Dentro queste braccia

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ANTEPRIMA Narrativa Contatta l'autore su www.isalotti.serviziculturali.org Leggi a schermo intero Condividi Personalizza

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Da una piccola finestra, un piccolo uomo guarda il mondo come da una fessura. Franco, figlio di una prostituta, scopre presto il sapore dolceamaro della vita. Un matrimonio bruciato in brevissimo tempo, da cui una figlia incredibilmente sveglia e tanto simile a lui. Il pianista Massimo con le sue note malinconiche, Raniero e le sue indagini sui tradimenti, un editore squallido specializzato in collane dozzinali e un omicidio incomprensibile, conducono il viaggio di un uomo attraverso un’esistenza destinata ad approdare a una nuova consapevolezza di sé.

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Servizi Culturali è un'associazione di scrittori e lettori nata per diffondere il piacere della lettura, in particolare la narrativa italiana emergente ed esordiente. L'associazione, oltre a pubblicare le opere scritte dai propri soci autori, ha dato il via a numerosissime iniziative mirate al raggiungimento del proprio scopo sociale, cioè la diffusione del piacere per la lettura.

Questa pagina, oltre a essere una specie di "mappa", le raggruppa per nome e per tipo. I link riportano ai siti dedicati alle rispettive iniziative.

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DESCRIZIONE:

Da una piccola finestra, un piccolo uomo guarda il mondo come da una fessura. Franco,figlio di una prostituta, scopre presto il sapore dolceamaro della vita.Un matrimonio bruciato in brevissimo tempo, da cui una figlia incredibilmente sveglia e tantosimile a lui. Il pianista Massimo con le sue note malinconiche, Raniero e le sue indagini suitradimenti, un editore squallido specializzato in collane dozzinali e un omicidioincomprensibile, conducono il viaggio di un uomo attraverso un’esistenza destinata adapprodare a una nuova consapevolezza di sé.

L'AUTORE:

Salvatore Amandorla è nato a Palermo nel 1978. In Sicilia consegue la laurea inIngegneria e parallelamente alla professione si dedica alla composizione letteraria.Nel 2006 pubblica la poesia “A Favolio” all’interno della raccolta “Dedicato a” editada Aletti Editore. Nello stesso anno si dedica all’attività teatrale prendendo parteallo spettacolo “Teatro e Termodinamica” scritto e diretto da Sandro Conte. Nel2007 pubblica il suo primo romanzo: “Innamorarsi a Roma”, Edizioni FootPrint.L’autore vive a Roma e attualmente lavora alla stesura del suo terzo romanzo.

Titolo: Dentro questebraccia Autore: Salvatore Amandorla

Editore: 0111edizioni Collana: SelezionePagine: 98 Prezzo: 11,00 euro9,35 euro su www.ilclubdeilettori.com

Leggi questo libro e poi...- Scambialo gratuitamente con un altro [leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di unPC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che silegge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto perliberarlo [leggi qui]

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E' la nostra web tv, tutta dedicata ai libri. Se hai il video della tua presentazione, oppure un videotrailer del tuo libro, prima pubblicali su YouTube, poi comunicaci i link. Dopo aver valutato il materiale, lo inseriremo nel canale On-Demand di TeleNarro.

Se hai in programma una presentazione del tuo libro nel Nord Italia e non hai la possibilità di girare il filmato, sappi che c'è la possibilità di accordarsi con Mario Magro per un suo intervento destinato allo scopo. Contatta Mario e accordati con lui.

PARLANDO DI LIBRI A CASA DI

PAOLO ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro

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La trasmissione di Paolo Federici dedicata ai libri. Ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro. E' possibile vedere le puntate già mandate in onda sul canale On-Demand

BOOKINO il CONTASTORIE

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"Bookino il Contastorie" ti racconta un libro in una manciata di minuti. Poi, potrai proseguire la lettura online, su EasyReader.

E se il libro ti piace, potrai richiederne una copia in omaggio con l'iniziativa Adottaunlibro. Clicca su Bookino...

IL CASSETTO DEI SOGNI

(prima trasmissione prevista a FEBBRAIO 2010)

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A differenza di "Parlando di libri a casa di Paolo", questa trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice.

E' però possibile richiedere una puntata dedicata a un libro specifico, non compreso nell'elenco di quelli selezionati, accordandosi direttamente con il conduttore, Mario Magro.

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Con EasyReader puoi dare un'occhiata ai nostri libri prima di acquistarli. Sono disponibili online in corpose anticipazioni (circa il 30% dell'intero volume), che ti consentiranno di scegliere solo i libri che preferisci, evitando di acquistare "a scatola chiusa".

In più, con l'iniziativa Adottaunlibro, puoi richiedere in regalo il libro che sceglierai.

ADOTTAUNLIBRO scegli un libro che ti piace e PARLANE...!

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(L'iniziativa Adottaunlibro è legata all'iniziativa EasyReader)

CONCORSO IL CLUB DEI

LETTORI

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Se hai letto un libro di un autore italiano (edito da qualunque casa editrice), votalo al concorso Il Club dei Lettori e partecipa all'estrazione di numerosi premi. La partecipazione al concorso è gratuita.

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(che si legge BUCO)

all'ANONIMA SEQUESTRI

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In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei quali è richiesto un riscatto all'autore. Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO.

In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.

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Salvatore Amandorla

DENTRO QUESTE BRACCIA

www.0111edizioni.com

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www.0111edizioni.com

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DENTRO QUESTE BRACCIA 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Salvatore Amandorla

ISBN 978-88-6307-252-5 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Marzo 2010 da

Digital Print Segrate - Milano

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1. Mi accorsi del mondo molto prima che il m ondo si accorgesse di me. Mi chiamo Franco e le prime immagini di questa esistenza, le ho viste attraverso il vetro opaco del finestrino di una roulotte. Sono passati diversi anni e insiem e a loro, una vastità eterogenea di persone, storie, case e oggetti hanno attraversato la mia vita. In quest’aula universitaria adesso son rim asto solo io. Una pol-trona comoda, forse un po’ grande mi abbraccia mentre mi dedico alla mia unica vera professione; interpretare, catalogare, racconta-re il mondo che mi circonda. Nessun pensiero arriva a una conc lusione e questo balzare da una cosa all’altra prima ancora di conoscere il sapore della fine, mi ha tenuto vivo, mi ha portato fin qui. Da due anni non guido più, ho deciso d’esser troppo vecchio per una com pleta autonom ia. Alessandr a, m ia figlia segue tutto ciò che riguarda la m ia professione. Or ganizza gli incontri, allestisce le presentazioni, tiene i contatti con le case editrici; tutta roba che io non sono mai stato capace di fare. Non mi sono mai abituato al fatto ch e da me ci si aspetti qualco-sa. Alessandra è cresciu ta tra m e e la m ia ex moglie. Da me ha preso tutto l’amore che disordinatamente riuscivo a darle. Da sua madre ha avuto le garan zie, le certe zze, la stab ilità, i riferim enti. Da questa m iscela di d iversità è germ ogliato quel fiore m eravi-glioso ch e a desso sulla soglia d ell’aula sa luta g li inv itati. Dieci metri dietro alle sue spalle ci sono io, una statua im ponente. An-cora seduto, i mmobile, sento il soffio del condizionatore acca-rezzarmi la barba.

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Probabilmente adesso non ho nessuna espressione. Fisso l’au la e ho la sensazione di sentirmi felice. Ho appena parlato per due ore dei romanzi di Fante, di Bukowski, di Miller e di Houllebe cq. E’ stato com e tornare ind ietro di circa trent’anni. Parlavo di Bandini, di Nick Fante, delle Donne buko-wskiane e rivedevo quasi inevit abilmente m e. Rivedevo il m io appartamento di Vigna Murata, la cameriera del bar, Vio la, Giu-ditta, Massimo e tutte q uel via vai di gente che riem piva la m ia vita giustificando pienamente il mio abbandono al non far nulla. Si, sono passati più di trent’anni e per un im motivato senso di protezione non ne ho mai parlato, non ho mai raccontato. Oggi la fine di questo ciclo di l ezioni mi lascia c ome sospeso in un tem po che non riconosco. Non m i era m ai successo prim a; nemmeno il terminare un romanzo mi lasciava così. Le lezione di oggi è stata faticosa, dolorosa. Ho parlato proprio di quegli autori forse perché in fondo avevo voglia di parlare di me. - Papà, dovremmo andare. Sei stanco? La voce di Alessandra mi sveglia facendomi sussultare. La guardo come impaurito. - No, amore. Non sono stanco, sono contento. Lei ha imparato a non dir nulla. Sorride nello stesso identico m o-do del giorno in cui venne a vivere con me. Con uno sforzo mi tiro su quasi di scatto, prendo la sua mano nel-la mia. Alessandra è senza dubbio la cosa migliore che da me ab-bia avuto origine. Ho sem pre creduto che le sto rie d egli esseri um ani fossero, in qualche modo segnate, scritte da qu alche parte. La m ia esistenza è iniziata in un mondo che aveva senso solo per me. Mia madre si prostituiva ma non ho m ai pensato che fosse una puttana. Io co-

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noscevo il suo dentro, conoscevo i suoi pensieri, le sue paure e a volte nel silenzio di notti interminabili, percepivo i suoi desideri. Pensavo che la vita con lei fosse stata ingiusta. Pensavo che lei fosse troppo debole per questo mondo. Quando pensavo al m io futuro invece, lo imm aginavo diverso. Pensando al m io Domani mi si apriva un sorriso quasi involontario. Già da piccolo sognavo una donna vicino a m e. Ricordo ch e mi sembrava perfino di po-terla vedere; immaginavo i suoi cap elli le sue mani, i suo i occhi. Quando pensavo a lei erano m omenti bellissimi. Immaginavo di dormire insiem e. I mmaginavo il suo odore. Annusavo tra il cu-scino e sentivo il suo odore diventare il nostro odore. Dopo di m e mia madre ebbe una fi glia. Non sapeva chi fosse il padre ma quando si accorse di esse re incinta decise di portare a termine la gravidan za. Così anch ’io av rei avuto una s orella. Quando nacque pensai che fosse un regalo per me. Un premio per aver sopportato quell’infanzia surreale. La scuola fu un buon modo per entrare nel mondo. Le prime mat-tine, con il grem biule blu e la cartella sulle spalle, capii di essere entrato nel mondo dei bam bini normali. Mia madre aveva trovato un lavoro com e domestica in una f amiglia benestante e io e m io sorella passavamo gran parte della giornata dentro a quella scuo-la. Presi la licenza elem entare, poi la media. Cambiai scuola ma restai nello stesso quar tiere. La m attina lasc iavo m ia sorella a scuola per poi proseguire verso l’ istituto in cui, qualche anno do-po, mi sarei diplom ato come perito meccanico. Il giorno che m i consegnarono la pergamena del diploma tornai a casa correndo. Comprammo una cornice in legno e la appendemmo nel soggior-no della piccola casa che avevamo da poco preso in affitto. Face-vo parte del mondo.

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2. Quella mattina, ricordo perfettamente che la vigilessa continuava a scrivere su un blocchetto giallo sbiadito m entre io le chiedevo di parlare. Mi imputava un eccesso di velocità, guida pericolosa e il mancato rispetto della segnaletica. Era tutto vero. Era vero ma io continuavo a non capir nulla. La guardavo scrivere m entre m i perdevo nell’arm onia delle sue curve. Di so lito non erano così le vigilesse. Uno se le imm agina basse, tozze, con un po ’ di pancia e quel leggero odore d i smog. Lei no. Era bellissima dentro a quel pantalone blu. Un bracciale le s cendeva sul po lso mentre l’altra m ano si ferm a-va, indugiava, prima di colpire il foglio. Io stavo in piedi, lì a due passi da lei. Sentivo di dondolare un po’, non riuscivo a pensare. Socchiusi gli occhi e aspettai che quel “vento di femmina” mi ac-carezzasse, mi sfiorasse per un attimo. Era solo un sogno. Lei finì di scrivere, staccò la multa e la stampò sul palmo della mia mano aperta. “Arrivederci, buona sera” Lo sportello si chiuse, si accese la luce della retromarcia e decisa, in due m anovre, fece inversione. Io, immobile, continuavo a os-servarla attraverso il parabrezza m entre la vedevo avanzare verso di me. Ebbi un fremito, avrei voluto fermarla, avrei voluto parlare. Pochi istanti, secondi com e fulmini e m i spostai ponendom i pro-prio davanti all’auto. Lei sgranò gli occhi, frenò ma era ormai troppo tardi. Il cofano mi colpì nel fianco facendomi stramazzare al suolo.

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Dopo fu bianco d’ospedale, fu il rumore di un vicino tutto legato a degli arnesi e a delle carrucole. Non ricordo altro. Mia m adre andava e veniva portandom i gior-nali e succhi di frutta. La fasciatura rendeva doloroso anche parlare. Di quei giorni ri-cordo poco o forse ricordo tutto m a quel Tutto era assolutamente vuoto. Le ore si ripetevano, non cam biava mai nulla. Ogni tanto mia m adre piangeva. S tava lì, ne l corridoio a piangere. Io la chiamavo e lei asciugandosi le lacrime entrava. - Mamma, cos’hai? Perché piangi? - Nulla, nulla, un po’ di stanchezza - Tutto qui, sei sicura? - Si, tutto qui... e poi, mi dispiace vederti così - Tranquilla, mamma, tornerò come nuovo Sorrideva con dolcezza, mi sistemava il lenzuola e, senza aggiun-gere altro, si congedava da me e dal mio ottimismo. La vigilessa si chiamava Luisa. Era stata lei ad accompagnarmi in ospedale, scortando, a sirene spiegate, l’am bulanza che mi prele-vò dalla strada. Aveva parlato con i medici e tramite i miei documenti era risalita a mia madre. Non aveva denunciato il fatto ma nel racconto che fece a mia ma-dre specificò chiaramente che si trattava a tutti gli effetti un tenta-to suicidio. Cosi, tra la sofferenza nel vedermi fracassato e la paura di un ma-le interiore non riuscivo a capire da quale punto sgorgasse il dolo-re di mia madre. A dire il vero non m i importava molto; tutto sarebbe passato, an-che quei giorni d’ospedale sarebbe ro presto dive ntati un ricordo lontano. Luisa si era presa cu ra di me ma non appena possibile m i aveva riconsegnato ai m iei genito ri. Questo m i feriva più dell’incidente. Nei pomeriggi di riviste e succhi di frutta, mi arrovellavo tentan-do di capire com e fosse possibile che nessun dubbio sul motivo del mio gesto, attraver sasse la sua mente. D’altra parte, se anche

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solo per un attimo, avesse incrociato il mio sguardo avrebbe sicu-ramente capito che era lei che volevo fermare. Non volevo affatto morire, volevo solo parlarle. Era accaduto tutto in pochi secondi. Lei aveva tirato su la paletta e io avevo arrestato l’auto. Pochi secondi per entrare dagli occh i e attraversare gli angoli più remoti dell’anima. Tuttavia io ero li, in un letto di ospedale e di lei nemm eno l’ombra. Poi, forse, m i aggravai. A dire il vero non so cosa accadde esat-tamente. So solo che, al m io risveglio, m ia m adre non esisteva più. Ero stato due mesi in coma e non avevo visto spegnersi mia madre. Mi muovevo tra le mura di una casa sconosciuta Tutto era nuovo; gli angoli, le porte, i mobili. Anche il le tto, sembrava sempre in un posto diverso. Il parquet, poi non ne parliam o, non era uniform e e le m ie ruote faticavano enormemente insieme alle mie braccia quando restavo a valle di alcuni dossi giganti. Per non m orire m i piaceva pensare, ricordare, attraversare tutto quel passato senza spiegazioni. Rest avo immobile per ore. Poi, la mano di Luisa m i accarezzava, mi liberava riportandomi nella u-nica vita che fossi in grado di riconoscere.

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3. Mi ero da poco licenziato da quello stupido lavoro che il governo mi aveva elem osinato in quanto invalido temporaneo. Così pas-savo le giornate a casa nell’attesa di riuscire a scrivere il grande romanzo che mi avrebbe, per sempre, tirato fuori dall’anonimato. Avevo ripreso a camminare con le mie gambe. Era stata una sen-sazione m olto forte. Da quando st avo in piedi, Luisa sem brava cambiata. Forse era sempre la stessa ma non riuscivo più a veder-la allo stesso m odo. Non riuscivamo più a far l’am ore. Ci prova-vamo ma io non riuscivo più a venire. Lei dava la colpa al quel mio volere cam biare, a tutti i cos ti, posizione. Per m esi, a causa delle mie condizioni, ero stato di sotto. Mi era sempre montata sopra e lo aveva sempre fatto mantenendo tutta la sua innata sensualità e il suo erotismo. Adesso, avendo ritrovato la mia normalità, volevo tornare a muo-vermi, a non subire il sesso come fosse uno stupro. Lei non lo ca-piva e metteva su un sacco di storie. Con Luisa proprio non anda-va. Il nostro rapporto era nato m entre io ero assente. Era nato du-rante il coma. La nostra storia provava che per amarsi è sufficien-te che si incontrino le anim e, il resto è solo una scenografia che disegniamo per viverci dentro. La no stra storia provava tante co-se, tra cui il fatto che l’am ore è un sentimento finito, che non ha nulla di eterno. Durante gli anni insieme era nata Alessandra. A-desso aveva quattro ann i e som igliava un po’ a entram bi. Il suo viso era qualcosa di equo, di g iusto. Io e Luisa f acevamo di tutto per non discutere davanti a lei. A volte quando Alessandra intuiva le nostre liti, fingevamo di far pace. Fingevamo che tutto andasse bene. In silenzio covavamo odio e risentimento. Dopo la mia gua-rigione, Luisa era diventata in sopportabile. Diceva che m i c om-portavo come se non avessi più bi sogno di lei, com e se lei f osse solo qualcosa di inutile. Forse aveva ragione ma non avevo il coraggio di a mmetterlo. Nonostante l’ira e la voglia di fuggire, sapevo che Luisa per m e era stata importante.

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Era stata l’appiglio che m i aveva riportato in questa vita e m i di-spiaceva renderla infelice. Non m eritava un ab bandono. Nono-stante la ch iarezza dei nostri se ntimenti estinti, tiramm o avanti per via di Alessandra. Nell’anno in cui la piccola entrava in prima elementare, andai via. Affittai un piccolo m onolocale n el quar tiere di Vigna M urata. Era un bel posto, pieno di verde. Se mbrava di star lontani dal ca-os della città. Alessandra aveva imparato a leggere e io avevo ini-ziato a bere. Vivevo con una rag azza russa, Katia. Lei face va la cameriera in un piccolo bar dell ’EUR. L’avevo conosciuta a un concerto. Era venuta a vivere da me praticamente subito. Era sen-za casa e non riusciva a pagare un affitto. La sera bevevamo in-sieme fino a notte inoltrata e, quando ne avevamo le forze, sco-pavamo. Non credo che fosse m ai capitato di far l’amore. Katia per me era sola una discreta compagna. Io continuavo a scrivere collezi onando opere incompiute. Partivo pieno d’entusiasmo e sistematicamente mi fermavo a metà storia. Così casa mia era un cu mulo di m anoscritti. Katia guard ava per-plessa i m iei racconti. Probab ilmente non riusciva a capire se stesse convivendo con un genio o co n un fuori di testa. La matti-na lei usciva prestissimo. La sentivo chiudere la porta e io restavo a dormire. I risvegli s i somigliavano tutti. Le m ie mattine erano mal di testa e vomito d’alcol. La casa in c ui vivevo er a piccola ma aveva un’ ottima esposizio-ne. L’agente immobilia re, m ostrandomela aveva detto che dalla camera da letto av rei potuto vedere il sole all’a lba. Ovviamente non vidi mai sorgere nessun sole. Al m io risveglio, il sole era quasi sempre un’infuocata verticale sul mondo. Non provavo mai a scrivere prim a delle sei del pom eriggio. Sotto casa c’era una fermata dell’autobus. Guardavo la ge nte salire e scendere mentre il sole mi batteva sulla testa. Dopo sei mesi di convivenza buttai Katia fuori da casa. La presi a calci mentre tentava di scappare raccogliendo la sua roba. La sera le vedevo fare lunghe telefonate di cui non voleva assolutam ente parlare. Era evidente che vedesse un altro uom o. Da un paio di mesi non avevo più voglia di scop arla così, la puttanella aveva trovato qualcuno per soddisfare i s uoi continui pruriti. Finsi d’andar a trovare m ia sorella per un paio di giorni. Uscii di casa la m attina. Lei m i salutò am orevolmente augurandom i buon vi-aggio. Tornai dopo qualche ora e la trovai a cosce aperte con in

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mezzo un messicano, sudicio e puzzo lente che ci dava sotto con tutte le forze che av eva. Mi creai un’arm a rompendo una botti-glia sul pavimento e iniziai le danze. Il messicano andò via, dopo pochi minuti, con una bella cicatrice sul naso. Lei, con una m ano sanguinante, sedeva sul letto pian gendo silenziosamente. Io ripo-savo su una sedia con ancora in m ano la bottiglia sporca di san-gue. Avevo un taglio sul polso e uno sul braccio. Ansimavo per la stanchezza. Lei iniziò a raccogliere la sua roba. Quando fu vicino alla porta la raggiunsi e iniziai a ca lciare. Lei ca dde e si tr ascinò faticosamente oltre l’ingresso. Ch iusi la porta e andai in bagno, asciugai il sangue e iniziai a piangere. Quella sera ingurgitai tutto ciò ch e c’era in casa. Mi distesi sul letto gonfio com e un pallone e cr ollai in un sonno m olto simile alla morte. L’indomani il sole apparve da diet ro i vetri. La sera prim a non avevo chiuso le serrande, così un fascio di lu ce si distese sul mio viso e sul m io corpo a vvolto nel lenzuolo. Aprii dolorosam ente gli occhi. Probabilmente le palpebre erano gonfie. Vidi la luce del sole filtrare attraverso i vetri. Il mondo là fuori sem brava sveglio già da un pezzo. Entrai nella doccia prima ancora di regolare la temperatura. Per la prima volta, dopo anni, feci la doc cia anziché il bagno. Mi rasai e mi pettinai. Tam burellando cosparsi il viso con la lo zione. L’odore di mentolo sapeva di nuovo, di pulito. Il rumore delle di-ta sulla mia pelle limpida era il suono della m ia nuova vita. Rac-colsi le bottiglie dal pavimento e pulii le macchie di vomito rima-ste sul parquet. L’agenzia per il lavoro si trovava in via Arenu la. Per arriv are in centro presi due m etro, un tram e infine un autobus. Percorsi un bel pezzo d i strad a a piedi. Non ero più abituato a camm inare. Forse non ero più abitu ato alla vita. Dentro alla giacca, so tto la camicia, sentivo form arsi goccio line di sudore. Sudavano anche le mani. Posai la car telletta con le copie del mio curriculum e mi asciugai la fronte. La ragazza dell’agenzia era sulla ventina. Probabilmente studiava e lavorava lì solo com e part-time. Aveva i c apelli castani raccolti in un elastico blu. Il viso era tru ccato e gli occhi ben definiti. Mi sorrise senza calore e mi indicò la scheda da compilare. Il modulo era un blocchetto da sei pagine. Risposi quasi onestamente a tutte

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le domande. Lesse molto velocemente la storia della mia vita, poi alzò lo sguardo e senza em ozione disse - manca la foto. Per pre-sentare il curriculum deve allegare una sua foto - Non capivo a cosa diavolo servisse la foto. Io volevo solam ente fare il m eccanico, non volevo certo partecipare a un conco rso di bellezza. La ragazza m i indicò una di quelle m acchinette automatiche che stava proprio sul marciapiede di fronte. Ovviamente non avevo le monete, così andai in cerca di un bar per cam biare la banconota che avevo in tasca. Tornai orgoglioso. Per cam biare i s oldi, la cas siera mi aveva co-stretto a consumare qualcosa così avevo acquistato della cioccola-ta e un paio di sigari econom ici. Infilai le monete e mi posizionai alla meglio sul seggio lino girevole. Aspettai le f oto. Le tagliai e le consegnai alla ragazza. - Entro la pro ssima settimana la con tatteremo se ci sarà qua lche offerta di lavoro per lei. Grazie e arrivederci- Riuscì a pronunciare quelle paro le proprio come la voce autom a-tica di una segreteria telefonica. Annuii in segno di saluto. Mi voltai e tornai per strada. La giornata era m eravigliosa. Il sole, ancora non troppo alto, riempiva di luce i vicoli del cen tro. Passeggiai. Attraversai largo Argentina, passai p er piazza Navona, torn ai verso Cam po de’ Fiori. Comprai un giornale e attraversai ponte Sisto. Come diversi anni prima, trovai spazio tra i gr adini di piazza Triluss a. Mangiai della pizza e m i avviai verso casa. In tram , tenendo il giornale in mano, mi accorsi che era giovedì. L’indom ani Luisa m i avrebbe portato Alessandra. Ch issà cosa avrebbero pensato trovandom i così in ordine. Mentre questi pe nsieri mi attraversavano la m ente fissavo, senza renderm ene conto, un’anziana signora seduta di fronte a me. Le sorrisi imbarazzato e lei cordialmente ricambiò . La signora scese alla ferm ata prima della mia. Mentre il tram ri-partiva la guardavo allontanarsi. Le guardai le scarpe e pensai che forse mia madre oggi sarebbe stata più o m eno come lei. Pensai ad Alessandra e tornai a sorridere come incantato.

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4. Rielaborava i suoni al pianoforte. Massimo era così; dopo quindi-ci anni di studi classici e un dipl oma al conservatorio di S. Ceci-lia, aveva d eciso di sp ostare i tasti del suo piano sui suoni della vita. A d are il La furon o Buster Keaton e Charlie Chaplin con il cinema muto degli anni venti. Iniziò con lo studiare le partiture che accom pagnavano q uei film . Le sue dita si perd evano tra complesse tecniche di im provvisazione. Il m etronomo ba tteva sempre lo stesso tem po mentre lu i, come nel cinem a di Keaton, costruiva complessi meccanismi sonori. Aveva suonato nei teatri, negli auditorium, perfino nelle chiese. Oggi, con quaranta cande-line sulla torta, sprofondava nelle penom bra dei cineforum not-turni improvvisando ponti tra vari generi musicali. “sono un ricercatore di sonorità”….così si presentav a a chi chiedeva quale fosse realmente il suo mestiere. Il film della serata era Tempi Moderni di Chap lin. Lui sedeva al piano. Charlie si perdeva fra le note mentre Massimo scorreva fra i mec-canismi di terzine magliate come ricami. Sua moglie Laura era andata via. E ra andata via dopo aver sco-perto quel tradimento, quell’orrenda faccenda di cui lu i aveva da tempo deciso di non parlare. Forse in fondo non c’era nemm eno niente da dire, non c’erano più paro le per quell’intreccio di sesso e menzogna che aveva annerito, come argento invecchiato, la loro storia; Quel fatto cos ì sporco e pe sante da far crollare i ponti su cui per anni aveva passeggiato il loro amore. Lo studio legale di Laura dava su via Nomentana, poco dopo villa Torlonia. Quella mattina le serrande erano rimaste abbassate, lei non avrebbe più riaperto il suo ufficio. Diversi clienti provarono a rintracciarla, ma lei era riuscita a sparire al punto da far pensare a un espatrio. Era sparita dal mondo normale della sua vita per per-dersi nei corridoi della più scura inquietudine. Trascorse due mesi nel più totale isolam ento. Massimo provò più volte a spiegarle, a scusarsi, a cercare perdono per quell’orrendo tradimento ma tutto

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si infranse nelle pareti delle stanze in cui quell’anima ferita aveva deciso di chiudersi. Era stato un vero amore, una di quelle storie iniziate per caso, uno di quegli incontri in cui ci si sorprende vicini. Si erano accarezza-ti con le parole per far incontrare poi la pelle. Erano unico odore, erano sogno di pensiero in due. Per anni avevano aperto insieme l’enorme finestra della cam era da letto, per anni avevano sentito il legno cigolare su cerniere affatic ate. Erano unico respiro in un mondo che cambiava. Alcuni dolori sedimentano dentro com e pezzi d i pietra app untiti. Te li porti lì, come in un sacco che vorresti accantonare ma di cui non riesci a fare a m eno. Massimo aveva rinunciato a cercarla, a sperare di riaverla vicino. Casa sua adesso era un piccolo bilocale alla periferia nord di Roma. La sera appendeva con cura la giacca e si lasciava andare sul divano deformato. Erano rim asti in due: lui e il suo f ratello a qua ttro zampe, Otto. La sera, quel m eticcio quasi labrador lo aspettava ansios o di raccon tare la sua gio rnata tra ciotole e divano. Massim o aveva fum ato per anni toscani in-vecchiati p oi, separato si da Laura, non avev a più sopp ortato l’odore acre di quel tabacco. Adesso stringeva fra i d enti un toscanello aromatizzato all’anice, roba meno forte, più adatta a que l dolore così spigoloso. Otto si addormentava sul divano con la testa sulle sue gam be, come un bimbo. Poi Massim o si alzava lentam ente, girava la chiave della sordina e iniziava a suonare. Im provvisazione libera in do nona, cominciavano così tutti i suoi notturni da appartam ento. Era m a-linconia pura, era blues dolorante. Ci eravamo incontrati al “Blue Night”, un localino da due soldi col nome di una vecchia bettola am ericana. L’ingresso del locale dava su via Tuscolana e la sera i pochi clienti la sciavano le auto in ordine sparso sulla pretenzi osa approssimazione di un m arcia-piede. Al Blue Night suonavano blues a pezzi, una specie di acco zzaglia di giri in settim a e fra mmenti noti. Se ti sforzavi, a volte ricono-scevi Hooker, Cocker o qualcos a di m ezzo italiano e m ezzo in-glese. Venivamo da strade dive rse ma a quel tavolo ci incontra-vamo sempre nell’ensemble di un Johnnie W alker allungato con coca.

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Un anno prima Massimo aveva tentato il suicidio con il gas. Non c’era r iuscito, il ciac caquattro impuzzolentito da molecole infor-mi aveva riempito casa ma non era arrivato ai suoi polmoni. Ansimando come un asm atico, era finito per aprire le finestre e rinviare a tempi sconosciuti, l’inco ntro con la morte. Era in do settima, la salvezza suonava all’incirca così: do maggiore, do set-tima, sol settim a. Un giro ripe titivo lo aveva riagganciato a una vita che stava abbandonando.

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5. La chiam ata dall’ag enzia pe r il lavoro arrivò prim a di quanto immaginassi. Mi chiamarono al telefono di casa. La signorina, all’altro capo del filo, sembrava la stessa cui avevo consegnato la domanda. - Signor Avolio, - Si? - C’è un’offerta di lavoro per lei - Di cosa si tratta? - Non posso darle queste infor mazioni per telefono, deve venire domani in agenzia. - Ok, domani sarò da voi. Per avere l’inform azione dovetti pa gare venti euro. A loro non importava se il lavoro m i andava bene o m eno, dovevo pagare l’informazione e basta. Fortunatamente l’offerta non era ma le. Era di un’officina Alfa non troppo distante da casa m ia. Cercavano un giovane aiuto meccanico. Sul giovane avrebbero pot uto aver qualcosa da ridire ma dalla mia parte gio cava una precedente es perienza fatta in un’officina automobilistica. Presi l’appuntamento per il colloquio e mi presentai sul posto l’indomani mattina. Il capo dell’officina era un ti po simpatico. Mi fece alcune do-mande per provare, a suo m odo, le mie conoscenze m eccaniche. Ne rimase soddisfatto e m i assunse. Qualche giorno dopo scoprii che aveva già incontrato diverse persone ma non gli era andato a genio nessuno. La fortuna stava a ttraversando la m ia vita. D ove-vo solo star calmo e non farmi troppe illusioni. I primi giorni mi fece una specie di corso di form azione, poi ini-ziò la fatica vera e propria. La sera tornavo a casa nero di grasso e senza più un briciolo di forza. Non riuscivo a scrivere nulla ma lo ritenevo un problema collaterale. Passarono un po’ di m esi e, gradualm ente, ripresi a bere. In officina era appena stato assunto un ragazzo. Un tipo alto

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e grosso. Aveva la pelle chiarissim a e d iceva di essere di o rigine tedesca. La sera beveva tantissimo e la mattina riusciva a presen-tarsi sobrio sem pre e c omunque. Iniziamm o a bere insiem e. Io non ero come lui, così la mattina iniziai a far tard i. Il capo offici-na m i riprese un paio di volte. Non m i aggrediva, m i prendeva con calma, mi pregava di comportarmi degnamente. Sopportò per un paio di mesi, poi mi licenziò. Intanto casa mia era nuovamente un casino. Insieme alle bottiglie erano riapparsi i mozziconi di si-garo sul pav imento. Ripresi a vom itare tutte le m attine. Il venti-cinque aprile ero stato invitato a pranzo da mia sorella. Avrei por-tato con m e Alessand ra. La m attina vom itai s angue. Al p ronto soccorso m i diagnosticarono una gastrite ulcerosa. Non dovevo più ne bere ne fum are. A dire il vero credo che bastass e smettere di bere ma il medico nella confusione volle approfittarne per ten-tare di salvare i m iei polmoni. Gli fui grato. Dopo due settimane ripresi l entamente a fumar e. Ne l frattem po stavo scrivendo un romanzo. La m ia fantasia aveva ripreso a girare, questa volta c’ero. Vivevo con il sussidio stat ale di disoccupazione. Stavo rin-tanato in casa a scrivere e fumare. Dimenticavo di far la spesa co-sì, a volte, m i toccava mangiare quella robaccia in scatola che a-veva lasciato Katia. In quanto al sesso, f requentavo regolarmente una prostituta afri-cana. Diceva di chiamarsi Desiree ma probabilmente il suo nom e era un impronunciabile idioma africano. Veniva lei a casa mia. La chiamavo al cellulare. O rmai mi conosceva. Pagavo quaranta eu-ro per ogni scopata. Non era m ale. Mi sem brava di conoscerla, ormai non era più un’estranea. Smisi di f requentarla la notte che p isciò nel mio letto. S i era ad-dormentata e non avendo la forza di alzarsi aveva deciso delibera-tamente di pisciare tra le lenzuola. L’indomani la pagai. Non dissi nulla e non la chiam ai più. La notte stavo sveglio per scrivere. Preparavo due caffé e li sorbivo lentam ente per vincere il sonno. Il camion che raccoglieva la spazzatura passav a alle due e trenta. Faceva un rumore insopportabile. Era quel rumore che segnava la fine delle m ie notti da scrittore. Il rum ore di quell’amm asso di ferraglia e uomini era come un papà che ti spegne la luce prima di andare a dormire.

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6. Il gracchiare violento del citofono mi riportò al mondo. Stavo so-gnando. Sognavo di essere in una casa molto simile alla roulotte in cui vivevo da bambino. Era una casa molto piccola in cui vive-vamo: io, mia madre, un padre senza volto e un grosso cane bian-co, un m eticcio dal pelo corto. Il cane parlav a. Aveva una voce profonda, da baritono. E ra appena tornato da una passeggiata nel giardino vicino a casa. Era entrato lam entandosi per il tem po in-certo e per la cena della sera prima. Ho mangiato male. Dico, rendetevi conto che ho mangiato male. Devi accettare di m angiare quella roba. E’ l’unico m odo che hai per guarire definitivamente. Ma chi se ne frega di guarire. Guarda fuori che cielo che c’è. Pas-sa la voglia di vivere. E sec ondo voi dovrei tornare a casa e m an-giare quella robaccia?! Gli presi l’enorm e testone fra le mani accarezzandogli le o rec-chie. Aveva smesso di lamentarsi e stava scodinzolando. Il citofono continuava a insistere. Lasciai il cane, il padre senza volto e m ia madre in quel m ondo sospeso e tornai alla m ia, più dolorosa, realtà. - Si? - Avolio? - Si, dica? - C’è una raccomandata, deve scendere per firmare. - Arrivo. Calzai rap idamente un paio di ciab atte e, con ancora il pigiam a indosso, andai giù per le scale. Dopo la prima rampa cominciai a sperare di non incontrare ness uno oltre il postino. Non incontrai nessuno. Il postino era già spazienti to per quei tre m inuti di atte-sa.

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- Firmi qui. Mi porse una ricevuta spiegazzata. La firmai e tornai su. Aprii la bus ta pr ima ancora d i a rrivare al piano. Era una lettera della Armesi Editore. Gentile autore, la nostra commissione di valutazione ha letto il suo racconto “U-na giornata senza sole” e l’ha trovato particolarmente interes-sante. Saremmo lieti se Lei ci venisse a trovare in via Anselmi 12, località Grottaferrata, per concordare i dettagli di pubblicazione del suo racconto. La preghiamo di contattare la nostra segreteria per fissare l’appuntamento. Cordiali Saluti. Armesi Editore. Ripassai più volte, con lo sguardo, tu tte le righe della lettera. Era la prima volta che una casa edit rice mi contattava per pubblicare qualcosa. Di solito arrivavano cose del tipo: siamo spiacenti ma il suo racconto, seppur valido, non rientra nella nostra linea edito-riale. Presi l’appuntamento per telef ono e l’indom ani mi presen-tai a lla Ar mesi. Per me era un gr ande evento per loro era una prassi del tu tto abituale. Mi acco lse un’anziana segretaria. Porta-va i capelli corti. Era bionda dell a tintura da parr ucchiere. Aveva un profumo intenso, credo una flagra nza di rose e zagara. Mi in-dicò la porta dell’editore. Bussai e entrai. Un’ora dopo ero fuori, con in m ano un assegno da m ille euro. L’editore era un om one con una gr an pancia. Aveva i capelli gri-gi. Grigi in modo uniform e. Anche la sua sem brava una tintura, probabilmente non lo era. Le c ondizioni erano chiare e senza margine di trattativa; mille euro a me e i ricavi delle vendite a lo-ro. Così se il m io racconto fosse diventato un successone, io m i sarei ritrovato in tasca sempre e solo m ille euro. Non era un buon accordo ma non avevo molta scelta . Mi interessava far conoscere la mia penna e quello era il primo passo. Sulla strada di ritorno mi ferm ai a fare un po ’ di spesa. Comprai un sacco di roba da mangiare. Guardai dubbioso il reparto liquori.

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Non com prai nessun a lcolico. Rac colsi la spes a nei sac chetti e tornai a casa.

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7. Ho le rugh e. Lo specch io del bagn o sem bra messo li per andar bene solo alla m ia di statura. Tutte le donne che sono entrate in questa casa hanno dovuto fare un pi ccolo sforzo sulla punta dei piedi. L a cosa m i ha sempre di vertito al punto da posizionare i saponi per la doccia a più di due metri d’altezza. Entravano sicure dentro al getto d’acqua calda per arrestarlo do-po qualche secondo. Dalle altre stan ze ascoltavo divertito la loro fatica a dover chiedere aiuto. Tutte uguali. Alcune esitavano di più e il silenzio che veniva dal bagno era chiaramente il suono di vergognosi tentativi per arrivar lassù. Ricordo ancora l’espressione di F laminia m entre asciugandosi dentro al mio accappatoio mi dava del sadico. Qui non si muove una foglia. Da un po’ di giorni la solita normalità. Comincio ad annoiarmi. Massimo mi chiam a cento volte per fissare un im probabile ap-puntamento in un’improbabile pizzeria nei pressi di San Giovan-ni. A tavola siamo in otto e io conosco solo Max. A pensarci bene non conosco bene nemmeno lui. Le pizze sono buone m a un po’ bruciate. La ragazza ch e m i si ede accanto ind ossa un vestitino fiorato leggerissimo. Prevale l’arancione e lo sanno le sue scarpe che richiamano il colore. Lo sa anche la sua borsa mentre dondola su due fianchi generosi ma sensuali. Di tanto in tanto lascio anda-re le posate nel piatto e mi volto. Con la parte bassa dello sguardo vedo la fine la fine della stoffa su quella coscia così chiara e mor-bida che chiede un m orso. Avrei voglia di tocca rla ma credo che non sia molto opportuno. A circa metà pizza e tre quarti della mia birra sento che non resisto più. Le i continua a parl are con la sua amica quasi ignorandom i. Ai m ovimenti della testa m i arrivano folate di profumo e ormoni consapevoli della loro identità. Com e tarli nel legno, quegli orm oni si depositano nei m iei pensieri. E’

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meglio alzarsi. Dalla tasca dell a giacca sfilo sig aro e accen dino. Pausa. E’ quasi estate. L’aria è fer ma ma si respira bene. Il sole è andato giù da qualche ora e sulla mia testa è blu di blues. Do settima. Il sigaro infastidito m i chiede d’essere spento bruciandom i l’indice. Cazzo, le m ani sono m acchiate di fumo. Mi imm ergo nella nube di frittu ra e legna bruciacchiata per cercare il b agno del locale. Il sapone è finito m a abbonda la carta igienica. S ciac-quo le m ani sotto il getto freddo e come una droga m i torna in mente quel vestitino che accarezza la coscia. Porto le mani al viso nella speranza che l’acqua fredda purifichi i miei pensieri. Niente da fare. Al tavolo, la m ia sedia è ancora li. Accanto a me solo la borsetta orfana dei suoi com pagni cromatici. E’ uscita a fumare. Incredibile il m io tempismo ma ancora più incredibile la m ia in-capacità a scambiare due parole pur essendole seduto accanto. Ho tutte le occasioni del mondo ma non posso parlare, sono come imbavagliato dalla forza del desi derio. Sono sicuro che se dico più di due parole le propongo di scopare. Per cui meglio tacere. La pizza in tanto è fredd a. Mandò giù l’u ltimo fondo della m ia birra mentre tutti sono già al caffé. Tocco la pizza con la forchetta per contro llare se è ancora viva. Fredda com e un cadavere, era meglio restare a cas a. Poco prima di mezzanotte le mie ruote ac-carezzano rabbiose il grande racco rdo anulare. Esco sull’Aurelia. Folclore di prostitute e clienti. Sono quasi tentato di caricarne u-na. Rallento ma sento che devo vomitare. Sogno la tazza del mio bagno. Buona notte.

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8.

Ha delle pagine così rassicuranti, il mensile su Costume e Socie-tà. E’ il num ero invernale quello che adesso mi scorre fra le dita. Le immagini hanno sfondi grigi, sono città sotto la pioggia. Loro, le modelle, hanno volti così rassicu ranti. Per lo più sono avvolte dentro a calde e colorate sciarpe di lana. Nonostante il grigio e l a pioggia che rende umido il fondo delle foto, loro sono serene. Gli articoli anticipano su l clim a, sulla m oda, su improbabili svolte sociologiche nell’ambito delle re lazioni interpersonali. Sono tutti così belli. Hanno facce calde di tè nelle tazze. Sorrisi sereni di buon sonno invernale. A guardarli bene, mi sembra quasi di poter sentire il profumo misto di sonno e piumone. Dolcissimo, un pro-fumo che m escola l’essenza di donna al sapore di bambina. E viene voglia di coccolarsi, di restare a letto abbracciati. Viene vo-glia di caffé e latte, di brioch e al m icroonde. Viene voglia di pi-giami, di pantofole straimbottite. Ch iudo la rivis ta e m i accorgo di essere qui, lontano non so qua nto da quel mondo. Sotto la ma-glietta, la mia pancia oggi sembra enorme. Forse lo è. Torturo gli angoli con le dita e mi rassegno a un gonfiore che non ha nulla di momentaneo. Mi sono lasciato anda re, si. Peccato, a soli trenta-quattro anni nessuno sport, nessuna cura per la m ia persona. Con le donne no n va più da un pezzo. L’ultim o successo era stato il rapporto con Katia. Un successo da gli esiti talm ente positivi che lei era finita per farsi scopare da quel m essicano. Ma Katia non aveva colpe; sono io a non andare. Non ho voglia di nulla, guardo il mondo come da una finestra, da dietro una grata. E com e se mi fossi rassegnato a non vivere. Mi limito semplicemente a guarda-re. Mi tocco la fronte e porto via un’infinità di goccioline di sudo-re. Cavolo, fa sempre caldo qui. C’è sem pre caldo, c’è sempre da sudare. Il telefono non squilla gi à da un po’. Guardo con nostal-gia il cellulare e penso a quando ero un continuo squillare di chiamate e m essaggi. Ma dove ho posteggiato la m ia vita? Così, proprio come con la m acchina, non ricordo più dove l’ho messa

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l’ultima volta che l’ho usata. Dopo la pubblicazione del m io rac-conto ho deciso di non bere. Non berrò. Resterò lucido nell’attesa di una donna. Mi piacciono le donne del mio tempo. Mi piace il loro m odo di vestirsi, il loro m odo di affrontare la vita. C’è tanta dolcissima fragilità nascosta nel parla-re di una donna. Viola era b ellissima. Avevam o concordato d i incontrarci n elle prime ore del pom eriggio. Lei arrivò in ritardo. Federica, sua cu-gina, mi aveva anticipato qualcosa. - No, tranquillo, se ha detto che viene, viene. Non si sa bene quando ma viene. - Ma mi ha detto che nel primo pomeriggio sarebbe stata qui! - Si, lei da’ sempre un orario indicativo. Indicativo, appunto. Quando le aprii la porta la vidi per la prim a volta. Dim enticai all’istante il mio fastidio per il suo ritardo. Sorrise piegando la te-sta sulla spalla. - Scusami, lo so, dovevo arrivare nel primo pomeriggio. Sei ar-rabbiato con me? Se ero arrab biato con le i? In quel mom ento ero com pletamente inebetito. E poi era la prim a volta che la vedevo e lei m i parlava come se ci conoscessimo da una vita. - Allora? Mi fai entrare o restiamo qui tutta la notte? La “notte”! Effettivam ente aveva ragione, erano già le nove e mezza. Si tolse il giubbotto lasciandolo gocciolare sul pavimento. - Hai visto che pioggia? Sembra pieno inverno. Hai già cenato? Lasciai andare l’ossigeno che avevo trattenuto dall’apertura della porta. - Si, anzi no. E tu?

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- No, io sono stata fuori tutto il giorno. Mangiamo qualcosa as-sieme? Restai immobile. Lei mi osservò un po’ e poi con le m ani aperte fece un gesto, un piccolo sollecito per ridarmi vita. Mio dio, dopo tante puttane senza ritegno quella cosa incantevole che si muove-va per casa, mi paralizzava. La precedetti quasi correndo. Sapevo di non aver nulla di nulla da mangiare. O meglio, avevo solo roba per la colazione. Beh, tutto sommato, considerando la pioggia che batteva sui vetri, potevam o provare una m egacolazione con tè e biscotti, no? Insomma, una figura di merda senza precedenti. Lei, intanto, incalzava: - Cosa mi prepari? Già, che ti preparo? Pensavo mentre sentivo il sudore freddo ri-garmi il collo per poi attraversare rapidamente la schiena. - Hai qualche preferenza? No! No, mi stavo incasinando di più! Non avevo nulla e azzarda-vo pure di darle carta bianca sul menù - No, dai, fai tu. Per me qualunque cosa va bene. Ripresi a re spirare. Apr ii la gh iacciaia e scop rii tre h amburger vegetali, al tofu. E che diavolo è il Tofu? Maledetto a me quando mi son fatto far la spesa da Giovanna. - Sai Viola, in questo periodo io sto evitando di m angiar carne, così per disintossicarmi un po’. - Bene, fai bene- lei rispondeva dalla stanza acca nto, stava sfo-gliando i miei libri - Così avrei pensato di farti a ssaggiare dei buonissimi hamburger vegetali, ti vanno? - Si, dai, proviamo Senza entusiasmo, ma a ndava bene. Infilai quei cosi a l tof u nel microonde. Quattro minuti per lo scongelam ento e sei per la cot-tura. Dieci minuti in tutto e avrei risolto il problema cena.

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Hamburger al tofu? Chissà che schifezza… Li infilai nel forno e tornai da lei. E ra distesa sul divano. Legge-va, aveva in m ano uno dei m iei libri di poesie. Si com portava come se avesse vissuto da sem pre in quella casa. Intanto il tofu, qualunque cosa fosse, si stava scongelando. Ripresi un po’ di sicurezza. - Ti piace? Lei mosse la testa poggiandola sullo schienale. - Si, sono m olto belle. Ti piacciono le poesie o è un regalo non gradito?- - No, no. Ho comprato io quel libro. - Ah si, non l’avrei detto. Come non l’avrei mai detto? Cosa le sembravo, uno zotico insen-sibile? Intanto il beep del microonde mi richiamava in cucina - Vado, sai, il tofu… - Il che? - no, niente, gli hamburger…vado a controllare la cottura. Mangiammo insieme quei due cosi che sapevano di cipolla. Sen-za pane, non ne avevo. Il tofu, qualunque cosa fosse, le aveva messo allegria. Si era nuovam ente distesa sul divano e, poggian-do la tes ta sulla mia gamba, avevo aperto la dis pensa di ing lese. Era questo il motivo, lei voleva ripetizioni di inglese. Io lo sapevo ma me ne ero completamente dimenticato. Prese a leggere i primi capitoli e io, seguendola, cercai di sp iegarli al meglio che potevo. Dopo meno di un’ora si addormentò con la dispensa ancora aper -ta. Mi alzai cercando di non svegliar la e la presi in braccio. Quel corpo addormentato emanava un dolcissimo calore profumato. La distesi delicatamente sul letto e la coprii con un coperta. Tornai sul divano. Mi lasciai cadere indiet ro e restai im mobile a fissarla mentre dormiva. Avrei voluto toccarla, accarezzarla ma ero come paralizzato.

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9. Divenne un’amicizia molto simile a una relazione. Orm ai avevo imparato a non dar più un nom e alle cose. Della vita d i Viola sa-pevo pochissimo. C’eravamo sempre e solo visti a casa m ia. Non eravamo mai usciti insieme. Lei dur ante la settimana, ogni tanto, veniva da me. Facevamo l’amore e poi dormivamo insieme. Fini-va tutto in queste poche azioni. Nessuno dei due aveva m ai chie-sto di andare oltre, non avevam o mai parlato di noi e di cosa pro-vassimo, dell’idea di stare insiem e. Forse non era necessario par-lare o forse, più sem plicemente, in questo m odo era più comodo per entrambi. Lei non veniva m ai durante i weekend il ché m i la-sciava immaginare un ipotetic o fidanzato. N on m i i mportava molto di sapere il resto. Mi andava bene così. In quel periodo sta-vo molto bene, riuscivo a buttar giù fino a duemila parole al gior-no. Non avevo necessità degli altr i. Scrivevo e Viola era l’unico pezzo di umanità che riuscivo a tollerare. Avevo sempre la sensazione che questo equilibrio non potesse durare a lungo. Invece durò quasi due anni. Era una cosa co sì na-turale che non riuscivo a immaginarne la fine. A suggerirm i il fi-nale fu Luisa. Durante la separazione avevamo stabilito che avrei visto Alessandra alm eno una volta a settim ana; così Luisa ogni venerdì portava la p iccola a casa mia. Pur avendo concordato la cosa, Luisa diventava nervosa già dal mercoledì. Durante il tragit-to in macchina le ripeteva: Mi raccomando, Ale, se papà fa qualcosa di strano o ti sembra che non stia bene, chiamami subito. La piccola intanto dal finestrino posteriore guardava fuori e pen-sava che lei del suo papà non av eva nessuna paura e che se lui fosse stato m ale, non avrebbe chiam ato la m amma ma se ne sa-rebbe presa cura lei. La mente dei bam bini spesso va o ltre quelle già atrofizzate d egli adulti.

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Viola non aveva m ai visto Alessandra. Quel venerdì eravamo sul divano in mutande ad accarezzarci con le gam be quando suonò il citofono. Era Luisa. Mi infilai i pantaloni mentre Viola cercava i suoi vestiti sparsi per la casa; era entrata in bagno con in m ano la sua roba e aveva aperto l’acqua della doccia. Aprendo la porta, Alessandra mi travolse con un abbraccio. Profumava come sem-pre. A volte guardando le mie dita bruciate dai sigari non riesco a credere d’aver potuto creare qualcosa di così m eraviglioso. Luisa entrò mantenendo lo sguardo più indifferente che fosse in grado di fare. Men tre sollevavo Alessandra tra le b raccia, Luisa notò il rumore della doccia. - Sei solo? - Si, no, c’è un’amica. Nel frattempo, mentre l’acqua della doccia continuava a scorrere, Viola aprì la porta: - Hai per caso visto il mio reggiseno? Dallo sp iraglio v ide Luisa e rich iuse rap idamente.Luisa esp lose all’istante con un’energia incredibile. - No, eh no, così non va. Io m ia figlia in questo puttanaio non la lascio! Intanto avevo rimesso su i suoi piedi la piccola. - Luisa, aspetta, non fare un dramm a. E’ un’am ica, è una brava ragazza, vedrai che ad Ale piacerà. Alessandra intanto, dal basso, ci fissava alternativamente. Proba-bilmente per la sua intelligenza pura, io e Luisa eravamo solo due scemi incapaci di comunicare. - No, no, questo è troppo. Luisa afferrò per un braccio Alessandra e la tirò verso la porta. La superai rapidamente e chiusi la porta bloccandola con il piede.

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- Tu non porti via mia figlia. Luisa devi rispettare gli accordi. - Non c’è nessun accordo valido di fronte a una casa piena di put-tane! - Ma quali puttane! Luisa, è un’amica, smettila, sei ridicola. - Luisa mollò la presa. - Te la farò pagare. Voltò le spa lle e inf ilò la por ta che intan to avevo liberato. Non feci in tem po a udire il chiuders i della porta blindata che V iola venne fuori dal bagno come una furia. - Me ne vado, basta! - Ma che t’è preso? - Io non mi faccio dire puttana da nessuno, chiaro? - Ma no, Viola, lascia perdere. Luisa a volte perde il controllo. Non sa quello che dice. - No, invece sa bene quello che dice. Mi dispiace ma non ho nes-suna intenzione di restare in mezzo a questo casino. Rivolgendosi ad Alessandra: - Scusami piccola, non l’ho con te e che la tua m amma ha detto delle cose molto brutte. La piccola non riusciva dire nulla. Sembrava spaventata. La strin-si a m e e lei si lasciò ab bracciare. Da com e Alessandra m i acca-rezzò i capelli, capii che le facevo pena. Non era spaventata, stava solo pensando che gli adulti erano tutti un po’ deficienti. Viola raccolse la sua ro ba e uscì sbattendo la p orta. Fuori d ue in un colpo solo; mica male per non aver proferito parola. - Papà? - Dimmi, amore - Non pensi che sarebbe ora di lasciar perdere con le donne? - Mi sai che hai ragione. - Dai non prendertela. So no belli i tu oi racconti. In quello sei il più bravo del mondo. La abbracciai forte. In quel momento lei era più grande di me. CONTINUA...