Cantica Tragicorum · 2020. 4. 24. · Created Date: 6/6/2014 2:02:33 PM
Destinatari: classe III, Istituto Tecnico Commerciale · Schiapparelli; il percorso propone una...
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La rappresentazione del fantastico: le figure dell’Inferno dantesco
Destinatari: classe III, Istituto Tecnico Commerciale
Introduzione
Il percorso didattico è destinato alla classe III B dell’Istituto tecnico commerciale
Schiapparelli; il percorso propone una lettura della I cantica della Divina Commedia
mirata alla scoperta delle creature e dei mostri dell’Inferno dantesco.
Il percorso attraverso l’Inferno dantesco sarà suddiviso in 6 unità didattiche (5 + 1 di
introduzione) che analizzeranno gruppi di “creature”, suddivise secondo questo
criterio:
UD 1 – Introduzione all’Inferno: la sua struttura e i suoi “abitanti”
UD 2 – Le figure del valore simbolico
Lonza, leone, lupo Canto I vv. 30 -60
Lucifero Canto XXXIV vv. 16-60; vv. 68-96
UD 3 - Le figure della “doppia natura”
Minotauro Canto XII vv. 1-30
Centauri Canto XII vv. 52-99
Arpie Canto XIII vv. 1-21
Gerione Canto XVI vv. 106-136; Canto XVII vv. 1-30; vv. 79-136
UD 4 – Figure fisicamente non definite
Pluto Canto VII vv. 1 -15
Flegïàs Canto VIII vv. 1- 30
Caco Canto XXV vv. 16-33
UD 5 – Rappresentazione del comico: mostri con atteggiamenti umani
Diavoli Malebranche Canto XXI; Canto XII vv. 133-151; Canto XXIII vv. 13 - 57
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Per il tempo limitato a disposizione, ho scelto di selezionare il repertorio di figure, per
poter dedicare più attenzione a quelle prescelte: tutti i canti segnalati saranno letti per
intero, anche se poi ne verrà approfondita solo la parte utile al percorso tematico.
La classe è costituita da 25 studenti e presenta partecipazione e rendimento medio.
Poco inclini alla teoria e alla riflessione astratta, hanno bisogno di essere
continuamente stimolati per dimostrare interesse a una materia, la letteratura italiana,
che sentono distante dalla loro vita e dai loro interessi.
Per questa ragione, ho scelto un percorso che risvegli in loro curiosità, attraverso
interazioni con discipline altrimenti assenti nella loro formazione, come la storia
dell’arte, e con riferimenti cinematografici.
Le attività laboratoriali consentiranno inoltre di lasciar spazio alla loro iniziativa e
creatività personale.
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Contenuti
I - Le figure del valore simbolico
Lonza, leone, lupo - canto I vv. 30 - 60; Lucifero canto XXXIV vv. 16-60; vv. 68-
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Introduzione
Nessun elemento della Divina Commedia, personaggi comparse luoghi punizioni o
guardiani, può essere separato dal suo significato simbolico, tanto che tutta la
narrazione si gioca su un doppio piano, descrittivo e allegorico. Ciò vale anche per i
mostri e le creature fantastiche che popolano l’Inferno dantesco: quasi sempre mutuate
dalla tradizione classica e dal mito, quasi sempre giunte attraverso la mediazione della
cultura medievale, quasi sempre rielaborate e trasformate da Dante in nuova “figura”
all’interno dell’unicum compatto della Commedia, tanto che risulta difficile, poi,
immaginarle slegate dalla rappresentazione e dal valore che Dante ha attribuito loro.
Alcune delle creature fantastiche che popolano l’Inferno sono connotate più di altre da
un valore fortemente simbolico, tanto che anche la loro rappresentazione fisica e la loro
collocazione nell’equilibrio del mondo infernale sono finalizzate alla resa del loro
significato simbolico. Ciò avviene per le tre fiere, al principio del viaggio, per i giganti,
al canto XXXI, e infine nell’incontro con Lucifero, proprio al termine del percorso
infernale.
Caratteristica comune di queste figure è il loro essere portatori di un significato
profondamente simbolico, già nella tradizione precedente, classica o medievale, pagana
o cristiana. Le tre fiere e Lucifero, in particolar modo, veicolano un significato e un
valore specificamente medievale, intriso di simbologia cristiana.
Dante acquisisce questi valori simbolici, li inserisce nell’equilibrio nel testo e li rende
una parte fondante dell’Opera.
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Le tre fiere
Critici e filologi hanno sempre dibattuto sul significato allegorico e simbolico delle tre
fiere nel primo canto dell’Inferno. L’incontro con le tre fiere, collocato al principio del
primo canto e nel contesto simbolico della “selva oscura”, ha certo il significato di un
incontro con i vizi che allontanano l’uomo dalla virtù e ne rendono difficile il percorso
verso la redenzione.
Si ritiene che tutto questo sistema di simboli costituisca la rappresentazione di un dato
reale, biografico, del Dante uomo: l’esperienza, vera e viva, di un traviamento
esistenziale, un sonno della ragione, il cui risveglio doloroso è rappresentato
dall’ingresso nella selva, e in cui le fiere costituiscono i vizi che si frappongono tra
l’uomo e la sua redenzione. Posizioni invece contrastanti si trovano sul significato
allegorico delle tre diverse fiere: accettato il loro valore simbolico di rappresentazioni
del vizio, di quali vizi sarebbero incarnazione?
Secondo l’interpretazione più accreditata, la lonza sarebbe immagine della lussuria, il
leone della superbia e la lupa dell’avarizia.
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Canto I vv 31-63; 91-102
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e’l sol montava ‘n su con quelle
stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
Con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
Sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza ne l’altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ‘l tempo che perder lo face,
che ‘n tutti suoi pensier piange e
s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, vedendomi ‘ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ‘l sol tace.
Mentre ch’i rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
che per lungo silenzio parea fioco.
[…]
“A te convien tenere altro vïaggio”,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ‘l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
La lonza, il leone e la lupa
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Lonza, leone e lupa appaiono in sequenza.
I versi a loro dedicati da un lato li descrivono e dall’altro ne raccontano le azioni.
In realtà è la loro comparsa a spaventare e immobilizzare Dante, non il loro
comportamento, la cui descrizione è limitata a pose e atteggiamenti: è il loro stesso
esistere che genera paura.
La lonza è la prima a comparire, a lei sono dedicate in particolare due terzine: nella
prima viene descritta come leggera e veloce, coperta di un manto maculato.
La lonza rimane immobile davanti a Dante e lo lascia avanzare, tanto da indurlo quasi a
tornare sui suoi passi. Tra le tre fiere, essa sembra la più innocua, quella ad affrontare
la quale Dante si senta più preparato. Non è stato riconosciuto nella lonza alcun
animale particolare: certo si tratta di un felino dal pelo maculato, simile a un ghepardo
o a una pantera.
Dante è appena entrato nella selva, quindi è all’inizio del suo percorso di redenzione, la
lonza è la fiera che per prima gli blocca il cammino, ostacolando il suo ancora timido
allontanamento dal vizio. La lonza è identificata con il simbolo della lussuria: forse il
peccato più dolce, e più difficile da abbandonare, tanto che il tentativo di
allontanarsene deve essere tentato più volte prima di giungere a buon fine (v. 36). Ma è
l’alba, e il sorgere del sole lascia a Dante la speranza di poter superare la tentazione del
vizio: il verso l’ora del tempo e la dolce stagione segna così le ragioni della speranza
di una nuova vita, ma echeggia in qualche modo i modi delle antiche rime d’amore, e
cos’è nella Commedia la lussuria se non una forma di “incontinenza d’amore”?
Dante è appena rincuorato dall’alba e dalla possibilità di oltrepassare l’ostacolo
costituito dalla lonza, quando appare davanti a lui un leone.
La descrizione del leone si limita al suo procedere con la testa alta e al suo aspetto di
rabbiosa fame. Il leone sembra andargli incontro e la sua presenza sembra far tremare
l’aria intorno, ma entrambe le azioni sono rette dal verso parea (versi 46 e 48), tanto
che Dante sembra quasi dubitare della fondatezza della sua paura, pure dichiarata poco
prima all’apparire dell’animale, al verso 44. Ancora una volta, la paura sembra slegata
dall’azione dell’animale, e contenuta unicamente nel suo apparire. Il leone,
simbolicamente più connotato della lonza, è stato identificato con la superbia d’animo.
La fiera a cui sono dedicati un maggior numero di versi è la lupa. Descritta come
estremamente magra, e per questo potenzialmente carica di maggior appetito, è lei a far
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davvero vacillare Dante, a fargli perdere la speranza di raggiungere l’altezza della
salvezza. La lupa viene identificata come allegoria dell’avarizia, della cupidigia, del
desiderio sfrenato di averi e ricchezze: l’interpretazione sembra confermata dalla
metafora immediatamente seguente (versi 55-60), per cui la disperazione di Dante
costretto ad arretrare dalla lupa è paragonata alla disperazione dell’avaro costretto a
rinunciare a tutti i beni accumulati. La lupa appare come l’animale più terribile, che
costituisce il pericolo maggiormente reale: essa ha già fatto vivere nella disperazione
molte genti, è un animale malvagio ed empio, vive affamata da mille brame, non è mai
sazia e desidera sempre nuovo cibo, si accoppia con i peggiori animali (versi 49-51 e
94-100). Atteggiamenti e caratteristiche facilmente ricollegabili sia alla lupa come
animale, presenza terribile e costante delle campagne e dei villaggi medievali, sia al
vizio dell’avarizia.
Al suo avanzare corrisponde un indietreggiare disperato di Dante, fino alla vista di
un’ombra, che sembrava silenziosa perché da troppo tempo costretta al silenzio:
Virgilio, ovvero la ragione, la coscienza a lungo inascoltata.
“Il sonno della ragione genera mostri”.
Nei boschi del medioevo
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Il paesaggio medievale si divide in zone selvagge, costituite da boschi, paludi o campi
incolti, e in zone seppur lievemente umanizzate, disboscate, bonificate o coltivate.
Il paesaggio medievale è quindi diviso tra territori in cui gli animali regnano
incontrastati, e territori in cui tra l’uomo e l’animale si instaura una seppur debole
convivenza. Tra l’XI e il XII secolo, la rivoluzione agricola, lo sviluppo urbano e
quello commerciale modificano notevolmente il paesaggio. Molte specie animali un
tempo selvagge vengono private del loro habitat naturale: alcune di esse, come il cane,
verranno presto addomesticate, altre, come il lupo, instaureranno con l’uomo una
condivisione conflittuale degli stessi spazi. Queste trasformazioni incideranno anche
nell’immaginario popolare, modificando o consolidando ruoli e simboli attribuiti alle
specie animali già esistenti. Alcuni simboli e significati attribuiti alle specie animali
provengono al mondo medievale dalla mitologia classica, altri si consolidano in
rapporto alla tradizione cristiana delle origini, altri ancora provengono dal serbatoio
delle culture dei barbari. Tutta questa selva di immagini e simboli confluisce poi
nell’arte figurativa, di committenza prevalentemente religiosa.
Tra le specie animali, quella che crea un rapporto più difficile e cruento con l’uomo è il
lupo.
Spesso allontanato dai boschi o dagli incolti in seguito all’intervento umano, spesso
privato di greggi e cibo da guerre e pestilenze, il lupo tende ad avvicinarsi all’abitato,
minacciando lo stesso uomo. Di conseguenza, durante il medioevo si modifica,
negativamente, anche il suo ruolo nella simbologia e nell’immaginario: in epoca
classica il lupo infatti non era ancora sentito come un pericolo diretto per l’uomo, ma
soltanto per gli altri animali.
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Lucifero
Non è un caso che le figure più esclusivamente simboliche siano poste al primo e
all’ultimo canto dell’Inferno. Se le tre fiere erano parte integrante del contesto
simbolico del viaggio verso la redenzione e avevano quindi un valore allegorico
strettamente legato al contesto della selva, Lucifero è portatore di un valore simbolico
intrinseco e proprio, autonomo dal contesto, ma che nel contesto si inserisce
profondamente tanto da diventarne elemento costituente ed essenziale.
La discesa lungo i cerchi infernali è stata lunga e difficile: certo Dante non può essere
qual era prima. Ora il viaggio infernale sta per concludersi, quasi al centro della Terra:
IX cerchio, l’ultimo, IV girone, il più profondo, tra i traditori dei benefattori. Non
esiste peccato più crudele della frode contro chi si fida, e non esiste frode peggiore di
quella rivolta contro un/il benefattore, soprattutto se il benefattore è incarnazione
vivente della Chiesa, Cristo, o dell’Impero, Cesare: per questa ragione Giuda, Bruto e
Cassio soggiornano per l’eternità dentro alle fauci di Lucifero. Giuda, traditore del
figlio di Dio, ha viso e tronco stritolati nella bocca di Lucifero, Bruto e Cassio, traditori
di un uomo, seppure Cesare, conservano il privilegio della testa fuori dalle fauci,
divorati “soltanto” negli arti inferiori. Fino all’ultimo dannato la valutazione della
colpa e della pena è precisa e motivata.
Lucifero è il protagonista indiscusso del canto XXXIV e ultimo dell’Inferno, e lo
attraversa tutto, dalla sua comparsa regalmente annunciata al verso 1 fino alla
descrizione della sua caduta nell’ultima parte del canto. Lucifero attraversa il canto, ne
è la stessa struttura portante, così come è struttura portante della fisicità dell’Inferno.
Così come i Giganti, Lucifero è insieme creatura e struttura dell’Inferno, paragonato a
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un mulino a vento, a un edificio immenso che prende forma pian piano dalla nebbia,
all’arrivo dei due pellegrini.
Come un imperatore, Lucifero viene annunciato al verso 1 dall’avanzare dei suoi
vessilli: Vexilla regis prodeunt inferni, dove i vessilli del re degli inferi sono le sue
grandi ali.
Nelle parole di Virgilio sembra di udire lo squillo di tromba dell’araldo che annuncia il
sovrano.
Lucifero, inoltre, è immobile, conficcato nel centro della terra ne compare solo il busto,
eppure la formula recita prodeunt vexilla, quando sono Dante e Virgilio, invece, ad
avvicinarsi, a muoversi. Vexilla regis prodeunt è verso tratto da un inno latino del
vescovo di Poitiers Venanzio Fortunato, vissuto nel VI secolo: l’inno liturgico
identificava i vessilli con la croce di Cristo. Qui Dante aggiunge la specificazione
inferni: e il vessillo non è più quello del Re dei Cieli ma quello del Re degli Inferi.
Lucifero, che porta ancora il suo nome da angelo, è speculare rispetto a Cristo come
l’inferno è speculare rispetto al Paradiso; l’Inferno è un mondo al negativo, il contrario
di quello che “dovrebbe essere”, il male come esatto opposto del bene. L’uso del latino,
inoltre, enfatizza la drammaticità del momento: siamo al cospetto del male in persona,
inchiodato per sempre in un mare di ghiaccio.
Ecco Dite: ecco il loco / ove convien che di fortezza t’armi Inferno, c. XXXIV, vv. 20-21
Incisione di Gustave Dorè per la Divina Commedia
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Canto XXXIV vv. 16-96
(1) Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,
d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
“Ecco Dite”, dicendo, “ed ecco il loco
Ove convien che di fortezza t’armi”.
Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogne parlar sarebbe poco.
Io non mori’ e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
(2) Lo ‘mperador del doloroso regno
da mezzo ‘l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
ch’a così fatta parte si confaccia.
S’el fu sì bel com’elli ora è brutto,
e contra ‘l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
Quand’io vidi tre facce a la sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
l’altr’eran due, che s’aggiugneno a questa
sovresso ‘l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ‘l Nilo s’avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid’io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangea, e per tre menti
Gocciava ‘l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co’ denti
Un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ‘l graffiar, che tal volta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.
(3) “Quell’anima là su c’ha maggior pena”,
disse ‘l maestro, “è Giuda Scarïotto,
che ‘l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due c’hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ciuffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e l’altro è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto”.
(4) Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l’ali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra ‘l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia
Si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ‘n inferno i’ credea tornar anche.
“Attienti ben, ché per cotali scale”,
disse ‘l maestro, ansando com’uom lasso,
“conviensi dipartir da tanto male”.
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.
Io levai li occhie credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sú tenere;
e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch’io avea passato.
“Lèvati sú”, disse ‘l maestro, “in piede:
la via è lunga e ‘l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terra riede”.
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Tutto il canto è dominato dalla figura di Lucifero: fin dall’attesa della sua comparsa e
dall’annuncio dell’avvicinarsi dei suoi vessilli.
Centro e fulcro dell’intero canto sono le 33 terzine dedicate alla sua descrizione (vv.
28-60), con la coda delle tre terzine (vv. 61-69) dedicate ai tre dannati che Lucifero
divora per l’eternità.
Una lunga sezione (vv. 70-96, 9 terzine) è poi dedicata a uno dei viaggi più spettacolari
dell’Inferno dantesco: quello che conduce Dante e Virgilio a scivolare lungo il corpo di
Lucifero fino e oltre il centro della terra, per passare infine nell’altro emisfero.
Ho diviso la lunga porzione di testo presa in considerazione in due sezioni:
1. l’attesa e poi la comparsa di Lucifero, con la visione terribile della sua descrizione
ai versi 16-69;
2. il viaggio lungo il corpo di Lucifero che prepara all’uscita dall’inferno, ai versi 70-
96.
In entrambe le sequenze si intrecciano gli elementi che creano l’attesa e preparano la
vista di Lucifero; la descrizione dello stesso Lucifero; le emozioni e le reazioni di
Dante, alla vista del re degli Inferi prima e all’incredibile viaggio lungo il suo corpo,
poi.
1. L’attesa e la visione
L’attesa, anticipata già nel primo verso del canto nell’annuncio dei vessilli del re degli
Inferi, si concentra in quattro terzine ai versi 16-27 (qui, sequenza 1). Come in altri
luoghi e in altri momenti cruciali, anche qui è Virgilio che prepara Dante a qualcosa di
straordinario che sta per apparire, e per accadere. In questo passo, però, al cospetto del
signore degli Inferi, l’attesa è molto forte. Cerimoniere è Virgilio, è lui che sceglie il
momento (ch’al mio maestro piacque di mostrarmi, al verso 17) per rivelare l’enorme
figura di Lucifero, che inizia a distinguersi tra le nebbie e il ghiaccio della Giudecca.
Quando si sono abbastanza avvicinati, al momento opportuno, Virgilio si scosta un po’,
per lasciare apparire Lucifero, e fa fermare Dante (versi 18-19). Come era già accaduto
per Gerione al principio del canto XVII l’annuncio è solenne, preceduto da ecco: Ecco
Dite, verso 20. La comparsa di Lucifero, ancora chiamato Dite secondo la terminologia
pagana, rappresenta lo scioglimento di un’attesa iniziata fin dal I canto, fin dall’inizio
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del percorso lungo i gironi e i cerchi dell’Inferno: questo è il momento più drammatico,
e qui convien che di fortezza t’armi, raccomanda il maestro.
Dante è arrivato al cospetto dell’imperatore del male, ma per il lettore l’attesa si protrae
ancora di due terzine, e questa volta è il pensiero di Dante che prepara noi lettori alla
vista dell’incredibile spettacolo. Dante si dice gelato e fioco, debole e raggelato dalla
paura: gelato come il ghiaccio del paesaggio della Giudecca in cui si trova, e qui la
scelta dell’aggettivo per descrivere la sua paura riporta allo stesso campo semantico del
luogo che sta descrivendo. La paura lo lascia senza fiato e senza parola: vivo eppure
come morto, morto eppure ancora vivo, nell’incapacità di descrivere al lettore
l’emozione che lo scuote.
L’attesa finalmente si scioglie al verso 28, quando compare anche ai nostri occhi di
lettori la figura di Lucifero. Dante aveva premesso di non avere fiato e parole, eppure
la sua descrizione è realistica ed efficace, e il testo ci invade con la sua forza
iconografica, con i colori e le immagini di cui è portatore. La descrizione, in qualche
modo momento culminante dell’intero Inferno, si concentra in 11 terzine (vv. 28-60),
con la coda delle tre terzine (vv. 61-69) dedicate ai tre dannati che per l’eternità
Lucifero divora, e che quindi finiscono in qualche modo per far parte della sua stessa
natura (i versi sono qui identificati con le sequenze 2 e 3).
La prima denominazione di Lucifero è quello di imperatore del regno del male, del
dolore (verso 28), e nel termine imperatore si completa l’immagine del verso 1 dei
vessilli da cui Lucifero veniva annunciato. La sua figura è maestosa ed enorme, e si
staglia dal busto in su oltre il ghiaccio della Giudecca: Lucifero, infatti, è inchiodato al
centro della terra, e compare solo a mezzo busto. La prima caratteristica evidenziata è
la sua dimensione enorme, tanto più grande quanto ne vediamo solo metà corpo.
Soltanto le braccia di Lucifero sono infinitamente più grandi dei giganti di quanto
possa essere grande un gigante rispetto a Dante: l’immagine basta a darci le vertigini, e
immaginiamo Dante, piccolo piccolo, guardare in su, verso l’enorme busto del re degli
Inferi.
Prima di addentrarsi nei dettagli della descrizione Dante racchiude in una terzina (vv.
34-36) il rimando alla storia di Lucifero, che già era stata anticipata al verso 18, quando
era stato definito come la creatura ch’ebbe il bel sembiante: Lucifero, nell’etimologia
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del nome portatore di luce, era il più bello tra gli angeli di Dio, ma si ribellò al suo
creatore e fu da questi scaraventato nell’Inferno, da una simile ribellione non può che
derivare l’origine del Male, di tutti i mali, ed egli non può che essere tanto orribile
quanto un tempo fu splendido. La premessa contribuisce a rafforzare l’orrore della
descrizione seguente, che finalmente si apre al verso 37.
Lucifero ha tre teste, una centrale e due laterali che sorgono all’altezza delle spalle:
tutte si congiungono in alto. La testa centrale è rossa, vermiglia, quella di destra è tra il
bianco e il giallo, quella di sinistra è di uno scuro indistinto vicino al nero. Al termine
di ogni testa spuntano due ali, più grandi di qualsiasi uccello, più grandi di qualsiasi
vela di nave. Le sei immense ali sono ricoperte di membrane nere, come quelle dei
pipistrelli, e il muoversi di ogni coppia di ali provoca un vento così freddo e forte da
far gelare l’intera Giudecca. Ogni testa ha due occhi, che piangono, e una bocca: da
ogni testa piovono lacrime e bava mista a sangue.
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In ogni bocca enormi denti triturano, dirompono e maciullano un peccatore: questa è la
sorte toccata nella testa anteriore a Giuda, di cui spuntano solo le gambe, a Bruto e a
Cassio nelle altre due, di cui spuntano invece il tronco e il viso. L’immagine crudele
del masticare è resa più volte nei versi 55-58: dirompea co’ denti; a guisa di maciulla;
mordere. Non basta: il mordere dei denti è accompagnato dal graffiare, altrettanto
crudele e doloroso.
Elemento fondamentale di questa descrizione è l’uso dei colori, non sempre reso in
modo esplicito: se la testa centrale è rossa, vermiglia, e quella di destra è tra il bianco e
il giallo, il colore di quella di sinistra non è esplicitamente dichiarato, ma espresso dalla
metafora delle genti d’Africa, e quindi nero, scuro; allo stesso modo le sue ali sono
come quelle dei pipistrelli, quindi nere; dalla sua bocca esce bava mista a sangue,
quindi di una qualche tonalità di rosso.
In tutta la descrizione di Lucufero, ogni elemento fisico, valido in sé nel realismo
descrittivo, è portatore di un valore simbolico. La valenza simbolica è stata identificata
in particolar modo per le tre teste, che già nel numero echeggiano il ribaltamento della
figura teologica della Trinità: la testa vermiglia, rossa, simbolo di odio opposta al
primo amore, cioè lo Spirito Santo; la testa bianco-gialla di destra, simbolo di
ignoranza, opposta alla somma sapienza di Cristo; la testa nera di sinistra, simbolo
dell’impotenza, opposta alla divina onnipotenza di Dio. Il simbolismo ritorna
nell’intera figura di Lucifero: egli è immobilizzato nel ghiaccio, come la passione che
oscura la luce dell’intelletto; le sue immense ali si muovono meccanicamente, come la
forza bruta priva di intelligenza; la bava e il sangue, miste alle lacrime, sembrano il suo
unico impotente modo di manifestare rabbia e dolore.
Lucifero è questa figura enorme, costituita da tre teste, tre bocche, sei occhi, sei ali,
grondante sangue e bava, occupata nell’eterno movimento del divorare i tre condannati,
avvolta dai perenni venti gelidi provocati dalle sue stesse ali. Così ciecamente assorta
nel suo brutale e meccanico odio da non accorgersi del viaggio che poco dopo Dante e
Virgilio compieranno sul suo corpo: Lucifero è qui matta bestialitate, privo di ogni
volontà e iniziativa.
Con lui i due pellegrini non parlano, neanche si scontrano: sono giunti fino al centro
dell’Inferno, fino al profondo degli inferi, soltanto per vederlo.
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2. Lungo il corpo di Lucifero: il viaggio
Nel suo viaggio nei gironi dell’inferno Dante ha vissuto ogni genere di esperienza, ma
l’incontro con il re degli Inferi e il viaggio lungo il suo corpo fin oltre il centro della
terra mettono a dura prova la sua fortezza d’animo. Dante è ormai alla fine della prima
parte del suo percorso di redenzione, ha imparato che non esistono limiti alla fantasia
della creazione dei mondi ultraterreni, eppure continua a stupirsi, a perdere il bene
della parola, a non capire, a trasecolare. Dante rappresenta l’immagine di ogni uomo,
piccolo e ingenuo, di fronte alla vastità del mondo, della vita e del creato.
Abbiamo visto come alla prima vista di Lucifero, Dante si confessi al lettore gelato e
fioco, debole e raggelato dalla paura: la paura lo lascia senza fiato e senza parola, vivo
e morto insieme.
Come sempre accade lungo i sentieri dell’Inferno, è Virgilio che lo guida e lo
accompagna: lo invita ad armarsi di fortezza, gli preannuncia e annuncia la vista di
Lucifero (versi 16-21), gli spiega e commenta le identità dei tre dannati stritolati tra le
fauci dell’imperatore degli inferi (versi 61-69). Poi, Dante ha immerso se stesso e noi
nella contemplazione del male assoluto per ben 14 terzine, senza dimenticare che la
contemplazione del male fortifica quanto quella del bene, e con altrettanta forza
conduce verso la redenzione. Adesso, e siamo al verso 68 dell’ultimo canto, tutto è
compiuto, adesso è ora di andare, adesso abbiamo visto abbastanza, adesso è ora che la
notte del male lasci posto all’alba perchè, con le parole di Virgilio: la notte risurge, e
oramai è da partir, ché tutto avem veduto. E sempre per volere di Virgilio, senza
chiedere né come né perché, com’a lui piacque (verso 70), Dante si avvinghia e stringe
al suo collo, e così, aggrappato al collo del maestro, scivola lungo il corpo di Lucifero,
nel folto pelo e tra le gelate croste, giù, fino alle sue anche, per poi capovolgersi a testa
in giù dopo il centro nella terra, e risalire nell’altro emisfero. Sarà Virgilio a portarlo
sulle spalle nella risalita, per poi depositarlo a terra, mettendolo a sedere, quasi
preoccupato che la forte emozione non l’abbia troppo scosso. I versi 70-96 sono il
racconto con il cuore in gola del più straordinario viaggio dei tanti viaggi compiuti dai
due pellegrini nell’Inferno.
Al termine, Dante-personaggio continuerà a non capire di come Lucifero sia conficcato
nel centro della terra, del percorso fatto, della cosmogonia dello stesso inferno creato
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dal Dante-autore, e rimarrà fermo, pensieroso, stanco e travagliato. Ancora una volta
sarà Virgilio a ridestarlo: Lèvati sú, in piede , la via è lunga e ‘l cammino è malvagio.
Il giudizio universale
Nel Medioevo il diavolo ebbe una parte importante nell'arte e nel folclore, e venne
rappresentato quasi sempre come una malvagia creatura con coda e corna,
accompagnato da diavoli a lui subordinati.
Con la fioritura dell’arte romanica, tra l'XI e il XII secolo, e poi di quella gotica, tra il
XII e il XV secolo, si diffuse e affermò la pratica di realizzare sculture monumentali in
pietra. Le facciate delle chiese si popolarono così di ricche decorazioni scultorie che
dovevano attrarre ed educare i fedeli. Uno dei soggetti più popolari fu il Giudizio
Universale, che ispirò vivaci rappresentazioni di angeli e diavoli.
Nei mosaici realizzati da Coppo di Marcovaldo (Firenze 1225 ca. - dopo il 1276), per
il Battistero del Duomo di Firenze (1225) le figure sono costruite attraverso forti
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contrasti cromatici, con profonde ombre nere e lampi di luce dorata. Dalla orrifica
visione dei corpi dei dannati straziati nell'Inferno potrebbe aver tratto spunti Dante per
la prima Cantica della Divina Commedia.
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II – Le figure della “doppia natura”
Nel cerchio dei violenti
Minotauro - canto XII vv. 1-30; Centauri - canto XII vv. 52- 99;
Arpie - canto XIII vv. 1-21;
Gerione - canto XVI vv. 106-136; canto XVII vv. 1-30; vv. 79-136
Introduzione
Minotauro, Centauri, Arpie e Gerione: creature diverse, di diverse origini e diverso
significato, ma tutte accomunate dall’appartenenza a una “doppia natura”, umana e
animale. A loro Dante attribuisce caratteri umani e animali insieme, ma, altro elemento
comune, il volto è sempre umano, mentre i loro corpi appartengono ad animali diversi.
In questa operazione Dante non sempre rispetta alla lettera le origini “classiche” e
mitologiche delle creature descritte. Così, se il Minotauro nell’antichità era raffigurato
come un mostruoso individuo dalle forme umane e dalla testa di toro, nel VII cerchio
dell’Inferno dantesco la sua natura sembra esattamente ribaltata: testa umana e corpo di
toro. Poiché nulla avviene per caso nelle pagine della Commedia, è evidente
l’intenzione di raffigurare queste creature con volto umano. La loro descrizione potrà
così raggiungere connotati profondamente “bestiali”, come pure avviene proprio per il
Minotauro, ma l’elemento animale sarà in qualche modo equilibrato da un volto e da
una testa d’uomo.
Minotauro, Centauri, Arpie e Gerione hanno all’interno della Commedia un altro
elemento che li mette in forte relazione: essi compaiono tutti nei canti dedicati al VII
cerchio, quello dei violenti, e cioè nei canti che vanno dal XII al XVII.
Il Minotauro, per cominciare, è il guardiano dell’intero cerchio, e ne custodisce
l’ingresso, mentre i Centauri corrono lungo le rive del Flegetonte dove sono immerse
nel “bollor vermiglio” le anime dei violenti contro gli altri (tiranni, omicidi e predoni).
Le arpie, nel secondo girone, si nutrono delle anime dei violenti contro se stessi, i
suicidi, anime ormai trasformate in piante. Anche Gerione, custode dell’VIII cerchio,
quello dei fraudolenti, compare per la prima volta nel VII cerchio, e sarà proprio lui a
“traghettare” in volo i due pellegrini dal cerchio dei violenti a quello successivo.
Altro elemento interessante è il rapporto tra il mostro e l’ambiente in cui è descritto.
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Tutti gli abitanti dell’Inferno vivono un tempo senza tempo, fissato nell’eternità. Il
rapporto tra la loro natura e il loro ruolo è quindi strettamente intrecciato alla tipologia
di ambiente in cui sono inseriti, tanto da farne parte: sono loro stessi elemento
essenziale della pena dei dannati.
Non a caso, quindi, il Minotauro mostro orribile a vedersi è collocato all’interno di un
“orrido” montano; i Centauri, uomini – cavalli, esperti arcieri, figure del movimento
sono tutt’uno con un paesaggio circolare, un’ampia fossa in arco torta, che affianca lo
scorrere del fiume, simbolo del movimento. Dopo la montagna e la ripa del fiume è la
volta del bosco, un bosco folto e orrendo, in cui gli stessi alberi sembrano emettere
lamenti, un bosco di cui le Arpie con i loro versi sono parte essenziale. All’inizio del
canto XIV apparirà chiaro, poi, come l’ampia fossa dei violenti e la dolorosa selva
siano strettamente legate l’una all’altra: l’ampia fossa dei violenti contro il prossimo
circonda la selva dei violenti contro se stessi, così come la selva circonda la pianura
desolata del sabbione rovente dove una pioggia di fuoco colpisce i violenti contro Dio
(cfr. canto XIV vv. 7-15)
Un discorso a parte merita Gerione. Il suo arrivo è preparato dagli accenni di Virgilio e
dal fragore della cascata del Flegetonte che si fa via via sempre più forte. Gerione
arriva in volo, nuotando nell’aria scura e pesante del terzo girone del VII cerchio, ma
Gerione è il guardiano dell’VIII cerchio, quello della frode, e della frode stessa è
immagine e allegoria: descritto in forme e colori vari e cangianti. Gerione non appare
nel “suo” luogo e la sua descrizione, quindi, è svincolata da quella del luogo in cui lo
incontriamo per la prima volta (cfr. canto XVI vv. 129-136).
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Teseo e Arianna, miniatura da un codice della Divina Commedia, XV sec., Siena
Riassumendo…
a) Analisi per descrizione
b) Analisi per struttura
Creatura Forma umana Forma animale
Minotauro Testa Corpo di toro
Centauri Volto e corpo fino
al petto
Dal petto in giù fattezze equine
Arpie Volto e collo -Ali
-Ventre pennuto
-Piedi con artigliGerione Volto -Serpente nel corpo
-branche pelose fino alle ascelle
-leone nelle zampe artigliate
-coda biforcuta come le pinze di uno
scorpione
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Il Minotauro
Dante e Virgilio sono appena discesi al settimo cerchio dell’Inferno, che ospita le
anime dei violenti: nel I girone del cerchio trovano posto i violenti contro il prossimo,
tiranni, omicidi e predoni; nel II girone i violenti contro se stessi, suicidi e
scialacquatori; nel III i violenti contro Dio e la natura, bestemmiatori, sodomiti e
usurai. A guardia di tutto il cerchio Dante pone l’orribile bestialità del Minotauro.
La figura del Minotauro arriva a Dante dalla mitologia greca, attraverso la leggenda del
mostro con testa taurina e corpo umano che viveva nel labirinto di Minosse, re di Creta,
costruito nel palazzo di Cnosso. Il Minotauro era nato dall’unione di Pasifae, moglie di
Minosse, con un toro. Il re volle rinchiudere il “mostro” in un labirinto, che fece
edificare da Dedalo: il labirinto era un immenso edificio costituito da un intrico di
Creatura Comparsa Ruolo
Minotauro VII cerchio: violenti
(canto XII)
Guardiano del VII cerchio
Centauri VII cerchio, I girone:
violenti contro il prossimo
(canto XII)
Controllano che tiranni, omicidi
e predoni immersi nel
Flegetonte, non sollevino il capo
fuori dalle acque del fiume
infernale più di quanto sia loro
concesso.
Uno di loro, Nesso, porterà in
groppa Dante per permettergli di
oltrepassare il fiume Flegetonte. Arpie VII cerchio, II girone:
violenti contro se stessi,
suicidi (canto XIII)
Si nutrono delle foglie delle
piante nate dalle anime dei
suicidi, provocando loro dolore e
lamenti.Gerione VII cerchio, III girone:
violenti contro Dio (canto
XVI) e VIII cerchio:
fraudolenti (canto XVII)
Guardiano dell’VIII cerchio;
trasporta Dante e Virgilio dal
VII all’VIII cerchio.
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strade, sale, corridoi, da cui nessuno eccetto il costruttore era in grado di uscire. Ogni
anno Minosse dava in pasto al Minotauro sette ragazzi e sette ragazze. Fu Teseo, figlio
del re ateniese Egeo, a liberare Creta dal terrificante rito delle giovani vite da
sacrificare al mostro: offertosi come vittima, riuscì a ucciderlo. Teseo fu aiutato nella
sua impresa dalla stessa sorella del Minotauro: Arianna, figlia di Minosse e Pasifae. La
ragazza, innamoratasi di Teseo, gli diede di nascosto un gomitolo di filo che l'eroe fissò
all'ingresso del labirinto per poi srotolarlo via via che procedeva. Seguendo il filo a
ritroso Teseo riuscì a trovare la via per tornare sui suoi passi, uscendo dal labirinto e
portando con sé, liberi e salvi, i fanciulli destinati ad essere sacrificati al mostro.
Origine mitologica e caratteristiche del Minotauro vengono racchiuse, con forte
potenza evocativa, nelle poche terzine dantesche a lui dedicate.
I versi che precedono la comparsa del Minotauro (canto XII vv. 1-30) sono gli stessi
che segnano l’ingresso di Dante e Virgilio nel cerchio dei violenti: l’aspetto della
descrizione paesaggistica, in questo caso, ha quindi la doppia funzione di introdurre al
paesaggio del cerchio e di preparare la comparsa del mostro suo guardiano.
Ho scelto di soffermarmi sui versi 1-30 del XII canto, interessanti per:
1. vv. 1-10: la descrizione del primo paesaggio che si mostra alla vista dei due
pellegrini all’ingresso del VII cerchio;
2. vv. 11-15: la descrizione della prima apparizione del Minotauro;
3. vv. 16-25: lo “scontro” tra Virgilio e il Minotauro, dove Virgilio lo affronta
verbalmente e il Minotauro reagisce dimenandosi;
4. vv. 26-30 la chiusura dell’episodio di Minosse con l’allontanarsi di Dante e
Virgilio.
Per una di quelle simmetrie spesso presenti nella Divina Commedia, e solo di rado
fortuite, la struttura del brano preso in esame risulta matematica e simmetrica: 15 versi
+ 15 versi, suddivisi in coppie di 10 + 5.
I primi 15 versi sono esclusivamente descrittivi, 10 dedicati al paesaggio e 5 al
Minotauro; gli altri 15 versi sono invece dominati dall’azione, 10 dall’azione verbale di
Virgilio nei confronti del Minotauro, e dalla reazione di quest’ultimo, e 5 dall’azione
verbale con cui Virgilio spinge Dante ad approfittare della distrazione del mostro per
allontanarsi.
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Di questo incontro mi interessa prendere in considerazione l’approccio descrittivo
adoperato da Dante per la scena, attraverso un raffronto con la possibile resa
cinematografica della sequenza.
Cinematograficamente, i primi 15 versi sono una panoramica sul paesaggio che va
stringendosi in uno zoom sul “mostro”.
La seconda parte, attiva piuttosto che descrittiva, lascia in campo tutti gli “attori”,
dando risalto volta per volta, alle loro diverse interazioni.
Canto XII vv. 1-30
(1) Era lo loco ov’a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che
v’er’anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si
mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi su fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
(2) e ‘n su la punta de la rotta lacca
l’infamia di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira spesso fiacca.
(3) Lo savio mio inver’ lui gridò:
“Forse
tu credi che qui sia ‘l duca d’Atene,
che su nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, chè questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene”.
Qual è quel toro che si slaccia in
quella
c’ha ricevuto già ‘l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,
vid’io lo Minotauro far cotale;
(4) e quello accorto gridò: “Corri al
varco;
mentre ch’e’ ‘nfuria, è buon che tu ti
cale”.
Così prendemmo via giù per lo
scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
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1. Il paesaggio (vv. 1-10)
I Inquadratura: panoramica
Il paesaggio che accoglie Dante e Virgilio è definito orrendo, ma rappresentato come il
panorama di una montagna alta scoscesa e brulla, che reca ancora i segni di una grossa
frana. La raffigurazione, comunque, non raggiunge le tinte orrende che conosceremo in
altri punti dell’Inferno.
Il passo è fortemente descrittivo e per aumentare la resa viene posto a paragone il
paesaggio della val Lagarina, presso Rovereto: si tratta di un riferimento geografico
reale, verosimilmente conosciuto da Dante non per esperienza diretta, ma attraverso la
mediazione del filosofo e teologo tedesco Alberto Magno (Lauingen 1207 - Colonia
1280), dottore della Chiesa e santo, figura-chiave per l’influenza dell’aristotelismo
nella scolastica medievale e per la ripresa degli studi di scienze naturali.
2. Il Minotauro (vv. 11-15)
II inquadratura: il campo si restringe, fino allo zoom sul Minotauro.
Come fosse una propaggine dello stesso passaggio alpestre appena descritto, sulla
cresta della costa franata appare una figura immensa, sdraiata, ingombrante: è il
Minotauro, che qui ci appare come un grosso animale feroce e pigro, ritratto nell’ozio
del suo momento di riposo, appesantito dalla sua stessa bestialità. La mitologia classica
racconta che Teseo dentro al labirinto trovò Minosse addormentato, e Dante mostra di
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conoscerla bene: la prima immagine del mostro che appare ai suoi occhi è infatti un
mostro disteso, immobile, come assopito.
All’apparire dei due pellegrini, il Minotauro ha un balzo, si morde, certo di rabbia:
guardiano del cerchio dei violenti, è esso stesso un iracondo che sfoga sulla propria
carne la rabbia feroce che lo divora. Il mordersi del Minotauro segna il passaggio
dall’immobilità (del paesaggio prima e del Minotauro disteso poi) al movimento che
dominerà le sequenze seguenti. Il Minotauro prende vita, si muove, dando così avvio
alla sequenza seguente, all’ “azione” di Virgilio.
Già in due dei primi versi a lui dedicati (vv. 12-13) troviamo, condensata in poche
parole, la storia “classica” del Minotauro: l’infamia di Creti e concetta ne la falsa
vacca raccontano la sua infamante nascita dall’unione della moglie del re di Creta con
un toro, ed insieme evocano le giovani vite a lui offerte in pasto nel labirinto.
Ma se nella leggenda antica il Minotauro ha corpo d’uomo e testa di toro, qui è il
contrario: il corpo disteso è senza dubbio quello di una bestia, e l’immagine del toro
sarà evocata anche nella metafora del verso 22.
3. Virgilio vs Minotauro
III inquadratura: ripresa dell’azione con tutti i protagonisti in scena, primi piani su
Virgilio e sul Minotauro; Dante in secondo piano.
La sequenza si apre immediatamente con le parole di Virgilio.
Il savio (v. 16) poeta usa l’arma della parola (e quindi la ragione, l’anima, il pensiero)
contro la bestialità iraconda del mostro: Pàrtiti, bestia è l’imperativo con cui lo
affronta.
Forse il Minotauro alla vista di un uomo in carne ed ossa, e non di una delle anime cui
è avvezzo, crede di aver visto Teseo, il giovane che lo uccise liberando Creta? Il
giovane che uccise il “mostro” grazie all’aiuto di Arianna, sorella stessa del
Minotauro?
Nelle parole di Virgilio trova ancora posto qualche frammento della storia “terrena”
dell’iracondo guardiano del cerchio.
Il Minotauro non dice una parola, anzi, rispettando alla lettera le parole di Dante, non
emette neppure un suono. La sua espressione è fatta di movimento: e come prima si
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mordeva di rabbia alla vista dei due, adesso, dopo le parole di Virgilio, ricomincia a
dimenarsi: questa volta qua e là saltella, in tondo, brancolando su se stesso senza
scampo, come un toro che tenta di fuggire una morte che ormai lo ha già preso.
La manifestazione tipica del Minotauro dantesco è il vano tentativo di esprimere una
rabbia cieca che lo divora, e lo vince.
4. Dante e la fuga
III inquadratura: ripresa dell’azione con tutti i protagonisti in scena, primi piani su
Virgilio e Dante; il Minotauro in secondo piano. La scena si chiude su Virgilio e Dante
che si allontanano. Gli ultimi cinque versi hanno per protagonisti Virgilio e Dante.
Virgilio, vero regista dell’azione, dopo aver distratto con le sue parole il mostro si
rivolge a Dante. Se verso il mostro era stato savio (v. 16), adesso, nei confronti di
Dante, è accorto (v. 26) e per proteggerlo lo invita ad allontanarsi, a mettersi al riparo
mentre il mostro, distratto dalla propria stessa rabbia, continua a dimenarsi.
Dante non parla, assiste silenzioso. Lo immaginiamo impaurito, incerto, nascondersi al
riparo delle parole e dei gesti del maestro.
La scena si chiude sui due pellegrini che si allontanano scendendo lungo la scarpata,
fino a valle, mentre i loro passi muovono le pietre del ripido sentiero.
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I Centauri
Siamo ancora nel canto XII, e ancora nel VII cerchio.
Qui, nel I girone, coloro che in vita furono violenti contro il prossimo o contro i suoi
averi, vivono la loro dannazione immersi nelle acque bollenti del Flegetonte. A guardia
della loro pena corrono lungo il fiume i Centauri, controllando che tiranni, omicidi e
predoni non sollevino il capo fuori dalle acque del fiume infernale più di quanto sia
loro concesso. Nella mitologia greca i Centauri, figli del re dei Lapiti Issione e di
Nefele (la nuvola), avevano forma umana dal petto in su e forma equina nel resto del
corpo e vivevano nelle regioni montuose della Tessaglia e dell'Arcadia. Ai Centauri la
mitologia attribuisce vizi e virtù degli uomini portate a livelli elevatissimi, e quindi
ruoli contrastanti di estrema saggezza (Chirone) o di estrema crudeltà. Secondo molte
leggende, i Centauri vivevano dedicandosi a episodi di rapina e di sangue, rappresentati
come barbari e violenti, dediti al bere, alla lussuria, seguaci di Dioniso, dio del vino. I
Centauri furono cacciati dalla Tessaglia quando, ubriachi, alla festa di nozze del re dei
Lapiti tentarono di rapirne la sposa. La loro doppia fama di crudeltà e rapina da una
parte e di umanità e saggezza dall’altra, ben rappresentate nella doppia natura, trovano
eco nelle terzine dantesche. Come simbolo di violenza e rapina Dante li mette a guardia
del girone dei violenti contro il prossimo, ma nello stesso tempo riserva loro, e in
special modo a Chirone, un trattamento rispettoso: Virgilio parla, spiega, chiede loro
aiuto, si direbbe quasi “da uomo a uomo”.
Quanto l’episodio del Minotauro è caratterizzato dalla descrizione di scene “immobili”
in cui tutta l’azione si gioca tra le parole di Virgilio e il dimenarsi su se stesso del
mostro, tanto l’episodio dei Centauri è caratterizzato dal movimento.
Fin dalla loro prima comparsa, i Centauri sono in movimento, e il movimento domina
tutte le terzine a loro dedicate. I Centauri, inoltre, sono dotati del dono della parola,
negato al Minotauro: essi parlano tra loro e con Virgilio, e questo vale soprattutto per
Chirone, uno dei centauri più illustri, che il mito vuole maestro di Achille.
Così come nell’incontro con il Minotauro, però, Dante non prende iniziativa alcuna e,
al contrario, segue silenzioso gli spostamenti di Virgilio.
Ho deciso di suddividere il testo scelto in quattro sezioni:
1. vv. 52 - 57: descrizione del paesaggio del I girone e prima comparsa dei Centauri;
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2. vv. 58- 67: primo breve dialogo tra Virgilio e uno dei Centauri;
3. vv. 67-75: Virgilio presenta a Dante i Centauri e le loro storie;
4. vv. 76-99: il dialogo tra Virgilio e Chirone.
Idealmente si tratta di due lunghe sequenze (la 1. e la 2. da una parte e la 4 dall’altra)
caratterizzate dall’incontro tra Dante e Virgilio e i Centauri, intervallate dalla
digressione (la 3) con cui Virgilio racconta a Dante le “mitiche” storie da cui i Centauri
provengono.
Canto XII vv. 52-99
(1) Io vidi un’ampia fossa in arco
torta,
come quella che tutto ‘l piano
abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;
e tra ‘l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a
caccia.
(2) Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e l’un gridò da lungi: “A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l’arco tiro”.
Lo mio maestro disse: “La risposta
Farem noi a Chiròn costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta”.
(3) Poi mi tentò, e disse: “Quelli è
Nesso,
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
è il gran Chiròn, il qual nodrì Achille;
(4) Noi ci appressammo a quelle fiere
isnelle:
Chìron prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: “Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca?
Così non soglion far li piè de’ morti”.
E ‘l mio buon duca, che già li er’al
petto,
dove le due nature son consorti,
rispuose: “Ben è vivo, e sì soletto
mostrarli mi convien la valle buia;
necessità ‘l ci ‘nduce, e non diletto.
Tal si partì da cantare alleluia
Che mi commise quest’officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a
provo,
e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l’aere vada”.
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quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira.
Dintorno al fosso vanno a mille a
mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille”.
Chiròn si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: “Torna, e sì li guida,
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa”.
Del brano mi interessa prendere in considerazione il lessico e, in particolare:
- i termini che indicano il movimento;
- i termini relativi alla sfera delle armi indossate dai Centauri.
1. Il paesaggio (vv. 52 – 57)
Il luogo in cui incontriamo per la prima volta i Centauri è uno spiazzo circolare, posto
tra i piedi della parete rocciosa sovrastante, da dove discendono Dante e Virgilio dopo
l’incontro con il Minotauro, e il fiume infernale Flegetonte. È qui, nell’ampia fossa (v.
52) circolare del girone, che irrompe lo scalpiccio degli zoccoli dei Centauri, che
galoppano in gruppo, tutti insieme, come cavalli nella piazza circolare di un palio
toscano.
1. I Centauri (vv. 58- 66)
I Centauri irrompono in corsa, tutti insieme, sorpresi nell’atto a loro più familiare in
vita: come solien nel mondo andare a caccia (v. 57). Molte creature dell’Inferno,
guardiani o dannati poco importa, alla vista di Dante e Virgilio interrompono l’abituale
“occupazione”, nella quale vengono descritti alla loro prima apparizione. Lo abbiamo
già visto per il Minotauro, ma se la bestia, sdraiata, come immobile, aveva preso vita
soltanto alla vista dei due, qui avviene l’esatto contrario: i Centauri sono in movimento
e solo all’arrivo di Dante e Virgilio interrompono di colpo la loro folle corsa. Tutte le
dinamiche del “branco” sono rispettate dal manipolo dei Centauri: essi si fermano, un
gruppetto si stacca, va in avanscoperta, mentre uno di loro prende l’iniziativa e la
parola, per informarsi sui nuovi venuti. Come sapremo poco dopo (noi insieme a
Dante) grazie alle parole di Virgilio, si tratta del centauro Nesso.
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Ma Virgilio vuole parlare soltanto con Chirone, il maestro di Achille, e così dicendo
prepara l’attesa per la comparsa del più saggio tra i Centauri, comparsa che avverrà
soltanto al v. 77.
2. Virgilio racconta i Centauri (vv. 67-75)
A differenza di quanto era avvenuto con il Minotauro, le storie della “prima” vita dei
Centauri non restano implicite, condensate in poche parole e rese come incisi o
aggettivi, ma vengono narrate in modo esplicito da Virgilio. Proprio attraverso la
digressione si raccontano per bocca di Virgilio alcuni elementi sulla vita precedente dei
due più illustri Centauri: Nesso e Chirone.
Nella mitologia greca Nesso, traghettatore sul fiume Eveno, venne ucciso da Eracle
con una freccia avvelenata per aver tentato di rapirne la sposa, Deianira, durante
l’attraversamento del fiume. Eracle lo uccise con una freccia avvelenata dal veleno
dell’Idra di Lerna, ma Nesso, prima di morire, consegnò a Deianira un liquido, fatto del
suo sangue mescolato al veleno della freccia, spacciandolo per un filtro d’amore.
Quando Eracle si innamorò della principessa Iole, Deianira seguì il consiglio del
Centauro, compiendone inconsapevolmente la vendetta postuma: per riconquistarlo, gli
fece indossare una tunica imbevuta del veleno provocandone così una morte atroce.
Chirone, invece, viene presentato esclusivamente come maestro di Achille. Del resto,
fin dalla mitologia greca Chirone ebbe sorte differente dagli altri Centauri: noto per la
sua bontà e saggezza, fu l’educatore di molti eroi greci, tra cui Achille e Giasone.
La digressione lega però il passato al presente, chiudendosi con una terzina dedicata
alla nuova attività dei Centauri: correndo a migliaia lungo le rive del Flegetonte, essi
colpiscono con le loro frecce le anime che tentano di sollevare il capo dalle bollenti
acque del fiume più di quanto consentito dalla pena ricevuta.
4. Virgilio e Chirone (vv. 76-99)
Virgilio chiede di parlare con il centauro Chirone, maestro di Achille, noto fin dalla
mitologia greca per la sua grande saggezza, ed è proprio Chirone, infatti, ad accorgersi
che Dante è una creatura in carne ed ossa, e non un’anima come le altre, nel regno
dell’Oltretomba. Virgilio si avvicina al petto di Chirone, dove le due nature son
consorti (v. 84), e gli parla con calma e con rispetto, spiegando il perché del loro
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viaggio attraverso l’Inferno e attribuendone la realizzazione alla volontà celeste di
Beatrice; infine gli chiede aiuto per attraversare il Flegetonte.
Parole, atteggiamenti, e spiegazioni, non riservate a molti guardiani dell’Inferno.
Inferno, I girone del VII cerchio: Dante e Virgilio tra i violenti contro gli altri, miniatura da un codice emiliano della Divina Commedia, XIV sec., Siena
I Centauri: le parole del movimento e delle armi
Centrale, nelle terzine dedicate ai Centauri, è il movimento: un ritmo quasi al galoppo
che si afferma fin dal loro comparire, come cavalli in gara, in battuta di caccia, o in
guerra.
La caratteristica del movimento emerge con forza, in contrasto coi precedenti versi del
canto, caratterizzati da un andamento più statico e lento: l’incontro con il Minotauro
(vv. 1-30), la sequenza dedicata alla spiegazione di Virgilio sui cambiamenti avvenuti
in quel luogo dell’Inferno dopo la venuta di Cristo e sulle pene pagate in questo cerchio
(vv. 31- 51).
Il ritmo delle terzine è veloce e il movimento si rispecchia nel lessico.
Ricerchiamo nelle terzine dedicate alla descrizione dei Centauri e al loro agire i termini
afferenti a due campi semantici: quello del movimento e del fare, e quello delle armi,
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per mettere in rilievo come e quanto la descrizione sia strettamente intrecciata alle
diverse scelte lessicali.
Le parole del movimento
v. 52 – un’ampia fossa in arco torta: lo stesso paesaggio, di forma circolare, partecipa
del
movimento;
v. 56 – corrien centauri: la loro prima comparsa li coglie nel movimento, nella corsa;
v. 57 – come solien nel mondo andare a caccia: la loro vita terrena era all’insegna del
movimento;
v. 58 – ciascun ristette: si fermano, di colpo, alla vista dei due;
v. 59 – tre si dipartiro: ma subito tre si allontanano dal gruppo per parlare coi nuovi
venuti;
v. 61 – l’un gridò da lungi ;
v. 73 – dintorno al fosso vanno a mille a mille;
v. 76 – fiere isnelle: qui l’idea del movimento non è esplicita, ma racchiusa
nell’immagine della
figura veloce del centauro;
v. 77 – Chiron prese uno strale.
Le parole delle armi
v. 52 – un’ampia fossa in arco torta: la forma circolare è espressa attraverso
l’immagine
dell’arco, arma prediletta dei Centauri;
v. 56 – armati di saette;
v. 57 – come solien nel mondo andare a caccia;
v. 60 – con archi e asticciuole prima elette;
v. 63 – con l’arco tiro: la minaccia del Centauro è colpire con le frecce i nuovi venuti;
v. 74 - 75 – saettando qual anima si svelle / del sangue più che sua colpa sortille:
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legato all’arco e alle frecce è il ruolo dei Centauri nel I girone del VII cerchio;
v. 77 – Chiron prese uno strale.
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Le Arpie
Il canto XIII si apre sulla descrizione di un nuovo ambiente: entriamo con Dante e
Virgilio nel secondo girone del VII cerchio, dove soggiornano i violenti contro se stessi
nella persona e negli averi, suicidi e scialacquatori. Protagoniste di questo ambiente
sono le terribili Arpie.
Analizziamo i primi 21 versi del canto, in particolar modo quelli destinati alla
descrizione del paesaggio e delle Arpie.
La triste selva delle Arpie
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La triste selva delle Arpie
Canto XIII vv. 1-21
1. Non era ancor di là Nesso
arrivato,
quando noi ci mettemmo per un
bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color
fosco;
non rami schietti, ma nodosi e
‘nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con
tòsco.
Non han sì aspri sterpi né si folti
quelle fiere selvagge che ‘n odio
hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi còlti.
2. Quivi le brutte Arpie lor nidi
fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ‘l gran
ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
E ‘l buon maestro “Prima che più
entre,
sappi che se’ nel secondo girone”,
mi cominciò a dire, “e sarai mentre
che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
Cose che torrien fede al mio
sermone”.
Il paesaggio è ben connotato fin dal secondo verso del canto: siamo in un bosco. Se
nella selva oscura del canto I la diritta via era smarrita, ma quindi esisteva, in questa
nuova selva la via non esiste: questo è un bosco che da neun sentiero era segnato.
Il paesaggio non ancora umanizzato del bosco senza sentieri, così simbolico nel nostro
immaginario, era una realtà assolutamente normale nel Medio Evo di Dante. Nel suo
pellegrinare per l’Appennino tosco-emiliano, e non solo, l’esule Dante avrà certo
sfiorato o attraversato alcuni dei paesaggi che trovano eco tra le terzine dell’Inferno.
In questo incipit di canto sentiamo lo spaesamento del viandante medievale (e cos’è
Dante nell’Inferno se non un viandante?) di fronte a un bosco non tracciato,
sconosciuto, privo di punti di riferimento certi. Il bosco è il luogo dove si perdono i
contatti con la realtà, dove più facilmente si nascondono le insidie. In assenza di vie già
segnate, sono i sensi che guidano il cammino, e la descrizione della selva avviene
attraverso vista, udito, tatto: fronde di colore scuro, rami nodosi, spine velenose,
lamenti indistinti che sembrano provenire dai rami, i versi striduli e fastidiosi delle
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Arpie. Gli elementi del paesaggio sono dati tutti per negazione e attraverso una serie di
antitesi: neun sentiero; non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; non frutti ma spine
velenose; non han si aspri sterpi nè si folti i paesaggi della bassa Maremma toscana,
regno del cinghiale, animale selvatico per eccellenza, quanto mai diffuso nel Medio
Evo.
La descrizione stessa è data con stile frammentato: una serie di terzine, ogni terzina un
frammento.
Tutta la rappresentazione del paesaggio è resa con stile involuto, dove l’asprezza del
paesaggio, esplicitata nello stesso verso 7, è rispecchiata nell’asprezza dello stile, nelle
frequenti antitesi (non … ma) e anafore (ma… ma… ma…). Un paesaggio (e come il
paesaggio lo stile) che assomiglia a un groviglio, strettamente legato, quindi, alle anime
che lo abitano: i suicidi, caratterizzati in vita da una personalità tanto tormentata da
spingerli a darsi la morte. Tutt’uno con questo aspro paesaggio è la figura delle Arpie.
Presentate immediatamente come le brutte Arpie (v. 10), con volto e collo umani,
ventre arti e ali pennute di uccello, appollaiate sui rami della selva in cui hanno fatto il
nido, si nutrono delle foglie delle piante nate dalle anime dei suicidi, provocando loro
dolore e lamenti.
I lamenti delle anime punite si mischiano così ai versi delle Arpie, in un unico
paesaggio sonoro.
Le brutte Arpie
La parola arpia deriva dal greco arpazo, ovvero "rapisco".
Nella mitologia greca erano tre sorelle, Aello, Ocipete e Celeno, e impersonavano i
venti marini tempestosi, che rapivano i naufraghi durante le burrasche, sotto forma di
venti. Successivamente acquistarono carattere di divinità infernali, che rapivano le
anime dei morenti trasportandole nell'aria.
Nell'Odissea le incontriamo nella veste di venti portatori di tempeste marine, rapitrici
che travolgono (...) senza gloria navi e umani:
“[…] ecco che le fanciulle le Arpie rapirono in aria,
e in balia delle Erinni odiose le diedero.” (Odissea, XX, 77-78)
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Nella tradizione, furono proprio due marinai “mitici”, due Argonauti, a sconfiggerle e
a relegarle nelle Strofadi, dove le incontra Enea, approdato su queste isole dopo tre
giorni di naufragio:
“[…] Strofadi grecamente nominate
Son certe isole in mezzo al grande Jonio,
Da la fera Celeno e da quell'altre
Rapaci e lorde sue compagne arpie
Fin d'allora abitate […]
[…] Altro di queste
Più sozzo mostro, altra più dira peste
Da le tartaree grotte unqua non venne.
Sembran vergini a' volti, uccegli e cagne
A l'altre membra; hanno di ventre un fedo
Profluvio, ond'è la piuma intrisa ed irta,
Le man d'artigli armate, il collo smunto,
La faccia per la fame e per la rabbia
Pallida sempre, e raggrinzita e magra […]” (Eneide, III, 354-358 e 361-368)
La visione e la descrizione di Dante è quindi essenzialmente ispirata all'Eneide.
Nella sua descrizione, però, Dante recupera dalla tradizione un altro elemento
importante: il lamento dei loro versi. Secondo alcune varianti del mito, sopravvissute
nella tradizione medievale, il canto delle Arpie era infatti molto simile a quello delle
Sirene: gli uomini che ascoltavano le loro nenie restavano ipnotizzati, perdendo il
libero arbitrio e provando un incredibile senso di attrazione nei loro confronti.
Nel XVI secolo, nell’Orlando Furioso, Ariosto ne farà una descrizione molto simile a
quella dantesca, anche se le Arpie saranno sette (invece di tre) e simboleggerano le
sette pestilenze per i sette peccati mortali:
“[…] Erano sette in una schera, e tutte
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Volto di donne avean pallide e smorte,
Per lunga fame attenuate e asciutte
Orribili a veder più che la morte:
L'alaccie grandi avean deformi e brutte,
le man rapaci, e l'ugne incurve e torte;
Grande e fetido il ventre, e lunga coda
Come di serpe che s'aggira e snoda […]” (Orlando Furioso, XXXIII, 120)
Allor fui io più timido allo scoscioInferno c. XVII v. 121
Incisione di Gustave Dorè per la Divina Commedia
Gerione
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La prima comparsa di Gerione, a lungo preparata dagli accenni di Virgilio e dal “rito
della corda”, avviene nel canto XVI, nel III girone del VII cerchio, quello dei violenti
contro Dio e la natura, tra sodomiti, bestemmiatori e usurai. Mentre il fragore della
cascata del Flegetonte si fa sempre più forte, Dante e Virgilio si avvicinano alla sponda
di un profondo burrone, l’alto burrato che si apre sul cerchio successivo di Malebolge,
il cerchio della frode. È qui che Gerione arriva in volo, nuotando nell’aria scura e
pesante, ma Gerione è il guardiano del cerchio seguente, l’VIII, quello della frode. Il
VII cerchio, non è il “suo” luogo: di conseguenza, la sua descrizione risulta autonoma
rispetto a quella del paesaggio (cfr. canto XVI vv. 129-136); per la stessa ragione,
poiché appartiene ad altro luogo, Gerione è atteso arrivare da sopra, da un altrove, e
arriverà in volo.
Rispetto al Minotauro, ai Centauri, alle Arpie, il Gerione dantesco è portatore non di
due ma di più nature diverse: è umano nel volto e nel tronco, ma raccoglie in sé il
corpo di un serpente, le zampe di un leone, la coda di uno scorpione, tanto che in lui
più che nelle altre figure “della doppia natura” appare forte l’influenza della cultura
medievale: dalla rappresentazione nell’arte romanica e gotica dei bestiari medievali,
alla rielaborazione della tradizione evangelica delle locuste nel Vangelo di San
Giovanni.
Nella tradizione classica, Gerione era un gigante a tre corpi e tre teste: le tre nature
animali, quindi, non sono, almeno numericamente, una novità; nel mito era re di
un’isola o di una zona costiera e nutriva il suo gregge con la carne umana degli ospiti
ammazzati a tradimento: questo finché Ercole, in una delle sue dodici fatiche, non lo
ammazzò per impossessarsi del gregge.
I brani dedicati all’incontro con Gerione attraversano due canti, e sono identificabili in
tre momenti fondamentali, caratterizzati da toni e atmosfere particolari:
1. l’attesa; 2. la descrizione; 3. il volo.
1. L’attesa
Nella prima parte, l’attesa, Dante ci induce a trattenere il fiato: è un momento di grande
suspence, in cui le parole e i gesti rituali di Virgilio lasciano intravedere che qualcosa
di importante sta per accadere. E noi, con lui, aspettiamo.
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Tutti i brani dedicati ai mostri della doppia natura, al Minotauro come ai Centauri o
alle Arpie, hanno rivelato un carattere molto descrittivo e scarsamente simbolico; i
brani dedicati a Gerione, e questo primo in particolare, hanno invece una valenza
simbolica molto forte, che, preponderante in questo primo brano, si intreccerà nel canto
seguente al tradizionale realismo descrittivo.
Canto XVI vv. 106-136
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me
sciolta,
sì come ‘l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ond’ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’alto burrato.
‘E’ pur convien che novità
risponda’,
dicea fra me medesmo, ‘al novo
cenno
che ‘l maestro con l’occhio si
seconda’.
Ahi quanto cauti li uomini esser
dienno
Presso a color che non veggion pur
l’ovra,
ma per entro i pensier miran col
senno!
El disse a me: “Tosto verrà di sovra
Ciò ch’io attendo e che il tuo pensier
sogna;
tosto convien ch’al tuo viso si scovra”.
Sempre a quel ver c’ha faccia di
menzogna
De’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el
puote,
però che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer non posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vote,
ch’i’ vidi per quell’aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
che ‘n su si stende e da piè si rattrappa.
Dapprima Dante viene invitato, o meglio comandato, dalla sua guida a sciogliere la
cintura di corda che indossa sulle vesti: una cintura con cui alcuna volta aveva pensato
di prender la lonza.
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Non sappiamo se la lonza qui evocata è la stessa incontrata nel canto I, all’ingresso di
Dante nell’Inferno, o una lonza incontrata dal Dante poeta nel mondo dei vivi. A dir la
verità, non sappiamo neppure di che genere di felino si tratti precisamente, ma senza
dubbio la lonza è un simbolo di valenza negativa, immagine di lussuria o frode. Di
contro, la cintura che Dante indossa è immagine allegorica della virtù: è con quella
cintura, con la virtù, che Dante pensò un giorno di prendere al lazzo la lonza, di vincere
la lussuria o la frode. Adesso, la cintura è raggomitolata e attorcigliata nelle mani di
Dante (forse Dante non sa come usarla) e adesso gli viene richiesta da Virgilio: sì,
ma… perché? Dante ubbidisce alla sua guida, Dante osserva, Dante tace (come quasi
sempre fa davanti alla sua guida) ma il perché, il significato di quel “rito” gli sfugge. E
mentre Virgilio lancia dal lato destro la corda giù nel burrone, Dante pensa e ripensa
ma continua a non capire. Tra le terzine della Commedia Dante tace spesso, ma pensa
in continuazione: il suo pensiero, che osserva vaglia confronta si interroga, è il filo
stesso del racconto; questa volta, però, l’atto del pensare è esplicitato: dicea tra me
medesmo (v. 116), scrive Dante. Virgilio indovina i suoi pensieri, e aggiunge con le sue
parole un nuovo tassello all’attesa: “presto arriverà ciò che io attendo e che tu cerchi di
indovinare, e arriverà di sovra, dall’alto”. Tanto è straordinario quanto accade subito
dopo, che Dante ha bisogno di giurare per le stesse note della sua Commedia che quel
che dice è vero, che non è un ver ch’ha faccia di menzogna (proprio il contrario della
frode, menzogna che ha faccia di vero). Ecco arrivare dall’alto una figura ancora
indescrivibile, che farebbe meraviglia anche ai coraggiosi e agli esperti, non ha nome
né aspetto, per il momento, è solo una figura che arriva nuotando nell’aria densa e
scura, come un marinaio che si slancia dal fondo del mare, da dove ha appena estratto
l’ancora, per tornare a galla.
2. La descrizione
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Canto XVII vv. 1-30
“Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e
l’armi!
Ecco colei che tutto ‘l mondo
appuzza!”:
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin de’ passaggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
Sen venne, e arrivò la testa e ‘l busto,
ma ‘n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodie di rotelle.
Con più color, sommese e sovraposte
Non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ‘l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: “Or convien che si torca
La nostra via un poco insino a quella
Bestia malvagia che colà si corca”.
L’incipit del canto XVII costituisce lo scioglimento della lunga attesa del canto
precedente: Ecco la fiera, ecco Gerione. Le carte adesso sono scoperte: questa è la
creatura tanto attesa. Alla vaga presentazione precedente, segue adesso una descrizione
puntuale, caratterizzata da termini ben precisi: ecco la fiera, al verso 1, e quasi
possiamo toccarla, adesso che è finalmente arrivata.
Come nella sua prima comparsa, anche in questo brano Gerione porta con sé una forte
valenza simbolica, ma qui il simbolismo è accompagnato da una struttura descrittiva:
più che in altri passi dell’Inferno, infatti, appare chiaro come ogni elemento della
descrizione sia funzionale rispetto al valore simbolico che si vuole trasmettere. Tutti gli
elementi della descrizione realistica di Gerione sono finalizzati alla resa del suo
significato simbolico: l’immagine della frode.
Il lessico usato nella descrizione ruota attorno a tre elementi principali:
1. gli epiteti negativi;
2. le immagini descrittive legate alla vista, ai colori, all’olfatto;
3. i termini che richiamano un’idea di movimento e, soprattutto, di torsione.
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1. Gli epiteti negativi - La fiera, che in questo brano non viene ancora chiamata per
nome, è (sozza) imagine di froda al verso 7; fiera pessima al verso 23; bestia malvagia
al verso 3. Contro nessuna delle creature dalla doppia natura Dante si era scagliato in
modo così diretto, sebbene la parte umana del mostro sia volutamente descritta come
faccia d’uom giusto, tanto benigna nel suo aspetto esteriore: e che altro aspettarsi dal
simbolo della frode?
2. Le immagini descrittive legate alla vista e all’olfatto. Molte delle immagini usate per
la descrizione di Gerione appartengono ai campi semantici della descrizione visiva e
olfattiva.
Rimandano alla vista, ai colori, il verso 15, il suo corpo è dipinto di nodi e di rotelle, e
la metafora seguente (vv. 16-18) dei colori sui tappeti orientali o sulle tele di Aracne.
Altro elemento che connota Gerione è olfattivo, la puzza, in modo esplicito al verso 3,
che tutto il mondo appuzza, in modo implicito al verso 7, la sozza imagine di froda.
3. I termini che richiamano un’idea di movimento e di torsione. Gerione, che arriva in
volo da altro luogo e che in volo traghetterà Dante e Virgilio al cerchio successivo, non
è una figura statica. Fin dal verso 2, Gerione è la fiera che passa i monti e rompe i muri
e l’armi!; la sua coda, simbolo ultimo dell’inganno, non viene tratta a riva (verso 8),
ma rimane a guizzare penzolando nel vuoto (verso 25). La descrizione è inoltre legata
all’idea della torsione, del viluppo: il suo corpo è ricoperto di nodi e di rotelle (verso
15) e il verbo torcere compare al verso 28 e al verso 26.
L’immagine della torsione e del nodo riportano all’idea dell’inganno: ciò che ha fine di
frode non può apparire chiaro, lineare.
La descrizione propriamente fisica di Gerione si concentra nelle due terzine centrali
(vv. 10-16) e qui il realismo descrittivo meglio si sposa con il valore simbolico.
Gerione ha faccia d’uom giusto, benigna nell’aspetto, per meglio guadagnare la fiducia
altrui, ma il corpo è di serpente, con zampe artigliate da leone, pelose fino alle ascelle,
e una coda biforcuta come le pinze di uno scorpione, velenosa, che non mostra ai due
viandanti, ma tiene ben nascosta, a penzolare nel vuoto del burrone, per non svelare la
propria natura. Questa sua volontà di non svelare del tutto la propria natura è chiara al
verso 9, quando Gerione arriva, mostra la testa e il busto, la parte migliore di sé, ma
nasconde la coda, che rappresenta la vera essenza della sua natura, il primo elemento
descrittivo che ci era stato dato di lui al verso 1: Gerione è innanzitutto la fiera dalla
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coda aguzza. Ancora, ai versi 26 e 27, la coda di Gerione è venenosa forca, biforcuta e
armata come quella di uno scorpione: l’arma velenosa con cui la frode colpisce chi si è
fidato del suo viso d’uomo giusto.
3. Il volo
Il canto XVII è in qualche modo il canto di Gerione: non siamo ancora arrivati all’VIII
cerchio, di cui è il guardiano, e le anime che in questo canto incontra Dante sono
ancora del cerchio precedente, eppure Gerione ne è il vero protagonista. Dopo l’attesa,
dopo la descrizione, arriva il momento del volo: sulle spalle di Gerione, Dante e
Virgilio traghetteranno dal VII all’VIII cerchio. Gli ultimi sessanta versi del canto
XVII sono il racconto di un volo, descritto ancora con termini marinari, come nella
prima comparsa di Gerione al termine del canto precedente, e ancora segnato dagli
elementi principali della descrizione precedente. Il legame con i passi precedenti è
evidente nei termini e nelle immagine legati al mare, al nuotare, al navigare, e già
incontrate per Gerione: navicella (verso 100), il movimento dell’anguilla (verso 104), il
nuotare lento nell’aria (verso 115). Lo stesso vale per l’elemento centrale della
descrizione fisica del mostro, la coda, che compare ai versi 84, 103-105, e per le
immagini della torsione e del roteare, presenti ai versi 98, 115 e 131(e ancora nel
gorgo del verso 118 e nel girar del verso 125).
L’immagine dominante del brano è l’ebbrezza del volo, paura ed euforia insieme. Dalle
terzine emerge, anche se non esplicitato, il miracolo della leggerezza con cui l’enorme
mole del fiero animale dalle possenti spallacce (versi 80 e 91) si libra con estrema
leggerezza, nuotando e roteando nell’aria (versi 115-116), come il falcone che
discende isnello nella metafora dei versi 128-132. Con Dante sentiamo l’aria intorno,
sentiamo il movimento nel vuoto, ma più di tutto sentiamo la paura, vera protagonista
del brano. La paura di Dante domina tutta la sequenza: nella metafora dei brividi e del
tremare della febbre quartana (versi 85-88), nella voce che vien meno al desiderio di
essere sorretto e protetto dall’abbraccio del maestro (versi 92-93), nelle immagini degli
sfortunati voli di Fetonte e Icaro (versi 106-111), ma più di tutto nel momento in cui la
curiosità gli fa sporgere un po’ la testa, per guardare un attimo giù, ma la paura lo fa
ritrarre e aggrapparsi quatto quatto (versi 118-123). Non avremmo potuto immaginare,
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e sentire, meglio il volo: l’emozione e la paura diviene così un altro elemento del
realismo di Dante.
Canto XVII vv. 79-136
Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: “Or sie forte e ardito.
Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male”.
Qual è colui che sì presso ha ‘l riprezzo
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ‘l rezzo,
tal divenn’io a la parole porte;
ma vergogne mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’io credetti: ‘Fa che tu m’abbracce’.
Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
Ad altro forse, tosto ch’i’ montai
Con le braccia m’avvinse e mi sostenne;
e disse: “Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai”.
Come la navicella esce di loco
In dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,
là v’era ‘l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ‘l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui “Mala via tieni!”,
che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia già da la man destra il gorgo
Far sotto noi un orribil scroscio,
per che con li occhi ‘n giù la testa sporgo.
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ‘l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.
Come ‘l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote,e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
si dileguò come da corda cocca.
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III - Rappresentazione del comico: mostri con atteggiamenti umani
Diavoli Malebranche - canto XXI; canto XXII vv. 133-151; canto XXIII vv. 13 - 57
Malebolge e Malebranche
Al centro dell’imbuto infernale si trovano le dieci bolge dell’VIII cerchio, Malebolge,
destinate alle anime colpevoli di frode e inganno nei confronti di chi non si fida.
Per gravità di colpa e di pena non siamo ancora nel Cocito, dove si sconta la peggiore
tipologia di male e cioè l’inganno contro chi si fida, ma l’atmosfera che si respira nelle
descrizioni dei paesaggi, delle atmosfere, e degli stessi custodi è già quella del
profondo inferno.
Custodi della V bolgia sono i diavoli Malebranche; qui, nella pece bollente,
“dimorano” le anime dei barattieri: coloro che in vita trafficarono con le cariche
pubbliche, a fini di lucro personale. Proprio con l’accusa di baratteria Dante aveva
subito l’esilio da Firenze, ma niente in questi canti fa supporre che egli potesse sentirsi
colpevole di qualche colpa contro la cosa pubblica e il bene della sua città. A diavoli
malebranche e barattieri sono dedicati gli interi canti XXI e XXII, e la parte iniziale del
canto XXIII.
I diavoli restano i veri protagonisti della V bolgia dell’VIII cerchio. Essi ci appaiono
con le tradizionali fattezze che la rappresentazione iconografica medievale riservava
loro, ma con una sostanziale “differenza di stile”.
Nell’architettura e nell’arte, sulle facciate delle cattedrali, nella letteratura agiografica o
nelle tradizioni popolari i diavoli, temuti e pericolosi, erano descritti con toni
drammatici o rappresentati con tratti crudeli e spaventosi: la funzione della loro
rappresentazione era essenzialmente educativa, dovevano spaventare e attraverso la
paura indurre all’obbedienza, e al bene. Nell’inferno dantesco, invece, i fraudolenti,
crudeli e brutti diavoli sono descritti con stile giocoso, e umile, attraverso lazzi e giochi
di parole, pasticci linguistici, richiami alla poesia burlesca o alla letteratura semiseria in
genere. Dante mantiene un’autonomia dalla tradizione anche nei nomi che assegna
loro: di tutti, soltanto Alichino e Farfarello appartengono alla tradizione della
demonologia medievale, mentre gli altri nomi sono inventati, spesso costruiti partendo
da nomi già esistenti, seguendo anche in questo la caratteristica innovazione dello stile
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comico. Così, se è immediatamente chiaro il significato attribuito a nomi come
Malacoda Barbariccia Graffiacane Cagnazzo, più fantasiosa è invece l’invenzione di
Libicocco, unione dei venti di Libeccio e Scirocco, o Draghignazzo, che ricorda il
ghigno da drago, o ancora Rubicante, che richiama nell’etimologia sia la rabbia che il
rosso, colore dell’ira, e che è appunto definito pazzo.
I diavoli, entità fisicamente non umane né animali, riuniscono nei loro atteggiamenti
sia le caratteristiche di un mondo animalesco e istintivo, sia le caratteristiche di un
mondo umano finalizzato alla frode e all’inganno. Nella loro caratterizzazione, quindi,
rientrano sia gli elementi animaleschi di una trivialità elementare sia gli elementi
umani della frode e dell’inganno.
La frode e l’astuzia finalizzata al raggiro sono del resto la caratteristica comune di tutti
gli abitatori di Malebolge, sia dannati che custodi: certo ci vuole molto più ingegno
nell’ingannare un malfidente che nell’ingannare chi si fida.
Tutto l’attraversamento della V bolgia di Dante e Virgilio è segnato da una serie di
inganni: l’inganno di Malacoda nei confronti dei due pellegrini, e nulla vale a Virgilio
l’aver evocato il volere divino come motore e custode del loro viaggio (canto XXI);
l’inganno del barattiere dannato Ciampolo di Navarra a scapito degli stessi diavoli
custodi (canto XXII).
L’esistenza dentro Malebolge è segnata da un continuo uso dell’ingegno, anche se
rivolto al male, e dannati e custodi sono in continua competizione. La stessa fuga finale
di Dante e Virgilio al canto XXIII avviene grazie all’uso dell’ingegno. L’ingegno
finalizzato al bene vince infine sul male e Virgilio, dopo una folle corsa con il fiato in
gola, Dante in braccio e i diavoli alle calcagna, riesce a raggiungere la bolgia seguente.
L’immagine (canto XXIII vv. 37-57) di Virgilio che corre verso la salvezza portando in
braccio Dante (e la metafora della figura materna che mette in salvo il bambino) è così
assolutamente speculare a quella dei diavoli Malebranche che volano sulla pece con le
anime dei dannati sulle spalle. L’immagine ha quindi una valenza simbolica: il male
conduce alla dannazione, il bene porta verso la salvezza. Del resto anche nell’ultimo
canto dell’Inferno, dopo l’incontro con Lucifero e la fuga lungo il suo stesso corpo,
Virgilio porterà Dante sulle spalle fino a un ricovero sicuro (cfr. canto XXXIV vv. 70-
87).
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Le analogie della V bolgia con la Giudecca e il canto XXXIV sono comunque molte, in
particolar modo per quanto riguarda la descrizione dell’ambiente, caratterizzato da
colori scuri e cupi.
Dante in mezzo ai diavoli
La vera sorpresa dell’incontro con i diavoli Malebranche è costituita
dall’atteggiamento e dalle reazioni di Dante. Se le pene dell’intera Malebolge sono
destinate ai tradimenti perpetuati ai danni di chi non si fida, Dante potrebbe
rappresentare la vittima perfetta di tali dannati.
Durante il percorso lungo l’Inferno Dante generalmente tace, quasi sempre segue
Virgilio, molto raramente propone o consiglia, spesso viene preso alla sprovvista dagli
eventi. Questa volta, però, il suo atteggiamento è diverso: durante l’incontro con i
diavoli, Dante manifesta più volte la sua totale sfiducia nei loro confronti; inoltre,
contravvenendo al suo consueto silenzio, interviene più volte per esprimere la sua
paura e la sua perplessità. Ciò non vuol dire che Dante non abbia paura, tutt’altro, e
forse è proprio la sua paura a renderlo questa volta più prudente e scaltro del maestro.
Comunque sia, Dante non crede alle promesse dei diavoli, Dante non si fida di loro:
vorrebbe proseguire il viaggio da solo con la sua guida di sempre. Così, al verso 93 del
canto XXI, teme che i diavoli stiano tramando per aggredirlo all’improvviso. Così, ai
versi 127-135, interviene esponendo apertamente, e non senza una qualche ironia, i
suoi dubbi. Al contrario, sarà Virgilio, che tutto dovrebbe sapere e saper comprendere,
la vera vittima dell’inganno di Malacoda: forse Virgilio, anima beata, non conosce più
l’umana malfidenza, che è invece ancora propria dell’uomo Dante?
Anche ai vv. 13-24 del canto XXIII, Dante, per quanto spaventato, sarà ancora
abbastanza lucido da capire che i diavoli cercheranno vendetta per l’inganno subito da
Ciampolo di Navarra: se nei momenti di pericolo e paura i pensieri di Dante, di solito,
rimangono tali e non vengono esplicitati in parole, questa volta, invece, Dante
interviene nuovamente comunicando al suo maestro dubbi e paura.
La rappresentazione
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L’episodio che vede protagonisti i diavoli Malebranche si distende lungo più di due
canti; Dante e Virgilio sono giunti nella V bolgia dell’VIII cerchio, dove le anime dei
barattieri, immerse nella pece bollente e pungolati dagli uncini dei diavoli, scontano la
loro dannazione eterna.
Il canto XXI è interamente dedicato alla descrizione del paesaggio della bolgia, dei
diavoli Malebranche che ne sono custodi e del loro incontro con Dante e Virgilio.
Il canto XXII, accompagnato dalla marcia con i diavoli, è ancora segnato dalla
descrizione della bolgia, dall’episodio di Ciampolo di Navarra e dal suo inganno, e
infine dalla descrizione della lotta tra i diavoli. Si tratta di un canto molto “dinamico”,
in cui le scene si succedono velocemente, concluse dalla zuffa tra i due diavoli.
Il canto XXIII si apre sul cammino di Dante e Virgilio che si allontanano soli e
spaventati, finché, al sopraggiungere dei diavoli, i due si daranno a una fuga
precipitosa trovando infine scampo nella bolgia VI, dove i diavoli non possono entrare.
Tutto il resto del canto sarà dedicato alla bolgia degli ipocriti.
Ho deciso di soffermarmi sull’analisi dei canti XXI e XXII, secondo la seguente
ripartizione:
- la descrizione , nel canto XXI, con i ritratti del paesaggio e dei diavoli;
- la zuffa , nel canto XXII, dove protagonisti sono i diavoli e il loro litigio,
raccontato secondo le modalità dello stile comico.
La descrizione
Tutto il canto XXI è dedicato all’ingresso nella V bolgia e all’incontro con i diavoli. In
questa loro prima comparsa, lo stile comico caratteristico dei diavoli Malebranche, è
ancora stemperato dalle tonalità drammatiche del paesaggio della bolgia.
La resa del paesaggio e dei suoi protagonisti è caratterizzata da toni cupi, da varie
tonalità tra lo scuro (v. 6) della pece bollente e il nero dei diavoli (v. 29).
Al verso 6 la vista di Malebolge dall’alto è quella di un luogo oscuro. Per meglio
introdurre la rappresentazione della bolgia, Dante si serve della metafora dell’arsenale
di Venezia durante l’inverno, con gli artigiani intenti a riparare le navi con la pece: la
metafora copre ben 4 terzine (vv. 7-18); alla metafora sarebbero in realtà sufficienti la
prima terzina e l’ultima (vv. 7-9 e vv. 16-18), correlate nel primo verso di ogni terzina
da quale (v. 7) e tale (v. 16), e nel secondo verso di ogni terzina dalla metafora
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culinaria del bollore, con la tenace pece dei veneziani che bolle al v. 8 e la pegola
spessa di Malebolge che bolle al v. 17. L’uso dei due diversi aggettivi riferiti alla pece
è funzionale al ruolo della pece stessa nei due diversi contesti: a Venezia la pece è
tenace, perchè deve riparare, rimpalmare, le navi dei mercanti affinché resistano al
mare e al viaggio; in Malebolge la pece è spessa perché imprigiona nella sua fanghiglia
i dannati, e la riva di Malebolge.
Tutta la descrizione è accompagnata dall’immagine del bollire: bolle al v. 8; bollia al
v. 17; bolle e bollor al v. 20. La stessa metafora, inserita in ambito culinario,
ricomparirà ai versi 55-57, con l’immagine dei cuochi che fanno immergere ai loro
servitori la carne nella pentola, e gliela fanno punzecchiare con gli uncini, perché non
venga a galla. L’immagine è completa: i dannati, come il cibo e come la carne,
vengono fatti bollire nella pece, e i diavoli, come i cuochi, li tengono sotto con gli
uncini, per farli bollire meglio.
Dante è così assorto nell’osservare questo paesaggio infernale da non accorgersi di
quanto sta per accadere: l’arrivo dei diavoli. Se altre volte la comparsa del custode
infernale, della fiera o del mostro è preceduta da una lunga attesa oppure annunciata da
un lungo discorso di Virgilio, in questa occasione la voce di Virgilio non è che un grido
improvviso che scuote Dante dai suoi pensieri, appena prima del sopraggiungere dei
diavoli. Un attimo prima che un nero diavolo gli sia accanto, Virgilio afferra e trascina
via il suo distratto protetto: da questo momento, e siamo al verso 24, la scena diviene
sempre più dinamica.
La descrizione del primo diavolo che compare agli occhi di Dante è ben precisa: il
diavolo è nero, di aspetto feroce, ha grandi ali spiegate (come Lucifero); il particolare
dell’omero aguto e superbo ce lo fa immaginare molto magro, ossuto; si muove
velocemente arrampicandosi lungo la roccia e porta sulle spalle un peccatore,
afferrandolo per i piedi. La descrizione della figura fisica del diavolo è seguita poco
dopo dagli atteggiamenti e dai comportamenti del gruppo. Qui la drammaticità del
paesaggio e della descrizione lascia il posto alla comicità della situazione: i diavoli in
gruppo sono l’incarnazione della trivialità più bassa.
La descrizione dei diavoli, rubata a un momento qualsiasi della loro quotidianità, è
giocata su due piani paralleli: da una parte la paura, la drammaticità del momento, ciò
che essi rappresentano, il loro ruolo, l’orribile pena che scontano le anime dei barattieri
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e, dall’altra parte, la comicità bassa degli scherzi, delle frasi, dei gesti volgari che i
diavoli compiono, fino all’espressione totalmente animalesca e irrazionale dell’ultimo
verso.
I diavoli malebranche non sono “umani” solo nei loro istinti più triviali, ma anche nella
loro astuzia. Ai versi 106-117 Malacoda costruisce una lunga digressione sui percorsi
accidentati di Malebolge e sui possibili passaggi, solo e unicamente per trarre in
inganno Virgilio.
Cos’è il comportamento di Malacoda se non quello di un barattiere, di un ingannatore?
Canto XXI
Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenevamo ‘l colmo, quando
restammo per veder l’altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.
Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno – in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa-:
tal, non per foco ma per divin’arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che ‘nviscava la ripa d’ogne parte.
I’ vedea lei, ma non vedea in essa
mai che le bolle che ‘l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.
Mentr’io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo “Guarda, guarda!”,
mi trasse a sé del loco dov’io stava.
Allor mi volsi come l’uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda,
che, per veder, non indugia ‘l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel s’attuffò, e tornò su convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio”.
Poi l’addentar con più di cento raffi,
disser: “Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi”.
Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.
Lo buon maestro “Acciò che non si paia
che tu ci sia”, mi disse, “giù t’acquatta
dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;
e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,
per ch’altra volta fui a tal baratta”.
Poscia passò di là dal co del ponte;
e com’el giunse il su la ripa sesta,
mestier li fu d’aver sicura fronte.
Con quel furore e con quella tempesta
Ch’escono i cani a dosso al poverello
Che di sùbito chiede ove s’arresta,
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contro a lui tutt’i runcigli;
ma el gridò: “Nessun di voi sia fello!
Innanzi che l’uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l’un di voi che m’oda,
e poi d’arruncigliarmi si consigli”.
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Ahi quant’elli era nell’aspetto fero!
e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
con l’ali aperte e sovra i piè leggero!
L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l’anche,
e quei tenea de’ pié ghermito ‘l nerbo.
Del nostro ponte disse: “O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche
a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita”.
Là giù ‘l buttò, e per lo scoglio duro
Si volse; e mai non fu mastino sciolto
sicuramente omai a me ti riedi”.
Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;
così vid’ïo già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.
I’ m’accostai con tutta la persona
lungo ‘l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor ch’era non buona.
Ei chinavan li raffi e “Vuo’ che ‘l tocchi”,
diceva l’un con l’altro, “in sul groppone?”:
E rispondien: “Sì, fa che gliel’acciocchi”.
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: “Posa, posa, Scarmiglione!”.
Poi disse a noi: “Più oltre andar per questo
Iscoglio non si può, però che giace
Tutto spezzato al fondo l’arco sesto.
E se l’andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.
Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.
Tutti gridaron: “Vada Malacoda!”;
per ch’un si mosse - e li altri stetter fermi –
e venne lui dicendo: “Che li approda?”:
“Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto”, disse ‘l mio maestro,
“sicuro già da tutti vostri schermi,
sanza voler divino e fato destro?
Lascian’ andar, ché nel cielo è voluto
ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro”.
Allor li fu l’orgoglio sì caduto,
ch’è’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,
e disse a li altri: “Omai non sia feruto”.
E ’l duca mio a me: “O tu che siedi
Tra li scheggion del ponte quatto quatto,
Io mando verso là di questi miei
A riguardar s’alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei”.
“Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina”,
cominciò elli a dire, “e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.
Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
E Farfarello e Rubicante pazzo.
Cercate ‘ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l’altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane”.
“Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?”;
diss’io, “deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.
Se tu se’ sì accorto come suoli,
non vedi tu ch’e’ digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?”.
Ed elli a me: “Non vo’ che tu paventi;
lasciali digrignar pur a loro senno,
ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti”.
Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.
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La zuffa
Il canto XXII è ancora tutto dedicato alla V bolgia dell’VIII cerchio, che i due
pellegrini attraversano in parte con la scorta dei diavoli. Gran parte del canto è
riservato all’episodio di Ciampolo di Navarra e al suo inganno nei confronti dei
diavoli.
Si tratta di un canto dinamico, il cui apice è segnato dalla zuffa finale tra i due diavoli e
l’intervento di Barbariccia. L’episodio è caratterizzato da uno stile comico e farsesco.
Durante la zuffa i diavoli usano gli artigli, ghermiscono, rimangono invischiati nella
pece bollente: tutta la terminologia e le immagini provengono dal canto precedente.
La chiusura dell’episodio al verso 151, che è anche chiusura di canto, sancisce la
superiorità dell’intelletto umano su quello mostruoso dei diavoli: nonostante il loro
ruolo, nonostante la loro superiorità fisica, il loro aspetto e le loro armi, i diavoli, caduti
prima nell’inganno di Ciampolo, concludono la loro disfatta azzuffandosi tra di loro e
perdendo così di vista il nemico comune.
Il canto si chiude su Dante e Virgilio che si allontanano indisturbati, mentre i diavoli
regolano i loro conti nella pece del pantano.
Canto XXII vv. 133-151
Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;
e come ‘l barattier fu disparito,
così volse gli artigli al suo
compagno,
e fu con lui sopra ‘l fosso ghermito.
Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente
stagno.
Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno invischiate l’ali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da la’ltra costa
con tutt’i raffi, e assai prestamente
di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ‘mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor così ‘mpacciati.
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IV - Figure fisicamente non definite
Pluto - canto VII vv. 1 - 18; Flegïàs - canto VIII vv. 10- 30; Caco - canto XXV vv.
16-33
Introduzione
Nella struttura dell’Inferno dantesco, non tutte le figure hanno una descrizione precisa,
né tutte appartengono a una, o più, nature definite.
Pluto, Flegïàs e Caco sono figure che sfuggono sia a una classificazione sia a una vera
e propria descrizione, anche se ciò vale con modalità differenti per Pluto e Flegïàs da
una parte, e per Caco dall’altra. Se infatti gli elementi descrittivi destinati
nell’economia del testo a Pluto e Flegïàs sono assolutamente vaghi ed esigui, la figura
del centauro-serpente-drago Caco viene invece descritta in modo dettagliato, ma
nonostante questo egli non può rientrare nè tra le figure specificamente simboliche né
tra quelle animali, né può appartenere del tutto alla schiera delle figure che riuniscono
in sé elementi animali ed elementi umani a cui appartengono invece i suoi compagni
centauri, perché qui l’elemento umano, seppur compreso nella definizione di centauro,
non viene manifestato in nessun modo.
Elemento che accomuna Pluto, Flegïàs e Caco è la voce, il parlare: la voce chioccia,
rauca e tremenda, di Pluto; la voce che grida alla ricerca di nuove anime da traghettare
di Flegïàs; la voce di Caco che si scaglia contro l’empio ladro Vanni Fucci.
Un altro ponte tra i tre è costituito dalla rabbia e dall’ira di cui sono portatori: Pluto,
nelle parole di Virgilio si consuma di rabbia (c. VII v. 9), Flegïàs è pieno d’ira
all’apprendere che i due pellegrini non sono nuove anime destinate ai castighi
dell’inferno (c. VIII v. 24); Caco, infine, è definito fin dal principio centauro pien di
rabbia (c. XXV v. 17).
Nel caso di Pluto e Caco, poi, la stessa parola rabbia compare inserita nell’identica
sequenza di rime: abbia, labbia, rabbia per Pluto ai versi 5-7-9 del VII canto, e rabbia,
abbia e labbia per Caco ai versi 2-4-6 del XXV canto.
Nella comparsa di Pluto e Flegïàs, la straordinaria capacità descrittiva di Dante si rivela
per sottrazione. Pluto è essenzialmente identificato con la sua voce chioccia e con la
frase che pronuncia; anche Flegïàs è una voce che grida, oltre che il nocchiero senza
56
consistenza corporea e senza peso di una nave piccioletta (canto VIII v. 15 e 27), ma
della sua descrizione fisica non conosciamo null’altro.
Anche per quanto riguarda la loro collocazione nella struttura dell’Inferno, Pluto e
Flegïàs appaiono più vicini e omogenei rispetto a Caco. Essi infatti compaiono
entrambi in apertura di due canti tra loro vicini, come figure-simbolo o guardiani di
cerchio: Pluto è il demone guardiano del IV cerchio, Flegïàs è il guardiano del cerchio
seguente, il V, oltre che secondo nocchiero infernale. Le anime punite in entrambi i
cerchi, avari e prodighi per il cerchio di Pluto e iracondi e accidiosi per quello di
Flegïàs, si sono macchiate in vita di peccati di incontinenza e soggiornano per l’eternità
al di qua delle mura della Città di Dite: le loro colpe, così come le punizioni, sono
quindi meno cruente. Di conseguenza, anche gli ambienti in cui soggiornano sono resi
con tinte un po’ più sfumate e un po’ meno cupe, così come guardiani demoni
nocchieri e mostri sono resi con minore cruenza visiva e descrittiva.
La situazione di Caco è ben diversa: relegato con ruolo non ben definito nella bolgia
VII del cerchio VIII, compare in uno dei canti dalla espressività più spinta e forte: il
canto XXV. Collocata tra l’empia offesa di Vanni Fucci e le metamorfosi delle anime
dei ladri, la descrizione del centauro-serpente-drago Caco risente dell’espressività e del
realismo del canto, anche se in questo caso gli elementi fisici che gli sono attribuiti
concorrono non a dotarlo di una particolare natura, quanto piuttosto a renderlo un
ibrido non ben definito.
In considerazione degli elementi che accomunano e di quelli che separano le tre figure,
ho scelto di analizzare nel dettaglio Pluto e Flegïàs, ma tenendo ben vivo il riferimento
alla figura di Caco. I passi dedicati a Pluto e Flegïàs, infatti, sono la testimonianza di
come, all’interno del realismo dantesco, anche la non-descrizione o l’uso di elementi
descrittivi esigui contribuisca alla resa delle atmosfere e dei simboli dell’Inferno.
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Riassumendo…
a) Analisi per descrizione
c) Analisi per struttura
Creatura Elementi descrittivi Come Virgilio lo presenta…
Pluto - voce chioccia (v. 2)
- ‘nfiata labbia (v. 7)
- rabbia (v. 8)
- “maledetto lupo” (v. 8)
- fiera crudele (v. 15)
Flegiäs -voce che grida (v. 18)
-ira (v. 24)
- galeoto, marinaio (v. 17)
Caco -voce che chiama (v.
18)
-centauro (v. 17)
-pien di rabbia (v. 17)
-bisce sulla groppa (v.
20)
-drago con le ali
aperte sulle spalle
(v. 21-22)
-descrizione fisica composta da
elementi diversi sovrapposti;
-Virgilio racconta la storia “terrena” di
Caco, identificata con quella del
mito classico.
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Pluto
Il nome di Pluto deriva dal greco “ricchezza”, di cui il demone rappresenta la
personificazione nella mitologia classica. Secondo una leggenda greca, Zeus lo accecò
per rendere assolutamente casuale la distribuzione delle ricchezze sulla terra.
Nel corso del tempo la figura di Pluto conserva continuità con il simbolo classico.
Per Dante e per la tradizione del suo tempo, Pluto è il diavolo simbolo del desiderio
sfrenato di ricchezza, e quindi il peggior nemico dell’ordine sociale e della felicità
umana.
Se nell’allegoria della selva del primo canto dell’Inferno, oltre che nella
rappresentazione simbolica, la lupa è simbolo di avarizia insaziabile, non è un caso che
qui Virgilio si rivolga al mostro con l’appellativo di maledetto lupo al verso 8, e che
Dante definisca Pluto ormai sconfitto fiera crudele al verso 15, con l’uso di una
terminologia che riconduce quindi al contesto allegorico del primo canto.
Elemento principe della rappresentazione di Pluto resta la sua voce rauca, tra l’aspro e
lo stridulo.
Creatura Comparsa Ruolo
Pluto IV cerchio: avari
(canto VII)
Guardiano del cerchio degli avari e
dei prodighi: è il simbolo dell’avidità.Flegiäs V cerchio: iracondi e
accidiosi (canto VIII)
Guardiano del cerchio degli iracondi e
accidiosi; secondo nocchiero
infernale, traghetta le anime lungo la
palude Stigia fino alle porte della città
di Dite; in questo caso traghetterà
Dante e Virgilio.Caco VIII cerchio, VII
bolgia: ladri (canto
XXV)
Compare alla ricerca e
all’inseguimento dell’empio ladro
pistoiese Vanni Fucci, appena punito
dalle serpi.
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Le parole che Pluto pronuncia, e che comunemente lo rappresentano, sono state
interpretate in vario modo, ma resta impossibile darne una traduzione precisa.
Si è voluto identificare pape con l’interiezione latina papae, e aleppe con la prima
lettera dell’alfabeto ebraico aleph, cioè ahimè, ma la frase resta, secondo
l’interpretazione del poeta milanese Carlo Porta, un gioco di parole bambinesco, una
formula che evoca parole e riti del male (Satan), un creativo gioco linguistico.
Canto VII vv. 1 -18
“Pape Satàn, pape Satàan aleppe!”,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: “Non ti noccia
la tua paura; chè, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia”.
Poi si rivolse a quella ‘nfiata labbia,
e disse: “Taci, maledetto lupo,
Consuma dentro te con la tua rabbia.
non è senza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, la dove Michele
fè la vendetta del superbo strupo”.
Quali dal vento le gonfiate vele
Caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che ‘l mal dell’universo tutto insacca.
Una voce nel buio
Unici elementi descrittivi del Pluto dantesco sono la voce chioccia al verso 2 e la
‘nfiata labbia al verso 7: una voce rauca e orrenda e un viso deforme e deturpato.
Come possiamo immaginarlo, quindi? Salvaguardando alla lettera il testo, la
rappresentazione evocata dalle terzine resta dominata dalla voce: una voce orrenda in
una figura fatta di solo volto, un volto indistinto, deforme, gonfio e mostruoso. Una
presenza che evoca paura, forse più paura delle creature mostruose che Dante descrive
60
nei dettagli: la descrizione ha il potere di esorcizzare il mostruoso e il male, di rivelarne
elementi e simboli, ma come affrontare ciò che è solo evocato? Dante, pellegrino nel
suo inferno, ha paura, ma non lo confessa, e con la timidezza e la reticenza che gli sono
proprie continua a tacere. Il vigile e attento maestro Virgilio, però, indovina
immediatamente la paura di Dante, e lo conforta invitandolo a non temere, a non farsi
fermare nel suo cammino dalla paura, poiché, per quanto potente, Pluto non potrà
ostacolarli (versi 4-6). Poi, subito dopo, affronta e zittisce la fiera crudele. In questo
quadro è facile intravedere la metafora del cammino verso la redenzione che attraversa
la cantica: la paura dell’ignoto, del non definito non deve ostacolare il cammino di
Dante, ma egli non ha ancora forza d’animo sufficiente per affrontare i mostri delle sue
paure. Ancora una volta, sarà Virgilio ad agire, ad affrontare i pericoli e a domarli,
spianando la strada al suo protetto.
Così come accadrà al canto XII per il Minotauro, per acquietare il mostro crudele, a
Virgilio basteranno le sue parole. A Virgilio basterà cioè evocare il volere divino, e il
vuolsi del verso 11 è una formula già usata nell’incontro con Caronte (cfr. canto III v.
95) per giustificare il volere divino che legittima il cammino di Dante, vivo tra i morti;
in questo caso, il volere divino è rappresentato dalla figura dell’arcangelo Michele,
nella tradizione cristiana guida delle schiere angeliche fedeli a Dio contro Lucifero e i
suoi angeli ribelli.
Basta questa dichiarazione a sconfiggere la mostruosa presenza.
La stessa metafora che racconta la resa del demone Pluto contribuisce ad evocarne
l’inconsistenza corporea e la non fisicità: Pluto si accascia al suolo, vinto, come le vele,
prima gonfiate dal vento, si afflosciano su se stesse quando l’albero maestro si spezza
(vv. 13-15). Le vele non hanno forma corporea e sostanza in sé, ma si gonfiano grazie
al vento e all’albero maestro che le tiene: caduto l’albero e perso il vento, le vele non
sono più nulla.
La metafora delle vele rafforza la non fisicità di Pluto: egli è una voce, un volto
deforme che si gonfia di rabbia, ma, placata la rabbia dal volere divino echeggiato nelle
parole di Virgilio, della sua mostruosità non resta più nulla.
Flegïàs
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Nella mitologia e nella tradizione classica, mediata da Virgilio, Flegïàs era un
personaggio dalla fisionomia incerta.
La tradizione mitologica ricorda Flegïàs come il figlio di Ares che incendiò il tempio di
Apollo di Delfi per vendicare la figlia Coronide, sedotta dal dio del sole.
L’episodio della sua violenta vendetta contro Apollo trasforma Flegïàs nel simbolo
dell’ira cieca, tanto che Dante lo pone a guardia del cerchio degli iracondi: come
secondo nocchiero infernale, egli si occupa di traghettare le anime lungo la palude
Stigia fino alle porte della città di Dite.
Se l’immagine del fuoco è tradizionalmente associata all’ira, la stessa etimologia del
nome Flegïàs riconduce alla radice fleg, da ardere.
Canto VIII vv. 10- 30
(1) Ed elli a me: “Su per le sudice
onde
Già scorgere puoi quello che
s’aspetta,
se ‘l fummo del pantan nol ti
nasconde”.
Corda non pinse mai da sé saetta
Che sì corresse via per l’aere snella,
(2) com’io vidi una nave piccioletta
venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ‘l governo d’un sol galeoto,
che gridava: “Or se’ giunta, anima
fella!”.
(3) “Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a voto”,
disse lo mio segnore, “a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il
loto”.
Qual è colui che grande inganno
ascolta
Che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.
(4) Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand’io fui dentro parve carca.
Tosto che ‘l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
de l’acqua più che non suol con altrui.
Il brano dedicato a Flegïàs può essere suddiviso in quattro brevi sequenze, che non
sempre coincidono con la struttura ritmica delle terzine, ma che rappresentano lo
schema usato da Dante in molti degli incontri con i mostri infernali:
1. l’attesa di ciò che sta per accadere o avvenire, caratterizzata da un aumento della
suspence e da un climax ascendente che prepara la rivelazione o l’evento;
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2. la comparsa e la rivelazione del demone, con una sua iniziale caratterizzazione;
3. lo scontro, sempre verbale, tra Virgilio e il mostro, che vede Dante spettatore
silenzioso;
4. lo scioglimento, con la disfatta del mostro e il proseguire oltre di Dante e Virgilio.
In molti casi, come in questo, il proseguire del cammino dei due pellegrini avviene
proprio grazie e attraverso il mostro, uno dei nocchieri infernali.
1. L’attesa
Nella prima sequenza (vv. 10- 14) protagonista è l’attesa di ciò che sta per apparire.
L’attesa, iniziata già nelle tre terzine precedenti, si prolunga nella metafora dei versi 13
e 14, contribuendo a prolungare l’aspettativa dell’evento, spingendo il lettore a
trattenere il fiato ancora un po’. Gli elementi del paesaggio in cui l’attesa si compie
contribuiscono a connotare di foschi presagi il momento: le sudice onde e il fumo del
pantano non lasciano prevedere nulla di buono.
2. La comparsa di Flegïàs
Nella seconda breve sequenza (vv. 15-18) l’attesa, e la metafora, dei vv. 13-14 trova
scioglimento nel paragone tra la freccia veloce che fende l’aria e la piccola nave che
solca le onde, sudice, della palude Stigia. La breve sequenza è caratterizzata dalla
grande scarsità di elementi descrittivi: sappiamo solo che sulla barca c’è solo un
galeoto, marinaio (v. 17), e che il marinaio grida contro quella che crede essere una
nuova anima da traghettare. Nient’altro. Flegïàs è solo quella voce che grida, e quella
voce non è neppure connotata come la voce di Pluto.
3. Lo scontro: Virgilio affronta il demone
Nelle due terzine della terza sequenza (vv. 19-24) Virgilio affronta il nocchiero
infernale. L’apostrofe verbale che Virgilio rivolge al mostro è proporzionata alla
sequenza precedente: dalla breve orazione di Virgilio non apprendiamo nulla di nuovo
riguardo la natura e l’aspetto di Flegïàs. L’episodio non è in realtà neanche un vero e
proprio scontro: le parole di Virgilio sono misurate, non c’è nulla della violenza delle
apostrofi rivolte ad esempio, in situazioni analoghe, al Minotauro o allo stesso Pluto.
La stessa reazione di Flegïàs avviene in tono minore ed è resa senza elementi
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descrittivi forti o orrendi: il nocchiero infernale è sì irato, ma come colui che si
rammarica di un inganno subito.
4. Lo scioglimento: il viaggio
Il viaggio sulla barca di Flegïàs proseguirà fino alla metà del canto. La breve sezione
del “viaggio” che qui abbiamo preso in esame (vv. 25-30) scorre anch’essa in tono
minore, come le parti precedenti: unici elementi degni di nota sono la constatazione
dell’incorporeità del nocchiero (solo quando Dante sale, infatti, la barca sembra
appesantita dal carico) e la velocità con cui la piccioletta nave corre sulle acque della
palude.
L’incorporeità di Flegïàs contribuisce ad aumentare la sua mancanza di fisicità e quindi
la sua mancanza di una natura definita.
Tra le figure fisicamente non definite che compaiono nell’Inferno, Flegïàs è di gran
lunga la meno definita: di lui non sappiamo nulla, di lui non abbiamo un solo elemento
che si possa dire veramente descrittivo.
La mancanza di fisicità di Flegïàs ha però un preciso ruolo nell’equilibrio del canto in
cui è inserito.
Questa sostanziale assenza di pathos (fanno eccezione solo e in parte i primi versi
connotati dall’attesa) crea un’atmosfera indistinta. Il fumo del pantano, le sudice onde
melmose della palude, il traghettatore quasi invisibile creano un’unica atmosfera
soffusa e lugubre in cui meglio si staglierà ed esploderà la drammatica rissa con
Filippo Argenti, momento di tensione culminante del canto.
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Applicazione didattica
1. Problemi di metodo
La prima cantica della Divina Commedia non sarà percorsa in sequenza lineare, ma
sarà attraversata con salti tra canti e canti: sarà quindi necessario inaugurare il percorro
con una buona introduzione alla struttura dell’Inferno dantesco.
Gli studenti dovranno avere chiara la struttura fisica generale dei luoghi per poterli
attraversare e percorrere: l’obiettivo sarà raggiunto anche attraverso rappresentazioni
schematiche dell’universo di Dante.
Pur nel rispetto del percorso tematico scelto, si vuole però salvaguardare la struttura del
canto: quindi, i canti saranno sempre letti per intero, e per intero discussi in classe.
Nell’affrontare le Unità didattiche si partirà da una brevissima introduzione sul “dove
siamo”, per poi lasciare spazio ad una buona lettura, e rilettura, dell’intero canto.
Per aumentare il piacere dell’ascolto dei versi, quando possibile, una delle letture sarà
“ascoltata” in classe dalla voce di Gassman o di Sermonti, attraverso supporto audio -
video.
Dopo una discussione intorno alle sensazioni e agli argomenti del canto, in cui si
cercherà di costruire un dialogo con la classe piuttosto che una lezione frontale, si
passerà all’analisi più dettagliata dei versi scelti ai fini del percorso tematico.
Le terzine dedicate alle diverse creature infernali saranno affrontate sul doppio binario:
- dell’analisi testuale, formale;
- dell’analisi contenutistica.
Per quanto riguarda l’analisi testuale, ci soffermeremo in particolare sulle tecniche di
descrizione:
- delle creature infernali, e quindi sul lessico usato per connotarne le relative
caratteristiche;
- degli ambienti naturali, alla ricerca di come, e con che scelte lessicali, vengono
descritti i paesaggi in cui le creature si inseriscono.
Fondamentale sarà valutare se e come alle scelte formali e stilistiche corrispondano
finalità contenutistiche: le due riflessioni procederanno quindi parallele.
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Per quanto riguarda l’analisi contenutistica, ci soffermeremo:
- sulle caratteristiche di ogni creatura infernale, sulle atmosfere che evoca;
- sul ruolo della figura nel contesto dell’Inferno, in rapporto con la pena e la
tipologia di dannati a cui è legata;
- sul rapporto del testo nella resa dantesca con altri testi di soggetto analogo, ma
di altri autori e altre epoche;
- sul rapporto tra la creatura in Dante e gli antecedenti mitologici o tradizionali;
- sulle raffigurazioni iconografiche precedenti o successive alla scrittura della
Commedia (attività approfondita in fase di laboratorio);
- su eventuali riferimenti cinematografici (attività approfondita in fase di
laboratorio).
Ampio spazio sarà sempre lasciato alle sensazioni, emozioni, immagini, nate dalla
lettura o dall’ascolto del testo.
Per la lettura della Divina Commedia non è stata consigliata una particolare edizione in
uso nelle scuole: ognuno potrà utilizzare quella che già possiede, o una edizione non
scolastica.
Fornirò io eventuali apparati o approfondimenti comuni.
2. Obiettivi
Obiettivi di primo livello
Considero obiettivi di primo livello le abilità e le competenze legate alla lettura e
analisi testuale:
- comprendere e saper rielaborare il contenuto di un testo;
- individuare le diverse parti che compongono il testo (narrative; descrittive;
dialogiche ecc.);
- riconoscere nel testo gli elementi (lessicali, descrittivi ecc.) e i loro rapporti;
- riconoscere gli elementi stilistici e le tecniche descrittive, in relazione alle
diverse creature, al loro ruolo, ai loro significati;
- saper riutilizzare il materiale, le tecniche descrittive e le tecniche narrative del
testo per produrre testi scritti;
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- saper riconoscere le differenti creature attraverso le caratteristiche che
emergono dalle loro descrizioni;
- relazionare la resa dantesca delle creature con le loro origini mitologiche, i
significati medievali, gli sviluppi futuri, per entrare nell’eterno dialogo tra il testo e
i testi, l’autore e gli autori;
- comprendere il significato e l’utilizzo dei simboli nei diversi testi.
Obiettivi di secondo livello
- Vivere la lettura della Divina Commedia come piacere e divertimento;
- saper riconoscere emozioni, sensazioni e immagini nate dall’ascolto o dalla
lettura di un testo poetico;
- sviluppare una propria capacità di giudizio e critica su un testo poetico;
- riconoscere il significato e il valore di un simbolo, oltre che il suo uso letterario
e artistico;
- acquisire il gusto per l’approfondimento;
- sviluppare capacità di collegamento interdisciplinare;
- acquisire il gusto della ricerca;
- scoprire e riconoscere le proprie capacità di creazione artistica.
3. Intervento per singola UD
Il percorso avrà inizio tra la fine del mese di settembre e il mese di ottobre, con lo
svolgimento delle UD 1 e 2. Si cercherà di tenere la durata di un mese per ognuna delle
Unità didattiche, considerando l’impiego di 1 ora settimanale, da ottobre a marzo.
Il percorso sarà idealmente concluso nel mese di giugno da una mostra realizzata dagli
studenti; la mostra costituirà l’esito del laboratorio che accompagnerà ogni tappa del
percorso.
Ogni unità didattica sarà trattata in 5 incontri:
- 4 incontri di un’ora in aula;
- 1 incontro di 2 ore di laboratorio (aula informatica, con collaborazione, e
compresenza, del docente di informatica).
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Come ho già anticipato, tutti i canti trattati saranno letti e ascoltati per intero, per poi
approfondire la parte relativa alla creatura da incontrare. Ogni canto sarà affrontato con
l’obiettivo di dare largo spazio al piacere dell’ascolto e della lettura del testo dantesco.
Le quattro lezioni in aula
La prima lezione
La prima lezione di ogni UD sarà inaugurata da una introduzione sulla categoria in
oggetto e sulle figure che ne fanno parte; correlata a una breve presentazione dei canti
che saranno trattati in relazione alle figure.
L’introduzione sarà finalizzata a creare un quadro d’insieme, evidenziando inoltre
corrispondenze e differenze tra le varie figure.
Seguirà l’ascolto del primo dei canti nell’interpretazione di Gassman, Sermonti o
Benigni, con una prima spiegazione generale volta a chiarire i punti critici, e un primo
colloquio della classe sulle impressioni e immagini ricevute.
Come attività da svolgere a casa, gli studenti dovranno rileggere il canto (evidenziando
gli eventuali punti critici o i luoghi oscuri), ed individuare l’episodio o gli episodi che
riguardano il “mostro” protagonista, ricercando gli elementi usati nella sua descrizione.
Dovranno inoltre approntare una parafrasi del testo.
I due incontri seguenti
Durante la seconda lezione sarà ripresa la lettura dell’intero canto, ma verrà analizzata
nel dettaglio solo la figura in esame, con collegamenti alla tradizione letteraria,
artistica, e in alcuni casi cinematografica.
Da questo momento in poi il lavoro procederà, con evidenti differenze da UD a UD,
con la lettura dei canti e l’esame delle figure, con modalità e tempi diversi, in relazione
alla quantità di materiale da esaminare e alla sua difficoltà.
Gli studenti effettueranno inoltre ricerche sulle varie figure, che saranno poi discusse,
confrontate e integrate con materiale fornito da me. I canti saranno quindi riletti e si
procederà all’analisi testuale e linguistica delle porzioni di testo, con il fine di
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evidenziare come gli elementi testuali e linguistici siano intimamente connessi alla resa
della “figura” analizzata.
Le tipologie di figure saranno analizzate sia singolarmente, in riferimento alla loro
rappresentazione letteraria o artistica nel tempo, sia a livello di categoria, quindi
attraverso il confronto tra le loro diverse rappresentazioni, funzioni, ruoli, il tutto
sempre alla ricerca di analogie e differenze.
Per ogni figura trattata, gli studenti svolgeranno a casa attività di scrittura e
rielaborazione.
Potranno cimentarsi nel rielaborare una delle figure in esame, nello scrivere racconti o
brevi scene (pensate come parti di copioni cinematografici o teatrali), o ancora
nell’inventare nuove figure che possano appartenere alla categoria in esame.
Molto importante sarà che in tutte le loro operazioni di scrittura, gli studenti
acquisiscano competenze di rielaborazione personale e riutilizzo delle tecniche
esaminate del testo.
Con il percorso si vuole sviluppare anche la capacità di cogliere il nesso tra elementi
del testo e significati, per acquisire la capacità di leggere i simboli e le loro
rappresentazioni.
Nella consapevolezza che questo obiettivo non sia facilmente raggiungibile, si partirà
da un livello più elementare di analisi del testo, soffermandosi sui luoghi in cui
l’elemento descrittivo è strettamente correlato al dato simbolico.
L’ultimo incontro
Durante il quarto incontro di ogni UD si svolgerà una prima verifica, con modalità
differenti in relazione alle attività svolte. In linea di massima, ogni studente riceverà un
frammento del testo da esaminare e commentare, con riferimenti a quanto svolto in
classe (contenuti e riflessioni), e un documento iconografico da commentare in
relazione al testo dantesco.
Saranno predisposte, inoltre, varie attività per attivare, anche in fase di verifica, una
nuova sensibilità di lettura del testo, legata ai suoni, ai colori o alle atmosfere evocate.
Ci si riserva di apportare a questo programma di massima delle modifiche, con
eventuali aggiunte di ore, in relazione alla quantità e qualità di materiale da esaminare
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nelle diverse unità. La particolarità degli argomenti e dei testi, permetterà di scoprire in
corso d’opera interessanti approfondimenti e divagazioni.
Le due ore di laboratorio
Durante le due ore di laboratorio, gli studenti, divisi in cinque gruppi di cinque
studenti, effettueranno ricerche sia in Internet sia su supporti multimediali riguardo a
una delle figure analizzate nel corso dell’UD. La ricerca, che si svolgerà in aula
informatica con la collaborazione dell’insegnante di informatica, sarà volta a effettuare
ricerche, reperire materiale, scoprire curiosità, origini, significati, rese pittoriche o
artistiche sul tema. Le ricerche potranno aver luogo anche su libri, ma la Biblioteca
scolastica a disposizione degli studenti, purtroppo, non è da considerarsi all’altezza del
compito.
4. Percorsi di ricerca
L’attività di comprensione e analisi del testo si muoverà su più piani:
- la conoscenza delle singole figure;
- la capacità di confronto tra le figure di una stessa “categoria”;
- la capacità di lettura dei simboli presenti nella rappresentazione delle figure;
- la capacità di confronto tra rappresentazioni differenti di una stessa figura nel tempo.
Queste diverse operazioni avranno come territorio privilegiato le terzine dell’Inferno,
ma, proprio a partire dal testo dantesco, si cercherà di chiamare in causa altri campi
della comunicazione che contribuiscano ad aumentare l’interesse e la partecipazione
attiva degli studenti. Le incursioni saranno effettuate nel campo dell’arte e del cinema.
Per quanto riguarda l’arte si costruiranno percorsi attraverso diverse rese iconografiche
di figure e simboli, prestando particolare attenzione al valore simbolico degli elementi.
Ad esempio, per la figura di Lucifero, si potranno paragonare diverse immagini
pittoriche dell’Inferno, dalle rappresentazioni medievali del Giudizio Universale, ai
dipinti dell’Inferno di Hieronymus Bosch o delle visioni infernali di epoca romantica.
Si cercheranno analogie e differenze nell’uso dei colori e delle immagini, e si cercherà
di confrontare le immagini con gli elementi descrittivi presenti in Dante.
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Per quanto riguarda il cinema, si cercheranno elementi del cinema Fantasy e del
cinema di Fantascienza che possano essere raffrontate con i simboli e le “categorie di
figure” analizzate.
In particolar modo un percorso di confronto sarà istituito tra la categoria delle figure
della doppia natura e il genere di Fantascienza.
La classe potrà ricercare all’interno della saga di Star Trek e nei film di Guerre Stellari
la presenza di mostri e mutanti composti da nature differenti, e i loro ruoli e funzioni
nell’equilibrio della trama.
Il paragone può apparire azzardato, ma l’utilizzo dei “mostri” e la loro
rappresentazione rispondono sia nella mentalità comune che nell’espressione artistica a
funzioni simili.
Tutto ciò contribuirà all’esercizio della propria capacità critica, perchè gli studenti si
cimenteranno sia nella ricerca di significati ed elementi comuni, sia nella difficile
capacità di delimitare i confini della loro ricerca per non incorrere in forzature.
Tutti i percorsi di ricerca effettuati contribuiranno, insieme alla seconda parte delle
attività di laboratorio, alla realizzazione delle opere che saranno esposte nella mostra
finale allestita dagli studenti.
5. I laboratori
L’attività laboratoriale sarà suddivisa in due fasi, strettamente legate tra loro.
1. Attività relativa alle singole UD (2 ore per ogni UD); mesi: ottobre - marzo; per
cui si rimanda al paragrafo precedente.
Questa prima fase del laboratorio sarà parte integrante dello svolgimento delle unità
del percorso. Gli studenti, divisi in gruppi di cinque elementi, si cimenteranno in
ricerche iconografiche o approfondimenti sulle creature incontrate nei diversi canti: a
tal fine, avranno a disposizione l’uso dell’aula informatica con collegamento Internet,
libri e altri supporti; il laboratorio avrà luogo in collaborazione con l’insegnante di
informatica e avrà la durata di 2 ore mensili da ottobre a marzo, eventuali
approfondimenti saranno completati in orario extrascolastico, come attività da svolgere
a casa. Le attività del laboratorio saranno oggetto di valutazione (cfr. qui 6. Verifica).
2. Il laboratorio finale
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Nella seconda fase, che avrà inizio nel mese di marzo e si concluderà nel mese di
giugno con una mostra da loro allestita, gli studenti si cimenteranno in rese “artistiche”,
in forme espressive a loro scelta (pitture, cortometraggi, fotografie, poesie), individuali
o in gruppi di al massimo tre persone, che avranno per oggetto una delle figure, o una
delle categorie di figure analizzate.
Lo scopo principale è quello di sviluppare la loro creatività e la loro espressione
individuale in forma artistica, a partire da immagini e sensazioni evocate nel testo.
6. Verifica
1. Verifica di UD
Come specificato al paragrafo 3.Intervento, una prima verifica, valida ai fini della
valutazione, avrà luogo nel corso del quarto incontro previsto per ogni UD, con
modalità differenti in relazione al materiale esaminato. In linea di massima, a partire da
un frammento di testo ogni studente si dedicherà all’analisi e alla riflessione linguistica
e di contenuto, con riferimenti a quanto svolto in classe. Lo studente dovrà innanzitutto
dimostrare di conoscere bene il testo dantesco, i suoi significati e la sua struttura.
Lo stesso avverrà a partire dal diverso materiale iconografico relativo alla figura
analizzata, di cui saranno fornite le necessarie coordinate.
Lo stesso lavoro di riflessione e confronto potrà essere effettuato su testi differenti, di
differenti autori e differenti periodi storici, che abbiano per oggetto diverse descrizioni
o rese della stessa figura: lo studente dovrà dimostrare di aver acquisito capacità di
confronto tra testi differenti.
Inoltre, così come nelle attività da svolgere a casa, gli studenti si cimenteranno nella
scrittura di racconti o brevi descrizioni che abbiano per oggetto le diverse figure
esaminate.
In questo modo potrà essere valutata sia la loro conoscenza dei contenuti, sia la loro
capacità di scrittura e rielaborazione personale.
Tutte queste attività saranno ovviamente date con difficoltà graduale nel tempo, e in
stretta connessione alle attività effettivamente svolte durante le attività sull’UD.
2. Verifica di percorso
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Una verifica dell’intero percorso sarà portata a termine su due piani (individuale e del
lavoro di gruppo) e avrà luogo nel mese di maggio. A partire dal mese di marzo, con la
fine dello svolgimento delle singole UD, sarà avviata un’attività di “riepilogo” e
“approfondimento” di quanto svolto nel corso dell’anno in vista dell’interrogazione
finale. La stessa attività contribuirà all’attività di “creazione” della seconda fase di
laboratorio, che si concluderà con l’allestimento della mostra sul tema delle creature
dell’Inferno dantesco che gli studenti allestiranno prima della conclusione dell’anno
scolastico in Aula Magna.
Durante la verifica individuale, orale, che si svolgerà nel mese di maggio, lo studente
sarà esaminato su:
a. uno dei 5 gruppi di creature, a sua scelta, con riferimenti all’intera struttura
dell’Inferno; collegamenti ad altri testi o al materiale iconografico;
b. capacità di lettura e comprensione del testo su terzine dantesche non
analizzate in classe;
c. ogni studente dovrà inoltre studiare a memoria, e saper recitare e
interpretare, una sequenza a sua scelta tra quelle analizzate.
3. Verifica dell’attività di laboratorio
Per quel che riguarda la fase 1 dei laboratori (attività svolta nei mesi di ottobre -
marzo), i gruppi dovranno presentare entro la metà di aprile una breve relazione finale
su ognuno dei cinque laboratori delle cinque UD (solo per le cinque UD riferite ai
repertori di creature dantesche, quindi, e non per quella introduttiva). Ogni studente di
ogni gruppo si occuperà di relazionare il lavoro del gruppo per una delle cinque UD:
ciò mi permetterà di aver chiara contemporaneamente la situazione del gruppo, oltre
che quella individuale.
Ogni tesina dovrà inoltre contenere le impressioni del relatore riguardo l’atmosfera
relazionale del gruppo; le difficoltà incontrate nel lavorare insieme; il proprio ruolo e
quello degli altri.
Per quel che riguarda la fase 2 dei laboratori (mesi di aprile - giugno) non ci sarà una
valutazione vera e propria perché gli esiti di questa fase del laboratorio confluiranno in
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una mostra allestita dagli studenti che si terrà alla fine dell’anno scolastico. Il
coinvolgimento in questa attività, oltre alla realizzazione di forme di espressione
lasciate alla loro libera iniziativa, basterà a tenere alto il loro impegno, e la loro
prestazione.
7. Potenziali ostacoli e supporti necessari
Abbiamo già parlato della difficoltà di concentrazione abbastanza diffusa e della
presenza di casi problematici di comportamento all’interno della classe.
Potenziale difficoltà sarà per alcuni di loro la mancanza di abitudine alla lettura,
all’ascolto e alla riflessione, ma del resto la stessa attività del percorso è stata scelta e
strutturata per dare una risposta a questa problematica.
Supporti: di certo sarà necessario il supporto di manuali con apparati e spiegazioni;
dizionari; repertori di simboli; commenti ai canti dell’Inferno dantesco; materiale
interdisciplinare (a cura dell’insegnante).
Ostacoli “tecnici” riguarderanno la possibilità di accompagnare la visione del materiale
documentario audio-video nel momento richiesto dalla lettura.
Supporti: TV con videoregistratore; PC (mio); diapositive; CD rom; libri d’arte.
Le problematiche logistiche maggiori verranno dalle attività laboratoriali e
dall’allestimento della mostra finale, per la quale si fa appello alla collaborazione del
Consiglio di Classe e della Presidenza.
Supporti: materiale per allestimento mostra; spazi per eventuali prove e preparazione
dei lavori degli studenti; disponibilità dell’aula di informatica per le attività di
laboratorio.
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