descolarizzare la società, appunti per i convegni di nov e dic 2003

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Meno Stato, più impresa; meno scuola pubblica più formazione diffusa. Elementi di interesse: la critica al nozionismo, la valorizzazione di una cultura materiale, del fare, legata all’agire sociale e produttivo; la spietata analisi che lega il sistema di formazione superiore liceale ad una società duale, che poi interviene con la riduzione del danno nei confronti di chi, refrattario al sistema scolastico, trova rifugio nella formazione professionale. Inoltre: è il lavoro fordista ad avere eroso la cultura del lavoro dell’articolo 1 della costituzione; il lavoro esecutivo, di bassa qualifica, ripetitivo, non forma, non realizza, non soddisfa; da qui la visione di una scuola che sottrae al lavoro il più a lungo possibile, per garantire un incontro con la “cultura”, in senso idealistico, unico luogo di educazione alla cittadinanza (o ai valori dello spirito). Altro punto interessante, la ricostruzione del percorso del sistema scolastico professionale nel ventennio fascista. Il sistema dell’istruzione tecnico professionale (coordinato dal Ministero dell’Economia Nazionale) era separato da quello Liceale (MPI), pur con sensibili interferenze (es. i periti agrari e i laureati di agraria dell’Economia Nazionale intrecciavano le loro professionalità con i geometri gentiliani (MPI). L’accusa dei sostenitori delle professioni era che la formazione scolastica certificata col titolo di studio non preparava al lavoro (latino e lettere, inutili per chi dovrà poi fare altro…) Nel 1923, con la riforma De Stefani (nello stesso anno della riforma degli istituti tecnici gentiliani) il titolo di studio diventa il principale criterio di identificazione delle competenze per esercitare le professioni negli uffici statali; e dal ’23 al ’29, gli albi professionali riconoscono come prerequisito il titolo di studio. Altra critica da destra, ma sentiamola bene: la scuola certifica che sai fare, ma quello che ti garantisce non è un know how, ma uno status, un riconoscimento formale e ideologico. Agli inizi degli anni ’20, dal Ministero dell’Economia Nazionale si levano proteste provenienti dal mondo delle professioni (critiche agli statuti professionali e ai privilegi di geometri e ragionieri degl istituti gentiliani); ma l’hanno vinta gli statalisti che vedono passare la MPI l’istruzione professionale secondaria e superiore (legge 889 del 1931). Bertagna definisce questo processo la vittoria del paradigma deprofessionalizzante. L’attacco al valore legale dei titoli di studio è esplicito. La continuità del sistema scolastico italiano è la liceizzazione, iniziata dal fascismo e caratterizzata da una scuola scollata dalla cultura del lavoro. Non è lo Stato che dovrebbe controllare la preparazione per le professioni, ma gli enti territoriali e le imprese. Punto di svolta secondo Bertagna: la modifica del Titolo V della Costituzione, Legge costituzionale del 18 ottobre 2001. Questa pone le regioni come soggetti della istruzione e formazione. Il nuovo articolo 117 elimina l’istruzione artigiana e professionale (che toccava alle regioni mentre allo Stato toccav l’istruzione vera e propria, tecnica o liceale che fosse) e assegna tout court alle Regioni istruzione e formazione professionale.

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sindacalismo di base e autorganizzazione

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Meno Stato, più impresa; meno scuola pubblica più formazione diffusa.

Elementi di interesse: la critica al nozionismo, la valorizzazione di una cultura materiale, del fare, legata all’agire sociale e produttivo; la spietata analisi che lega il sistema di formazione superiore liceale ad una società duale, che poi interviene con la riduzione del danno nei confronti di chi, refrattario al sistema scolastico, trova rifugio nella formazione professionale. Inoltre: è il lavoro fordista ad avere eroso la cultura del lavoro dell’articolo 1 della costituzione; il lavoro esecutivo, di bassa qualifica, ripetitivo, non forma, non realizza, non soddisfa; da qui la visione di una scuola che sottrae al lavoro il più a lungo possibile, per garantire un incontro con la “cultura”, in senso idealistico, unico luogo di educazione alla cittadinanza (o ai valori dello spirito).

Altro punto interessante, la ricostruzione del percorso del sistema scolastico professionale nel ventennio fascista.Il sistema dell’istruzione tecnico professionale (coordinato dal Ministero dell’Economia Nazionale) era separato da quello Liceale (MPI), pur con sensibili interferenze (es. i periti agrari e i laureati di agraria dell’Economia Nazionale intrecciavano le loro professionalità con i geometri gentiliani (MPI). L’accusa dei sostenitori delle professioni era che la formazione scolastica certificata col titolo di studio non preparava al lavoro (latino e lettere, inutili per chi dovrà poi fare altro…)Nel 1923, con la riforma De Stefani (nello stesso anno della riforma degli istituti tecnici gentiliani) il titolo di studio diventa il principale criterio di identificazione delle competenze per esercitare le professioni negli uffici statali; e dal ’23 al ’29, gli albi professionali riconoscono come prerequisito il titolo di studio.Altra critica da destra, ma sentiamola bene: la scuola certifica che sai fare, ma quello che ti garantisce non è un know how, ma uno status, un riconoscimento formale e ideologico.Agli inizi degli anni ’20, dal Ministero dell’Economia Nazionale si levano proteste provenienti dal mondo delle professioni (critiche agli statuti professionali e ai privilegi di geometri e ragionieri degl istituti gentiliani); ma l’hanno vinta gli statalisti che vedono passare la MPI l’istruzione professionale secondaria e superiore (legge 889 del 1931).

Bertagna definisce questo processo la vittoria del paradigma deprofessionalizzante.L’attacco al valore legale dei titoli di studio è esplicito.La continuità del sistema scolastico italiano è la liceizzazione, iniziata dal fascismo e caratterizzata da una scuola scollata dalla cultura del lavoro.

Non è lo Stato che dovrebbe controllare la preparazione per le professioni, ma gli enti territoriali e le imprese.

Punto di svolta secondo Bertagna: la modifica del Titolo V della Costituzione, Legge costituzionale del 18 ottobre 2001. Questa pone le regioni come soggetti della istruzione e formazione.Il nuovo articolo 117 elimina l’istruzione artigiana e professionale (che toccava alle regioni mentre allo Stato toccav l’istruzione vera e propria, tecnica o liceale che fosse) e assegna tout court alle Regioni istruzione e formazione professionale.L’art. 114 del 2001 sancisce la presenza di soggetti altri accanto allo Stato – comuni, provincie, regioni, città metropolitane – e poi il principio di sussidiarietà (art.118) e di legislazione concorrente (tranne che per i livelli essenziali di prestazione (LEP) sanciti dallo Stato.

La legge delega 28 marzo 2003, n.53 è un ripensamento di tutto il ruolo della scuola.I suoi punti chiave: centralità della persona per una responsabilità piena individuale e per una intensificazione dello sviluppo economico (sob!!!)Superamento della distinzione scuola lavoro.Distinzione tra teoria e tecnica (licei e formazione professionale)Valorizzazione delle professioniPiani di studio personalizzati (per problemi e non per discipline)

Le critiche a confindustria e alla legge Bastico dell’Emilia Romagna chiariscono il populismo conservatore del doc Bertagna, vedi a pag 20.