parte dei c.d. portatori di interesse («stakeholders»). Come si legge nella relazione di accompagnamento, «l’Austria, il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svezia hanno chiesto un sostegno per una modernizzazione della direttiva sul distacco dei lavoratori che stabilisca il principio della “parità di retribuzione a parità di lavoro nello stesso posto”. (…) La Bulgaria, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Repubblica ceca, la Romania, la Slovacchia e l’Ungheria hanno sostenuto, con lettera comune, che un riesame della direttiva del 1996 è prematuro e dovrebbe essere rinviato (…). Detti Stati membri hanno espresso la preoccupazione che il principio della parità di retribuzione a parità di lavoro nello stesso posto possa essere incompatibile con il mercato unico, in quanto le differenze di retribuzione costituiscono un legittimo elemento di vantaggio competitivo per i prestatori di servizi (…). Non particolarmente positiva è stata la reazione delle organizzazioni e associazioni sindacali europee381. Alla citata proposta di direttiva ha fatto seguito, nell’agosto 2016, una iniziativa della Commissione per l’occupazione e gli affari sociali del Parlamento europeo (relatore Guillame Balas) in materia di dumping sociale nell’UE382. Considerato come elemento che può portare ad una distorsione della concorrenza con conseguenti danni anche a lungo termine (con riferimento all’aumento del precariato, al deterioramento dei livelli di tutela dei lavoratori e della qualità del lavoro in generale, ai sistemi di previdenza sociale), il dumping sociale, seppur non normativamente definito, è un fenomeno che le istituzioni dell’UE devono affrontare stante la «crescente tendenza alla esternalizzazione e al subappalto» e al connesso pericolo di elusione del vigente diritto sociale e del lavoro, partendo dal presupposto che «la lotta agli abusi è essenziale per garantire la libertà di circolazione nel mercato interno e la solidarietà all’interno dell’Unione»383. Dalla relazione della Commissione per l’occupazione e gli affari sociali emerge che il «“dumping sociale” è in aumento in ragione di rapporti di

380 COM (2016) 128 final, «proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica alla direttiva 96/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1996, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi». 381 «La Confederazione europea dei sindacati (CES) si è espressa a favore di una revisione per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento. In tale contesto tuttavia la CES ha invitato la Commissione a rispettare il principio di autonomia delle parti sociali nel negoziare le retribuzioni (…). Business Europe (…) ha suggerito che la “riapertura” della direttiva potrebbe ridurre le attività di distacco a causa dell’incertezza che il negoziato rischia di creare tra le imprese (…) [e] che il principio della “parità di retribuzione a parità di lavoro” comporti un’indebita interferenza dell’UE nella libera determinazione dei livelli salariali ad opera delle parti sociali (…). Tali argomentazioni sono state condivise anche dai rappresentanti dei datori di lavoro del settore metalmeccanico (CEEMET) e dalla Confederazione europea dei quadri (CEC). Anche la Confederazione dell’industria della Repubblica ceca e le associazioni di categoria di Finlandia, Svezia, Danimarca, Islanda e Norvegia hanno espresso preoccupazioni (…) in merito all’introduzione, nella direttiva sul distacco dei lavoratori, del principio della parità di retribuzione a parità di lavoro. Analogamente l’UEAPMI (Unione europea dell’artigianato e delle piccole e medie imprese) [e] Eurociett, che rappresenta il settore delle agenzie interinali (…).». 382 Parlamento europeo, Commissione per l’occupazione e gli affari sociali, Relazione sul dumping sociale nell’Unione europea del 18 agosto 2016, A8-0255/2016, http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A8-2016-0255+0+DOC+XML+V0//IT . Sulla diversa ricaduta del dumping sociale nei vari paesi dell’UE, vedi le contrapposte posizioni di Pessi, 2011, e Treu, 2017. 383 Relazione sul dumping sociale nell’Unione europea del 18 agosto 2016, A8-0255/2016, cit., lett. a).

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lavoro che presentano caratteristiche extraterritoriali» ed è «contrario ai valori europei in quanto mette in pericolo la protezione dei diritti dei cittadini dell’UE»384; inoltre, viene anche sottolineata una declinazione di genere del fenomeno che vede le donne quali principali vittime, specie in determinati settori385. Emblematico è poi il riferimento ai «rischi connessi alle lunghe catene di subappalto» tanto da spingere la Commissione per l’occupazione e gli affari sociali a chiedere alla Commissione europea: a) di monitorare attentamente il rispetto dell’obbligo derivante agli Stati membri dalla dir. 2014/67/UE «di fornire misure volte a garantire che nel settore dell’edilizia i lavoratori distaccati nella catena dei subappalti possano considerare responsabile del rispetto dei loro diritti il committente del quale il loro datore di lavoro sia subappaltante diretto»386; b) di esaminare «la possibilità di adottare misure a livello dell’UE per affrontare i vari aspetti dell’esternalizzazione, compresa l’estensione della responsabilità in solido nella catena del subappalto»; c) «di esaminare la possibilità istituire uno strumento in base al quale le imprese possono essere assoggettate a un maggiore dovere di diligenza che le ritenga responsabili sia rispetto alle filiali che ai subappaltatori che operano in un paese terzo, al fine di prevenire la violazione dei diritti umani, la corruzione, le lesioni personali o danni ambientali gravi e la violazione delle convenzioni dell’OIL»387. Gli atti e gli studi della Commissione europea e del Parlamento europeo, cui abbiamo fatto breve cenno, dimostrano come il conflitto tra le libertà economiche e i diritti sociali non si è affatto risolto, ed anzi è ancora in salita la strada per trovare una composizione che metta d’accordo tutti, in primis i diversi Paesi membri, specie i vecchi e i nuovi, e, in secundis, le parti sociali. Le indicazioni che provengono dagli interventi della Corte di Giustizia UE non sono molto rassicuranti; infatti, nella sentenza AGET Iraklis388 al riconoscimento delle libertà economiche fondamentali sancito dal TFUE si aggiunge quello accordato alla libertà d’impresa dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, assurta al rango di diritto fondamentale; l’effetto che ne consegue è una prevalenza degli interessi dell’impresa su quelli dei lavoratori colpiti dai licenziamenti collettivi (art. 30 Carta dei diritti cit.)389.

16. L’impresa tra responsabilità sociale e interesse economico

16.1. Dalla hard law alla soft law nell’era della globalizzazione Accanto ai modelli di hard law sin qui analizzati, per rispondere all’esigenza di un ragionevole contemperamento degli interessi in gioco all’interno dei fenomeni di frammentazione organizzativa, emergono con sempre maggiore insistenza meccanismi “soft” elaborati e adottati dagli attori economici in una prospettiva di autonormazione volontaria390. Trattasi di forme di regolazione spontanee, non cogenti, talora sprovviste di sanzioni, ma dotate ad ogni modo di efficacia regolativa tra le parti, accostabili al noto “Metodo di Coordinamento Aperto” (MAC) tanto caro al diritto europeo (già comunitario), che

384 Relazione sul dumping sociale, ult. cit., lett. h) e s). 385 Relazione sul dumping sociale, ult. cit., nn. 11), 46). 386 Relazione sul dumping sociale, ult. cit., n. 21). 387 Relazione sul dumping sociale, ult. cit., nn. 54), 55), 56). 388Corte di Giustia UE, 21 dicembre 2016, C-201/15, AGET Itaklis. 389 Un giudizio fortemente negativo sulla citata sentenza della Corte di Giustizia UE è espresso da Orlandini, 2017. 390 Tursi (2006b, 87), secondo il quale «La rincorsa del diritto si è fatta tanto affannosa, oggi, da suggerire, quell’alleggerimento e quella flessibilizzazione della regola giuridica – il soft law – di cui si nutre culturalmente la RSI»; Idem, 2006a, 65-82; Perulli, 2008, 898-902. Da ultimo Barbera, 2014, 631-645.

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conscio della sua impotenza ad agire in maniera incisiva nell’ambito dei diritti sociali, attraverso la Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), ha messo a punto una serie di congegni regolativi flessibili e non strettamente vincolanti, finalizzati al raggiungimento di obiettivi individuati mediante linee guida che impegnano le parti senza ledere troppo le rispettive sfere di sovranità. Così all’interno del dibattito attuale sulla globalizzazione e di fronte alla crisi del diritto del lavoro tradizionale in affanno nel contrastare le crescenti prassi di dumping sociale e di law shopping391, un ruolo potenzialmente di rilievo viene attribuito alla “Responsabilità sociale d’impresa” (RSI), strumento “soft” che cerca di far progredire i diritti dei lavoratori al di là e più efficacemente di quanto avviene con le attuali tecniche di hard law e che consiste in un’«integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate»392. Attraverso la RSI si propone all’imprenditore di superare l’approccio tradizionale dell’homo oeconomicus393, interessato unicamente a creare profitto per l’azionista, e di considerare gli effetti delle sue azioni nei confronti degli stakeholders, ovvero delle “parti interessate” all’agire imprenditoriale394, secondo il paradigma che «ciò che è buono per la società è buono anche per l‘impresa»395. In tal senso risulta essenziale far comprendere agli imprenditori che il business e la società hanno bisogno l’uno dell’altra perché si integrano in una logica di interdipendenza propositiva: l’istruzione, l’assistenza sanitaria e le pari opportunità sono essenziali per una forza lavoro produttiva; il miglioramento delle condizioni lavorative e la sicurezza riducono i costi interni dovuti agli incidenti; la sicurezza dei prodotti e la garanzia di qualità attirano i consumatori più attenti e sensibili, che sono disposti a pagare anche un sovrapprezzo per il surplus del valore del prodotto realizzato nel rispetto dell’ambiente e/o dei diritti umani e sociali; l’utilizzo efficiente di suolo, acqua, energia e altre risorse naturali accresce la produttività delle imprese, riducendo i costi di produzione. Le ricadute “lavoristiche” della RSI sono molteplici: da una parte la tutela della libertà sindacale, la lotta al lavoro minorile, forzato, coatto, le garanzie di condizioni minime di dignità del lavoro (sul piano salariale, temporale, dell’incolumità fisica e della sicurezza sociale); dall’altra la valorizzazione delle risorse umane, la partecipazione, la fidelizzazione e la formazione del personale, la conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro, la tutela dell’integrità fisica e morale della persona del lavoratore, la gestione delle ristrutturazioni, la disciplina delle esternalizzazioni. Si tratta – come si vede – proprio degli ambiti in cui emergono le insufficienze delle tecniche di tutela del diritto del lavoro396. Ciò detto, si deve però rilevare che la RSI nasce per affiancarsi, in via di arricchimento e completamento, alla regolazione classica, e non pretende di porsi in alternativa ad essa, in una prospettiva di deregolamentazione397. L’approccio sociale, infatti, intende

391 Ferraresi, 2012, 21; Speziale, 2017b, 20 ss. 392 Libro Verde della Commissione Europea, Promuovere in quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, COM(2001)366def, in europa.eu.it, 2001, § 20; Commissione Europea, Responsabilità sociale delle imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile, COM(2002) 347 def. 393 Per l’economia neoclassica il comportamento aziendale-razionale consiste esclusivamente nella creazione di valore, onde la funzione sociale dell’impresa si esaurisce nel perseguimento del profitto. L’impresa è un’entità economica e come tale la sua responsabilità sociale è quella di incrementare i propri profitti. Così Friedman, 1962, 133; Del Punta, 2005, 118. 394 Caruso, 2016, 248 secondo cui il profitto e il dividendo degli azionisti non è più lo scopo pervasivo e unico dell’operare soggettivo dell’imprenditore e oggettivo dell’impresa, bensì uno degli obiettivi, insieme ad altri meno egoistici. 395 Tursi, 2006b, 71. 396 Ferraresi, 2012, 21-26; Sacchi, 2015, 318-319. 397 Tullini, 2006, 63.

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“volontariamente” farsi carico di “preoccupazioni sociali” e di interessi più ampi rispetto a quelli considerati dal legislatore e dalla disciplina lavoristica398. Ci si è domandati se è opportuno (rectius conveniente) parlare di RSI nell’ambito di “sistemi protettivi maturi”, caratterizzati da un alto tasso di normazione dove si potrebbe verificare una sovrapposizione fra ciò che è imposto dalla norma e ciò che l’impresa è disposta volontariamente a fare399, condividendo l’imbarazzo a suo tempo manifestato da Dell’Olio400, quando si vuole attribuire il carattere di “volontarietà” e addirittura di “responsabilità sociale”, a quello che per il nostro ordinamento è obbligatorio da oltre un secolo401. Non è un caso che l’area nella quale la RSI sembra, per il momento, manifestare il suo maggior impatto è proprio quella “globale” che è caratterizzata da uno scarso tasso di normazione. In questo settore la RSI si sta mostrando come il più efficace (o meno inefficace) degli strumenti di promozione dei diritti sociali fondamentali nei Paesi in via di sviluppo402. Tuttavia se ci si arrendesse di fronte a questa evidenza, si dovrebbe abbandonare a priori il tema della RSI, ritornando nell’alveo giuspositivistico e del “normativamente disciplinato”. Al contrario è utile tentare di riconoscere alla RSI un ruolo attivo, e cioè di strumento in grado non solo di affermarsi lì dove manca o è quasi inesistente l’intervento dell’autorità pubblica, ma anche dove, pur in presenza di un alto tasso di normazione, si riscontra un’insufficienza delle tecniche di tutela apprestate dal diritto del lavoro. In quest’ultima ipotesi la RSI interviene ad ausilio, sostegno, completamento o dove, necessario, sostituzione del diritto del lavoro tradizionale403, garantendone l’effettività404. La RSI diventa perciò una manifestazione del processo di trasformazione pluralistica e policentrica delle fonti di regolazione dei fenomeni sociali, che va sotto il nome di “governance multilivello”, espressione con la quale Tursi intende riferirsi al processo in atto di alleggerimento della componente autoritativa della norma e di allentamento della struttura gerarchica dell’ordinamento, a vantaggio della funzione compositiva dei conflitti veicolata dalla normazione c.d. soft, basata sull’orientamento ai risultati e agli obiettivi e sulla cooperazione istituzionale tra una pluralità eterogenea di centri di regolazione405.

398 Cfr. Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, 18 luglio 2001, § 2.20. 399 Del Punta, 2005, 124. 400 Dell’Olio, 2006, 247 ss. 401 Sul punto cfr. Guarriello (2007, 135), secondo cui la nozione di responsabilità astrattamente condivisa (“comportamenti a carattere volontario che vanno nel senso del miglioramento degli standard normativi e contrattuali”) è generatrice di equivoci «in quanto talora viene intesa come osservanza delle leggi e dei contratti collettivi da parte dell’impresa: ma la mera osservanza del quadro giuridico non può di per sé configurarsi come un comportamento socialmente responsabile, anche se in un paese in cui è frequente l’elusione degli obblighi di legge e l’irregolarità, costituisce già un comportamento socialmente responsabile il rispetto delle legge e dei contratti collettivi». 402 Perulli, 1999b, 261 ss. 403 Ferraresi, 2012, 21-26. 404 Secondo Perulli (2013a, 46) la RSI non si pone al di fuori del contesto giuridico- istituzionale ma anzi lo presuppone e lo apprezza quale terreno di sviluppo di comportamenti che oltrepassano la stretta aderenza alla norma giuridica. È evidente che in tale prospettiva la RSI si pone al centro di nuovi processi di interpretazione e applicazione del diritto, di fonte legale e convenzionale, svolgendo una funzione di rafforzamento e/o integrazione della prescrizione normativa. 405 Tursi, 2006a, 78.

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16.2. La responsabilità sociale d’impresa come veicolo di garanzie sociali nella filiera produttiva

Se la RSI ha acquisito un ruolo di sicuro rilievo nei processi di globalizzazione per superare la barriera rappresentata dalle regole dello Stato ospitante, concorrendo al miglioramento della governance sociale e alla promozione delle norme fondamentali del lavoro, è lecito domandarsi se lo stesso meccanismo possa essere esportato, in piccola scala, all’interno di una filiera produttiva composta da imprese operanti nello stesso territorio e perciò destinatarie della medesima disciplina normativa. All’impresa, il cui unico e fisiologico scopo è di realizzare profitto, viene chiesto di assumere la responsabilità delle proprie decisioni e delle proprie azioni, sul piano economico, sociale, ambientale, lungo tutta la catena del valore406. La c.d. “tracciabilità sociale” - intesa quale possibilità di rilevare e verificare le modalità gestionali che assicurino il rispetto e l’implementazione dei diritti umani sociali, economici e del lavoro riconosciuti dalle normative internazionali, europee e nazionali, nell’attività di produzione e distribuzione di beni e servizi lungo tutta la filiera –potrebbe assolvere alla rilevante funzione di veicolare il rispetto di vere e proprie norme giuridiche oltre il loro naturale campo di applicazione, ovvero in condizioni di sostanziale ineffettività della regolazione e di conformare la condotta dell’impresa a canoni di diligenza altrimenti non esigibili, anche nelle ipotesi in cui la produzione sia affidata a sistemi di esternalizzazione407. Così ad esempio, in tema di appalti, la RSI potrebbe agire in una fase preliminare, influenzando la selezione dell’appaltatore e/o del subappaltatore o in una fase successiva, imponendo il rispetto dell’“etica” della committente all’interno dell’intera filiera produttiva. Nella prima ipotesi, le imprese committenti di fronte al concreto rischio di incorrere in una responsabilità solidale, potrebbero essere indotte a sviluppare procedure sempre più accurate di scelta e di monitoraggio degli appaltatori e della loro correttezza complessiva, che vengono solitamente presentate all’esterno (nonché propagandate all’interno) in chiave di RSI. Gli strumenti di RSI potrebbero diventare dei criteri di selezione qualitativa degli operatori economici, sulla falsa riga del «Sistema del rating di impresa e delle relative penalità e premialità»408, previsto nella disciplina degli appalti pubblici dal d.lgs. n. 50/2016 (art. 83), quale misura volta a promuovere l'introduzione di princìpi etici nei comportamenti aziendali e a misurare la capacità strutturale e di affidabilità dell’impresa409. Nella seconda ipotesi, invece, l’impresa committente potrebbe inserire clausole sociali o anche solo di trasparenza all’interno dei contratti di appalto e di subappalto410, lì dove manca un obbligo giuridico, oppure potrebbe imporre a tutta la filiera produttiva il rispetto di un codice di condotta o di uno degli strumenti di RSI (certificazioni sociali,

406 Del Punta, 2006a, 7. In un’ottica evolutiva cfr. Scarpelli (2012, 1428), secondo cui in tema di decentramento «la regola lavoristica non esaurisce la sua funzione nella classica tutela di valore della persona, ma ambisce a farsi diritto dell’economia che dà ordinamento alla pratica mercantile indirizzandola e conformandola secondo obiettivi socialmente apprezzabili, e verso modelli di competitività del sistema ispirati alla valorizzazione delle persona, della sicurezza, della professionalità individuale e collettiva, alla riduzione dei bisogni, alla contrazione dei costi sociali ecc.». 407 Così Addante, 2015, 252. 408 Il «Rating di legalità» è stato istituito dall'art. 5-ter d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv., con modificazioni, in l. 24 marzo 2012, n. 27 (c.d. decreto liberalizzazioni) integrato dal richiamo, seppur facoltativo, previsto dall'art. 1, co. 17, l. 6 novembre 2012, n. 190, per gli avvisi, bandi di gara o lettere di invito e inerente il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità, che costituisce causa di esclusione dalla gara. Di seguito il recentissimo d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 con l'art. 83, co. 10, ha introdotto il sistema del «rating di impresa» e delle relative penalità e premialità, da applicarsi ai soli fini della qualificazione delle imprese. 409 Addante, 2015, 250-251. 410 Ferraresi, 2012, 103.

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bilanci sociali, rendiconto sociale, marchio sociale etc.) che si pongono l’obiettivo di implementare le leggi, i regolamenti, le obbligazioni e i grandi principi internazionali, attraverso un meccanismo integrativo, nell’ottica dell’innalzamento dei livelli di tutela, o del loro completamento. Trattandosi di strumenti volontari e di autoregolamentazione, però, è necessario garantire la loro effettività non solo attraverso il monito di una sanzione sociale e reputazionale da parte del mercato e dei consumatori, ma anche attraverso meccanismi di “giuridificazione”, prevedendo la risoluzione dei contratti commerciali in caso di mancato rispetto degli impegni assunti con i codici di condotta o l’attribuzione unilaterale agli stessi di forza obbligatoria411. In questo modo in tutta la filiera produttiva, sotto l’egida dell’“etica” dell’impresa committente, si diffonderebbe indirettamente il rispetto di una serie di garanzie e di tutele dei lavoratori (normative ed economiche), che supererebbe l’obbligo legale dettato dalla norma inderogabile e cogente, in quanto espressione dell’autonomia negoziale degli attori economici che decidono (spontaneamente) di sottoscrivere un accordo commerciale. Con la conseguenza che il mancato rispetto della clausola e degli obblighi ad essa sottesi integrerebbe un inadempimento contrattuale potendo l’impresa committente richiedere la risoluzione del contratto commerciale. Invero, nel panorama della RSI esiste già una certificazione etica in grado di influenzare le condizioni di lavoro e i diritti dei dipendenti in tutta la filiera produttiva: si tratta della certificazione etica SA8000, proposta soprattutto alle imprese che operano in settori in cui sono diffuse pratiche di delocalizzazione produttiva. Il sistema SA8000 è basato infatti proprio sul concetto di influenza del cliente sul fornitore: ogni anello della catena produttiva deve impegnarsi per la tutela dei diritti dei lavoratori informando e stimolando l’adeguamento allo standard dei propri fornitori, sub-fornitori e sub-appaltatori; in sostanza tutta la filiera deve garantire il rispetto dei requisiti stabiliti nelle norme412. Cosicché l’azienda conforme allo standard assume su di sé la responsabilità, nella fase preliminare, di selezionare i propri fornitori e partner commerciali sulla base della rispondenza ai requisiti di cui alla SA8000 e, nella fase gestionale del rapporto negoziale, di controllare, monitorare e valutare il loro operato in base ai principi in essa applicati sino a rimediare prontamente alle eventuali non conformità. Va detto che un simile strumento di certificazione sociale non deve essere però (soprav)valutato nel suo contenuto, peraltro considerato per alcuni “banale”413, ma nell’effetto che la sua diffusione potrebbe ingenerare. Ed infatti se da un lato è vero che la SA8000 impone standard sociali, già previsti e disciplinati dal nostro ordinamento, tramite un corposo apparato normativo, dall’altro lato è indubbio che, ove inserita in un accordo commerciale, il suo rispetto si trasforma in una vera e propria clausola obbligatoria da cui dipende la validità del contratto. In questo modo i diritti dei lavoratori vengono rispettati non attraverso il monito della sanzione legale, ma attraverso il timore di una conseguenza economica, e cioè di non essere selezionato come parte contraente (nella fase preliminare) o di perdere la commessa o l’affare commerciale (nella fase gestionale). In quest’ottica per un’impresa ottenere una certificazione etica rappresenta certamente un vantaggio competitivo diversamente inteso: in termini di immagine e di fidelizzazione dei consumatori e degli utenti, in quanto la collettività, i clienti, la pubblica amministrazione sapranno di avere a che fare con un’azienda dal comportamento eticamente corretto e saranno dunque stimolati a instaurare rapporti con essa; in termini organizzativi, in quanto i rapporti tra impresa e lavoratori saranno caratterizzati da minore conflittualità; in termini meramente commerciali poiché un comportamento corretto nei confronti dei fornitori e dei partners commerciali fa sì che

411 Perulli, 2011, 220-221. 412 Perulli, 2004b, 3629. 413 Dell’Olio, 2006, 247-249.

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venga ad instaurarsi un rapporto fiduciario vantaggioso anche in termini economici; in termini competitivi in quanto un’impresa eticamente responsabile potrebbe essere preferita ai suoi concorrenti nella aggiudicazione di appalti o di commesse. Nella logica della profittabilità dell’impresa, quindi, la RSI può diventare uno strumento efficace per garantire o innalzare i livelli di tutela dei lavoratori influenzando tutto il sistema produttivo attraverso un positivo “effetto domino”.

16.3. La responsabilità sociale d’impresa: volontaria ma incentivata Questa lettura della RSI presta il fianco alle obiezioni di coloro secondo i quali la “giuridificazione” del fenomeno di fatto lo snatura. Ci si è interrogati, infatti, sulla correttezza dell’operazione ermeneutica di inserire la RSI, ontologicamente fondata sul concetto di “spontaneità” (autonormazione), all’interno di meccanismi sanzionatori che, seppur di stampo privatistico, sono previsti dalla legge (eteroregolazione)414. Tuttavia non può sottacersi che uno dei profili di maggior criticità in tema di RSI è rappresentato proprio dalle difficoltà che le imprese incontrano nell’adottare spontaneamente comportamenti responsabili allorché, isolate in un clima altamente competitivo e spregiudicato, vedano compromessa la propria redditività sino alla possibile espulsione dal mercato. Per tale ragione l’adozione di pratiche “responsabili” non può essere esclusivamente frutto di una scelta individuale dell’impresa, ma si ritiene debba essere effettivamente incentivata dall’azione pubblica con idonei sostegni giuridico- finanziari, che Kahn Freund chiama “indirect legal sanction”, ovvero sanzioni legali indirette che lasciano incontaminata la natura sociale delle norme deputate alla sua regolamentazione secondo l’assunto che «la promessa di un vantaggio può supplire adeguatamente all’assenza di giuridicità della norma»415. La norma incentivante viene infatti valutata sul piano dell’efficacia e non dell’effettività tipico della norma inderogabile416. Mentre quest’ultima, in presenza di interessi considerati dal legislatore superiori e prevalenti, mortifica la volontà individuale, impedendo, con il monito della sanzione, il compimento dei comportamenti non desiderati, il diritto promozionale ha la capacità di alterare il calcolo delle convenienze dell’impresa che orienta il proprio comportamento a quello che la legge desidera non attraverso il meccanismo dell’imposizione, ma quello dell’incentivo417. E dunque il diritto promozionale può esortare le imprese ad adottare codici di condotta per migliorare (ma non regolare) il funzionamento di un determinato settore di mercato, adottando a tal fine misure di incentivazione (premi, agevolazioni fiscali, esoneri da responsabilità etc.) la cui attivazione è subordinata all’applicazione del codice medesimo: il soggetto interessato se adotterà il codice etico e lo osserverà beneficerà della “sanzione premiale”418; mentre se omette di provvedere, non acquisterà il diritto di conseguire la situazione di vantaggio prevista dalla legge419. De iure condito, a livello statale si registrano pochi interventi legislativi di stampo promozionale che prevedono principalmente, se non esclusivamente, benefici

414 Del Punta, 2006, 11-12; Idem, 2005, 127; Peruzzi, 2006, 211-213. 415 Kahn – Freund, 1969, 14. V. anche Peruzzi, 2006, 187. 416 Osservava Kant (2004, 64) che le «ricompense come mezzo per compiere azioni buone sono più adatte che non le pene per tralasciare azioni cattive». 417 Bobbio, 1969, 1318. L’A. precisa che «col minimo di parole si può utilmente distinguere un ordinamento protettivo-repressivo da un ordinamento promozionale, dicendo che al primo interessano soprattutto i comportamenti socialmente non desiderati, onde il suo fine precipuo è di impedirne quanto più è possibile il compimento; al secondo interessano soprattutto i comportamenti socialmente desiderati, onde il suo fine è di provocarne il compimento anche nei confronti dei recalcitranti». 418 Ghera, 1979, 10 ss.; Pinto, 2008. 419 Senigaglia, 2013, 90-91.

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normativi420, mentre sono abortiti innumerevoli disegni o progetti di legge che stanziavano anche incentivi economici421. Al contrario il legislatore regionale ha mostrato un interesse crescente e non meramente nominale per la RSI, ed infatti, nel timore che se lasciata all’iniziativa privata la RSI avrebbe stentato a decollare (soprattutto per le spese iniziali da sostenere per le certificazioni da parte degli enti accreditati), ha adottato degli impegni in termini di spesa e di organizzazione che si sono tramutati in benefici economici, specie nella forma di rimborsi di spesa e sgravi fiscali, nell’istituzione di Albi o Registri di pubblica evidenza per le imprese socialmente responsabili, nella creazione di commissioni o consulte composte dagli stakeholder con ruoli di verifica e monitoraggio, nella preferenza riconosciuta alle imprese responsabili nell’aggiudicazione di appalti pubblici422. L’applicazione della norma incentivante non è coattiva, ma neanche del tutto spontanea, pur se rimane volontaria, potendo diventare l’unico strumento di promozione compatibile con la RSI423.

16.4. La responsabilità sociale d’impresa tra valutazione teorica ed effetti sistemici

Tuttavia quando si parla di diritto promozionale associato alla RSI si rischia di cadere in un “circolo vizioso” che vanifica la pura eticità dell’agire dell’impresa, facendo emergere nuovamente il profilo “patrimoniale” delle sue scelte424. L’osservanza di una regola etica, di per sé, è consegnata alla spontaneità del soggetto il quale liberamente e in modo disinteressato decide di adeguare il proprio comportamento all’uno e all’altro precetto. Quando invece azioni oggettivamente buone (rectius etiche) vengono compiute sulla base di un calcolo dei guadagni per il soggetto agente queste azioni, proprio perché motivate dal guadagno, non possono essere classificate come atti autenticamente morali425. In queste ultime ipotesi il codice etico è adottato dall’impresa perché spinta da un interesse di carattere economico ovvero, in quanto ravvisa nel contenuto della regola etica una risorsa patrimoniale la cui appropriazione, pur comportando inevitabilmente dei costi, fa conseguire un vantaggio economico (inteso

420 Ad esempio v. l’art. 93, co. 7, d.l.gs. n. 50/2016 ove si stabilisce che «Nei contratti di servizi e forniture, l'importo della garanzia e del suo eventuale rinnovo è ridotto del 30 per cento per gli operatori economici in possesso del rating di legalità o della attestazione del modello organizzativo, ai sensi del decreto legislativo n. 231/2001 o di certificazione social accountability 8000, o di certificazione del sistema di gestione a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, o di certificazione OHSAS 18001, o di certificazione UNI CEI EN ISO 50001 riguardante il sistema di gestione dell’energia o UNI CEI 11352 riguardante la certificazione di operatività in qualità di ESC (Energy Service Company) per l’offerta qualitativa dei servizi energetici e per gli operatori economici in possesso della certificazione ISO 27001 riguardante il sistema di gestione della sicurezza delle informazioni”; v. anche l’art. 6, d.lgs. n. 231/2006 che prevede per le società l’esenzione dalla responsabilità amministrativa qualora dimostri di aver adottato efficacemente un modello di controllo interno atto a prevenire le forme di reato previste, facilmente identificabile nel codice di condotta. 421 V. p.d.l. C 354 del 3 maggio 2006; d.d.l. S 1237 dell’11 gennaio 2007; d.d.l. S 386 del 6 maggio 2008; d.d.l. S 370 del 6 maggio 2008; p.d.l. C 3565 del 22 giugno 2010; d.d.l. S 81 del 15 marzo 2013; p.d.l. C. 812 del 19 aprile 2013. 422 Per un’analisi delle normative regionali in tema di RSI v. Le Regioni e la Responsabilità sociale di impresa. Report della Ricognizione delle iniziative in tema di RSI realizzate dalle Regioni/PA e Contributo delle Regioni/PA per “Action Plan Nazionale 2013-2014 sulla responsabilità d’impresa”. V. anche Peruzzi, 2006, 205-210. 423 In tale senso Perulli (2011, 210) secondo cui il diritto premiale rappresenta «la via più mite alla clausola sociale»; v. inoltre Cagnin, 2013, 211-217; Addante, 2015, 250-251. 424 Di questo parere sono Tursi, 2006a, 101, e Nogler, 2006, 158-160. 425 Bauman, 2010, 62-63.

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sia nell’accezione della citata “sanzione premiale” sia in termini di ricaduta e di impatto sul mercato426). Si è consci che ricondurre la RSI al vantaggio competitivo, acquisito anche attraverso il diritto promozionale, può sembrare una contraddizione, considerato che si è partiti dall’assunto secondo cui è necessario spronare gli imprenditori a superare l’approccio dell’homo oeconomicus, per cui ritenere che l’impresa rispetti un’etica sociale solo al fine di ottenere un vantaggio, di qualsiasi natura esso sia, significa abbandonare l’idea che può esserci uno spazio per una responsabilità sociale spontaneamente assunta dall’impresa che si conferma un’entità “senza cuore e senza anima” ancorata alla ricerca del profitto o della profittabilità delle sue azioni427. Ecco quindi che è necessario fare una scelta di campo e decidere se approcciarsi al tema della RSI in maniera diffidente, negando all’impresa qualsiasi velleità etica in quanto interessata unicamente alla massimizzazione del profitto oppure attribuire a quest’ultima un ruolo istituzionale o come ha sostenuto Barbera di “attore politico”, cioè di soggetto decisore che dà voce non solo ai propri interessi ma anche a quelli collettivi e che assume obblighi, non imposti dalla legge, di tutela dell’ambiente, del benessere e della qualità dell’ambiente di lavoro interno; che si attiene a pratiche commerciali leali; che stabilisce garanzie a tutela dei consumatori; che impone il rispetto dei diritti umani alla catena dei fornitori e subfornitori. In questi termini la RSI non si pone come un vincolo esterno etero-imposto dallo Stato al mercato, ma come scelta dell’impresa che non soltanto accresce la produttività, ma ne rafforza la legittimità nei confronti del territorio d’origine e degli stakeholders, diventando essa stessa garante del benessere di tutti coloro che forniscono condizioni di produzione428. Non si può che aderire a questa seconda visione della RSI più aderente ad un approccio pragmatico che cerca soluzioni e non solo teorie429.

17. La “dipendenza economica”: dal diritto dell’impresa al diritto del lavoro (una tecnica di tutela riflessa)

Al fenomeno dell’impresa economicamente dipendente e ai riflessi negativi in termini di tutela che tale condizione riverbera sui lavoratori in essa impiegati si è fatto cenno a proposito dei cambi di appalto. Il discorso merita un approfondimento in un’ottica invertita volendosi verificare se dalla tutela del soggetto imprenditoriale debole possa discendere quella dei suoi dipendenti430. Nella più recente regolazione del diritto dei contratti (anche fra imprese) emerge la tendenza ad attribuire rilevanza giuridica ad elementi di fatto non presi in alcuna considerazione dall’impostazione tradizionale del diritto privato431. Oltre al settore del diritto dei consumatori, una menzione particolare dev’essere riservata al fenomeno della contrattazione diseguale fra imprese. Si tratta di ipotesi in cui tra soggetti imprenditoriali che operano sul mercato quali operatori in posizione di parità vengono a

426 Numerosi studi hanno rilevato che le imprese percepite come socialmente responsabili sono in grado di conquistare una maggiore quota di mercato «grazie al fatto che i consumatori esprimono una maggiore (o minore) disponibilità a pagare per prodotti che incorporano o meno caratteristiche che i consumatori valutano positivamente o negativamente sulla base di determinati valori e preferenze»; così Venturini, 2010, 31; Senigaglia, 2013, 106-108. 427 Si rinvia agli Autori citati nella nota 393. 428 Barbera, 2014, 631-645. 429 Del Punta, 2006a, 14-15; Idem, 2006b, 61-62 secondo cui la CSR non deve essere giudicata secondo il metro dell’inafferrabile «sincerità» dei propositi dell’impresa, bensì guardando ai suoi effetti sistemici, o, per dirla altrimenti, alla sua capacità di coinvolgimento sociale e culturale e di promozione di una logica cooperatoria negli interstizi delle contemporanee società «riflessive». 430Marinelli, 2002, 38.431 Mazzotta, 2006, 164.

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strutturarsi una serie di rapporti che, a dispetto dell’anodina forma della relazione negoziale, sono caratterizzati da un legame di autorità-subordinazione istituito dal contratto432. Già la legge (antitrust) n. 287/1990 si preoccupa, com’è noto, di regolare la posizione dominante che un’impresa può assumere sul mercato, al fine di vietarne l’abuso e garantire un tendenziale assetto concorrenziale dello stesso mercato. Sulla scorta di questi dati normativi - e se si lascia sullo sfondo l’eventualità in cui due imprese diano vita ad una relazione formalmente e sostanzialmente paritaria - le forme di manifestazione della posizione potestativa che un’impresa può assumere conoscono, quindi, diverse declinazioni: può trattarsi di una posizione di assoluta dominanza sul suo mercato di riferimento (e quindi nei confronti di tutti gli altri operatori economici dello stesso), come può verificarsi l’ipotesi in cui ad essere dominato non è l’intero settore del mercato, ma solo alcune imprese, giuridicamente partecipi dell’intrapresa economica della società capo-gruppo perché integrati verticalmente nella sua organizzazione433. Fra le polarità dell’integrazione verticale e del ricorso al libero mercato è possibile rilevare l’esistenza di relazioni commerciali caratterizzate da un’ipotesi di dominanza relativa, ove alcune imprese risultano economicamente dipendenti nei confronti di un’altra in forza di una relazione negoziale che consente ad un’impresa dominante di «estendere ad una relazione esterna la stessa gerarchia che caratterizza i suoi rapporti di produzione interni»434. Il quid novi che ha sollecitato l’attenzione della dottrina, si diceva, è la circostanza che nei più recenti provvedimenti normativi il legislatore ha iniziato a disciplinare in maniera speciale alcuni aspetti di quelle relazioni negoziali spesso contrassegnate da una diseguaglianza giuridificata, al fine di de-limitare l’uso del potere insito nel

432 La disciplina della subfornitura industriale è un tipico esempio della recente tendenza dell’ordinamento ad attribuire rilevanza giuridica ai rapporti di potere determinati dalla conclusione di contratti di durata che, ben lontani dalle scarne regole predisposte dal codice civile in materia di obbligazioni, sono disciplinati dalla volontà del contraente forte (in grado di colmare in maniera funzionale alle proprie esigenze i vuoti determinati dalla tipica incompletezza del contratto); cfr.: Nogler, Reifner, 2010; Supiot, 2006, 131 (nella dottrina francese si è già coniata la categoria dei contracts de dépendance). V. anche l’approfondito studio di Lucchesi, 2012. Sul fenomeno di contratti formalmente paritari (di mercato), ma in realtà costitutivi di relazioni (gerarchiche) di potere e subordinazione fra imprese la dottrina giuslavoristica ha da tempo iniziato ad interrogarsi; cfr.: Garofalo M.G., 1999, § 10; Idem, 2006, 137 ss.; Idem 2008, 1566; Idem 2009; Supiot, 2000, 224 ss.; Perulli, 2003b; Voza, 2004, 17 e, amplius, cap. IV, spec. § 1; Barbera, 2010; Speziale, 2010. 433 Scarano, 2013. 434 In termini, Lo Faro, 2008, 231. V. Barbera, 2010, 635 ss. (ivi altra bibliografia) e, nella civilistica: Orlandi, 2010, 1823 («La dominanza relativa appare allora segnata da due caratteri essenziali: essere generata e comunque rilevare nei rapporti contrattuali commerciali, anche a prescindere dal contesto di mercato; essere il contratto collocabile nella categoria della cogestione e non del mero scambio»); Villa, 2008, 119. Come si legge chiaramente in Sacco, De Nova (2004, 610-611): «La posizione dominante e il cartello qualificano la situazione di un potenziale concorrente nei riguardi di tutti i suoi potenziali concorrenti, i quali possono venire a trovarsi con lui in un rapporto cosiddetto orizzontale. Ma la lotta contro l’abuso della situazione economica può portare a darsi carico dei rapporti cosiddetti verticali: nei quali un’impresa, cliente o fornitrice di un’altra, legata cioè da un rapporto con quest’altra organizzazione, dipende economicamente da essa». Il tertium genus delle relazioni imprenditoriali si ottiene attraverso un sapiente uso delle regole del diritto delle società (come nel caso dei gruppi) o con norme del diritto dei contratti (come nel caso delle reti di impresa et similia): Supiot, 2000, 224; ma nella consapevolezza che se “il rischio dell’affare è eterodeterminato e disciplinato ab externo, allora si esce dalla logica del mercato e si entra nella logica della eteronomia economica”, così Orlandi, 2010, 1831.

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rapporto (e non solo sul mercato) e di conseguenza apprestare forme di tutela della parte ‘debole’ dello stesso435. In questa prospettiva dev’essere letta la regolamentazione del rapporto di subfornitura industriale dettata dalla l. n. 192/1998, finalizzata a vietare «l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, un’impresa cliente o fornitrice» (art. 9, co. 1). Il legislatore si è anche preoccupato di dare una definizione normativa della nozione di dipendenza economica436, di individuarne alcuni indici sintomatici437 e di regolare l’apparato rimediale a tutela dell’impresa dipendente438. L’ambito di applicazione della disposizione costituisce oggetto di dubbi interpretativi439. Infatti, secondo l’opinione prevalente in dottrina, che ha trovato ampio seguito in giurisprudenza, l’art. 9, l. n. 192/1998 contiene una disposizione che non si limita a regolare i rapporti di subfornitura ma ha una portata generale, estendendosi potenzialmente a tutti i contratti dei quali siano parti imprenditori commerciali. Depongono in questo senso sia l’uso del termine “cliente” accanto a quello di “fornitore”, sia l’integrazione dell’art. 9 con il co. 3-bis - introdotto dall’art. 11, co. 2, l. 5 marzo 2001 n. 57 – che legittima l’intervento, a certe condizioni, dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Il dibattito giurisprudenziale sembra essersi placato a seguito dell’ordinanza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 25 novembre 2011 n. 24906. Ed infatti, i successivi pronunciamenti giurisprudenziali si sono uniformati all’intervento de quo propendendo, quindi, per l’applicazione estensiva dell’art. 9, l. n. 192/1998440. Secondo le Sezioni Unite l’art. 9 trova applicazione a condizione che vi sia una situazione di dipendenza economica. L’elemento massimamente in grado di disvelare una situazione di dipendenza economica è rappresentato dall’esecuzione da parte dell’impresa “debole”, di investimenti specifici per far fronte agli obblighi derivanti dal rapporto contrattuale. Altri indici rivelatori sono costituiti dalla concentrazione del fatturato verso pochi committenti, dall’entità dei costi di commutazione o riconversione per spostarsi verso un’altra relazione contrattuale e dall’asimmetria informativa tra i contraenti. Tale filone giurisprudenziale ritiene applicabile la disciplina de qua a tutti i rapporti contrattuali tra imprese, non ritenendo il comportamento-tipo punito dalla norma ascrivibile esclusivamente ai contratti di subfornitura.

435 Più il «potere economico si immerge nell’intrico delle reti d’imprese, più questa subordinazione assume nuovi volti», così Supiot (2006, 151); v. anche Voza, 2004, cap. III, §§ 1 e 2). In quest’ottica, nella dottrina privatistica, v. amplius Monateri, 2005. 436 Art. 9, co. 1: «Si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi». 437 Art. 9, co. 1: «La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti»; art. 9, co. 2: «L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nell’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto». 438 Art. 9, co. 3: «Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo». La disciplina si completa con una serie di prescrizioni che impongono obblighi di forma ed alcune disposizioni finalizzate a limitare lo ius variandi ed il diritto di recesso in capo all’impresa sovra-ordinata; ma per tutti questi aspetti v. Caso, Pardolesi, 1998 e, amplius, Colangelo, 2004. 439 Marinelli, 2012, 1676 ss. 440 Per la giurisprudenza di merito v. Trib. Bassano del Grappa 2 maggio 2013; Trib. Roma 30 novembre 2009; Trib. Torino 11 marzo 2010; Trib. Trieste 20 settembre 2006; Trib. Isernia 12 aprile 2006; Trib. Roma 5 novembre 2003; Trib. Bari 6 maggio 2002; Trib. Bari 11 ottobre 2004. Contra, Trib. Roma 17 marzo 2010, 19 febbraio 2010, 24 settembre 2009, 5 maggio 2009; Trib. Bari 2 luglio 2002.

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Il filo conduttore di tali pronunciamenti, nonché dell’orientamento dottrinale a questi conforme, sta nell’aver qualificato il divieto di abuso di dipendenza economica come un rimedio generale volto a contemperare gli squilibri contrattuali esistenti nei rapporti tra la committente e la fornitrice. Tornando alla disciplina contenuta nella l. n. 192/1998, l’importanza di questo provvedimento normativo nel disegno complessivo finalizzato a regolare le relazioni imprenditoriali caratterizzate da squilibrio (reputato) giuridicamente rilevante (e, quindi, oggetto di disciplina tendenzialmente correttiva) è da ascrivere alla circostanza che il legislatore prende atto dell’esistenza di posizioni di potere strutturalmente insite nella dinamica fisiologica delle relazioni negoziali formalmente paritarie441, al fine di predisporre una disciplina normativa applicabile a tutti i rapporti caratterizzati dallo squilibrio descritto nella norma442. Un ulteriore tassello di comprensione delle recenti prospettive regolative può essere desunto dalla disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali introdotta dal d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, in attuazione della dir. 2000/35/CE, emanata nell’ottica di predisporre delle regole di tutela del creditore di prestazioni pecuniarie in presenza di accordi gravemente iniqui dei suoi interessi443. Anche in questo caso, la tecnica normativa utilizzata non è nuova (e solo per aspetti di dettaglio si distacca parzialmente dal regime utilizzato dal legislatore per i contratti del consumatore e per la disciplina generale in materia di subfornitura): previsione di norme che fissano i termini del pagamento e la misura degli interessi di mora (art. 4) con il solito rimedio della nullità - pronunciabile dal giudice a seguito dell’accertamento della presenza di clausole risultanti gravemente inique della posizione del creditore (art. 7, co. 1) - comportante l’applicazione delle condizioni legali ovvero la riconduzione ad equità degli accordi (art. 7, co. 3)444.

441 Posizioni di potere che esulano da fenomeni di patologia nel procedimento di formazione del consenso in cui può occasionalmente venirsi a trovare la libertà negoziale del singolo (Roppo, 2007, 685, anche nt. 36; Voza, 2007, 208); prova ne sia la circostanza che - a differenza della disciplina consumeristica - l’eventuale presenza di una volontà liberamente formatasi ed il corrispondente svolgimento di una trattativa individuale non valgono ad escludere l’abuso. Nei rapporti fra imprese in cui emergono profili di dipendenza economica l’asimmetria strutturale si esprime nel classico take it or leave it in presenza dell’empirico «difetto d’interesse del potente, il quale non è disposto a negoziare clausole o statuti individuali perché può trovare sul mercato molte altre imprese disposte ad accettare discipline vessatorie pur di conseguire l’opportunità economica dell’affare. Lo squilibrio è in ciò: pochi o nulli sono i soggetti capaci di offrire l’opportunità dell’affare; molti i soggetti interessati ad aderire» (Orlandi, 2008, 1828). 442 Nonostante alcune voci discordi espresse dalla giurisprudenza (e riportate da Volpe, 2007, 709), la dottrina è unanime nel considerare la subfornitura industriale, così come tipizzata nell’art. 1, legge n. 192/1998, una fattispecie trasversale che non dà vita ad un nuovo tipo contrattuale, ma che invece risulta applicabile a qualsiasi relazione negoziale fra imprese connotata dalla dipendenza economica come enucleabile dalla norma. Cfr., nella nostra dottrina, Marinelli, 2002, 39 ss.; Perulli, 2003, 253 e Voza, 2004, 196. 443 Il ‘naturale’ campo di applicazione del d.lgs. n. 231/2002 coincide con il raggio di operatività della disciplina della subfornitura industriale (ciò emerge anche dalla lettura dei considerando della dir. 2000/35/CE e dall’art. 3, l. n. 192/1998, come riscritto a seguito dell’emanazione del suddetto d.lgs.), posta la finalità di “prevenire l’accumulo di potere da parte dell’impresa dominante che possa ottenere liquidità aggiuntiva a spese dei suoi creditori” (Villa, 2008, 120-121). 444 Diversa è la posizione sostenuta da Volpe, 2007, 708, che mette in evidenza come nel d.lgs. n. 231/2002 sia riconosciuta alle parti la possibilità di fissare i termini concreti del pagamento e di concordare gli interessi di mora anche diversi da quelli fissati nel d.lgs. n. 231/2002. L’Autore conclude per la natura dispositiva di tali disposizioni, che troverebbero applicazione se le parti nulla hanno stabilito (art. 4, co. 2) ovvero nell’ipotesi in cui le clausole derogatorie siano considerate inique, ma solo a seguito di un intervenuto controllo giudiziale. Come mette in evidenza Voza (2004, 202, anche nota 44), in aderenza al dato normativo, la disciplina s’impone anche contro la difforme volontà dei contraenti, limitandosi l’art. 4, co. 2 a prevedere la legittimità di una regolamentazione diversa (peggiorativa per gli

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Non a caso parliamo di istituti che a breve il legislatore applicherà al “lavoro autonomo non imprenditoriale” tout court445 con l’approvazione del d.d.l. n. S-2233-B d’imminente approvazione: si pensi all’art. 2 (Tutela del lavoratore autonomo nelle transazioni commerciali) che espressamente sancisce l’estensione delle «disposizioni del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 … anche alle transazioni commerciali tra lavoratori autonomi e imprese o tra lavoratori autonomi»; ovvero all’art. 3 (Clausole e condotte abusive), volto a sanzionare quegli ‘abusi di potere’ che si sostanziano in clausole attributive in favore del committente della «facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto o, nel caso di contratto avente ad oggetto una prestazione continuativa, di recedere da esso senza congruo preavviso nonché le clausole mediante le quali le parti concordano termini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data del ricevimento da parte del committente della fattura o della richiesta di pagamento» (co. 1), ovvero «il rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta» (co. 2), con la previsione in capo al lavoratore autonomo del «diritto al risarcimento dei danni» (co. 3)446. Insomma, il profilo emergente dalle ultime tendenze regolative in materia contrattuale continua a segnare un’evidente «laburizzazione» del diritto che disciplina i rapporti economici interprivati, ormai consapevole di non poter più ignorare quanto sotto la forma della struttura negoziale le neutre costruzioni dogmatiche tendono ad occultare: l’asimmetria di potere fra gli operatori economici, con un tessuto normativo che inizia ad essere permeabile alle istanze di protezione di particolari interessi sui quali s’innervano i rapporti produttivi447. E ciò che ancor più assume rilevanza, il diritto privato “contemporaneo” si interessa delle relazioni di potere che strutturano il mercato, non reputando più quest’ultimo come uno spazio libero nel quale avvengono isolati incontri di volontà, ma come un luogo che sotto la forma giuridica delle varie fattispecie negoziali si compone di organizzazioni basate su vincoli di potere e subordinazione che investono direttamente il singolo rapporto contrattuale448. Tale svolta nella regolamentazione dei rapporti economicamente dipendenti finisce con l’incidere sulla organizzazione integrata fra imprese, tutelando quella più debole e indirettamente i suoi dipendenti.

interessi del creditore) applicabile solo se prevista per iscritto e rispettosa degli accordi interprofessionali siglati “dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale della produzione, della trasformazione e della distribuzione per categorie di prodotti deteriorabili specifici”. 445 Perulli, 2004a, 19 ss. 446 Tra i primi commenti al d.d.l. n. 2233 v. Razzolini, 2016; con riferimento, invece, all’abrogato art. 69-bis, d.lgs. n. 276/2003, v. Proia, 2015; De Salvia, 2015; Del Biondo, 2015. 447 Pedrazzoli, 1998, 553, che sottolinea l’atteggiamento dell’ordinamento giuridico nel senso di una «considerazione giuslavoristica “controllata” dei rapporti di lavoro tra imprenditori». 448 Garofalo M.G., 2009, 192. Cfr. pure Femia, 2008, 281: «bisogna costringere il contratto a conoscere il proprio sé oscuro: il potere. Siamo stati abituati a non vedere il contratto come strumento di produzione di potere (…) il contratto non soltanto è generato dal potere, ma soprattutto crea e distribuisce potere». La dipendenza economica, per esempio, «è definita in funzione del potere di mercato, quindi ciò che entra nella struttura definitoria della fattispecie è il potere dell’impresa in posizione di forza» (Zoppini, 2008, 245); il tutto allo scopo di disciplinare quel potere - presente già prima della fattispecie - all’interno del rapporto, ove crea quel “plusvalore” da sempre espunto dalla categoria contrattuale perché considerato una sovrastruttura (cfr. ancora Femia 2008, 283-284). In questo senso, si affiancano alle tradizionali tecniche di controllo dei poteri privati (l’imposizione di obblighi formali e procedimentali di esercizio del potere, l’utilizzo delle clausole generali in funzione limitativa, l’attribuzione di un controllo giudiziale sulle sue forme di manifestazione, etc.), la posizione di diritti soggettivi a favore della parte ‘debole’ tendenzialmente finalizzati a riequilibrare la relazione negoziale.

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PARTE TERZA - OLTRE LA FRAMMENTAZIONE ORGANIZZATIVA: IL LAVORO NELLA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

18. Il lavoro tra quarta rivoluzione industriale e collaborative economy L’analisi delle tecniche di tutela del lavoratore coinvolto nei processi di frammentazione dell’organizzazione produttiva, esistenti e prospettabili, non vuole essere un punto di arrivo ma di partenza in quanto il lavoro nella quarta rivoluzione industriale ci porta già «oltre la frammentazione».

18.1. Il lavoro nell’industria 4.0 Con l’etichetta tanto efficace quanto evocativa di “Industry 4.0” o “Industria 4.0”449 ci si riferisce al processo di trasformazione della produzione industriale450, derivante dalla capillare diffusione delle tecnologie digitali e dall’interconnessione degli oggetti, c.d. Internet of Things451 (IoT), che quindi acquisiscono una loro identità elettronica452, e dallo sviluppo della robotica453. Il Governo italiano ha presentato nel settembre 2016 un «Piano nazionale Industria 4.0», evidenziando che «la politica industriale è tornata al centro dell’agenda di Governo» e prevedendo una serie di misure dirette a favorire gli investimenti per l’innovazione e per la competitività, in parte con la legge di bilancio 2017 (l. n. 232/2016) in parte con altri provvedimenti di varia natura454. Il nuovo processo di trasformazione delle organizzazioni produttive e della stessa organizzazione del lavoro è stato denominato “quarta rivoluzione industriale” per evidenziare la drastica rottura con il passato (disruption of incumbents) e la rimodellazione dei sistemi di produzione, consumo, trasporto e spedizione: «We are at the beginning of a revolution that is fundamentally changing the way we live, work, and relate to one another. In its scale, scope and complexity, what I consider to be the fourth industrial revolution is unlike anything humankind has experienced before. (…)We are witnessing profound shifts across all industries, marked by the emergence of new business models, the disruption of incumbents and the reshaping of production, consumption, transportation and delivery systems»455. Le tappe salienti che sintetizzano, convenzionalmente, i grandi cambiamenti di paradigma456 (da cui il termine “rivoluzione”457) per ciò che concerne i metodi di

449 Nata in Germania nel 2011 come «Industrie 4.0», l’espressione nella versione inglese di «Industry 4.0». è ormai entrata nel linguaggio comune. Danno conto dell’origine dell’espressione Tiraboschi M., Seghezzi, 2016. La riflessione, anche politica, su questi temi in Europa è molto approfondita e articolata, cfr. Bussemer, Krell, Meyer, 2016. 450 Aa.Vv., 2015a. 451 Fiani, 2017. 452 The Internet of Things Will Drive Wireless Connected Devices to 40.9 Billion in 2020, ABI Research, 20 Agosto, 2014 https://www.abiresearch.com/press/the-internet-of-thingswill-drive-wireless-connect/; Internet of Things: Privacy & Security in a Connected World, Federal Trade Commission, Gennaio 2015, https://www.ftc.gov/system/files/documents/reports/federal-trade-commission-staff-report-november-2013-workshop-entitled-internet-things-privacy/150127iotrpt.pdf 453 Amplius cfr. http://www.mckinsey.com/; sui rischi ufficialmente riconosciuti v. World Economic Forum, The Global Risks Report 2017, 12th Edition, www.weforum.org 454 Così si è espresso il Ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, cfr. comunicazioni e specifica delle misure pubblicate sul sito http://www.mise.gov.it; per un commento cfr. Tiraboschi, Seghezzi, 2016, 2. 455 Schwab, 2016, 1-2. 456 L’ingresso nel linguaggio filosofico e scientifico del termine «paradigma» è sicuramente riconducibile a Kuhn, 1979.

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produzione manifatturiero/industriale, sono quindi riassumibili, ad oggi, in tre o quattro, di cui le prime due sono dal punto di vista storiografico ed economico certamente consolidate, mentre ancora in discussione è la categorizzazione dei fenomeni più recenti. La prima rivoluzione industriale viene collocata nella seconda metà del Settecento e si caratterizzò per l’introduzione della macchina a vapore e del telaio meccanico negli stabilimenti produttivi458; la seconda, collocabile negli ultimi trent’anni del XIX secolo, viene ricordata per l’applicazione delle scoperte scientifiche e tecnologiche ai vari rami dell’industria, per l’introduzione della catena di montaggio e l’avvio della produzione di massa459. Secondo il «World Economic Forum»460 e il Governo italiano461 la terza rivoluzione industriale va collocata negli anni ’70 del Novecento, per l’utilizzo dell’elettronica e dell’informatica nella produzione, mentre la quarta462 è in atto, qualificandosi e differenziandosi dalla terza per l’ampio uso della robotica e dell’intelligenza artificiale, dei «Cyber Physical Systems», per la connessione delle cose (IoT), e la gestione di enormi quantità di dati, c.d. big data; viceversa, Rifkin, non distingue tra terza e quarta, definendo quale terza rivoluzione industriale quel sistema ibrido che caratterizza la fine del Novecento e il nuovo millennio, nel quale si trovano a convivere l’economia capitalista fondata sul mercato e la c.d. sharing economy463. A prescindere dalle classificazioni (sempre opinabili, specie nella categorizzazione operata da chi vive il cambiamento), la portata di tali fenomeni, l’impatto sull’organizzazione del lavoro e sullo stesso futuro del lavoro, nonché le ricadute sulle categorie giuridiche tradizionali, hanno portato, in prima battuta, il Comitato per gli affari legali464 del Parlamento UE, e a seguire lo stesso Parlamento UE465 a premere sulla Commissione affinché si creino le categorie giuridiche per regolamentare l’uso della robotica e dell’intelligenza artificiale (c.d. AI) nelle organizzazioni produttive, al fine di chiarire anche gli aspetti connessi alla sicurezza, proprietà intellettuale, privacy, gestione dei big data, responsabilità civile, oltre che stimolare un dibattito sulle ricadute etiche e filosofiche466 di un tale impiego. Nelle more che le istituzioni europee e nazionali sciolgano le riserve ideologiche e delineino nuove regole giuridiche più idonee ad interpretare i nuovi fenomeni e le nuove

457 L’uso dell’espressione «rivoluzione industriale» è stata coniata agli inizi del XIX secolo in Francia: alcuni attribuiscono la paternità dell’espressione all’economista liberale A. Blanqui altri a Natalis Briavoine; solo a partire dalla metà dell’Ottocento l’accostamento dei due termini si espande oltre i confini francesi e verrà ampiamente utilizzato prima da Engels, 1845 e successivamente da Marx, 1867, per poi trovare ampia fortuna in Inghilterra con A. Toynbee e T. Rogers, verso la fine del secolo. Sulla storia dell’espressione cfr. amplius Fohlen, 1976, 9-20; v. anche Castronovo, 1988, 3-14. 458 Hobsbawm, 1972; Landes, 1969, cap. II, 55-164 ; Deane, 1982. 459 Landes, 1969, cap. VI; Postan, Mathias, 1979-1980. 460 Schwab, 2016. 461 Cfr. «Piano nazionale Industria 4.0» presentato dal Governo italiano nel 2016. 462 Schwab, 2016. 463 Rifkin, 2012. 464 European Parlament - Commitee on Legal Affairs, Draft Report with Raccomandation to the Commission on Civil Law Rules on Robotics, (2015/2103/INL), Rappoteur: Mady Delvaux; v. anche Directorate-General for Internal Policies - Policy Department C, European Civil Law Rules in Robotics. Study for the JURI Commitee, PE.571.379, 2016, www.europarl.europa.eu/committees/fr/supporting-analyses-search.html. 465 Parlamento UE, risoluzione del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2103(INL)) 466 Floridi (2017) afferma: «The debate is not about robots but about us, and the kind of infosphere we want to create. We need less science fiction and more philosophy».

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relazioni, la società si adatta al cambiamento, anche delineando delle prassi467, per affrontare le nuove sfide che — volenti o nolenti — ci attendono. Queste rapidissime trasformazioni tecnologiche stanno modificando l’organizzazione delle fabbriche468 con inevitabili ricadute sul futuro del lavoro469 e delle regole giuridiche connesse. Ciò che era stato considerato impossibile da David Ricardo470 si è avverato: una macchina che può svolgere un certo lavoro senza alcuna assistenza da parte del lavoro umano! Fa specie pensare che il termine «robot» sia entrato nel nostro vocabolario per il tramite di un drammaturgo boemo e che l’origine della parola derivi dalla lingua ceca evocando il lavoro duro o forzato471, come pur colpisce che la paternità del termine «robotica» sia attribuita a Isaac Asimov472. Oggi le macchine sono sempre più autonome e intelligenti, anche in grado di apprendere e prendere decisioni in modo indipendente, e questo progresso tecnologico, pur rappresentando certamente una grande opportunità di sviluppo per l’economia e la società, è altresì foriera di molti nuovi problemi e desta serie preoccupazioni, in gran parte esplicitate dal Parlamento UE nella risoluzione del 16 febbraio 2017. Nel delineare le strategie per il futuro, il Parlamento UE invita gli Stati membri a sviluppare sistemi di istruzione e formazione più flessibili, in modo da garantire una corrispondenza tra le strategie delle conoscenze e le esigenze dell’economia e della robotica, e a puntare sul sostegno ai giovani e in particolare alle donne per una carriera professionale nel digitale, richiamando l’attenzione sulla previsione della Commissione secondo cui entro il 2020 l’Europa potrebbe trovarsi ad affrontare una carenza di professionisti nel settore delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, c.d. TIC, e sul fatto che il 90% dei posti di lavoro richiederà competenze digitali almeno di base; accanto agli effetti positivi che i cambiamenti in atto possono portare, tra cui vengono menzionati da un lato la nascita di nuovi lavori e all’opposto la liberazione dal lavoro473, vi sono quelli negativi, tra cui la perdita di posti di lavoro a seguito dell’aumento dell’uso dei robot, le conseguenze negative sulla sostenibilità dei sistemi di sicurezza sociale degli Stati membri, l’aumento dei nuovi rischi per la salute, la sicurezza e la dignità dei lavoratori dovuti ad un aumento dell’interazione tra esseri umani e robot sui luoghi di lavoro474. Luci e ombre, quindi, evidenziate dalla risoluzione del Parlamento UE che pone infatti una immediata e non trascurabile esigenza di normazione alla Commissione per “governare” o almeno “contenere” alcuni effetti provocati dai fenomeni in atto.

467 Interessante il documento elaborato dall’Associazione Italiana per la ricerca industriale nel febbraio 2017 di supporto, integrazione e analisi critica del «Piano Nazionale Industria 4.0», cfr. www.airi.it. 468 Non a caso «Fabbrica Futuro 2017» è anche il nome di un progetto, partito nel 2012, rivolto a tutti gli attori del mercato manifatturiero, di qualsiasi settore, che ha l’obiettivo di mettere a confronto idee, raccontare i casi di eccellenza e proporre soluzioni concrete per accompagnare le aziende manifatturiere in un percorso verso la digitalizzazione, www.airi.it/2017/02/fabbrica-futuro-2017/. Interessanti le considerazioni contenute in Sacconi, Massagli, 2016. 469 Non a caso «Il futuro del lavoro» è anche il nome di un filone di ricerca attivato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, fondazionefeltrinelli.it/ricerca/le-aree-di-ricerca/futuro-del-lavoro/. 470 Ricardo, 2006; sul punto interessanti le considerazioni di Sylos Labini, 1989, 214-216. 471 Si tratta del dramma «R.U.R. Rossumovi univerzaini roboti» che Karel Čapek pubblicò nel 1920. 472 Ne danno conto Brynjolfsson, McAfee, 2015, § «Il paradosso del progresso robotico». 473 Brynjolfsson, McAfee, 2015; Rifkin, 2014, 169-180. 474 Cfr. Parlamento UE, risoluzione 16 febbraio 2017, cit.; amplius, sul tema degli effetti della robotizzazione sul lavoro, sulla disoccupazione e sul tempo libero (anche detto “disponibile”): Sylos Labini, 1989, 199-220; sugli effetti della c.d. sostituzione tecnologica, non si può non rinviare a Rifkin, 2014, 169-187, laddove si parla enfaticamente dell’«ultimo lavoratore» e si evidenzia come «anche i lavoratori della conoscenza sono sacrificabili».

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Tale è l’importanza delle nuove tecnologie digitali sull’economia che il 23 marzo 2017 il vice presidente della Commissione UE, nonché Commissario al digitale, A. Asip, aprendo i lavori del «Digital Day 2017» in coincidenza con le celebrazioni, a Roma, del sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, ha enfaticamente dichiarato che il digitale è oggi per l’Europa ciò che il carbone e l’acciaio erano agli inizi degli anni ’50475. Il convegno, dedicato proprio al mercato unico digitale, ha portato alla sottoscrizione di una dichiarazione di intenti intitolata «Cooperation framework on High Performance Computing», sottoscritta da Germania, Portogallo, Francia, Spagna, Italia, Lussemburgo ed Olanda, incentrata sulla realizzazione, in tutti i Paesi coinvolti, di una rete di infrastrutture informatiche ad alte prestazioni (High Performance Computing, c.d. HPC)476.

18.2. Sulle ceneri della fabbrica fordista nasce la fabbrica 4.0 La c.d. quarta rivoluzione industriale sta trasformando (e in alcuni casi ha già modificato) la struttura stessa dell’impresa tradizionale, sin dalle fondamenta, e la consueta combinazione dei fattori della produzione, capitale e lavoro, viene messa in discussione nella sua essenza: «che cosa accade (…) quando le macchine sono abbastanza intelligenti da diventare lavoratori, quando, insomma, il capitale diventa lavoro?»477. L’innovazione organizzativa nell’impresa è un costante work in progress a partire dalle manifatture tessili della fine del XVIII secolo fino ad arrivare alla «World Class Manufacturing» e alle piattaforme digitali del nuovo millennio (amplius infra), passando per il fordismo, il post-fordismo, la «lean production» e il toyotismo (Toyota Production System) 478 e chissà cosa ancora; i modelli organizzativi si succedono e sostituiscono l’uno all’altro, con tratti di continuità e discontinuità. La fabbrica torna sotto i riflettori, seppur nella versione «4.0» di smart factory o fabbrica intelligente479 e lo fa nella sua concretezza fatta di spazi e macchine, ma il ruolo giocato nella società non è più lo stesso perché non rappresenta più un bacino di forza lavoro. Se nel 1995 Jeremy Rifkin annunciava la «fine del lavoro»480 oggi lo stesso ci parla dell’eclissi del capitalismo e della sua sostituzione con un nuovo paradigma economico, un ibrido figlio del capitalismo, che chiama «collaborative Commons», cioè una economia della condivisione fondata sull’Internet delle cose481 e sempre meno fondata sui lavoratori: «La natura del lavoro sta per subire un cambiamento epocale. La Prima rivoluzione industriale pose fine al lavoro schiavistico e servile. La Seconda rivoluzione industriale ha drasticamente ridotto il lavoro agricolo e quello artigianale. La Terza rivoluzione industriale si avvia a liquidare il lavoro salariato di massa nelle industrie manifatturiere e nei servizi, nonché il lavoro professionale retribuito in un’ampia area del settore del sapere. (…) L’interrogativo che gli economisti hanno tanta paura di affrontare è il seguente: che cosa accadrà al capitalismo di mercato se gli incrementi di produttività determinati dalla tecnologia intelligente continuano a ridurre la necessità di lavoro umano? Stiamo assistendo alla rottura del legame tra produttività e

475 Leggilo integralmente su: www.innovationpost.it/2017/03/23/digital-day-opening/# 23 marzo 2017. 476 Leggilo su corrierecomunicazioni.it/upload/images/03_2017/170323164922.pdf. 477 Rifkin, 2014, 170. 478 Amplius Bonazzi, 2002 e 2008, in particolare la Parte I dedicata alla questione industriale (27 – 197); interessante il numero monografico di Aa.Vv., 2015b, n, 3, tutto dedicato al World Class Manufactoring (WCM) in FIAT, ed ivi in particolare i saggi di Tronti, 2015; Pero, 2015; Cerruti, 2015; Corazza, 2015; Benvenuto, Cipriani, Bennati, 2015; v. anche Seghezzi, 2016, 188. 479 Magone, Mazali, 2016, cap. 4.3., la considerano uno «sviluppo e un affinamento del post fordismo (…) più che un nuovo modello organizzativo». 480 Rifkin, 2015. 481 Rifkin, 2014, 5-25.

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occupazione. Invece di favorire l’occupazione, oggi la produttività la sta eliminando. E poiché nei mercati capitalistici lavoro e capitale si alimentano a vicenda, cosa accadrà quando il numero di persone con un impiego redditizio diminuirà al punto che non ci saranno abbastanza compratori per acquistare i beni e servizi offerti dai venditori?»482. I cambiamenti dell’economia globale, della tecnologia e dell’organizzazione delle imprese, mettono a dura prova i sistemi giuridici consolidati, specie quelli sviluppatisi avendo come modello di riferimento l’impresa fordista con una visione fortemente gerarchica della struttura aziendale, una concezione dei tempi e dei luoghi di lavoro come elementi misurabili e coessenziali alla prestazione, con una idea della dimensione collettiva del rapporto come fisiologicamente, se non ontologicamente, connessa a quella individuale483. Queste certezze cominciano a vacillare sotto i colpi delle novità, sempre più massicce e sempre meno fronteggiabili con i tradizionali strumenti giuridici: i cambiamenti generano cambiamenti, parafrasando D. S. Landes484.

18.3. Un potenziale rientro dei processi di produzione nell’UE ma senza un aumento dell’occupazione

Il Parlamento UE, nella risoluzione del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica485, alla «lett. j)» dei considerando, formula l’ipotesi che l’incremento dell’automazione nei settori ad alta intensità di manodopera possa riportare i processi di produzione entro i confini dell’UE, una sorta di controtendenza rispetto al processo di delocalizzazione iniziato un po’ di anni fa. Questo ritorno della produzione in Europa, non determinerà però un aumento dell’occupazione. I pronostici sono piuttosto pessimistici, prevedendosi una diminuzione del lavoro di massa, a livello globale. Secondo Jeremy Rifkin «la tecnologia intelligente si accollerà il grosso del lavoro più pesante» e «non è improbabile che tra mezzo secolo i nostri nipoti guardino al periodo del lavoro di massa svolto in un contesto di mercato con lo stesso senso di incredulità con cui noi oggi guardiamo alla condizione di schiavitù e servitù dei secoli passati. L’idea stessa che il valore di un essere umano fosse misurato quasi esclusivamente sulla sua produttività di beni e servizi e ricchezza materiale apparirà primitiva, se non barbara, e sarà guardata dai nostri posteri — cittadini di un mondo altamente automatizzato in cui gran parte dell’esistenza sarà vissuta all’interno del Commons collaborativo — come un terribile spreco di valore umano». Pur non riuscendo a condividere la fiducia che Rifkin ripone nel c.d. Commons collaborativo, la sua diagnosi sul presente e i suoi pronostici sul futuro (la fine?) del lavoro retribuito, sono molto attendibili e condivisi da altri economisti e sociologi486.

482 Rifkin, 2014, 187. 483 Già ne parlava Carinci F., 1986, 3 ss. 484 Landes, 1969. 485 2015/2103(INL). 486 Parla di «sviluppo senza lavoro», di «Holodomor tecnologico» e di «Moloch digitali» De Masi (2017, cap. 8), riferendosi al fatto che pochissimi monopolisti, come Google o Facebook o Apple, hanno di fatto sottratto sovranità agli Stati e, raffinando i loro algoritmi sulla base delle informazioni spontaneamente fornite dagli ingenui consumatori, arricchiscono solo pochi, ponendo, viceversa, le basi per una «impietosa povertà per disoccupazione a centinaia di milioni di lavoratori». Interessante anche il libro del giornalista Staglianò (2016, cap. 12) che passa in rassegna e critica le posizioni di vari economisti internazionali formulando alla fine alcune proposte su come conciliare innovazione ed equità sociale, in primis suggerendo una revisione dei sistemi di tassazione per contenere la fortissima e crescente disuguaglianza che la concentrazione della proprietà delle macchine sta producendo e, in secundis, concentrandosi su meccanismi di ridistribuzione dei benefici, ad es. il c.d. basic income o reddito di base.

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Ne emerge una prospettiva inquietante che porta con sé l’esigenza di ripensare le regole del lavoro perché quel lavoro, cioè il lavoro su cui si sono formate, tra poco non esisterà più: come scrive Domenico De Masi prendendo in prestito le parole di Hanna Arendt: «cosa succede se, in una società fondata sul lavoro, il lavoro viene a mancare?». Come Rifkin, anche De Masi propone di ribaltare i termini della questione e cioè che «il nostro modello di vita incentrato sul lavoro si trasformi in un modello nuovo incentrato sul tempo liberato»487.

18.4. La trasformazione «in» lavoro «del» consumo: la c.d. «platform economy» La nuova economia mondiale, quella, cioè, che utilizza le piattaforme digitali per funzionare, rappresenta un ulteriore frutto dello sviluppo tecnologico e in particolare della digitalizzazione e in cui, però non è più la “fabbrica”, nemmeno nella “versione 4.0”, al centro del sistema, ma un software, una applicazione o app fondata su algoritmi che, tramite la rete e l’Internet of Things, mette in contatto produttori e consumatori, consumatori tra loro, produttori tra loro. Jeremy Rifkin li chiama «imprenditori sociali», comunemente detti ormai prosumers (v. infra), allo stesso tempo causa ed effetto di quello che lo stesso definisce «collaborative Commons»488. In questo contesto qualunque soggetto, in qualunque parte del globo, dotato di un dispositivo mobile (banalmente solo uno smartphone) può essere contemporaneamente consumatore e produttore di beni/fornitore di servizi: «conflation of producer and consumer. It happens when some entity occupies both roles in a system. In this case citizens, who formerly consumed data, now become producers of it as well. They become prosumers and their data becomes an asset or a commodity to trade»489. La nascita dei «prosumers» è uno degli effetti delle nuove tecnologie: «il web 2.0 mostra in modo lampante come, attraverso le nuove tecnologie digitali, si riesca ad estrarre valore da ciò che era riservato agli spazi del privato, della socialità, del gioco, del loisir: incorporandosi nelle forme di vita, le macchine digitali le trasformano in piattaforme permanenti dell’innovazione»490. Questa nuova economia fondata sul digitale, sulla rete, sugli algoritmi, viene chiamata491: «sharing economy», «peer to peer economy», «collaborative economy», «platform economy», «gig economy», «on demand economy». Ciascuna di queste espressioni mette in evidenza un aspetto, una caratteristica peculiare che porta ad enfatizzarne o valorizzarne alcuni effetti piuttosto che altri. Se il concetto di «sharing economy» (e «collaborative Commons» per Rifkin492) pone l’accento sulla condivisione senza un profitto, sul passaggio dal possesso all’accesso, sul rapporto tra pari, «peer to peer»493, il concetto di «collaborative economy» presuppone che un profitto vi sia, seppur occasionale, tanto che è questa l’espressione scelta dalla Commissione europea nella redazione nel 2016 dell’«agenda europea per l’economia collaborativa»494 (amplius infra). Chi preferisce utilizzare l’espressione «platform economy»495 calca l’accento sul fatto che le piattaforme digitali servono per creare un mercato parallelo e non solo per

487 De Masi, 2017, cap. 8. 488 Rifkin, 2014, 30. 489 Robertshaw, 2015. 490 Magone, Mazali, 2016, cap. 4.3. 491 Ne dà conto Degryse, 2016, 28-32. 492 Rifkin, 2014, 317-421. 493 Amplius cfr. Barberis, Chiriatti, 2017, 11- 12; sul concetto di «peer to peer economy» v. anche Costantini, 2015. 494 COM(2016) 356 final «A European agenda for the collaborative economy». 495 Questa espressione è proposta da Drahokoupil, Fabo, 2016: «“Collaboration” does non tipically relate to a market place, where the use of goods and services is facilitated. Major outsourcing platforms would

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condividere, mentre chi usa le espressioni di «gig economy», cioè economia del lavoretto, e «on demand economy», a chiamata, mette in risalto le caratteristiche (rischi?) di flessibilità, individualismo e precarietà che questa nuova dimensione comporta, come ad esempio ha fatto Hillary Clinton in uno dei discorsi tenuti nel 2015 durante la campagna per le presidenziali degli USA svoltesi nel novembre 2016: «Many Americans are making extra money renting out a spare room, designing a website (...) even driving their own car. This on demand or so called 'gig' economy is creating exciting opportunities and unleashing innovation, but it's also raising hard questions about workplace protections and what a good job will look like in the future »496.

18.5. L’Agenda Europea per l’economia collaborativa del 2 giugno 2016 Il 2 giugno 2016 la Commissione europea, scegliendo lo strumento della comunicazione alle altre istituzioni, ha pubblicato «una agenda europea per l’economia collaborativa»497 tentando una presa di posizione su temi di importanza globale e dall’impatto non più circoscrivibile agli Stati membri dell’Unione Europea, ma sui quali il legislatore europeo fa fatica a prendere una posizione. La Commissione sceglie di parlare di «collaborative economy» intendendo valorizzare l’aspetto della collaborazione e la duttilità della definizione, adattabile nel caso di fornitori di servizi sia occasionali sia professionali, ovvero nel caso via sia uno scopo di lucro o in assenza dello stesso. Questa nuova economia, che fa leva sul nuovo mercato che si sviluppa sul web per il tramite delle piattaforme digitali, rappresenta certamente una occasione di crescita e di sviluppo ma solleva anche nuovi interrogativi e pone sfide importanti. In particolare i paradigmi e le categorie del passato cominciano a frantumarsi di fronte a nuovi fenomeni difficilmente inquadrabili negli antichi schemi: si sfuma la linea di confine tra consumatore e produttore, quella tra lavoratore subordinato e autonomo, quella tra fornitura di servizi professionale e non professionale. L’incertezza su quali siano le regole applicabili aumenta anche in considerazione della diversità di approccio dei vari ordinamenti. Preso atto che il reddito prodotto nell’area dell’UE dalle piattaforme digitali sta aumentando in modo esponenziale e che ciò rappresenta una occasione di crescita per tutti i Paesi dell’UE, la Commissione cerca di evidenziare le luci e le ombre delle trasformazioni in atto, dei fenomeni che stanno mettendo a dura prova la tenuta delle categorie e dei sistemi tradizionali, invitando le istituzioni dell’UE e i singoli Stati membri a cogliere le occasioni senza trascurare di affrontare i problemi che si pongono al fine di assicurare eque condizioni di lavoro e di protezione sociale. In particolare la Commissione si concentra sull’assenza di una netta linea di demarcazione, nella legislazione dell’UE, tra “esercizio professionale” e “non professionale” di una attività economica e come vi siano sul punto profonde differenze tra gli ordinamenti degli Stati membri dell’UE. Queste incertezze definitorie hanno pesanti ricadute dal punto di vista della riconduzione o meno delle attività svolte dalle piattaforme digitali nelle fattispecie normate dalla UE e dai singoli Stati membri, in particolare con riferimento ai requisiti necessari per lo svolgimento delle predette attività e alle regole a questa applicabili. Un altro aspetto molto delicato che viene messo in luce dalla Commissione riguarda il fatto che la «collaborative economy» ha reso sfumata l’identificazione della “parte debole” del contratto; le transazioni commerciali effettuate tramite piattaforme digitali

be better described as “renting” rather then “sharing”. We therefore propose to use the term “platform economy”». 496 Ecco il video in cui Hillary Clinton lancia, in modo poi divenuto “virale”, l’espressione: «gig economy»: cnbc.com/2015/07/13/in-economic-address-hillary-clinton-calls-out-gig-economy.html 497 COM(2016) 356 final «A European agenda for the collaborative economy»; cfr. il commento critico di Kowalski, 2015.

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non sempre fanno emergere nettamente quale sia il soggetto che necessita di protezione. È venuta meno la linea di confine tra produttore, «producer», e consumatore, «consumer», tanto da stimolare un neologismo, «prosumer»498, e si è resa ancora più sfocata la linea di confine tra lavoratori subordinati, c.d. «workers», e non subordinati, «self-employed», con la conseguenza di non riuscire a ricondurre i lavoratori digitali ai modelli tradizionali, così lasciandoli completamente privi di tutele. Anche la linea di demarcazione tra il tempo di lavoro e il tempo di non lavoro è ormai diventata quasi impalpabile, poiché le nuove tecnologie fanno irrompere la vita lavorativa in quella privata e viceversa, facendo emergere l’esigenza di un “diritto alla disconnessione”, previsto espressamente nell’ordinamento francese499, nonché in nuce nella normativa italiana500, e la identificazione di un nuovo concetto, quello della porosità del tempo, «time porosity»501, ad indicare un fenomeno non completamente nuovo ma certamente ormai dilagante a livello globale. La Commissione non riesce però a tradurre in proposte concrete le indicazioni e suggestioni espresse nella comunicazione, ma fa capire quanto sia imminente il cambiamento e quanto possano essere dirompenti per tutti gli ordinamenti le conseguenze di fenomeni economici lasciati legibus soluti. Senza cadere in un nuovo luddismo502, emerge chiaramente l’esigenza di ripensare le categorie giuridiche tradizionali, nate in un contesto di seconda rivoluzione industriale, le quali, rebus sic stantibus, non riescono a dare risposte ai nuovi fenomeni503. La c.d. quarta rivoluzione industriale (amplius infra) mette, infatti, a dura prova i tradizionali schemi negoziali e le vigenti regole, facendo emergere la rigidità regolativa, impotente di fronte alla frammentazione tipologica dei nuovi lavori prodotta dall’economia digitale (amplius infra), ma come ha scritto Deakin: «(…) there is no reason to extemp Uber from democratic control simply on the grounds that the driver’s app is not exactly the same thing as the taximeter. If technology can evolve, so can the law. (…)»504.

18.6. Il lavoro on demand della gig economy: parole d’ordine “insicurezza e discontinuità”

Beck nel 1999 ragionava di «lavoro all’epoca della fine del lavoro» mettendo in luce una tendenza in atto nell’Occidente, quella che definiva «brasilianizzazione»: «ciò che è sempre più evidente è la nuova analogia, nelle tendenze di sviluppo del lavoro salariato, tra il cosiddetto Primo e il cosiddetto Terzo Mondo. Ciò a cui assistiamo è l’irruzione della precarietà, della discontinuità, della flessibilità, dell’informalità all’interno dei bastioni occidentali della società della piena occupazione. Il patchwork sociostrutturale, in altre parole la varietà, la confusione e l’insicurezza delle forme lavorative, biografiche ed esistenziali del Sud, si espande nel cuore dell’Occidente»505.

498 L’espressione è stata coniata da Robertshawn S., 2015: «A conflation of producer and consumer. It happens when some entity occupies both roles in a system. In this case citizens, who formerly consumed data, now become producers of ita s well. They become prosumers and their data becomes an asset or a commodity to trade». 499 Cfr. Loi travail n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016. 500 V. l’art. 19, d.d.l. n. 2233-B (come modificato dalla Camera dei Deputati in data 9 marzo 2017), in tema di smart working, relativo proprio alla disconnessione del lavoratore dai dispositivi tecnologici. 501 Genin, 2016, 280–300; v. anche Moscaritolo, 2017. 502 Così Bronzini, 2016, 261. 503 Interessanti gli atti del Conferenza ETUI-ETUC svoltasi a Brussels nei giorni 27-29 giugno 2016, in cui a più voci (giuristi, politici, sindacalisti, esponenti del mondo del lavoro, …) si è ragionato di “Shaping a new world of work. The impact of digitalization and robotization”, cfr. Conference report, in http://www.etui.org/Publications2/Conference-reports 504 Così Deakin, 2015. 505 Beck, 2000, 139 ss.

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Beck propone di distinguere tra prima e seconda modernità, con il passaggio dall’economia fordista, fondata sul lavoro, a quella post-fordista fondata sul rischio, in cui la povertà «diventa una esperienza normale, sempre più spesso non solo transitoria, anche del ceto medio»506 e «il lavoro viene “fatto a pezzi” sia per quanto riguarda i suoi tempi sia per quanto riguarda i rapporti contrattuali»507. L’agenzia dell’UE Eurofound (European Fondation for the improvement of living and working conditions) ha tentato una prima categorizzazione dei c.d. nuovi lavori frutto dell’era digitale e dell’Internet delle cose, individuando, nei Paesi membri, numerosi fenomeni508. Si tratta di tipologie molto diverse tra loro che raggruppano sia fenomeni riconducibili al lavoro subordinato, come quelle di employee sharing (diremmo “co-working”), job sharing (diremmo lavoro ripartito), interim management (diremmo somministrazione di lavoro di elevata professionalità) e casual work (diremmo lavoro a chiamata), sia riconducibili al lavoro autonomo, eventualmente parasubordinato, come ad esempio il c.d. ICT-based mobile work, voucher-based work, portfolio work, crowd employment, collaborative employment. Il filo rosso che lega queste nuove forme di lavoro è quello della estrema flessibilità509. Di fronte alla nascita di questi nuovi fenomeni, ciò che accomuna i diversi ordinamenti dei Paesi membri, è il fatto che la politica interna e i legislatori li stanno sostanzialmente ignorando510, non prendendo posizione e non esprimendosi sul punto511. Una sorta di agnosticismo che, da un lato, favorisce la proliferazione delle

506 Beck, 2000, 102. 507 Beck, 2000, 108. 508 «1) employee sharing, where an individual worker is jointly hired by a group of employers to meet the HR needs of various companies, resulting in permanent full-time employment for the worker; 2) job sharing, where an employer hires two or more workers to jointly fill a specific job, combining two or more part-time jobs into a full-time position; 3) interim management, in which highly skilled experts are hired temporarily for a specific project or to solve a specific problem, thereby integrating external management capacities in the work organisation; 4) casual work, where an employer is not obliged to provide work regularly to the employee, but has the flexibility of calling them in on demand; 5) ICT-based mobile work, where workers can do their job from any place at any time, supported by modern technologies; 6) voucher-based work, where the employment relationship is based on payment for services with a voucher purchased from an authorised organisation that covers both pay and social security contributions; 7) portfolio work, where a self-employed individual works for a large number of clients, doing smallscale jobs for each of them; 8) crowd employment, where an online platform matches employers and workers, often with larger tasks being split up and divided among a ‘virtual cloud’ of workers; 9) collaborative employment, where freelancers, the self-employed or micro enterprises cooperate in some way to overcome limitations of size and professional isolation» cfr. Eurofound - European Fondation for the improvement of living and working conditions, New form of employment, Luxemburg, 2015, https://www.eurofound.europa.eu 509 «In spite of the considerable differences among these employment forms, flexibility is the key concept inherent in all: the new employment forms have been emerging due to an increased demand from employers, employees or both for enhanced flexibility. And this demand is driven either by the economically challenging times or societal developments. Consequently, some of the employment forms discussed are opportunity driven while others emerge out of necessity, and these drivers might differ between employers and workers» Eurofound, 2015, 135. 510 In Italia, il 27 gennaio 2016, è stata presentato alla Camera dei Deputati una proposta di legge su iniziativa di alcuni deputati sulla «Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell'economia della condivisione» (A.C.3564); tale proposta a maggio 2017 risulta ancora all’esame nelle Commissioni IX e X e non è stata fissata alcuna data per la discussione in Assemblea, http://www.camera.it/leg17/126?tab=1&leg=17&idDocumento=3564&sede=&tipo= 511 Così chiaramente si esprime Eurofound, 2015, 129; Valenduc, Vendramin, 2016, 46, riprendendo l’aforisma di Brynjolfosson e McAfee «little by little, than all at once» si augurano che la politica e i sindacati inseriscano queste tematiche nella loro agenda.

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fattispecie atipiche creando una matassa sempre più difficile da sbrogliare e un mercato parallelo spesso irregolare, dall’altro lato, abbandona i lavoratori in un limbo senza tutele né lavoristiche né assicurativo-previdenziali. Nemmeno i sindacati si stanno, ufficialmente e concretamente, occupando di queste nuove tipologie di lavori così che, sia in Italia, sia in Europa, i lavoratori coinvolti risultano generalmente privi di una rete di protezione (fatta eccezione per le ipotesi del lavoro a chiamata, su cui più Paesi si sono espressi per evitare abusi512).

18.7. Lavorare per (grazie a) un algoritmo «Il mio capo è un algoritmo»513 è diventato uno slogan tanto efficace quanto evocativo che descrive ciò che sta accadendo in quella parte dell’economia collaborativa che usa le piattaforme digitali, basate su algoritmi, per fornire beni e servizi. Il caso più emblematico è quello di Uber, ma solo perchè è diventato un caso giudiziario in vari paesi europei (es. Gran Bretagna e Italia), ma gli stessi ragionamenti valgono per Just Eat, Foodora, AirBnB, TaskRabbit, Amazon Mechanical Turk, Lecigogne.net (etc.)514. Come viene dettagliatamente spiegato dal Giudice del lavoro di Londra (Employment Tribunals) nella sentenza del 28 ottobre 2016, la piattaforma tecnologica chiamata Uber non serve solo a mettere in contatto soggetti diversi, che offrono e cercano un servizio, ma costituisce una vera e propria organizzazione imprenditoriale che fornisce, essa stessa, servizi515. E la questione è proprio questa: capire se queste piattaforme che operano tramite algoritmi svolgono un mero servizio di intermediazione tra domanda e offerta oppure anche il servizio sottostante e, conseguentemente, se possono essere considerati datori di lavoro o quanto meno committenti dei lavoratori che lavorano tramite le citate piattaforme. Che non si tratti di mera condivisione tra prosumers è evidente dal momento che esiste una transazione commerciale con instaurazione di un sinallagma contrattuale: un servizio a fronte del pagamento di un prezzo, ecco perchè è più corretto inquadrare tale fenomeno nella collaborative o platform economy piuttosto che nella sharing economy, che riguarda la condivisione di beni e la conseguente ripartizione dei costi (es. servizi di car sharing). In Italia il servizio reso da Uber è stato valutato alla luce della l. n. 21/1992, c.d. legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea516, e del d.lgs. n. 285/1992, c.d. codice della strada517.

512 «Most of the employment forms analysed do not have a specific legal or collectively agreed basis in most Member States, which might be attributed to their newness and their emergence as practice rather than as strategically planned labour market development. Exceptions are casual work and voucher-based work, for which regulatory frameworks have been established to avoid abuse or to legalise undeclared work», Eurofound, 2015, 136. 513 È il titolo di un ormai celebre articolo di Sarah O’Connor apparso sul Financial Times il 7 settembre 2016 https://www.ft.com/content/88fdc58e-754f-11e6-b60a-de4532d5ea35 e pubblicato anche in Italia nella traduzione di “Internazionale” n. 1174/2016, 7/13 ottobre 2016. 514 Provocatoriamente Borelli (2016, 89 ss.) parla di «babysitting nell’epoca della uberizzazione del lavoro». 515 «(…) it is plain to us that the agreement between the parties is to be located in the field of dependent work relationships; it is not a contract at arm’s lenght between two indipendent business undertakings. Moreover, the drivers do not market themselves to the world in general; rather, they are recruited by Uber to work as integral components of its organization (…)», così «Employment Tribunals of London», Case Nos. 2202550/2015, 28 october 2016, Mr Y. Aslam, Mr. J. Farrar vs Uber B.V., Uber London Ltd., Uber Britannia Ltd., § 94, https://www.judiciary.gov.uk/wp-content/uploads/2016/10/aslam-and-farrar-v-uber-reasons-20161028.pdf 516 Manzini, 2017, 126-137.

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L’Autorità garante della concorrenza e del mercato518, nel settembre 2015, non si è espressa apertis verbis, né per la qualificazione di Uber quale impresa che svolge attività di trasporto pubblico non di linea né per una sua riduzione a mero servizio elettronico di intermediazione, piuttosto auspicando l’intervento del legislatore che, nel riconoscere e valorizzare i benefici concorrenziali di questa piattaforma, possa chiarirne la natura «anche definendo un “terzo genere” di fornitori di servizi di mobilità non in linea (in aggiunta ai taxi ed agli NCC), ovvero piattaforme on line che connettono i passeggeri con autisti non professionisti». Di lì a poco (novembre 2015) il Consiglio di Stato 519 dopo aver analizzato l’attività resa da Uber ha ritenuto che la stessa deve essere esercitata nel rispetto della citata l. n. 21/1992, escludendo quindi si tratti di mera intermediazione (stessa conclusione cui è giunto il Giudice del lavoro di Londra, cit.), viceversa dando per scontato che sia attività di trasporto pubblico non di linea. La Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza del 15 dicembre 2016, n. 265, solo sfiorando la questione, dichiarando l’illegittimità costituzionale della l. r. Piemonte n. 14/2015 per aver regolamentato una materia, quale quella del trasporto pubblico non di linea su strada, che è riconducibile alla competenza legislativa dello Stato in tema di concorrenza [art. 117, co. 2, lett. e), Cost.], auspicando peraltro che «il legislatore competente si faccia carico tempestivamente di queste nuove esigenze di regolamentazione». Il Tribunale civile di Roma, con ordinanza del 7 aprile 2017, ha ordinato a Uber di bloccare il servizio Uber Black (quello delle auto nere con conducente) per concorrenza sleale in quanto esercita una attività organizzata con scopo di lucro in violazione delle norme pubblicistiche che regolano il servizio pubblico di trasporto non di linea. Anche nell’ordinamento dell’UE manca chiarezza sulla natura dell’attività esercitata e, al momento in cui si scrive, è in discussione un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, proposto dal «Juzgado Mercantil n. 3 de Barcelona» il 7 agosto 2015520 . La questione è sempre qualificatoria: se l’attività di Uber è una attività di trasporto, soggiace ai limiti previsti dalla normativa europea in materia, viceversa, se si tratta di mera attività di intermediazione allora rientra nel novero delle attività che beneficiano della libera circolazione ai sensi dell’art. 56 TFUE e delle direttive 98/34/CE, 2006/123/CE521. Va, infine, ricordato che nemmeno la Commissione UE, nella c.d. «agenda europea per l’economia collaborativa»522, prende una chiara posizione sulla natura delle piattaforme “collaborative” («collaborative platforms», si legge), perché tutto dipende da quale attività viene materialmente svolta e se vi è o meno uno scopo di lucro; pertanto, non è in astratto ma in concreto che ci si deve esprimere sulla normativa applicabile perché la qualificazione può variare da un caso all’altro. Questa rapida rassegna delle posizioni al momento sul tappeto in merito alla difficoltà di qualificare la natura delle attività svolte mediante piattaforma informatica, ci rende

517 Costantini, 2015. 518 AGCM, AS 1222, 29 settembre 2015, http://www.agcm.it/component/joomdoc/allegati-news/AS1222.pdf/download.html 519 Cons. St., sez. I, 25 novembre 2015, n. affare 00757/2015, risposta a quesito in merito all’applicabilità della legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea (l. n. 21/1992) e delle conseguenti sanzioni previste dagli artt. 85 e 86 del Codice della Strada alle nuove forme di organizzazione e gestione telematica del trasporto di persone mediante autoservizi. 520 CGUE 3 novembre 2015, C-434/2015 (2015/C 363/27); l’altro rinvio pregiudiziale, affine a quello cennato, proposto dal «Nederlandstalige rechtbank van koophandel Brussel» (tribunale del commercio di lingua neerlandese di Bruxelles, Belgio) con decisione del 23 settembre 2015, nella causa C-526/15, è stato dichiarato manifestamente irricevibile con ordinanza della CGUE (ottava sezione) del 27 ottobre 2016, (2017/C 063/08). 521 Manzini, 2017, 133-137. 522 COM(2016) 356 final «A European agenda for the collaborative economy».

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avvertiti che il c.d. algoritmo è solo un mezzo per esercitare una attività, cosa che rende più incerta la qualificazione della natura dell’attività effettivamente esercitata, ma non esclude a priori che si tratti di una attività economica organizzata svolta in modo professionale al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi ex art. 2082 c.c.; la piattaforma, allora, ben può essere riconosciuta come centro di imputazione di contratti di lavoro sia parasubordinato sia subordinato, sebbene questo sia contestato dalle piattaforme, Uber in testa, che negano con determinazione una tale qualificazione, affermando ripetutamente la loro natura di meri intermediari informatici (v. la difesa di Uber nella causa avanti al Giudice del lavoro di Londra il quale però ha riconosciuto la natura imprenditoriale della citata società ed escluso la natura autonoma dell’attività esercitata dagli autisti, viceversa considerati come lavoratori alle dipendenze di Uber)523. Il problema, quindi, in un approccio giuslavoristico, è quello della qualificazione dell’attività resa da chi utilizza la piattaforma informatica524. Le ipotesi astrattamente possibili sono molteplici: lavoro autonomo, parasubordinato, subordinato o, addirittura, c’è chi sostiene si tratti di attività micro-imprenditoriali525 (amplius infra).

18.8. Gli effetti collaterali della tecnologia: servification, stress, time porosity I rischi di una servificazione degli esseri umani alle macchine vengono evidenziati da più Autori, con riferimento a quei lavoratori dotati di una professionalità meramente strumentale alla manutenzione e al funzionamento base di macchine e software, quasi degli strumenti (tools) al servizio dei robot e degli algoritmi che governano le piattaforme digitali. Alcune espressioni ormai comunemente utilizzate sono emblematiche di questa situazione: «digital galley slaves»526, cioè gli schiavi delle “galere digitali”, oppure «data janitors»527 cioè i “bidelli dei dati”. Dall’altro lato, a sottolineare la dimensione di flessibilità estrema in cui si trovano i lavoratori che lavorano tramite piattaforme viene usata un’altra emblematica espressione: «tap workers»528, cioè i lavoratori “alla spina” della gig economy. Dei rischi per la salute e sicurezza sul lavoro dà conto la «European Agency for Safety and Health at work – EU OSHA» che mette in risalto come le nuove tecnologie, pur fonte di grandi opportunità, comportano anche effetti collaterali, quali ad esempio: lo stress da sovraccarico di lavoro e di informazioni da gestire ed elaborare; l’alienazione provocata dalle relazioni solo virtuali o comunque con dispositivi e macchine, con la conseguente perdita di una dimensione relazionale con altri esseri umani; i problemi dovuti a cattive posture e gli effetti sul fisico dell’uso continuo di tecnologie529. Un’ulteriore questione che emerge, poi, prepotentemente è quella dello sgretolamento dei confini tra i tempi di vita e di lavoro: si utilizzano espressioni quali «time

523 «Employment Tribunals of London», Case Nos. 2202550/2015, 28 october 2016, Mr Y. Aslam, Mr. J. Farrar vs Uber B.V., Uber London Ltd., Uber Britannia Ltd. Sul punto amplius v. Donini, 2017; Daquino, 2017; Birgillito, 2016. 524 Tullini, 2016a; Idem, 2016b; Aloisi, 2016; Razzolini, 2014c. Fuori dall’Italia, la dottrina più avanzata prova a fornire una risposta adeguata “scomponendo” le funzioni tipiche del datore di lavoro e andando ad individuare quale dei soggetti coinvolti – piattaforma, cliente, lavoratore - possa dirsene di volta in volta titolare (e quindi responsabile), al di là dello status formale; è la suggestiva ipotesi di Prassl, Risak, 2016, che riprende la nozione funzionale di datore di lavoro di Prassl, 2015, già influenzata dall’elaborazione del metodo tipologico-funzionale di Nogler, 2009 e Idem, 2002. 525 Forlivesi, 2015. 526 Degryse, 2016, 36 e ivi ulteriori riferimenti bibliografici. 527 Degryse, 2016, 41. 528 Barberis, Chiriatti, 2017, 44. 529 European Agency for Safety and Health at work, 2013, 48, 49, 64, 65.

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porosity»530, «blurring of boundaries between work and non work»531 o «e-nomads»532 per indicare, nei primi due casi, la continua promiscuità tra orario di lavoro e di non lavoro, e, nel terzo, l’esasperata flessibilità di tempo e luogo dei lavoratori digitali, sempre reperibili, sempre connessi ma mai fisicamente stanziali presso la sede dell’impresa datrice di lavoro/committente. Le nuove tecnologie rendono possibile, da un lato, al datore di varcare la soglia della vita privata del lavoratore anche fuori dall’orario eventualmente concordato, dall’altro lato, alla vita privata di sconfinare anche durante l’orario di lavoro, quindi una costante interferenza, contaminazione, promiscuità temporale, con il concreto rischio di una lesione del diritto al rispetto della vita privata e della vita familiare sancito dall’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

18.9. La nascita di nuove diseguaglianze e discriminazioni La c.d. nuova età delle macchine e l’economia fondata sul lavoretto, con buona probabilità, determineranno un aumento delle diseguaglianze. Questo è il principale allarme lanciato dagli economisti, sociologi e altri esperti impegnati a studiare e analizzare i fenomeni sopra descritti e a proporre delle soluzioni o dei paradigmi alternativi533. Le grandi opportunità che queste trasformazioni della tecnologia ci offrono si portano appresso anche forti rischi ed effetti collaterali, che i legislatori e i governi dovrebbero affrontare, prevenire o almeno contenere, con una serie di politiche e azioni per realizzare una maggiore e migliore distribuzione della ricchezza e dei benefici che le macchine pensanti potranno portare agli esseri umani; il pericolo, paventato da più parti, è quello che si generalizzi la regola de: “il vincitore piglia tutto” («the winner takes all»534) che potrebbe far cadere il pianeta in un «tecno-feudalesimo»535. Inoltre se si legge l’aumento delle diseguaglianze secondo un’ottica di genere, ci si rende conto che l’impatto della povertà e della precarietà lavorativa colpisce di più le donne rispetto agli uomini, seppure stia rapidamente dilagando anche tra questi ultimi536. La diminuzione della forza lavoro necessaria, stante il sempre maggiore utilizzo delle macchine, e la nascita di nuove forme di occupazione non regolamentate e precarie, in cui molto spesso l’essere umano è alle dipendenze di “un algoritmo”, impongono delle riflessioni sul futuro del diritto del lavoro e dei diritti sociali in generale (amplius infra). Quello che emerge chiaramente è che non saranno solo le professionalità più semplici e i lavori più ripetitivi, tendenzialmente di carattere manuale, a scomparire in quanto svolti (anche meglio) dai robot, ma anche le attività considerate intellettuali verranno (in alcuni casi già sono) svolte dalle macchine intelligenti, con evidente riduzione complessiva dei livelli di occupazione generale, a livello mondiale537. Secondo le stime di alcuni autorevoli studiosi «around 47 percent of total US employment is in the high risk category. We refer to these as jobs at risk – i.e. jobs we expect could be automated

530 Genin, 2016, 285 – 293. Medesimo concetto, seppur espresso con altre parole, si legge in Weiss, 2016, 657-660. 531 Genin, 2016, 281; Degryse, 2016, 41. 532 European Agency for Safety and Health at work, 2013, 65. 533 Beck, 2000, 2000, 125 - 150; Rifkin, 2014, 317 ss.; Brynjolfsson, McAfee, 2015, § 9; D’Ovidio, 2016, 702 - 706. 534 «The newly developed platform-based business model has rewritten the rules of competition in the market sectors in which these platforms operate by promoting a “winner takes all” approach», così Valenduc, Vendramin, 2016, 12; ne parlano diffusamente anche Brynjolfsson, McAfee, 2015. 535 L’espressione è di Mayer, 2014. 536 Beck, 2000, 133. 537 Un tentativo di creare una mappature delle professionalità con indicizzazione del rischio di essere svolte da macchine è stato realizzato da Frey, Osborne, 2013.

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relatively soon, perhaps over the next decade or two»538. La sfida per la sopravvivenza del lavoro umano si gioca sul terreno della “non sostituibilità”, quindi potenziando la creatività e l’intelligenza sociale: «For workers to win the race, however, they will have to acquire creative and social skills»539. 19. Le sfide per il diritto del (nuovo) lavoro Viviamo in una «hyperconnected era» che rende necessario, anzi indispensabile — parafrasando i quindici fondatori del Manifesto «On life» — rimodellare le tradizionali categorie giuridiche perché per affrontare e governare i nuovi fenomeni abbiamo bisogno di nuovi concetti, nuove strutture interpretative, altrimenti tendiamo a ignorare quello che accade solo perché ci appare incomprensibile540. La nuova dimensione è quella dell’interazione “essere umano – essere artificiale” (che sia una macchina o un algoritmo) così venendosi a creare un nuovo ambiente, tutto da regolamentare, che è stato emblematicamente chiamato da Floridi: «the infosphere»541. Le nuove tecnologie applicate all’industria hanno inoltre portato profonde modifiche nell’organizzazione del lavoro fordista, rigida e fortemente standardizzata e gerarchica, che ha determinato l’elaborazione delle categorie giuridiche del diritto del lavoro e della previdenza sociale, nonché delle relazioni sindacali. Il modello organizzativo che si sta, viceversa, affermando («little by little, than all at once», come scrivono Brynjolfosson e McAfee) è quello di un sistema frammentato, destandardizzato, di sottooccupazione, con un impiego flessibile della forza lavoro in cui si sbiadiscono i confini temporali e spaziali della prestazione, in cui si assiste ad una promiscuità o porosità dei tempi di vita e di lavoro e non è più importante il luogo in cui il lavoratore rende la prestazione. Anche la disoccupazione diventa meno visibile, in una alternanza continua, ma sempre cangiante, di periodi di lavoro e periodi di non lavoro, sciogliendosi e confondendosi con l’occupazione saltuaria, precaria, flessibile, se non addirittura «informale»542, così definendosi quell’occupazione che si colloca — secondo i nostri schemi — in una zona grigia tra legalità e illegalità543. La stessa impresa è cambiata: «al posto di forme di impresa concentrate entro grattacieli o capannoni industriali, subentra una organizzazione aziendale poliedrica, diffusa e quindi invisibile, la quale non permette più, né verso l’esterno né verso l’interno, di operare le chiare distinzioni tra mercati, prodotti, clienti, lavoratori dipendenti e imprenditori, e quindi diventa invisibile»544. L’immagine dell’impresa “invisibile” è tanto inquietante quanto realistica: e se l’impresa sta diventando invisibile, davvero non resta che ripensare a nuove categorie perché quelle esistenti non troveranno più corrispondenza con il reale. Ignorare il fenomeno da parte del legislatore significa fare quello che Beck chiama «la politica dello struzzo»545 che è un agire molto pericoloso perché, continua l’A., «proprio quando sul piano politico non succede nulla, succede molto». 538 Frey, Osborne, 2013, 44. 539 Frey, Osborne, 2013, 45. 540 Floridi, 2015; davvero emblematico quanto si legge a pag. 7: «The world is grasped by human minds through concepts: perception is necessarily mediated by concepts, as if they were the interfaces through which reality is experienced and interpreted. Concepts provide an understanding of surrounding realities and a means by which to apprehend them. However, the current conceptual toolbox is not fitted to address new ICT-related challenges and leads to negative projections about the future: we fear and reject what we fail to make sense of and give meaning to». 541 Floridi, 2014. 542 Beck, 2000, 139. 543 Beck, 2000, 109-111; Casale, 2016, 2016, 1-8. 544 Beck, 2000, 111. 545 E che imputava al Governo federale del Cancelliere Kohl, v. Beck, 2000, 123-124.

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La traslazione del rischio dalle imprese, sempre più snelle ed effimere, ai lavoratori, la disoccupazione tecnologica dilagante, il dominio dell’economia fondata sul lavoretto “informale” che impone di lavorare di più per compensare le perdite dei minori guadagni, l’instabilità lavorativa che si trasforma in incertezze esistenziale sul futuro, la disoccupazione sempre più mescolata a sotto-occupazione (con l’aumentare dei c.d. working poor), la porosità dei tempi di vita e di lavoro, il potenziale collasso dei sistemi previdenziali, tutto ciò impone una seria presa di coscienza seguita da azioni concrete ed efficaci da parte del legislatore, nonché una discesa in campo degli esperti della materia, prima di tutto dei giuristi, con delle proposte per rimodellare il futuro (v. infra). Ma per rimodellare il futuro del diritto del lavoro è indispensabile avere in mente un modello di riferimento, un’utopia di società, una visione. Ecco perché intellettuali/economisti/sociologi come Rifkin, Beck, Bauman et al. sono fondamentali: per delineare una nuova idea di società che consenta di guidare l’azione modellatrice della politica e quindi dei legislatori; senza una idea di società cui tendere, le regole saranno inutili o ineffettive. Questa è la vera sfida, ma con l’accortezza di non ingurgitare acriticamente le utopie altrui, perché in ogni società ci sono visioni, percezioni e valutazioni diffusamente diverse. Le culture dei diversi Paesi non sempre possono essere uniformate, anzi, spesso si scontrano, il c.d. clash of cultures, proprio per il fatto che viene attribuito un peso diverso ai valori fondanti, in primo luogo a quelli di “libertà” ed “eguaglianza” con le connesse e conseguenti ricadute in termini di intervento ovvero astensione da parte dello Stato nella regolamentazione dei fenomeni e delle diseguaglianze prodotte dal mercato546. Nonostante questi limiti e queste barriere culturali, l’esigenza di una regolazione internazionale di molti fenomeni che riguardano il web e le piattaforme digitali appare inevitabile. Emblematica l’espressione utilizzata da Weiss di «catena di montaggio digitale e globale»547 che rende proprio l’idea dell’interconnessione oltre che delle cose (Internet of things) anche delle persone e degli ordinamenti giuridici. Se da tempo è ormai chiaro che «il fatto di produrre in un sistema globale e non nazionale riduce le possibilità di controllo da parte delle autorità nazionali … e crea i presupposti per un rilassamento dei diritti dei lavoratori e delle condizioni di lavoro in nome del profitto, della produttività e della competizione»548, questa situazione si amplifica in un mercato del lavoro con sempre meno occupati e con un numero crescente di poveri che tentano di sbarcare il lunario accettando i lavoretti che la gig/platform economy mette a disposizione. In questo contesto di aumento della disoccupazione, dell’emergere delle nuove povertà e delle nuove forme di “asservimento” (dell’essere umano alle macchine), può essere utile ripensare al concetto di «decent work»549 coniato dall’OIL alla fine del secolo scorso per far fronte alle sfide messe sul tappeto dalla globalizzazione, per adattarlo alle sfide che ci attendono impietose, quelle poste dalle quarta rivoluzione industriale e dalla c.d. infosfera. Una qualche forma di tutela per i lavoratori occupati tramite Internet, le piattaforme digitali, i dispositivi informatici di ogni tipo dovrà essere contemplata, pena la perdita stessa del senso del diritto del lavoro550 (infra), allo stesso tempo approdo e punto di partenza per l’accesso agli altri diritti civili e sociali. Questi temi, e principalmente ciò che concerne le criticità e le diseguaglianze emergenti da queste nuove forme di lavoro collegate alla economia fondata sul digitale e sulle macchine intelligenti, sono al centro del dibattito internazionale, anche se non si intravedono ancora proposte di regolamentazione che affrontino a tutto campo le varie questioni sul tappeto.

546 Beck, 2000, 158 ss. 547 Weiss, 2016, 661. 548 D’Ovidio, 2016, 702. 549 Veneziani, 2010. 550Speziale, 2017.

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La confederazione dei sindacati europei, ETUC, per il tramite del collegato centro di studio e ricerca ETUI, ha posto prepotentemente all’ordine del giorno delle agende dei governi europei la tematica dell’impatto che la digitalizzazione e la robotizzazione hanno sul lavoro animando il dibattito e fornendo spunti per una possibile regolamentazione dei fenomeni in atto551. Spicca nel nuovo contesto la figura del lavoratore economicamente dipendente, concetto ben diverso da quello di lavoratore subordinato, cioè dipendente in senso giuridico (v. supra). Come ha chiaramente detto Weiss «la digitalizzazione rappresenta una nuova sfida per il concetto di lavoratore subordinato: che la tradizionale linea di demarcazione tra lavoro subordinato e autonomo abbia ancora senso è più in discussione che mai. Tuttavia abbandonare i vecchi modelli potrebbe essere pericoloso (..)»552. Per Weiss il pericolo è la delegittimazione dell’intero diritto del lavoro a fronte di una estensione del campo di applicazione dello stesso oltre l’area del lavoro subordinato, includendo il lavoro economicamente dipendente, ma in ogni caso riconosce la necessità di dover costruire una rete di protezione per quest’ultimo. Il diritto deve prendere atto delle realtà create dal nuovo contesto, cioè di quelle situazioni che mettono in crisi la tradizionale idea di lavoratore autonomo come lavoratore “sostanzialmente autarchico”, che non gode di particolari tutele perché il legislatore non gliene riconosce il bisogno. Ebbene, alla luce della innegabile frammentazione del lavoro autonomo — alimentata e accelerata dal lavoro per il tramite delle piattaforme o comunque dal proliferare di professioni fondate sul digitale e che usano il web tanto come “mezzo” quanto come “ambiente” di lavoro — stanno emergendo delle figure di lavoro autonomo in cui il legislatore comincia a riconoscere lo stato di bisogno. Emblematico di questo atteggiamento è il disegno di legge n. 2233-B, presentato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, approvato dal Senato della Repubblica il 3 novembre 2016 e modificato dalla Camera dei Deputati il 9 marzo 2017, intitolato «Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi di lavoro subordinato». Il capo primo di questo disegno di legge è tutto dedicato alla tutela del lavoro autonomo, anche comprendendo le professioni ordinistiche. La debolezza socio-economica di questi soggetti trova esplicito riconoscimento dal momento che, come già si è detto, si estendono in loro favore, e in quanto compatibili, l’applicazione del d.lgs. n. 231/2002 di attuazione della dir. 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, nonché l’art. 9, l. n. 192/1998 in materia di abuso di dipendenza economica (v. supra). Inoltre nel d.d.l. si ravvisano previsioni di carattere previdenziale/assistenziale volte ad affrontare il tema delle nuove povertà anche con riferimento ai lavoratori autonomi (su tutti v. l’art. 6). Emerge quindi una nuova figura social-tipica: quella del lavoratore autonomo economicamente dipendente553. Va comunque notato che non viene però riproposta nel d.d.l. cit. una norma come quella contenuta nell’abrogato art. 63, d.lgs. n. 276/2003, concernente il compenso in favore di tali lavoratori. Degna di considerazione, anche per lo sforzo sistematico è la «Carta dei diritti universali del lavoro. Nuovo statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori»554 proposta dalla CGIL a gennaio 2016, in cui si pone con forza, per tutti i lavoratori, l’esigenza che il lavoro debba essere dignitoso, pur nella vaghezza di tale nozione, e

551 Cfr. Conference report - Shaping the new world of work. The impact of digitalization and robotization, Bruxelles 27-29 giugno 2016, etui.org. 552 Weiss, 2016, 655-656. 553Ancor prima vedi l’abrogato art. 69-bis del d.lgs. n. 276/2003. 554 Testo integrale su old.cgil.it/Archivio/CAMPAGNE/Carta_diritti_universali/Carta_dei_diritti_del_ lavoro_testo_finale_13.01.2016.pdf.

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destinatario di una tutela minima non differenziata, con riferimento, ad esempio, al diritto ad un compenso equo e proporzionato (art. 5), al diritto al riposo (art. 8), al diritto alla formazione continua (art. 17), al diritto ad un preavviso di recesso o di mancato rinnovo (art. 19)555. Le questioni sono delicate e ricche di distinguo, dovendosi partire dalla constatazione che non tutte le piattaforme tecnologiche sono uguali e che il lavoro tramite queste non viene reso sempre nel medesimo modo. Il legislatore italiano continua ad ignorare il fenomeno, avendo di recente manifestato interesse (art. 4 del d.l. n. 50/2017) solo per quello delle locazioni di breve durata (con un chiaro riferimento a AirBnB), configurando il titolare della piattaforma tecnologica (che viene erroneamente appellato: «portale on line») quale sostituto d’imposta di una sorta di cedolare secca del 21%. Il profilo giuslavoristico viene sistematicamente ignorato, forse (volendo interpretare in bonam partem) ritenendo che le attuali categorie giuridiche siano comunque in grado di dare delle risposte alle richieste di tutela provenienti dai lavoratori. Come già evidenziato556, a seconda del modello organizzativo prescelto dall’impresa sottostante la piattaforma tecnologica e delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, sono configurabili un contratto di lavoro subordinato oppure etero-organizzato (ex art. 2 d.lgs. n. 81/2015) o di collaborazione coordinata continuativa (ex art. 409, n. 3, c.p.c.) o, ancora, di lavoro autonomo puro (ex artt. 2222 e ss. c.c.). Questa estrema libertà organizzativa e contrattuale genera incertezza e indebolisce le parti già deboli, anche in ragione del fatto che la scelta di una eventuale rivendicazione giudiziale delle tutele può essere a monte disincentivata dalla prospettiva di una lunga e defaticante battaglia giudiziale contro imprese straniere se non addirittura multinazionali. Il modello di tutela, anche per queste ipotesi, dovrebbe sostanziarsi nel garantire dei minimi al lavoratore nel caso di dipendenza economica rispetto ad un committente, pur se questo abbia le caratteristiche di una piattaforma tecnologica, senza ovviamente escludere l’operatività dell’art. 2094 c.c. nel caso in cui ne ricorrano i presupposti. Una tutela minimale potrebbe essere ravvisata nella garanzia delle libertà fondamentali e nella protezione della dignità della persona che lavora tramite una piattaforma tecnologica nonché nel divieto di ogni forma di discriminazione, nella previsione di un compenso equo (che rappresenti anche un freno alla concorrenza al ribasso), nell’accesso agevolato alla formazione professionale e ai servizi per l’impiego (per favorire l’adeguamento delle professionalità alle esigenze del mercato e il reperimento di nuove occasioni di lavoro) e — ultima ma non meno importante — nella garanzia di una copertura previdenziale in modo da assicurare una forma di protezione sociale durante i momenti più critici, quali la maternità (prima e dopo il parto), la malattia (almeno quella che comporti il ricovero ospedaliero o la totale impossibilità di rendere la prestazione), la vecchiaia e la disoccupazione involontaria. E proprio quest’ultima è diventata (e lo sarà sempre di più) un elemento caratterizzante le nuove occupazioni, specie quelle non subordinate, in cui la discontinuità lavorativa (che porta alla disoccupazione involontaria) è diventata caratteristica intrinseca, potrebbe dirsi tipologica. Lo stesso appellativo di “gig economy” attribuito all’economia collaborativa che usa internet e le piattaforme tecnologiche per ripartire oltre che beni e servizi anche occasioni di lavoro, deriva proprio dalla constatazione che il “lavoretto” (gig, parola originariamente usata nel contesto delle performance musicali nell’ambito della musica pop) è diventato la regola, cosa che significa che sono diventate “regola” la precarietà, l’incertezza e la discontinuità lavorative (con gli ovvi riflessi esistenziali). Riprendendo le parole di Ghera (pronunciate oltre dieci anni fa in occasione di un convegno svoltosi presso l’Accademia Nazionale dei Lincei proprio sul “Il nuovo volto

555 Angiolini, Carabelli, 2016, § 6. 556Aloisi, 2016, 32.

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del diritto italiano del lavoro”)557 «occorre assicurare l’estensione e il rafforzamento dei diritti sociali finalizzati alla protezione della persona contro gli effetti negativi della discontinuità lavorativa»dovendosi ormai prendere atto che «la dipendenza economica acquista rilevanza in qualità di presupposto per la giuridificazione dello status di attività (o cittadinanza professionale) funzionale alla titolarità dei diritti sociali finalizzati alla protezione della discontinuità dell’occupazione». Il riconoscimento sul piano giuridico del dato socio-economico della “dipendenza economica” del lavoratore e della “discontinuità lavorativa” come elementi caratterizzanti i c.d. nuovi lavori, specie quelli che usano le piattaforma tecnologiche (pur nella varietà delle tipologie ipotizzabili), pongono le premesse per la creazione di uno statuto protettivo dei lavoratori che sia plurale e variamente declinato558, riconoscendo la necessità e l’urgenza di attivare una protezione per le figure social-tipiche diverse da quelle riconducibili all’art. 2094 c.c., ritenuto ancora oggi (ma chissà per quanto ancora) quale modello del lavoratore che necessita di tutele, risultando, viceversa in molti casi, il soggetto forte, in un mercato del lavoro in cui sono i lavoratori autonomi o parasubordinati ad essere sempre più deboli559, ormai sprovvisti anche della prospettiva di un guadagno adeguato che consenta loro di compensare le minori tutele legali (come è stato nella lunga tradizione delle c.d. professioni libere). Questo minimo di tutela, questo “zoccolo duro di diritti”560 dovrebbe essere considerato quale requisito essenziale per il legittimo operare nel nostro Paese delle nuove imprese della collaborative/platform economy, la cui sede legale può essere ovunque nel mondo, ma la cui incidenza è immediata e diretta nel mercato del lavoro nazionale.

LAFUNZIONEREGOLATIVADELDIRITTODELLAVORODALL’UNIFORMITÀDITRATTAMENTOALLARAGIONEVOLEDIFFERENZIAZIONE La conclusione della riflessione sin qui svolta in ordine alle ricadute della frammentazione organizzativa sul rapporto individuale di lavoro non può essere circoscritta al fenomeno analizzato in quanto esso, come già anticipato, coinvolge il più generale tema della funzione del diritto del lavoro a fronte dei cambiamenti in atto nell’economia e nella società. Descrivere un cambiamento in atto e contemporaneamente tentare di darne una sistemazione ordinata mediante la creazione di categorie interpretative che si pongano in una qualche relazione con quelle esistenti non è affatto facile se la pretesa è quella di (tentare di) essere oggettivi e di usare un metodo rigoroso e scientifico561. Le trasformazioni nell’economia, nella società, nelle scienze e nella tecnologia, consegnano ai giuristi degli inizi del terzo millennio un mondo profondamente diverso da quello del Novecento, secolo in cui sono state create e si sono definite le categorie fondamentali del diritto del lavoro in quanto strettamente connesse a quell’economia e a quella società. Tutte le periodizzazioni sono discutibili, anche quelle che utilizzano come metro di misura temporale i secoli, tanto che Hobsbawm chiama «Il Secolo breve»562 quello che

557Relazione tenuta da E. Ghera nel 2004 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei in occasione del convegno «Il nuovo volto del diritto italiano del lavoro» e poi pubblicata nel 2006. 558V. Carta universale dei diritti presentata dalla CGIL nel 2016.559Di questa debolezza sembra in parte prendere atto il Parlamento con il d.d.l. n. S-2233-B già citato nel testo. 560 Se ne parlava già nel «Libro Bianco del mercato sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità» del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, 2001.561 Mazzotta, 2014, 181 ss. 562 Hobsbawm, 1997, 7 (prima edizione in lingua originale del 1994).

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va dal 1914 alla fine dell’Unione Sovietica, quindi descrivendo e interpretando solo una parte del XX secolo. Questa premessa per dire che le trasformazioni che stiamo vivendo oggi, nella duplice veste di protagonisti e spettatori, trovano le loro origini nella fine del millennio scorso, in un continuum accelerato di cause ed effetti che, per ragioni che nulla hanno a che fare con il diritto, stanno mettendo a dura prova le fondamenta e la struttura del sistema giuridico (paradigma) tradizionale, specchio di un mondo che non c’è quasi più563. La prima difficoltà è quindi quella di scegliere le parole e le categorie per interpretare i cambiamenti, non solo in potenza, ma in atto. «Quando gli uomini si trovano di fronte a qualcosa di nuovo che li coglie impreparati, si affannano a cercare le parole per dare un nome all’ignoto, anche quando non possono definirlo né comprenderlo. Nel terzo quarto del secolo possiamo vedere questo processo in atto tra gli intellettuali occidentali. La parola chiave fu la breve preposizione “dopo”, generalmente usata nella forma latina “post” come prefisso di numerosi termini che, per alcune generazioni, erano stati adoperati per contrassegnare il paesaggio mentale della vita del ventesimo secolo. Il mondo, o i suoi aspetti più rilevanti, divenne post-industriale, post-imperiale, post-moderno, post-strutturalista, post-marxista, post-Gutemberg e affini. Come i funerali, questi prefissi prendevano atto ufficialmente della morte senza implicare alcun giudizio unanime e ancor meno alcuna certezza circa la natura della vita dopo la morte»564. La dottrina giuslavoristica è in prima linea nel cercare di interpretare il mutamento in corso, visto che tutto ciò che avviene nell’economia e nella società ha una ricaduta immediata e, direi, violenta proprio sul lavoro e sulle relazioni contrattuali ad esso connesse565. A tal proposito, Perulli parla di «mutamento di paradigma» con riferimento alla funzione storica del diritto del lavoro stante «il diverso contenuto della filosofia d’azione che esso incarna in vista delle soluzioni (le politiche)» e «il diverso strutturarsi dell’agire pubblico rispetto al valore del paradigma»566; in sostanza, si assisterebbe ad uno spostamento dell’asse valoriale intorno al quale si è costruito e si costruisce il diritto del lavoro con un deciso ridimensionamento dei valori sociali ed una preminenza degli interessi economici. Secondo Treu l’impostazione del Jobs Act «implica non una rinunzia al ruolo regolatorio del diritto del lavoro, bensì la modifica dei suoi contenuti e delle sue tecniche, resa necessaria per adeguare la regolazione al mutato contesto dell’economia globale e dei mercati del lavoro»567. Per Speziale568 il diritto del lavoro ha subito una «mutazione genetica», modificando «i propri obiettivi, la scala di valori su cui si è basato e, in una parola, la stessa funzione che lo ha contraddistinto e ne ha giustificato la nascita e lo sviluppo» e imputa tale radicale

563 Carinci F., 2014; ancor prima Persiani, 2003. 564 Hobsbawm, 1997, 339-340. 565 Sull’importanza dell’impatto dei mutamenti organizzativi e produttivi sul dibattito scientifico giuslavoristico, con «accesi dibattiti, fino a contrapposizioni ideologiche, di carattere generalissimo sullo stesso diritto del lavoro e su una sua presunta crisi di identità» v. Quadri, 2004, 1. Sui riflessi dei mutamenti in atto sul diritto del lavoro si è ripetutamente interrogato Miscione, 1999 e Idem, 2003. 566 Perulli, 2016a, XLIV, che sembra aver mutato parere rispetto all’idea di diritto del lavoro formulata un paio di lustri innanzi. Infatti, l’Autore (2008, 894), riteneva «naive limitarsi ad alzare barriere comunicative sostenendo che il diritto del lavoro, di fronte alla materialità economica, corre il rischio di perdere il suo statuto scientifico ed il suo orientamento assiologico, compendiabile nell’attitudine a correggere le disparità di potere contrattuale e consentire il superamento della visione economica del lavoro come merce. Infatti, il diritto del lavoro, con la sua componente di legittimazione dell’autorità aziendale, è sempre stato anche strumento di Rationalisierung capitalistica, in un continuo processo di razionalizzazione/adattamento della forma giuridica alle esigenze dell’economia e dell’organizzazione». 567 Treu, 2016, 27. 568 Speziale, 2017b, 2 ss.

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trasformazione al rapporto instauratosi con l’economia569, quasi una colonizzazione del primo da parte di quest’ultima570. Rispetto alla «flessibilità nel garantismo» sostenuta da Giugni571, le prospettive della legislazione del lavoro degli ultimi anni impongono al giuslavorista572, una volta posto di fronte al diritto del lavoro della complessità573, di «rimettersi a studiare le nuove forme che hanno assunto l’impresa ed il lavoro nelle società contemporanee»574, non perdendo di vista i grandi mutamenti socio-economici, in primo luogo, la globalizzazione e, in secondo luogo, la c.d. «new economy», a lungo sottostimati da una parte della dottrina575, troppo concentrata sulle (improvvisate)576 dinamiche normative interne577, per quanto importanti esse possano apparire. A ben guardare, la comprensione dei macro fenomeni anzidetti appare fondamentale per capire quali traiettorie dovrà seguire il diritto del lavoro per poter rispondere alle nuove esigenze in modo “maturo”578, posto che la globalizzazione e la c.d. quarta rivoluzione industriale stanno al futuro della nostra materia come la prima e la seconda rivoluzione stanno al suo passato. Di conseguenza, così come lo sviluppo economico e i modelli di industrializzazione non potevano, ieri, essere lasciati alla spontaneità del mercato a tutela dei contesti sociali di riferimento579, appare insensato, oggi, opporsi

569 In argomento si rinvia alla riflessione di Quadri, 2004, 1 ss. ed al ricco apparato bibliografico a supporto di essa. 570 Non a caso Quadri (2004, 6) parla di «tendenza pervasiva dell’economia, (…) una propensione del ragionamento economico ad imporsi anche nel capo delle altre scienze, con una valenza, per cosi dire, totalizzante». Sulla funzione del diritto del lavoro d’obbligo il rinvio a Vallebona, 2009, 3 e 10; l’Autore trattando di fini e tecniche del diritto del lavoro esordisce affermando che «il fine del diritto, e quindi anche del diritto del lavoro, è la realizzazione della giustizia sociale», evidenziando di seguito che i diritti dei lavoratori vanno contemperati con la tutela dell’organizzazione produttiva con l’effetto che «tra i fini del diritto del lavoro vi è anche la tutela dell’organizzazione». 571 Giugni, 1983. 572 Secondo Mazzotta (2014, 181 ss.), il giurista è un tecnico che collabora nella elaborazione e successiva redazione della legge, con ruoli molto diversi tra loro, potendo assumere quello di «consigliere del principe», ovvero di «controllore ex post dei documenti normativi, sui quali svolge la propria influenza»; sempre ragionando del ruolo del giurista, Perulli (2008, 890 – 891) lo individua «nell’occuparsi della norma sul piano dei valori e non su quello fenomenologico, che resta riservato all’analisi sociologica o statistica, ovvero al dominio delle scienze empiriche». Con riferimento specifico, poi, al ruolo del giuslavorista, lo stesso Autore (2016a, L) ritiene che esso sia impegnato a comprendere se il diritto del lavoro dovrà svolgere solo la funzione di organizzare forme esteriori del processo economico ovvero se possa costituire uno strumento attivo del processo economico, orientandolo in senso sociale. 573 Così Del Punta (2016, 497), secondo il quale il diritto del lavoro della complessità implica «il rinnovo della pratica bobbiana del dubbio metodico, una convinta umiltà metodologica, una cultura pragmatica e consequenziale». 574 Mazzotta, 2014, 182. 575 De Luca Tamaio (2016a, 6 ss.), che non manca di rimarcare le responsabilità della cultura giuslavoristica che «non ha saputo comprendere e guidare per tempo gli inevitabili processi strutturali in corso, attestandosi su posizioni meramente difensive e trasformando talora la fedeltà al garantismo storico in fuorviante barriera ideologica di misurati e ragionevoli moti riformistici». Riecheggia nelle parole di De Luca Tamajo, ovviamente con le dovute differenze di contesto storico, il pensiero di Giugni (1996, 270) che vent’anni fa invitava a modernizzare un sistema normativo intriso della cultura dei divieti, non con la testa rivolta al passato. 576 Piace sul punto rileggere una riflessione datata, ma tuttora attuale, di Carnelutti (1961, 503), secondo il quale «al solito la legge è redatta con l’inabilità tecnica che costituisce ormai un carattere costante della nostra legiferazione sempre più improvvisata». 577 Perulli, 2016a, XLVI. 578 Romagnoli (1995, 7) sostiene che il diritto del lavoro è affetto dal «complesso di Peter Pan». 579 Garofalo M.G., 1999, 12.

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ideologicamente alla globalizzazione e alle ragioni dell’economia quanto piuttosto è importante «provare a contrastarne le forme più negative»580 che vorrebbero trasformare il diritto del lavoro in strumento a servizio dell’economia581 nella logica della c.d. desocializzazione capitalistica con elevazione della flessibilità a dogma582, viceversa tentando di ribadire l’autonomia epistemologica del diritto del lavoro e difendendo il suo assetto valoriale583. Il diritto del lavoro post-costituzionale ha corretto il modello antropologico ottocentesco dell’individualismo proprietario584 presupponendo, viceversa, l’uomo che lavora e non semplicemente un proprietario di forza-lavoro che la offre sul mercato585. La reificazione del lavoratore, scongiurata proprio dal diritto del lavoro post-costituzionale, sembra purtroppo riproporsi anche nell’Italia del terzo millennio — si pensi al lavoro degli immigrati nei campi di pomodoro o a quello dei fattorini che trasportano i pasti per ordine di un algoritmo — «con l’effetto di dover rinverdire in forme nuove le radici antiche del diritto del lavoro»586, radici che affondano nei valori costituzionali e che non possono essere intaccate da qualsivoglia supposto mutamento di paradigma ogni volta che il vento di una crisi inizia a soffiare, anche con vigore, minacciando la tenuta del sistema. La ciclicità delle crisi (1973-1975; 1980-1984; 1992-1995; 2008-2014) ha di fatto cristallizzato una provvisorietà non più transeunte ma permanente, tanto che a fronte dell’emergenza “che non si decideva a passare” si iniziò a parlare di «diritto del lavoro della crisi»587, anche se «era il diritto del lavoro che stava cambiando e non in virtù di una crisi passeggera, ma del mutare dello stesso referente socioeconomico, e cioè del modo di stesso di produzione»588: quindi non un cambio di paradigma ma l’ontologica

580 Mariucci (2008, 678) il quale a fronte del modello desindacalizzato nordamericano e dispotico/iperliberista asiatico, auspica una risposta europea all’evoluzione della scena globale, rinvenuta nell’elevazione del vincolo dei diritti sociali come «limite sociale al mercato», dovendosi affermare «un’altra concezione della competizione, in cui il parametro della qualità sociale sia assunto come concreto punto di riferimento» (680-681). 581 Sul punto v. Perulli, 2008, 902 ss., che parla di «tendenza alla “delavorizzazione” del diritto del lavoro in nome di un fondamentalismo dei valori del mercato libero concorrenziale». Amplius, Caruso, 2016, 241 ss., che si sofferma sul rapporto tra capitalismo e diritto del lavoro, evidenziando che la progressiva perdita di autonomia epistemologica del diritto del lavoro è parte del più ampio dibattito sul futuro del capitalismo, contrapponendosi due tesi. La prima è definita della convergenza neoliberale dei sistemi di capitalismo occidentale (Streeck); la seconda è quella della differenziazione dei modelli e delle risposte che ha come corollario la riformabilità dei capitalismi (Crouch). Nel primo caso si assisterebbe ad un processo inarrestabile e travolgente di convergenza delle economie capitalistiche mondiali verso il modello neoliberistico anglosassone, impermeabile all’azione dei movimenti di rappresentanza dei lavoratori. La seconda ipotesi rimanda alla mente il primo Keynes, ammettendo la possibilità che il capitalismo sia riformabile e che le azioni umane possano coniugare capitalismo e centralità del lavoro umano, con la realizzazione di un nuovo umanesimo liberale. 582 Perulli, 2016a, XLVI-XLVII. 583 Santoni, 2015; Speziale, 2017b, 39. 584 Sul passaggio dallo status al contratto di lavoro v. amplius Garofalo M.G., 1999; ma sull’instabilità del contratto di lavoro, quale meccanismo di distribuzione giuridica del rischio, v. ora Barbera, 2010, 8. 585 Mengoni, 1985, 127; non si può non ricordare che il principio fondativo dell’OIL è proprio «il lavoro non è una merce». 586 Così Mariucci (2004, 31) secondo cui «il vero fenomeno caratteristico dell’epoca presente non è costituito dal declino della natura subordinata dei rapporti di lavoro, di cui molto si parla, quanto piuttosto dalla frammentazione, fino alla atomizzazione individualistica, dei mercati del lavoro». Più di recente v. Bellavista, 2012. 587 De Luca Tamajo, Ventura L., 1979; Giugni, 1983; Quadri, 2004, 13; Aa.Vv., 2013. 588 Romei, 2012, 768; v. anche Prosperetti U., 1962, 50 e Branca, 1965, 67.

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mutevolezza del diritto del lavoro in sé589, fermo restando l’apparato valoriale che pervade la Carta costituzionale ed il nucleo più profondo e autentico dei diritti umani e cioè quello della persona che lavora590. Anche il mutamento del modo di produzione (e non solo del lavoro) è stato al centro della riflessione giuslavoristica, come dimostrano gli inviti di Mazzotta591 e M.G. Garofalo di rimettersi a studiare le nuove forme che ha assunto l’impresa, nonché i rapporti tra imprese «retti, oggi più che mai, non da relazioni conflittuali di concorrenza, ma da relazioni di autorità – subordinazione dettate dal reciproco rapporto di forza»592, scenario su cui contestualizzare il diritto del lavoro della complessità593. L’emergere e il diffondersi dei gruppi di imprese e del modello di impresa-rete594 rappresentano la risposta alle crisi succedutesi nel corso degli anni, in tal modo perseguendo la realizzazione di un prodotto e la sua collocazione sul mercato attraverso la frammentazione dell’impresa tradizionale basata sul modello verticale, in una pluralità di imprese di minori dimensioni tra loro collegate in rete, quindi strutturate in orizzontale, con una serie intuibile di vantaggi595. Nel rapporto tra imprese si verifica, quindi, un fenomeno simile a quello che nel fordismo si è verificato per gli operai di mestiere596, separandosi l’intelligenza del processo produttivo dalla produzione materiale ed i luoghi dove questa si svolge da quelli dove si assumono le decisioni strategiche sul cosa e come produrre597. Al mutamento organizzativo ha fatto da eco anche quello della funzione dell’impresa, che assume i connotati di bene comune598, rilevando non solo gli interessi degli azionisti (shareholders) e dei dirigenti (directors, managers), ma anche dei portatori di interesse (stakeholders), assistendosi, sempre più frequentemente, al rafforzamento del legame tra

589 In senso analogo Deakin, 2015, e De Luca Tamaio (2016a, 6 ss.), secondo il quale «il diritto del lavoro è posto di fronte all’ardua scelta tra resistenza e adattamento al cambiamento. La seconda opzione non determina una perdita di identità del diritto del lavoro, comportando soltanto uno spostamento della frontiera mobile della mediazione in favore di istanze diverse (efficienza e competitività delle imprese nell’economia globalizzata, rilancio dell’occupazione, tutela degli outsiders). Si tratta sostanzialmente di mantenere la propria cifra caratterizzante di tutela dei valori personalistici di libertà, sicurezza e dignità dei lavoratori, ma all’interno di una ponderazione storicamente variabile, con le esigenze di competitività e di sopravvivenza di un sistema capitalistico riconosciuto dall’ordinamento». 590 Mariucci, 2008, 673. 591 Mazzotta, 2014. 592 Garofalo M.G., 1999, 21; Idem, 2006, 137. 593 Mentre si chiudeva la stesura della presente relazione, si è avuta notizia del numero monografico di LD, 4/2016, con contributi di Romagnoli, Mariucci, Del Punta e Caruso, Lyon-Caen, Zoppoli L., Gaeta, Bavaro, Speziale, Andreoni, Mc Britton, Vimercati, Ballestrero, De Luca Tamajo, Rusciano. 594 Ante litteram v. Branca, 1965. 595 Infatti, «l’impresa rete può presentarsi sull’esterno, secondo le convenienze, come pluralità di imprese atomizzate (p. es. nelle relazioni sindacali) o come un’unica entità (p.es. nell’acquisizione di commesse)»; di fronte ad un fenomeno socio-economico-produttivo siffatto, «L’unica risposta adeguata sarebbe quella di un’azione sindacale che investa l’intera rete, ma questa richiederebbe la costruzione di solidarietà amplissime, quasi sconosciute alle passate esperienze che dovrebbero andare oltre i confini dello stato nazione e, finora, il sindacato non è stato in grado di realizzarla», così Garofalo M.G., 1999, 21-22; Idem, 2006, 138. 596 Barbera, 2010, 12-13, secondo la quale la logica dei processi di esternalizzazione, fondata sul «buy», sembra poter essere compromessa da una forma di supremazia giuridico economica, mediante cui l’impresa dominante tenta di estendere ad una relazione esterna con un altro imprenditore la stessa gerarchia che qualifica i suoi rapporti di produzione interni con i lavoratori. 597 Garofalo M.G., 1999, 21; Idem, 2006, 137. 598 Barbera, 2016, 679-685.

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impresa e territorio di riferimento, e dunque conferendosi un ruolo non più secondario alla responsabilità sociale d’impresa599. Al quid novi, a latere datoris ac praestatoris, corrispondono i processi legislativi di cambiamento che si pongono in una ambigua relazione rispetto a quelli preesistenti600, così alimentandosi un vivace dibattito politico, sindacale e, ovviamente, scientifico. Il più recente motore del cambiamento (e del dibattito) è rappresentato dal Jobs Act, del quale non vi sono univoche letture. Una critica severa cui si aggiunge una controproposta di riforma fondata sul tradizionalismo costituzionale e statutario viene dalla CGIL601; da altre parti si propone, quale alternativa al modello del Jobs Act, una regolamentazione inderogabile estremamente ridotta con spazio al mercato e al contratto individuale, anche autonomo, e nuovi diritti da riconoscere ai lavoratori602. Sul fronte opposto, v’è chi saluta con entusiasmo il ciclo normativo avviato nel 2015603 e chi adotta la posizione di un «riformismo ragionevole» o di «costruttivismo critico», secondo cui le riforme adottate costituirebbero comunque una risposta del diritto ai mutamenti del sistema di produzione e dell’organizzazione del lavoro604. L’ultima stagione normativa, in ogni caso, ha tutt’altro che sopito il dibattito scientifico sull’idea stessa di lavoro e sulle nuove forme di soggezione del lavoratore al potere datoriale, ponendo nuovamente in agenda l’ampiezza della nozione di subordinazione605 e l’actio finium regundorum con le fattispecie considerate contermini, quali la parasubordinazione e, più in generale, l’area (per ora di difficile categorizzazione) del lavoro economicamente dipendente, che con la frammentazione dell’impresa e l’irrompere della collaborative economy, acquistano visibilità e importanza giuridico-sociale se è vero che «il diritto del lavoro serve, in ultima istanza, ad affermare i diritti della persona che lavora anche contro i vincoli della economia data»606. Una tensione endogena è poi creata dall’emergere, anche a livello normativo, del concetto di codatorialità anche ai fini della sussumibilità sub art. 2094 c.c.607. Anche nel terzo millennio va ribadito il «dovere pubblico di costruire un contesto all’interno del quale le decisioni della persona possano essere effettivamente libere»,

599 Barbera, 2010, 636, ma anche Caruso, 2016, 258 ss. 600 Sulla passiva tendenza del legislatore ad assecondare una strumentalizzazione (c.d. ancillarità) del diritto del lavoro all’economia v. Barbera, 2010, 6 - 7. 601 V. Carta universale dei diritti presentata dalla CGIL nel 2016. 602 Così Tiraboschi, 2015; Gottardi, 2015. 603 Ichino, 2016. 604 Questa è la tesi di Caruso (2016, 255), secondo il quale il Jobs Act costituirebbe «un abbrivio, non privo di difetti, per una radicale innovazione del paradigma del diritto del lavoro (l’innovazione si innesta nella tradizione non negandola ma mutandola, anche radicalmente, nella realizzata alchimia: una modernizzazione controllata)», accedendosi «a una interpretazione orientata e dinamica dei principi e dei valori costituzionali». 605 Sui rischi derivanti da un ampliamento incontrollato dell’area della subordinazione, attraendo altri contraenti deboli non subordinati, caratterizzati dalla c.d. dipendenza economica v. Barbera (2010, 11) e la riflessione svolta dalla stessa in materia di contratti relazionali. Sulla dipendenza economica come dipendenza reddituale e non come dipendenza organizzativa v. Perulli, 2016b, 24. 606 Così Mariucci (2008, 680), secondo il quale «nel diritto del lavoro è infatti iscritta una istanza di liberazione indeclinabile, che durerà quanto la storia dell’uomo», istanza che non può essere saldata al solo lavoratore subordinato, ma va riferita a tutti i lavoratori nell’accezione più ampia possibile. Anche Mazzotta, 2006, 167, riaffermando la perdurante vigenza del divieto di interposizione, ribadisce l’ineliminabilità del rispetto di regole minime di garanzie per i diritti dei lavoratori, onde evitare la totale abdicazione alle ragioni del diritto rispetto a quelle della economia e del mercato. 607 Sul punto v. Barbera (2010, 31), secondo cui la dinamicità del capitalismo cozzerebbe con l’irrigidimento della nozione di subordinazione, atteso che se la forma dell’organizzazione è plurale, nulla osterebbe alla pluralità di forme di subordinazione.

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ma è necessaria una responsabilizzazione anche dei privati, imprenditori in primis, di non svolgere l’attività lato sensu produttiva in contrasto con la dignità umana608. Non va, infine, trascurata una riflessione su quello che dovrebbe essere l’atteggiamento del cittadino al cospetto delle istituzioni pubbliche o del datore di lavoro, che non può più essere di mera attesa o pretesa, ma di responsabilità individuale e compartecipazione alle sorti comuni, valorizzandosi quel dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società contenuto all’art. 4, co. 2, Cost., troppo spesso dimenticato e del quale poco si parla, anteponendo sistematicamente le posizioni giuridiche attive a quelle passive, senza contemperare il legittimo anelare del singolo verso il lavoro desiderato (perché consente la realizzazione della propria personalità), con la necessità che comunque il cittadino svolga un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società, anche se diversa da quella che avrebbe voluto svolgere609. Lavoro e dignità sono parole — e quindi concetti — spesso declinati insieme senza tener conto della natura sociale dell’uomo e del fatto che non è sempre possibile garantire il primo assicurando la seconda, poiché il cittadino che ritiene non dignitoso un lavoro non coerente con il proprio percorso di studi o professionale o che vive inerte l’obsolescenza delle proprie competenze, rischia di stagnare in una condizione di ino/disoccupazione nociva per sé e per la propria comunità ove, pur legittimamente, rifiuti un’offerta di lavoro non congrua rispetto alla propria professionalità610. Indubbiamente vanno create le condizioni di contesto per favorire l’emersione della dignità “del” e “nel” lavoro; da questa partita non può essere escluso chi (la c.d. entità datoriale) provoca artificiosi aumenti dei costi della connessione sociale, consapevole della possibilità di scaricare sulla comunità le diseconomie di sistema611, ma neanche chi (il cittadino) graverà sul sostegno delle istituzioni, e quindi sulla fiscalità generale, senza preoccuparsi della sostenibilità del Welfare State. Nel primo caso si potrebbe ipotizzare l’introduzione di un sistema analogo al meccanismo del c.d. bonus/malus, che stenta ad essere metabolizzato dal punto di dogmatico612 e normativo613, e che premi gli imprenditori socialmente responsabili e, viceversa, penalizzi quelli che riescono a spostare altrove, se non addirittura a dissolvere in mille rivoli, il precipitato economico del rischio di impresa614. Nel secondo caso, si potrebbe generalizzare il sistema della condizionalità/co-responsabilizzazione nelle (e delle) scelte di vita e di lavoro che vedono protagonista il cittadino, specie in un momento storico come questo, caratterizzato da elevati livelli di competitività e concorrenza tra Paesi e sistemi economici, in cui il diritto del lavoro, con la sua intramontabile funzione regolativa e anti-concorrenziale615, può giocare un ruolo

608 Così Rodotà, 2013, 11; Veneziani, 2011; Miscione, 2005. 609 V. Filì (2016, 114-115), secondo la quale l’obbligo a carico del disoccupato può essere “realizzabile” se diventa efficace la politica attiva del lavoro; viceversa, Topo (2016, 196) opta per un bilanciamento tra libertà dell’individuo e limitazione delle scelte professionali insite nei meccanismi di condizionalità. 610Per la nozione di congrua offerta di lavoro v. l’art. 25 d.lgs. n. 150/2015.611 Garofalo M.G., 1999, 27-28; Ratti 2009, 9. 612 CGIL, 2002, 570; Balletti, 2015. Sul punto, poi, giova soprattutto richiamare il d.d.l. 1481 (primo firmatario Pietro Ichino), che reca la proposta del contratto di transizione prevedendo la costituzione di un ente bilaterale cui affidare da parte delle aziende la gestione congiunta dell’assicurazione contro la disoccupazione e dei nuovi servizi di riqualificazione e assistenza nella ricerca di una nuova occupazione. Il finanziamento dell’ente sarebbe posto a carico delle imprese con un meccanismo di bonus/malus che premia le imprese che ricorrono meno ai licenziamenti economici, penalizzando le altre. Maggiori dettagli sono offerti dallo stesso Ichino sul suo sito pietroichino.it. 613 D.p.r. n. 1124/1965 e da ultimo gli artt. 5 e 13, c. 1, d.lgs. n. 148/2015, in materia di contribuzione addizionale per la CIG. 614Zingales L., 2012; Reich R., 2015.615 In argomento v. De Luca Tamajo (2016b, 13 ss.), che si sofferma sulla deriva concorrenziale determinata dalle pratiche di dumping sociale, economico e normativo e sui possibili argini ad esse,

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strategico616, comunque mettendo il cittadino in condizioni di adempiere a tale dovere sociale con la garanzia di un reddito minimo di cittadinanza, una volta esauriti gli ammortizzatori sociali. Si tratta di un ruolo strumentale più o meno consapevole di politica economica617 per l’assunzione del quale, però, appare indispensabile un upgrade della funzione regolativa classica, essenzialmente votata ad un’uniformità di trattamento in contrasto con la declinazione giurisprudenziale del principio di uguaglianza, inteso come principio di ragionevolezza, con l’adozione di un metodo non dissimile da quello rinvenibile nella normativa comunitaria/UE, che potremmo definire di ragionevole differenziazione.

mediante la teorica dei diritti sociali fondamentali «originari e non superabili». Sul punto, ancor prima, v. Barbera, 2010, 10. 616 Romei, 2012, 770. 617 Garofalo M.G., 1999, 27-28.

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