di Carlo Marco Beffanti...nanno in una interessante antologia su Lefun zioni sociali del matrimonio....

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Rassegna bibliografica Famìglia e matrimonio nell’Europa moderna di Carlo Marco Beffanti Una riflessione sullo stato attuale delle ricerche di storia della famiglia non può aprirsi senza sottolineare la grande crescita conosciuta da questa tematica negli interessi degli storici. Pa- gato questo debito al signor di La Palice si potrebbero brevemente indagare le motivazio- ni dell’emergere di questa curiosità. Gli studi di storia della famiglia sembrano infatti conoscere “una stagione nuova” (M. Barbagli, Introduzione a Famiglia e mutamen- to sociale, Bologna, Il Mulino, 1977, p.7), do- vuta probabilmente non tanto al fatto che “la crisi di questa istituzione abbia risvegliato gli interessi dei ricercatori” (Ivi) quanto piuttosto alla crescente, da tempo sentita e non ancora soddisfatta, esigenza della scienza storica di portarsi a “n dimensioni” (Cfr. ad es. J. Le Goff (a cura), La nuova storia, Milano, Mondadori, 1980): esigenza che ha condotto gli storici a valutare la possibilità di prendere in considera- zione le tematiche e gli strumenti di antropolo- gi, sociologi e demografi. E questo incontro sembrerebbe aver fatto sì “che i primi ripren- dessero criticamente categorie e schemi concet- tuali delle scienze sociali e sta rendendo i secon- di sempre più sensibili alla dimensione storica” (Barbagli, Introduzione cit., p.7.). In particolare, è stato il successo delle ricer- che storico-demografiche e soprattutto il me- todo di ricostruzione nominativa di Louis Henry a portare, o riportare, la famiglia al centro dell’interesse degli storici. Già, ma quelle di Henry erano sostanzialmente genealogie, non famiglie, utili soltanto per studiare la fe- condità delle coppie. Ed è Peter Laslett a rac- cogliere questa sfida proposta dall'impasse del- la demografia storica ed a scoprire che “nella società à'Ancien Régime non c’era che una classe, la nobiltà, ma tante famiglie o meglio householcF (E. Grendi, A proposito di fami- glia e comunità: questo fascicolo di «Quader- ni storici», in “Quaderni storici”, 1976, n. 33, p. 882). Ma Laslett ed il suo gruppo non portano novità sostanziali sul piano del metodo e, pur chiarendo alcuni nodi importanti relativamen- te alle dimensioni ed alla struttura dell’aggrega- to domestico, sono ancora lontani dall’indivi- duazione del meccanismo che regolava il fun- zionamento della famiglia occidentale: ammes- so che sia restata una famiglia occidentale. Le ricerche del gruppo di Cambridge sono state criticate per la qualità e l’uso delle fonti studiate, oltre che per lo sfrenato comparati- vismo. Ma è importante soprattutto sottolinea- re come nell’analisi di Laslett sia carente l’atten- zione al ciclo evolutivo della famiglia ed alle sue connessioni con le condizioni economico- sociali e con i sistemi di trasmissione della ric- chezza: “la famiglia non è una cosa, ma un processo” (M. Barbagli, cit. p. 17). In altre parole rincontro tra storici e antropologi e sociologi non è un fatto scontato. Ad analoghe considerazioni giunge anche Jean Louis Flandrin nel suo recente volume sulla storia della famiglia intitolato Lafamiglia. Dimensioni, struttura e vita materiale, legami di parentela, rapporti tra coniugi e morale dome- stica, sessualità assistenza ed educazione dei figli nella società preindustriale, (Milano, Edi- zioni di Comunità, 1979, pp. 330, lire 9.000): “Italia contemporanea", settembre 1982, fase. 148

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  • Rassegna bibliografica

    Famìglia e matrimonio nell’Europa modernadi Carlo M arco Beffanti

    Una riflessione sullo stato attuale delle ricerche di storia della famiglia non può aprirsi senza sottolineare la grande crescita conosciuta da questa tematica negli interessi degli storici. Pagato questo debito al signor di La Palice si potrebbero brevemente indagare le motivazioni dell’emergere di questa curiosità.

    Gli studi di storia della famiglia sembrano infatti conoscere “una stagione nuova” (M. Barbagli, Introduzione a Famiglia e mutamento sociale, Bologna, Il Mulino, 1977, p.7), dovuta probabilmente non tanto al fatto che “la crisi di questa istituzione abbia risvegliato gli interessi dei ricercatori” (Ivi) quanto piuttosto alla crescente, da tempo sentita e non ancora soddisfatta, esigenza della scienza storica di portarsi a “n dimensioni” (Cfr. ad es. J. Le Goff (a cura), La nuova storia, Milano, Mondadori, 1980): esigenza che ha condotto gli storici a valutare la possibilità di prendere in considerazione le tematiche e gli strumenti di antropolo- gi, sociologi e demografi. E questo incontro sembrerebbe aver fatto sì “che i primi riprendessero criticamente categorie e schemi concettuali delle scienze sociali e sta rendendo i secondi sempre più sensibili alla dimensione storica” (Barbagli, Introduzione cit., p.7.).

    In particolare, è stato il successo delle ricerche storico-demografiche e soprattutto il metodo di ricostruzione nominativa di Louis Henry a portare, o riportare, la famiglia al centro dell’interesse degli storici. Già, ma quelle di Henry erano sostanzialmente genealogie, non famiglie, utili soltanto per studiare la fecondità delle coppie. Ed è Peter Laslett a rac

    cogliere questa sfida proposta dall'impasse della demografia storica ed a scoprire che “nella società à'Ancien Régime non c’era che una classe, la nobiltà, ma tante famiglie o meglio householcF (E. Grendi, A proposito di fam iglia e comunità: questo fascicolo di «Quaderni storici», in “Quaderni storici”, 1976, n. 33, p. 882). Ma Laslett ed il suo gruppo non portano novità sostanziali sul piano del metodo e, pur chiarendo alcuni nodi importanti relativamente alle dimensioni ed alla struttura dell’aggregato domestico, sono ancora lontani dall’individuazione del meccanismo che regolava il funzionamento della famiglia occidentale: ammesso che sia restata una famiglia occidentale.

    Le ricerche del gruppo di Cambridge sono state criticate per la qualità e l’uso delle fonti studiate, oltre che per lo sfrenato comparativismo. Ma è importante soprattutto sottolineare come nell’analisi di Laslett sia carente l’attenzione al ciclo evolutivo della famiglia ed alle sue connessioni con le condizioni economico- sociali e con i sistemi di trasmissione della ricchezza: “la famiglia non è una cosa, ma un processo” (M. Barbagli, cit. p. 17). In altre parole rincontro tra storici e antropologi e sociologi non è un fatto scontato.

    Ad analoghe considerazioni giunge anche Jean Louis Flandrin nel suo recente volume sulla storia della famiglia intitolato La famiglia. Dimensioni, struttura e vita materiale, legami di parentela, rapporti tra coniugi e morale domestica, sessualità assistenza ed educazione dei figli nella società preindustriale, (Milano, Edizioni di Comunità, 1979, pp. 330, lire 9.000):

    “Italia contemporanea", settembre 1982, fase. 148

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    “Gli storici della famiglia, così come i demografi ed i sociologi, si interessano troppo esclusivamente della cellula domestica e troppo poco dei sistemi di parentela e affinità che ossessionano invece gli etnologi” (p. 28). Questa osservazione costituisce anche una delle motivazioni che ispirano questo libro di Flandrin, da lui stesso presentato come una necessaria “sintesi tra le antiche immagini e quelle nuove, una sintesi critica, provvisoria e talvolta, diciamolo subito, anche azzardata, ma che forse potrà riuscire di qualche utilità agli specialisti che, ciascuno nel proprio cantiere, lavorano senza preoccuparsi sempre di ciò che si costruisce nel cantiere vicino” (pp. 27-28).

    Ed è questo il merito maggiore, ma non l’unico, di Flandrin: l’aver cioè proposto una prima sintesi organica e ragionata, con taglio interdisciplinare, delle ricerche sulla storia della famiglia preindustriale. Pregio notevole, ma non il solo, di questo libro, in quanto l’autore arriva a tracciare un quadro d’insieme “non soltanto attraverso l’esame delle diverse tesi prospettate, delle discussioni in corso, delle ricerche compiute [...], ma anche sulla base di personali, nuove ricerche”, (.Introduzione di G. Verucci, p. 10). In sostanza quindi il lavoro di Flandrin si divide in due parti: nei primi due capitoli l’autore riorganizza e riesamina criticamente opere note e meno note, mentre negli ultimi due propone i risultati delle proprie ricerche sulla morale dei rapporti familiari e sul problema del declino della fecondità e delle origini della contraccezione.

    Flandrin cerca innanzi tutto di definire il ruolo, la natura e le dimensioni della parentela nella società à'Ancien Régime, attingendo tanto alla letteratura giuridica quanto ad opere di carattere storico-antropologico e demografico, nonché presentando fonti inedite ed edite e fra queste ultime soprattutto Rétif de la Bretonne e folcloristi ottocenteschi. Dopo questo primo capitolo, che costituisce una intelligente sintesi di notevole utilità e di piacevole lettura, lo storico francese scende sul terreno controverso delle dimensioni e della struttura della famiglia

    preindustriale.Laslett ha spiegato che nell’Europa occiden

    tale la consistenza media dell’aggregato domestico era compresa tra le quattro e le sei unità: “Ma, agli effetti dell’analisi sociale, una ricerca eseguita sulle medie delle parrocchie è pertinente? Nell’ambito di una parrocchia il tasso di variabilità della dimensione delle famiglie reali è altrettanto insignificante quanto quello della variabilità della ‘dimensione media delle famiglie’ tra una parrocchia e l’altra e tra un paese e l’altro?” (p. 89). Come osserva giustamente Flandrin le medie parrocchiali proposte dal gruppo di Cambridge non sono in grado di dire nulla sul rapporto tra dimensione della famiglia e condizioni economico-sociali e presentano un pericoloso appiattimento della realtà. Lo stesso va detto per la classificazione delle strutture degli aggregati domestici che propone la famiglia coniugale come la tipologia predominante nello spazio e nel tempo: questo era forse vero per l’Inghilterra, ma oltre la Manica “alla Francia della famiglia coniugale si contrapponeva una Francia di famiglie complesse” (p. 107). Flandrin sostiene infatti che la famiglia coniugale era la tipologia predominante nella Francia settentrionale, dove si avvertiva l’influsso della tradizione giuridica nordica favorevole alla suddivisione dei beni tra i figli, mentre nel centrosud del paese l’attaccamento alla terra è da considerare il fattore determinante del prevalere della struttura complessa. Ed è questo uno dei contributi più importanti di questo volume, in cui si sottolinea la necessità di analizzare il “rapporto intercorrente tra la struttura della famiglia, le tradizioni giuridiche e le strutture economiche [...] per chiarire quegli ambigui rapporti che gli storici scoprono tra la condizione sociale e la complessità delle famiglie” (p. 123).

    Ma è a proposito dell’evoluzione della morale dei rapporti familiari che Flandrin presenta il risultato più originale delle sue ricerche. L’assunto di partenza, già illustrato in un precedente lavoro (J.L. Flandrin, Am ori contadini, Milano, Mondadori, 1980), è che nella società

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    d’antico regime l’amore coniugale non esisteva e ogni form a di sentimento all’interno della famiglia era bandita e condannata dalla Chiesa: moglie, figli e servitori erano soggetti alla autorità “monarchica” del capofamiglia, che non doveva niente a nessuno ed a cui tutto era dovuto. Basandosi sui manuali dei confessori e sui testi di catechismo, Flandrin individua un’evoluzione nell’atteggiamento dei moralisti cattolici, che fra il secolo XVI ed il XVIII rivalutano progressivamente il ruolo dei sentimenti nei rapporti familiari. Viene così attenuato lo strapotere del marito-padre-padrone: la condizione della moglie è elevata ad un livello di q u a s i parità con il coniuge, che diviene anche in qualche m odo responsabile dell’educazione e della vita dei figli ed il rapporto con i servitori si va consolidando come un rapporto di lavoro.

    Si tratta di una “evoluzione progressiva, e d’altro canto, incompiuta” (p. 220) avviatasi a partire dal XVI secolo e m aturatasi a contatto con la sensibilità dell’illuminismo, che porta non certo al matrimonio d’amore m a ad una maggiore presenza dei sentimenti nei rapporti familiari: anche se ciò avviene nei ceti socialmente elevati, nel cui ambito l’esigenza di “am ore”, avvertita molto prima del secolo XVIII, sembra essere stata prudentemente canalizzata verso i rapporti extraconiugali. C è però un problema, connesso alle fonti utilizzate, che Flandrin non si nasconde m a che non riesce nemmeno a risolvere: “Forse questa visione dei rapporti coniugali non era quella della maggiore parte dei fedeli — come saperlo? — ma condizionava certamente la mentalità dei devoti” (p. 209). Problema di non poco conto, evidentemente.

    Di analoghe argomentazioni, prevalentemente di ordine culturale, Flandrin si serve per spiegare la diffusione del modello malthusiano di fecondità nella Francia del secondo Settecento. S’è visto come le più im portanti conseguenze del crescente egualitarismo diffusosi dal Cinque al Settecento fossero la q u a s i parità tra i coniugi ed un maggiore senso di responsabilità da parte dei genitori nei confronti della vita e

    del destino dei figli. Questa evoluzione della morale sarebbe alle origini della limitazione volontaria della fecondità, in quanto avrebbe reso possibile da un lato il rifiuto da parte della moglie di soddisfare il debito coniugale motivato dal rischio mortale che essa correva rimanendo incinta e portando a termine la gravidanza, e, d’altro canto l’alta mortalità infantile avrebbe indotto i genitori a prendere coscienza “delle loro responsabilità per la m orte dei bam bini e [...] a rifiutare la morte rifiutandone la vita” (p. 298). Questo tipo di atteggiamento si sarebbe diffuso nei ceti sociali più alti, perché in questo ambiente era più frequente la pratica di mettere a balia i figli, fatto che aum entava enormemente la mortalità infantile. Inoltre, se l’amore “sentimentale” era un’esigenza da tempo sentita nelle classi superiori e veniva canalizzato verso le unioni illegittime, è proprio all’interno di questi rapporti extraconiugali che nasce la sensibilità maschile per i problemi sessuali e le necessità della donna.

    Flandrin introduce anche argomentazioni differenziate in relazione alle varie situazioni regionali, m a quanto esposto è il succo della sua intelligente e suggestiva interpretazione, che lascia nondimeno qualche perplessità. Lo storico francese afferma che “il sorgere di ciò che si è rivelato essere una rivoluzione demografica” (p. 266) deve essere spiegato “con la formazione di una nuova morale familiare” (ivi), tuttavia appare lecito domandarsi "se i fattori culturali possono spiegare in m odo adeguato il mutamento familiare” (M. Anderson, In te rp re ta z io n i s to r ich e della fa m ig lia , Torino, Rosenberg & Sellier, 1981, p. 95). M a questa osservazione, sicuramente fondata, nulla toglie al pregio di questo libro, una sintesi preziosa che cerca di ovviare ai limiti dello stato attuale delle ricerche, parte, con uriattenta riflessione metodologica ed una rilettura critica di opere note e, parte, con l’apporto di nuove ricerche articolate su ipotesi intelligenti, discutibili, ma non ovvie e per questo senz’altro stimolanti.

    Flandrin conclude le sue osservazioni sul m utamento avvenuto nella morale dei rapporti

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    familiari nel corso dell’età moderna affermando che comunque soltanto nel secolo XX “il matrimonio d’amore cesserà di essere un sogno” (p. 220). M a a diverse considerazioni inducono molti dei saggi raccolti da Milly Buo- nanno in una interessante antologia su L e f u n z io n i so c ia li d e l m a tr im o n io . M o d e lli e rego le d e lla sc e lta d e l co n iu g e d a l X I V a l X X seco lo , (Milano, Edizioni di Comunità, 1980, pp. 376, lire 15.000), di cui vale senza dubbio la pena di parlare.

    Gli autori raccolti in questa silloge documentano “l’evidenza di una regolazione sociale dei criteri di costituzione della coppia, la cui efficacia non ha cessato ancora di essere operante” {In tro d u zio n e , p. 11). I saggi raccolti nelle sezioni intitolate rispettivamente “il funzionamento del mercato matrimoniale” e “matrimonio e mobilità sociale”, ed in particolare le ricerche di P. Bourdieu, B. Vemier, J.F . M ira e A. Girard, illustrano con estrema chiarezza, per aree geografiche e contesti cronologici diversi, come “la funzione sociale del matrimonio abbia perso progressivamente la sua trasparenza, senza perdere in egual misura pregnanza ed incisività” {In trodu zion e, p. 16).

    I condizionamenti socio-economici che regolavano in maniera rigida il mercato degli scambi matrimoniali nella società di antico regime si sono venuti attenuando nei secoli XIX e XX o perlomeno hanno smesso di rappresentare una norm a codificata. Tuttavia queste ricerche documentano 1’esistenza di una pressione, certo meno evidente, ma non meno efficace, che induce aH’omogamia sociale, culturale, geografica: “Se dunque gli individui continuano nella società contemporanea a non scegliere il proprio coniuge a caso, fra un’infinità di coniugi possibili, se al contrario non possono trovarlo che fra un gruppo ristretto [...] ciò non significa necessariamente che essi non dispongono di alcuna libertà [...]. M a se i matrimoni non sono

    più “combinati”, essi continuano a subire nella società contemporanea ogni sorta di pressioni esterne” (A. Girard, p. 336-7).

    Non meno interessanti sono i saggi della Segalen e di Delille a proposito de “Le dimensioni dell’endogamia”. Ricerca divenuta ormai classica la prima, mentre la seconda è una interessante dimostrazione dell’esistenza nella società d 'A n c ien R e g im e di una regolarità di scambi matrimoniali ai diversi livelli sociali.

    Questo saggio di Delille testimonia l’importanza e la fecondità per gli storici di un approccio interdisciplinare che tenga conto delle problematiche di antropologi ed etnologi.

    Le ricerche degli storici, riunite nella sezione "Il matrimonio nel vecchio regime” appaiono peraltro piuttosto eterogenee. A parte le belle pagine di Leon Battista Alberti, la curatrice propone testi già noti e discussi di Peter Laslett e Le Roy Ladurie, scelti rispettivamente da V ie W o rld w e h a v e lo s t e M o n ta illo u , nonché i saggi, ormai classici m a decisamente datati, di Burr Litchfield e di Lévy-Henry sulle caratteristiche demografiche della nobiltà fiorentina e dei duchi e pari di Francia.

    L’impressione è, in sostanza, che qualcosa si stia muovendo, m a che ancora molto resti da fare sul piano dell’approccio interdisciplinare, indispensabile per gli storici (e penso per sociologi ed antropologi) che vogliano affrontare temi di frontiera come la famiglia e le funzioni sociali del matrimonio, tanto nella società preindustriale che in quella contemporanea. Un grosso contributo in proposito, sia sul piano metodologico che su quello delle ricerche, potrà venire dal convegno “Strutture e rapporti familiari in epoca moderna: esperienze italiane e riferimenti europei”, che si terrà a Trieste nell’autunno del 1983 ed al quale interverranno i maggiori specialisti italiani e stranieri.

    Carlo Marco Belfanti

  • La Terza Internazionale e il fascismodi M arcello Flores

    Con L a T erza In tern a zio n a le e il fa s c is m o (Roma, Editori Riuniti, 1982, pp. 409, lire 19.000), Claudio Natoli prosegue il suo lavoro di ricerca su quel periodo cruciale del m ovimento operaio che furono gli anni venti. L’argomento questa volta è il fascismo, l’atteggiamento che di fronte ad esso ebbero e le analisi che ne fecero i vertici dell’Intemazionale e i partiti operai italiani, il conflitto tra il Pcd’I e il Comintern negli anni ’21-24 che ruotò principalmente attorno alla politica di fronte unico entro cui i giudizi sul fascismo svolsero un peso di notevole rilievo.

    Il volume alterna la ricostruzione dei dibattiti avvenuti nelle assise intei nazionali dell’Ic a Mosca dal II congresso dell’estate del ’20 al terzo Esecutivo allargato del giugno ’23 — con una sintetica ricostruzione critica del periodo precedente e, soprattutto, di quello successivo — e il susseguirsi delle vicende italiane dal biennio rosso alla vittoria e stabilizzazione del fascismo passando attraverso la scissione di Livorno e giungendo fino al fallimento delle ipotesi di unificazione del movimento operaio sotto i primi duri colpi della repressione del nuovo regime. I capitoli che riguardano l’Italia sono senza dubbio i più interessanti, centrati non solo sull’atteggiamento della dirigenza socialista e comunista nei confronti del fascismo e dell’Internazionale, ma sulla più ampia realtà dello scontro sociale in atto, sulle lotte e sulla cultura politica delle masse operaie, sulla organizzazione periferica e quindi sul corpo complessivo del Partito comunista d’Italia nei primi anni della sua esistenza.

    Proprio l’allargamento del quadro d’indagine al complesso dei militanti, alla situazione di base e al loro legame con le dinamiche in atto nella società italiana, permette di dare uno spessore storico-concreto alle posizioni teorico-ideologiche della leadership bordighiana e, successivamente, ai contrasti che avrebbero portato alla nascita del nuovo gruppo dirigente comunista. Evitando una ricostruzione puramente dottrinaria delle posizioni portate avanti dal Pcd’I in quegli anni, tanto in sede interna che intemazionale, e offrendo una spiegazione sociale sia dell’estremismo massimalista che della profonda spaccatura storica esistente tra le migliaia di militanti operai in m odo assai più cospicuo che non tra la totalità delle masse lavoratrici. I rivolgimenti strutturali e sociali dell’immediato dopoguerra, la trasformazione delle campagne e la dinamica dei ceti medi, la crisi del blocco dominante, fanno da sfondo alle lotte del biennio rosso, alla rottura di Livorno, ai limiti e alle carenze di consapevolezza mostrati di fronte all’emergere del fenomeno fascista dai diversi dirigenti italiani. Il peso del determinismo massimalista di Serrati nella sua scelta antiscissionista del 1921, la natura dell’egemonia bordighiana, le contraddizioni m a anche le maggiori articolazioni delle analisi gramsciane, costituiscono l’intelaiatura di un discorso che si dipana nell’esame delle realtà locali e che raggiunge notevoli risultati soprattutto per quanto riguarda la crisi fascista del ’21, la nascita, la consistenza e il declino degli Arditi del popolo. La maggiore consa-

    “Italia contemporanea" settembre 1982, fase. 148

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    pevolezza della base comunista nella identificazione di una politica antifascista unitaria e militante, il settarismo dei vertici del Pcd’I e il confronto con le più mature ed articolate posizioni dell’Intemazionale, la sottovalutazione del fascismo come fenomeno di massa, autonomo dai partiti borghesi e portatore di un proprio program ma e di una propria ideologia, offrono un quadro più chiaro delle debolezze e dei limiti dell’antifascismo del Pcd’I e di tutto il movimento operaio italiano. Per quanto riguarda l’atteggiamento e le vicende dell’Internazionale comunista, la ricerca di Natoli offre minori novità, limitandosi per lo più all’esame dei documenti ufficiali, dei dibattiti al vertice, delle differenti posizioni espresse dai leader russi ed europei.

    Si tratta comunque di una ricostruzione attenta e precisa, sia per quanto riguarda la svolta del III congresso e la consapevolezza della nuova fase mostrata da Lenin e Trockij; sia per quel che concerne l’analisi del fascismo svolta al IV congresso da Radek, Trockij e Bucharin che contrasta singolarmente con la dottrinaria ottusità di Bordiga a comprendere il nuovo fenomeno nei suoi aspetti sociali e politici; sia infine nel ridefinire la portata e i limiti del dibattito sul fascismo al III Esecutivo allargato. In quest’ultima occasione l’analisi di Natoli si fa più ricca ed originale, offrendo nuovi spunti per comprendere la quasi rottura avvenuta in quella occasione tra il Pcd’I e l’Internazionale. Pur più precisa e dialettica, la posizione del Comintern sul fascismo rimaneva necessariamente generica. E Natoli, sottolineandone giustamente le aperture a ulteriori approfondimenti sembra tuttavia sopravvalutare il peso effettivo e il significato non solo propagandistico della lotta intemazionale svolta dall’Ic contro il fascismo negli anni ’22-24.

    Qualche perplessità lascia il giudizio generalmente positivo della politica del partito comunista tedesco nell’attuazione del fronte unico e nel periodo dell’occupazione della Ruhr. Probabilmente perché, non sorretto da

    un’indagine più am pia come quella svolta sulla realtà più concreta del proletariato italiano, si riduce ad un esame delle diverse posizioni all’interno del gruppo dirigente della Kpd e della loro più o meno articolata adesione alle posizioni ufficiali dell’Intemazionale. Per quanto concerne quest’ultima, ad una significativa sottolineatura della tempestività m ostrata dal Comintern nel cògliere il problema fascista come problema intemazionale e ad un giusto riconoscimento del ventaglio delle posizioni e dell’ampiezza del dibattito in genere non giustamente rilevato dalla gran parte degli studi, si accompagnano dei giudizi eccessivamente schematici che impediscono di intravedere, già nei primi anni venti, delle tendenze che verranno compiutamente alla luce solo più tardi.

    La priorità sancita con il II congresso del- l’Ic alla formazione e al rafforzamento dei partiti comunisti come obiettivo prioritario dell’azione delle avanguardie del proletariato europeo rimase infatti un dato costante della politica del Comintern anche dopo la “svolta ” del 1921: e infatti la pratica attuazione del fronte unico si svolse su binari ben più riduttivi di quelli espressi nei dibattiti ufficiali non solo per la resistenza mostrata da alcuni partiti, m a per lo stesso atteggiamento del vertice del Comintern e di Zinov’ev in particolare che privilegiava la crescita e l’egemonia dei partiti comunisti sull’effettiva mobilitazione di massa ufficialmente perseguita. In questo senso l’influenza dell’Ic sui partiti comunisti europei e i rapporti da essa privilegiati con gruppi di volta in volta diversi, maggioritari o minoritari, andava forse maggiormente tenuta presente come anche il crescente peso che i problemi interni sovietici avevano nell’influenzare le sfere dirigenti del Comintern. I rapporti tra i vertici dell’Ic e la direzione del Pcd’I furono certamente, in questi anni, più limpidamente caratterizzati da contrasti strategici e teorici e da divergenze sull’analisi e sulla tattica; e in questo senso la ricostruzione di Natoli non può essere soggetta a critica. M a la direzione

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    di fondo del Comintern in quel periodo non si poteva identificare ed esaurire con il suo atteggiamento verso la questione italiana; e infatti le ambiguità e le contraddizioni m ostrate nei rapporti con i partiti tedesco e francese già prefiguravano, sia pure solo parzialmente, alcune di quelle caratteristiche “autoritarie” che segneranno profondamente la seconda metà degli anni venti, il periodo cioè della “bolscevizzazione” del comunismo europeo. L’ottica italiana con cui Natoli ha ricostruito anche le vicende più generali del Comintern, ha avuto il pregio di “isolare” il tem a del fascismo permettendo di rivalutare e comprendere l’ampiezza di interventi e di interessi che su di esso manifestò Tic; con il rischio però di deformare il reale significato della politica di fronte unico giudicata troppo lineare e “positiva” proprio perché ricostruita principalmente attraverso il filtro sociale e

    concreto della sola esperienza italiana.Occorre comunque mettere in risalto che

    proprio in relazione alla situazione italiana, dove accanto all’esame dei documenti ufficiali e delle posizioni dei leader si è scavato nella più complessa realtà del partito, nella sua organizzazione interna, nella sua composizione sociale e nella sua concretezza locale, Natoli è stato capace di illuminare in m odo nuovo le vicende dell’Intemazionale comunista. Indicando così che solo un approfondimento delle forze vive ed operanti che rappresentavano nei diversi paesi il movimento comunista, può servire a gettare ulteriore luce sulla stessa storia dell’Ic, i cui aspetti istituzionali e i cui dibattiti ufficiali sono stati più volte ricostruiti e su cui appare problematico poter dire qualcosa di nuovo.

    M arcello Flores

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    S to r ie di altri p aesiÈva C ivolani, L ’an arch ism o d o p o la C om une. I casi ita liano e spagnolo, Milano, Franco Angeli, 1981, pp. 255, lire11.000.Èva Civolani presenta un’analisi delle ultime fasi dell’Associazione internazionale dei lavoratori negli unici due paesi in cui, dopo la crisi prodotta dagli avvenimenti della Comune di Parigi, l’organizzazione non subì un brusco arresto e invece riuscì ad espandersi. Come è noto, sia in Spagna sia in Italia il movimento si era sviluppato — e continuò ancora a farlo per qualche anno — indipendentemente dalle direttive del Consiglio generale londinese, e sulla linea dell’anarchismo bakuninista più che in rapporto ad ogni altra tendenza (anche se un incasellamento ideologico a tutti i costi dei compositi e mutanti gruppi allora esistenti appare sempre piuttosto forzato).

    Dello “anarchismo” italiano e spagnolo l’A. presenta un quadro vario e articolato, e lo pone soprattutto in relazione con il fenomeno comunardo cercando di individuare come i diversi settori del movimento nei due paesi si siano posti di fronte a queirim portante ma poi troppo mitizzato episodio. Lo studio della rappresentazione della Comune nella stampa e nella pratica del movimento è condotto dalla Civolani con molto equilibrio, senza aggressività demitizzante ma anche senza quelle reticenze che spesso purtroppo àncora alcuni mostrano nell’affrontare il tema (ne è recente e negativo

    esempio il volumetto curato, per la Paravia, sulla Comune da N. Lisanti nel 1979).

    L’impiego da parte dell’A. di alcune categorie psicologiche e antropologiche permettono all’analisi di non esaurirsi nell’ambito di una storia tutta interna al movimento socialista ma di aprirsi a più vaste considerazioni. Quella in cui si rintracciano le contraddizioni, le “rimozioni”, la fuga nel mito positivo come compensazione alla sconfitta — furono questi gli unici esiti della Comune in Italia e Spagna, dato che mancò, escludendo qualche timido tentativo operato però dai più moderati, ogni intento di trarre da quell’esperienza insegna- menti per l’azione concreta, e di adeguare i comportamenti alle immagini —, è forse la parte più interessante del volume. Dettagliato appare comunque anche l’esame dell’emigrazione com unalista nei due paesi, e altrettanto lo è la ricerca dei caratteri economici, sociali e geografici del diverso insediamento dell’Ail in Italia e in Spagna.

    La notazione di fondo che emerge riguarda la maggior forza della A so c ia c ió n in tern a c io n a l d e lo s tra b a ja d o res a livello sindacale, carattere che l’A. pone alla base del minor “ rivoluzionism o” del movimento spagnolo rispetto a quello coevo italiano. Giustamente sottolineato altresì dalla Civolani, tra i fattori all’origine della diversa traiettoria dell’incidenza sindacale anarchica nei due paesi, la sfasatura cronologica della crisi economica agraria e industriale tra Spagna e Italia; più azzardato ci

    sembra invece trovare una spiegazione alla ricorrente predisposizione anarchica ai colpi di mano ricordando anche la struttura dualistica di entrambi i paesi: sarebbe stato più opportuno risalire alle radici giacobine di molti degli intellettuali borghesi o aristocratici che di fatto erano alla guida del movimento, e sottolineare maggiormente l’incidenza del contesto politico ed istituzionale esistente, estremamente mosso nella Spagna del 1868-75. Costruito soprattutto su di un’ampia analisi delle fonti governative e diplomatiche francesi conservate negli archivi di Parigi, il volume avrebbe potuto essere esauriente se avesse preso più in considerazione la documentazione italiana e spagnola (l’A. ha esaminato comunque il materiale conservato negli Archivi di Stato di Milano e Parma, e naturalmente la storiografia e la pubblicistica coeva spagnola e italiana). Qualche altra minore osservazione potrebbe avanzarsi sulle note a piè pagina (a volte un po’ “scolastiche”, per. es. a p. 24; o dove l’indicazione di autori spagnoli appare occasionalmente attraverso il solo secondo cognome: Junco in luogo di Alvarez Junco): nulla ciò toglie tuttavia al valore del contributo, e alla piacevole novità che un documentato studio comparato rappresenta.

    Aldo Albònico

    Raymond Carr-Juan Pablo Fusi, L a S p a g n a d a F ranco a o g g i, R om a-B ari, Laterza, 1981, pp. XX IV -388, lire20.000

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    Il valore dell’indagine storiografica di Raymond Carr sulla Spagna contemporanea è noto anche ai non specialisti. Dopo la pregevole opera complessiva sul periodo 1808-1939, apparsa in Inghilterra nel 1966 e in Italia nel 1979 (si veda al riguardo il n. 137 di “ Italia contemporanea”), l’Autore ha ampliato il raggio della propria ricerca estendendola fino all’oggi. Redatto insieme al giovane studioso spagnolo Juan Pablo Fusi, e pubblicato in inglese nel 1979 (nel 1981 ne è uscita una seconda edizione), il nuovo contributo differisce dalla precedente sintesi di Carr per un minore spessore di penetrazione. L’esiguità di studi seri sul periodo franchista ha certo contribuito a ciò, ma all’origine della sopraddetta carenza di fondo sta soprattutto l’adozione nel testo di un taglio per lo più sociologico-cronachistico. Si deve a Fusi tale orientamento? Poiché i due autori non affrontano la questione né chiariscono quali parti dell’opera siano riconducibili all’uno o all’altro, gli interrogativi permangono. Se l’In tro d u zio n e , che riprende con finezza la problematica della II Repubblica e della guerra civile, è quasi certam ente opera di Carr, la mano dello stesso non si ritrovano nelle altre parti del testo se non forse in notazioni sparse e fugaci attraverso l’impostazione politica generale del volume, molto equilibrata e di ispirazione li- beral-democratica. Nel 1980 Carr ha pure pubblicato presso la Oxford University Press, questa volta con il suo solo nome, una più svelta sintesi

    di argomento spagnolo che arriva fino all’oggi (M o d ern S pa in , 1875-1980): è possibile che un confronto tra tale testo e quello in esame fornisca qualche chiarimento sulla paternità delle diverse parti in cui si articola L a S pagn a da F ranco a oggi. Lasciata la questione dell’attribuzione dell’impostazione del volume, occorre insistere sui pregi e limiti dell’opera. Tra i primi deve essere annoverato il notevole equilibrio di giudizio complessivo, che impedisce quei trionfalismi, o viceversa indulgenze, tanto frequenti a proposito dei temi iberici: se si accetta poi l’impostazione cronachistico-sociologica, deve riconoscersi come la stessa sia per lo più informata e puntuale.

    Manca invece al volume l’approfondimento di vari argomenti. Resta da chiedersi, per es., perché gli autori abbiano escluso preventivamente dalla loro indagine (cfr. la P refazion e , p.V), oltre alla descrizione del funzionamento delle amministrazioni locali, anche quella della politica estera del franchismo, aspetto poco noto e invece estremamente interessante (come non ricordare la costante politica filoaraba di Madrid, i legami più che cordiali mantenuti con la Cuba di Fidel Castro, ecc.?). Inoltre, se in genere nelle questioni “politiche” gli autori esprimono le loro valutazioni dei fenomeni considerati, queste sono assenti nella parte dedicata all’economia. Limitandosi a riportare alcune delle opinioni correnti al riguardo senza scendere davvero nel merito, l’esposizione del dibat

    tito sul valore e portata dell’eccezionale trasformazione e- conomica spagnola rimane ad es. del tutto riduttiva.

    Manca altresì a volte una descrizione precisa del funzionamento delle istituzioni e dei meccanismi del regime (dei sindacati verticali, del sistema elettorale basato sulle cabezas d e fa m ilia , ecc.); ancora, piuttosto che dilungarsi oltre misura a descrivere le trame dei romanzi del dopoguerra, si poteva più utilmente concedere spazio all’illustrazione della figura di Franco, pur sempre centrale nel periodo... A parte il grosso svarione presentato nella parte dedicata allo spaccato sociale del paese (a p. 110 si definiscono come appartenenti alla “Nuova media borghesia” cassieri, dattilografi, tecnici di laboratorio, maestri di scuola!), gli altri rilievi da muovere al testo in sé sono trascurabili.

    Diverso è invece il discorso riguardante l’edizione italiana dell’opera, la quale, se è stata aggiornata fino al settembre 1980, mantiene del testo originale — scritto naturalmente pensando al pubblico anglo- sassone — tutte le caratteristiche. Il risultato è spesso infelice, ché se molesta trovare le superfici agrarie espresse in acri e i confronti tra stipendi e salari dati in sterline, è francamente ridicolo aver conservato inalterate espressioni come “la cucina regionale spagnola, riccamente variata ma alquanto repellente” (p. 13), o “nell’arida Spagna si ha scarsa simpatia per la terra, tranne quando si è un vero aguzzino” (p. 96), tutte amenità dovute a un mancato adat

  • 106 Rassegna bibliografica

    tamento del testo; vari errori vi sono anche nella traduzione di espressioni spagnole (così, U n iversid a d L a b o ra l viene erroneamente tradotta come Università del lavoro invece che come Istituto Professionale, come è realmente, ecc.). In conclusione, il volume non è inutile, ma sul tema della Spagna franchista altri testi disponibili anche in italiano (ad es. quello curato da P. Preston, Le b a si a u to r ita r ie della Spagna dem ocra tica , Torino, Rosemberg & Sellier, 1978) appaiono forse più stimolanti; soprattutto da Raymond Carr ci si aspettava qualcosa di maggiormente meditato.

    Aldo Albònico

    Leonardo Moriino, D alla d e m o cra zia a ll’a u to r ita r ism o . Il caso sp a g n o lo in p r o s p e t t iv a co m p a ra ta , Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 372, lire 20.000Moriino, che si ricollega a Sartori, J.J. Linz e G. Pasquino per non fare che alcuni nomi di politologi, propone un riesame delle vicende spagnole dal 1930 al 1947. Dalla valutazione dei caratteri della svolta democratica del 1931, dalla successiva crisi della II Repubblica, e poi dalla costruzione dello Stato franchista l’A. si ripromette di verificare se esistano processi e dinamiche proprie della crisi e del crollo dei regimi democratici. Senza entrare nel merito delle reali possibilità che ha o non ha la “scienza politica” di chiarire e razionalizzare una realtà multiforme e mutevole — una polemica annosa —, osserviamo soltanto

    che qualunque intento di tal tipo deve prendere in esame casi diversi per trarre, da un confronto il più possibile ampio, eventuali caratteri e forme comuni. Il lavoro in questione, al contrario, e lo ammette lo stesso A. nella parte finale, non rappresenta che una prima tappa esaurendosi nella esclusiva descrizione del caso spagnolo. Chi conosce la storiografia sulla Spagna contemporanea deve ammettere che Moriino ha maneggiato la stessa con esaustività, competenza ed equilibrio, ma senza apportare all’argomento alcun contributo originale. Di fatto il volume si riduce ad essere un’ennesima nuova descrizione della traiettoria della II Repubblica e dei primi anni del franchismo (quindi, testo utile soltanto al lettore italiano che non conosce i recenti apporti della storiografia internazionale sul tema), e non valgono a concedergli altro carattere né le ipotesi formulate dall’A. nello schema teorico di riferimento approntato nel primo capitolo (fin troppo dipendente dagli analoghi “modelli” statunitensi), né le scarne conclusioni. Francamente — e ci limitiamo a una sola notazione — crediamo che trecento e più pagine siano eccessive per arrivare a concludere che il franchismo è un fascismo mancato, che non ebbe reali possibilità totalitarie né fu uno statalismo organico, bensì soltanto un regime autoritario con caratteri corporativi. Molti dubbi rimangono perciò sull’opportunità della pubblicazione, almeno nella forma in cui si è per il momento configurata,

    della ricerca di Moriino, autore peraltro acuto e che già ha dimostrato il suo valore. Si arriva a tale affermazione anche perché sullo stesso tema dal 1981, sempre per i tipi de Il Mulino, è disponibile in traduzione italiana l’opera col- lettanea curata da Linz e Ste- pan The B rea k d o w n o f D e m o cra tic R eg im es, la quale, pur molto abbreviata rispetto all’originale, comprende l’incisivo saggio sulla Spagna (J.J. Linz, D a lle g ra n d i sp e ra n ze alla gu erra civile: il c ro llo d e lla d em o cra z ia in S pagna, in J.J. Linz-P. Farneti-M.R. Lep- sius, L a ca d u ta d e i reg im i d e m o cra tic i) a cui Moriino del resto si riferisce frequentemente. Seppure nel complesso curata, l’opera non va indenne da qualche pecca per quanto riguarda la grafia spagnola rispetto ad accenti ecc.: sempre errato risulta poi stampato il nome di uno dei più famosi generali del tempo (San- jurio invece di Sanjurjo).

    Aldo Albònico

    Antonio Rosado, Tierra y lib er ta d . M e m o ria s d e un ca m p es in o an arco sin d a ca lis ta an d a lu z , Barcelona, Editorial Critica, 1979, pp. 259, pesetas 350In una collana che ha visto, dopo la morte di Franco, la traduzione degli scritti di Ehe- renburg, Jackson, Voltaire, Cer- roni, Gramsci, Togliatti, Gavino Ledda, Ingrao e Carlo Cipolla, queste memorie del "contadino semplice” Antonio Rosado Lopez assumono un valore particolare, anche per la autenticità di una “voce contadina” che, “senza ma

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    nipolazioni o correzioni di stile”, compare. Se molti sono i libri che parlano di contadini a proposito della Seconda Repubblica spagnola e della guerra civile, pochi sono quelli che trattano della (pressoché mancata) riforma agraria, quasi nessuno delle lotte e delle speranze dei proletari agricoli spagnoli.

    La mancanza di studi storicamente validi sulla questione agraria era lamentata già da Edward Malefakis (A g ra - rian R e fo rm a n d P ea sa n t R e vo lu tio n in S pa in . O rigins o f th è C iv i l W ar, New York 1970), l’unico a trattare in maniera sufficientemente organica il problema. Ma non molto è mutato dopo dieci anni e proprio su questo terreno si riscontrano i maggiori difetti e ritardi dell’analisi sulle vicende spagnole negli anni della repubblica e della dittatura.

    Certo quello delle collettivizzazioni agrarie fu uno degli aspetti più controversi durante gli anni della guerra civile e diede origine ad una forte polemica e ad una contrapposizione precostituita nel fronte di studiosi e memorali- sti, dando vita ad una bibliografia immensa di complicatissime dispute teoriche. Ma, se andiamo sul concreto, tolte le realizzazioni dell’alta Aragona — analizzate da storici locali — niente è conosciuto. Soprattutto per quanto concerne le concrete realizzazioni in una delle zone agrarie più importanti, come l’Andalusia, niente era possibile stabilire, neppure una localizzazione approssimativa delle collettivizzazioni.

    Sia pure a livello memora- listico il libro di Rosado è di estrema importanza, in quanto Rosado, Segretario della Federación Regional de Campesinos de Andalucia, dal giugno 1937 fu la persona direttamente responsabile dell’impianto, organizzazione e controllo delle collettivizzazioni nel sud della Spagna. Così due terzi del volume sono dedicati a narrare quale fu il processo di collettivizzazione e quali p u e b lo s ne furono investiti. In mancanza di altre fonti (tutta la documentazione, alla vigilia della sconfitta e delfarrivo di Franco, fu trasferita “ in un paese dell’America del sud”), il testo-memoria di Rosado rappresenta un primo momento di conoscenza, ma soprattutto il primo tentativo di uscire dalle veramente troppo lunghe dispute dottrinali e teoriche, per affrontare nel concreto uno dei temi centrali della “rivoluzione” spagnola.

    Luciano Casali

    Dan Kurzman, L ’a ssed io d i M a d rid , s.l., dall’Oglio, 1981, pp. 456, lire 12.000 La formula è quella collaudata da Cornelius Ryan (Il g io r n o p iù lu ngo; L ’u ltim a b a tta g lia ) e da Dominique Lapier re-Larry Collins (“ P arig i b ru cia?")-, lo stile ricorda molto quello di certi nostri giornalisti improvvisatisi “storici”: più attenzione alla ricerca dello sc o o p che impegno (e fatica) di documentazione ed approfondimento. Non importa capire e far capire, ma occorre sorprendere, stupire e, soprattutto, vendere.

    Detto questo, non ci sarebbero molti motivi per scrivere dell’ultima fatica di Kurzman (di cui è già noto in Italia O b ie ttiv o R o m a ), se essa non fosse nobilitata da una fascetta editoriale che precisa trattarsi del “ Premio Overseas Press Club per il miglior libro di storia 1980”. E allora, di fronte al pericolo che qualche acquirente resti incantato dal miele, vale la pena di riguardare più attentamente e di verificare il valore effettivo in rapporto a quella presentazione così perentoria.

    È evidente che la stessa “formula” adottata (ricorso frequente al discorso diretto e ricostruzione dell'a m b ien te e d e l l 'a tm o s fe r a attraverso le impressioni dei numerosi protagonisti-testimoni) rappresenta una scelta precisa che vuole evitare la “pesantezza” delle tradizionali ricostruzioni storiografiche, preferendo la elaborazione di pagine di “facile lettura”, affrontabili anche e soprattutto al di fuori della cerchia più o meno ristretta degli “esperti” e degli studiosi “di professione”. D’altra parte in Italia ben modesta ci pare l’abitudine degli editori di dare spazio ai problemi di paesi più o meno lontani e, a proposito della Spagna, neppure la ricorrenza del 50° anniversario (aprile 1981) della nascita della II Repubblica, ha rappresentato un momento di sollecitazione per studiosi od editori, come, invece, solitamente accade di fronte alle ricorrenze decennali.

    Ben venga, dunque, un volume sulla Spagna, sia pure costruito con l’occhio attento ad un pubblico di massa. Non

  • 108 Rassegna bibliografica

    siamo certamente ostili ad e- sperienze che favoriscano la ricerca di nuovi modi di “fare storia” e non siamo per niente convinti che uno studio valido debba per forza essere anche noioso. Ma quello che Kurzman presenta, “frutto di due anni di intense ricerche” (p. 11), non ci pare l’opera che meritasse l’eroica resistenza di Madrid, assediata per tre anni dalle truppe ribelli di Franco e dei fascisti di Hitler e Mussolini. L’essere “assolutamente al di sopra delle parti” finisce con il costruire una versione della guerra civile in cui predominano la “ferocia e la sete di sangue” dei difensori della repubblica e solo raramente la tragica aggressività e gli stermini di cui furono portatori i franchisti e i nazifascisti, sperimentatori in cor- p o r e v ili delle nuove tecnologie e della “guerra totale” (Guernica non ne fu che il più noto esempio).

    Ci pare dunque per lo meno un poco azzardato sostenere che la guerra di Spagna rappresentò innanzitutto la più palese d im ostrazione dello “squallore morale del dittatore sovietico Stalin e di certi suoi accoliti” (p. 9); e di simili giudizi “sbrigativi” si potrebbe segnalare un ampio florilegio. È noto che l’atteggiamento delle democrazie occidentali non fu molto favorevole alla difesa del legittimo stato spagnolo, contro ribelli ed aggressori; ma scrivere che Eden “temeva che... la repubblica spagnola passasse sotto il controllo comunista, eventualità questa ben peggiore di un successo fascista” (p. 147), rappresenta una sintesi trop

    po disinvolta e “audace” della linea politica tenuta dal governo di sua maestà britannica. E potremmo continuare. La fuga dei capitali e dei loro possessori (che appoggiarono e finanziarono l’aggressione franchista) diede notevole impulso alla gestione diretta dell’economia madrilena e spagnola, anche per la necessità di garantire la produzione, soprattutto alimentare e bellica. Anche in questo caso le sintesi di Kurzman sono lapidarie: “Fra i ladri, la palma dell’onore spettava agli a- narchici”; quanto ai comunisti, “avendo ricevuto ordine da Stalin di cercare la fiducia della piccola borghesia, essi si impadroniscono unicamente delle botteghe e delle industrie appartenenti a elementi di e- strema destra o che fossero state abbandonate dagli spaventati proprietari. In tal modo diventarono i “protettori” di quei piccoli commercianti di cui cercavano l’appoggio” (pp. 163-164).

    Partendo da premesse di tal fatta è ovvio che anche l’epopea del popolo madrileno scompare, sopraffatta da intrighi e doppi giochi, dalla “lotta per il potere”, da meschine rivalità. La conquista della caserma della Montana, difesa dai ribelli armati di tutto punto e presa d’assalto dal popolo a mani nude; la vittoria dei proletari disarmati contro i carri armati a Caraban- chel; la difesa, stanza per stanza, della Città universitaria; lo stringersi dei madrileni attorno al governo legittimo re- pubblicano, nonostante gli indiscriminati bombardamenti terroristici a tappeto: non resta

    no che episodi di fondo, sostanzialmente “inutili” e strumentalizzati da biechi individui: i comunisti, gli anarchici ed i socialisti. Si pensi che costoro furono talmente perfidi che, “considerando l’estrazione prevalentemente contadina dei soldati, avevano avuto l’astuzia di promettere loro la terra in caso di vittoria repubblicana” ! (p. 134).

    Whiteker, addetto stampa e portavoce di Franco, così aveva sintetizzato, di fronte ai giornalisti di mezza Europa, il programma di conquista della penisola: “Occorre sterminare un terzo della popolazione maschile spagnola. Ciò purificherà il paese e ci sbarazzerà dal proletariato. Ed è una soluzione sana anche dal punto di vista economico, perché, in questo modo, faremo cessare per sempre la disoccupazione”. E aveva aggiunto Quiepo de Llano, il comandante ribelle di Siviglia: “ Le donne dei rossi hanno imparato che i nostri soldati sono uomini veri, non miliziani castrati”. Ma a Kurzman interessa evidenziare una affermazione che attribuisce a Enrique Castro Delgado, comandante del 5o R eg im ien to d e M ilic ia s p o p u la re s : ”A un compagno si possono perdonare molte cose. Molte, sì, meno una: non sapere o non volere uccidere” (p. 131).

    Certo molto resta ancora da indagare sulla difficile e complessa vicenda degli anni trenta e molte contraddizioni, troppi “errori”, parecchie incertezze attendono ancora (nonostante la ricca bibliografia ormai esistente, che resta comunque troppo e sempre ideo

  • Rassegna bibliografica 109

    logizzata) una analisi approfondita e chiarificatrice. La recente apertura degli archivi di Salamanca può rappresentare un punto di riferimento e può dare impulso a momenti di indagine chiarificatori. Ma un punto sembrava assodato definitivamente: che il popolo spagnolo fu, nel 1936, aggredito e decimato dalla ribellione franchista.

    Il Premio Overseas, per il miglior libro di storia 1980 poteva essere attribuito molto meglio.

    Luciano Casali

    Aldo Albònico, A m e r ic a la t i n a tra n a z io n a l is m o , s o c ia l i s m o e im p e r ia l is m o , Milano, Marzorati, 1982, pp. 290, lire12.000.Albònico realizza nel suo libro un percorso attraverso i fatti più “caldi” della storia latinoamericana di questa seconda metà del secolo, seguendo il filo della politica internazionale nel continente. Come lo stesso autore riconosce, un’analisi di questo tipo conduce necessariamente a considerare i rapporti America Latina — Usa. L’attualità crescente di questa problematica, soprattutto a partire dalle vicende collegate alla guerra delle Malvine, rende ancora più interessante un approccio di questo tipo, giacché fornisce al pubblico italiano accurate informazioni ed elementi di giudizio che permettono di arricchire il dibattito in corso sugli avvenimenti latinoamericani di politica internazionale.

    Fino agli anni cinquanta fra gli uomini che detenevano il potere decisionale in Usa

    c’era la convinzione che la proprietà statale e lo sviluppo economico dell’America Latina erano, sostanzialmente contrari agli obiettivi globali americani. Questa visione cambia quando si afferma l’idea che il modo più efficace per combattere “l’infiltrazione comunista” è quello di promuovere10 sviluppo (in questa ottica si iscriveranno gli aiuti americani ai paesi latino americani, fra cui l’Alleanza per il progresso). Afferma, Albònico, che dopo l’intervento armato contro Arbenz in Guatemala nel 1954, il governo di Washington si pone la domanda di “dove trovare o come suscitare una classe dirigente che permettesse sviluppo e riforme, senza porre in discussione il ruolo degli Usa nel continente (p. 43). A una tale domanda sembra non esserci altro che una risposta negativa. A questo proposito, l’autore, riesce a mettere a fuoco la questione oggi più che mai dibattuta del nazionalismo latinoamericano. A questo proposito sostiene: “la principale motivazione dei movimenti di liberazione latinoamericani si può dire sia ancora prima delle ansie di ‘modernizzazione’,11 nazionalismo: naturale quindi che il primo compito di ogni rivoluzione vittoriosa sia affermare, con maggiore o minore incisività, la sovranità del paese contro l’esterno, contro cioè quelle influenze economiche e politiche che fecero a lungo, e fanno ancora, di tante nazioni latinoamericane, delle “società penetrate” (p. 49). Si potrebbe aggiungere che appunto per queste sue caratteristiche di “società pe

    netrate” i governi che si sono proposti di avviare un processo di trasformazione progressista, hanno dovuto affrontare il problema del nazionalismo: sembrerebbe che in America Latina non ci sia possibilità di “modernizzazione” reale, cioè di una “modernizzazione” che comporti allo stesso tempo crescita economica e sviluppo politico e sociale senza che si affronti la questione della dipendenza esterna. A questo proposito Albònico sta ben attento a non cadere in spiegazioni meccanicistiche sul legame fra politica estera e politica interna, come ben sottolinea: il demone deH’imperialismo è servito più volte alle sinistre latinoamericane per non fare i conti con i propri errori e fallimenti. Tuttavia, è anche vero che qualsiasi tentativo di p o l i t ic a a u to n o m a da parte dei singoli stati latinoamericani nei confronti degli Usa ha portato puntualm ente allo scontro con gli interessi americani.

    Se cade l’ipotesi dell’imperialismo come categoria universale e univoca, si pone come necessario ogni volta e in modo articolato, la spiegazione di quali sono stati i rapporti fra gli Usa e i singoli paesi, quali sono state le possibilità reali d’autonomia nei confronti degli Usa, e infine come è avvenuto il processo ancora in atto, attraverso il quale TAmerica Latina si sta guadagnando uno spazio proprio, non più sotto la assoluta egemonia americana. Nell’opera vengono esaminati i diversi tentativi di giocare un ruolo più o meno autonomo

  • 110 Rassegna bibliografica

    da parte dei paesi latinoamericani: dal primo scacco infer- to da Peron alle ambizioni americane nel decennio 1946- 55, alla prima vera e propria sconfitta americana inferta dalla socialista Cuba, per arrivare alle più recenti esperienze, il Cile di Allende e la rivoluzione in Nicaragua. Vengono anche esaminate le reazioni degli Stati Uniti, che presentano sfumature diverse che vanno dalla ingerenza negli affari interni o nei processi elettorali (come successe in Argentina durante la campagna elettorale di Peron nel ’ 46 quando l’ambasciatore degli Usa a Buenos Aires prese apertamente posizioni in favore della coalizione antiperonista); all’intervento armato diretto o indirettamente promosso dagli Usa (come accadde nel Guatemala nel 1954, in Santo Domingo, nel 1962, o con la invasione della Baia dei Porci). Tuttavia, penso che nel libro di Albònico non si sottolinei abbastanza la differenza fra due casi emblematici che ci danno la misura di quanto i tempi siano cambiati: mi riferisco alla rivoluzione cubana e a quella nicaraguense. La scelta di non allineamento e quindi di autonomia, finora adottata dal Nicaragua, era insostenibile negli anni della crisi dei rapporti fra Cuba e gli Stati Uniti. Dall’espulsione dell’Osa di Cuba alle ultime posizioni di questo organismo nella guerra delle Mal- vine qualcosa sta cambiando nei rapporti America Latina Usa, anche se è ancora troppo presto per trarre delle valutazioni.

    Il libro, inoltre, raccoglie in

    appendice una serie di documenti (molti dei quali già pubblicati in Italia) che illustrano adeguatamente i processi affrontati e che permettono al lettore una maggiore possibilità di giudizio.

    M arta Castiglioni

    Maurizio Vaudagna, C orpora tiv ism o e N ew D eal. In tegra z io n e e co n flitto so c ia le n egli S ta ti U niti (1933-1941), Torino, Rosenberg & Sellier, 1981, pp. 251, lire 11.000.Il ■N ew D eal, a cura di Maurizio Vaudagna, Bologna, Il Mulino 1981, pp. 351, lire20.000.Nei saggi raccolti in C o rp o ra tiv ism o e N ew D eal, come nella nutrita attività critica precedente (solo in parte riprodotta nell’agile libretto di Rosenberg & Sellier), Vaudagna muove da una polemica costante contro gli “opposti ec- cezionalismi” dell’approcio storiografico alle realtà economiche e sociali in questione. Con l’espressione eccezion a lism o si vuole alludere al comune atteggiamento di quanti, o all’interno della tradizione culturale antifascista, o all’interno dell’esperienza ideale e politica roosveltiana, hanno teso a respingere ogni accostamento fra le due esperienze, sottolineando in maniera unilaterale le vistose differenze di orientamento complessivo e di attuazione fra le due politiche economiche e sottovalutando invece gli elementi comuni, ridotti per lo più al rango di coincidenze verbali.

    Già dagli anni trenta, peraltro, non mancarono accostamenti marcati fra le due esperienze (come documenta

    Vaudagna nei saggi più propriamente rispondenti al titolo del volume), e in buona fede (da esponenti del New Deal che ricercavano una rispondenza oggettiva delle politiche da essi propugnate in altre realtà contemporanee) o in forma decisamente interessata e propagandistica (da pubblicisti fascisti che esaltavano la “terza via” del corporativismo italiano e il suo valore universale di ricetta ai mali congiunti di liberismo e bolscevismo o da detrattori del New Deal sul fronte interno americano, che ammonivano sugli aspetti “autoritari” e potenzialmente “dittatoriali” insiti a loro avviso nell’esperi- mento).

    Anche oggi la nuova fortuna dell’accostamento classico non pare ispirata sempre a motivi scientifici: si vedano recenti esplicite dichiarazioni del presidente americano in carica e ricorrenti affermazioni nello stesso senso da parte della cultura economica neoliberista che ha tratto nuovo vigore nel mondo occidentale.

    La questione è stata notevolmente complicata dall’e- mergere, alla metà degli anni settanta, della categoria di “corporativismo” o “corporatismo” (ma Vaudagna, autore, sul n. 140 di questa stessa rivista, di una approfondita analisi degli studi più recenti sul C o r p o r a te C a p i ta l is m , respinge la seconda formula perché viziata, a suo avviso, da eccesso di p ru d e r ie da parte dei traduttori italiani) come criterio di analisi dei rapporti tra politica e società e tra stato e classi subalterne

  • Rassegna bibliografica 111

    dopo la prima guerra mondiale. Paradossalmente, alla luce di questi concetti, che non a caso vengono applicati soprattutto alla “stabilizzazione” delle società europee nella seconda metà degli anni venti (si veda il libro stimolante, ma a volte farraginoso e impreciso, di Charles S. Ma- ier su L a r ifo n d a zio n e d e l l’E uro p a borgh ese , Bari, De Donato 1979), si potrebbe concludere che la società più distante dal “nuovo” concetto di “corporativismo” sia stata proprio l’unica, ossia quella italiana, che sul piano storico si fece ossessivamente propugnatrice e propagandista del "corporativismo”. Ma la questione, ovviamente, va al di là dell’equivoco terminologico e, pur senza ignorare la complessità del rapporto fra fenomeno storico e categorie interpretative adottate (an- ch’esse da storicizzare), verte principalmente sul rapporto fra New Deal e fascismo e sul “comune emergere di caratteri socioeconomici del mondo odierno”, come afferma l’A. nella P rem essa al volume.

    A Vaudagna New Deal e fascismo appaiono “forme diverse di dominazione capitalistica, fondate su rapporti diversi tra stato e classe operaia” (p. 198). Vengono sotto- lineati i parallelismi esistenti fra provvedimenti specifici di politica economica, come quelli fra la Rfc e fim i e le leggi bancarie (del ’33 e del ’35 negli Usa, del ’36 in Italia), nonché le im pressionanti somi glianze nell’organizzazione delle nuove forme di società di massa, dall’uso spregiudicato dei nuovi mezzi di comunica

    zione (e in particolare della radio) alle iniziative pubbliche in questo campo, che a volte palesarono obiettivi comuni, come nelle “campagne di sostegno alle virtù della vita rurale contro la corruzione delle città” (p. 209).

    Restano in piedi, ovviamente, le differenze ineliminabili fra una società autoritaria e una società che tenta di rivitalizzare le proprie potenzialità democratiche; oltre a quelle più avvertibili e scontate, Vaudagna nota anche come a differenza del New Deal, il fascismo italiano non ricercò un sostegno politico di massa attraverso la politica economica (come fece invece Roosevelt in occasione della campagna elettorale del 1936).

    Tutto il discorso interpretativo dell’A. è fondato su precisi riferimenti alle nuove tendenze della storiografia a- mericana, nel suo passaggio difficile e controverso dall’“ec- cezionalismo” al “comparativismo” fra le diverse esperienze economiche del mondo occidentale (ad ulteriore chiarimento di quanto affermato in precedenza, possiamo aggiungere che il nuovo concetto di “corporativismo” trova applicazione soprattutto nell’analisi delle socialdemocrazie europee) e nelle sue riconsiderazioni complessive del New Deal. Un ampio ragguaglio su questa storiografia è offerto dall’antologia su II N ew D eal, curata dallo stesso autore, che puntualizza nella lunga introduzione i risultati più recenti dell’analisi dei diversi momenti e aspetti dell’esperienza rooseveltiana compiuti dagli storici americani. I saggi

    raccolti sono tu tti relativamente recenti e tratti preferibilmente da riviste scarsamente accessibili al pubblico italiano: in questo sta uno dei maggiori meriti scientifici dell’iniziativa, che peraltro desta qualche perplessità, proprio in base alle stesse caratteristiche ora elogiate, sulla reale efficacia della sua destinazione didattica.

    La scelta di escludere drasticamente gli esponenti delle scuole storiografiche "tradizionali” (sostenitori del “mito” del New Deal o critici radicali e marxisti di esso) per offrire solo gli scritti dei "su- peratori” di esse più vicini nel tempo, fa sì che l’opera si presenti come un aggiornamento ad alto livello di una tradizione di studi e di dibattiti che viene presupposta e in qualche misura data per scontata, più che come opera di primo inquadramento e orientamento critico.

    Gianpasquale Santomassimo

    “S o c ia l G o sp e l”. I l m o v im e n to d e l “ V angelo so c ia le ” n egli U .S .A . (1880-1920), a cura di Massimo Rubboli, Torino, Claudiana, pp. 239, lire 6.700 Negli ormai consueti bilanci storiografici sul movimento cattolico se è luogo ricorrente indicare nuove vie di ricerca e di sperimentazione è stato forse sottaciuto come, a differenza degli studi sul movimento operaio, manchino spesso confronti e richiami sul piano internazionale. Richiami doverosi se non altro per l’ampia circolazione delle idee che accompagna i fermenti nova

  • 112 Rassegna bibliografica

    tori, sia in campo cattolico che protestante, tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900.

    In questa direzione l’ampia raccolta di scritti sul S o c ia l G o sp e l americano, raccolti da Massimo Rubboli, costituisce, oltre che un apporto alla conoscenza specifica di quel movimento, anche un contributo utile per un confronto con esperienze analoghe che in Italia maturarono agli inizi del nuovo secolo.

    Di fronte alla passività con cui le chiese americane, protestanti e cattoliche, assistono al processo di industrializzazione — non di rado fornendo a questo una copertura ideologica — negli ultimi decenni dell’800 inizia la presa di coscienza di alcuni gruppi di credenti che si richiamavano alle teorie del cristianesimo sociale. Il quale — sotto- linea Rubboli — non costituiva un aggregato ideologico uniforme, stante la diversità delle posizioni che esprimeva. Infatti accanto ad un cristianesimo sociale di tipo conservatore ne convivevano almeno altri due: l’uno influenzato dal marxismo, e l’altro di ispirazione riformista e moderata identificabile nel cosidetto S o cial G ospel che costituisce l’oggetto dell’originale studio.

    È alla teologia liberale tedesca e al conseguente principio che la realizzazione del Regno di Dio “non apparteneva ad un altro mondo ma a questo” (p. 20) che si rifacevano in gran parte i gruppi protestanti novatori americani. Tale richiamo tuttavia non comportava una pedissequa trasposizione ma, semmai, procedeva “ad una fusione di ele

    menti della cultura tedesca con alcuni tipicamente americani” (p. 18). Paradigmatico, inoltre, per la comprensione delle matrici ideologiche del S o c ia l G o sp e l è l’atteggiamento del gruppo nei confronti del socialismo: di fronte ad una corrente tendente, sia pure attraverso posizioni oscillanti, ad una identificazione fra il Regno di Dio e il socialismo, convivono posizioni volte a considerare il socialismo come un “male sociale”. E tali differenze vengono fatte risalire ad una diversa concezione teologica che tendeva, in un caso, ad accentuare l’esperienza individualistica e, nell’altro, ad anteporre “la rigenerazione individuale alla ri- costruzione sociale come soluzione primaria dei problemi posti dall’industrializzazione negli Stati Uniti” (p. 27). Ed in quest’ultima posizione si riconosceva la S o cie ty o f Christian S ocia lis ts il cui programma conteneva non poche proposte in senso socialista fra le quali la nazionalizzazione delle ferrovie e delle telecomunicazioni, la proprietà pubblica dei mezzi di trasporto locali e della energia elettrica nonché, richieste sociali innovative quali il suffragio femminile, l’istruzione obbligatoria e la riduzione dell’orario di lavoro ad otto ore. Si trattava però di proposte che — secondo Rubboli — non costituivano “ un attacco rivoluzionario dell’esterno contro la società capitalistica” ma esprimevano “uno sforzo riformista dall’interno” (p. 32). Non a caso quelle proposte si avvicinavano alle aspirazioni della borghesia progressista am eri

    cana.Tuttavia se quelle spinte in

    novative dovevano esaurirsi attorno agli anni trenta quando lo sviluppo dei totalitarismi europei doveva fiaccare “ l’ottimismo della teologia liberale” (p. 23) sulla quale il S o c ia l G o sp e l si era in gran parte fondato, non mancarono però di produrre effetti di più lunga durata rilevabili ancora oggi nella società americana. Movimenti quali quelli cresciuti attorno a M artin Luther King durante gli anni sessanta, quello femminista e quello ecumenico altro non sarebbero — secondo Rubboli — “che forme di radicaliz- zazione o di secolarizzazione di istanze germogliate dai semi gettati nella società americana dal Socia l G ospel" (p. 42).

    Stefano Pivato

    Mirella Pizzolini-Bruno Bandini, S cu o la e p e d a g o g ia nella G e rm a n ia n a z is ta , Torino, Loescher, 1981, pp. 324, lire 7.600Dai fichtiani D isc o rs i a lla n a z io n e ted esca alla s ta to la tria W eltanschauung hegeliana, dal “ Deutschland iiber alles” guglielmino alla lucida paranoia hitleriana, tutta la storia della pedagogia. germanica, così come la storia della prassi didattica, è connotata, e caratterizzata, da un preciso Leitmotiv: l’educazione all’idea dell’assoluta superiorità razziale, e conseguentemente culturale e militare, del popolo germanico, cui la sorte ha offerto in dono una V ater- la n d inestimabile, e la possibilità di affermare l’egemonia germanica dapprima sull'Eu

  • Rassegna bibliografica 113

    ropa e quindi sull’intera terra. Il popolo germanico è prediletto da un oscuro dio come gruppo egemone verso sottorazze: da una parte VH erren v o lk , dall’altra parte gli Unterm en sch en : i dominatori e i dominabili. Per comprendere il sanguinoso iter nazionalsocialistico in tutta la sua molteplice e multiforme realtà non ci si può arrestare, a nostro parere, a una lettura storica, anche se approfondita e impegnata, del fenomeno hitleriano, né rispolverare la psicanalisi e la psichiatria, sic et simpliciter, per una valutazione (quanto mai attendibile?) del capo e degli uomini del suo en to u ra g e: una chiave indispensabile, per chi voglia giungere a una visione accettabile del fenomeno stesso,è senza dubbio alcuno l’attento studio della tradizione peda- gogico-didattica della Germania, a partire dalla guerra di indipendenza antinapoleonica. Non si possono disconoscere, al popolo germanico, notevoli doti di civismo, di serietà operativa, di razionalizzazione: basti pensare, e ricordare, che i tedeschi (e il ricordo di Karl Clausewitz a questo punto diviene d’obbli- go) seppero inalzare la guerra a una vera e propria arte, e organizzare la strage a livelli “scientifici” . Si comprende, dunque, come decenni e decenni di educazione (?) iper- nazionalistica abbiano avuto la loro drammatica risultante nel nazionalsocialismo. Una educazione che un autentico pedagogista dovrebbe, meglio, definire aneducazione, intesa a un unico fine, in un ideologismo disumano e disumaniz

    zante di cui pochi autori, nella sterminata massa bibliografica relativa alla Germania hitleriana, hanno tenuto conto opportuno. Il lavoro dei due attenti studiosi (Mirella Pizzolini è una valida germanista e Bruno Bandini uno studioso di filosofia della storia, già noto per certe ricerche su Delio Cantimori) chiude — e sia perdonata la frase abusa- tissima — una lacuna autentica, e sentita dagli studiosi più sensibili. Essi hanno lavorato a lungo in archivi e in biblioteche della Repubblica federale su documenti assai poco conosciuti in Italia, o ancora del tutto inediti, offrendo a conclusione delle loro meritorie fatiche un saggio nutrito, ricco, organicamente condotto e risolutivo.

    Guido Laghi

    Johanna Vogel, K irch e u n d W iederbew affn u n g . D ie H altu n g d e r E K D in d e r A u se in a n d erse tzu n g en um d ie W ied erb ew a ffn u n g d er B u ndesrep u b lik 1949-1956. Goettingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1978, pp. 281L’importanza della questione del riarmo tedesco dopo la sconfitta del nazismo e l’occupazione della Germania non ha certo bisogno di essere sottolineata. Qualche parola va forse invece spesa per giustificare l’ottica di questo eccellente studio: l’importanza nella Germania postbellica di un organismo come la chiesa protestante nella sua struttura i- stituzionale (che unisce luterani e calvinisti), la Ekd (Evangelische Kirche Deutschlands).

    È la stessa autrice a ricordare il ruolo di stabilizzatore sociale rivestito dalla struttura ecclesiastica in un paese che era uscito in condizioni psicologiche tragiche dalla seconda guerra mondiale. Il protestantesimo tedesco (e da altri punti di vista il cattolicesimo) rappresentavano alcuni dei pochi ambiti interni in cui si era mantenuta viva una dialettica e una resistenza antinazista. Per il protestantesimo tedesco il ricordo di un’esperienza come quella della “ Chiesa confessan te” (B eken n en d e K irch e) che aveva espresso il suo punto più alto di martirio con l’esecuzione del pastore D. Bonhoeffer sembrava legittimare un ruolo di presenza sociale purificatrice (anche al di là delle comprensioni di molte sue strutture col nazismo).

    Da questa situazione prende le mosse il lavoro della Vogel che inizia con il “ riconoscimento di colpa” (S ch u ld - b ek en tn isse) fatto dalle chiese tedesche a Stoccarda nel 1945

    • e con raffermarsi della leadership intellettuale dei resistenti della “Chiesa confessante”. Tuttavia questo clima si inquinò fin dall’inizio perché gli occupanti tendevano a mostrare ed a trattare anche le chiese come fattori compromessi con il nazismo, sicché questo finiva per rilanciare u- na certa coscienza nazionale.

    Non si può qui trattare par- titamente dei primi capitoli dove l’autrice esamina con grande finezza le tensioni interne al mondo protestante tedesco, soprattutto la questione dell’errata interpretazione della “Chiesa confessan

  • 114 Rassegna bibliografica

    te” come fenomeno essenzialmente resistenziale (gli ultimi studi puntano invece a definirlo un dibattito teologico finito casualmente nella resistenza politica), i timori dei luterani per predominio dei “calvinisti politicizzati” (si dovrebbe accennare a Barth ed alla sua posizione sulla crisi cecoslovacca del 1948). Segnalerò solo la discussione circa resistenza di un “mandato politico” nella Chiesa ed il problema del rapporto nazismo- militarismo e quindi il valore simbolico della sconfitta (“Dio ci ha strappato di mano le armi”, pp. 44-53).

    Per far capire al lettore italiano l’importanza di questa analisi varrà forse ricordare che uomini non insignificanti della classe politica tedesca escono da una attiva milizia ecclesiale: la nostra autrice si sofferma più volte sulla posizione di un uomo come Gustav Heinemann, nel consiglio dell’Ekd dal 1945 al 1967 — suo presidente dal 1949 al 1955 —, ministro con Ade- nauer, uscito dalla Cdu nel ’52, entrato in seguito nel- l’Spd, di nuovo ministro e infine presidente della Rft dal 1969 al 1974 (a titolo di curiosità si può ricordare che anche il cancelliere Schmidt ha rivestito cariche ecclesiali ad Amburgo).

    Tre sono state per l’autrice le fasi circa il dibattito sul riarmo. La prima (1947-50) è stata sotto il segno della guerra fredda e dello choc per la divisione in due della Germania. Il dibattito, mancando un soggetto politico, è stato tutto teologico, di rifiuto della guerra come mezzo di rela

    zioni internazionali. Nella seconda fase (1950-1954) la discussione si fa più accesa perché la guerra di Corea ha mostrato come la divisione in due della Germania sia aspetto di una più vasta congiuntura internazionale. In questa fase il dibattito è appassionante perché coinvolge sia la questione dell’antimilitarismo indotto nei tedeschi dalla R e- e d u c a tio n -P o lic y , sia la tensione atlantista giocata da A denauer. Nell’Ekd vi sono contemporaneamente Heinemann, ministro dellTnterno con Ade- nauer, e Martin Niemoeller capo dell’opposizione alla politica di riarmo (e bestia nera di Adenauer che lo attacca spesso nei suoi discorsi).

    La terza fase copre il periodo fino al 1956, cioè fino alla reintroduzione del servizio militare obbligatorio. In questa fase si giunge al sommo della tensione (Heinemann esce dalla Cdu), ma alla fine prevale un atteggiamento favorevole al riarmo, anche per non compromettere la garanzia del servizio pastorale fra i militari. Dopo di allora la polemica sarà limitata al problema del riarmo atomico.

    Benché l’autrice all’inizio del lavoro avesse proclamato di voler fornire una analisi spassionata della questione, le conclusioni del volume hanno una valenza di forte impegno interno al protestantesimo tedesco. Secondo la Vogel l’impatto dell’Ekd sull’opinione pubblica fu minimo ed essa si risolse ad essere un “potere impotente”, anche perché la tradizione di astensione dalla politica di gran parte del protestantesimo tedesco avrebbe

    finito per impedire ogni efficace intervento orientativo dell’opinione pubblica.

    Al di là di queste conclusioni, che a me paiono eccessivamente drastiche, il volume è importante per cogliere un momento essenziale della fo rm az io n e d e ll’o p in io n e pubblica tedesca (ed anche per aiutarci a cogliere i nessi tra coscienza religiosa e realtà politica in un quadro più disincantato di quello monoconfessionale italiano). L’autrice infatti, se ha le sue idee, fornisce sem pre un ’analisi di prim’ordine, sia per finezza di argomenti che per amplissimo spoglio di fonti e di letteratura.

    Paolo Pombeni

    Enzo Collotti, N a zism o e s o c ie tà ted esca (1933-1945), Torino, Loescher, 1982, pp. 363, lire 13.500Un’importante antologia ragionata sul nazismo dal di dentro e da dentro la società tedesca del declino della repubblica di Weimar e degli anni trenta e quaranta. Con tanto ideologismo e tante esercitazioni teoriche politologiche e costituzionaliste che negli ultimi tempi si sono incentrate su quel passaggio decisivo della storia europea e mondiale, un po’ di documenti e di notizie fattuali costituiscono un bel bagno di realismo. Si torna a guardare al problema crudo del potere e del ruolo delle masse rispetto alla sua conquista e alla sua gestione, si guarda in faccia il consenso effettivo acquisito dal regime nazista in tutti gli strati della società tedesca, si vede da vi

  • Rassegna bibliografica 115

    cino il meccanismo del movimento e del partito nazisti, si conoscono le loro dure e sanguinose lotte interne. Ma soprattutto si esorcizza l’immagine demoniaca del nazismo per mettere in luce l’innovazione da esso introdotta nei rapporti fra stato ed economia ai quali si impronta l’intera, occhiuta organizzazione della società civile dentro e fuori i rapporti di produzione. Nelle sue introduzioni alle singole sezioni in cui è divisa l’antologia e ai singoli documenti, Collotti non si lascia mai prendere la mano da una condanna che si avverte morale ancor prima che ideologica e politica e che emerge nettamente piuttosto dalla stessa lucida freddezza dell’analisi posta al servizio del lettore anche il meno provveduto di strumenti disciplinari. L’attenzione è rivolta — per quel che ne sappiamo, per la prima volta in una pubblicazione italiana — non solo agli strumenti e agli organismi istituzionali della politica e dell’economia, secondo una lettura tradizionale di un regime politico, ma a tutti i settori della società: famiglia, donne, giovani, educazione, propaganda, cultura, arte, scienza, Volksg em ein sch a ft, organizzazione del lavoro, disciplina di guerra, questione razziale e suoi contenuti sociali. Se da un lato ciò vale a mettere in luce l’attuazione del principio nazista che vuole permeare l’intera società della sua ideologia e della sua creazione statuale, dall’altro fa emergere dal di dentro della società tedesca e delle sue stratificazioni i meccanismi di funzio

    namento di un regime troppo spesso e troppo semplicisticamente fatto apparire come puro frutto di una mente criminale paranoica.

    “ La pace sociale — scrive Collotti nell’introduzione alla sezione dedicata alla V olksgem einschaft, all’organizzazione del lavoro e alla disciplina di guerra — è dunque il vero leitmotiv, il tessuto connettivo non soltanto ideologico, che tiene insieme tutto il sistema costruito dai nazisti “in funzione diretta del concetto di ‘guerra totale” (p. 250). A questo scopo è costituito VA r b e its fro n t, al quale è obbligatoria l’iscrizione se si vuol lavorare e che costituisce la più possente delle tante e capillari organizzazioni di massa del regime. Del Fronte del lavoro è complemento essenziale l’organizzazione dopolavoristica K ra ft du rch F reude, “forza attraverso la gioia” che estende il controllo militarizzato del regime a tutte le forme e le espressioni del cosiddetto tempo libero. Ma tutta questa introduzione costituisce u- na preziosa lezione di storia politico-sociale: è nell’organiz- - zazione stessa della produzione nell’economia di guerra e nell’articolazione dell’uso della forza lavoro che il nazismo compie il proprio capolavoro di regime reazionario di massa, con la garanzia dell’occupazione privilegiata per i lavoratori tedeschi e la gerar- chizzazione razziale e sociale delle categorie e delle mansioni lungo la scala della stratificazione etnica e politica della manodopera importata più o meno a forza dai paesi occupati o “amici”, fino alla

    forza lavoro schiavistica dei campi di concentramento.

    Nel complesso un universo plasmato da miti barbari e da cinismo efficientista e tecnologico che sarebbe pure errato immaginare perfettamente compatto e senza contraddizioni, ma le fratture del quale vengono riassorbite in un’organizzazione pertinace della divisione della classe operaia, della repressione e demonizzazione del dissenso, della e- saltazione propagandistica della solidarietà nazionale e razziale. Non è —- come troppe volte lo si è voluto far apparire — né un orribile incubo prodotto dalla follia umana né il frutto della “dissoluzione della ragione”. È anzi, e bisogna avere il coraggio di riconoscerlo apertamente come tale, uno dei frutti più coerenti della ragione umana nella società capitalistica: un disegno terribilmente logico, che appartiene a pieno titolo all’umanità, all’universalità dell’uomo, ma che ha preso forma e spessore nel concreto di una determinata situazione storica la cui analisi ci è assolutamente indispensabile non per darlo per esorcizzato una volta per tutte, ma per aiutarci, da uomini, a riconoscerlo e a combatterlo dovunque e comunque si presenti. Con tutto il resto della sua copiosa ed eccezionale opera scientifica, anche questa antologia documentaria di Collotti, corredata per di più da ampi ed esaurienti riferimenti bibliografici, reca un contributo di inestimabile valore a. questa laica, serena, combattiva analisi a più livelli disciplinari.

    Gianfranco Petrillo

  • 116 Rassegna bibliografica

    S econdo dop o g u erra

    Paola Magnarelli, L ’agrico ltu ra ita lian a f r a p o li t ic a e cu ltura. B reve s to r ia d e ll’Is titu to n a zio n a le d i eco n o m ia agraria d a l fa sc is m o a i p r im i anni sessan ta , Milano, Edizioni di Comunità, Milano, 1981, pp. 128, lire 9.000.Alla base di questo libro della Magnarelli stanno due suoi precedenti lavori. Nel 1975 pubblicava infatti un profilo biografico di Arrigo Serpieri (cfr. P ro tagon isti d e ll’in terven to p u b b lic o : A rr ig o Serp ieri, in «Economia pubblica», 1975, n. 1, pp. 3-10); nel 1977 usciva poi una prima ricerca sulla storia dell’Inea (L ’Is titu to naz io n a le d i eco n o m ia agraria, u n ’is titu z io n e d e l fa sc ism o , in «Quaderni storici», 1977, n. 36, pp. 889-898) che anticipava in parte i risultati documentati nel presente volume. Il libro oltre ad ampliare l’informazione contenuta nei precedenti saggi, estendendo la ricerca fino ai primi anni settanta, ha il merito di presentare una ricostruzione complessiva e articolata della vita dell’Istituto. Le vicende dell’Inea sono così poste al crocevia tra la storia delle istituzioni e storia della cultura agraria. La sua costituzione nel 1928 è vista infatti come un prodotto della proliferazione istituzionale tipica del periodo fascista, evidenziando però come in questo caso l’attività di ricerca scientifica prevalesse sulle funzioni di carattere burocratico. La sua attività scientifica e culturale è poi intesa come il frutto del convergere tra il ruralismo ideologia di regime e il ruralismo riformi

    sta e tecnicista di Arrigo Serpieri. Di quest’ultimo, che ebbe un ruolo centrale nell’istituzione e nelle gestione dell’istituto, la M. privilegia a differenza di altri (cfr. i vari saggi in materia di A. Trampolini) gli elementi di continuità tra la sua biografia prefascista e quella fascista. In questo modo si sottolineava sia l’originalità del ruralismo serpieriano che trova radici nel periodo giolittiano che il tentativo di impostare un programma di rinnovamento dell’agricoltura attraverso un rapporto organico ma mediato con lo stato, di cui l’Inea fu lo strumento più importante.

    Dal punto di vista istituzionale l’analisi dell’A. è condotta sul filo del nesso accentramento-decentramento. Di particolare interesse sono in questo senso le notizie sugli Osservatori di economia agraria che rapresentarono gli organi decentrati e periferici del- l’Inea. L’A. sottolinea l’azione accentratrice e monopolizzante condotta dall’Istituto nei loro confronti e accenna anche alle tendenze autonomistiche di questi ultimi.

    Restano comunque ancora tutti da studiare i legami che i vari Osservatori allacciarono col mondo della produzione e con gli Istituti universitari locali per poter valutare correttamente fino a che punto e in che modo essi agirono da forza centripeta rispetto alla linea accentratrice dell’Istituto. D’altra parte l’A. documenta la sempre maggiore integrazione che si instaurò tra l’Inea e gli apparati ministeriali politici, sottolineando come per lo stesso Serpieri la

    peculiare caratteristica dell’Istituto stesse proprio nella possibilità di intrecciare rapporti organici col potere politico. “L’Inea doveva insomma rappresentare” scrive la Magnarelli “ la fine delle accademie e l’inizio di una nuova vita di rapporti tra scienza e potere politico nella quale la prima si ponesse esplicitamente fini di collaborazione e orientamento nei confronti del secondo” (p. 29).

    Il ruolo dell’Inea va così delineandosi come quello della sede destinata a trasformare i vari miti ruralisti del regime (piccola proprietà, sbrac- ciantizzazione, bonifica) in fenomeni scientificamente analizzati, che da una parte servissero come base ai progetti politici ed economici di sviluppo dell’agricoltura, e dall’altra come orientamento per l’elaborazione legislativa nel settore agricolo. Tre schede sulle principali ricerche svolte dall’Inea a livello centrale (inchiesta Lorenzoni — quella sullo spopolamento montano — le monografie sulle famiglie agricole) mettono così in evidenza la linea ruralista e la progettualità politica che le attraversava.

    La Magnarelli fa comunque emergere che, nonostante la ricerca di sbocchi operativi e la volontà sinceramente riformatrice di Serpieri, l’Inea non riuscì a fare uscire il ruralismo dalle secche dell’ideologia; anzi in un certo senso acuì la frattura tra l’apparato ideologico ruralista, rinvigorito dall’innesto scientifico, e l’effettiva gestione del settore agricolo sempre più subordinata alle scelte industrialiste e

  • Rassegna bibliografica 117

    imperialiste del regime. In questo senso si rileva un’interessante coincidenza tra la defenestrazione di Serpieri e il decadim ento della a ttiv ità scientifica dell’Inea. Quasi che il'fallimento del progetto ser- pieriano determinasse una mancanza di stimoli originali alle ricerche condotte dall’Istituto.

    L’analisi dell’attività dell’Istituto nel dopoguerra, oltre alla rassegna delle principali pubblicazioni e alla individuazione delle più importanti tappe finanziarie e istituzionali della sua vita, si sofferma sulla verifica dell’esistenza o meno di elementi di continuità rispetto alla fase precedente; in particolar modo su due punti. I) Il rapporto con il potere politico e l’amministrazione, che però appare sempre più caratterizzarsi sotto forma di pura collaborazione tecnica perdendo quella complessità di rapporti ideologici e politici del periodo precedente. II) Il ripetersi di alcuni temi di studio come ad esempio il ruolo e la formazione della piccola proprietà; e ancor di più il permanere più o meno esplicito, più o meno contrastato, di quell’intreccio tra primato della scienza e primato dell’uomo che caratterizza il corpus metodologico di Serpieri e che rappresenta uno dei capisaldi del ruralismo. “Credo anzi” scrive in chiusura la Magnarelli “che una storia dell’Inea condotta attraverso il filo della dipendenza prima e della liberazione poi nei confronti del criterio del primato dell’uomo nella scienza condurrebbe a risultati assai interessanti nell’ambito della cultura

    italiana”.L’introduzione di G. Orlan

    do inquadra le prospettive dell’istitu to nella fase attuale. Un’accurata scelta documentaria chiude in appendice il libro.

    Salvatore Adorno

    Aa.Vv., C am pagne e m ovim en to c o n ta d in o n e l M e z z o g io r n o d ’Ita lia d a l d o p o g u erra a d oggi, voi. 2, Bari, De Donato, 1979-80, pp. 910+766, lire28.000 + 27.000.Il tentativo di una ricognizione sistematica della realtà sociale delle campagne meridionali dal dopoguerra al 1970, compiuto da un folto gruppo di studiosi, con il patrocinio di alcune organizzazioni sindacali e cooperativistiche, ha portato ad un risultato nuovo per più aspetti. Se non è nuovo, specie nella tradizione della Federbraccianti, l’impegno e l’interesse diretto di organizzazioni dei lavoratori per gli studi storici connessi alla propria esperienza, e non sono certamente mancate d’altra parte opere collettive su temi di storia del movimento operaio e contadino con il proposito di investigare pluralità di aspetti o contesti, è pur vero che quest’opera si presenta con caratteri di progettualità e sistematicità particolari.

    Intanto la stessa richiesta — com’è detto nella presentazione di Francesco Renda, co o rd in a to re del com itato scientifico — da parte delle organizzazioni patrocinatrici di estendere fino al 1970 il periodo preso in esame, rispetto all’ipotesi di partenza, che prevedeva di comprende

    re solo la fine degli anni cinquanta, ha determinato una conseguenza senza dubbio positiva: quella di superare una periodizzazione che in gran parte della letteratura precedente era fondamentalmente connessa ad una stagione di lotte, come momento alto della conflittualità sociale nelle campagne e come grande occasione di rinnovamento politico, di cui tracciare un bilancio.

    Il proposito, invece, di affrontare anche i passaggi successivi della vicenda economica e sociale delle campagne meridionali ha consentito una considerazione più centrale del rapporto tra il movimento contadino e le trasformazioni del processo produttivo. Questo aspetto, insieme all’altro dell’analisi il più possibile completa, attraverso le monografie regionali, delle diverse realtà delle campagne meridionali, tende ad una interezza di quadro che costituisce la principale novità del risultato e fornisce nuovi elementi per la considerazione dei temi affrontati.

    Dall’insieme dei contributi, pur nella scontata d