Dentro del cielo stellare - specimen antologico

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Ora che la rassegna testuale è compiuta, siamo in grado di riconoscere come fulcro possibile dei Canti Orfici il “problema ermeneutico” dell’Io dinanzi all’Essere del mondo. Campana è un poeta ossessionato dall’esistenza di tutte le cose: il vero “mistero” non è la morte ma la vita, non l’invisibile ma ciò che “è”, che si vede e continua ad esserci e a vedersi, prescindendo dalla volontà di chi lo guarda. L’evidenza oggettiva e incancellabile del reale è un’alterità che il soggetto è chiamato a fare propria. L’altro-da-sé, infatti, può diventare una minaccia se non lo si “riduce” (adattandolo) alla propria misura. Dinanzi a qualcosa di esterno e di estraneo la nostra mente raziocinante prova il bisogno insopprimibile di com-prendere, e subito inavvertitamente comincia a “tradurre” l’oggetto sulla base di ciò che conosce, a tessergli intorno una ragnatela bavosa di schemi, pregiudizi, stereotipi... in breve, facciamo dell’“altro” uno specchio di noi stessi, un fantasma della nostra identità. È questo processo di riduzione dello sconosciuto al noto e del diverso all’uguale che fonda e permette la “percezione”. La percezione è l’«interpretazione di un complesso di sensazioni che rappresentano un determinato oggetto» (1), dunque è qualcosa in più della sensazione, dal momento che «contiene sia la concezione dell’oggetto percepito, sia la convinzione immediata e irresistibile dell’esistenza e della presenza dell’oggetto» (2).

La percezione è una sensazione oggettivata, riguarda la sfera semantica della ricezione dei dati della coscienza. Se ciò è vero per ogni uomo, lo è ancor di più per l’uomo occidentale, la cui cultura si fonda proprio sul “conferimento di senso”. Nei Canti Orfici, lo abbiamo visto, c’è in atto un continuo esercizio della logificatio post factum. Campana (cioè l’Io poetico che lo rappresenta) è impegnato a leggere e a tradurre per sé le caratteristiche qualitative e le relazioni ambientali degli oggetti, a decidere il senso dei fenomeni (passati o presenti) del Mondo.

Va da sé che la lettura del libro del mondo fatta da un poeta sarà diversa (divergendo le motivazioni dello sguardo e l’approccio mentale all’oggetto) rispetto a quella fatta da un biologo o da un fisico. La poesia traccia ponti connettivi, lega universi distanti in reti di analogie, chiama a riposare in una intimità esterna ed essenziale (il testo) svariati livelli del reale o del possibile. È una lettura organizzata secondo leggi fantastiche, il cui risultato non chiede di (né può) esser sottoposto alle verifiche del Logos (giacché è il Mytos che lo produce), a razionalistiche dimostrazioni di fondatezza: la poesia non è un’equazione o un teorema. Tuttavia, in senso lato, sempre di “lettura”, di traduzione umana, si tratta. Poeta o scienziato, non varia la situazione di base: da una parte l’uomo con il suo perenne “stare dinanzi” ai fenomeni, con il suo apparato sensoriale e percettivo, con il suo bagaglio di cultura; dall’altra uno sconfinato e incolmabile divario di alterità (il Mondo) da ridurre a possesso e conoscenza.

Lo sguardo di Campana, del poeta Campana, scorre sul mondo misurandone i fenomeni, ma non si accontenta della traduzione. Ogni lettura del mondo è sempre “traduzione”, sempre ad ogni modo seconda e infedele. Di ogni essere e di ogni accadimento riusciamo a cogliere soltanto l’epifenomeno, non il fenomeno in sé, nella sua integra essenza, nella sua intraducibile diversità. Campana sembra accettare e accogliere il fenomeno proprio per oltrepassarlo: in realtà non cerca un “al di là” del fenomeno stesso; vuole piuttosto sfuggire all’inganno dell’epifenomeno, alla parzialità della traduzione. Un modo per allentare i vincoli abituali della percezione (mandando in tilt i circuiti logici che la realizzano) può esser quello di estenderla a dismisura: sia utilizzando il potere astrattivo del ricordo (la rêverie), sia scompigliandone liberamente i dati in una rielaborazione fantastica (la voyance). In entrambi i casi si attua un processo di straniamento della realtà che permette al poeta di eludere la tipica condizione esperienziale dell’uomo, di uscire dal “carcere” che magari altri accetta senza problemi ma che a lui, spirito sensibile di poeta e nomade, procura tormento, coscienza di prigionia, brama di libertà.

Fuggire dal tempo e dallo spazio: dai limiti del principium individuationis che inchioda l’uomo al presente di un solo luogo, che lo costringe alla “rappresentazione” del mondo (avere ogni cosa a fronte, esserne separati da questo stare a fronte), che lo esclude dal vero accesso all’intimità dei fenomeni. Ma grazie alla poesia (noi lettori e il poeta che scrive) possiamo infrangere le barriere e abitare nell’essenza del mondo, liberandoci dal ludibrio delle apparenze e dal peso della condizione umana. La poesia è sacra, dice Bataille, perché ci proietta fuori di noi, laddove «la morte non è più l’opposto della vita» (3). Scrivere un

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testo significa possedere un mondo. Leggere un testo significa misurarsi con ciò che esso è e dice, riconoscersi nel mondo che propone, essere se stessi fuori di sé, trasformarsi, divenire altro. La finzione e l’intreccio fantastico sono armi formidabili di cui l’arte si serve per liberarsi dallo scorrere fenomenico del tempo e sconfiggere il “senso di realtà”. E questo vale tanto più per il cinema: non a caso, come nota Fiorenza Ceragioli, Campana costruisce i Canti Orfici secondo un’ottica cinematografica (e si ricordi che il titolo originario de La Notte era “Cinematografia sentimentale”).

Campana conosce tre gradi fondamentali di percezione. Il primo è quello della normale sensorialità, in cui egli può esercitare le sue facoltà raziocinanti: scrive ciò

che vede e ne decide il senso. Funzionano solo gli occhi fisici collegati alla “ratio”, è chiuso e spento l’occhio interiore: sullo “schermo” dell’opera scorrono solo le rappresentazioni del “visivo”, i fenomeni del mondo nella loro apparenza consueta, normalmente tradotti da un soggetto che li percepisce.

Il secondo è agli antipodi del primo ed è quello della percezione extrasensoriale, che chiameremo “rêverie completa”: il poeta si astrae del tutto dal cronotopo presente e si abbandona al flusso delle immagini risorgenti dal passato della propria vita o della Storia, o dall’eterno del Mito. Gli occhi fisici sono disattivati, funziona solo quello interiore: sullo “schermo” dell’opera scorrono solo le figure del “visionario”, i fenomeni del mondo trasfigurati, alleggeriti di magica chiarezza oppure appesantiti di violenza d’incubo, comunque deviati dall’apparenza normale.

Il terzo sta a metà fra gli altri due, ed è quello di una percezione mista, che chiameremo “rêverie imperfetta”: il poeta (perché non ha raggiunto la giusta disposizione d’animo oppure perché l’oggetto non era abbastanza coinvolgente) non si concede del tutto all’astrazione: gli occhi fisici continuano a vedere ma acquistano in parte la qualità dell’occhio interiore. In questo caso sullo “schermo” dell’opera scorrono le rappresentazioni del “visivo” campaniano, cioè incendiate di ebbrezza: i fenomeni del mondo emettono un alone fantastico, sono letti in chiave visionaria. La voyance è più vistosa e frequente in questo grado intermedio, dove c’è contrasto diretto (e mistione spuria) fra “visivo” e “visionario”: pura visività e pura visionarietà sono universi incontestati (anche alla “rêverie completa” dopo un po’ ci si abitua come a dimensione affatto normale).

La disposizione campaniana nei confronti della realtà è dunque “visionaria”. Egli parte da un gusto visivo di matrice naturalistica, ma sovraccarica ben presto di tensione le “rappresentazioni” oggettive del visibile, fino ai limiti del visionario. La descrizione non fa quasi in tempo a rivelarsi che subito il poeta la scompagina, la sproporziona, la cauterizza al calor bianco, la fa esplodere in timbri febbrili, la folgora in lampi di luce metafisica, la inonda di magma viscerale, le inocula il virus della trascendenza. Gli oggetti dello sguardo vengono allontanati dalla resa naturalistica, straniati, approfonditi, trascinati oltre i confini dell’apparente.