Dentro la storia - Edizione blu

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appendice storiografica Unità 3 Primo piano La Carta de Logu (1392) nella Sardegna di Eleonora d’Arborea di Umberto Baldocchi e Serena Mattei A Il proemio della Carta de Logu B I rapporti agrari e i vari aspetti della vita civile ed economica C La libera disponibilità dei beni per la valorizzazione dei territori D L’economia agraria E Il diritto penale F La tutela delle donne e dei figli 525 Primo piano La Carta de Logu (1392) nella Sardegna di Eleonora d’Arborea L a Sardegna ha avuto una vicenda storica piuttosto diversa da tutte le altre regioni dell’Italia, per cosí dire, «continentale». Dopo la fine del dominio bizantino, salvo la parentesi della dominazione araba, essa fu governata, in tutto o in parte, ma in modo ininterrotto, da principi locali che portavano il nome di re, o di «giudici» (vedi la scheda on-line, Uno strano «re»: il giudice sardo). «I poteri militari e civili, divisi in epoca bizantina tra il dux e il iudex (o praesis), sono riuniti in una sola persona che di solito manterrà il titolo di giudice, sebbene i suoi sigilli rechino la designazione di rex in Gallura, nel Logudoro e forse nell’Arborea» (J. Day-B. Anatra-L. Scaraffia, La Sardegna medievale e moderna, UTET, Torino 1984, p. 56). I giudicati erano entità politiche sovrane in grado di stipulare la pace e la guerra, una realtà rara nell’Europa dell’epoca, nata in Sardegna grazie all’isolamento cui fu costretta dal dominio arabo sul Mediterraneo. Le preroga- tive giudicali avevano una connotazione tale da farne una organizzazione di potere originale, tanto che nacque con esse, secondo Francesco Cesare Casula, la prima vera statualità regia della penisola italiana, con un rex che era superiorem non recognoscens («che non riconosce altri superiori»): «Il Regno di Sardegna tout court, nato in Sardegna il 19 giugno 1324, fu uno Stato con un territorio inizialmente non contiguo [...] sul quale convivevano allora almeno tre popoli con propria nazionalità, sebbene poco sviluppata e ormai tagliata da qualche decennio: il Campidanese, il Gallurese, il Logudorese (o Turritano), legati, ovviamente, in vincolo giuridico. Era sovrano, perché non riconosceva nessuno al di sopra di sé, ma imperfetto perché senza summa potestas, non potendo stipulare trattati internazionali. Divenne perfetto solo nel 1847, dopo che nel 1720 si era sganciato dalla Corona di Aragona ed aveva avuto, coi Savoia, prima una vita federativa insieme al Ducato di Savoia e al Principato di Piemonte e, finalmente, una fisionomia unitaria a seguito della fusione» (F. C. Casula, La terza via della storia. Il caso Italia, ETS, Pisa 1997, p. 136). Quattro erano, come abbiamo visto (cap. 3, par. 4.6), i giudicati in cui appare divisa la Sardegna medievale: Cagliari, Torres (Logudoro), Gallura e Arborea. Essi cercavano di mantenere la propria indipendenza attraverso un delicato e rischioso gioco di alleanze ed equilibri tra le vicine potenze marittime, soprattutto l’Aragona, Genova e Pisa e, sullo sfondo, il papato e l’impero. Cosí sono state descritte le peculiarità del sistema di potere giudicale: «Nell’esercizio del potere, un giudice sardo somiglia piú ad un prin- cipe rinascimentale – o merovingio – che a un monarca feudale. La partecipazione dei prelati, di parenti prossimi e agenti reali e persino dei rappresentanti di Genova e di Pisa, è un fatto occasionale e contingente e il giudice si guarda bene dal sollecitare il concorso di personaggi potenti (lieros mannos o maiorales) o dell’insieme dei suoi sudditi, a meno che non vi sia costretto. Tali circostanze dovevano verificarsi so- prattutto in occasione del rito di conferma da parte dell’universus populus (Cagliari) o dei “prelati e uomini liberi” (Torres). […] Conosciamo un solo caso, tardivo d’altronde, di consenso popolare alle decisioni del sovrano. Nel 1388 Eleonora, regina dello stato ribelle d’Arborea, convoca piú di 3.000 rappresentanti di 262 località nei capoluoghi di provincia per l’approvazione di un trattato di pace con il re d’Aragona, ma questo episodio è spiegato tenendo conto delle circostanze di una vera e propria guerra di “liberazione nazionale”. Nella Sardegna giudicale, sia la massa della popolazione sia la classe possidente sono inquadrate nell’apparato di uno stato centralizzato. A prescindere dalle situazioni ec- cezionali e dai centri urbani che, a partire dal XIII secolo, godono di autonomie comunali, i giudici rimangono detentori incontestati del potere politico» (Day-Anatra-Scaraffia, La Sardegna medievale e moderna, cit., p. 61).

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appendice storiograficaUnità 3

Primo pianoLa Carta de Logu (1392) nella Sardegna di Eleonora d’Arboreadi Umberto Baldocchi e Serena Mattei

A Il proemio della Carta de LoguB I rapporti agrari e i vari aspetti della vita civile ed economicaC La libera disponibilità dei beni per la valorizzazione dei territori D L’economia agrariaE Il diritto penale F La tutela delle donne e dei figli

525

Primo pianoLa Carta de Logu (1392) nella Sardegna di Eleonora d’Arborea

La Sardegna ha avuto una vicenda storica piuttosto diversa da tutte le altre regioni dell’Italia, per cosí dire, «continentale». Dopo la fine del dominio bizantino, salvo la parentesi della dominazione araba, essa fu governata, in tutto o in parte, ma in modo ininterrotto, da principi

locali che portavano il nome di re, o di «giudici» (vedi la scheda on-line, Uno strano «re»: il giudice sardo). «I poteri militari e civili, divisi in epoca bizantina tra il dux e il iudex (o praesis), sono riuniti in una sola persona che di solito manterrà il titolo

di giudice, sebbene i suoi sigilli rechino la designazione di rex in Gallura, nel Logudoro e forse nell’Arborea» (J. Day-B. Anatra-L. Scaraffia, La Sardegna medievale e moderna, UTET, Torino 1984, p. 56). I giudicati erano entità politiche sovrane in grado di stipulare la pace e la guerra, una realtà rara nell’Europa dell’epoca, nata in Sardegna grazie all’isolamento cui fu costretta dal dominio arabo sul Mediterraneo. Le preroga-tive giudicali avevano una connotazione tale da farne una organizzazione di potere originale, tanto che nacque con esse, secondo Francesco Cesare Casula, la prima vera statualità regia della penisola italiana, con un rex che era superiorem non recognoscens («che non riconosce altri superiori»): «Il Regno di Sardegna tout court, nato in Sardegna il 19 giugno 1324, fu uno Stato con un territorio inizialmente non contiguo [...] sul quale convivevano allora almeno tre popoli con propria nazionalità, sebbene poco sviluppata e ormai tagliata da qualche decennio: il Campidanese, il Gallurese, il Logudorese (o Turritano), legati, ovviamente, in vincolo giuridico. Era sovrano, perché non riconosceva nessuno al di sopra di sé, ma imperfetto perché senza summa potestas, non potendo stipulare trattati internazionali. Divenne perfetto solo nel 1847, dopo che nel 1720 si era sganciato dalla Corona di Aragona ed aveva avuto, coi Savoia, prima una vita federativa insieme al Ducato di Savoia e al Principato di Piemonte e, finalmente, una fisionomia unitaria a seguito della fusione» (F. C. Casula, La terza via della storia. Il caso Italia, ETS, Pisa 1997, p. 136).

Quattro erano, come abbiamo visto (cap. 3, par. 4.6), i giudicati in cui appare divisa la Sardegna medievale: Cagliari, Torres (Logudoro), Gallura e Arborea. Essi cercavano di mantenere la propria indipendenza attraverso un delicato e rischioso gioco di alleanze ed equilibri tra le vicine potenze marittime, soprattutto l’Aragona, Genova e Pisa e, sullo sfondo, il papato e l’impero.

Cosí sono state descritte le peculiarità del sistema di potere giudicale: «Nell’esercizio del potere, un giudice sardo somiglia piú ad un prin-cipe rinascimentale – o merovingio – che a un monarca feudale. La partecipazione dei prelati, di parenti prossimi e agenti reali e persino dei rappresentanti di Genova e di Pisa, è un fatto occasionale e contingente e il giudice si guarda bene dal sollecitare il concorso di personaggi potenti (lieros mannos o maiorales) o dell’insieme dei suoi sudditi, a meno che non vi sia costretto. Tali circostanze dovevano verificarsi so-prattutto in occasione del rito di conferma da parte dell’universus populus (Cagliari) o dei “prelati e uomini liberi” (Torres). […] Conosciamo un solo caso, tardivo d’altronde, di consenso popolare alle decisioni del sovrano. Nel 1388 Eleonora, regina dello stato ribelle d’Arborea, convoca piú di 3.000 rappresentanti di 262 località nei capoluoghi di provincia per l’approvazione di un trattato di pace con il re d’Aragona, ma questo episodio è spiegato tenendo conto delle circostanze di una vera e propria guerra di “liberazione nazionale”. Nella Sardegna giudicale, sia la massa della popolazione sia la classe possidente sono inquadrate nell’apparato di uno stato centralizzato. A prescindere dalle situazioni ec-cezionali e dai centri urbani che, a partire dal XIII secolo, godono di autonomie comunali, i giudici rimangono detentori incontestati del potere politico» (Day-Anatra-Scaraffia, La Sardegna medievale e moderna, cit., p. 61).

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La figura forse piú significativa di tutto il Medioevo sardo è Eleonora d’Arborea (1340-1404), che rimase al governo del giudicato dal 1383 al 1392, anche in qualità di reggente dei propri figli in età minorile, Mariano e Federico. Era figlia di Mariano IV d’Arborea, che aveva retto il giudicato dal 1347 al 1376, uomo di raffinata cultura catalana ma anche di grandi capacità strategiche, che gli avevano consentito di con-trastare con successo gli Aragonesi, tanto che nel 1376, alla sua morte, il Regno di Arborea era quasi padrone di tutta l’isola, avendo ridotto i possessi aragonesi alle città portuali di Cagliari e Alghero. Divenuta moglie di Brancaleone Doria, erede delle terre logudoresi dei Doria, dopo la morte per assassinio (frutto di una congiura favorita dagli Aragonesi) del fratello Ugone III nel 1383 e mentre il marito Brancaleone era trat-tenuto come ostaggio presso il re di Aragona con cui era andato a trattare, affidò la corona di re al figlio Federico di sei anni e si autoproclamò giudichessa e reggente di Arborea in base all’antico diritto sardo, senza attendere alcuna infeudazione regia.

Appena insediata, si dedicò a garantire la sovranità e i confini del giudicato e ad attuare un’opera di riordino e di sistemazione definitiva degli ordinamenti e degli istituti giuridici locali riassunti nella Carta de Logu (carta del territorio) emanata dal padre Mariano, ma da lei rivista ed ampliata nel 1392.

In essa, oltre alla rielaborazione giuridica delle consuetudini municipali sarde, troviamo elementi della tradizione giuridica romano-canonica e bizantina, della cultura legale bolognese e di quella catalana. Questo originale mix le procurò un innegabile successo, tanto che gli stessi spagnoli la estesero poi a tutta l’isola: essa sopravvisse cosí alla fine del Regno giudicale di Arborea nel 1420 e rimase in vigore fino all’ema-nazione del Codice di Carlo Felice nel 1827.

La Carta era composta da 198 articoli e comprendeva, di fatto, un codice civile, uno penale ed uno rurale. Molte norme erano profonda-mente innovative, tanto da segnare una tappa significativa nel secolare cammino verso il moderno «stato di diritto». Essa può essere con-siderata una delle piú importanti «costituzioni di principi» del Medioevo, tanto che il magistrato e uomo politico piemontese Federico Paolo Sclopis (1798-1878), nella sua Storia della legislazione italiana del 1863, scrisse: «Sullo scorcio del secolo XIV si vide una regione dell’isola di Sardegna promulgarsi una legge, che per la sapienza di molti precetti, che vi si racchiudono, ottenne non solamente di essere estesa a tutto il Regno, ma ebbe di piú il vanto di essere tenuta per segno di un perfezionamento sociale, dal quale erano ancora lontane le piú vaste contrade del continente italiano […]. La Carta de Logu […] contiene molte e particolari disposizioni, al dire di un dotto giureconsulto sardo che le prese ad illustrare, pressoché tutte convengono ai costumi dei Sardi dei nostri tempi». Ancor prima il patriota milanese Carlo Cattaneo (1801-1869), commentandola nel saggio Di varie opere sulla Sardegna, pubblicato a Milano nel 1841, cosí scriveva: «Riservata ai migliori la milizia, e addestrata con frequenti rassegne; vietato il portare armi ne’ pubblici ritrovi; multate le communi che ricettassero malviventi. Perfetta uguaglianza nelle successioni tra fratelli e sorelle; communione di beni fra i coniugi, che non avessero stipulazioni dotali; molti ordinamenti a difesa dell’agricoltura, ai quali il barone Manno attribuisce la propagazione della vite nell’isola; molte prescrizioni per conservare le razze dei cavalli; ordinati i registri de’ notai, e imposto un limite alle loro riscossioni» e ancora «Nel codice abbellito dal suo nome (Carta de Logu) si consideri anche solo la legge che eguaglia nell’eredità paterna tutti i figli, e che pertanto nega la prima fra le istituzioni feudali, il sacrificio della famiglia alla primogenitura. Ed anco nei casi in cui la Carta de Logu ebbe necessariamente a far menzione dei feudi già da qualche tempo sparsi da Pisani e Genovesi lungo le marine, il diritto feudale appare cosa eccezionale e straniera; epperò illegittima fin dalla prima origine per noi, se fondamento per noi dello stato e della legge è il volere dei popoli».

La maggior parte dei capitoli e degli ordinamenti della Carta deriva da consuetudini, usi o usanze. Alcune norme alludono «all’usanza anti-ca» o all’«usanza della Terra», altre sono privilegi, cioè atti di volontà dei giudici (ovviamente privi della potestas legis condendi), il cui carattere è quello della lex privata.

Ne proponiamo il proemio e alcuni passaggi relativi a tematiche particolarmente significative.

A Il proemio della Carta de Logu

La Carta de Logu del regno di Arborèa, traduzione libera di F. C. Casula, CNR – Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994

Dalla lettura del proemio emerge l’idea di un governo del giudice sui sui fidelis o sudditos nostros dessu Rennu nostru d’Arborèe come re naturale. Il giudice, privo della potestas iuris condendi, esercitava la funzione giudiziaria attraverso organi collegiali e unipersonali. Francesco Cesare Casula sostiene in proposito che l’entità definita nella Carta «può essere già chiamata Stato […] tenendo ben conto che si tratterebbe di uno Stato medioevale e non di uno Stato moderno cosí come si è andato configurando dalla pace di Westfalia (1648) ad oggi».

Inizia il libro delle costituzioni ed ordinanze sarde fatte e disposte dall’illustrissima signora donna Eleonora per grazia di Dio juighissa (= regina) di Arborea, contessa

del Goceano e viscontessa (nominale) di Bas, intitolato Carta de Logu, diviso in centonovantotto capitoli (di cui 132 di leggi civili e penali e 66 di leggi rurali). Affinché

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527Unità 3 La Carta de Logu (1392) nella Sardegna di Eleonora d’Arborea

le province, le regioni e le terre (del regno) s’inchinino e si sottopongano alla Giustizia per meglio accrescere ed elevarsi, e che per i buoni articoli di legge venga fre-nata e repressa la superbia dei rei e dei malvagi, sí che i buoni, i puri e gli innocenti possano vivere tranquilli e sicuri dai colpevoli per il timore che essi hanno delle pene, e che le stesse buone persone siano tutte obbe-dienti ai capitoli e alle ordinanze di questa Carta de lo-gu in virtú dell’attaccamento (allo Stato), noi Eleonora per grazia di Dio juighissa di Arborea […] desiderando che i fedelis (= i vassalli continentali) ed i sudditi del nostro regno di Arborea siano informati dei capitoli ed ordinanze grazie ai quali possano vivere e mantenersi nella via della verità e della Giustizia, ed in buono, pa-

cifico e tranquillo stato, ad onore di Dio onnipotente e della gloriosa vergine madonna Santa Maria sua madre, e per preservare la Giustizia ed il pacifico, tranquillo e buono stato del popolo del suddetto nostro regno, del-le chiese, dei diritti ecclesiastici, dei li(b)eros (dei liberi, cioè di tutti gli abitanti che non siano schiavi esotici), dei bonos homines (dei probi uomini per riconosciuta moralità) e di tutta la gente della suddetta nostra terra e del regno di Arborea, facciamo le ordinanze ed i ca-pitoli infrascritti che vogliamo e comandiamo espres-samente siano rispettati ed osservati quale legge, sia in giudizio che fuori, da ogni persona del detto juigadu (regno) nostro di Arborea.

B I rapporti agrari e i vari aspetti della vita civile ed economica

La Carta de Logu del regno di Arborèa, traduzione libera di F. C. Casula, CNR – Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994

Il codice si cura di ridefinire in termini contrattuali ogni rapporto di lavoro agricolo e sancisce un generale status libertatis delle popolazioni contadine, emancipandole dalle forme piú umilianti della servitú. Nella regolamentazione della soccida (contratto agricolo per il quale un proprietario di bestiame concede ad altri l’allevamento e lo sfruttamento del bestiame, con equa ripartizione del guadagno e della perdita) si manifesta il carattere contrattuale della relazione che stringe il padrone, socio maggiore, al pastore, socio minore.

cap. XCIVVogliamo ed ordiniamo che se (in Arborea) un con-

tinentale assume un sardo per bovaro o per soc(c)io (soccidaro) affidandogli il suo giogo di buoi, non potrà cambiare (il bovaro o il socio durante il periodo con-trattuale). Il bovaro dovrà osservare gli usi del Paese (? di residenza o di provenienza del proprietario dei buoi).

cap. CLXVVogliamo ed ordiniamo che ogni accomandatario

sia tenuto una volta l’anno a rendicontare all’accoman-dante il bestiame avuto in accomandita. Il rendiconto dev’essere addotto all’accomandante una volta l’anno il quindici di ottobre; altrimenti, l’inadempiente paghi (interamente al proprietario) i danni subíti dal bestia-me (cioè, le perdite di bestiame).

C La libera disponibilità dei beni per la valorizzazione dei territori

La Carta de Logu del regno di Arborèa, traduzione libera di F. C. Casula, CNR – Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994

La libera disponibilità dei beni, strumentali e di sussistenza, cui fanno da ostacolo sia la servitú personale che la costrizione domiciliare, è funzionale alla necessità di promuovere gli investimenti fondiari ed agricoli e alla valorizzazione dei territori che viene imposta attraverso misure anche drastiche, come quella della requisizione statale in caso di inadempienza del pri-vato. Tutto ciò va visto anche come una opportunità per favorire il popolamento dei territori abbandonati alla macchia e alla palude, oppure passibili di una nuova valorizzazione. La Carta va considerata nella prospettiva di una popolazione ormai sottratta alla servitú dominicale, per quanto ancora confinata al livello piú basso della gerarchia sociale (cfr. G. Ortu, «Carta

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de Logu» e «cartae libertatis», in La carta de logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, a cura di I. Birocchi-A. Mattone, Laterza, Roma-Bari 2004). Questo ci dicono i due capitoli qui di seguito riportati.

cap. CXXXVIIIVogliamo ed ordiniamo che chiunque, di qualunque

condizione (economica e sociale) sia, possiede della terra incolta in un terreno collettivo riservato a vigneto, dev’essere obbligato dal principale funzionario regio della contrada (= dal curadori) ad impiantarvi o farvi impiantare una vigna entro un anno; altrimenti, venda la terra o la dia (in locazione) a chi la può coltivare (a vigneto). Questa ingiunzione deve essere fatta registrare (nell’apposito quaderno) in modo da conoscere quan-do scadono i termini suddetti. In caso d’inosservan-za – o perché entro l’anno non si è impiantata o fatta

impiantare la vigna, oppure non si è voluto vendere o locare la terra a persona disposta a mettervi a dimora la vigna – il funzionario regio (= il curadori) potrà requi-sire la proprietà per conto del Patrimonio statale.

cap. CXXXIX

Stabiliamo ed ordiniamo che chiunque, di qualun-que grado, stato o condizione (sociale e economica) sia, abbia una vigna o una terra incolta (in un terreno collettivo riservato a vigneto), è tenuto a contribuire (col vicino) a recintarla, pagando la quota che gli spetta della recinzione da farsi.

D L’economia agraria

La Carta de Logu del regno di Arborèa, traduzione libera di F. C. Casula, CNR – Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994

Nella Carta de Logu la difesa della proprietà privata della terra è una preoccupazione costante e ricorrente. I diritti di proprietà non sono affatto limitati alle vigne, agli orti e ai frutteti circondati dai muri, o recintati. Si cerca di realizzare un regolamento che consenta l’armonizzazione di pascolo e coltivazione, stabilendo regimi agrari diversi per i terreni coltivati e cerealicoli e per quelli destinati al libero pascolo, registrando ordinatamente l’assetto delle proprietà e regolando i casi di risarcimento e di compensazione per le eventuali infrazioni.

cap. CXII Coloro […] i quali possiedono vigne ed orti li re-

cintino bene e poi chiamino il funzionario regio e i maioris (de villa e de pradu) e cinque giurati […] per vedere e rendersi conto se i propri poderi sono stati ben recintati […].

cap. CXXXIV […] Chiunque abbia vigne o orti per giudicare senza

frode debba recingerli con muri o fossi o siepi, facen-doli omologare dai predetti giurati (de prados) appo-sitamente eletti e deputati, entro il presente mese di aprile (del 1355 con Pasqua bassa?), e, negli anni a ve-nire, entro il mese di ottobre, dopo la vendemmia […]. Adempiuto alla recinzione ed all’approvazione (del la-voro) da parte dei detti giurati (de prados) insieme col maiori de villa, secondo come s’è detto, (il proprietario dell’orto o della vigna) dovrà far registrare dallo stesso maiori de villa (l’omologazione della recinzione) nel quaderno che costui deve avere e conservare, in modo che, in caso di necessità, si possano conoscere le vigne e gli orti approvati e dati per recintati. […].

cap. CXCVI Inoltre ordiniamo che nessuno ardisca o presuma

arare per fare novàle (= mettere per la prima volta a col-tura un terreno comunitario), o per altro, in un luogo o in un tratto dove è solito sostare il bestiame rude. Se qualcuno lo fa deve recintare il posto cosí bene che il bestiame non possa (entrarci per) far danno. Perché, se riesce ad entrarci, e fa dei guasti, non potrà essere cattu-rato né ucciso né incolpato del danno, a meno che non venga dimostrato che qualcuno dolosamente aveva ab-battuto la recinzione e aperto il terreno. In questo caso, chi ha commesso la frode dovrà rifondere le perdite e pagare le spese di valutazione del danno. Questa dispo-sizione non vale per coloro che hanno a parte saltos (= terreni agresti) fuori dagli habitacionis (o ardacionis = l’insieme dei terreni coltivativi) del villaggio, perché se costoro li arano, e nel campo cerealicolo entra del be-stiame, lo possono ammazzare per macellarlo sia che lo catturino in mezzo al frumento che nella pastura. Ma, allora, il padrone delle bestie non dovrà pagare le spese di valutazione (del danno) né la tentúra (= la tas-sa imposta al padrone del bestiame sorpreso a pascola-re abusivamente).

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529Unità 3 La Carta de Logu (1392) nella Sardegna di Eleonora d’Arborea

E Il diritto penale

La Carta de Logu del regno di Arborèa, traduzione libera di F. C. Casula, CNR – Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994

È interessante notare come la Carta presenti un sistema penale «[…] dal carattere soggettivo e intimidatorio, primo perché tiene conto dell’intenzionalità, secondo perché non si limita soltanto a comminare la pena, ma opera anche affinché il delin-quente non torni a commettere reati. E se da un lato il carattere soggettivo del sistema risulta per certi aspetti oscurato dalla sopravvivenza della responsabilità collettiva di fronte alla personalità della pena, dall’altro il carattere intimidatorio appare molto accentuato» (La Carta de logu d’Arborea, cit., p. 31). Ma anche come, accanto all’elemento soggettivo e intimidato-rio, si riscontri il principio della personalità della pena. Questo principio «[…] appare nella Carta quando, a proposito della lesa maestà, non ha voluto estendere la confisca dei beni alla moglie di chi avesse attentato contro la vita o l’onore del giudice di Arborea e dei suoi parenti, sia nel caso di un regime matrimoniale a sa sardischa, cioè di comunione, sia di un regime dotale. [...] Lo stesso principio viene applicato in caso di tradimento o fellonia (cap. II)» (I. Mattone-R. Birocchi, La Carta de Logu nella storia del diritto medioevale e moderno, Laterza, Roma 2004, p. 32). Il matrimonio «alla sardesca» o «a dote» escludeva il passaggio in totale possesso del marito della dote della moglie e dei beni acquisiti dopo il matrimonio, avendo la moglie diritto alla metà del patrimonio comune in caso di condanna o separazione del marito. L’altra disciplina matrimoniale era quella del matrimonio detto «alla pisana» – derivazione di un’antica formula matrimoniale di diritto ro-mano e giustinianeo – in cui la dote della donna passava completamente in possesso del marito insieme ai beni acquisiti in comunione, per cui, nel caso di condanna o separazione del marito, la moglie perdeva tutto il patrimonio comune.

Abbiamo sopra accennato che nella Carta permane comunque una responsabilità collettiva: è il caso dell’istituto consue-tudinario dell’incarica: «[...] l’incarica era la quantità di denaro che i jurados erano costretti a pagare nel caso in cui non fossero stati capaci di individuare il colpevole di un reato commesso all’interno del territorio del villaggio. […] Si trattava dunque di […] ipotesi di responsabilità collettiva di cui venivano investiti i giurati, rappresentanti della comunità di villag-gio. In questo caso la responsabilità del villaggio, scontrandosi con il principio della responsabilità della pena, appare piú in sintonia con una concezione oggettiva del delitto che con una soggettiva» (Mattone-Birocchi, La Carta de Logu nella storia del diritto medioevale e moderno, cit., p. 32). La Carta aggiungeva dunque al risarcimento economico di chi subiva il danno, la sanzione penale contro la comunità, ed estendeva il campo di applicazione della responsabilità collettiva ai reati riguardanti il patrimonio.

Ma ciò che piú importava era che la giustizia (penale e amministrativa) era pubblica e amministrata collegialmente. L’imputato aveva diritto ad un difensore (chertadori), lo svolgimento del processo doveva essere trascritto e di tale trascrizione doveva esser data lettura prima del giudizio.

cap. IComandiamo che se qualcuno trattasse o permettes-

se che Noi (Mariano IV), o qualche figlio nostro, o no-stra moglie, o i nostri figli, o le loro mogli fossimo of-fesi (= colpiti), o che ci facessero offesa, e acconsentisse che venissimo offesi, costui venga posto attanagliato su un carro e mandato in giro per tutto il nostro territo-rio (della città) di Oristano, e che poi venga condotto attanagliato fino alla forca e lí inforcato in modo che ne muoia, e che siano confiscati dalla nostra Corte (di giustizia) tutti quanti i suoi beni, a meno che sua mo-glie sia sposata alla sardesca – detta anche «a dote» – e non perda ciò che le spetta (= la metà del patrimonio comune), se non si riscontra colpevole di alcun atto.

cap. XIIIStabiliamo ed ordiniamo che se una persona è cattu-

rata perché ha rapinato qualcuno nella pubblica via (= nella strada statale), ed è dichiarata colpevole, sia im-piccata, in modo che ne muoia, nello stesso posto della

rapina; e nessuno scampi alla pena per denaro. Nel ca-so che la rapina non avvenga nella strada pubblica, ma nel villaggio o nei suoi terreni coltivati o collettivi, gli uomini del villaggio interessato sono tenuti ad arrestare il rapinatore ed a portarlo alla Corte (di giustizia); e, se è dichiarato colpevole, paghi alla Corte (di giustizia) duecento lire entro quindici giorni dal giudizio. E se non paga, o qualcuno non paga per lui, sia inforcato finché ne muoia [...].

cap. XVI[…] Stabiliamo ed ordiniamo che in ciascun villag-

gio grande (= da duecento nuclei familiari o fuochi in su) devono essere scelti dieci «jurados de logu» (= giurati dei tribunali territoriali o statali) fra gli uomini migliori secondo l’ufficiale regio (= il curadori); in cia-scun villaggio piccolo (= da duecento nuclei familiari o fuochi in giú) cinque. E l’elenco nominativo dei giurati, villaggio per villaggio, dev’essere trasmesso dai curado-ris alla nostra Camera (= cancelleria regia) nel tempo

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che intercorre tra il giorno dell’elezione e la corona de logu (= assise o tribunale statale) di San Pietro di giu-gno (= il 29, con riserva espressa al cap. CXXV), pena il pagamento di otto lire alla Corte (di giustizia). I detti giurati devono accertare gli eccessi ed i furti perpetrati nel villaggio o nelle proprietà del villaggio, e detenere i malfattori e tradurli alla Corte (di giustizia). In caso contrario i giurati dovranno pagare venti soldi (= una lira) per ogni malfattore, ed insieme agli uomini del villaggio dovranno rifondere il danno al danneggiato, e pagare all’Erario regio la multa collettiva stabilita per i villaggi inadempienti.

cap. XXXIIIStabiliamo ed ordiniamo che se qualcuno ruba in

casa d’altri (con scasso) praticando un buco nel muro, o nella porta, o nella finestra, o nel tetto, ed è provato, se dichiarato colpevole sia impiccato per il collo affin-ché ne muoia, e dai suoi beni si paghi il danno al deru-bato. Nientedimeno i giurati del villaggio sono tenuti ad arrestare il malfattore ed a tradurlo (alla Corte di

giustizia o tribunale) con le prove raccolte a suo carico […].

cap. XXXVIIIVogliamo ed ordiniamo che i giurati di ogni cura-

doría denuncino con prove i cavalli, le cavalle e i buoi domi e gli asini uccisi di nascosto o rubati nel proprio villaggio o nell’habitacioni (o aidacioni = l’insieme dei terreni coltivati) del proprio villaggio; altrimenti, tutti i giurati e gli uomini del villaggio dovranno risarcire il danno al danneggiato […].

cap. CLXXXV Ordiniamo che quando viene commesso un delit-

to o un reato di furto nell’habitacioni (= nel territorio coltivato e da coltivare attorno al villaggio), esso sarà attribuito all’ovile piú prossimo al misfatto, il cui pa-store, entro quindici giorni, dovrà segnalare con prove chi ne è (realmente) il colpevole; altrimenti, rifonderà il danno e pagherà alla nostra Corte (= all’Erario regio) quindici lire di multa [...].

F La tutela delle donne e dei figli

La Carta de Logu del regno di Arborèa, traduzione libera di F. C. Casula, CNR – Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994

La Carta de Logu dedicò poi particolare attenzione alle vicende che riguardavano le donne, dimostrando anche in questo caso una certa modernità.

Il cosiddetto matrimonio riparatore alla violenza carnale di una nubile era legato al fatto che la donna fosse consenziente. Importanti sono anche le disposizioni volte alla tutela degli interessi dei minori. Era vietato a tutti di diseredare i propri figli

e nipoti; laddove i padri si fossero macchiati di colpe, si stabiliva che queste non ricadessero anche sugli eredi, norma molto piú moderna della disposizione del Parlamento aragonese del 1355 per cui «i figli del reo di tradimento divengono servi del signore della terra». Va infine aggiunto che la Carta de Logu eguagliava tutti i figli nell’eredità paterna e quindi negava una delle piú degradanti istituzioni feudali, il sacrificio della famiglia alla primogenitura.

cap. XXI Vogliamo ed ordiniamo che se un uomo violenta

una donna maritata, o una qualsiasi sposa promessa, o una vergine, ed è dichiarato legittimamente colpevole, sia condannato a pagare per la donna sposata lire cin-quecento; e se non paga entro quindici giorni dal giu-dizio gli sia amputato un piede. Per la nubile, sia con-dannato a pagare duecento lire e sia tenuto a sposarla, se è senza marito (= promesso sposo) e se piace alla donna. Se non la sposa (perché lei non è consenzien-te), sia tenuto a farla accasare (munendola di dote) se-condo la condizione (sociale) della donna e la qualità (= il rango) dell’uomo. E se non è in grado di assolvere ai suddetti oneri entro quindici giorni dal giudizio, gli

sia amputato un piede. Per la vergine, sia condannato a pagare la stessa cifra sennò gli sia amputato un piede come detto sopra.

cap. XCVII Vogliamo ed ordiniamo che nessuna persona del

nostro regno di Arborea usi diseredare i figli o nipoti nati dai propri figli, dei diritti a loro spettanti per parte di padre o di madre, tranne nel caso che il padre e o la madre prima di morire lo lascino detto esplicitamen-te e con ragione. E questa ragione dev’essere provata legittimamente da parte di colui che sarà beneficiario dell’eredità, entro un mese dalla morte del testatore.

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531Unità 3 La Carta de Logu (1392) nella Sardegna di Eleonora d’Arborea

cap. CI Stabiliamo ed ordiniamo che i curadoris e funzio-

nari regi della Corte d’Arborea, ciascuno nell’ambito della propria giurisdizione e d’ufficio, siano tenuti – allorquando qualcuno muore senza far testamento, lasciando figlie o figli piccoli senza raccomandazioni testamentarie – a redigere un elenco ordinato di tutti i beni (del morto) dentro e fuori della sua casa, avendo per testimoni alcuni bonos homines (= probiuomini, per integrità morale e pubblica stima) della contrada (= curadoría) o del villaggio [...]. Nel caso in cui il funzio-

nario regio non avesse ancora provveduto alla curatèla, in forza delle sue facoltà potrà dare in custodia i piccoli a qualche loro idoneo parente stretto; se quest’ultimo non fosse idoneo, il funzionario regio potrà affidare i minorenni ad altra persona adatta, ritenuta buona e disposta a tutelare gli interessi dei pupilli fino a di-ciott’anni; ad essi (affidatari) darà ciò – che spetta ai minorenni – colui o coloro che hanno in consegna det-ti beni da parte del funzionario regio. E il funzionario regio dovrà mettere a giurare (gli affidatari) di far bene e lealmente gli interessi dei fanciulli […].

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532 appendice storiograficaUnità 3

Percorso storiograficoLetture di Carlo Vdi Stefano Sodi

A Karl Brandi, Il testamento politico del 1548B Federico Chabod, L’impero, «mosaico a tessere di troppo vari colori»C Giuseppe Galasso, La modernità della politica carolina

Percorso storiograficoLetture di Carlo V

La prima parte del Cinquecento è stata oggetto di molteplici letture storiografiche, tutte inevitabilmente legate alla figura di Carlo V e al suo sistema di governo. Molti i filoni di studio, tra loro variamente collegati e complementari. Alcuni autori hanno preferito l’approccio prettamente biografico, che ricostruisce il contesto storico a partire dalla vita stessa dell’imperatore; altri quello di tipo politico-istituzionale che, scaturendo in qualche modo dal precedente, ha investigato soprattutto i problemi collegati alla nascita delle grandi monarchie nazionali europee e, piú in generale, degli Stati moderni, all’interno o in opposizione all’aggregato imperiale; altri ancora, a partire dal saggio di Earl Jefferson Hamilton American treasure and the price revolution in Spain: 1501-1650, pubblicato a Cambridge nel 1936, hanno posto la loro attenzione su quello di tipo economico-finanziario, analizzando quell’economia-mondo che si è sviluppata proprio a partire dall’età di Carlo V. Né sono mancati gli storici che hanno invece investigato gli aspetti religiosi, culturali e ideologici dell’Impero carolino, come José Antonio Maravall Casesnoves che, nel volume Carlos V y el pensamiento político del Renacimiento del 1960, ha cercato di collocare il nostro imperatore nel contesto della filo-sofia politica rinascimentale, o Frances Amelia Yates che, nel suo Astraea. The Imperial Theme in the Sixteenth Century del 1975, ha allargato la sua ricerca fino al pensiero politico di Dante e Petrarca.

La ricerca storica su Carlo V è stata inoltre in qualche modo debitrice alla provenienza nazionale degli studiosi che se ne sono occupati. In Italia, ad esempio, fino a tempi recenti l’imperatore non ha suscitato grande interesse, o comunque è stato visto in una luce soprattutto negativa, anche per i suoi rapporti conflittuali con il papato; e, del resto, il Cinquecento è stato a torto visto per lungo tempo come un periodo di decadenza, a causa delle invasioni militari e conseguentemente della subordinazione politica subita dalla nostra penisola. Viceversa, Carlo V rappresenta un caposaldo della ricostruzione della memoria storica della Spagna, anche e soprattutto perché ha costituito l’emblema dell’epo-ca di maggior splendore di quel Paese. Non molto diversa la situazione in Germania, ove la prima metà del XVI secolo – sia pure fondamen-talmente per quella Riforma religiosa cosí aspramente combattuta da Carlo – ha significato l’inizio dell’identificazione culturale e nazionale. Ad eccezione degli studi di parte anglosassone, in questo molto precoci rispetto a quelli della ricerca storica continentale, si è dovuto attendere la seconda metà del secolo scorso perché questi approcci unilaterali acquisissero gradualmente una dimensione di piú ampio respiro e l’epoca di Carlo V venisse considerata da tutti un momento fondante della storia delle singole nazioni e dell’intera Europa.

I brani che qui proponiamo sono ricavati da tre opere fondamentali di studiosi di indiscusso valore e mostrano proprio alcuni di quei filoni di ricerca che abbiamo appena delineato: quello piú propriamente biografico e quello che focalizza i rapporti tra la fisionomia politico-culturale dell’Impero e la formazione – all’interno del suo territorio – di Stati moderni. L’ultimo, piú recente, è invece una riflessione proprio sulla storia della storiografia su Carlo V.

Un elemento infine che accomuna i tre passi scelti è il fatto che si soffermano sulla medesima fase della biografia carolina, quella del pas-saggio di potere dall’imperatore al figlio Filippo. Ciò consente non solo di mettere a confronto le differenti linee interpretative degli autori, ma anche di porre l’attenzione su alcune questioni storiche nodali: le relazioni tra la compagine imperiale, per sua natura universale, e le identità territoriali particolari e la nascita, proprio in questo periodo, dell’embrionale configurazione di un sistema europeo moderno, proiettato, a livello soprattutto economico, su scala planetaria.

Il primo passo (Testo A) è tratto dalla piú famosa biografia carolina, quella pubblicata nel 1937 da Karl Brandi, che adotta ancora un punto di vista che potremmo definire «germanocentrico» e conferisce particolare enfasi alla Riforma protestante; malgrado ciò è probabilmente la

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533Unità 3 Letture di Carlo V

prima ricostruzione che offre un quadro articolato e completo della prima metà del XVI secolo. Federico Chabod, autore del secondo brano (Testo B), è stato il primo italiano a recepire fino in fondo la ricchezza delle implicazioni interpretative della ricostruzione operata da Brandi. Per quanto i suoi studi siano in prima istanza di carattere politico-diplomatico e istituzionale e originariamente focalizzati sullo Stato di Milano, hanno la capacità di inserire questa relativamente modesta realtà territoriale in un contesto continentale e aspirano ad una ricostruzione «globale», nella quale le azioni dell’imperatore e dei grandi protagonisti della scena politica cinquecentesca vengono interpretate alla luce delle trasformazioni collettive. Infine il libro di sintesi storiografica di Giuseppe Galasso, nel riprendere e reinterpretare le principali tesi espresse precedentemente, interroga l’età di Carlo V alla luce dei problemi piú scottanti del recente passato e del presente (Testo C).

A Il testamento politico del 1548

Karl Brandi Carlo V, Einaudi, Torino 1990 (ed. orig. 1937)

Quando, durante l’inverno, l’imperatore aveva ripreso una volta ancora la penna per stendere, con la data del 18 gennaio 1548, un testamento politico destinato al figlio Filippo, – «poiché (scrisse) la mia debolezza e i pericoli mortali appena superati mi fanno apparire opportuno di partirVi dei consigli nel caso che dovessi morire» –, non gli sembrò far mai abbastanza per rac-comandare di nuovo e innanzi tutto al figlio di mante-nere buoni rapporti con re Ferdinando, persona tanto degna di profondo rispetto, e di avere fiducia nei di lui figli. Con lo stesso testamento, Carlo predispose altresí in modo definitivo, riferendosi espressamente al desi-derio del fratello, le nozze di Maria, sua figlia maggiore, con Massimiliano, primogenito di Ferdinando. Racco-mandò al suo erede, nel modo piú pressante, di ricor-rere per tutti i problemi di alta politica a suo zio e di rafforzarne l’imperiale autorità «come sempre lo abbia-mo appoggiato, e ancora nella recente guerra». Filippo, che nel documento è sempre considerato soltanto re di Spagna, non poteva in nessun modo contribuire alla lotta contro i Turchi; compito spettante alla Germania, inclusi i Paesi Bassi. «In Germania, – disse al figlio – potrete sempre trovare dei buoni soldati, se li pagherete adeguatamente. Solo se vi dovessero mancare, ricorrete agli Svizzeri, che dovrete trattare e, in considerazione dei loro vincoli ereditari con la Casa di Borgogna». Per il resto, ricompaiono nel testamento le vecchie idee dell’imperatore: spina dorsale della sua condotta po-litica. Solo che, per la prima volta, si sviluppano ora fino a costituire un imponente panorama comprensivo di tutto il sistema dei rapporti di potenza in Europa, trattando a piú riprese e con efficacia anche dei paesi d’oltre Oceano. […].

Con l’Inghilterra si dovevano conservare buoni rap-porti in conformità, senza prender partito nell’eterno e inconciliabile contrasto tra Inglesi e Francesi. Quanto alla Scozia, si trattava soprattutto di assicurare i traffici e il commercio con lei. Anche con la Danimarca biso-gnava accontentarsi dei piú recenti trattati, senza im-

mischiarsi in rapporti col vecchio re Cristiano, di cui conveniva alleviare la sorte per amore di sua figlia Cri-stina, senza però lasciargli piena libertà. […] Infine, e soprattutto, Carlo raccomandava con grande insistenza al figlio di contrarre un nuovo matrimonio […] Quan-to ai Paesi Bassi, il partito migliore sarebbe stato che la

Tiziano, Ritratto di Carlo V, Monaco, Alte Pinakothek, 1548.

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534 appendice storiografica

regina Maria, mirabile reggente sia in guerra sia in pace, ne fosse rimasta a capo; ma, dato che chiedeva di esser-ne sollevata, si sarebbe potuto pensare a metterli sotto la reggenza della coppia Maria-Massimiliano. Certo, c’era il pericolo che Massimiliano pensasse solo al pro-prio interesse; perciò egli vi si sarebbe dovuto risolver solo quando Filippo fosse entrato in rapporti personali con Massimiliano e con quei domini. «Vi raccomando ancora una volta formalmente l’esecuzione dei miei te-stamenti e codicilli, come anche di quelli della defunta imperatrice. Prego Dio di tenervi nella Sua custodia e al Suo servizio, perché Egli possa donarvi eterna gloria. A voi la mia benedizione!».

È il tono dell’età matura, che caratterizza questo te-stamento politico. Lo stesso tono spira anche da un altro documento, forse ancor piú significativo, che pos-sediamo di quelle stesse giornate di Augusta: il magni-fico ritratto dovuto al pennello di Tiziano, conservato a Monaco.

Piuttosto stanco, raccolto in se stesso, ma con lo sguardo teso, l’imperatore siede in un seggio di legno coperto di velluto, davanti a un tappeto in broccato,

come in una loggia aperta, con la vista che dà su un paesaggio ricco di fascino, che, insieme con le grandi e assai chiare linee del primo piano, desta l’immagine di qualcosa fuori dell’ordinario. Noi contempliamo là l’imperatore che domina il mondo; e, tuttavia, egli ci è vicino in tutta la sua semplicità e umanità, semplice nel portamento e nel vestire, senza posa alcuna. È là tutto solo, a meditare. Sentiamo bene qualcosa di chiu-so in quel volto, in quelle labbra, in quella posizione costante delle mani; e, nell’insieme, intuiamo l’interna natura dell’uomo. L’età e le vicende hanno lasciato le loro tracce: gli si darebbero piú di quarantotto anni. Sin da giovane egli ha appreso il «Memento mori», nella sua stessa famiglia, restando precocemente vedovo, al fianco d’una madre già morta pur essendo ancora in vita, sempre tormentato oltre misura dalla sua malattia, eccitabile, spesso scosso dall’ira per grandi e piccole co-se, ma onestamente pronto a dominarsi, a riconoscere quale fosse il suo dovere, a esaminare con massima cu-ra il da farsi, sempre consapevole dell’immensa respon-sabilità verso Dio, ma anche verso i suoi domini e verso le future generazioni dei sovrani dell’eccelsa sua Casa.

B L’impero, «mosaico a tessere di troppo vari colori»

Federico Chabod Storia di Milano nell’epoca di Carlo V, Einaudi, Torino 1961

Nell’azione politica dei governatori e reggenti le varie parti dell’impero, al disotto talora, ma talora anche al disopra delle direttive generali e imperiali, si facevano luce direttive particolari, legate alla situazione e ai biso-gni di quelle singole parti; l’unità teorica dell’impero di Carlo V, viva solo nella persona dell’unico sovrano, la-sciava scoperte, a nudo, le profonde fratture, attraverso le quali veniva fuori il «particolare» delle membra, i vari specifici interessi ormai troppo nettamente differenziati per poter essere sommersi in un’unica azione che sod-disfacesse ad un tempo le Fiandre e Napoli, la Castiglia e la Germania. I vari stati già preesistenti, con propri interessi e aspirazioni, continuavano a mantener una propria fisionomia che faceva dell’impero un mosaico a tessere di troppi vari colori; e ciascuno cercava, soprat-tutto, di parlare «très-bien pour lui seul».

Nemmeno sul piano dei rapporti economico-finan-ziari s’attuava piena concordia: qui, anzi, gli interessi contrastanti di questo e quello dei domini di Carlo V apparivano, talora, in luce solare. La guerra stessa non rompeva contemporaneamente nelle varie fronti: esem-pio tipico, il 1542, quando già ci s’azzuffava in Asti e in Fiandra e a Perpignano, mentre in Italia le armi ancora

posavano, e il Mendoza a Venezia, il Del Vasto a Mila-no, il Gonzaga in Sicilia si chiedevano: «perché stiamo a guardare?» Era l’esperienza che dettava poi al Gonza-ga, a fine ’57, un giudizio del suo memoriale a Carlo V: quando i Francesi assalivano Perpignano, il regno di Napoli aveva 1200 uomini d’arme «et se ne stava in tut-ta la pace del mondo».

In piena guerra, infatti, erano i reggenti o governa-tori a stipulare accordi o tregue separati, per salvare il dominio loro affidato, Paesi Bassi o Milano, senza troppo preoccuparsi se in quel modo si compromet-tesse la situazione politico-militare d’insieme: lo ave-va fatto la regina Maria, con la tregua di Bomy del 30 luglio 1537; lo facevano, a loro volta, il Del Vasto nel ’43, e, soprattutto, il Gonzaga stesso, concludendo col Brissac, nell’agosto del 1553, una tregua in Piemonte, che provocò il vivo malcontento di Carlo V, e fu l’ul-tima decisiva causa per il richiamo da Milano di don Ferrante Gonzaga.

Piú volte, cosí, dal modo d’agire dei luogotenenti di Cesare s’aveva l’impressione che non di paesi uniti sotto un unico capo si trattasse, bensí di paesi momentane-amente alleati, con certi obbiettivi comuni, ma anche

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535Unità 3 Letture di Carlo V

con aspirazioni ed esigenze particolari disposte a farsi valere pure a scapito del fine comune.

La rinunzia finale di Carlo V al suo ultimo sogno, assicurare al figlio Filippo la dignità imperiale dopo Ferdinando, e la separazione finale tra Asburgo di Spa-gna e Asburgo d’Austria con l’impero, aveva le sue cause

immediate, umane, nella opposizione sia di Ferdinan-do sia dei principi tedeschi. Ma v’era nelle cose quasi il segno della fatalità; e nella natura stessa dell’immane e scomposto conglomerato politico, costruito e tenuto insieme in quarant’anni, erano riposti i germi del suo disfacimento.

C La modernità della politica carolina

Giuseppe Galasso Carlo V e Spagna imperiale. Studi e ricerche, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2006

Durante il regno di Carlo V si definisce la politica della monarchia nel quadro europeo. Si sviluppano due fa-si, che in realtà sono due complessi e faticosi processi politici. Da un lato, le tradizioni e gli interessi rispetti-vamente aragonesi e castigliani, che erano stati alla ba-se della politica delle due Corone ispaniche, vengono contaminati e composti con quelli di un altro doppio ambito dinastico: l’ambito fiammingo della Casa di Borgogna e quello imperiale degli Asburgo. Dall’altro lato, l’idea imperiale della propria potenza, che per que-sta via matura nell’azione politica di Carlo V e la ispira all’incirca tra il 1525 e il 1550, cede gradualmente il passo a un’idea piú moderna, di cui proprio la politica carolina offre la prima versione nella storia d’Europa.

Non si tratta piú di una forma definita e istituzionale di impero. Si tratta del primato e della preponderan-

za che un determinato insieme politico è in grado di esercitare e di sviluppare fino al massimo livello pos-sibile nel quadro europeo, in base alle forze politiche, finanziarie, militari e di altro ordine di cui dispone: un disegno politico che sottrae Carlo V alla vetusta proble-matica imperiale e lo pone all’apertura di una tipologia politica che si prolunga – attraverso Filippo II, Olivares, Luigi XIV, Napoleone, il Secondo Reich tedesco e, infi-ne, Hitler – fino alla metà del XX secolo, e per qualche aspetto anche oltre questo limite. La consapevolezza di questo avvio è espressa alla fine dallo stesso Carlo V con le abdicazioni del 1555-1556: l’eredità che lascia a Filippo II è chiaramente costruita con la consapevo-lezza di questa linea imperiale e delle condizioni geo-politiche atte a sostenerla.

Mini-saggioI Fugger: l’ascesa dei mercanti-banchieridi Zeffiro Ciuffoletti

I mercanti-banchieri furono i protagonisti della vita economica europea nel passaggio dal Medioevo all’Età moderna.

In origine erano i mercanti italiani i piú intrapren-denti e dinamici a muovere merci e capitali nello spa-zio europeo. Si pensi ai Bardi o ai Peruzzi, grandi ban-chieri fiorentini che avevano fondato le loro fortune prestando denaro alla Santa Sede o ai maggiori sovrani europei. I rischi del commercio erano sempre notevoli, ma ancora piú grandi erano i rischi del prestito di capi-tali, specialmente quando i debitori, potenti sul piano politico, non avevano la possibilità o la volontà di pa-gare gli interessi o di restituire il capitale. Nella fase di

ascesa, il fiorino, la celebre moneta coniata a Firenze a partire dal 1252, divenne apprezzato e solido fino ad imporsi per l’abilità dei mercanti-banchieri fiorentini come moneta di riferimento nelle transazioni interna-zionali. Intorno alla metà del Trecento i mercanti-ban-chieri fiorentini subirono, però, i contraccolpi negati-vi di operazioni azzardate e poi del calo demografico provocato dalla grande pestilenza che colpí i maggio-ri Paesi europei, muovendo dall’Asia al Mediterraneo e seguendo le rotte delle navi e delle merci. La peste nera, che giunse al culmine di un ciclo di carestie ed epidemie, si abbatté sulla popolazione europea, che ca-lò da ottanta a cinquanta milioni di abitanti. Quando

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536 appendice storiografica

il re d’Inghilterra Edoardo III, impegnato nella lunga e onerosa Guerra dei cent’anni, si rifiutò di onorare i propri debiti con la famiglia dei Bardi e ancor piú con i Peruzzi, esposti per 1.365.000 fiorini d’oro, ne derivò una serie di fallimenti a catena che colpirono non solo i grandi banchieri, ma anche le ditte minori. La crisi a questo punto divenne ancora piú grave per il collasso momentaneo dei traffici con le Indie, dovuto, a partire dal 1360, alla fine di quella «pace mongolica» che aveva assicurato fino ad allora il regolare afflusso delle merci orientali nel Mediterraneo attraverso le vie carovaniere dell’Asia ed il Mar Nero. Naturalmente una situazione cosí grave ebbe ripercussioni drammatiche non solo sul commercio, ma anche sul settore manifatturiero e soprattutto su quell’industria tessile che rappresentava la forza di tante città dell’Italia centro-settentrionale e delle Fiandre, prima fra tutte Firenze, che vide crollare le pezze di lana prodotte dalle circa 200.000 del 1300 alle 19.000 del 1382.

Le dimensioni della crisi si fecero sentire sul piano sociale con il malessere e le rivolte dei ceti popolari e con la nascita del patriziato nelle città italiane, dove i grandi mercanti si allearono con i vecchi casati nobilia-ri, dando vita ad una nuova aristocrazia cittadina proiet-tata verso il controllo del potere dalla città al contado. Mercanti e banchieri, ma anche imprenditori, cercaro-no di reagire alla congiuntura sfavorevole adeguando i loro traffici e le loro attività economiche alle mutate condizioni del mercato e alla nuova realtà economica. Si cercò di compensare il calo della domanda, dovuto alla diminuita popolazione, con la qualità dei prodotti e con l’immissione sul mercato di prodotti di lusso. Le città delle Fiandre si specializzarono nei celebri arazzi e la produzione della seta, un tempo esclusiva di Luc-ca, si estese a molte altre città fra cui Firenze. Lo stesso sistema creditizio si ampliò con le «lettere di cambio», per diminuire i rischi legati al trasporto dei valori, ma anche per aggirare i divieti della Chiesa in materia di usura.

I mercanti-banchieri rappresentavano una minoran-za in un mondo ancora dominato dalle campagne, do-ve viveva l’80-90% della popolazione, ma il loro peso sociale e politico, nonostante i rischi della loro attività, era in grande ascesa e i loro orizzonti si ampliavano co-stantemente alla ricerca di nuove merci e di nuove rotte. In un mondo in movimento, con scontri di civiltà e con declini di antichi imperi – come quello cinese –, lo spazio europeo viveva di conflitti politici e religiosi, di innovazioni e di scoperte in ogni campo. Le idee circo-lavano e si diffondevano e le città europee diventarono protagoniste insieme con le nascenti monarchie nazio-nali di un dinamismo che offriva ai mercanti-banchieri nuove e grandi opportunità.

Questo, a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, fu lo scenario in cui i Fugger si mossero, passando da

semplici tessitori di fustagno di Augusta a mercanti-banchieri in grado di assecondare l’ascesa della casa d’Asburgo ai vertici dell’Impero, quando le energiche iniezioni d’oro sonante dei Fugger convinsero gli elet-tori a sostenere la candidatura di Carlo d’Asburgo, al posto del re di Francia Francesco I.

Inizialmente i Fugger si erano arricchiti mediante gli scambi fra prodotti tessili e metallurgici e merci prezio-se dell’Oriente affluenti a Venezia, la città che control-lava il ricco monopolio dei commerci con l’Oriente e con nuovi prodotti richiesti sui mercati europei: vini dolci di Creta, zucchero di Cipro, cotone ecc. Dopo al-terne vicende e oculate strategie matrimoniali, secondo il sistema adottato fra le famiglie regnanti ed in parti-colare da Massimiliano I d’Asburgo (1493-1519) che si rivelò un geniale combinatore di nozze reali segnando il destino europeo della sua casa, iniziò un periodo di vertiginosa ascesa economica e di prestigio sociale.

Hans Fugger si trasferí ad Augusta nel 1367 dal vec-chio cascinale di Graben, vicino al fiume Lech, dove produceva i nuovi tessuti di fustagno fatti con filo di li-no e di cotone, meno cari dei tessuti di lana. Per acqui-stare il diritto di cittadinanza e cosí poter accedere alle corporazioni cittadine, sposò la figlia di Oswald Wit-dopf, maestro delle corporazioni. Dopo la morte della moglie, il capostipite dei Fugger sposò la figlia di Hans Sfattermann, Consigliere di Augusta e rinomato tessito-re. Ormai i Fugger non avevano piú bisogno di colloca-re le proprie merci passando sotto le forche caudine dei piú rinomati mercanti di Augusta, anzi avevano piazza-to la loro base commerciale in una posizione strategica sulla Reichstrasse, di fronte alla «Casa dei Tessitori».

Alla sua morte (1408) Hans lasciò in eredità alla ve-dova e ai figli un patrimonio di 3.000 fiorini, di cui 2/3 in beni di città. Una bella base di partenza per svilup-pare le virtú borghesi e le imprese dei suoi successori, i figli Andreas e Jakob.

Nel 1454 la comunione fra i due fratelli nella condu-zione dell’azienda sotto la guida dell’energica vedova di Hans fu sciolta. Andreas sposò una damigella apparte-nente alla famiglia piú nota ad Augusta: gli Stammler Von Asta. L’ascesa sociale culminò nel 1462 con il con-ferimento da parte dell’imperatore Federico III di uno stemma con un capriolo in oro balzante sul fondo az-zurro. Uno dei quattro figli di Andreas, Lukas, si espose con ingenti prestiti al giovane arciduca Massimiliano d’Austria, ma le cose finirono male e solo l’intervento dello zio Jakob salvò i «Fugger del Capriolo», che a ma-la pena conservarono la proprietà fondiaria di Graben.

Jakob, invece, con prudenza e abilità allargò il com-mercio dei Fugger oltre i prodotti tessili e sposò la figlia del capo della zecca di Augusta. Nel 1463 uscí dalla cor-porazione dei tessitori per essere ammesso a quella piú prestigiosa dei commercianti. Era diventato, infatti, uno dei maggiori commercianti di Augusta. Dava lavoro a

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537Unità 3 I Fugger: l’ascesa dei mercanti-banchieri

mille telai e, pur restando il commercio dei panni l’atti-vità principale, estese gli affari alle spezie, alle lane, alle sete, ai velluti e ad altre merci di lusso. Quando morí nel 1469, aveva lasciato alla moglie e agli otto figli un solido patrimonio e una altrettanto solida reputazione. Se ne accorse, ancora una volta, l’imperatore Federico III impegnato nelle pratiche per far colpo sul futuro suocero del figlio Massimiliano. In cambio di vestiti e stoffe preziose, concesse ai Fugger, discendenti di Jakob, uno stemma proprio con un giglio azzurro e uno d’oro in campo con due corna di bufalo. Ormai gli interessi dei Fugger si estendevano dalla penisola scandinava a Milano e Venezia, dai Paesi Bassi alla Boemia.

La guida dell’azienda era passata da Ulrich, il mag-giore dei figli, a Jakob, il settimo maschio del vecchio Jakob. Quando il padre morí, Jakob fu costretto ad abbandonare la carriera ecclesiastica, che aveva già condotto uno dei fratelli, Markus, alla segreteria della Cancelleria pontificia per le suppliche a Roma. Fu spe-dito a Venezia per meglio apprendere l’arte della merca-tura. I grandi mercanti-banchieri fiorentini e lombardi si presentavano come modelli da imitare e il fondaco (dall’arabo fonduc, «negozio-magazzino») di Venezia, dove i Fugger del Capriolo avevano un magazzino e un rappresentante stabile, era una vera scuola di alta specializzazione mercantile. Nuovi strumenti di tecni-ca commerciale come la «girata», il premio di assicura-zione, la lettera di cambio e persino l’invenzione della partita doppia rappresentavano un salto di qualità negli scambi, nei traffici e nella gestione delle attività eco-nomiche e finanziarie. Con Jakob lo stile di intervento dei Fugger fece un salto di qualità, prestando denaro al gaudente Sigismondo, duca del Tirolo, una regione ric-ca di salgemma, rame e argento. Indebitato fino alla di-sperazione, Sigismondo fu costretto ad abdicare (1490)

a favore dell’astuto Massimiliano I, che da tempo aveva messo gli occhi sul Tirolo, dal quale, peraltro, i Fugger avevano ottenuto il privilegio di esportare il rame e l’ar-gento con un utile di circa il 40%.

A questo punto Jakob puntò le sue carte su Massimi-liano I, che nel 1486 era stato incoronato re dei Roma-ni e che si era imbarcato in una intraprendente politica matrimoniale.

In quegli anni le fortune dei Fugger erano in vertigi-nosa ascesa: la casa Fugger, costruita da uno dei miglio-ri architetti di Augusta, era il simbolo della ricchezza e degli affari, a cui era dedicato proprio il centro della splendida e ricca dimora con uno studio decorato di cimase d’oro e di pareti di legno di cedro e arredato con mobili preziosi e splendide poltrone.

Jakob convinse i fratelli a dare alla società una nuova struttura sul modello delle compagnie esistenti in Ita-lia, una sorta di «società in nome collettivo». Per evitare in periodo di crisi i fallimenti a catena, le compagnie si strutturavano in società formalmente indipendenti (anche nel rischio), anche se nei fatti erano controllate da una medesima famiglia. I Fugger furono anche tra i primi ad utilizzare la stampa e pubblicarono in proprio una «Gazzetta» che serviva proprio come strumento di informazione commerciale per la rete degli agenti della loro compagnia dislocati in ogni parte d’Europa e del Mediterraneo.

Jakob divenne il vero capo dei Fugger, unendo al commercio la speculazione finanziaria e la gestione del commercio dell’argento in Tirolo e Ungheria, grazie ai rapporti con gli Asburgo.

La fortuna dei banchieri italiani si era fondata sul-la cronica scarsezza di moneta circolante, ignorandosi allora la carta moneta. Quando, però, Jakob e tutto il gruppo dei Fugger, compreso Hans Thurzo, che detene-

Hans Fugger† 1408

Andreas Il Ricco1394/95 - 1457/58

Jakob1398 - 1469

Lukas† 1494

Ulrich1441 - 1510

Andreas† 1443

Hans1445 - 1461

Markus1488 - 1511

Peter1450 - 1473

Markus1446 - 1478

Raimond1489 - 1535

Georg1453 - 1506

Anton1493 - 1580

Jakob Il Ricco1459 - 1525

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538 appendice storiografica

va il monopolio dello sfruttamento dell’argento delle miniere ungheresi, protetti da Massimiliano d’Asburgo, furono in grado di immettere sul mercato forti quantità d’argento, grazie alle miniere da loro controllate, l’in-tero andamento dell’economia europea ne fu potente-mente influenzato. Del resto si trattava di un mondo in movimento dove alla scoperta di nuove e lucrose rotte atlantiche verso le Americhe o verso le Indie si aggiun-gevano le lotte fra le dinastie per il dominio in Europa e le nuove istanze di riforma religiosa assecondate dalla stessa invenzione della stampa a caratteri mobili. I por-toghesi, aprendo la via delle Indie, fecero di Lisbona la capitale delle spezie, che, però, vennero commercia-lizzate nei centri commerciali delle Fiandre e soprat-tutto ad Anversa, che contese a Venezia il primato sul commercio internazionale delle spezie. I Fugger non abbandonarono Venezia ma si allargarono ancor piú verso il Portogallo e le Fiandre e si aprirono agli scambi commerciali con l’Atlantico.

Per consolidare il loro ruolo i Fugger seguirono l’esempio degli Asburgo con due matrimoni: quello di Anna Fugger con Georg, il figlio di Hans Thurzo, e, suc-cessivamente, quello di Katarina Fugger con Raimond Fugger. Ormai erano in grado di giocare le loro carte a

tutto campo e infatti diventarono i «banchieri del papa» con un abile intermediario, Giovanni Zink, in grado di gettare tra la curia romana e la casa dei Fugger il ponte sul quale sarebbe passato un fiume d’oro, cioè le que-stue papali provenienti dal Nord d’Europa, la raccolta delle indulgenze e l’acquisto e la vendita dei benefici ecclesiastici. Non a caso Lutero nelle sue famose 95 tesi non risparmiò i suoi attacchi ai Fugger.

Quando infine si profilò la sfida per la corona im-periale fra Francesco I di Francia ed il futuro Carlo V, nipote di Massimiliano d’Asburgo, i Fugger si esposero con 852.000 fiorini a favore degli Asburgo e vinsero, celebrando con i fuochi d’artificio davanti alla casa di Augusta l’elezione di Carlo a imperatore.

Nel 1510, dopo la morte del fratello Ulrich, Jakob, detto «il Ricco», divenne il capo assoluto della compa-gnia, un vero e proprio monarca, che poteva trattare da pari a pari con re e imperatori. Ne è un esempio la lettera che Jakob scrisse il 23 aprile 1523 all’impe-ratore, sollecitandolo a restituire almeno una parte del suo debito. La chiarezza e la risolutezza della forma, il freddo realismo del contenuto, che ridimensionava in termini di cifre e di fatti avvenimenti storici gloriosi per la casa degli Asburgo, ottenne pienamente il suo effet-to. Il sovrano, che aveva assoluto bisogno dell’alleato finanziario, iniziò a saldare il suo debito, confermando – tra l’altro – ai Fugger il contratto per il rame tirolese in scadenza in quell’anno e cedendo loro anche la fon-deria di Rattenberg:

Serenissimo potentissimo Imperatore Romano, graziosis-simo Signore! La Vostra Maestà Imperiale certamente sa come io ed i miei cugini siamo sempre stati disposti a servire con piena devozione la Casa d’Austria per la sua prosperità e il suo sviluppo. Perciò noi ci siamo impegnati col fu Imperatore Massimiliano di chiara memoria, antenato della Vostra Maestà Imperiale, e per devoto favore alla sua Maestà ad ottenere la Corona Romana per la Vostra Imperiale Maestà e ci siamo obbligati per iscritto verso parecchi principi che riponevano la loro fede e fiducia in me e forse in nessun altro. E in seguito abbiamo anche anticipato ai commissari nominati dalla Vostra Imperiale Maestà, per compiere l’impresa sopracitata, una consi-derevole somma di denaro, che io ho raccolto con gran danno non solo da me e dai cugini ma anche da altri signori ed amici ben disposti verso di me, affinché un tale lodevole proposito si adempisse ad alto onore e successo della Vostra Imperiale Maestà.È anche noto ed evidente che senza di me Vostra Maestà non avrebbe potuto ottenete la Corona Romana, come io posso dimostrare con lo scritto di tutti i Vostri Imperiali Commissari. Anche in questo io non ho badato al mio proprio vantaggio; poiché, se io avessi voluto disinteres-sarmi della Casa d’Austria e appoggiare la Francia, avrei ottenuto grande bene e denaro come mi era stato offerto. Ma quanto danno ne sarebbe derivato alla Vostra Impe-

Albrecht Dürer, Ritratto di Jakob Fugger il Ricco, Augusta, Staatsgalerie in der Katharinenkirche, Bayerische Staatsgemaeldesammlungen, 1520.

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539Unità 3 I Fugger: l’ascesa dei mercanti-banchieri

Circondata da mura, la Fuggerei è costituita da 67 casette a due piani, per un totale di 147 appartamenti. Jakob «il Ricco» la costruí per i cittadini cattolici caduti in povertà. Ogni casetta veniva ceduta per un affitto mensile simbolico di un gulden (1 euro) e l’obbligo di pregare ogni giorno per la famiglia del benefattore. Oggi il quartiere è abitato per lo piú da coppie di anziani, per le quali vigono le stesse regole di un tempo. Pagano lo stesso affitto e come allora i portoni della cittadella vengono chiusi dalle 10 di sera alle 5 del mattino: per i trasgressori o ritardatari sono ancora in vigore le antiche multe, che possono raggiungere al massimo l’equivalente di 0,50 euro.

riale Maestà e alla Casa d’Austria, la Vostra Imperiale Ma-està può ben scorgere col suo alto senno.Ora la Vostra Imperiale Maestà mi è rimasta debitrice fino alla fine dell’agosto 1521 della somma di denaro, che la Vostra Imperiale Maestà ha calcolato con me alla dieta di Worms e per cui mi ha rimandato alla Contea del Tirolo – di cui io non sono ancora stato indennizzato completamente – cioè di 152.000 ducati, insieme con gli interessi, che devono essere conteggiati su quella somma. Veramente io stesso dovrei pagare interessi per tale som-ma raccolta. Per tale somma si sono obbligati per iscritto nella miglior forma anche i tre tesorieri e specialmente il signor Vargas; tuttavia sinora non ho ricevuto nulla da lo-ro. Poiché essi notificano che è stato loro preso il reddito proveniente dalle loro terre e quindi finora non hanno potuto pagare.Perciò rivolgo alla Vostra Imperiale Maestà la mia devota richiesta e preghiera di voler benignamente considerare i miei fedeli e devoti servigi che sono consacrati al maggior benessere della Vostra Imperiale Maestà, e di voler con il signor Vargas o in altro modo provvedere e ordinare che la somma di denaro arretrata insieme con gli interessi mi sia rimborsata e pagata senza ulteriore dilazione. Per meritare questo dalla Vostra Maestà Imperiale desidero essere riconosciuto suddito devoto e con questo riverisco devotamente la Vostra Imperiale Maestà. Della Vostra Imperiale Maestà, devotissimo

Jakob Fugger

I Fugger e la banca d’affari, Roma 1974, pp. 61-62

Jakob, che ben conosceva l’Italia, divenne anche il precursore e il padre del Rinascimento tedesco, in-fluenzando con il suo mecenatismo lo stile della ricca borghesia tedesco-fiamminga. Nella cappella sepol-crale di famiglia, fatta costruire da Jakob nella chiesa dei carmelitani di Sant’Anna, lavorarono artisti come il Dürer, il Virche, il Dancher, cosí come nel nuovo pa-lazzo edificato sul Weinmarkt operarono arredatori e artisti famosi e fu iniziata una raccolta di libri destinata a diventare famosa in tutta Europa (15.000 volumi). Jakob fu anche l’ideatore, insieme con Albrecht Dürer, del primo quartiere di edilizia popolare del mondo. Tra il 1519 e il 1525 fece costruire per gli «operai e artigiani, borghesi e abitanti nella città di Augusta piú bisognosi e meritevoli» la Fuggerei, un quartiere di abitazioni eco-nomiche.

Jakob morí nel 1525, lo stesso anno della Battaglia di Pavia che decise la guerra tra Francesco I e Carlo V. Quella di Pavia non fu solo la vittoria della fanteria spagnola e della diplomazia degli Asburgo, ma, come ha scritto lo storico Giorgio Spini, anche la vittoria dei Fugger. Il 30 dicembre 1525 si spegneva con Jakob Fug-ger «il mercante piú eminente del primo Rinascimento tedesco e probabilmente l’uomo piú ricco dell’epoca».

Bibliografia italiana essenzialeW. Winker, Fugger il Ricco, Einaudi, Torino 1942G. von Pölnitz, I Fugger, Dall’Oglio, Milano 1964I Fugger e la banca d’affari, Cremonese, Roma 1974

Veduta della Fuggerei ai giorni nostri.

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Mini-saggioLa nouvelle cuisine del Rinascimento italiano fra eredità classica e universo cristianodi Zeffiro Ciuffoletti

In occasione della pubblicazione di una nuova edizio-ne del libro De arte coquinaria di Mastro Martino curata dal poeta e critico Luigi Ballerini e da Jeremy Pardon (G. Tommasi, Milano 2002), Cesare Segre, recensendo l’opera, ha parlato dell’inizio di una sorta di «nouvelle cuisine» nella cultura gastronomica italiana. In realtà se si allarga il quadro e si contestualizza meglio l’opera di Mastro Martino arrivando a comprendere non solo l’opera del Platina, De Honesta Voluptate del 1474, che si valse sicuramente dell’arte culinaria del cuoco del patriarca di Aquileia, quel cardinale Ludovico Trevisan, che a Roma, dove a lungo risiedeva, fu soprannomina-to Cardinal Lucullo, ma anche la grande rivoluzione culturale che maturò nella Firenze della seconda me-tà del Quattrocento attorno a Lorenzo il Magnifico e all’Accademia neoplatonica di Marsilio Ficino, allora sicuramente si può parlare del debutto di un nuovo sti-le alimentare congiunto alla ricerca di un nuovo stile di vita.

In buona sostanza per comprendere questa svolta straordinaria che mirava a conciliare in una sintesi alta il mondo profano, la grande cultura greca e romana, con il cristianesimo bisogna riandare a leggere il De Vi-ta di Marsilio Ficino e ricostruire l’ambiente vivacissimo e straordinariamente creativo in ogni campo dell’arte e del sapere che si ritrovò intorno a Lorenzo de’ Medici e poi continuò, fra contrasti anche drammatici, nella grande stagione del Rinascimento. Come ha scritto Eugenio Garin, che del Rinascimento rimane uno dei piú grandi interpreti, «il Rinascimento trova un senso adeguato al termine solo sul terreno della cultura: è, innanzi tutto, in fatto di cultura, una concezione della vita e della realtà che opera nelle arti, nelle lettere, nelle scienze, nel costume»1. Proprio dentro questo quadro va collocata anche la rivoluzione nella cultura alimenta-re del Cinquecento italiano, cosí strettamente collegata alle proposte ficiniane di un nuovo stile di vita e di una nuova forma di sociabilità legata alle buone maniere e alla capacità di dominare gli istinti e le pulsioni.

Gli umanisti furono prima di tutto dediti agli studi grammaticali e retorici, ma il loro metodo influí e al-largò il campo degli studi; cosí a metà Quattrocento troviamo un numero sempre piú grande di giuristi, ma-tematici, medici, teologi e filosofi che andavano oltre i loro specifici studi. L’Umanesimo, insomma, influí potentemente sulle altre scienze, ruppe i confini e le

gerarchie, cosí come lo studio e il recupero dei testi gre-ci e latini aprí la strada ad un ambizioso progetto, che proprio intorno alla Firenze dei Medici e poi alla corte papale di Roma, sempre con i Medici e non solo con loro, prese forma nel tentativo di conciliare la grande cultura del mondo pagano con il cristianesimo. L’anti-chità, principalmente quella greco-romana, ma poi an-che ebraica e orientale, fu vista con un alone mitico di perfezione assoluta: «nel passato – ha scritto Garin – si collocavano civiltà in sé complete, dal valore paradig-matico». Gli antichi erano maestri non solo di umanità ma anche di scienza e di fede, e, quindi, di vita.

Si pensi a Giovanni Pico che voleva reinterpretare l’antichissima dottrina del «grande libro dell’universo» avvicinando l’indagine filosofica e storica con quella naturalistica e stringendo i nessi fra il mondo degli uo-mini e il mondo della natura riassunto e umanizzato nell’opera umana.

I filosofi, che poi per Marsilio Ficino, grande stu-dioso di Platone e animatore dell’Accademia platoni-ca mediceo-fiorentina, non erano altro, che «medici dell’anima», diedero vita proprio a Firenze ad una sorta di rivoluzione filosofica e religiosa, che certamente sfio-rò anche il giovane Leonardo, che aveva letto il Platina e che era assai curioso dei segreti del cibo e del corpo umano. Leonardo era una vera spugna e nei suoi nu-merosi appunti non manca una piccola raccolta di con-sigli igienico-alimentari sotto forma di sonetti caudati ispirati alla scuola medica salernitana del gusto e degli stili di vita, che abbiamo definito «nouvelle cuisine». Del resto, com’è noto, il giovane Leonardo entrò presto nella cerchia di Lorenzo de’ Medici, che di quel movi-mento filosofico-culturale definito neoplatonismo fu il grande mecenate e che proprio in Marsilio Ficino trovò il suo principale interprete. Il sonetto leonardiano, che qui riportiamo, riflette questo clima:

Se voi star sano,osserva questa norma:non mangiar senza voglia, e cena lieve;mastica bene, e quel che in te ricevesia ben cotto e di semplice forma.Chi medicina piglia mal s’informa:guarti dall’ira e fuggi l’aria greve;su dritto sta’, quando da mensa leve;di mezzogiorno fa che tu non dorma.

1. E. Garin, La cultura del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1967.

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541Unità 3 La nouvelle cuisine del Rinascimento italiano fra eredità classica e universo cristiano

Il vin sia temprato, poco e spesso,non for di pasto, né a stomaco voto;non aspettar, né indugiare il cesso;se fai esercizio sia di picciol moto […]fuggi lussuria e attienti alla dieta.

Cerchiamo, quindi, di definir meglio una dieta che era insieme igienico-alimentare ma anche di vita, nei consigli sulla semplicità del vitto, sulla «cena lieve», ma anche sull’evitare «l’ira e l’aria greve», sul «vin tempra-to», sul movimento, sul sonno ecc. Questa «rivoluzio-ne» trovò forma compiuta proprio nella trilogia del De Vita di Marsilio Ficino e nel De Honesta Voluptate del Platina, ma anche negli scritti del Folengo, del Romoli e del Lancerio, del Cervio e del Bacci, e persino negli scritti di un medico come Michele Savonarola, padova-no-ferrarese, autore del Libretto di tutte le cose che si man-giano comunemente (Venezia 1508). Un’opera chiave per definire la rivoluzione di cui parliamo, anche perché distingue il mangiare di tutti i giorni dai «banchetti», che erano esibizioni di sfarzo, di potere e di ricchezza.

Ebbene la nouvelle cuisine del Rinascimento prese for-ma proprio a cavallo fra la fine del Quattrocento e l’ini-zio del secolo successivo con il progressivo abbandono delle spezie e degli aromi forti dell’Oriente e la valoriz-zazione crescente degli ortaggi, della frutta, degli aromi e degli odori mediterranei, dal mirto al rosmarino, fino all’esaltazione dell’olio d’oliva al posto del lardo. Come scrisse infatti Michele Savonarola, il lardo e lo strutto erano «opilativi» e andavano usati con moderazione, mai nella frittura. «La carne fritta con il grasso – scriveva Savonarola – è nauseativa e tarda discende al stomaco». Meglio la semplice carne arrostita «su la brae» e meglio ancora «la frita con lo oleo» che «è piú leziera e me-glio se padisse». Savonarola raccomandava al duca Bor-so d’Este di condire le vivande con l’olio ottenuto dal succo di olive acerbe e di uva, pure essa acerba. L’olio di olive verdi era insieme il «miore» dei condimenti e il piú salutare. Cosí l’olio d’oliva, ancora raro e certo non alla portata della povera gente, fece il suo ingresso nella mensa dei signori. Fu in questo contesto che Fi-renze, vera e propria capitale delle spezie, che ancora nel Quattrocento contava una cinquantina di spezierie, venne investita da un lato dalla crisi del mercato delle spezie di metà Quattrocento e poi da una rivoluzione culturale, che relegò le spezie all’uso della farmacopea e, al piú, a quello della cucina dei grandi banchetti. Nel-lo stile alimentare quotidiano delle persone colte e dei signori si affermavano una nuova cultura del mangiare e un nuovo stile di vita piú sobrio e rispettoso delle armonie e dei ritmi dell’universo e della natura, di cui l’uomo era parte.

Com’è noto Ficino fu avviato dal padre medico allo studio della medicina e in particolare allo studio del grande Galeno, ma Cosimo e Lorenzo de’ Medici lo

piegarono allo studio della filosofia platonica, di cui divenne il piú grande interprete nell’Europa dell’Uma-nesimo e del Rinascimento, di cui Firenze era capitale.

Secondo Marsilio Ficino, del resto, la filosofia non era altro che una medicina e Platone non era altro che «un medico degli animi». Ficino è famoso per i diciot-to libri sull’immortalità dell’anima e la monumentale Teologia platonica. Nel De Vita, però, troviamo il senso del mistero della vita fra astrologia e scienza e i consi-gli materiali, medici e astrologici, ma anche spirituali per rendere la vita sana e lunga, conforme ai precetti cristiani.

Nei consigli del filosofo neoplatonico e cristiano per rendere sana e lunga la vita noi troviamo una sapien-za antica e sottile ove entrano in gioco gli animali, le piante, i minerali, la luce, i colori, l’aria, i profumi, gli aromi, i suoni, le armonie, la musica, la danza, i mo-vimenti del corpo, il clima, l’ambiente, gli astri. In una parola, Ficino con grande modernità ci parla del nesso fra stili di vita e stili alimentari, fra ritmi di lavoro e rit-mo di vita, fra mente e corpo, fra l’uomo e gli animali, fra l’uomo e il suo ambiente, la bellezza delle forme e quella dei paesaggi. L’armonia del corpo e della mente come parte dell’universo sacro e unitario segnato dagli astri, cioè dalla misteriosa sacralità del creato.

Bisogna ricordare che Ficino si considerava nato due volte, la prima come figlio spirituale di Galeno e la seconda di Platone. Cominciando il suo discorso ci-ta Bacco perché questi con le sue erbe, i suoi carmi, e soprattutto con il vino, conforta e dona la letizia e la tranquillità che giovano alla salute del corpo.

Sarebbe, ora, troppo complicato riferire intorno alle teorie di Ficino. Basti ricordare che il problema princi-pale era la minaccia che la «bile astrale» portava a colo-ro che facevano vita sedentaria e di riflessione, letterati e filosofi, che spesso «distolgono la loro mente dal corpo e dalle cose corporee». L’ozio delle membra impediva a questi ultimi di bruciare (espellere) il superfluo. Altre insidie erano portate dal «coito ripetuto», dall’eccesso di cibo, e dal sonno spostato dalla notte al mattino. Le stesse considerazioni che annotava Leonardo nel suo sonetto caudato ed è noto che anche Leonardo studia-va Platone e che i temi neoplatonici comparivano nei suoi scritti e nella disputa «pro» e «contro» la legge di natura. L’interesse per Venere, la dea che caratterizza la pittura di Botticelli, è forte e vivo anche in Leonardo che descrisse il regno della dea nel Sito di Venere. Ve-nere, la dea dell’amore e della fecondità, era al centro del recupero del mondo pagano nel Rinascimento. Il nome greco Afrodite (da afròs, «schiuma») alludeva alla sua nascita dal mare ed infatti, secondo Esiodo, Venere era nata dal mare nei pressi dell’Isola di Citerea per poi passare a Cipro. Venere era colei che rendeva il mare bello e tranquillo ma anche colei che rendeva feconda e bella la terra. Era, insomma, quel grande simbolo so-

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lare e mediterraneo della terra e dei suoi frutti. Ora il mito di Venere ritornava prepotentemente nel De Vita di Ficino. Nel De Vita, Venere diventa la madre delle Grazie che si addicono agli uomini adulti e ai vecchi, che sostituiscono agli amori violenti della gioventú il piacere del paesaggio, della musica carezzevole, dei profumi delicati, del verde dei giardini e dei boschi. Venere incarna una sorta di metafisica virilità, fondata su una teoria della luce e dei colori che fa del verde un simbolo e un coefficiente della temperanza per la sua capacità di placare lo spirito animale. C’è in nuce l’idea del giardino rinascimentale italiano, ricco di paesaggi primaverili, ruscelli d’acqua, profumi di fiori, di luci e colori. Venere da fanciulla selvaggia divenne, cosí, cam-pagna serena e domestica presenza.

Ritornando al mangiare, all’intreccio tra gli stili di vita e la sobrietà alimentare, Ficino insisteva sull’evitare i rischi dell’accumulo di umori atrabiliari che potevano produrre abbattimento e tristezza. Per evitare questo accumulo giovavano gli odori soavi e, fra questi, quelli delle rose, delle viole e del mirto.

I giardini, le erbe odorose, i frutti facilitano l’equi-librio e l’armonia dell’uomo con se stesso e con l’uni-verso di cui è parte. Proprio nella Firenze dei Medici questo universo naturale veniva celebrato negli erbari, ma ancora di piú nella pittura, nelle tempere del Le-gazzi, nei manoscritti illustrati di Pier Antonio Micheli o nei quadri di Bartolomeo Bimbi. Si pensi alle Liste di tutta la frutta che giorno per giorno dentro l’anno sono poste alla mensa dell’A.R. e del Serenissimo Granduca di Toscana, manoscritto prezioso oggi custodito presso la Biblioteca botanica dell’Università di Firenze. Questa sapienza antica può essere considerata scientificamen-te superata, ma non nel punto cruciale dell’equilibrio e dell’armonia fra stile alimentare, stile di vita e stile di pensiero. Sta qui il segreto eterno della classicità e della grande eredità culturale, artistica e filosofica del Rina-scimento italiano nel suo gigantesco sforzo di fondere la grande eredità del mondo classico con la grandezza della religione cristiana. Nell’arte se ne colgono i segni piú sublimi dalla Primavera del Botticelli all’Ultima cena di Leonardo.

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543appendice storiograficaUnità 4

Primo pianoL’Inquisizione in Liguria: proposizioni ereticali, libri proibiti e incantesimi nella Savona di fine Cinquecentodi Daniela Piemontino

A Il «processo dei nobili» di Savona

1. La denuncia

2. L’istruttoria

3. La difesa

4. La sentenza

5. L’abiura e la riduzione di pena

Primo pianoL’Inquisizione in Liguria: proposizioni ereticali, libri proibiti e incantesimi nella Savona di fine Cinquecento

Le pratiche e le strutture inquisitorie per mezzo delle quali la Chiesa cercò di arginare il dilagare dei movimenti ereticali si affermarono verso la fine del Medioevo. L’Inquisizione medievale, in particolare, viene fatta risalire a un decreto del 1184, con il quale papa Lucio III (1181-

1185) scomunicava tutti gli eretici riconoscendo ai vescovi il diritto di perseguitarli anche in futuro. Questa posizione fu ribadita dal Concilio Lateranense IV (1215), che assegnava ancora ai vescovi il diritto-dovere di ricercare e punire l’eresia e di consegnare i colpevoli riconosciuti al braccio secolare per la necessaria punizione (animadversio debita). L’esigenza di tale istituzione fu avvertita soprattutto per contrastare l’eresia catara che, sorta in alcune aree della Linguadoca intorno al 1140, si era saldamente radicata in vaste regioni. Convinti che la Chiesa di Roma avesse deviato dalla vera fede, i catari crearono una vera e propria Chiesa parallela a quella ufficiale, suscitando forti reazioni nell’ambiente ecclesiastico romano. Contro di loro Papa Innocenzo III indisse una crociata, e il movimento fu totalmente annientato negli anni Settanta del Duecento. Fin dall’inizio, l’Inquisizione appare legata a doppio filo alle esigenze politiche. Per questo l’imperatore Federico II nel 1220 (e piú tardi, nel 1296, anche il re francese Luigi VIII) si affrettò a riconoscere che il vescovo aveva il dovere di ricercare e giudicare gli eretici ma che, dopo la sentenza, spettava al potere secolare applicare la pena, distruggere i beni mobili del condannato e garantire ai denunciatori un terzo del suo patrimonio. Il papa Gregorio IX (1227-1241) nel 1231 trasformò la legislazione inquisitoriale in legge canonica. Nel corso del XIII e XIV secolo l’Inquisizione sostituí sempre piú spesso i tribunali episcopali e le normali procedure furono modificate sulla base dell’ordine di accu-sare tutte le persone sospette di eresia di una determinata regione. Coloro che rivolgevano le accuse restavano anonimi, mentre sulle persone accusate veniva aperta un’inchiesta, in cui non era l’accusa a dover dimostrare la colpevolezza, ma spettava agli accusati l’onere di discolparsi. Se non erano in grado di farlo, immediatamente venivano sottoposti a interrogatori il cui fine dichiarato era quello di ottenere una confessione, anche con il ricorso alla tortura. Una volta estorta la confessione, veniva fissata la pena che nei casi piú gravi consisteva nella reclusione in carcere. A partire dal 1224, per ordine dell’imperatore Federico II, si aggiunse anche la pena del rogo. Questa era, in genere, riservata agli eretici che si rifiutavano di ritrattare o che erano recidivi dopo la prima ritrattazione. La «pena del fuoco» era applicata dal braccio secolare, in genere con prontezza (entro otto giorni), e con il consenso ufficiale delle autorità ecclesiastiche. Durante tutta la procedura, i sospettati di eresia erano in balia degli accusatori e le garanzie assicurate agli accusati nei primi tempi dell’Inquisizione (l’avvocato, l’inammissibilità delle prove ottenute con la violenza, la protezione contro le torture e contro il ripetersi di esse) furono progressivamente ridotte dalla legislazione; anche i tentativi fatti da papi come Clemente V (1305-1314) per imporre un equo trattamento nei confronti degli accusati vennero ignorati. Lo strumento dell’Inquisizione, inoltre, venne usato dai sovrani oltre che per scovare gli eretici, anche per eliminare avversari politici. Al contempo, la sempre piú diffusa conoscenza del diritto romano, che contemplava la pena di morte contro i manichei, seguaci di una religione orientale nata nella seconda metà del III secolo d.C. contro la quale gli imperatori d’Oriente avevano emanato una fitta serie di editti, favorí l’idea secondo cui l’eresia fosse un delitto di Stato. Importanti cambiamenti si verificarono a partire dal 1542, quando papa Paolo III (1534-1549), con la bolla Licet ab initio, illustrò alla cristianità la necessità di ricorrere a uno «strumento d’emergenza », la Congregazione del Sant’Uffizio dell’Inquisizione, per far fronte al dilagare dell’eresia protestante. Secondo le intenzioni iniziali avrebbe dovuto trattarsi di una misura temporanea, dal momento che spettava al Concilio radunato a Trento esprimersi riguardo a eresia e ortodossia, ma di fatto l’Inquisizione continuò a esercitare per secoli

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il suo controllo sulle coscienze e sulle persone. Diretto per lungo tempo dal cardinal Gian Pietro Carafa, questo tribunale centralizzato era subordinato al pontefice e ramificato in tutta Italia (con l’eccezione della Sicilia e della Sardegna, dove già esisteva un tribunale dell’Inqui-sizione direttamente dipendente dalla Corona spagnola). Ai cardinali inquisitori fu affidato il potere di dislocare collaboratori a livello locale (di solito appartenenti ai due grandi ordini mendicanti specializzati da secoli nella lotta contro l’eresia, ovvero i domenicani e i francescani conventuali) con il compito di processare i sospetti di eresia, gli eretici e tutti i loro fautori o seguaci. Progressivamente il tribunale allargò le sue competenze, giudicando una gamma sempre piú ampia di comportamenti e di opinioni: il ritorno al giudaismo da parte degli ebrei convertiti al cristianesimo, la stregoneria, le superstizioni popolari, l’omosessualità e la sollecitatio ad turpia, cioè lo sfruttamento da parte di membri del clero della propria funzione sacerdotale (soprattutto il sacramento della confessione) per estorcere pratiche oscene. Alcuni di questi presunti reati erano di difficile se non di impossibile dimostrazione e proprio questo spiega come mai il Sant’Uffizio dispose di un potente strumento di controllo e di pressione, non soltanto sui laici ma anche sui chierici, i quali pure non potevano sottrarsi all’autorità inquisitoriale. Mentre a livello locale l’Inquisizione svolgeva la sua funzione di giudice dei fedeli nel nome dell’uniformità religiosa, a Roma, dove giungeva notizia di tutti i procedimenti in corso, il tribunale divenne una sorta di temibile «polizia segreta», capace di condizionare le scelte della Chiesa (basti pensare che durante i conclavi riuniti per eleggere i nuovi pontefici i cardinali del Sant’Uffizio, possedendo le pratiche degli inquisiti o dei semplici sospettati, disponevano di fatto di un potere di veto contro candidati a loro sgraditi). Seguendo lo schema del Directorium Inquisitorum, uno dei piú famosi manuali per inquisitori, scritto nel Trecento dal religioso spagnolo Nicolau Eymerich (1320-1399), poi ripreso e commentato dal giureconsulto e canonista aragonese Francisco Peña nel 1578 (la traduzione italiana è stata pubblicata a cura di Rino Camilleri nel 1998), un processo inquisitoriale aveva questa sequenza: • generalmente all’inizio vi era la «denuncia» di una persona che accusava un’altra di eresia; alla denuncia faceva seguito la raccolta di prove

ed eventualmente la perquisizione dell’abitazione dell’indiziato; • si apriva cosí la «fase istruttoria» del processo che, con i suoi numerosi interrogatori, era finalizzata ad accertare non solo i reati compiuti,

ma anche gli intenti e il grado di colpevolezza dei sospettati; • dopo aver raccolto prove e testimonianze d’accusa e aver interrogato gli imputati, se questi ultimi si dichiaravano innocenti, aveva inizio la

«fase difensiva» del processo;• se veniva accertata l’eresia, i giudici proclamavano la «sentenza» e inducevano il colpevole all’«abiura», ossia a ritrattare i suoi errori. L’abiura

poteva essere de levi suspicione se il sospetto di eresia era lieve, de vehementi se il sospetto era grave, de formali in caso di colpevolezza certa;

• le «pene» inflitte erano di solito lievi (umiliazioni pubbliche, multe, preghiere e atti di devozione) e avevano lo scopo di rimediare agli errori commessi, ma, anche se raramente, si continuò a utilizzare anche la «pena del fuoco»; non era previsto un processo d’appello ma era possibile la riduzione di pena per quanti dimostravano di essersi pentiti.

Per esemplificare l’applicazione delle direttive inquisitoriali romane alle diverse realtà locali, ma anche per mostrare come alla fine del Cinquecento, una volta cessata l’«emergenza ereticale», l’Inquisizione avesse cominciato a occuparsi piú del disciplinamento dei comporta-menti morali e sociali che della repressione dell’eresia, abbiamo scelto di presentare gli atti di un processo che, nel biennio 1599-1601, vide implicati alcuni tra i maggiorenti di Savona. Si trattò di un avvenimento clamoroso per la città, per il prestigio del quale godevano gli inquisiti e per il gran numero di testimoni sottoposti al vaglio del tribunale inquisitoriale, anche se i capi d’imputazione riconducevano non tanto a vera e propria eresia, quanto a comportamenti considerati immorali e a pratiche magiche. Il giovane nobile Pier Gerolamo Gentil Ricci fu ac-cusato di conservare libri proibiti e di leggerli a casa sua alla presenza del padre Domenico e di tre amici (Giovanni Francesco Pozzobonello, Cesare Adorno e fra Francesco de Simoni), con i quali si ritrovava anche per praticare incantesimi. È da notare che l’interesse per pratiche e conoscenze magiche accomunò nobili e popolani, ossia persone appartenenti a classi sociali diverse, che spesso si ritrovarono a leggere o ad assistere alla lettura degli stessi libri di magia; anche i religiosi – e la presenza di un frate tra gli inquisiti lo attesta –, forse facilitati dal loro ruolo di intermediari tra sacro e profano, ricorsero a quel medesimo mondo magico che affascinava i fedeli, rimanendo spesso coinvolti in processi per stregoneria.

A Il processo dei nobili di Savona

Atti del Processo Adorno-Pozzobonello-Gentil Ricci, Archivio Storico Diocesano Savona, fondo Inquisizione, Savona

1. La denunciaVi erano tre modi d’istruire un processo: «per accusa», «per denuncia», «per inchiesta». Nel primo caso qualcuno si presen-tava pubblicamente a denunciare qualcun altro davanti all’inquisitore. Nel secondo era un delatore che denunciava, sotto giuramento, ma poi si procedeva d’ufficio e non per sollecitazione di parte. Infine, quando il procedimento era per inchiesta, l’inquisitore indagava su una persona che aveva fama di aver detto o commesso qualcosa contro la fede.

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545Unità 4 L’Inquisizione in Liguria: proposizioni ereticali, libri proibiti e incantesimi nella Savona di fine Cinquecento

Il processo savonese prese il via da una denuncia, ossia nel modo piú frequentemente osservato nelle cause dell’Inquisizione. Il padre guardiano del Convento di San Francesco in Savona, fra Giuliano Alberti, e il canonico della cattedrale, Biagio De Lorenzi, si recarono davanti al tribunale inquisitoriale, composto da vescovo e inquisitore, per informarlo dell’esistenza di un «circolo ereticale». Nella sua dichiarazione scritta il conventuale raccontò un episodio avvenuto durante un pranzo cui era presente anche il canonico de Lorenzi, mentre, nella sua deposizione, quest’ultimo aggiunse ulteriori informazioni.

«[…] il signor Canonico dimandò a me, quando l’uo-mo muore ove va l’anima. Et io li risposi che l’anima è immortale et va in uno di tre luoghi overo in cielo, o in purgatorio, o in inferno. Cesare Adorno che gli stava a canto […] subito rispose […] che l’anima moriva as-sieme col corpo […] che ciò l’aveva imparato da alcuni che legevano questo in Savona».

(Dichiarazione di fra Giuliano Alberti, 30 dicembre 1599, carta 1)

«[…] sono doi o tre giorni, che volendo io dire l’uffitio1 in casa, invitai Cesare Adorno quale sta in casa mia che volesse dirlo mecho, et esso Cesare mi rispose che non volea dire l’uffitio perché non gli giovava cosa alcuna […]. Il giorno seguente alla sera invitandolo io di novo a voler dire mecho l’uffitio esso rispose che non lo volea dire perché li doleva la testa, et alhora io lo pigliai con

bone parole dicendoli che me dicesse chi li havea detto tali cose […]. Alhora esso mi rispose che mangiando un giorno in casa di padre Sebastiano Penacino, diceva-no a tavola che morendo il corpo more l’anima, alhora io li replicai con una bona reprensione dicendoli che volea sapere da lui chi gli haveva insegnato tali cose, et esso Adorno […] mi disse che era andato in casa di uno Rizzo che sta vicino all’ospedale di san Paolo, dove gli era un libro quale pigliavano da un camino o sia sopra un camino et lo legevano, il quale diceva che morto il corpo è morta l’anima et che bisogna prendersi piacere in questo mondo. Et che è stato in detta casa doe o tre volte di giorno et che li era detto Rizzo et il signor Gio-vanni Francesco Pozzobonello et un uomo vecchio che credeva fusse padre di detto Rizzo […]».

(Deposizione di Biagio De Lorenzi, 30 dicembre 1599, carta 2)

1.La liturgia delle ore, cioè le preghiere che i sacerdoti sono tenuti a recitare durante le varie fasi della giornata.

2. L’istruttoriaIl «processo dei nobili» si svolse nel palazzo vescovile di Savona, alla presenza del vescovo Pietro Francesco Costa e del vica-rio del Sant’Uffizio fra Paolo Bresciano da Chio. I savonesi non si presentavano davanti all’inquisitore generale, che aveva sede a Genova e interveniva solo nei casi piú gravi, ma venivano interrogati a Savona dal vicario inquisitoriale. Se dopo un primo esame segreto il vescovo e il vicario inquisitoriale ritenevano che l’accusato dovesse essere arrestato, procedevano alla carcerazione e ai successivi interrogatori; i verbali dell’istruttoria venivano sottoposti ai teologi e ai canonisti di Genova, per riceverne un parere. Al processo potevano assistere anche due «protettori del Sant’Uffizio», rappresentanti del governo affian-cati all’inquisitore per arginarne il potere. Poteva capitare che qualcuno dei sospettati si presentasse spontaneamente per sviare i giudici e per nascondere le proprie convinzioni ereticali. Probabilmente cosí fecero sia Giovanni Francesco Pozzobonello sia fra Francesco de Simoni, riversando gravi accuse di eresia sull’amico Gentil Ricci. Ma questi, evidentemente, si difese dalle accuse pronunciate contro di lui.

«Gerolamo mi disse et io non voglio mai giegiunare2 e mi voglio servire di quel detto di Sardanapalo che dice, post mortem nulla voluptas3 […]. Io l’ho in openione di mezzo heretico, perché faceva queste cose, et insensava4 il diavolo e li dava l’adoratione e li accendeva candele. Detto Hierolamo m’ha detto che havea uno spirito fa-

miliare in uno annello, ma non so che annello si sia, et che doi o tre giorni della settimana gli dava l’adoratione […]».

(Deposizione di Giovanni Francesco Pozzobonello, 5 gennaio 1600, carta 13)

2.Digiunare.3.Dopo la morte non vi è piú alcun piacere.

4.Incensava.

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546 appendice storiografica

«Io fra’ Francesco de Simoni havendo praticato con Gieronimo Gentile Ricio dico haverli sentito dire di sua bocha havere un libro di Francesco Maria Vegerio Rovere con il quale diceva se volesse si faria molte cose […] et ho sentito dire dal signor Francesco Pozzobo-nello havere veduto un scritto nelle mani del suddetto Ricio con uno cerchio, et molte parole in quello scritte, intitulato Chiromantia di Francesco Maria Vegerio della Rovere […]».

(Deposizione di fra Francesco de Simoni, 4 gennaio 1600, carta 12)

«[…] queste cose sono cose inventatime contro perché non ho voluto fare quello volevano loro che io facesse».

Interrogatus ut dicat qui sunt isti qui volebant ut facisset illa et qui erant illa que ipsi requirebant respondit5: «Il si-gnor Giovanni Francesco Pozzobonello sotto pretesto di voler prendere per moglie mia sorella Ottavia, voleva che li consentisse dormisse secho6 una notte, né io ha-vendoli voluto consentire me ha inventato queste cose contro […]».

(Deposizione di Pier Gerolamo Gentil Ricci, 19 febbraio 1600, carta 36)

5.Avendogli richiesto chi fossero costoro e che cosa volessero da lui, risponde.

6.Voleva che io gli permettessi di dormire con lei.

3. La difesaVale la pena ricordare che, a differenza di quanto accadeva nei tribunali secolari, nei quali gli indizi sull’imputato erano proclamati ad alta voce ed egli doveva controbattere immediatamente, in quelli inquisitoriali essi erano segreti e venivano resi noti solo all’inquisito al fine di permettergli di mettere a punto la propria difesa. Cosí lo storico John Tedeschi, nel suo saggio Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, descrive questa fase: «[L’imputato] riceveva a tal fine una copia autentica redatta a sue spese – ma gratuita per gli indigenti – della trascrizione di tutte le fasi del processo svoltesi fino a quel momento, con capi di accusa (articuli) in volgare, per facilitarne la comprensione. Gli era quindi concesso del tempo per studiare le prove a suo carico e per preparare domande miranti a confutare i testimoni di accusa, domande che sarebbero state rivolte dall’inquisitore, non essendo consentito alcun dibattito faccia a faccia fra l’imputato e i testimoni; e gli era consentito di chiedere la testimonianza di tutte le persone – parenti stretti esclusi – che a suo parere erano in grado di dimostrare la sua innocenza […]. Se l’imputato non si avvaleva del diritto di difesa, ovvero non contestava le affermazioni dei testimoni dell’accusa, queste ultime erano considerate ipso facto da lui accettate, ed egli si rimetteva alla clemenza della corte […]. Il diritto alla difesa non poteva essere mai negato, anche nel caso di una precedente confessione, se l’imputato chiedeva di avvalersene. In realtà, i trattatisti esortavano i giudici a valorizzare il piú possibile tale diritto e a insistere perché venisse esercitato, anche quando la colpevolezza dell’imputato sembrava accertata e questi era ormai rassegnato alla condanna. Gli argomenti addotti erano di due tipi: morali e pratici. Innanzitutto, si riteneva che la facoltà di difendersi da un’accusa fosse sancita dal diritto naturale e non potesse, pertanto, essere negata ad alcuno. Inoltre, dal punto di vista pratico, il rispetto del diritto alla difesa, anche quando non invocato dall’imputato, era necessario per porre il processo al riparo da successive critiche per presunte deviazioni dall’iter normale […]. Se l’imputato dichiarava di non avere esperienza in simili questioni e di avere bisogno dell’aiuto di un avvocato, si doveva citare questo fatto nei verbali e prendere in considerazione la richiesta […]. È probabile che nella maggior parte dei casi, nei tribunali periferici, qualora mancassero all’imputato i mezzi e le cono-scenze per cercare aiuto per conto proprio, fosse l’inquisitore ad affidare l’incarico a uno dei “pubblici difensori” a disposizione del tribunale […]» (J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, trad. di S. Galli, Vita e pensiero, Milano 1997). Dal momento che nessun avvocato in Savona si rese disponibile a difendere Pier Gerolamo Gentil Ricci, il protettore del Sant’Uffizio, Giovanni Pellero, ricordò ai giudici che quello di avere un difensore era un diritto dell’inquisito e che, quindi, era necessario che essi ne nominassero uno. L’avvocato Camillo Robellino assunse dunque questo incarico e forní al tribunale un ritratto del Gentil Ricci antitetico a quello presentato dai suoi accusatori.

I – Che [Gentil Ricci] è solito far atti da bono e fe-dele catholico cristiano, come solono farli altri, quali comunemente sono tenuti boni fideli catholici cristiani e timorati di Dio […].

II – Ch’era solito […] insegnare à suoi figli il Pater et l’Avemaria e il Credo […].

IV – Che Pozzobonello ha ricercato o fatto ricercare testimonij che volessero in questa causa deponere con-tra detto Gierolamo.

VI – […] detto Francesco7 era et è comunemente te-nuto homo che attende à vitij di gola frequentando le taverne, e di lussuria frequentando le donne tenuto di

7.Pozzobonello.

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547Unità 4 L’Inquisizione in Liguria: proposizioni ereticali, libri proibiti e incantesimi nella Savona di fine Cinquecento

cativa vita, et che habbi havuto il mal francese8, giovene di poco giuditio e bugiardo […].

VIII – Che detto Francesco Pozzobonello ha nondi-meno ditto che esso padre e figlio de Ritj sono stati im-putati falsamente perché egli li ha praticati e conosciuti buoni cristiani e che non è mai stato in casa loro e che non poteva lui dir cosí verità altrimenti […].

X – Che Cesare Adorno è pazzo insano e furioso e solito fare atti da pazzo insensato, e furioso, correre per

la città […] e per tale9 publicamente è stato et è tenuto e riputato.

XI – Che detto Cesare non ha mai disnato10 né cena-to con detto Gierolamo né praticato con lui […].

XIII – Che [Gentil Ricci] […] non disse parola alcuna contra l’honor di Dio né contra la religione cristiana […].

(Difesa di Pier Gerolamo Gentil Ricci, 26 settembre 1600, carta 2)

8.La sifilide, malattia venerea.9.Per pazzo.

10.Pranzato.

4. La sentenzaTutti gli imputati del processo savonese furono riconosciuti colpevoli.Giovanni Francesco Pozzobonello fu condannato per non aver mantenuto segreto il contenuto delle sue deposizioni, per aver testimoniato il falso e per aver protetto degli eretici; a Cesare Adorno fu moderata la pena a motivo della giovane età, del «pocco cervello» e del suo stare «tra il credere e il non credere»; il frate Francesco de Simoni fu bandito dalla città e dalla diocesi di Savona per dieci anni, i primi tre dei quali da trascorrere a Roma; Pier Gerolamo Gentil Ricci, il protagonista principale del processo, fu dichiarato colpevole di aver diffuso idee ereticali e fu esiliato a Milano. Leggiamo le sentenze di condanna dei quattro imputati.

[…] perché contra la prohibitione nostra expressa, an-davi dicendo senza riguardo alcuno, tutte le cose di che eri stato essaminato, il che aportava molto pregiuditio alla causa grave che si trattava […]. convenesti anchora nel dire quelli solevano esser presenti a sí fatta letione, eccetto che vi agiongesti uno Religioso. Dicendo per tua escusatione che queste cose no t’erano sovenute11, quando fosti essaminato le altre volte, et che anco desi-deravi salvar l’Amico […]. Di modo che noi presumen-do che tu habbi datto le sopradette accuse per zelo della santa fede, non per odio né per malignità […], piú volte essaminassimo li sopradetti accusati da te, dandoli il giuramento di dire la verità […], et essi sempre rispose-ro alle sopradette cose negativamente […].

In doppo pochi giorni comparisti giuridicamente nanti noi12 dicendo che eri venuto per sgravare la con-scientia tua et rivocare le sopradette accuse quali falsa-mente havevi imposto a te nel fatto della letione et à agli altri doi sopradetti13 nella detta letione et nel resto dicendo molte volte, che quelle erano bugie, quali tu havevi composto, perché ti credevi a quel modo faci-litare la tua speditione, et uscire di carcere, chiedendo perdono di tanto tuo fallo et rimettendoti alla nostra clemenza […].

(Sentenza su Giovanni Francesco Pozzobonello,

11 ottobre 1601)

[…] pronuntiamo e sententiamo che per il processo fatto sin’a quest’hora t’habiamo trovato sospetto vehe-mente di heresia […] ordiniamo che tu sj assoluto da ogni e qualonque censura ecclesiastica nella quale fosti incorso per occasione di quelle cose che risultano dal processo, et che per l’avenire tu non sia piú molestato per quanto si è trattato in questa causa, col patto però che habbi da adempire quanto qui sotto ti comandia-mo, se bene l’errore tuo saria degno di gravissimo ca-stigo, per esser molto importante non dimeno attenta l’etta tua giovenile14, et che il piú delle volte fai le tue operationi come homo di pocco cervello et giuditio, usando teco misericordia […].

(Sentenza su Cesare Adorno, 13 ottobre 1601)

[…] Per tanto con questa nostra sentenza diffiniti-va ti bandiamo da questa città e diocesi di Savona per diece anni, et ti confiniamo nella città di Roma per tre anni assignandote la detta città per prigione per l’isteso tempo, e quando pure per necessità urgente tu debba uscire però per breve tempo e non altrimente, sj tenu-to haverne la licenza in scritto, dal molto R.do Padre Commissario del s. Offitio e questo per ogni volta che sarai necessitato uscire di detta città, te imponiamo poi per penitenza salutare che ogni venardí per tutto quel

11.Non ti erano venute in mente.12.Davanti a noi.

13.Pier Gerolamo Gentil Ricci e fra Francesco de Simoni.14.Considerata la tua giovane età.

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548 appendice storiografica

tempo sj tenuto dire compitamente l’offitio de morti per l’anime che sono nel purgatorio et ogni sabbato la corona di nostra Domina […].

(Sentenza su Francesco de Simoni, 3 ottobre 1601)

Attendendo che tu Pietro Gierolamo, o vero come qua-si da tutti sei detto Gierolamo Gentil Rizzo figlio di Do-menico di Savona, anni vinti nove, sei stato deposto a questo nostro tribunale di essere incorso in molti errori quali sono:

– Che in casa tua hai permesso che si siano lette pro-posizioni hereticali […].

– Che hai detto che morto il corpo è morta l’anima […].

– Che hai biasmato15 quelli che diccono l’offitio e salmi.

– Che hai biasmato li olei santi che si fanno il gio-vedí santo16.

15.Biasimato, criticato.16.La liturgia del giovedí santo, durante la quale il vescovo consacra ogni anno gli oli santi.

– Che hai biasmato il digiuno.– Che tu attendevi a far incanti […].– Che hai detto di haver fatto altri incanti quali ti

sono riusciti, et che particolarmente per questa via d’in-canti hai havuto tua moglie e conseguito qualche tuo intento.

– Che havevi un libro intitolato Chiromantia del ta-le e dentro di esso vi era un circulo con queste lettere […]17.

– Che havevi uno spirito familiare detto volgaremen-te folletto.

– Che havevi un secreto con il quale né per tormenti né per altra cosa confesareste mai in giuditio delitto al-cuno che tu havesti fatto.

– Che hai detto che lucifero fu scaciato dal Paradiso perché non volse consentire a Dio di disohonesta […].

(Sentenza su Pier Gerolamo Gentil Ricci, 6 ottobre 1601)

17.Segue una formula di invocazione a Lucifero di difficile inter-pretazione.

5. L’abiura e la riduzione di penaL’abiura era l’atto conclusivo del processo inquisitoriale. Essa era necessaria poiché, nel caso il sospettato avesse commesso nuovamente eresia, sarebbe stato trattato da relapso, cioè da recidivo e ciò avrebbe comportato l’immediata consegna al brac-cio secolare per l’esecuzione della sentenza. Il manuale di Eymerich riportava un vero e proprio «modello di abiura», al quale si rifecero fedelmente anche i giudici savonesi: dopo essersi presentato alla corte, il condannato toccava i Vangeli e giurava fedeltà alla Chiesa cattolica; poi garantiva che non sarebbe piú incorso nelle colpe delle quali si era macchiato. Infine, il reo si impegnava a eseguire le penitenze prescrittegli e, a tale scopo, invocava l’aiuto di Dio. Solitamente la cerimonia dell’abiura era pubblica e si teneva nelle chiese; però, in casi particolari, per non infamare gli inquisiti o per non divulgarne gli errori, le cerimonie si svolgevano in privato, senza particolare solennità, davanti ai giudici e ai loro consultori. I condannati non avevano possibilità di appello, ma potevano chiedere una riduzione della pena, come fecero tutti gli inquisiti di questa causa, chi facendo leva sul proprio pessimo stato di salute, chi rimarcando il danno arrecato alla propria famiglia, chi ricordando ai giudici la propria giovane età e chi, infine, facendo presente il peso del lungo periodo di confino da Savona. Un’umanità con tutti i propri limiti si rimetteva alla clemenza di quelli che Adriano Prosperi ha definito «tribunali della coscienza», che tanta influenza esercitarono nei Paesi cattolici durante tutta l’Età moderna.

Giovanni Francesco Pozzobonello […] è infermo di malatia grave et come incurabile, ha patito longhissi-mo carcere infiniti disagij e tormenti in modo che poco li resta di vita. Perciò […] movuti a compassione del suo stato voglino farli gratia et rimetterli e condonarli le pene di carcere e di essilio nelle quali l’han condanato offerendosi far elemosina di libre quattrocento cioè di lire cento per la fabrica del convento di san Domenico […].

(Supplica di Giovanni Francesco Pozzobonello ai giudici del Sant’Uffizio savonese, 13 ottobre 1601)

Pier Gerolamo Gentil Riccio […] tentò come ubi-dientissimo figliuolo di santa chiesa ogni via et modo possibile per exeguir il loro giudicato, ma che non ha potuto né può trovar modo alcuno per osservar la relle-gatione dattagli nella lor sentenza nella città di Millano, poi che egli in prima vi ha inimicitia capitalissima […] et andandovi sarebbe un’esporsi a manifesto perico di vitta, e volontaria morte. In oltre ch’esso Gierolamo si ritrova con carrico di quattro figliuoli il maggior de quali non giunge all’età di sett’anni con sua moglie gra-vida alle spalle, che si vivono per non haver altro aiuto

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549Unità 4 L’Inquisizione in Liguria: proposizioni ereticali, libri proibiti e incantesimi nella Savona di fine Cinquecento

al mondo […]. Per le cose sopradette humilmente su-plica con ogni riverenza v.s. R.ma e v. Paternità Molto R.da a volergli concedere gratia di permutargli Millano nella città di Genova, ove speraria nel Signore di haver-ci qualche aiuto per potervi vivere con la sua povera famiglia […].

(Supplica di Pier Gerolamo Gentil Ricci ai giudici del Sant’Uffizio savonese, 29 ottobre 1601)

Cesare Adorno per la sua qualità ha molto bisogno di esser custodito e di stare sotto la disciplina e custodia di quelli che hanno interesse di sangue con lui […]. Perciò […] poiché non ha altri che piglino cura di lui se non il signor Gasparo Adorno suo zio gentilhuomo

genovese, si supplicano le SS. VV. si dignino farli gratia della pena del bando o sia confino o commuttarla nella su ditta città di Genova […].

(Supplica di Cesare Adorno ai giudici del Sant’Uffizio savonese, 29 ottobre 1601)

Fra Giovanni Francesco de Simoni humilente sup-plica […] di rimetterle il bando, e confinatione […] havendo massime con molta ubidienza già esseguito parte del bando […].

(Supplica di Francesco de Simoni ai giudici del Sant’Uffizio savonese, 4 marzo 1603)

Mini-saggioPolitica e iconografia nell’Inghilterra elisabettianadi Stefano Sodi

Lo studio della ritrattistica dei sovrani è un’operazio-ne complessa e necessita di svariate competenze ma risulta di particolare utilità nella ricostruzione storica: agli artisti chiamati a corte venivano impartite infatti indicazioni molto precise su quale messaggio le loro opere avrebbero dovuto veicolare. La sinergia tra sto-rici e storici dell’arte è riuscita spesso a recuperare la maggior parte di quell’affascinante ed ambiguo univer-so simbolico che le molte raffigurazioni di re e regine presentano.

La vasta serie di ritratti del lungo regno di Elisabetta I Tudor (1558-1603) è stata oggetto di un’ampia ricerca almeno a partire dalla seconda metà del secolo scorso e ben si presta ad esemplificare la complessa trama di mo-tivazioni politiche, ideali, religiose e – nel nostro caso – anche di genere che è sottesa a quello che ad un primo colpo d’occhio può apparire un semplice ritratto.

Mentre rimandiamo alla ricca letteratura in meri-to, prevalentemente in lingua inglese (dal classico R. Strong, Portraits of Queen Elisabeth 1, Clarendon Press, Oxford 1963 fino a Elizabeth: the exhibition at the Natio-nal Maritime Museum, a cura di D. Starkey e S. Doran, Chatto & Windus, London 2003; in italiano il saggio di G. Iammartino, Icone del potere: simbolo e realtà nei ritratti di Elisabetta I Tudor, in Donne di palazzo nelle corti europee. Tracce e forme di potere dall’età moderna, a cura di A. Giallongo, UNICOPLI, Milano 2005), ci limiteremo qui a suggerire alcune piste di analisi su tre oli su tela particolarmente famosi, tutti attribuiti ad un arco cro-nologico che va dall’ultimo quindicennio del XVI seco-

lo ai primi anni del secolo successivo e quindi piuttosto tardi, quando cioè l’immagine di Elisabetta era giunta alla sua definitiva elaborazione.

Il primo è il cosiddetto Ritratto con l’ermellino, di William Segar (1564 c.a-1633), realizzato nel 1585. Potremmo definirlo un ritratto tipico, in cui niente è realistico e mira a caratterizzare Elisabetta, bensí tutto ha valore simbolico e intende offrire l’immagine della solidità della monarchia inglese: la sovrana è rappre-sentata di fronte, in maniera bidimensionale, con un volto privo di espressione, una posa ferma e sicura, un abito ricco e sfarzoso e con a fianco la spada. Non è difficile cogliere nel volto senza età il senso dell’im-mortalità, nella posizione della monarca quello della stabilità, negli abiti quello della ricchezza e del potere, nella spada quello della forza: non di Elisabetta si tratta dunque, ma della monarchia inglese.

Lo stesso ermellino ha un preciso valore simbolico. Il piú famoso archetipo è sicuramente la Dama con ermel-lino dipinta da Leonardo da Vinci tra il 1488 e il 1490 e raffigurante con molta probabilità Cecilia Gallerani, giovane amante di Ludovico il Moro; lo stesso artista ne esplicitò il significato afferente alla purezza e all’incor-ruttibilità, affermando che l’ermellino «prima si lascia pigliare dai cacciatori che voler fuggire nell’infangata tana, per non maculare la sua gentilezza». Conferma di questo significato possiamo trovarla anche nel meno noto ma ugualmente significativo Ritratto di cavaliere di Vittore Carpaccio, datato 1510, in cui l’armato a cavallo è circondato da una serie di animali di chiaro significa-

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550 appendice storiografica

George Gower, Ritratto di Elisabetta I d’Inghilterra noto come Ritratto con l’Invincibile Armata, Greenwich (Londra), National Maritime Museum, 1588.

to simbolico, tra i quali l’ermellino, segno di purezza e integrità, come ulteriormente confermato dal cartiglio che gli è accanto e che reca il motto «MALO MORI / QUAM / FOEDARI», cioè «È preferibile morire piutto-sto che contaminarsi».

Il tema della purezza è centrale nella iconografia eli-sabettiana. Come sappiamo (vedi cap. 13, par. 2), l’esor-dio del suo regno fu assai debole e sia le ragioni della politica interna sia di quella estera le avrebbero consi-gliato un precoce matrimonio con un principe straniero capace di garantire una continuità dinastica e di raffor-zare le alleanze internazionali dell’Inghilterra. Elisabetta scelse invece di non sposarsi mai, sostenendo piú volte di essere già impegnata in un vincolo matrimoniale non fisico o materiale, bensí politico e spirituale. Questa de-cisione, che rischiava di essere un elemento di fragilità, venne nella ritrattistica evidenziata proponendo un’im-magine della sovrana cha da una parte ne sublimasse una femminilità atemporale, dall’altra favorisse l’acqui-sizione di qualità e attributi maschili (vedi la spada), spingendo appunto verso una rappresentazione quasi asessuata della monarchia e dell’intero popolo inglese.

A favorire nella figura di Elisabetta questa raffigura-zione simbolica della monarchia fu sicuramente anche la Riforma protestante che osteggiò la presenza di im-magini religiose nei luoghi di culto e favorí al contrario rappresentazioni che non apparissero troppo realisti-che. L’ascesa al trono di Elisabetta I e il suo lungo regno coincisero con la definitiva adesione dell’Inghilterra alla Riforma: ella, come capo supremo della Chiesa anglica-na, deteneva sia il potere spirituale sia quello temporale e seppe usarli con intelligenza. Favorendo il consolida-mento della Chiesa nazionale inglese e atteggiandosi a campione della Riforma nella lotta contro Filippo II e a favore degli ugonotti francesi e dei ribelli olandesi, Eli-sabetta riuscí infatti contemporaneamente a rafforzare lo Stato monarchico.

William Segar, Ritratto di Elisabetta I d’Inghilterra noto come Ritratto con l’ermellino, Inghilterra, Hatfield House, 1585.

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551Unità 4 Politica e iconografia nell’Inghilterra elisabettiana

La seconda tela considerata è il Ritratto con l’Invinci-bile Armata, l’opera piú famosa di George Gower (1540 c.a-1596), realizzata nel 1588, sette anni dopo che era stato nominato pittore ufficiale della sovrana e solo tre anni piú tardi di quella di Segar precedentemente ana-lizzata.

In essa ritroviamo tutti gli elementi già riscontrati nel precedente ritratto, ma la complessità della simbolo-gia è sicuramente piú ampia. Identici il volto privo di espressione e di età, la posizione della monarca, la ric-chezza dell’abito. Assente l’ermellino, sono ora le perle incastonate nella veste a simboleggiare la purezza della sovrana, cosí come la mano destra sul globo terrestre, non casualmente poggiata sopra l’America del Nord. È lí che nel 1584 l’esploratore Walter Raleigh aveva dato vita nell’isola di Roanoke al primo insediamento in-glese che aveva denominato Virginia, proprio in onore della nubile sovrana Elisabetta, primo nucleo della fu-tura omonima colonia. La spada è sostituita dalla coro-na, riguardo alla quale merita di essere sottolineato un particolare: essa è infatti poggiata su un piano ricoper-to da un drappo porporino che, ricadendo verso terra, forma una piega a forma di croce. La corona dunque sovrasta la croce, rimandando proprio al programma di sottomissione della Chiesa allo Stato.

Ciò che è radicalmente diverso dalle altre tele è lo sfondo. Su di esso infatti si aprono due finestre, dalle quali si intravedono delle navi in mare aperto: da quel-la di sinistra si vede che navigano in un mare calmo e sotto un cielo sereno, da quella di destra in un mare in burrasca e sotto un cielo tempestoso. Il riferimento, come esplicita il titolo stesso del quadro, è alla serie di battaglie navali del 1588 che contrappose la flotta inglese all’Invincibile Armata di Filippo II (vedi cap. 13, par. 3.5). Il 30 maggio di quell’anno, infatti, l’Invinci-bile Armata, composta da circa 130 navi, con 2.400 cannoni e oltre 30.000 uomini, era salpata da Lisbo-na alla volta dell’Inghilterra sotto il comando del duca don Alonso di Medina. Subito gli eventi meteorologici le si mostrarono ostili: una burrasca disperse la flotta che fortunosamente riuscí a riunirsi presso il porto di La Coruña. Da qui ripartí il 22 giugno in direzione di Calais ed entrò nel Canale della Manica il 29 luglio. La flotta si muoveva con grande lentezza ed era poco adat-ta a combattere nello stretto braccio di mare, mentre gli inglesi avevano navi piú piccole e leggere. Una serie di scontri si susseguí fino al 10 agosto, senza che mai uno di essi fosse risolutivo. Infine l’armata spagnola si decise a tornare verso la madrepatria, circumnavigando l’isola, ma ben tre violente tempeste si abbatterono su di essa: la prima il 12 agosto al largo delle Isole Orcadi, le altre due nella prima metà del mese di settembre in prossimità delle coste irlandesi. Quando il 24 settem-bre la flotta riuscí a raggiungere la Spagna, il bilancio si dimostrò disastroso: 16.000 uomini erano morti o

dispersi e soltanto 57 navi erano tornate, mentre la maggior parte delle altre era stata affondata non dagli inglesi ma dal maltempo.

Sono queste disavventure che motivano le immagini viste dalle due finestre raffigurate nel dipinto. Elisabet-ta, con un’abile azione di propaganda, puntò a consoli-dare il proprio potere spirituale oltre che politico, attri-buendo direttamente a Dio, suo soprannaturale alleato che aveva scatenato quella serie di tempeste per salvare l’Inghilterra, la sconfitta del proprio eterno avversario.

La terza opera è il Ritratto con l’arcobaleno, realizzato tra il 1600 e il 1603 ed attribuito dalla maggior parte dei critici al fiammingo Marcus Gheeraerts il Giovane (1561 c.a-1636), noto soprattutto per la sua attività di ritrattista di Elisabetta, o ad Isaac Oliver (1565 c.a-1617).

Tralasciando i molti elementi comuni alle altre due opere, ci soffermiamo anche qui sulle specificità.

Malgrado Elisabetta sia ormai settantenne, il suo vol-to è ancora freschissimo, la sua acconciatura accurata e quasi civettuola, il suo vestito particolarmente ricco e sontuoso: sembra il ritratto dell’eterna primavera. E che questa sia l’esplicita intenzione della committente

Marcus Gheeraerts il Giovane, Ritratto di Elisabetta I d’Inghilterra noto come Ritratto con l’arcobaleno, Inghilterra, Hatfield House, 1600-1603.

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552 appendice storiografica

è confermato da una serie di ulteriori particolari. Il cor-petto della donna è decorato da un vero e proprio prato di fiori selvatici e sulla manica sinistra del suo vestito è ricamato un serpente con pietre preziose che ha in boc-ca un rubino; la sua sopravveste è decorata con occhi e orecchie e nella mano sinistra ella stringe addirittura l’arcobaleno, sopra il quale è la scritta «NON SINE SOL IRIS», cioè «l’arcobaleno non può esistere senza il sole». Il prato fiorito allude appunto alla primavera, la sta-gione della giovinezza; il serpente è tradizionalmente simbolo della saggezza, mentre il rubino rappresenta il cuore della sovrana, a indicare che ella si fa muove-

re dalla bontà entro i limiti di un sapiente equilibrio; occhi e orecchie rappresentano la fama universale or-mai raggiunta da Elisabetta, cui si deve anche il sorgere dell’arcobaleno, biblico segno della rinnovata pace di Dio con l’uomo.

L’ultima Tudor ormai non è piú una donna, ma il ri-tratto dell’eternamente bella e giovane vergine, sovrana della pace e sole da cui può nascere l’arcobaleno.

Come ben sappiamo, sarà poi Luigi XIV di Francia ad ereditare la simbologia solare, della quale farà il pro-prio emblema e attorno a cui costruirà sapientemente il mito dell’assolutismo monarchico.

Mini-saggioUn «oggetto imperfetto». La censura libraria in Età modernadi Daniela Piemontino

Durante l’Età moderna il termine «censura» indicò non solo la condanna di opere dal contenuto inaccettabile, ma anche la correzione di comportamenti considera-ti «anomali» e dunque potenzialmente pericolosi per l’ordine pubblico. La prerogativa di emanare gli atti censori apparteneva sia alle autorità secolari, intenzio-nate a reprimere azioni sovversive e a preservare i buoni costumi, sia a quelle ecclesiastiche, pronte a biasimare proposizioni, tesi o comportamenti incompatibili con la dottrina o la morale cristiane. È da notare che nel tempo l’accezione della parola «censura» mutò, accom-pagnando l’evoluzione dell’istituzione censoria stessa, la quale si occupò sempre meno di controllare e di cri-ticare comportamenti e sempre piú di condannare e di interdire testi, vietandone la stampa e la diffusione.

Se si confronta ciò che accadde in alcune aree geo-grafiche europee – Inghilterra, Francia, Spagna, Stati ereditari della casa d’Asburgo, Paesi Bassi meridionali, alcuni Stati italiani –, in un arco cronologico che va dal XVI al XVIII secolo, ci si accorge di come la pratica della censura cambiò, adattandosi ai bisogni sorti dall’evolu-zione delle diverse strutture statali e dei diversi gruppi religiosi e intellettuali; se nel Cinquecento fu la Chiesa a sorvegliare sulla circolazione delle idee, nel Seicen-to gli Stati attuarono modalità diverse per sottrarre al potere ecclesiastico l’istituto della censura, che passò definitivamente nelle mani di censori statali durante il corso del Settecento. Durante il XVIII secolo, in partico-

lare, la censura non si espresse soltanto attraverso proi-bizioni esplicite, ma anche tramite forme piú profonde e sottili, come la formulazione dei discorsi; centrali in questo contesto furono le figure dei singoli censori che, mettendo in gioco le proprie doti personali, consape-voli dei limiti della censura preventiva, si adoperarono per giungere a un equilibrio tra libera diffusione della conoscenza e prudente conservazione della censura.

Per ricostruire la storia della censura libraria, è utile partire dal momento in cui il controllo sulle stampe assunse una forma organizzata e ben articolata, ossia il Cinquecento. In questo secolo il libro fu guardato con un sospetto particolare, in quanto veicolo delle idee eterodosse scaturite dalla contestazione di Lutero; per scovare e punire il dissenso religioso, la Chiesa di Roma si affidò a due congregazioni cardinalizie, l’Inquisizio-ne e l’Indice, le quali, con una rete di tribunali sparsi su tutto il territorio italiano, preservarono l’ortodossia attraverso quella che Adriano Prosperi ha definito una «politica della coscienza»1.

Come ha ben dimostrato Gigliola Fragnito, sof-fermandosi sulle vicende che portarono alla messa all’Indice dei volgarizzamenti biblici, le istituzioni ec-clesiastiche deputate alla salvaguardia dell’ortodossia furono spesso in contrasto fra loro, a discapito della buona riuscita del progetto culturale controriformista2. L’interdizione delle Bibbie in volgare, affrontata dalla studiosa ripercorrendo la lunga e laboriosa redazione

1. A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missiona-ri, Einaudi, Torino 1996.

2.G. Fragnito, La Bibbia al rogo: la censura ecclesiastica e i volgarizza-menti della Scrittura (1471-1605), Il Mulino, Bologna 1997.

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553Unità 4 Un «oggetto imperfetto». La censura libraria in Età moderna

dell’Indice del 1596, permette di capire quali questio-ni fossero in gioco quando si trattava di proibire un testo; sembra che il problema non fosse tanto quello della liceità o meno di una lettura diretta del testo sa-cro, quanto quello di chi dovesse concedere o vietare tale lettura: alla pretesa dei vescovi di guidare i fedeli nell’opera di moralizzazione e di acculturazione stabi-lita dal Concilio di Trento si oppose, infatti, la volontà dell’Inquisizione di centralizzare il controllo sulle chie-se italiane e di erodere i poteri conferiti ai vescovi dallo stesso Concilio. Cosí i volgarizzamenti biblici, ora vie-tati ora riabilitati dai diversi Indici promulgati dal 1559 al 1596, diventarono il terreno sul quale si rese eviden-te una situazione di conflittualità fra gli organi censori, conflittualità che secondo la Fragnito fu determinante nel creare una situazione d’instabilità e inefficacia della macchina censoria ecclesiastica.

I fattori che influirono sull’esito della censura eccle-siastica tra Cinquecento e Seicento, rendendola spesso sommaria e approssimativa, sono ripresi dalla studiosa in un contributo successivo a quello appena menzio-nato3. Il volume riporta i risultati parziali delle ricerche condotte negli archivi del Sant’Uffizio aperti nel 1998; dalla documentazione esaminata emergono le enormi difficoltà riscontrate dall’azione censoria della Chie-sa: alcuni problemi sorsero proprio a Roma, dove una vivace dialettica interna alle istituzioni ecclesiastiche preposte alla censura scaturí dalle decisioni di papi al-ternativamente appartenenti ai ranghi dell’Inquisizione oppure estranei a questa e dal dissenso di quegli uma-nisti, presenti proprio ai vertici della Curia, che non condividevano la politica culturale della Chiesa; a que-ste divergenze presenti a livello centrale, si aggiunsero difficoltà provenienti dalle sedi periferiche incaricate di tutelare l’ortodossia. Fragnito evidenzia problematiche inerenti alla gestione degli uffici sparsi sul territorio italiano, come la carenza di personale o il ritardo con cui questi stessi uffici mandavano le espurgazioni alla sede romana o la difficoltà d’interpretazione delle di-rettive emanate dalla Congregazione dell’Indice. A ta-li problematiche si aggiungevano la frequente perdita delle correzioni, gli ingenti costi che i censori doveva-no affrontare sia per ottenere i libri da esaminare sia per assumere coloro che avrebbero dovuto trascrivere le correzioni, la quantità delle opere da espurgare. De-terminante fu il ruolo assunto in queste vicende dagli stessi revisori, che non sempre curarono la qualità delle correzioni e che spesso ebbero la netta sensazione di eseguire un lavoro vano, esaminando testi per i quali

non ci sarebbe stato mercato o che non sarebbero mai stati ristampati o che in qualsiasi caso l’Indice e l’Inqui-sizione avrebbero proibito.

Piú che un’istituzione perfettamente funzionante, la censura d’Età moderna fu un terreno di continue negoziazioni. Malgrado la rigidità delle leggi, l’attivi-tà censoria era strettamente legata all’interpretazione individuale delle norme e alle convinzioni personali di coloro che avevano il compito di applicarle; quindi fu caratterizzata non da una totale conformità, ma da standard applicabili in modi e in gradi variabili. Come ha osservato David McKitterick, questa fluidità è ri-scontrabile anche nei vari Indici cinquecenteschi della Chiesa cattolica, i quali dimostrano chiaramente quan-to l’espurgazione dei testi fosse parziale nei suoi effetti e risentisse, in misura maggiore o minore, di esigenze locali, di interessi personali e persino di gelosie. Il qua-dro che appare agli occhi dello studioso è quello di un mondo dei libri, della stampa, dei librai, dei lettori e delle autorità censorie completamente «in disordine», poiché, anche se esistevano norme precise per l’espurga-zione delle opere, tuttavia l’organizzazione ecclesiastica si trovava divisa e in disaccordo sulla parola stampata e sulla propria abilità di garantire l’uniformità attraverso la manipolazione di quegli oggetti «imperfetti» che era-no appunto i libri4.

Controlli e manipolazioni di testi per cercare di sta-bilire criteri di ortodossia si verificarono anche nell’In-ghilterra degli Stuart. La storiografia Whig ha affermato che l’apice del fenomeno censorio fu raggiunto durante il governo di Elisabetta, una monarchia tirannica e re-pressiva, che si protesse da sfide interne ed esterne rego-lando la stampa attraverso un consiglio privato, la Ca-mera Stellata. Cyndia Susan Clegg confuta questa tesi5, dimostrando che soltanto sotto Carlo I si verificarono cambiamenti significativi nell’uso delle corti dell’Alta Commissione e della Camera Stellata, organi censori che mai prima di allora erano stati usati in un modo cosí efficiente da poter essere correttamente considerati un «apparato» e che in questo periodo diventarono un importante strumento, impiegato per ridurre al silen-zio quegli autori che «agitavano» il popolo. Di fronte al moltiplicarsi di scritti d’opposizione alla politica re-ligiosa e di governo, solo apparentemente il sovrano cercò di far tacere entrambi gli schieramenti religiosi presenti in Inghilterra; in realtà, mentre agli arminiani fu prontamente concessa l’autorizzazione a stampare i propri libri, ai calvinisti fu reso sempre piú difficoltoso ottenere licenze per le proprie pubblicazioni.

3.Church, Censorship and Culture in Early Modern Italy, edited by Gi-gliola Fragnito, translated by Adrian Belton, Cambridge University Press, Cambridge 2001.4.D. McKitterick, Print, Manuscript, and the Search for the Order,

1450-1830, Cambridge University Press, Cambridge 2003.5.C. S. Clegg, Censorship and the Courts of Star Chamber and High Commission in England to 1640, in «The Journal of Modern History», 3 (2005).

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554 appendice storiografica

Anthony Milton ritiene che le limitazioni della li-bertà di pensiero durante il periodo Stuart ci furono, ma vennero esercitate non tanto dal governo, quanto da quell’establishment che pretendeva di parlare a nome della Chiesa d’Inghilterra6. Secondo questa interpreta-zione, negli anni Venti del Seicento il re non intendeva ancora influire sulle opinioni religiose, ma semplice-mente voleva scoraggiare la controversia tra le due di-verse professioni di fede; a limitare la stampa con rigi-de restrizioni sarebbe stata la concomitanza di fattori economici legati alla piccola dimensione del mercato librario inglese. Durante gli anni Trenta del Seicento, tuttavia, la situazione cambiò e si verificò un’«hegemony of Laudian opinion» che riscosse un enorme successo nel delegittimare e ridurre al silenzio i dissidenti.

La stampa delle opere a contenuto religioso fu sot-toposta a un giro di vite e le autorità si servirono di ogni mezzo per influire sulla natura degli scritti in atte-sa di pubblicazione. La strategia adottata fu non tanto quella di esautorare i teologi calvinisti, quanto quella di assorbirli nella corrente teologica dell’arcivescovo di Canterbury William Laud, manipolando le loro opere per «renderle capaci di parlare con un accento “laudia-no”». Oltre a questa, il governo adottò altre forme di controllo sugli scritti di autori eterodossi, come il con-cedere la licenza di stampa in circostanze inappropriate oppure il sottoporre un’opera calvinista a un teologo che professasse lo stesso credo, ma che fosse in profon-do disaccordo col contenuto del testo in questione. È significativo che le espurgazioni riguardarono le ope-re di vescovi calvinisti moderati, rappresentanti di una Chiesa in aperto contrasto col cerimonialismo di Laud, vescovi che stavano lottando per tenere dentro l’orbita della Chiesa d’Inghilterra proprio gli stessi puritani che si opponevano all’arcivescovo di Canterbury.

Il problema principale della discussione sulla cen-sura nel periodo Stuart è dovuto alla disponibilità delle fonti. Valutare il grado di severità dei controlli è difficile, poiché raramente sono rimasti dei documen-ti riguardanti il processo editoriale; tuttavia, Milton è riuscito a ricostruire tre casi documentati di opere che furono sottoposte a censura e a far emergere quali fos-sero i poteri e le motivazioni in gioco nelle relazioni tra l’autore e il censore. La prima vicenda dimostra che la presenza della firma del censore non sempre coinci-se con la sua reale approvazione del testo esaminato; infatti, nel caso del libro di Edward Maie sulla comu-nione dei santi (The Communion of Saints), il censore

concesse la licenza di stampa a patto che l’autore effet-tuasse delle correzioni in senso «laudiano», correzioni che non furono mai apportate. La seconda operazione censoria si può definire di censura «benigna», poiché non denota uno sfavore nei riguardi di un determina-to autore, anzi qui il revisore condivide le concezioni espresse dall’autore Edward Elton in Gods Holy Minde e approfitta della propria posizione per rimaneggia-re il testo, rendendolo meno radicale e provocatorio e, quindi, piú facilmente accettabile da tutti. Con un intervento di censura espurgatoria, infine, il censore soppresse parti dell’opera di Alexander Cooke, S. Austi-nes Religion, con lo scopo dichiarato di purificarla dagli errori in essa contenuti.

Se analizziamo la situazione dei Paesi Bassi meri-dionali tra Cinquecento e Settecento, ci accorgiamo di come gradatamente la censura politica si sia sosti-tuita a quella ecclesiastica. Gli strumenti utilizzati per ostacolare la circolazione libraria, ossia i privilegi, gli editti di censura e gli Indici, i quali costituiscono la ba-se documentaria della riflessione di Jerome Machiels, rivelano che l’influenza del clero sulla società diminuí, l’intervento della Chiesa negli affari pubblici si ridus-se, la discussione s’incentrò piú su argomenti politici che non su problemi religiosi, mentre il controllo sugli scritti voluto dal potere assoluto dei sovrani si rafforzò7. Fu proprio la censura lo strumento grazie al quale il po-tere politico avviò il processo di laicizzazione dello Sta-to. Anche se la legislazione censoria fu molto confusa, cosa che non ci fa cogliere con chiarezza quanto fosse effettivamente applicata, editti, Indici e privilegi atte-stano l’intenzione del governo di tenere strettamente sotto controllo la diffusione, il possesso e la lettura dei libri: i testi degli editti furono sempre piú dettagliati e precisi, i sovrani commissionarono personalmente alla Facoltà Teologica di Lovanio la compilazione di liste di libri proibiti e concessero i privilegi alle opere ritenute degne di essere stampate.

Sulla questione del rapporto tra censura ecclesiastica e censura di Stato è incentrato un interessante contribu-to di Diego Quaglioni, pubblicato in un volume della Fondazione Firpo sulla censura ecclesiastica e la cultura politica in Italia tra Cinquecento e Seicento8. Le dottri-ne sulla censura rivelano in questo periodo le tensioni esistenti tra potere spirituale e potere politico, tensio-ni dalle quali uscí vincitore lo Stato, che assunse su di sé il compito di «costringere la coscienza». Se per Jean Bodin, a fine Cinquecento, era l’autorità ecclesiastica a

6.A. Milton, Licensing, Censorship, and Religious Orthodoxy in Early Stuart England, in «The Historical Journal» 41/3 (1998), pp. 625-651.7. J. Machiels, Privilege, censure et index dans les Pays-Bas méridionaux

jusqu’au début du XVIIIe siècle, Bruxelles 1997.8.Censura ecclesiastica e cultura politica in Italia tra Cinquecento e Sei-cento. VI giornata Firpo, Atti del convegno 5 marzo 2000, a cura di C. Stango, Olschki, Firenze 2001, pp. 37-54.

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555Unità 4 Un «oggetto imperfetto». La censura libraria in Età moderna

doversi impegnare nell’opera di disciplinamento mo-rale-religioso necessario a preservare l’ordine pubblico, per Johannes Althusius, nel primo Seicento, «lo Stato avrebbe dovuto occuparsi del progresso della religione approvata», intervenendo a pieno titolo nella gestione della materia spirituale, attraverso una censura conce-pita come funzione pubblica, come forma di ammini-strazione della giustizia. La riflessione sul tema della censura, dunque, continuava, ma lo Stato subentrava alla Chiesa nel controllare e correggere le coscienze e nel regolare e disciplinare i comportamenti.

Nel corso del Settecento, sullo sfondo della genera-le decristianizzazione della società europea, gli Stati si adoperarono per sottrarre definitivamente alla Chiesa il controllo degli organi censori. La tensione con Ro-ma riguardo alla questione della censura è sicuramente una costante dei regni dei sovrani austriaci, Giuseppe II e Leopoldo II, che si avvicendarono al governo degli Stati ereditari della casa d’Asburgo tra il 1780 e il 1792. Il numero assai elevato di leggi sulla censura emanate in questo periodo – afferma Jean-Pierre Lavandier – è prova tangibile sia dell’esistenza di tensioni politiche e socio-culturali sia dell’evoluzione e della forza dell’isti-tuzione censoria statale durante il periodo assolutista austriaco9. La censura assunse le dimensioni di un fe-nomeno vasto e ramificato, che toccò il cuore della vi-ta politica e sociale quotidiana e consentí ai sovrani di costruirsi un consenso e di stabilire un equilibrio tra potere politico, potere spirituale, tendenze d’opinione ed esigenze della popolazione.

Lavandier dedica ampio spazio alla figura di Giu-seppe II e ai suoi venticinque anni di regno. Nel 1781 l’imperatore portò a compimento il processo di moder-nizzazione avviato già da Maria Teresa, introducendo nel regno la libertà di stampa e tenendo sotto controllo la Chiesa, avvertita come una minaccia; fu perseguita una centralizzazione della censura, attraverso la crea-zione di una Commissione di sorveglianza alla quale tutte le commissioni censorie locali – formate spesso da professori universitari – avrebbero dovuto rendere conto. La stampa, il commercio e la pubblicazione di libri godettero di una certa libertà fino alla fine degli anni Ottanta del Settecento, quando gli eventi rivolu-zionari francesi generarono anche nei Paesi soggetti agli Asburgo il timore che le idee sovversive dilagassero e Giuseppe II decise di proibire sia l’edizione tedesca del-le opere di Voltaire sia la traduzione di libri stranieri.

Sotto il successore di Giuseppe II la legislazione cen-

soria divenne piú restrittiva. Anche Leopoldo II definí fuorilegge gli scritti rivoluzionari e attuò un cambia-mento della politica di controllo sulle stampe, abolen-do la Commissione di sorveglianza e sostituendola con la Cancelleria austro-boema, affidata a uno specialista; l’imperatore, inoltre, stabilí che, se i censori si fossero sentiti incerti riguardo all’autorizzare o meno un mano-scritto o un libro, avrebbero dovuto sottoporre diretta-mente a lui lo scritto in questione. Secondo Lavandier, i due imperatori – come anche altri sovrani del tempo – non avrebbero mai potuto accettare lo sconvolgimento del proprio governo che i rivoluzionari avrebbero pre-teso da loro durante gli anni Novanta del Settecento. Per questo motivo scelsero di censurare proprio quelle idee illuministe nelle quali avevano creduto, piuttosto che utilizzarle per risolvere la crisi che afflisse questo periodo.

Come attestano le ricerche di Barbara De Negroni, nella Francia prerivoluzionaria la libertà di pensiero fu sottoposta a rigidi controlli e quello della censura fu un ambito nel quale linguaggio e potere risultarono stret-tamente connessi10. Nel periodo in questione, afferma la studiosa, censurare significava esercitare un potere politico attraverso il potere del linguaggio: l’azione di produrre un testo che si arrogava il diritto di interdire gli altri costituiva un atto censorio, impiegato per dele-gittimare coloro che esprimevano idee dissenzienti; in base alle leggi sulla censura, tutti i manoscritti, prima di essere stampati, e tutti i libri stranieri, prima di essere introdotti nel Paese, avrebbero dovuto essere esaminati dagli organi censori, affinché ne verificassero l’ortodos-sia politica, morale e religiosa. Le professioni collegate al mondo dell’editoria (stampatori, librai, colportori) furono sottoposte a una regolamentazione molto stret-ta, che limitò il numero degli aventi diritto a esercitare questi mestieri, sostenne le grandi imprese, frenò i pic-coli stampatori (piú difficili da controllare) e concesse il monopolio commerciale ai librai parigini, gli interessi economici dei quali vennero di conseguenza a coinci-dere con quelli ideologici della monarchia a scapito dei librai di provincia, per i quali era piú semplice sottrarsi alla sorveglianza del potere politico.

Un’opera stampata in città tolleranti, come Amster-dam, Ginevra o Londra, solitamente era sottoposta a un esame meno rigoroso rispetto a una prodotta in Fran-cia. Per questo motivo, un autore francese che avesse voluto pubblicare un libro di sospetta ortodossia avreb-be potuto indicare un falso luogo di stampa o ricorrere

9.J.-P. Lavandier, Le livre au temps de Joseph II et de Léopold II. Code des lois de censure du livre pour les pays austro-bohémiens 1780-1792, Lang, Bern 1995.

10.B. De Negroni, Lectures interdites. Le travail des censeurs au 18 siècle, 1723-1774, Albin Michel, Paris 1995.

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a uno stampatore straniero, in modo da ottenere fa-cilmente il cosiddetto «permesso tacito» (che garantiva a un libro la sanzione legale ma non l’approvazione della Corona); quest’autorizzazione non ufficiale, ori-ginariamente pensata per i libri pubblicati all’estero, da metà Settecento fu utilizzata metodicamente anche per opere stampate in Francia, al fine di scoraggiare la stampa clandestina che stava causando ingenti danni economici all’editoria francese.

I trasgressori delle leggi in materia di censura furo-no probabilmente molti. Lo testimoniano sia ordinan-ze del re e decreti dei parlamenti, che affermano con insistenza la necessità di osservare i regolamenti del commercio librario, sia istruzioni pastorali e lettere dei vescovi, che rivelano l’esistenza di fedeli poco sensibili ai dispacci episcopali e niente affatto disposti a modifi-care le proprie abitudini di lettura. Tuttavia le sanzioni delle quali si minacciavano coloro che avessero trasgre-dito le leggi censorie, forse proprio per il loro carattere eccessivo, non vennero applicate con grande severità e spesso vietare un libro non fece altro che incoraggiar-ne il commercio clandestino e la lettura, fornendogli senza volerlo una pubblicità ufficiale e gratuita. Soprat-tutto la censura «à grand spectacle» – forma di censura conosciuta e promulgata che si manifestò con scanda-lo e condanne pubbliche, diversamente dalla censura «sotterranea» che invece non fu percepita dai lettori e che mutilò discretamente i testi o ne addolcí i passaggi inaccettabili –, mentre vietò i testi filosofici e politici che costituivano gli strumenti concettuali fondamen-tali della Rivoluzione, contemporaneamente contribuí a rendere note queste opere a gran parte della popola-zione, inducendo quest’ultima a mettere in discussione l’infallibilità dei poteri costituiti.

Sull’efficacia della censura nella repressione delle idee illuministe si sofferma Censura e Ilustración, un sag-gio pubblicato dall’Università di Santiago di Compo-stela nel 1997, a conclusione di una serie di iniziative di riflessione sul rapporto tra censura e Illuminismo in Galizia11. In uno dei contributi piú interessanti, Fernan-do Savater confronta la censura spagnola con quella francese, prendendo in esame il periodo che seguí la morte di Luigi XIV, ossia il momento in cui determina-te classi e ben precisi gruppi sociali cominciarono ad avvertire come un pericolo il fermento rivoluzionario contenuto nell’Illuminismo e cercarono di ostacolare la diffusione delle nuove idee, mettendo in atto siste-mi censori diversi da Paese a Paese. Sotto Luigi XV e Luigi XVI, le autorità e gli organismi deputati alla stam-pa intensificarono i controlli temendo che la lettura

di libri contenenti dottrine sovversive potesse mettere in discussione l’ordine costituito; la ricaduta di questo inasprimento della censura fu, per contro, un aumento della domanda proprio dei libri proibiti, che comin-ciarono a circolare in edizioni prive di permesso reale oppure stampate in altri Paesi.

La censura non fu mai pienamente efficace – sostie-ne Savater –, poiché tra gli stessi censori erano presenti persone che simpatizzavano per le idee illuministe. Un ruolo particolarmente interessante nella dinamica della censura in Francia fu quello del responsabile della cen-sura reale, Malesherbes, il quale condivise l’interesse per il progetto dell’Encyclopédie, ma contemporaneamente temette gli eccessi dei suoi compilatori; malgrado il proprio ruolo istituzionale, il Direttore della Librairie si pose il problema della libertà di stampa e ne fece l’og-getto di una sua Memoria, nella quale sottolineò che a porre ostacoli all’edizione di determinati libri non era-no solo le autorità o il governo, ma anche molte per-sone in relazione con l’Illuminismo, come d’Alembert, che un giorno reclamava tolleranza per l’Encyclopédie e il giorno seguente chiedeva severità contro coloro che si mettevano contro gli enciclopedisti. Astutamente, Malesherbes concesse il permesso un po’ ai volumi dell’Encyclopédie, un po’ agli scritti che polemizzavano con questa, poiché egli era convinto che soltanto in-centivando la pubblicazione delle opere si sarebbero ampliate le conoscenze dei lettori e si sarebbe reso pos-sibile il loro avvicinamento alla verità.

La situazione della Spagna settecentesca fu totalmen-te diversa da quella della Francia, poiché qui in genera-le le idee nuove non trovarono diffusione, anche se non mancarono persone che ne furono attratte. La censura era esercitata dal Consiglio di Castiglia, incaricato di sorvegliare l’ordine stabilito e di esercitare il control-lo ideologico evitando che s’introducessero nel Paese libri stranieri che potessero promuovere la discussione politica; oltre ai libri degli illuministi come Voltaire, Rousseau e Beccaria, erano considerati pericolosi gli scritti di Lutero e di Erasmo e persino quelli di Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli e Cervantes. All’opera censoria del Consiglio di Castiglia si affiancava quella dell’Inquisizione, che si occupava della persecuzione e della censura dei testi indicati nell’Indice dei libri proibiti, ma alla quale non tutti erano soggetti, a motivo della propria carica o del proprio status sociale; una censura istituzionale vigeva anche nell’Università, nella quale i professori interessati alle idee illuministe furono spesso denunciati alle autorità dai loro stessi colleghi.

Savater individua molti fattori che contribuirono al-

11.Censura e Ilustración. XX Aniversario da Fundación da Facultade de Filosofía e CC. da Educación. Coordinadores Barreiro Barreiro,

Rodríguez Camarero, González Fernández, Universidade de Santia-go de Compostela, Santiago de Compostela 1997.

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la diffusione del «Progetto illuminista» in alcuni Paesi europei piuttosto che in altri. Sicuramente fu impor-tante la capacità di rompere con le tradizioni, di supe-rare i localismi, di intercambiare le idee e di ampliare la rete delle comunicazioni tra popolazioni con visioni diverse della realtà. Fondamentali furono lo sviluppo dell’editoria e l’ampliamento del pubblico dei lettori, ma un ruolo determinante fu rivestito dai protagonisti del dibattito sulle idee, ossia da quell’opinione pubbli-ca che, malgrado le interferenze della censura, continuò a mantenere vivo il desiderio di ampliare le proprie co-noscenze. Ciò è testimoniato anche dall’enorme succes-so editoriale dell’Encyclopédie, compito della quale era, nelle intenzioni dei compilatori, rifondare l’umanità sui principi della ragione. In questa occasione si verifi-cò un fatto nuovo: un gruppo di scienziati, pensatori e letterati, accomunati solo dal fatto di essere esperti nel-la costruzione del sapere, si dichiarò indipendente da tutte le forme di potere esistenti, temporali e spirituali, e s’impegnò nell’educazione di un pubblico di lettori sempre piú vasto (solo nell’edizione del 1751-1772 fu-rono stampati 4225 esemplari)12.

La trasformazione dell’editoria e delle pratiche so-ciali di lettura avrebbe, secondo Diderot, gradatamente esautorato la censura e avrebbe posto in primo piano l’opinione pubblica. Viceversa, come fa notare Sandro Landi nel suo studio sulla relazione tra evoluzione della censura e nascita dell’opinione pubblica, nel Granduca-to di Toscana settecentesco la censura laica fu esercitata per regolare l’editoria e per provvedere alla formazione del pubblico dei lettori13; se durante l’età confessiona-le Chiesa e Granducato avevano condiviso il controllo della produzione a stampa, durante la reggenza lorene-se (1737-1765) e sotto Pietro Leopoldo (1765-1790) la stampa e la circolazione libraria assunsero in Toscana un urgente rilievo politico e le facoltà censorie passaro-no alla giurisdizione laica, rompendo definitivamente col modello controriformista. Nonostante le resistenze del Sant’Uffizio, il processo di laicizzazione della censu-ra giunse a compimento nel ventennio 1743-1765 con una legge di Francesco Stefano, legge che non escludeva del tutto il parere della Chiesa, ma prevedeva che que-sto fosse espresso solo dopo la revisione del censore regio e unicamente allo scopo di ottenere una dichiara-zione che attestasse la conformità alla dottrina cattolica delle opere esaminate.

Il quadro internazionale, la situazione politica inter-na, un pubblico di lettori insofferenti nei confronti del-la censura ecclesiastica, il rilievo economico del com-mercio librario, tutti questi motivi avevano indotto il

sovrano a rivedere nel 1743 la normativa sulla stampa. La censura del principe, ormai svincolata dalla censu-ra ecclesiastica, diventò via via uno strumento di for-mazione e di controllo di uno spazio, nel quale, sotto l’esclusiva tutela del potere politico, fu possibile l’uso pubblico delle opinioni e fu favorita la diffusione della «stampa alla macchia», ossia di una stampa sostanzial-mente libera dai vincoli di una stretta osservanza della norma, che nel gergo dei censori toscani divenne sino-nimo di «libertà di stampa». Il potere politico non solo tese a rendersi visibile e a favorire la discussione pubbli-ca su determinate questioni, con lo scopo di preparare la popolazione alle imminenti trasformazioni, ma sentí anche il bisogno di conoscere e regolare personalmente le opinioni diffuse nello Stato, per non ricorrere alla mediazione di uomini e di apparati ostili.

A differenza delle leggi toscane del 1743, quelle sa-baude non negarono alla censura ecclesiastica il privi-legio di esaminare per prima i manoscritti. Le prime istruzioni ufficiali in materia di censura furono ema-nate da Carlo Emanuele III dodici anni dopo rispetto a quelle di Francesco Stefano e rivelarono l’intenzione del sovrano di tutelare l’accordo stretto con la Santa Sede con il Concordato del 1741-1742; il progetto di Vittorio Amedeo II di sottrarre totalmente alla Chiesa la revisione dei libri non fu realizzato, anzi, come Lo-dovica Braida fa notare, la censura statale in Piemonte prese a modello la repressione ecclesiastica per operare un controllo totale sulla società civile e, diversamente da quanto avveniva in Toscana, non garantí né la pos-sibilità di una maggiore libertà nella circolazione del libro né uno stimolo per l’editoria14. Vigilare sulle let-ture coincise semplicemente col rafforzare una repres-sione politica che non fosse da meno rispetto a quella ecclesiastica e non favorí la discussione sui problemi di governo della società, come accadeva nel Granducato di Toscana. Nello Stato sabaudo un intellettuale non aveva alcuna possibilità di diventare tramite tra il gover-no e la società civile, come testimonia il caso di Carlo Denina, il quale dovette convincersi che in questa par-te d’Italia agli autori di libri non fosse possibile servire la pubblica felicità «coll’insinuare a popoli ciò, che il Principe crede utile e necessario, e coll’insinuare a chi governa, ciò che la nazione pensa e desidera».

Nel Granducato di Toscana, però, il rapporto diretto tra il sovrano e un pubblico educato e preparato alle riforme, si concluse tra gli anni Settanta e Novanta del Settecento. Pietro Leopoldo, simpatizzante delle idee gianseniste, utilizzò le stampe per sostenere le sue ri-forme politico-religiose; ciò provocò dissenso non solo

12.Libro e censure, a cura di F. Barbierato, Bonnard, Milano 2002.13.S. Landi, Il governo delle opinioni: censura e formazione del consenso nella Toscana del Settecento, Il Mulino, Bologna 2000.

14.L. Braida, Il commercio delle idee. Editoria e circolazione del libro nella Torino del Settecento, Olschki, Firenze 1995.

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all’interno dell’opinione illuminata che aveva sostenuto tali riforme, ma anche fra questa e l’opinione popolare. Il ritorno alla censura repressiva, nel corso degni anni Ottanta, testimonia chiaramente che il tentativo auto-cratico e razionalistico di far coincidere le opinioni dei lettori con le opinioni del governo era entrato in crisi: il pubblico non era piú soltanto la cassa di risonanza dell’ideologia ufficiale, ma qualcosa di piú complesso e di indefinibile.

Fino alla fine del Settecento, negli Stati italiani furo-no mantenuti i tribunali ecclesiastici locali che avreb-bero dovuto preservare la società dall’«eretica pravità», tenendo sotto controllo il suo principale veicolo di dif-fusione, ossia la stampa. Ancora tutta da verificare è la reale efficacia di queste istituzioni, la loro eventuale in-fluenza nei confronti della censura politica e la misura in cui i loro divieti furono interiorizzati dalle persone. Patrizia Delpiano, in un contributo pubblicato sulla ri-vista Società e storia del 200415, presenta una Chiesa set-tecentesca ancora molto interessata al proprio compito di controllare la produzione culturale sia italiana sia straniera, sebbene alle prese con procedure farraginose e interpretazioni discordanti delle norme dettate da Ro-ma, le quali non sempre assicurarono esiti positivi alla sua azione censoria.

La studiosa focalizza l’attenzione sulla reazione della censura ecclesiastica di fronte alla diffusione di nuovi generi letterari, sulle modalità con le quali i libri ve-nivano esaminati dai censori, sul pubblico dei lettori. Ricostruendo la storia censoria di molti testi che furono efficacemente intercettati e posti all’Indice dalla Chiesa, nel saggio si individuano i filoni ritenuti degni di essere censurati in quanto veicoli di una morale laica, della philosophie e della religione naturale: dalla novella alla commedia, dalla letteratura di viaggio alle opere filo-sofiche, al romanzo. Riguardo ai lettori, ossia a coloro che gli Indici dei libri proibiti avrebbero dovuto tutelare, la Delpiano osserva che anche nel Settecento, come lo era stato al tempo della Controriforma, l’intento della Chiesa fu quello di proteggere i cattolici dal contagio delle idee eterodosse che giungevano in Italia dal re-sto d’Europa; tuttavia non tutte le persone, ma solo gli «infirmi», i «semplici», gli «ingenui» o gli «incauti fede-li», erano ritenuti a rischio (gli uomini pii e onesti non avevano bisogno dell’Indice, mentre esso era necessario per i giovani) o erano meritevoli di essere aiutati a di-scernere le opere buone da quelle che non lo erano (gli atei e i deisti erano anime ormai perse).

Malgrado il malfunzionamento degli organi censori locali e gli ostacoli che lo resero meno efficace, l’Indice

dei libri proibiti – secondo la Delpiano – «poteva ancora giocare il suo ruolo plurisecolare nella sfera della co-scienza individuale». L’analisi dei permessi di lettura rivela quanto la politica d’intolleranza della Chiesa nei confronti delle idee eterodosse avesse ancora delle ripercussioni sulla vita culturale italiana; nell’élite dei lettori – rigorosamente tutti italiani, adulti, maschi, professionisti, laici che avevano legami con le istituzio-ni ecclesiastiche – erano presenti, infatti, persone che richiedevano le licenze di lettura per confutare le ere-sie, per predicare in modo piú efficace, per difendere la Chiesa, per arricchire la propria cultura, ma molti era-no ancora quelli che lo facevano per mettere a posto la propria coscienza.

A partire dalla fine del Seicento, nel Regno di Napoli non solo l’élite intellettuale, ma anche la gente comune cominciò ad avvertire come inaccettabile il controllo che la Chiesa esercitava sulle coscienze. La maggiore consapevolezza intellettuale e politica dei ceti medi cominciò a preoccupare sia il potere politico sia quel-lo ecclesiastico, i quali continuarono a contendersi il controllo della censura. Le ricerche di Maria Consiglia Napoli, concentrate in particolare sul periodo borboni-co (1735-1860)16, testimoniano che nel territorio par-tenopeo chi voleva stampare, vendere o leggere un li-bro preferiva eludere il controllo ecclesiastico, piuttosto che tentare di ottenere la licenza arcivescovile; a questo scopo, tre erano gli espedienti ai quali si ricorreva piú facilmente: stampare in luoghi vicini, noti per avere un controllo censorio piú «elastico», oppure importare e vendere clandestinamente libri stampati fuori dal Re-gno o ancora stampare in abitazioni private, all’occor-renza adibite a tipografia. Questo fece sí che Napoli di-venisse la città in cui era piú facile stampare libri vietati, il luogo in cui si pubblicarono le opere di alcuni degli autori piú controversi.

Se la censura ecclesiastica fu spesso aggirata, la cen-sura di Stato fu di frequente soggetta a svariate inge-renze. Sul controllo delle stampe esercitarono la pro-pria influenza sia cariche dello Stato sia editori e autori dei libri esaminati sia singole personalità interessate a far approvare una determinata opera; da parte loro, i censori assunsero un atteggiamento non tanto polizie-sco, quanto paternalistico: in genere, non si proibiva la stampa di un’opera senza aver prima ascoltato le ragio-ni dell’autore e l’eventuale divieto era seguito da bene-voli «consigli». Per ciò che concerne i contenuti censu-rati, dai formulari risulta che la censura fosse concepita come una forma di difesa dei «sacri diritti della Coro-na, delle leggi del Regno e dell’onestà dei costumi»,

15.P. Delpiano, Letteratura all’Indice. Per una storia della censura eccle-siastica nel Settecento, in «Società e storia» 105 (2004), pp. 487-530.

16.M. C. Napoli, Letture proibite. La censura dei libri nel Regno di Na-poli in età borbonica, Franco Angeli, Milano 2002.