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DEVIANZA, COMUNICAZIONE, REPUTAZIONE di Salvatore Costantino Il concetto di devianza nella contemporaneità sembrerebbe dissolversi alla luce del- la diffusione di una condizione esistenziale anomica che rende i comportamenti indivi- duali e collettivi instabili, in cui alle regole subentra il rischio e l'azzardo. La dissolven- za del concetto di devianza è dovuto innanzitutto alla sua inconsistenza epistemologica ed euristica che, presupponendo una distinzione "tra ciò che è normale o corretto e ciò che è deviante" e trascurando la dimensione conflittualistica, nega già semanticamente la possibilità di pluralismo valoriale e normativa, impedendo l'analisi di alcune fenomeno- logie normative ambigue o opache. Lessico Scuola positiva, statistica morale e antropologia criminale La tara semantica del concetto di devianza risente della sua formulazione in clima positi- vista, ed in particolare all'interno dell'antropologia criminale italiana. L'antropologia crimi- nale trova le sue origini in Italia ad opera della sistematizzazione di Cesare Lombroso (1835-1989), psichiatra, nell'opera 'L'uomo delinquente studiato in rapporto all'antropolo- gia, alla medicina e alle discipline carcerarie' (1876). Egli è considerato - insieme ad altri nomi quali Ferri e Garofalo- il principale esponente della Scuola positiva e della prospet- tiva biologico-determinista dello studio della criminalità. Tra i vari limiti della Scuola posi- tiva, l'unico merito è forse quello di avere abbandonato un'analisi astratta nei confronti del fenomeno criminale, e di essersi concentrata sull'osservazione concreta del delinquente, non senza determinismi patologici e organicismi a-prioristicamente concepiti. Gia la statistica morale aveva rafforzato il solco tra patologico e normale, definendo nor- malità ogni caratteristica, attitudine, comportamento distribuiti più frequentemente tra la popolazione: la devianza veniva rilevata utilizzando metodi statistici, matematici e proba- bilistici, con l'ulteriore scopo di definirne la natura e di predirne il verificarsi. Tra i princi- pali esponenti si ricordi il francese Guerry e soprattutto Adolphe Quételet, belga (1796- 1874), il cui maggior scritto è Fisica sociale (1869). Egli individuò regolarità nella presen- za e nella distribuzione dei crimini, a tal punto da farne leggi e principi o oscure catego- rie: la tendenza al crimine quale la probabilità che un individuo commetta un crimine tro- vandosi nelle medesime circostanze di altri; la legge termica della delinquenza che sta- tuiva la alta ricorrenza dei crimini contro le persone nei mesi caldi e contro la proprietà in quelli freddi; l'uomo medio sterile categoria individuata (leggi costruita) secondo la distri- buzione normale tra la maggioranza di caratteri biologici e delle loro variazioni nel tempo, unità di misura che nelle intenzioni di Quételet assumeva connotazioni deterministiche e mistificatorie: "[ ... ] l'uomo medio e il relativo concetto di normalità tendevano a trasfor- marsi in principio metasociale, costruito con uno strumento matematico ma in grado di stabilire deduttivamente le caratteristiche normali dell'uomo. Quételet, infatti, dopo aver costruito l'uomo con tali caratteristiche lo impiegò per stabilire sia una definizione scien- tifica dell'uomo sia un metodo con cui condurre la nascente scienza del crimine" [ Berza- no, Prina 1998: 44]. Lombroso e quanti seguirono la sua scia, fondarono le loro osservazioni su concetti a- prioristicamente definiti, senza alcuna valida verifica dei propri dati, uno dei principali li- miti della teoria positiva della devianza è infatti di natura metodologica: Lombroso non 139

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DEVIANZA, COMUNICAZIONE, REPUTAZIONE di Salvatore Costantino

Il concetto di devianza nella contemporaneità sembrerebbe dissolversi alla luce del­la diffusione di una condizione esistenziale anomica che rende i comportamenti indivi­duali e collettivi instabili, in cui alle regole subentra il rischio e l'azzardo. La dissolven­za del concetto di devianza è dovuto innanzitutto alla sua inconsistenza epistemologica ed euristica che, presupponendo una distinzione "tra ciò che è normale o corretto e ciò che è deviante" e trascurando la dimensione conflittualistica, nega già semanticamente la possibilità di pluralismo valoriale e normativa, impedendo l'analisi di alcune fenomeno­logie normative ambigue o opache.

Lessico

Scuola positiva, statistica morale e antropologia criminale

La tara semantica del concetto di devianza risente della sua formulazione in clima positi­vista, ed in particolare all'interno dell'antropologia criminale italiana. L'antropologia crimi­nale trova le sue origini in Italia ad opera della sistematizzazione di Cesare Lombroso (1835-1989), psichiatra, nell'opera 'L'uomo delinquente studiato in rapporto all'antropolo­gia, alla medicina e alle discipline carcerarie' (1876). Egli è considerato - insieme ad altri nomi quali Ferri e Garofalo- il principale esponente della Scuola positiva e della prospet­tiva biologico-determinista dello studio della criminalità. Tra i vari limiti della Scuola posi­tiva, l'unico merito è forse quello di avere abbandonato un'analisi astratta nei confronti del fenomeno criminale, e di essersi concentrata sull'osservazione concreta del delinquente, non senza determinismi patologici e organicismi a-prioristicamente concepiti. Gia la statistica morale aveva rafforzato il solco tra patologico e normale, definendo nor­malità ogni caratteristica, attitudine, comportamento distribuiti più frequentemente tra la popolazione: la devianza veniva rilevata utilizzando metodi statistici, matematici e proba­bilistici, con l'ulteriore scopo di definirne la natura e di predirne il verificarsi. Tra i princi­pali esponenti si ricordi il francese Guerry e soprattutto Adolphe Quételet, belga (1796-1874), il cui maggior scritto è Fisica sociale (1869). Egli individuò regolarità nella presen­za e nella distribuzione dei crimini, a tal punto da farne leggi e principi o oscure catego­rie: la tendenza al crimine quale la probabilità che un individuo commetta un crimine tro­vandosi nelle medesime circostanze di altri; la legge termica della delinquenza che sta­tuiva la alta ricorrenza dei crimini contro le persone nei mesi caldi e contro la proprietà in quelli freddi; l'uomo medio sterile categoria individuata (leggi costruita) secondo la distri­buzione normale tra la maggioranza di caratteri biologici e delle loro variazioni nel tempo, unità di misura che nelle intenzioni di Quételet assumeva connotazioni deterministiche e mistificatorie: "[ ... ] l'uomo medio e il relativo concetto di normalità tendevano a trasfor­marsi in principio metasociale, costruito con uno strumento matematico ma in grado di stabilire deduttivamente le caratteristiche normali dell'uomo. Quételet, infatti, dopo aver costruito l'uomo con tali caratteristiche lo impiegò per stabilire sia una definizione scien­tifica dell'uomo sia un metodo con cui condurre la nascente scienza del crimine" [ Berza­no, Prina 1998: 44]. Lombroso e quanti seguirono la sua scia, fondarono le loro osservazioni su concetti a­prioristicamente definiti, senza alcuna valida verifica dei propri dati, uno dei principali li­miti della teoria positiva della devianza è infatti di natura metodologica: Lombroso non

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aveva raccolto dati sui non-criminali, e dunque appare assai ridicolo, tautologico, fornire come risultato attendibile la ricorrenza di caratteri innati, parametri biologici, personalità violente ed aggressive in una particolare categoria di individui, se tale categoria è l'unica ad essere stata osservata, se non esiste la benché minima traccia di comparazione. Gli approcci biologici allo studio della devianza e della criminalità ebbero molta eco in Eu­ropa e giocarono un forte ruolo nel giustificare le scelte politiche dei regimi totalitari nazi­fascisti, avendo proposto come unico rimedio le terapie eugenetiche a lungo termine e spostarono l'attenzione delle istituzioni dalla pena alla cura e il trattamento. Nascono le figure della marginalità e gli oggetti dell'accanimento terapeutico, il pregiudizio, la malat­tia che diventa marchio morale [Foucault 1963], infamante, e la conseguente istituziona­lizzazione delle pratiche e dei corpi dei malati, che si trasformava in circuito vizioso auto­referenziale: "L'istituzione, nata per curare una malattia di cui risultavano ignote la pato­logia e l'eziogenesi, si è trovata così a fabbricare un malato a sua immagine, tale da giu­stificare e garantire insieme, i metodi su cui fonda la sua azione terapeutica. La malattia è venuta a trasformarsi gradualmente in ciò che è l'istituzione psichiatrica, e l'istituzione psichiatrica trova nell'internato, costruito secondo i suoi parametri, la conferma alla vali­dità dei suoi principi. Proponendosi come un'istituzione medica e non trovando un'obiet­tività concreta nella malattia. L'istituzione psichiatrica è costretta ad oscillare fra l'azione custodialistica (che è la sua unica realtà) e l'ideologia medica che è costretta a concreta­re nel rapporto oggettivo con il paziente" [Basaglia e Basaglia, Introduzione a Goffman 1968: 13; enfasi mia].

Oggetto dello studio delle devianze, qui più propriamente intese quali divergenze [Silva Garda, 2000] diventa la diversità, intesa quale caratteristica di mutamento di ogni interazione sociale, come contraddizione gestibile all'interno delle interazioni e del si­stema più amplio, possibilità riconoscimento di selettività da parte del sistema.

La divergenza è il riconoscimento delle diverse modalità interattive sociali, ed il suo rapporto con la struttura sociale, in termini di controllo, pone feconde possibilità di analisi del continuum micro-macro. La divergenza assume le forme di una delle possi­bili azioni sociali: essa esprime sì il conflitto ma anche la ridondanza, permettendo di valutare ed analizzare le componenti comunicative ed espressive dei fenomeni "de­vianti".

Nella società che Donati definisce "dopo-moderna", non si verifica soltanto una sor­ta di dominio dell'incertezza. In quella che è stata definita altrimenti col termine equivo­co di "società postmoderna" si diffonde una condizione esistenziale anomica che - come vedremo meglio più avanti -rende i comportamenti individuali e collettivi instabili in cui -come afferma Bauman- alle regole subentra non solo il rischio ma anche l'azzardo.

"In realtà, il messaggio veicolato oggi con grande potere di persuasione dai più dif­fusi ed efficaci media culturali (e, aggiungiamo, facilmente fruibile dai ricettori sulla ba­se della loro esperienza personale, assistita e sostenuta dalla logica della libertà del con­sumatore) comunica l'essenza indeterminata e leggera del mondo: in un mondo simile, ogni cosa può accadere, ogni azione può essere intrapresa, ma nulla si può fare "una vol­ta per tutte". Qualsiasi cosa accade in modo improvviso e si dissolve senza lasciare trac­cia. In questo mondo, i legami sono disseminati in una serie di incontri successivi, le identità sono mimetizzate da maschere indossate una dopo l'altra, le storie di vita sono frammentate in una serie di episodi che rivestono importanza per un periodo breve vin­colato ad una memoria effimera. Non si sa nulla con certezza, ed ogni aspetto dello sci­bile si può conoscere in modi differenti: tutte le modalità di conoscenza sono comunque provvisorie e precarie, ed ognuna vale l'altra. Se un tempo si ricercava la certezza, ora la regola è l'azzardo, mentre l'assunzione di rischi prende il posto del perseguimento tena­ce degli obiettivi" [Bauman, 1999: 65].

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Una società "vulnerabile", insicura, anomica, come quella che stiamo tentando di descrivere, nel momento in cui perde la dimensione del nomos, smarrisce in modo si­multaneo il senso di ciò che non nomos è: tutto è devianza, nulla è devianza.

Scrive Luhmann: "Ci si può chiedere quanto normale sia ancora il normale ... ma pur con tutte le turbolenze che erodono le tradizioni, non si può seriamente contare sul fatto che la normalità o, meglio la differenza tra normale e deviante scompaia, o che dobbia­mo disabituarci a osservare la società mediante questa distinzione, poiché ciò non porta più a nulla.

Bisognerebbe piuttosto chiedersi cosa si riesce a vedere se si mantiene la distinzio­ne normale/deviante (comunque la si voglia truccare semanticamente) come strumento per osservare la società di oggi .

... Come si può raggiungere un consenso sociale (o anche soltanto un accordo comu­nicativo provvisorio) se ciò non può accadere che nell'orizzonte di un futuro di cui, co­me ognuno sa, anche l'altro può parlare soltanto nella forma del probabile/improbabile?" [Luhmann, 1996: 2-3].

Germàn Silva Garcìa (Silva Garcìa, 2000) riconsiderando la portata epistemologica ed euristica del temine 'devianza', definisce quest'ultimo pregno ideologicamente e con­notato negativamente, espressione della dicotomia "tra ciò che è normale o corretto e ciò che è deviato".

Il concetto, secondo il criminologo, perderebbe ogni capacità interpretativa dei fe­nomeni sociali perché semanticamente negherebbe la possibilità del pluralismo valoriale e normativa, presupponendo persino che,"[ ... ], chi si conforma alle norme segua sempre i modelli istituzionalizzati di comportamento, agendo in modo congruente, mentre i sog­getti che delinquono non seguano modelli di comportamento e valori propugnati dal si­stema. Tuttavia non possiamo immaginare coloro che si confermano alle norme come un blocco omogeneo di maggioranza" (ibidem: 121).

L'autore preferisce adottare il termine di divergenza (divergencia): quest'ultimo in­clude il conflitto (essendo il conflitto un tema fondamentale della divergenza), appare se­manticamente meno parziale, ed inoltre presenta sensibili capacità interpretative.

Oggetto della divergenza è infatti la diversità: quest'ultima "[ ... ] è l'oggetto della sua conoscenza"; la diversità è caratteristica di mutamento di ogni interazione sociale, è la contraddizione gestibile all'interno delle interazioni e del sistema più amplio; è la possibilità e il riconoscimento di selettività da parte del sistema. La divergenza è il ri­conoscimento delle diverse modalità interattive sociali, ed il suo rapporto con la struttu­ra sociale, in termini di controllo, pone feconde possibilità di analisi del continuum mi­cro-macro.

La divergenza assume le forme di una delle possibili azioni sociali: essa esprime sì il conflitto ma anche la ridondanza, considerare la divergenza come comunicazione di ri­torno, enfatica e ridondante, significa valutarne le valenze comunicative ed espressive (cfr. Ghezzi, 2001).

Devianza, comunicazione, reputazione, identità

Di solito, quando parlano di devianza, i sociologi intendono riferirsi ad un compor­tamento che presenta alcune proprietà. Queste possono essere ricondotte alle seguenti cinque, naturalmente elaborabili in formulazioni diverse e con contenuti di senso sogget­ti ad una certa variabilità:

l. la devianza si riferisce alle aspettative connesse ad un orientamento normativa. È considecrato come deviante quel comportamento che abbia violato le aspettative isti­tuzionalizzate di una data norma sociale;

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2. il comportamento deviante viene individuato come tale dal gruppo, sicché mutando il gruppo può mutare l'individuazione di ciò che va considerato deviante;

3. i criteri di individuazione di ciò che appare come comportamento deviante in una de­terminata situazione mutano col mutare delle situazioni;

4. diversi tipi di devianza appaiono intimamente legati, più che ad un tipo di personali­tà dell'attore, a determinati ruoli sociali;

5. il comportamento deviante può assumere intensità e direzioni diverse.

Si può parlare di un continuum nel quale conformismo e devianza si collocano in ter­mini di graduazione senza soluzione di continuità. Non si deve ipotizzare un'entità a sé stante, il "comportamento deviante" con i suoi specifici contenuti, contrapposta ad un'al­tra entità a sé stante, il "conformismo", con i suoi altrettanto specifici e irriducibili con­tenuti. In realtà si può far riferimento ad un unico comportamento, il quale di volta in vol­ta, sulla base di valutazioni di gruppo o di valutazioni situazionali, può colorarsi dell'u­no o dell'altro significato. Ogni analisi di un fenomeno deviante deve logicamente farri­ferimento agli elementi "strutturali" del sistema culturale.

Quando e come un'azione può essere considerata delinquente? Emler e Reicher [Emler e Reicher, 2000] considerano la delinquenza come una ca­

tegoria dai contorni sfumati, organizzata attorno ad alcuni punti di riferimento: ci sono at­ti prototipicamente delinquenziali sulla cui interpretazione il consenso è unanime (ucci­dere per motivi banali, rubare oggetti di grande valore, rapinare con la minaccia delle ar­mi, rapinare una persona per ottenere un riscatto, per esempio), ma attorno al prototipo si pongono molteplici azioni (la maggior parte, si potrebbe dire) che possono essere inter­pretate in modo diverso in rapporto a molteplici fattori culturali e contestuali, oltre che alle caratteristiche di chi è la vittima o di chi deve giudicare.

Il senso comune attribuisce generalmente al termine devianza un significato nega­tivo ( un deviante è chi va contro norme o aspettative sociali condivise: ruba, si com­porta da folle, non rispetta le regole del vivere civile ).

Secondo Giddens [Giddens, 1990], le norme come schemi di interpretazione delle azioni proprie e altrui fomiti dalla struttura sociale, si presentano al soggetto sia come "vincoli", sia come "risorse" per l'azione. Rappresentano dei vincoli in quanto fornisco­no stabilità e prevedibilità alle relazioni secondo costellazioni di aspettative il cui senso è socialmente condiviso. Sulla scorta di G. H. Mead [1972] si può dire che le norme rap­presentano delle risorse in virtù della valenza interpretativa che è insita nelle relazioni che prefigurano. Questa valenza si esprime anche attraverso pratiche di trasformazione delle relazioni attraverso la manipolazione delle norme quali, ad esempio le pratiche, di negoziazione normativa che attenuano le contrapposizioni tra i soggetti attraverso forme negoziali.

Soprattutto in situazioni relazionali nuove o di conflitto, il soggetto può trovarsi nel­la condizione di dover operare delle vere e proprie scelte riferite alle norme a partire dai presupposti regolativi fomiti dalle strutture sociali.

"Attraverso le proprie scelte normative il soggetto può collaborare alla conservazio­ne delle norme e degli assetti istituzionali in cui le applica, in quanto riferirsi adattiva­mente ad una norma significa riprodurla, confermarla e diffonderla, oppure può agire in modo creativo e volto alla trasformazione degli assetti relazionali, negoziando le norme stesse, non confermandole, trasformandole, proponendo l'uso di altre norme. In entram­bi i casi il soggetto, oltre a partecipare attivamente alla costruzione e alla ricostruzione delle interazioni e delle relazioni di cui è parte, collabora alla produzione e alla riprodu­zione degli aspetti normativi dei gruppi e delle società a cui appartiene, nonché alla con­tinua produzione e riproduzione del proprio tessuto normativa" [Favretto, 2001:26-27].

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Nei processi di ridefinizione dei contenuti normativi dei ruoli, nei quali l'attibuzione di aspettative e la definizione dei diritti e dei doveri possono essere sottoposti a costante ne­goziazione da parte di coloro che si percepiscono in condizione di svantaggio o di scarso potere [Favretto, 200 l :29].

In questo senso la trasgressione delle norme e la devianza devono essere intese co­me comunicazione polisemica, a volte, come costruzione di senso alternativa, aprendo per gli osservatori un ampio e complesso campo problematico.

Una nuova concezione del comportamento deviante è stata sviluppata muovendo da diversi riferimenti teorici come la teoria dei sistemi, a teoria delle interazioni, dal funzio­nalismo, dalla teoria delle rappresentazioni simboliche.

Un importante carattere comune a tutte le interpretazioni sociologiche del compor­tamento deviante - fa rilevare Luhmann - consiste nel fatto che al sistema non viene im­putato solo il comportamento conforme, ma anche quello deviante, il quale viene consi­derato una componente del sistema sociale strutturato. La distinzione tra comportamento conforme e comportamento deviante non segna quindi i confini del sistema nei confron­ti del suo ambiente: essa è una differenziazione interna al sistema. I sistemi sociali non constano solo di azioni "buone". Sia il comportamento conforme alle aspettative, sia quello ad esse contrario viene riferito, in base al suo senso, a strutture di aspettative - o da parte dell'agente stesso o da parte di altri che coesperiscono il suo agire, lo interpreta­no , lo assoggettano a pretese normative di aspettative. Come ha spiegato Max Weber, a decidere della validità di un ordinamento non è tanto la sua effettiva osservanza, quanto il fatto che l'agire sia orientato a tale ordinamento.

Niklas Luhmann nella Sociologia del diritto [Luhmann, 1977] sostiene che una de­lusione delle aspettative normative non si verifica solo perché altri agiscono in modo ina­spettato, ma anche e soprattutto "perché altri aspettano in modo inaspettato e, in questo aspettare in modo inaspettato, trovano la loro identità" [Luhmann 1977, 139]. Luhmann individua esplicitamente il rapporto stretto che si stabilisce tra identità e comunicazione. E ciò si verifica anche nella sfera della pura devianza che si caratterizza, si "autoconsi­dera" come priva di norme e si orienta in modo puramente cognitivo all'ordinamento normativa dominante per poter meglio agire contro le norme. Ma, sostiene Luhmann, an­che il delinquente "allorché viene messo in condizioni di comunicare, comincia ad argo­mentare e a sviluppare propri valori, se non proprie norme, in quanto altrimenti egli non potrebbe rappresentare se stesso né potrebbe avere un futuro nel sistema" [Luhmann 1977, 140]. Sia da parte dell'ordine sia da parte del deviante si hanno problemi di assor­bimento di delusioni. La società deve prestare una grande attenzione ai processi di for­mazione e di comunicazione delle devianze. Una società in rapido mutamento e con un bisogno elevato di innovazioni "deve sviluppare meccanismi che siano in grado di sco­prire,anche in comportamenti devianti, le chances di nuove strutture, e che quindi non si lascino ingannare dall'apparente antigiuridicità o addirittura immoralità del nuovo, ma siano in grado di reagire senza indignazione e con una disposizione all'apprendimento" [Luhmann, 1977: 155-156].

Già Sutherland sottolinea che i processi di apprendimento che causano il compor­tamento deviante, sono analoghi ai processi di apprendimento che conducono al com­portamento conforme, così che anche in questo senso la devianza diventa una reazione "normale".

Nella seconda e ultima versione dei Principles ofCriminology del1947, Sutherland sostiene che il comportamento criminale viene appreso e risulta dall' "interazione con al­tri mediante un processo di comunicazione" [ Sutherland, Cressey, tr. i t. 1996].

Si tratta, in pratica, di discernere in questi codici comunicativi elaborati dagli adole­scenti, messaggi diversi che possono voler significare la presenza di una manifestazione di disagio individuale o relazionale; possono voler indicare la volontà, talvolta inconsa-

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pevole, di modificare l'assetto delle relazioni prefigurato dalle norme o la loro inadegua­tezza rispetto alla situazione in cui vengono applicate. In casi del genere la ricerca di al­tre norme potrebbe essere interpretata come atto deviante da parte di osservatori o di at­tori compartecipi alla interazione, ma potrebbe anche acquisire, attraverso il ripetersi e lo stabilizzarsi, nuova valenza e forza regolativa. Gli atti trasgressivi e devianti, come ve­dremo meglio più avanti, possono comunicare la rilevata fragilità dei comportamenti normativi stabiliti dagli adulti e dai pari e l'esigenza di promuovere la ridefinizione del­la propria identità personale e sociale.

Dal punto di vista dell'analisi sociologica possono essere individuate almeno due posizioni diverse. La prima si richiama alle teorie del self-labeling. In questo caso ai membri delle culture giovanili è riconosciuta ben poca autonomia: la loro identità, la lo­ro immagine è definita dall'esterno, quasi sempre come negativa e deviante. L'eventuale devianza del gruppo sarebbe quindi frutto dell'etichettamento. L'ambiguità dei messaggi delle culture giovanili che si basano più sull'apparire che sul dire, presta in parti colar modo il fianco all'interpretazione negativa data dall'esterno.

Un secondo filone di ricerca riconosce invece ai giovani la capacità di costruire più autonomamente la loro identità che viene ad assumere un carattere riflessivo e in­terattivo. Essere "contro", essere "diversi" serve a isolare e a identificare meglio la propria identità, o almeno a capire che cosa le è estraneo [Rebughini 2000]. Attraverso il gruppo sub-culturale si attua una definizione provvisoria e transitoria del proprio sé. Si rifiutano dati ruoli ci si auto-rappresenta in modo diverso per essere più visibili, pro­vocatori, comunicativi, aiutandosi in questo modo a definire meglio il proprio sé. L'o­riginalità aiuta a definire il senso di identità personale.

A seguito delle ricerche dell'interazionismo simbolico [Becker, tr. it. 1987; Matza, tr. it. 1976], è divenuto, però, chiaro che nei comportamenti etichettati come devianti ci possono essere elementi di originalità e innovazione, anche se non immediatamente ac­cettati o condivisi dall'opinione pubblica. I movimenti di contestazione hanno fatto pro­pria questa prospettiva portando innovazioni consistenti nella comprensione della situa­zione giovanile, nella considerazione della follia, di molte forme di diversità, di iniziati­ve originali nella loro polemica contro lo status quo.I Si è però giunti frequentemente, al di là dei chiarimenti apportati dai contributi citati, al paradosso per cui ogni atto non con­forme alle regole sociali veniva considerato creativo. È chiaro che non si può considera­re indiscriminatamente ogni forma di protesta o di rottura delle regole dell'esistente co­me innovazione.

l "La conoscenza, ancora e sempre rinascente, è collegata con Io stato del mondo, -osserva Maffesoli -ed è quan­do lo dimentichiamo che lo sfasamento inevitabile tra riflessione e realtà empirica diventa baratro invalicabile. Onde la mestizia, il cinismo o le altre forme di disincanto che sembrano prevalere oggi. In realtà, anche se non è che un pun­to di passaggio tra passato e futuro, solo il presente è fonte feconda del pensiero. È il solo infatti a fornirci gli elemen­ti, i fatti d'esperienza che ci permettono di comprendere, al di là di tutti gli a priori, ciò che è allo stato nascente" [Maf­fesoli, 1993:9].

La post-modemità è una mescolanza di vecchio e nuovo, una coincidentia oppositorum in cui conflitto, disordine e disfunzione finiscono col rafforzare il loro opposto. Venuta meno la ricerca delle grandi soluzioni, prevale la ricerca dell'adattamento e dell'utilizzazione finalizzata alla massimizzazione della vitalità. Christopher Lasch coglieva questi processi già alla fine degli anni Settanta nelle pagine introduttive del suo ormai celebre The Culture of Narcissism: "Il disastro incombente è diventato preoccupazione quotidiana, tanto normale e consueta che nessuno si chiede più seria­mente se e come il disastro potrebbe essere evitato. La gente si dedica affannosamente, invece, alla ricerca di strategie di sopravvivenza, di modi per prolungare la propria esistenza personale o di sistemi per garantire il benessere del cor­po e la pace dello spirito" [Lasch, 1981: 15].

2 Sulla scorta delle analisi di Harvey e Jameson, Griswold così caratterizza la cultura postmoderna: "l) Assenza di spessore, o meglio di una autoconsapevole superficialità. La profondita è stata sostituita da super­

fici multiple. Non ci sono significati nascosti, perché comunque non c'è nulla sotto le superfici levigate che questa cui­tua esibisce. Gli occhiali da sole a specchio o la superficie di vetro riflettente di un palazzo sono tipici oggetti cultuali

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Lessico

Teoria dell'etichettamento

La Labelling Theory (Teoria dell'etichettamento) rappresenta una svolta nella storia della sociologia della devianza, un mutamento di prospettiva e di oggetto di studio: acquista particolare.importanza la reazione sociale al fenomeno deviante e la definizione di de­vianza stessa: l'attenzione si sposta alle agenzie di controllo sociale che definiscono e categorizzano i comportamenti devianti, dal criminale a chi lo osserva e lo definisce tale; e opportuno aggiungere inoltre che la prospettiva corrispondeva al mutamento politico­sociale in atto negli Stati Uniti d'America e in particolare alle lotte per l'affermazione dei diritti civili delle minoranze etniche, all'allargamento delle possibilità d'istruzione per vasti strati della popolazione, all'affermazione dei diritti civili delle donne e degli omosessuali, ai grandi fermenti politici degli anni sessanta. La prospettiva si basa essenzialmente su : 1) ciò che viene definito deviante e che conseguentemente percepito socialmente come tale; 2) fra azione deviante e reazione sociale si instaura un rapporto e un processo for­temente interattivo, cui consegue una riorganizzazione dell'identità deviante intorno all'e­tichetta sociale; 3) la circolarità del processo tenderebbe a confermare che è lo stesso controllo sociale a produrre devianza. Tra i labelists ricordiamo Howard S.Becker, Edwin M. Lemert, Davi d Matza, ed Erving Goffman.

La teoria delle minoranze attive [Moscovici, 1976] ha permesso di chiarire sul pia­no della concettualizzazione socio-psicologica la differenza fra devianza distruttiva o amorfa e devianza innovativa. Perché ci sia innovazione è necessario che un gruppo, mi­noritario per la propria specificità di essere in polemica con l'ordine esistente, non si li­miti a protestare, ma elabori, partendo dalla propria contrapposizione con il gruppo mag­gioritario, una nuova alternativa definizione di realtà [Berger e Luckmann, tr. it. 1999] impegnandosi ad agire per trasformarla in una realtà concreta. Il linguaggio, in modo par­ticolare, rende oggettive e accessibili a tutti le esperienze comuni all'interno della comu­nità linguistica, diventando base e strumento di una cultura collettiva.

In questo modo, la devianza innovativa può essere inquadrata nel quadro delle in­novazioni culturali che come afferma Wendy Griswold, [Griswold, 1997]2 sebbene possano realizzarsi casualmente e in forme non prevedibili, presentano alcuni elemen­ti costanti: l) determinati periodi sono più favorevoli di altri alla produzione di inno­vazione; 2) anche le innovazioni seguono alcune convenzioni; 3) alcune innovazioni hanno più probabilità di altre di istituzionalizzarsi. Fra l'azione della minoranza attiva e quella dei devianti tout court esiste una differenza radicale che riguarda l'atteggia­mento verso i confini della moralità: mentre nel primo caso si mette in atto uno sforzo per spostare (modificare) tali confini, nel secondo caso non si rispettano i limiti che pu­re sono conosciuti.

postmoderni, che rifiutano spessore e significato intrinseco, arrestando la penetrazione visiva alla superficie,restituen­do l'immaginecdell'osservatore. 2) Il rigetto delle metanarrazioni ... Un aspetto di questo carattere è un senso indebo­lito della storia o del destino nazionale. Parlare di un concetto come il destino dell'America o dell'inevitabile trionfo del socialismo oggi suonerebbe terribilmente ingenuo. Così lo ha descritto Jameson (1984, 17): "I paesi capitalistici avanzati sono oggi un campo di eterogeneità stilistica e discorsiva senza alcuna norma. Padroni senza volto continua­no a modulare le strategie economiche che vincolano le nostre esistenze, ma non hanno più bisogno di imporre il loro discorso (o sono adesso incapaci a farlo): e la postalfabetizzazione del tardo mondo capitalistico riflette non solo l'as­senza di qualunque grande progetto collettivo ma anche l'indisponibilità della stessa più vecchia lingua nazionale". 3) Frammentazione, cioè rottura delle connessioni. La cultura postmoderna accoglie il frammentario, l'effimero, il dis­continuo. Il pasticcio, il montaggio di elementi culturali tratti da diversi tempi e luoghi è una convenzione della lette­ratura e dell'arte postmoderne [ Griswold, 1997: 202-203].

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A ragione, dunque, Emler e Reicher propongono una sorta di svolta cognitivo­epistemologica rispetto alle cateogie tradizionali, sostenendo che la devianza adole­scenziale non può essere capita facendo ricorso ai modelli socio-psicologici che cen­trano il loro interesse su carenze o patologie della personalità ("regolatori interni") degli attori sociali, né ai modelli sociologici che enfatizzano il ruolo della scomparsa dei "regolatori esterni" causata dall' effermarsi della società di massa che ha portato alla perdita di ogni forma di vita comunitaria in cui i rapporti interpersonali erano as­sai vivi e il controllo sociale poteva essere esercitato.

In altri termini la gran parte delle teorie sulla devianza condividono l'assunto che la devianza sia causata da una socializzazione mancata o non completa, carenza questa che diventa particolarmente evidente in adolescenza. Il rapporto tra devianza e mancata so­cializzazione, dunque, è utilizzato per spiegare anche l' interdipendenza tra devianza e adolescenza; chi non riesce a superare i compiti di sviluppo che contrassegnano la trans­izione dall'infanzia all'età adulta, o diventa direttamente deviante o cade preda di gruppi coetanei che portano, quasi senza eccezione, alla devianza.

Queste impostazioni (mancata socializzazione per mancanza di controllo esterno o di controllo interno), tuttavia, trascurano completamente di analizzare le basi socio-psi­cologiche delle azioni devianti, cioè il contesto immediato in cui la devianza si attiva (o non si attiva) e il significato che essere o non essere devianti ha per gli adolescenti.

Le critiche alle interpretazioni, sia sociologiche sia psicologiche, della devianza argomentate da Emler e Reicher non riguardano le varie correnti dell'interazionismo simbolico, con cui anzi mostrano di dialogare.

Emler e Reicher fanno riferimento ad alcune nozioni-chiave. a) Non è vero che la vita sociale attuale si caratterizzi inevitabilmente per l'assenza

di scambi significativi fra attori anonimi perché privi di storia. I rapporti sociali sono la sostanza dell'esperienza quotidiana, la comunicazione avviene non fra estranei, ma ge­neralmente fra persone che si conoscono e che nutrono reciproci sentimenti, siano essi positivi, negativi, o ambivalenti.

b) L'azione umana è ampiamente controllata dall'esigenza di avere una reputazione. Questa esigenza è sostenuta dal fatto che le persone si conoscono, hanno aspettative re­ciproche, si rappresentano le caratteristiche dei propri interlocutori.

La reputazione implica che ogni attore sappia anche che gli altri esprimono giudizi su di lui (o su di lei) e questo fa sì che l'attore si sforzi di confermare o di modificare l'im­magine di sé che ha fornito agli altri e che questi elaborano.

Il medium attraverso cui questo processo sociale si compie è la conversazione che si svolge fra i componenti dei gruppi più diversi: in tali conversazioni si realizzano scambi continui circa le conoscenze e i rapporti sociali che ciascuno costruisce e sperimenta.

Con Clifford Geertz si può affermare che questi scambi comunicativi e questa co­struzione di rapporti sociali si verficano sulla base di simboli e di sistemi simbolici. Si tratta, dunque, di reti di rapporti e di scambi culturali. È lo stesso Geertz, in accordo con Max Weber, a precisare questo concetto di cultura, ritenendo" che l'uomo sia un anima­le impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, affermo che la cultura con­siste in queste reti e che perciò la loro analisi è non una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato" [Geertz,1988:11].

Ma che funzione ha la reputazione nelle vicende sociali e perché le società genera­no esigenze di reputazione?

Negli scambi che si realizzano nei mondi vitali, gli individui si scambiano favori e dispetti: non è detto che ad uno di questi atti si possa rispondere immediatamente. Le re­lazioni di credito e di debito possono durare a lungo prima di essere risolte. Può anzi ac­cadere che siano risolte attraverso altre persone che entrano nello scambio. Tu mi aiuti e dopo qualche tempo io mi sdebiterò aiutando un tuo amico o familiare. È ovvio che que-

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sto può accadere soltanto fra persone che si conoscono e ricordano i favori (o gli sgarbi) fatti o ricevuti.

Esiste, di fatto, una "economia informale" per cui tutti i membri di un gruppo o di una collettività diventano reciprocamente interdipendenti. Da questo punto di vista potrà dire Simmel che "il punto di partenza di ogni formazione sociale è soltanto l'interazione tra persona e persona." [Simmel,1984: 257-258] , che "la società non è che la sintesi o il ter­mine generale per indicare l'insieme di questi rapporti di interazione particolari" [Simmel, 1984: 258] e ancora che "società è il nome con cui si indica una cerchia di individui, lega­ti l'un l'altro da varie forme di reciprocità" [Simmel,1983: 42]. La società, quindi, come insieme di reticoli e di rappresentazioni. Come dice Moscovici, per Simmella sociologia è una scienza delle relazioni in cui viene elaborato sia l'individuale sia il collettivo.

In rapporto a ciò, è ovviamente utile conoscere la reputazione delle persone con cui ci imparentiamo o facciamo affari, oppure, più semplicemente, che frequentiamo.

In breve, se gli attori sociali sono consapevoli, oltre che della reputazione attribuita a conoscenti più o meno prossimi, anche di quella di cui godono loro stessi, è compren­sibile che se ne prendano cura e facciano di tutto per proteggerla.

L'interazionismo simbolico ha mostrato che i nostri interlocutori, siano essi prossi­mi o assai distanti, traggono da quanto facciamo inferenze sulle nostre caratteristiche per­sonali; consapevoli di ciò, noi tentiamo di influenzare le conclusioni a cui essi (gli "al­tri") giungono. Come sostiene Goffman [Goffman, 1986], lo scopo di tutto ciò che fac­ciamo in pubblico è quello di presentare noi stessi; controlliamo le nostre azioni in modo che gli altri ci attribuiscano certe particolari qualità.

Queste considerazioni, secondo Emler e Reicher, si possono applicare anche alla re­putazione, avendo cura, però, di mantenere una distinzione fra il concetto di reputazione e quello goffmaniano di "prima impressione". La reputazione infatti può essere monito­rata dall'individuo meno facilmente delle prime impressioni, in quanto consiste in una valutazione che i nostri interlocutori possono controllare in modo quasi completo. Non è creata da un individuo isolato che incontriamo incidentalmente, ma viene elaborata negli scambi che si realizzano entro i diversi gruppi sociali (nelle comunità) : proprio per que­sto ha una vitalità ed una sorta di continuità inerziale sua propria. Una volta che ci si è fatti una reputazione è molto difficile modificarla.

D'altra parte è anche vero che, in certe contingenze particolari, la reputazione può es­sere perduta se non viene "coltivata" con attenzione da chi se l'è costruita. In altre parole, ogni attore deve agire in situazioni pubbliche in modi il più possibile coerenti con la repu­tazione che vuole mantenere.

È dato per scontato dal senso comune che il "tenerci" ad avere una certa reputazio­ne e il fare di tutto per mantenerla riguardi soltanto una reputazione positiva e social­mente approvata. Le scienze sociali, però, in contrasto con tale credenza diffusa, mostra­no che ci sono individui che si ostinano ad agire in modo da mantenere e rafforzare una reputazione negativa. Questo apparente paradosso può essere decodificato: è dimostrato che è più facile esprimere qualcosa di chiaro e specifico circa se stessi rompendo le re­gole invece che rispettandole.

Come si possono comunicare, in altre parole, certe proprie caratteristiche? Come ci si può far notare. Mentre è difficile rendere evidenti le proprie qualità positive [Sko­wronski e Carlston , 1989 ] è molto più agevole dare informazioni su se stessi mettendo in atto comportamenti socialmente disapprovati.

Questi dati permettono di cogliere la centralità che ha il concetto di reputazione per la comprensione della devianza adolescenziale in particolare.

A differenza di quello che sostengono diverse teorie psicologiche, non è vero che gli atti devianti siano commessi da individui isolati, preoccupati soprattutto di tenere nasco­sto quello che fanno.

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Già Piaget [Piaget, 1932], nel suo studio sullo sviluppo del pensiero morale, ave­va sostenuto che le violazioni più importanti delle regole sono pubbliche: un primo esplicito esempio si trova osservando i giochi dei bambini. D'altra parte, anche se alcu­ni reati, generalmente poco rilevanti, vengono commessi da individui isolati, senza complici, non esiste un tipo di delinquenza che in assoluto possa definirsi solitaria. Rea­ti quali il furto, il vandalismo, lo spaccio di droga, la rapina sono generalmente com­messi insieme con altri.

Una prova significativa del fatto che i devianti non tendono a tener nascosto quello che fanno è fornita dalla dimostrata attendibilità dei loro resoconti personali sulle tra­sgressioni commesse e dalla scarsa correlazione tra la propensione a mentire dei devian­ti e l'ammissione dei reati. I resoconti stessi svolgono la funzione di un vero e proprio "testo comunicativo " di presentazione di sé.

Ogni azione deviante, dunque, ha sin dall'inizio un suo pubblico: il fatto che si sia progettata e realizzata di nascosto rispetto a tutori e rappresentanti della legge non deve far inferire che non se ne discuta, per progettarla, in un certo contesto e con un certo pub­blico "specializzato".

Chi di fronte al proprio pubblico si è costruito una solida reputazione da deviante è probabile si impegni per riaffermarla e consolidarla.

È evidente che questa tesi è molto vicina a quella sostenuta dagli studiosi che fanno capo alla lebelling theory [Becker 1963; Lemert 1967]: sono eventi drammatici, general­mente il primo arresto, che spingono gli individui a passare dalle prime trasgressioni oc­casionali, attuate da moltisimi, soprattutto in età adolescenziale (devianza primaria), ad un coinvolgimento più profondo con un ruolo deviante (devianza secondaria).

Gli eventi drammatici ricordati hanno effetti così rilevanti perché fanno sì che gli in­dividui implicati emergano dall'anonimato; acquisiscano, in altre parole, una reputazio­ne pubblica che li fa formalmente identificare come devianti (o delinquenti).

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Personaggi

Howard S. Becker e la Teoria dell'etichettamento

Autore di Outsiders, studies in the socio/ogy of deviance , lavoro apparso nel 1963, Bec­ker sottolinea innanzitutto il carattere conflittuale della vita sociale che si esplicita nella presenza di una pluralità di gruppi e conseguentemente di valori: ogni individuo dunque può essere considerato come l' intersecazione di diverse traiettorie quali sono i diversi ruoli che si trova ad assumere nel contesto delle interazioni sociali, seguire i valori di un gruppo significa infrangerne inevitabilmente le traiettorie di senso di un altro antagonista: la devianza assume dunque carattere ambiguo, relativistico e contingente alla situazione o meglio l'evento, da considerarsi quali unità minima di analisi. "Una società ha molti gruppi, ognuno con il proprio insieme di norme, e la gente appar­tiene simultaneamente a diversi gruppi. Una persona può infrangere le norme di un grup­po proprio nel conformarsi alle norme di un altro gruppo" [Becker, trad. it. 1987: 21 ]. Alla pluralità dei valori del gruppo specularmene corrisponde una pluralità di giudizi e formu­le sanzionatorie, dunque se "una persona può infrangere le norme di un gruppo proprio nel conformarsi alle norme di un altro", sarà deviante colui che- infrangendo le norme del gruppo dominante- viene come tale identificato: pertanto" ... ] i gruppi sociali creano la de­vianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando quel­le norme a determinate persone e attribuendo loro l'etichetta do outsiders.[ ... ]. Il devian­te è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; un compor­tamento deviante è un comportamento che la gente etichetta come tale" [Becker, ibid.:22]. La devianza assume carattere transazionale, e viene esperita dal soggetto in termini di etichetta e reazione sociale; prodotto processuale della reazione sociale, per gli interventi di definizione che si susseguono sino alla reazione identitaria dello stesso de-

viante; prodotto interattivo, perché presuppone sempre colui che commette l'atto e chi reagendo lo etichetta; definizione conflittuale perché "le norme create e mantenute da questo processo di etichettamento non sono universalmente accettate, ma sono oggetto di disaccordi e conflitti e fanno parte del processo politico della società" Becker, ibid.:28] e perché la capacità di stabilire norme si basa sul potere, le armi, lo status dei gruppi do­minanti [Becker ibid.:27ss]. Procedendo nella sua trattazione Becker incrocia i tipi di comportamenti devianti con le reazioni che suscitano (ovvero la percezione del comportamento come deviante o me­no), individua così quattro diversi tipi di comportamento: il comportamento conforme; il comportamento pienamente deviante; il comportamento segretamente deviante e la con­dizione di colui che è falsamente accusato. Il conforme è colui che rispetta le norme ed è percepito tale dalla società; specularmene opposto il pienamente deviante; casi diversi sono quello del falsamente accusato ovvero della vittima di 'montature'o di errori giudi­ziari nonché quello del segretamente deviante, caso nel quale non si può determinare la reale consistenza del fenomeno deviante dal momento che manca ogni forma di reazio­ne sociale. Tale classificazione ha il pregio di sottolineare il carattere temporale e processuale che presiede la formazione di ogni fenomenologia deviante, nonché esplicita la natura della reazione sociale quale interveniente sulla variabile devianza, che sarà fortemente dipen­dente da quest'ultima. Ciò significa che la devianza è fenomeno ricorrente e normale del­la vita sociale, infatti è "molto più probabile che gran parte della gente prove frequente­mente spinte di tipo deviante. Almeno nella fantasia, la gente è molto più deviante di quanto appaia" [Becker, ibid.: 33]: dunque il problema è non capire perché i devianti agi­scono contro le norme sociali, ma perché "coloro che rispettano le norme non seguano i loro impulsi devianti". La risposta risiede nel processo che Becker definisce commitment (coinvolgimento) [Becker ibid.:34]: ovvero quel''[ ... ] processo mediante il quale certi tipi di interessi vengono invertiti nell'adottare certe linee di comportamento a cui sembrano for­malmente estranei. A seguito di azioni compiute nel passato o per effetto di varie routi­nes istituzionali, l'individuo si rende conto di dover aderire a certe linee di comportamen­to, perché molte altre attività, diverse da quella nella quale è impegnato nell'immediato, verranno compromesse se così non farà" [ibid.]. Il concetto di commitment indica dunque l'adesione a prospettive e ad aspettative di ruolo -desiderabili in termini di reazione so­ciale- ed incarna il concetto di altro generalizzato di meadiana memoria: ''[. .. ]la normale evoluzione si una persona nella nostra società [ ... ] può essere vista come un progressi­vo aumento di commitments verso norme ed istituzioni convenzionali. La persona '' nor­male ''• quando scopre dentro di sé un impulso deviante, riesce controllarlo pensando al­le molteplici conseguenze che il cedergli potrebbe produrgli. Essere normale rappresen­ta una posta troppo elevata per permettersi di lasciarsi influenzare da impulsi non con­venzionali" [ibid.]. Il modello stabile di comportamento deviante di conseguenza dovrà obbligatoriamente surrogare un nuovo sistema di valori, dovrà rappresentare un nuovo modo di vivere, una riorganizzazione della propria identità: le strategie indicate da Becker per la costruzione di un modello stabile di comportamento deviante dovranno tener conto della loro natura di motivazioni apprese socialmente, saranno espressione di un sistema di linguaggio condiviso e dunque di una subcultura; ma il deviante sarà sanzionato come tale dalla so­cietà che provvederà a stabilizzare e ad indurire il suo modello comportamentale sino ad etichettarlo e a fargli vivere tale esperienza. Conseguenze dirette dell'etichettamento sarà la definizione del suo status deviante che assurgerà a status egemone e stigma: "Il possedere una caratteristica deviante può co­stituire un valore simbolico generale, per cui la gente è automaticamente portata a pen­sare che il portatore di tale tratto possegga le altre caratteristiche indesiderabili necessa­riamente associate ad esso" [Becker, ibid.:37-38]. "Trattare una persona deviante per un aspetto come se lo fosse per tutti gli altri produce una profezia che sia autodetermina. Questo mette in moto alcuni meccanismi che contribuiscono a far confermare la persona con l'immagine che ne ha la gente. In primo luogo, una persona, dopo essere stata iden­tificata come deviante, tende ad essere esclusa dalla partecipazione a gruppi più con­venzionali[ ... ]" [Becker, ibid.:38].

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l processi di etichettamento contribuirebbero a limitare dunque la successiva partecipa­zione dell'individuo etichettato alle interazioni della vita sociale: l'azione deviante avreb­be una eco psico-sociale/micro-macro e determinerebbe retroattivamente da parte della reazione sociale una risposta di tipo socio-psicologico/macro-micro. Ne verranno modifi­cate l'immagine di Sé e l'identità pubblica, e verranno cercate dall'individuo etichettato forme di solidificazione di tale identità nell'affiliazione con gruppi devianti organizzati [Becker, ibid.: 41 ]. Becker utilizza il termine di outsider proprio per descrivere il /abel ed ru/e-breaker che ac­cetta l'etichetta imposta dalla società e che si considera diverso dalla mainstream socie­ty, condividendo ed apprendendo le tecniche della sua carriera deviante, tendendo ad approssimarsi ai gruppi composti da individui che hanno subito lo stesso processo, con­dividendo con questi ultimi una subcultura deviante che tenda a rinforzare l'identità eti­chettata. L'apprendimento di tecniche è argomento che Becker affronta nel saggio Come si diven­ta fumatori di marijuana: qui interessa sottolineare che il modo in cui gli individui impara­no a fumare è determinato- secondo i classici parametri interazionisti - da un comples­so processo di apprendimento sociale e di interazione sociale, attraverso il quale si ap­prende non solo la tecnica della miscelazione, ma anche le modalità, quindi come fu­marla, cosa provare e di quali effetti godere: Attraverso queste sequenze si organizzerà l'identità dell'individuo, il quale avrà appreso insieme alle tecniche e al godere gli effetti del fumo, la cultura della segretezza e a sfuggire dunque al controllo sociale, creando la propria nicchia culturale e di senso antagonista rispetto alla cultura convenzionale: ''[ ... ] una persona si sentirà libera di fare uso di marijuana nella misura in cui considererà le re­lative concezioni convenzionali come le opinioni disinformate di outsiders, e sostituisce quelle concezioni con la visione " dall'interno , che ha acquisito attraverso la propria esperienza con la droga in compagnia di altri consumatori" [Becker, ibid.: 67]. Elementi centrale è l'abbandono di una visione sincronica e multifattoriale dell'eziologia criminale, sottolineando - in maniera feconda - il carattere sequenziale della devianza, che si ma­nifesta attraverso l'adesione per stadi a specifici modelli (patterns) di azione che si so­stanziano attraverso l'interpretazione di esperienze comuni al gruppo, l'apprendimento sociale, la creazione di nicchie culturali e di senso (i fumatori di marijuana, i musicisti da ballo, etc.). Becker inoltre concentra la sua attenzione sulla posizione di coloro i quali hanno il pote­re e l'autorità di fare ed applicare le norme: esse sono create da coloro che Becker defi­nisce 'imprenditori morali", il cui principale scopo è quello di creare "un nuovo frammen­to della costituzione morale della società, del suo codice di giusto e sbagliato" [Becker, ibid.:113], tali crociate morali al fine di prevederne il successo, sono predisposte sul po­tere di contrattazione dei gruppi, sulla propaganda attraverso i mezzi di comunicazione di massa, le contrattazioni e i compromessi politici. Gli imprenditori morali si distinguono in creatori di norme (o 'crociati delle riforme') e ap­plicatori di norme. l creatori di norme sono rappresentanti degli status sociali elevati della società, dotati di potere morale e di potere contrattuale nei confronti degli altri gruppi: essi di solito relega­no ad esperti e rappresentanti di organizzazioni professionali la redazioni di interventi le­gislativi specifici: in tal modo il contenuto della legge si allontana dalle richieste morali col­lettive, divenendo risultato patologizzante di perizie e verifiche, scorporandosi sempre più dal sociale in quella cristallizzazione anonima che è l'istituzionalizzazione dei problemi. l rappresentanti della legge che invece ne applicano le disposizioni, "rispondendo alle pressioni della propria situazione di lavoro, applicano le leggi e creano gli outsiders in modo selettivo. L'etichettare realmente come deviante la persona che commette una at­to deviante, dipende da molti fattori estranei al suo effettivo comportamento: che il tutore dell'ordine senta di dover dare in questo momento dimostrazione di fare il suo lavoro per giustificare la propria posizione, che il colpevole mostri una reale deferenza verso di lui, [ ... ], e che il tipo di atto commesso figuri nella lista delle priorità del rappresentante della legge" [Becker, ibid.:124-125] Ogni crociata morale di successo crea secondo dinamiche simbiotiche nuovi gruppi di outsiders e nuove responsabilità per l'applicazione della legge, fenomeni devianti e age n-

zie di produzione normativa e di controllo farebbero parte dunque di un unico processo circolare, nel quale le retroazioni inducono a forme di adattamento, le quali implicano- at­traverso le interazioni quotidiane degli attori sociali- definizione di senso/distruzioni di senso/ridefinizioni di senso- : "In senso lato la devianza è il prodotto di un'iniziativa: sen­za questa iniziativa destinata a creare le norme, la devianza, che consiste nell'infranger­le, non potrebbe esistere" [Becker ibid.:125]. La devianza assume carattere di contrattazione e di attribuzione di senso, allontanando­si da eziologie individuali o subculturali o di adattamento funzionale , essa si connota co­me azione collettiva [Becker ibid.:138ss] che si sostanzia nelle interazioni delle unità agenti, le quali sono da considerarsi le cause elementari del mutamento sociale, che al­tro non è che mutamento di interpretazioni. In un contributo più recente, Becker introduce il concetto di 'devianza come azione col­lettiva ', riprendendo gli assunti dell'interazionismo simbolico di Mead e Blumer, egli ri­considera gli individui, nella loro gruppalità, quali costruttori e creatori di senso: la de­vianza può essere studiata attraverso tale prospettiva, l'iniziativa [Biumer, ibid.: 125ss] scatterebbe allora da diverse parti: "Le persone agiscono insieme[ ... ].Fanno ciò che fan­no con un occhio su ciò che gli altri hanno fatto, stanno facendo e possono fare anche in futuro. Un individuo cerca di far combaciare la propria linea di azione con quella degli al­tri, proprio come ognuno adatta lo sviluppo delle proprie azioni a ciò che vede e si aspet­ta dagli altri. Il risultato di tutto questo aggiustamento ed adattamento può esser definito un'azione collettiva ... " [Biumer, ibid.:138]. Nella visione interazionista della devianza, essa viene a connotarsi quale attività relazio­nale e complessa di diversi gruppi, azione collettiva che comprende non solo le intera­zioni faccia a faccia bensì ogni interazione indiretta e complessa [DeLeo, in Bec­ker, 1987:12] fra gruppi ed organizzazioni: "Nella sua forma più semplice, questa teoria in­siste sul fatto che si osservino tutte le persone coinvolte in un qualsiasi episodio di pre­sunta devianza. Scopriamo allora che questa attività richiedono, per poter avvenire, la cooperazione manifesta o tacita di molte persone e gruppi" [Becker, ibid.:138]. Gruppi che si possono distinguere in due sistemi di azione collettiva: "Una è costituita dalle per­sone che cooperano per produrre l'atto in questione, l'altra da quelle che cooperano nel dramma morale attraverso il la quale la trasgressione viene scoperta ed affrontata indi­pendentemente dal fatto che la procedura sia formale e legale, o del tutto informale" [Becker, ibid.: 140]. Il concetto di azione collettiva è di particolare interesse e valenza euristica per diverse ra­gioni: intanto ogni fenomeno deviante è considerato come parte di un tutto complesso, -essendo nodo focale, smagliatura di senso di tale complessità -, rappresenta nello stes­so tempo l'insita relazionalità complessa che lo contraddistingue, la natura comunicativa [De Leo, 1997; 1998; De Leo e Patrizi, 1999] che lo sostanzia e nelle cui emanazioni di senso si mostra ed è decodificabile: "Considerando la devianza come una forma di attivi­tà collettiva, da investigare in tutte le sue sfaccettature come qualsiasi altra forma di atti­vità collettiva, vediamo che l'oggetto del nostro studio non è un atto isolato di cui dobbia­mo scoprire l'origine. Invece, quando si è verificato, questo atto entra in una rete com­plessa di atti che coinvolgono altre persone, e assume una parte di questa complessità per via del modo in cui differenti persone e gruppi lo definiscono. La lezione si applica ai nostri studi su ogni altra area della vita sociale" [Becker, ibid.:142]. L'introduzione del concetto di azione collettiva coincide con una rilettura critica della teoria dell'etichettamento: Becker manifesta il suo scetticismo di fronte l'idea di avere 'etichetta­to' in tal mondo i lavori vari e significativi di molti autori dai diversi apparati concettuali e dalle diverse nuances teoriche, critica che è stata già di Lemert [Lemert, 1981]. Difenden­dosi da chi lo accusa di non essere stato espressione di una teoria né di avere scoperto etiologie del crimine, risponde modestamente che si voleva:''[ ... ] allargare l'area presa in considerazione dallo studio dei fenomeni devianti, includendo, oltre a chi viene definito de­viante, le attività di altre persone ', nonché concentrarsi ' sul modo attraverso il quale il processo di etichettamento pone l'attore in circostanze che gli rendono più difficile il conti­nuare le normali routines della vita quotidiana e lo incitano quindi ad azioni anormali" [Bec­ker, ibid.:136]. Egli di conseguenza suggerisce di considerare la teoria dell'etichettamento piuttosto come prospettiva e di definirla teoria interazionista della devianza.

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Va rilevato, tuttavia, che mentre la teoria dell' etichettamento riconosce agli attori so­ciali, nel passaggio dalla devianza primaria a quella secondaria, una scarsa o nulla capa­cità di iniziativa, Emler e Reicher sostengono la tesi, confermata da molteplici dati di ri­cerca che gli attori sociali sono consapevoli della reputazione (o etichetta) che possono acquisire obbedendo alle norme sociali o trasgredendole, e perciò le loro azioni sono in­tenzionalmente orientate ad influenzare il risultato del processo di etichettamento.

Si può dunque affermare che la devianza si origina da una scelta coerente che espri­me un messaggio chiaro e comprensibile: come chi opera nella legalità tiene ad apparire un cittadino che rispetta la legge, l'individuo che si è identificato in un ruolo di deviante vuole mostrare al suo "pubblico" che non deflette dall'orientamento che ha preso.

Nel 1960, Glaser nel riformulare la teoria delle associazioni differenziali di Suther­land [Sutherland, 1978] rifacendosi alla teoria dei ruoli di George H. Mead, afferma che ai fini dell'apprendimento della delinquenza è importante l'identificazione con modelli criminali, più che l'associazione con essi. Il fattore determinante per la criminogenesi è quindi il processo di identificazione, inteso come processo socio-psichico mediante il quale si tende a rendersi simili, ad omologarsi a certi modelli scelti come tipico-ideali. In questo processo di costruzione identitaria l'individuo tende a far propri anche i valori normativi ed etici associati a tali modelli.

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Lessico

Devianza primaria e devianza secondaria

La prospettiva interazionista privilegia, come precedentemente ricordato, il rapportoo che si instaura tra reazione sociale ed agenzie di controllo e la definizione e la qualificazione di deviante: il rapporto che Becker chiama 'l'altra metà dell'equazione', ''[. .. ]le persone che elaborano e fanno applicare le norme alle quali gli outsiders non si conformano" [Becker 1987: 97]. Tale analisi ha privilegiato dunque gli atti linguistici e culturali di attri­buzione di status, ruoli, identità: la devianza in tal senso è stabilizzazione di etichette e stigma che si esplica in dinamiche processuali non necessariamente definite in stadi. John l. Kitsuse a tal riguardo si esprime con le seguenti parole: "la devianza può essere concepita come un processo attraverso il quale i membri di un gruppo, di una comunità o di una società a) interpretano un comportamento come deviante; b) etichettano gli indivi­dui che si comportano in tal modo come devianti di un particolare tipo e c) riservano loro il trattamento considerato appropriato per tali casi di devianza" [Kitsuse, in Ciacci 1983: 150; enfasi mia]. La devianza considerata proprietà conferita e percepita tale dal gruppo sociale, affinché possa essere indagata necessita di una prospettiva di analisi sequenziale e non più sin­cronica, fasi di ricerca nelle quali il soggetto divergente però è da considerarsi soggetto attivo ''[. .. ] non solo in quanto ricostruisce cognitivamente il contesto in cui vive, ma an­che perché costruisce (o ri-costruisce) il senso della propria identità anche attraverso l'a­zione e questa , a sua volta, implica una mediazione costante tra il mondo interno ( quel­lo dei desideri, delle aspirazioni, delle possibilità) e quello esterno" [De Piccoli et al. , 2001: 45]. Si deve a Lemert la distinzione tra devianza primaria e devianza secondaria: la devianza primaria è un allontanamento più o meno temporaneo dalle norme , essa ha ''[ ... ] impli­cazioni soltanto marginali per la struttura psichica dell'individuo; essa non dà luogo ad una riorganizzazione simbolica a livello degli atteggiamenti nei riguardi del sé e dei ruoli sociali" [Lemert, 1981: 65]. La devianza secondaria, oggetto principale della sociologia, si manifesta a seguito della reazione sociale , ed il soggetto vi perviene attraverso una definizione processuale attra­verso l'interazioni con l'Alter e le istituzioni di controllo: essa "consiste invece nel com­portamento deviante o nei ruoli sociali basati su di esso, che diviene mezzo di difesa, di attacco o di adattamento nei confronti dei problemi, manifesti o non manifesti, creati dal­la reazione della società alla deviazione primaria. In realtà le 'cause' originarie della de-

viazione perdono di importanza e divengono centrali le reazioni di disapprovazione, de­gradazione e isolamento messe in atto dalla società" [Lemert, ibid.: 65-66]. Di particolare rilevanza, nel passaggio da devianza primaria a quella secondaria, sono gli effetti della percezione sociale e del controllo: "Vi è un aspetto processuale della de­viazione che non possiamo non riconoscere, dal momento che, a seguito di una ripetu­ta, costante deviazione o discriminazione negativa, qualcosa cambia nella 'pelle' del de­viante. È un qualcosa che si viene produrre nella psiche o nel sistema nervoso come una conseguenza delle sanzioni sociali, delle cerimonie di degradazione, degli interventi 'terapeutici' o 'riabilitativi'. La percezione, da parte dell'individuo, dei valori e dei mezzi, e la stima dei relativi costi si modificano in maniera tale che i simboli che hanno la fun­zione di condizionare le scelte della maggior parte delle persone finiscono per non sol­lecitare quasi più in lui determinate risposte, o anche per produrre risposte contrarie ri­spetto a quelle auspicate dagli altri" [ibid.: 65; enfasi mia]. Ciò che muta nella pelle del deviante è l'epidermide sociale : la sua identità si riorganizza intorno ai valori puniti dal­la società, la quale al fine di valorizzare la solidarietà di gruppo e l'appartenenza, si dis­costa dal deviante attraverso "differenziazione per contrastd' [ibid.: 90]. La reazione so­ciale si concretizza nelle varie forme di stigmatizzazione, ''[. .. ] processo che conduce a contrassegnare pubblicamente delle persone come moralmente inferiori, mediate eti­chette negative, marchi, bollature, o informazioni pubblicamente diffuse" [ibid.: 91], che inducono il soggetto ad identificarsi con gli altri individui che condividono le sue stesse caratteristiche. La stigmatizzazione, rileva Lemert, determina nell'individuo un profondo senso di ingiu­stizia, a causa dell'incoerenza tra stigma e sanzione, da un lato, e tipo di azioni compiu­te, dall'altro, o tra stigma e sanzioni applicate in diversi luoghi o mementi o persino com­piuti da diversi soggetti rispetto il medesimo fatto: il senso di ingiustizia potrebbe essere considerato come fattore precipitante per alcune devianze secondarie. Essa si esplicita attraverso disegni di esclusione tribale, attraverso i quali si stabilizza la devianza, che si precisa come interpretazione burocratica: "nelle società moderne, in cui non si hanno una opinione pubblica ed un interesse di valore generale, i controlli sui devianti tendono ad essere esercitati mediante agenzie di assistenza , di pena o di correzione appositamen­te organizzate in vista di questi obiettivi. La giustificazione del loro agire viene demanda­ta a ideologie morali di carattere generale, ma più direttamente deriva dalla legge e dagli intendimenti politici ed amministrativi. l resoconti circa i devianti, il loro numero all'interno della società, le loro presunte caratteristiche, le loro esigenza divengono qualcosa di bu­rocratico, ovverosia di mediato da uffici" [ibid.: 96]: le definizioni e le interpretazioni buro­cratiche diventano, in senso foucaultiano, discorsi di verità, in cui è più evidente e cinica­mente rivelatorio il rapporto tra potere e sapere. La processualità della devianza secondaria si delinea, come sottolinea Lemert, attraver­so differenziazioni personali che determinano nell'individuo l'acquisizione di : "1) uno sta­tus moralmente inferiore; 2) specifiche conoscenze ed abilità; 3) un atteggiamento gene­rale ovvero una 'visione del mondo'; 4) una particolare immagine di sé, che si basa sul­l'immagine che gli viene rimandata dagli altr! con i quali interagisce, ma non è necessa­riamente coincidente con essa" [ibid.: 1 09]. E di particolare interesse notare che lo stes­so autore sottolinei quanto in un contesto sociale contrassegnato da pluralismo di valori e mutamento continuo, la devianza non possa essere spiegata attraverso un progetto di analisi lineare ed ineluttabile, bensì, per un risultato più soddisfacente, bisognerebbe as­sociare alla studio di essa concetti quali deriva, eventualità e rischio [ibid.: 111 ss]: per queste ragioni la posizione di Lemert è precorritrice di quelle prospettive che vedono nel mutamento e nella devianza fenomeni complessi non riducibili a unidirezionalità e mano­causalità, e illuminante per gli scienziati sociali che ne studiano le tecniche di analisi.

L'identificazione non richiede un contatto interpersonale poiché può realizzarsi an­che verso modelli (reali o immaginari) con i quali non vi è stato un rapporto diretto. L'i­dentificazione con soggetti delinquenti può verificarsi in diversi modi: a seguito di espe­rienze dirette con associazioni di delinquenti, attraverso una valutazione positiva dei ruo­li delinquenziali rappresentati dai mass media oppure a seguito di una reazione negativa

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a forze che si oppongono alla criminalità. La teoria di Glaser permette così di spiegare le azioni criminali commesse da parte soggetti che sono abitualmente inseriti in gruppi so­ciali non criminali.

Gli adolescenti perseguono differenti progetti reputazionali la cui realizzazione può avere ripercussioni notevoli sulla qualità del loro agire sociale. Non si possono evidente­mente comprendere né le scelte, né le azioni degli adolescenti se non si conosce il conte­sto sociale in cui essi vivono e agiscono. Emler e Reicher danno patrticolare rilievo, nel­lo svolgimento delle loro argomentazioni, a due aspetti del contesto: l'ordinamento isti­tuzionale della società che gli adolescenti sperimentano direttamente grazie al contatto col sistema scolastico in cui sono inseriti ed attraverso il contato con le altre agenzie sta­tuali (la polizia, il sistema sanitario, l'organizzazione del mercato del lavoro, le banche etc.); i gruppi sociali informali, in particolare i gruppi di coetanei.

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