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DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA

Come e perché nasce un partito

Roma 2014

Questo libretto è stato curato amichevolmente dalla Fonda-zione Nuovo Millennio – Per una Nuova Italia (www.peru-nanuovaitalia.it). Ad essa e al suo presidente, Prof. Pellegrino Capaldo, rivolgiamo un vivo ringraziamento.

democrazia partecipativaVia Pierluigi da Palestrina, 63 – 00193 Roma

Tel: 06 3208032www.democraziapartecipativa.netwww. [email protected]

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Premessa1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»? 2. Il fallimento del leaderismo3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione4. Le regole che ci siamo dati5. L’Italia ha bisogno di un «Progetto-Paese»6. Un Progetto per il nostro Paese

I. Il ruolo dell’Italia nel mondo globale7. Un Progetto per il nostro Paese

II. Una nuova macchina amministrativa8. Un Progetto per il nostro Paese

III. Un nuovo welfare9. Tra sviluppo e welfare10. Per un welfare migliore

I. La destatalizzazione11. Per un welfare migliore

II. Un’infrastruttura sociale sul territorio12. Oltre lo Stato, la persona

INDICE

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Per leggere con attenzione questo libretto occorre poco più di un’ora. Per dargli una scorsa e capirne il senso basta un quarto d’ora.

Pensiamo che almeno 15 minuti valga la pena di dedicarglieli, anche se tratta di un argomento – la politica – che a molti ormai fa venire in mente solo corruzione, ipocrisia, interessi di casta, ecc.

Vorremmo esortarvi a leggerlo perché della politica – ci piaccia o no – non possiamo fare a meno. Del resto se il nostro Paese è ridotto come è ridotto, forse la causa va ricercata proprio nel disinteresse, e talora nel disprezzo, con cui la maggior parte di noi ha guardato alla politica.

In queste nostre riflessioni non c’è nessun accenno a questioni di politica estera. Non è una lacuna involontaria; è una scelta. Siamo convinti, infatti, che il nostro Paese non abbia oggi la credibilità necessaria per interloquire sui grandi temi internazionali, che pure sono di grande importanza e hanno bisogno, a loro volta, di un profondo ripensamento. Nessuno,

PREMESSA

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certo, ci impedirebbe di dire la nostra. Tuttavia siamo convinti che, se vogliamo essere ascoltati, dobbiamo dimostrare innanzitutto di saper mettere ordine all’interno del nostro Paese.

Se, dopo aver letto quest’opuscolo, avrete qualcosa di utile da suggerirci, saremo lieti di riflettere sulle vostre osservazioni.

Democrazia Partecipativa

DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA

Come e perché nasce un partito

1.

PERCHÉ NASCE

«DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA»?

Nasce «Democrazia partecipativa», un nuovo par-« » -tito politico. La decisione giunge a conclusione di un ampio dibattito, iniziato nel mese di luglio con una grande Assemblea Popolare, che ha visto la par-tecipazione (diretta o indiretta) di oltre trentamila persone, e ha fatto emergere sia l’estrema gravità dei problemi del Paese che l’inadeguatezza delle forze politiche in campo.

L’attuale governo mostra di non aver compreso la drammaticità della situazione e di non aver alcuna idea sulla scala delle priorità. La disoccupazione e la connessa povertà hanno raggiunto livelli che fino a qualche anno fa nessuno osava nemmeno immaginare, e che sono destinati a diventare ancora più drammatici, perché in questi giorni si calcola che molti di coloro che oggi hanno ancora un lavoro rischiano di perderlo da un momento all’altro.

Disoccupazione e povertà non sono uno dei tanti

1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?

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nostri problemi, sono il problema del nostro Paese, che il governo dovrebbe considerare una priorità assoluta, e per la cui soluzione dovrebbe instancabilmente impegnarsi giorno e notte.

Ormai non c’è più nessuno che creda alla favola della ripresa imminente, perché questa – come dicono innumerevoli indicatori econometrici – di settimana in settimana si allontana sempre di più dal nostro orizzonte. Ed è altrettanto chiaro che quando ci sarà qualche miglioramento (com’è probabile), esso sarà stato indotto dalla ripresa economica internazionale e sarà comunque effimero, se non ci decideremo a rimuovere i tanti ostacoli che rallentano, quando addirittura non bloccano, l’iniziativa economica del nostro Paese.

Mentre l’Italia sprofonda a vista d’occhio sotto il peso della crisi, il governo non trova nulla di meglio da fare che impegnarsi in un penoso braccio di ferro su alcune cosiddette riforme, le quali potrebbero anche essere utili, ma non sono certamente al vertice delle necessità del Paese. Dal vicolo cieco in cui da tempo ci siamo cacciati, si esce solo con lo sviluppo e con la ripresa dell’occupazione. Rispetto a queste emergenze le iniziative anti-crisi del governo sono nella migliore delle ipotesi ininfluenti, se non addirittura nocive.

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I posti di lavoro non si creano né con la demagogia né con gli indiscriminati tagli della spesa pubblica. La lotta ai privilegi che il governo ha platealmente intrapreso – a parte le più ampie riserve sul modo di procedere – è di per sé sacrosanta. Decisamente sbagliato è invece che il governo, nella scomposta ansia di fare ad ogni costo, prenda per privilegi le normali articolazioni e differenziazioni di una società pluralista, qual è la nostra in Italia e quale vogliamo che continui ad essere.

Prima di muovere guerra ai privilegi bisognerebbe essere sicuri che si tratti di autentici privilegi. Fare come fa il governo – vale a dire prendersela a caso con questa o quella categoria, talora senza motivo – aiuta forse a strappare qualche applauso ad un corpo sociale sempre più smarrito e disattento, ma alla lunga accresce il risentimento e il disagio dei cittadini, mette gli uni contro gli altri, lacera il tessuto civile, riduce il grado di coesione sociale, fa smarrire il senso di appartenenza.

Al governo manca un metodo e probabilmente non ha alcuna intenzione di darselo. Preferisce affidarsi all’improvvisazione e a sporadici colpi di scena capaci di stupire i cittadini, mentre la gravità dei problemi del Paese esige che si cerchino delle soluzioni con metodo e tenacia.

1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?

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operazione-verità

Occorre, per prima cosa, fare un’operazione-verità nei confronti dei cittadini. Non ha senso spargere ottimismo a piene mani, diffondere messaggi che vorrebbero essere tranquillizzanti ma che in realtà non tranquillizzano più nessuno. Ai cittadini bi- sogna dire come stanno esattamente le cose. E le cose stanno più o meno così. La malattia dell’Italia è molto grave, ma non inguaribile. Possiamo superarla se ritroviamo unità di intenti e se ognuno di noi farà generosamente la propria parte. Non c’è, però, tempo da perdere. Ecco perché noi siamo convinti che occorra abbandonare la logica dei provvedimenti estemporanei e costruire un grande Progetto-Paese che disegni l’Italia del futuro (l’Italia nella quale dovranno vivere i nostri figli), e definisca la complessa strategia per arrivarci.

È solo con un atto di verità e di responsabilità che possiamo chiamare a raccolta tutti i cittadini e ottenere il loro convinto contributo a quella che si prospetta come una vera e propria ricostruzione del Paese, in cui un ruolo importante – è superfluo dirlo – spetta ai giovani e ai giovanissimi, che vorremmo esortare a non chiamarsi fuori. Non siamo per il giovanilismo ad ogni costo, ma è innegabile che i

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giovani hanno il diritto-dovere di immaginare l’Italia dei prossimi decenni e di lavorare per realizzarla.

un «progetto-paese»

In secondo luogo dovremo mettere in campo un grande «Progetto-Paese», che consisterà in due serie di provvedimenti: una – tempestiva e chirurgica – che miri, con tutta la determinazione di cui saremo capaci, alle emergenze del Paese, l’altra – di lunga durata (e in una prospettiva verisimilmente pluriennale) – che assicuri all’Italia un suo ruolo nel mondo globalizzato.

A parte tutto questo – e non è poco –, un grande «Progetto-Paese» è indispensabile per le seguenti tre ragioni:

–  recuperare il ritardo che il nostro Paese ha accumulato nei confronti dei partner europei (che a loro volta sono cresciuti nel loro complesso meno degli Stati Uniti, per non parlare della Cina),

– sottoporre ad una radicale revisione la nostra macchina amministrativa, ormai obsoleta, costosa e sostanzialmente inefficiente,

–  definire il ruolo che vogliamo avere in un mondo che diventa sempre più globalizzato.

1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?

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rifondare il rapporto con l’europa

Un grande «Progetto-Paese» serve anche per dare una svolta ai nostri rapporti con la Comunità Europea. Abbiamo imparato a nostre spese che con l’Europa la voce grossa non serve, soprattutto quando – ed è il nostro caso – siamo in difetto. Non ha alcun senso rinfacciare ad alcuni paesi europei deroghe e «sforamenti» passati.

Occorre guardare avanti e dire con chiarezza che cosa intendiamo fare per rientrare nelle regole. Le regole, sia chiaro, possono essere cambiate e, probabilmente, quelle che l’Europa si è data in materia di deficit e debito vanno cambiate. Ma per cambiarle occorre avere le idee molto chiare e non sembra che il governo le abbia. Non basta dire che vogliamo maggiore flessibilità, parola dal significato evanescente che si presta a mille interpretazioni. Dobbiamo dare un preciso contenuto alle nostre richieste. Se non lo facciamo, sarà difficile evitare l’accusa che non vogliamo alcuna regola.

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l’impresa come motore della crescita e dell’occupazione

Per far ripartire la nostra economia è assolutamente indispensabile superare alcuni tabù (diffusissimi nel nostro Paese) sul ruolo delle imprese e sul profitto, che troppi si ostinano ancora a considerare una sorta di espropriazione ai danni dei lavoratori o come il frutto perverso dello strapotere del capitale sul lavoro.

Nel nostro Paese manca una vera cultura dell’impresa e una comprensione serena delle dinamiche del profitto. Su questo punto la politica è colpevolmente assente. Si crogiola nell’ambiguità, probabilmente per non scontentare nessuno, non rendendosi conto che l’unico vero modo per ottenere il ragionato consenso dei cittadini è quello di spiegare con chiarezza, senza infingimenti, i motivi che sono alla base di certe decisioni.

Occorre cambiare registro. Deve essere a tutti chiara l’insostituibile funzione dell’impresa come motore della crescita e dell’occupazione.

Dobbiamo in particolare incoraggiare, soprattutto nei giovani, la capacità di innovare. E dobbiamo mettere di nuovo in moto il cosiddetto ascensore sociale che un tempo non lontano consentiva al figlio dell’operaio di raggiungere le vette più alte delle

1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?

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professioni liberali. Oggi non è così. Statistiche alla mano, constatiamo che il figlio dell’operaio nella migliore delle ipotesi continua a fare l’operaio (se non è addirittura disoccupato).

Siamo convinti che sostenere le imprese e la capacità di iniziativa sia il mezzo migliore per fare emergere i veri talenti, il cui apporto è indispensabile perché il nostro Paese possa dire la sua in un mondo che diventa sempre più competitivo.

un partito “nuovo” per attuare queste idee

Proprio per attuare queste idee, oggi del tutto assenti dalla scena politica italiana, diamo vita ad un nuovo partito.

Ci rendiamo conto che la nostra scelta è contro-corrente. Sappiamo che la gente diffida dei partiti e li considera all’origine di tutti i nostri mali. Eppure siamo convinti che i partiti siano indispensabili. E infatti, secondo noi, l’Italia sta pagando proprio l’assenza di «veri» partiti, animati dalla partecipazione di cittadini interessati a far progredire il loro Paese.

Ecco, noi vogliamo fare un partito diverso da quelli che hanno dato pessima prova di sé e che sono all’origine dell’allontanamento della gente dalla politica. Non necessariamente un partito

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politico deve essere un centro di malaffare e noi vorremmo dimostrarlo. Abbiamo cominciato con il porre molta cura nella redazione dello statuto, che abbiamo affidato ad un comitato guidato da un Presidente emerito della Corte Costituzionale, e che sarà sottoposto al primo Congresso di «Democrazia Partecipativa».

Riusciremo a fare tutto questo? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che tutto

dipende dal numero di donne, uomini e giovani che, aderendo al nostro invito, vorranno impegnarsi. Noi non ci proponiamo di fare un nostro partito, un partito per noi, per i nostri interessi. Noi vogliamo fare un partito di «tutti e per tutti»: un partito nel quale ciascuno si trovi a proprio agio e si senta personalmente gratificato e responsabile dei successi e degli insuccessi. Saranno gli iscritti, infatti, a scegliere liberamente le persone adatte: persone che, alle indispensabili competenze specifiche, uniscano il vivo desiderio di impegnarsi non per il proprio tornaconto ma per il bene comune.

1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?

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* * *  

Concludendo questo giro d’orizzonte e tirando le fila di quello che abbiamo appena detto (e che nelle pagine seguenti cercheremo di argomentare meglio), vorremmo rivolgerci ai lettori di queste pagine in modo più diretto e informale.

Se ritenete il messaggio inutilmente allarmistico, perché siete convinti che le forze politiche e il governo in carica sono sulla strada giusta, non vi resta che cestinarlo e a noi non resta che scusarci per avervi importunato.

Se, al contrario, lo ritenete condivisibile, se fate vostri il nostro allarme e le nostre preoccupazioni, dovete agire; non potete restare a guardare magari perché ritenete di poter fare poco o nulla. Vi sbagliate. Ognuno di noi, da solo, certamente può fare ben poco, ma uniti e opportunamente organizzati, possiamo fare molto. E allora unitevi a noi.

Se invece vi trovate – come dire? – in una posizione intermedia, non vi resta che riflettere e approfondire la questione. E questo, purtroppo, dovete farlo da soli, dopo aver raccolto le necessarie informazioni. Dal canto nostro vorremmo solo raccomandarvi di non cedere alla pigrizia, di non far cadere nel

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vuoto questo messaggio. Non è tempo di pigrizia. Dobbiamo acquistare consapevolezza dei problemi che abbiamo di fronte. L’errore maggiore che potremmo commettere, nella difficile fase storica in cui viviamo, è rinunciare a farci un’opinione magari ricorrendo al comodo alibi che non abbiamo mai fatto politica, che la politica è per i furbi, per gli imbroglioni e così via.

Alle donne rivolgiamo un appello particolare perché con il loro senso del reale, più e meglio di tutti, sanno quanto insostenibile sia diventata la vita nel quotidiano e quanta disperazione sia calata sulle famiglie che non sanno come arrivare alla fine del mese. In special modo ci appelliamo alle tante donne che, costrette alla disoccupazione, non sono più in grado di dare il loro contributo, unico e insostituibile, nei campi più disparati delle attività produttive.

È sbagliato disprezzare la politica per il solo fatto che alcuni – troppi! – di quelli che vi si impegnano perseguono unicamente interessi personali. Ignorare la politica è un lusso che non ci possiamo permettere e se ce lo permettiamo pagheremo, prima o poi, un prezzo altissimo, perché l’alternativa alla crescita economica e civile del Paese non è il mantenimento dello status quo che ad alcuni di noi potrebbe,

1. Perché nasce «Democrazia partecipativa»?

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egoisticamente, anche andare bene. L’alternativa è un inesorabile declino economico e civile, che sarà anche molto rapido – come è rapida ogni cosa nel mondo globalizzato – e che travolgerà tutto e tutti, anche quelli che si ritengono al sicuro.

La politica è necessaria e non possiamo sottrarci al dovere di darle, nelle forme più adatte, il nostro contributo. Se vogliamo una società migliore, rendia-moci conto che dobbiamo fare tutti qualcosa in più per la casa comune e per farlo non occorrono compe-tenze particolari; basta il buon senso e il desiderio di capire il mondo in cui viviamo e di renderlo più ospitale.

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2.

IL FALLIMENTO DEL LEADERISMO

l’ascesa dei leader in italia

Anche in tempi di democrazia molti italiani sono convinti che sia conveniente o inevitabile affidarsi ad un leader forte: un indiscusso trascinatore di folle, che designa ministri e deputati e risolve da solo, come in una magia, le difficoltà del paese.

E così di recente hanno anche finito con l’accettare (o subire) che i deputati, che di solito in tutte le democrazie del mondo vengono scelti dagli elettori, fossero nominati da una manciata di leader a capo di partiti personali, governati talvolta soltanto per mezzo di imperiosi proclami.

Il risultato è stato che si è diffusa un’infatuazione collettiva per il cosiddetto leaderismo, che ha mietuto consensi perché è sembrato determinato a lottare contro gli incubi che assediano la nostra vita (la burocrazia che ci esaspera, l’inefficienza e le miserie di una repubblica invecchiata, ecc.) e che alla fine si è incarnato in personaggi che davano l’impressione

2. Il fallimento del leaderismo

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di poter liberare il paese dai riti inconcludenti della vecchia politica e trascinarlo nella modernità, vincendo di slancio le resistenze o saltando gli ostacoli.

In conclusione, il leaderismo appare a tutt’oggi a molti come uno strumento capace di recuperare il tempo perduto, imponendo soluzioni semplici e veloci a problemi da troppi anni irrisolti. In questo modo nella nostra società ha preso corpo un’illusionistica euforia – alimentata da improvvisati opinionisti televisivi e da una valanga di chiacchiere di cosiddetti esperti –, che ha sostituito la politica, ma non ha prodotto che il nulla.

l’agonia del paese al tempo dei suoi ultimi 4 leader

Senza un progetto serio, un’idea o un pensiero medi-tato, il paese è precipitato nella recessione. Nello scorso mese di agosto, in un rapporto redatto dagli analisti di Brigdewater Associates (uno dei fondi di investimento più importanti del mondo) si legge testualmente quanto segue: “Le condizioni in Italia sono depresse come non lo erano mai state dalla fine della seconda guerra mondiale. E poiché l’economia italiana non è competitiva, queste condizioni proba-bilmente persisteranno”.

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Dopo l’annuncio di rivoluzioni miracolose, e tante promesse svanite, lo smarrimento degli italiani è evidente. Comincia ad essere sempre più chiaro che è sbagliato il modo attuale di concepire la politica.

Il leaderismo è un fenomeno sconosciuto nelle nazioni occidentali. L’uomo solo al comando esiste unicamente nelle periferie del mondo. Negli Stati Uniti, in Germania, in Francia i leader sono personalità di rilievo che svolgono una funzione di guida per un determinato periodo, il loro potere non è mai illimitato ed è sottoposto sempre al controllo del Parlamento, di specifici organi istituzionali e della opinione pubblica. Negli Stati Uniti, la Costituzione vieta che un presidente possa governare per più di due mandati: otto anni in tutto, per impedire che si crei un potere personale eccessivo, inconcepibile in una grande nazione. Anche per questo le nomine di competenza del presidente – dagli ambasciatori ai vertici dei servizi di sicurezza – devono superare il vaglio severo del Senato. In Germania, il ruolo di guida politica delle maggioranze di governo che assume il Cancelliere è bilanciato, oltre che dalle opposizioni, dall’influenza che esercitano i capi regionali del suo partito: nessuno può essere onnipotente.

2. Il fallimento del leaderismo

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l’auspicato balzo in avanti: dal leader al cittadino che partecipa

Le società moderne devono fronteggiare problemi ed eventi sempre più complessi che richiedono la rifles-sione e l’impegno di una classe dirigente allargata, che di solito emerge – negli uffici, nelle professioni, nelle imprese, nelle organizzazioni del volontariato e nei sindacati – per meriti oggettivi e quasi mai per cooptazione. Invece, nel nostro leaderismo il capo decide la sua classe dirigente e la impone nei ruoli di governo anche quando è palesemente priva delle qualità necessarie. Un sistema, questo, che inevitabil-mente porta al potere la superficialità e la corruzione.

I partiti personali, frutto avvelenato di un leaderismo provinciale e inconcludente, non sono in grado di innovare niente. Erano la caratteristica della vecchia Italia prefascista, così diversa e lontana dai più avanzati paesi europei.

Per evitare un triste ritorno al passato, l’Assemblea Costituente concepì l’articolo 49 della nostra Costituzione, che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partito per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Rileggendo gli atti dell’Assemblea Costituente,

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un documento denso di passione civile, si coglie l’ansia dei padri della Repubblica di evitare la riproposizione della democrazia rattrappita dei primi anni del ’900, quando i cittadini di sesso maschile furono progressivamente ammessi al voto, ma non partecipavano alla decisioni politiche.

I nuovi partiti, non più feudi di una persona, avrebbero dovuto costituire un collegamento permanente tra i cittadini e le istituzioni. Per rendere efficace il dettato costituzionale sarebbe stata necessaria una legge. Ma la legge non è stata mai fatta. Sicché i partiti hanno subito con il passare degli anni una trasformazione rovinosa, fino al punto che in molti hanno creduto che il leaderismo fosse la soluzione della grave crisi politica del paese. Ma non è stato così. Nella realtà – come oggi sappiamo – esso non ha fatto che aggravarla.

L’unica nostra speranza, per uscire da questa situazione, è che i cittadini decidano di riprendere nelle loro mani il proprio destino e di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica.

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3.

NUOVI PARTITI ALL’INSEGNA

DELLA PARTECIPAZIONE

la crisi della rappresentanza politica in italia

La democrazia dei partiti

In Italia la democrazia rappresentativa è stata inizial-mente caratterizzata dal forte legame che la società civile intratteneva con i partiti che la rappresentavano. Poi però, dopo anni di crescita economica e sociale, essa ha subìto un cambiamento radicale, trasformandosi in una democrazia dei partiti (ovvero in una democrazia governata dalle organizzazioni politiche nazionali), fortemente connotata da questi due tratti distintivi:

– la sclerotizzazione del rapporto tra le istanze dei blocchi sociali – ufficialmente separati e antagonisti, ma nella prassi con rapporti in continua evoluzione (arrivando persino ad essere in osmosi tra loro) – e le rappresentanze politiche (tendenzialmente bloccate in rigidi schemi),

3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione

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– il progressivo trasferimento delle prerogative dei cittadini alla classe politica.

La regressione oligarchica

Perduta la funzione di mediazione (e integrazione) degli interessi e di generazione di identità collettive e di indirizzi politici unitari, i partiti politici italiani hanno finito col diventare, in un breve giro di anni, strutture autoreferenziali, sempre meno capaci di occuparsi della crescita economica e sociale del Paese e sempre più esclusivamente concentrate su questioni “di bottega” (potere, visibilità, personalismi, ambizioni di vario genere, ecc.), col risultato che l’élite politica italiana, non più rappresentativa delle articolazioni sociali, è diventata una casta “onnipotente”.

Il collasso della rappresentatività dei partiti ha prodotto col tempo una vera e propria regressione oligarchica della rappresentanza politica democratica, con due gravi conseguenze, una politica e l’altra socio-economica:

– la polverizzazione (al livello delle istituzioni e della vita civile) dei circuiti virtuosi tra aspettative dei cittadini e risposte del sistema politico,

– il dissolvimento delle politiche unitarie per

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salvaguardare – nei nuovi contesti economici della globalizzazione – le conquiste del welfare.

L’autoesclusione dei cittadini dalla vita politica

La conseguenza più vistosa di questa regressione, e nello stesso tempo il dato più preoccupante sull’attuale stato di salute dei princìpi e delle procedure della democrazia nel nostro paese, è stata la progressiva disaffezione della maggioranza dei cittadini nei confronti delle istituzioni politiche nazionali e locali.

Iniziata come delusione per il modo in cui i politici di professione avevano gestito per decenni la cosa pubblica, questa disaffezione è poi diventata sistematica autoesclusione da ogni forma di partecipazione ai processi decisionali collettivi, con la conseguente cessione di sovranità a ristretti ceti di partito e di governo.

L’esito finale: una «democrazia senza cittadini»

L’autoesclusione dei cittadini dalla vita politica ha determinato lo svuotamento pressoché definitivo della democrazia rappresentativa: il cittadino dal rango di persona responsabile, vincolata a doveri civici e portatrice di diritti garantiti, è scaduto a individuo privo di identità democratica, ridotto al ruolo di cittadino-elettore, semplice numero tra i tanti numeri di cui si compone la massa del «pubblico».

3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione

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E in effetti in questa cosiddetta democrazia del pubblico il consenso politico si produce attraverso il rapporto (non più mediato dai partiti) tra il leader, indifferentemente di «destra» o di «sinistra», e un’opinione pubblica che non esprime alcun pluralismo culturale e sociale, ma funziona – anche grazie all’uso spregiudicato dei media e della rete – come una sorta di canale, in cui per un verso trascorrono e si affermano le leadership personali, e per un altro verso si consolida, in modo spesso inavvertito dai più, una democrazia senza cittadini.

L’esito finale di questo lungo processo di sfalda-mento della democrazia rappresentativa è sotto i nostri occhi: una classe politica priva del consenso dei cittadini e impegnata a barcamenarsi in un riformismo empirico e caotico tra le richieste dei mercati (miranti per lo più alla ripresa dell’economia) e quelle delle classi subalterne e dei sindacati (concentrate sui grandi temi del lavoro e della disoccupazione).

una possibile rinascita politica dell’italia

Gli alti valori democratici della «partecipazione»

Se non si vuole rinunciare agli ideali della democrazia (libertà, partecipazione, solidarietà ecc.), non si può

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ulteriormente procrastinare la ristrutturazione della rappresentanza politica nella vita del nostro Paese, affinché essa torni ad essere espressione dei bisogni e delle aspirazioni dei cittadini.

Il modo più efficace per rigenerare la democrazia rappresentativa è far sì che il cittadino torni ad occuparsi attivamente di politica, perché solo così essa tornerà ad essere una democrazia che si governa con l’azione dei cittadini nella società e nelle istituzioni.

Ma per poter ottenere questo risultato è indispen-sabile che la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica sia ispirata ai valori democratici della solidarietà e dell’equità sociale, gli unici capaci di galvanizzare cittadini avviliti e ridotti ormai a semplici pedine di un gioco che si fa al di sopra delle loro teste, e alla fine, forse, anche di favorire il superamento di vecchi automatismi ideologici.

È solo la condivisione di valori comuni di alto profilo etico-politico (e, in modo del tutto particolare, delle istanze di solidarietà espresse dalla società odierna) che può permettere di superare le false suggestioni dei partiti personali per approdare ai partiti di persone.

3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione

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Rivitalizzare i partiti con la partecipazione dei cittadini

Il grande obiettivo di «Democrazia Partecipativa» è di contribuire a mettere in moto – non con procla-mi, ma con l’esempio – la più urgente trasformazio-ne della vita politica italiana, che dovrà consistere – come si è capito – nel collocare al centro della vita pubblica i tre pilastri fondamentali della democrazia partecipativa, e cioè:

– la prassi delle deliberazioni fondate sul metodo dialogico e procedenti dalla periferia (e cioè dalle co-munità di persone costruttivamente legate tra di loro da interessi civici o economici) al centro (e cioè ai par-titi, al parlamento, al governo) e non viceversa;

– la formazione permanente e di alto livello di coloro che partecipano alla vita del partito, e in modo particolare dei più giovani (ed è sui giovani in particolare che «Democrazia Partecipativa» intende far leva);

– il saldo e continuo collegamento delle organiz-zazioni politiche con le tante strutture associative che, nello spirito della Costituzione, sono attive sul territorio per aiutare (spesso con mezzi di fortuna) i cittadini nelle loro necessità: un collegamento che sia finalmente espressione di una nuova sensibilità della politica per le dure condizioni di vita di milio-

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ni di cittadini (famiglie alla deriva, bambini e anzia-ni abbandonati a se stessi, ecc.) e di una altrettanto nuova capacità di assimilare e rilanciare proposte che nascono sul campo da esperienze “di prima linea”.

alcuni effetti virtuosi della mobilitazione dei cittadini

Un banco di prova: il finanziamento dei partiti

Nel proporsi come avanguardia del processo di rinnovamento della democrazia rappresentativa in Italia, «Democrazia partecipativa» (D.P.) può già indicare, come esempio del metodo con cui intende operare nell’interesse del Paese, la Proposta di legge di iniziativa popolare sul finanziamento pubblico dei partiti, presentata al Parlamento quando ancora D.P. non si era costituita come partito.

Il metodo a cui si ispira questa Proposta di legge è l’unico davvero degno di una democrazia parteci-pativa: fare in modo che lo Stato non si sostituisca ai cittadini ma si limiti a creare le condizioni perché emerga (e si imponga) nel modo più chiaro, semplice e trasparente la loro volontà. E in effetti quella Propo-sta, facendo tabula rasa del meccanismo automatico caldeggiato dai partiti (secondo cui i partiti rappre-sentati in Parlamento dovrebbero essere finanziati in

3. Nuovi partiti all’insegna della partecipazione

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quota proporzionale, senza nessuna verifica dell’at-tuale, esplicita volontà dei cittadini), attribuisce allo Stato solo il ruolo di gestore del meccanismo di veri-fica della volontà dei cittadini, che – come prevede la Proposta di legge – scelgono direttamente il partito che vogliono e si vedono riconosciuto dallo Stato un credito d’imposta pari al 95% del contributo da essi versato, con un limite massimo di 2.000 euro.

Rinnovamento del costituzionalismo democratico

La mobilitazione dei cittadini è destinata inoltre ad avere un salutare effetto propulsivo a favore del rinno- del rinno-vamento del costituzionalismo democratico, perché solo con il consenso dei cittadini si può imporre il principio secondo cui i tecnicismi giuridici (oggi in auge) non hanno ragioni autonome di sussistenza, ma sono unicamente strumentali a una visione precisa dei bilanciamenti delle istituzioni, sia per quanto riguarda i poteri apicali dello Stato (esecutivo/rappresentativo/ giudiziario), che per quanto riguarda i rapporti tra questi poteri, gli organi di controllo e i poteri locali (le autonomie).

Vincoli costituzionali tra i cittadini

Un altro effetto positivo della mobilitazione dei cit-tadini consisterà nel fatto che si riuscirà finalmente

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a contrastare la tendenza, prevalente nella cultura politica e giuridica, a privilegiare il carattere procedu-rale della democrazia rispetto ai suoi valori fondanti.

Ma soprattutto potrà finalmente imporsi l’idea essenziale secondo cui  – nel campo dei diritti civili e sociali, delle persone e delle imprese – i cittadini sono legati da vincoli che vanno oltre gli interessi particolari e le strategie politiche. Sicché, per esempio, creare condizioni di lavoro per i giovani dovrebbe essere considerato oggi non solo una delle espressioni più alte della solidarietà democratica, ma anche un vincolo costituzionale che nessuna forza politica può eludere.

Tra politiche nazionali e vincoli internazionali

Le politiche domestiche degli Stati sono ormai cir-coscritte da indirizzi e scelte, assunti dagli organismi sovranazionali, che tendono a limitare le sovranità nazionali. È in ogni caso certo che le istituzioni demo-cratiche dell’Unione Europea, pur non avendo potere diretto di governo sui paesi membri, sono legitti-mate ad applicare specifici modelli di governance in vari campi della vita pubblica, dall’economia alla giurisdizione.

Tale indirizzo (peraltro inarrestabile), rendendo obsoleta ogni controversia sul ruolo più o meno

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imprenditoriale dei singoli Stati, lascia loro la funzione di supremi organi regolatori della vita civile.

Di tali situazioni le tradizionali formazioni politiche hanno avuto finora scarsa o insufficiente consapevolezza: un nuovo partito fondato sui valori della democrazia partecipativa non ne può prescindere nella formulazione di qualsiasi progetto di ripresa economica e di innovazione civile che miri a migliorare le condizioni di vita (ormai intollerabili) in cui versano fasce sociali sempre più ampie e soprattutto i giovani e gli anziani.

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4.

LE REGOLE CHE CI SIAMO DATI

Abbiamo redatto il testo dello Statuto in conformità alla normativa vigente (con riferimento, in partico-lare, al D.L. n. 149 del 2013), dalla quale ci siamo discostati solo in materia finanziaria, perché abbiamo ritenuto di doverci dare regole molto più restrittive di quelle previste dalla legge.

Qui di seguito richiamiamo gli aspetti più importanti dello Statuto di «Democrazia Partecipativa» il cui testo integrale, facilmente accessibile sul nostro sito, sarà sottoposto per l’approvazione al prossimo Congresso degli iscritti.

1. Finanziamento. – In materia di finanziamento abbiamo escluso che, ordinariamente, il Partito possa accettare contributi dalle società commerciali che gestiscono imprese e abbiamo posto un tetto di 20.000 euro alle contribuzioni di tutti gli altri soggetti. Com’è noto, il citato D.L.149/2013 consente che ogni soggetto – compresa dunque la società commerciale – possa versare contributi fino a 100.000 euro.

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4. Le regole che ci siamo dati

Ci rendiamo conto che questa scelta restringe di molto la possibilità di finanziamento del nuovo Partito e può metterne seriamente a rischio la sopravvivenza. Ma noi siamo fermamente convinti che le società commerciali non possano finanziare la politica: lo possono fare un imprenditore o un azionista di maggioranza, a titolo personale, non certo le società in quanto tali.

Ad ogni modo abbiamo fatto questa scelta in perfetta consapevolezza, mettendo anche in conto di dover abbandonare il campo qualora i cittadini ci facciano mancare il loro sostegno. D’altra parte, che senso avrebbe adottare modalità di finanziamento che, con ogni probabilità, finirebbero per tradire i fini del nuovo Partito, o ostinarsi a mantenerlo in vita, anche se i cittadini mostrassero di non apprezzarlo abbastanza?

2. Quota d’iscrizione. – Abbiamo fissato in 10 euro, fino al 31.12.2015, la quota d’iscrizione al Partito perché pensiamo che questa cifra sia più o meno alla portata di tutti e non costituisca, per chi desideri iscriversi, una barriera all’ingresso nel Partito.

Naturalmente, anche per le ragioni esposte più sopra, ci auguriamo che chi possa dare una somma maggiore, lo faccia.

Democrazia partecipativa

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Dal canto nostro, oltre ad assicurare la più grande trasparenza della gestione, ci impegnamo a rendicon-tare analiticamente le spese sostenute dal nostro partito, che in ogni caso non prevedono nessun genere di compenso ai dirigenti e che comunque dovranno essere ridotte all’essenziale.

3. Simpatizzanti. – Accanto alla figura del tesserato abbiamo previsto quella del simpatizzante (che non sarà tenuto ad alcun pagamento), e ciò allo scopo di avvicinare le persone interessate, che, pur non ritenendosi pronte ad impegnarsi attivamente nel Partito, ne condividono gli ideali e desiderano essere informate sulle sue iniziative.

4. Scuola di cultura politica. – È prevista la costitu-zione di una Scuola di cultura politica che organizzerà vari tipi di corsi e li strutturerà in modo che essi possano essere agevolmente seguiti, anche a distanza, da iscritti e simpatizzanti.

5. Decentramento, Autogestione, Rete territoriale. – Puntiamo con decisione su un forte decentramento territoriale e sulla costituzione di gruppi locali, che potranno assumere anche la forma delle tradizionali sezioni.

Questi gruppi o sezioni promuoveranno il dialogo e

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4. Le regole che ci siamo dati

il dibattito di idee tra iscritti, simpatizzanti e semplici elettori.

I gruppi locali, comunque strutturati, saranno retti dalla regola della più ampia autogestione anche per quanto riguarda la scelta delle candidature in tutte le consultazioni elettorali che interessano il territorio del gruppo stesso.

Per stimolare la costituzione di una forte rete territoriale saranno effettuati appositi accantonamenti di bilancio con questa specifica destinazione, in una logica solidaristica.

6. Formazione dei gruppi locali. – Per favorire la più ampia e libera partecipazione dei cittadini e l’emergere di una nuova classe dirigente, abbiamo previsto che, in una prima fase, l’iscrizione al Partito faccia capo alla sede centrale di Roma.

Quando gli iscritti residenti in un dato Comune abbiano raggiunto il 2 per mille della popolazione residente (con un minimo e un massimo), la sede centrale comunicherà agli iscritti che vi sono le condizioni per istituire, in quel Comune, un gruppo locale. Si metterà così in moto un processo che porterà alla costituzione del gruppo locale e all’elezione dei dirigenti. Da quel momento le nuove adesioni di residenti in quel Comune faranno capo direttamente al gruppo locale.

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5.

L’ITALIA HA BISOGNO DI UN

«PROGETTO-PAESE»

L’Italia soffre di molti mali che vengono da lontano. Sono almeno 20 anni che il nostro Paese cresce in modo stentato, e in ogni caso mediamente meno degli altri paesi europei.

Inesorabilmente, a causa di questi suoi mali, l’Italia – priva di una cura adeguata – non può che andare incontro al suo declino, che sarà non solo socio-economico, ma anche identitario.

Se vogliamo evitare il peggio, dobbiamo adottare opportune e rapide misure, che non potranno essere, com’è accaduto fin qui, occasionali, estemporanee, slegate e talora incoerenti, ma saldamente connesse in una complessa strategia di interventi diversi ma convergenti.

Proprio per dare la necessaria coerenza agli interventi è indispensabile un «Progetto-Paese», un progetto che elimini ogni forma di improvvisazione nell’azione di governo e le conferisca la necessaria

5. L’Italia ha bisogno di un «Progetto-Paese»

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organicità, senza la quale è vano pensare di uscire dalle difficoltà in cui ci dibattiamo.

Il «Progetto-Paese» ci aiuterà – l’abbiamo già detto – anche a fare chiarezza sui nostri rapporti con l’Europa. Questo è un punto decisivo. Noi dobbiamo dar prova concreta all’Europa che vogliamo effettivamente, sia pur con la dovuta gradualità, rientrare nelle regole. Dobbiamo mettere da parte sotterfugi e arroganza perché lo esige la serietà del nostro Paese e perché alla lunga essi si rivelano sostanzialmente inutili.

Un altro suo effetto positivo sarà quello di risve-gliare in noi cittadini il senso di appartenenza ad una grande nazione, ricca di storia e di tradizioni, desiderosa di recuperare il posto che ha avuto nella storia del mondo: un senso di appartenenza ormai pressoché smarrito, anche perché i governi che negli ultimi decenni si sono succeduti non hanno fatto nulla per custodirlo e vivificarlo, e così hanno finito con l’operare in senso opposto.

A parte tutto questo –  e non è poco! – un grande «Progetto-Paese» è indispensabile anche per due altre ragioni:

– perché è necessario che noi decidiamo quale ruolo vogliamo avere nel mondo globalizzato,

– perché solo con un Progetto del genere si potrà

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avviare l’ineludibile riforma della nostra macchina amministrativa.

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6.

UN PROGETTO PER IL NOSTRO PAESE.

I. IL RUOLO DELL’ITALIA NEL MONDO GLOBALE

la difficile entrata dell’italia nel mondo globale

Alcuni fenomeni economici del mondo globale

La cosiddetta globalizzazione – indotta principal-mente da una generalizzata riduzione dei costi di trasporto e da una spettacolare innovazione nel campo delle comunicazioni – ha aperto la strada ad una nuova divisione mondiale dei compiti, del lavoro e delle produzioni.

In questa nuova divisione dei compiti, in cui non c’è posto per l’approssimazione, ma solo per l’eccellenza e la capacità di produrre a costi sempre più bassi, le aziende ben amministrate tendono ad attenersi a due semplici (e banali) regole:

– concentrarsi sulle produzioni più sicure (per le quali credono di avere qualche vantaggio competitivo), rinunciando tempestivamente a quelle che per un motivo o per un altro sembrano essere problematiche;

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6. Un progetto per il nostro Paese. I.

– abbandonare i Paesi nei quali, per un insieme di ragioni, si produce a costi alti, per trasferirsi in Paesi che offrono migliori condizioni; scelta, questa, che comporta di regola effetti devastanti sia sui lavoratori del paese abbandonato, che si trasformano ipso facto in disoccupati, sia sulle altre imprese del distretto industriale.

A parte il caos indotto dalle dislocazioni, la globalizzazione ha imposto un importante elemento di novità ai tradizionali flussi di scambio delle merci, e cioè:

– la loro crescita vertiginosa, continuamente stimolata dalla frenetica specializzazione delle produzioni e dal bisogno di mercati sempre più vasti (spesso coincidenti con l’intero globo terracqueo); una crescita, questa, a cui è ragionevole pensare che, nei prossimi decenni, farà seguito un incremento spettacolare dei flussi umani (da regione a regione, da continente e continente).

Potenzialità e limiti dell’Italia di fronte alla globalizzazione

Guardando alle potenzialità dell’Italia, se ci chiediamo come essa si collochi in questo scenario e quali siano le sue prospettive, il giudizio potrebbe essere positivo,

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pensando ai vantaggi competitivi che il nostro Paese, in passato, si è guadagnato in molti settori.

Se invece guardiamo a quello che si è fatto fin qui, il giudizio non può che essere negativo: in Italia si è sempre parlato tanto di globalizzazione (e sempre in termini generici), ma non si è mai presa una decisione operativa e coerente su questo difficile tema.

Le aziende si sono mosse in un contesto tutt’altro che chiaro, barcamenandosi come hanno potuto. E non hanno potuto concludere molto, anche perché era difficile per loro operare da sole in uno scenario così difficile e complesso, tanto più che le aziende concorrenti (come, per es., quelle francesi, tedesche, ecc.) godevano del supporto significativo delle istituzioni dei loro paesi.

Le nostre imprese si sono preoccupate principal-mente, com’è naturale, del loro conto economico, e spesso – bisogna dirlo – in una visione non sempre di ampio respiro. Ma questo non poteva bastare, e ancora meno potrà bastare in futuro, tenendo presente che nel frattempo le loro condizioni sono peggiorate. Ed è difficile che in futuro possano – da sole – fare meglio di quello che hanno fatto finora.

È senz’altro fondata l’opinione della stragrande maggioranza degli italiani e della totalità dei più

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6. Un progetto per il nostro Paese. I.

competenti commentatori di politica ed economia, italiani ed esteri, secondo cui il declino dell’Italia è essenzialmente da imputare non alle aziende o alla fatalità, ma alla politica. E questo perché è la politica la maggiore responsabile delle tre più gravi debolezze dell’Italia in questo ambito:

– la mancanza di una strategia-paese capace di fronteggiare i problemi della globalizzazione e di coglierne gli innegabili vantaggi;

– l’incapacità di orientare le imprese e lo sviluppo nella fase più critica dello sconvolgimento degli assetti tradizionali;

– l’assoluto disimpegno dello Stato in materia di ricerca e di innovazione (e non solo), quando era urgente, nella difficile congiuntura, che esso si assumesse il ruolo di regista (e insieme di attore protagonista) delle ardue contromisure da adottare, e cioè il ruolo di colui che si assume i rischi dell’azione strategica da mettere in campo, che per definizione non era (e continua a non essere) alla portata delle singole imprese.

Necessità di una svolta radicale in politica

La situazione attuale richiede un cambiamento signi-ficativo di rotta, perché i vantaggi competitivi sui

Democrazia partecipativa

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quali possiamo ancora contare, se non opereremo con la dovuta razionalità e tempestività, sono destinati a svanire da un momento all’altro o ad essere drastica-mente ridimensionati.

Perché questo non accada, è necessario che la politica e lo Stato non lascino sole le imprese di fronte a questa importante sfida della modernità.

La politica deve agire e deve farlo in fretta, creando condizioni idonee allo sviluppo delle imprese, tenendo presente che in un mondo globale la competizione si sviluppa non solo tra le imprese, ma anche tra gli ordinamenti dei Paesi nei quali esse operano, costringendoli ad essere attenti alle esigenze della produzione, sia per trattenere nel proprio paese le imprese nazionali, sia per attrarre quelle straniere.

In Italia tradizionalmente la politica non presta attenzione a questi aspetti. Da anni continua a fare leggi il più delle volte oscure e paralizzanti. E ora che se ne sta rendendo conto, invece di fare mea culpa, se la prende con la burocrazia, sulla quale cerca di scaricare le proprie responsabilità. Ma la colpa è della politica, che legifera in modo caotico e senza un preciso disegno, non certo della burocrazia che – avrà pure tanti difetti, ma non quello di non darsi da fare perché la Legge sia rispettata.

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6. Un progetto per il nostro Paese. I.

quale progetto per l’italia? una proposta e due punti fermi

Un primo punto fermo: un «Testo Unicosull’attività d’impresa»

Al punto in cui è giunta la confusione normativa crediamo che occorra un Testo Unico sull’attività d’impresa che dica con chiarezza a chi vuole fare impresa quali sono le norme a cui deve sottostare e le sanzioni in caso di inosservanza. Il Testo Unico dovrebbe essere anche l’occasione per abrogare formalmente le tante leggi e leggine esistenti in materia. Si dirà che quella qui prospettata è un’operazione non facile. È vero: l’operazione è tutt’altro che facile. Ma proprio per questo è indispensabile: non possiamo chiedere a chi vuol fare impresa di rispettare leggi di cui non si riesce a fare un tutto organico in un apposito Testo Unico.

Un esempio di progetto ad alto tasso di «vantaggio competitivo»

Sono tanti i settori produttivi della nostra economia che hanno le potenzialità per essere varati – con appositi programmi d’intervento e dopo aver ascoltato e coinvolto gli operatori di tali settori – come grandi aree di sviluppo.

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Fra questi il turismo è quasi certamente il settore a più alto tasso di vantaggio competitivo.

È opinione largamente diffusa che il nostro Paese, integrando opportunamente patrimonio artistico e monumentale, musica, cinema e teatro, bellezze paesaggistiche, mitezza del clima, artigianato, agricoltura di qualità, moda, buona cucina e tante altre cose, possa diventare la prima meta turistica del mondo… un Paese che, almeno una volta nella vita, ogni abitante (di media cultura) del nostro pianeta (globalizzato) dovrebbe visitare!

Ma prima che l’idea decolli come «Progetto-Italia» è necessario avere le risposte a queste (e tante altre) domande:

– Chi fa questa integrazione? – Chi riesce a far dialogare migliaia e migliaia di

piccole imprese? – Chi promuove l’immagine dell’Italia nel mondo? – Chi garantisce soprattutto al turista straniero la

qualità del servizio e dell’accoglienza? –  Chi costruisce il progetto e ne definisce i

contenuti?Per l’insieme di queste domande la risposta non

può essere che una sola: in mancanza di grandi imprese polisettoriali, chi può svolgere tutti questi

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6. Un progetto per il nostro Paese. I.

compiti è solo lo Stato, che naturalmente non dovrà fare l’albergatore o il ristoratore o la guida turistica, ecc., ma dovrà svolgere la funzione nevralgica di orientare indirettamente il comportamento di una miriade di piccole e piccolissime imprese, svolgendo un ruolo propulsivo e di coordinamento (rilasciando, per es., un apposito «bollino» alle imprese che hanno determinati requisiti e si impegnano a tenere un certo comportamento in materia di qualità e di prezzo dei loro beni e servizi, ecc., attivando forme di controllo agili ed efficaci, ecc.).

Come si vede, non si tratta di attività che richie-dono forti investimenti di capitale, i quali del resto potrebbero rivelarsi anche remunerativi.

Resta comunque il fatto che lo Stato può fare quello che realisticamente nessuno dei tanti piccoli e piccolissimi operatori è in grado di fare: costruire un progetto, dargli credibilità soprattutto all’estero e, con opportune tecniche di comunicazione, garantirgli il sostegno dei cittadini che vi dovranno vedere una tappa del rilancio del Paese.

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Un secondo punto fermo: chi si assume il rischio strategico?

In un Progetto come questo lo Stato non dovrebbe assumere alcun compito operativo. Dovrebbe avere il solo ruolo di realizzatore delle eventuali infrastrutture occorrenti (materiali e immateriali), di divulgatore e, all’occorrenza, del soggetto che si assume i rischi che non siano alla portata dei privati.

Il tema dell’assunzione del rischio è una questione nevralgica per il nostro Paese, soprattutto dopo lo smantellamento, una ventina d’anni fa, del sistema delle partecipazioni statali, quando l’Italia è diventata sostanzialmente un’economia di piccole e medie imprese.

Ad imprese di queste dimensioni, per quanto intraprendenti e vivaci, non si può chiedere di assumere iniziative che comportano lunghi tempi di attesa, forti investimenti e l’assunzione di elevati rischi. Ci sono solo due opzioni: o si promuove la crescita di grandi gruppi polisettoriali capaci di assumersi grandi rischi (pensiamo, per fare solo un esempio, a quelli connessi con l’invenzione di nuovi materiali) o si fa in modo che – con le opportune tecniche – sia lo Stato a farsene carico.

Continuare a ignorare il problema farà pagare un prezzo molto alto al nostro Paese: lo conferma il fatto

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6. Un progetto per il nostro Paese. I.

che negli ultimi decenni – a differenza di quanto era accaduto in passato – nessuna delle grandi invenzioni che hanno cambiato la vita dell’umanità può essere attribuita ai nostri ricercatori e ai nostri laboratori.

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7.

UN PROGETTO PER IL NOSTRO PAESE.

II. UNA NUOVA MACCHINA AMMINISTRATIVA

non spending review ma ristrutturazione

Naturalmente non basta avere idee chiare sul ruolo dell’Italia nel mondo globalizzato, occorre anche una buona «macchina amministrativa», competente e veloce. Cosa tanto più difficile da ottenere quanto più quella di cui adesso disponiamo è lenta (gravata com’è da procedure macchinose) e costosa (come ogni macchina invecchiata male).

A risolvere il problema non basta certamente la cosiddetta spending review che, per come è concepita, è essenzialmente un fatto di immagine, destinato a brillare in superficie (come una falsa pietra preziosa). Nella migliore delle ipotesi essa può eliminare qualche spreco, ridurre qualche costo, ma non riuscirà ad incidere sull’efficienza, la quale anzi, a seguito di tagli non sempre ben meditati, può addirittura peggiorare.

Bisogna avere il coraggio di mettere in discussione

7. Un progetto per il nostro Paese. II.

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tutta la nostra Amministrazione nei suoi principi, nei suoi metodi, nella sua prassi.

Anche un superficiale osservatore non avrebbe difficoltà ad accorgersi che essa abbonda di sovrappo-sizioni e di passaggi inutili, che sono motivo non solo di aumenti dei costi ma anche di disagio dei cittadini. Del resto se ripercorriamo la storia e il processo di formazione della nostra Pubblica Amministrazione ci rendiamo conto che essa si è venuta formando, in oltre 150 anni, per stratificazioni successive, spesso senza un chiaro disegno unitario, presente forse solo nei primi anni dell’unità d’Italia.

primo passo: definire i livelli di governo

Non è questa, naturalmente, la sede per analisi storiche. Qui dobbiamo domandarci che cosa si può fare per rendere l’Amministrazione Pubblica più efficace e meno costosa.

A nostro parere occorre cominciare dai livelli di governo, affrontando senza reticenze alcune questioni, al cui confronto la spending review è un esercizio per scolaretti. Basti solo qualche esempio:

– Le Regioni sono davvero necessarie? – Sono solo un organo decentrato amministrativo

o debbono avere potere legislativo?

Democrazia partecipativa

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– E le Province? Attualmente le Regioni si occupano in prevalenza

di sanità, con risultati assai discutibili e con la conseguenza che, invece di un Servizio Sanitario Nazionale, abbiamo una ventina di Servizi Sanitari Regionali, molto diversi tra loro per efficienza e per costi. Mediamente il servizio reso al Sud è inferiore a quello reso al Nord, mentre se vi fosse effettivamente un Servizio Sanitario Nazionale, a direzione unitaria, le cose andrebbero probabilmente meglio, perché ci si uniformerebbe alla migliore pratica e si realizzerebbero movimenti di personale in grado di innalzare la qualità del servizio.

Per quanto poi riguarda le Province, non si è ancora capito se e come esse siano state soppresse. Non entriamo nel merito, ma è chiaro che, se si decide di sopprimerle, occorre farlo con metodo e con chiarezza, per evitare disagi ai cittadini e ridurre i contraccolpi sui lavoratori.

secondo passo: ridefinizione dei compiti e delle responsabilità

Una volta definiti i livelli di governo, si procede ad una ridistribuzione razionale dei compiti e delle responsabilità.

7. Un progetto per il nostro Paese. II.

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È solo a questo punto che si può riuscire a porre correttamente due questioni molto delicate, e continuamente evitate dalla politica:

– il grande tema del decentramento del potere d’imposizione tributaria.

– la solidarietà tra le varie parti del Paese. In queste materie vanno escogitati meccanismi

capaci di stimolare le Amministrazioni locali a svolgere sempre meglio le loro funzioni. Tali meccanismi debbono essere semplici e, soprattutto, debbono essere fatti conoscere per tempo a tutti i cittadini, e non solo per un bisogno di trasparenza, ma perché essi possano contribuire al loro migliore funzionamento.

le scorciatoie inconcludenti

Quella qui delineata è un’operazione assai complessa che richiede anni di lavoro e l’apporto di persone specializzate nella gestione delle grandi organizza-zioni. Ma è un’operazione inevitabile, se si vuole dare una vera e duratura svolta alla nostra Pubblica Amministrazione.

Non vi sono scorciatoie. O meglio, le scorciatoie ci sarebbero, ma – come si sa  – in cose di questo genere allungano la strada, e non portano a destinazione!

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E infatti le scorciatoie, in questioni di tale gravità, generano solo confusione, polemiche, disservizio, causando avvilimento in chi fa il proprio dovere e offrendo un alibi a chi non lo fa.

A ben vedere, la spending review è un buon esempio di scorciatoia inconcludente, o meglio (tenendo conto delle buone intenzioni e di qualche aspetto positivo) poco concludente, perché essa, se ha eliminato qualche vistoso spreco (per altro ben noto e facilmente percepibile), ha soprattutto alimentato interminabili polemiche non solo da parte di chi ritiene, a ragione o a torto, d’essere stato colpito da determinati tagli, ma anche da parte di chi ritiene, più o meno a ragione, che questo o quel taglio pregiudichi l’efficacia dell’azione dell’Amministrazione con conseguente disagio dei cittadini. Ma la cosa decisiva è un’altra, e cioè che – nel migliore dei casi – essa ha eliminato qualche sperpero, ma non ha migliorato in nulla la macchina amministrativa, anzi l’ha peggiorata… anche perché è di gran lunga meglio che un impiegato (o un funzionario) dello Stato abbia sul suo tavolo due matite invece di una sola (che forse potrebbe essere sufficiente), piuttosto che rischiare di non averne nessuna!

Lo stesso discorso vale per la informatizzazione

7. Un progetto per il nostro Paese. II.

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della Pubblica Amministrazione. È innegabile che questa debba modernizzare il proprio modo di lavorare e debba utilizzare le migliori tecniche informatiche. Ma una tale operazione non può essere avviata a caso (da questo o quel Ministero, da questa o da quella Direzione Generale). Occorre un disegno unitario che chiarisca il punto di arrivo e i tempi di attuazione, e che sappia coinvolgere i cittadini, aiutandoli – se occorre – a prepararsi opportunamente alla novità di una Pubblica Amministrazione informatizzata.

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8.

UN PROGETTO PER IL NOSTRO PAESE.

III. UN NUOVO WELFARE

i tre assi portanti del «progetto-paese»

Nei due capitoli precedenti abbiamo visto due dei tre assi portanti del «Progetto-Paese»:

– lo sviluppo dell’economia,– la revisione radicale della macchina amministrativa.Qui ci soffermeremo sul terzo:–  la costruzione di un sistema di welfare (nel

significato che comunemente si dà a questa espressione) rispettoso dell’uomo e della sua dignità.

Il primo e il terzo asse – economia e welfare – sono inscindibilmente legati, costituendo insieme l’unitario sistema socio-economico del Paese, il cui funzionamento ottimale dovrebbe essere supportato dal secondo asse (una buona macchina amministrativa).

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8. Un progetto per il nostro Paese. III.

l’asse del welfare e la metafora della torta

Una metafora di cui ci si serve volentieri per descrivere alcune importanti dinamiche in tema di welfare è quella della divisione della torta.

Secondo la versione più comune della metafora, la migliore soluzione sarebbe quella di far sempre la torta quanto più grande è possibile, per poterla poi distribuire meglio.

Ma questa soluzione, in apparenza così sensata, è – a ben vedere – del tutto estranea alla logica del reale. E infatti, siccome la dimensione di una torta dipende sempre dal modo in cui si intende dividerla (distribuirla), non ha senso dire: “prima ingrandiamo la torta e poi la distribuiamo”. Produzione e distribuzione sono fenomeni interdipendenti, nel senso che i meccanismi distributivi incidono fortemente sulla quantità della produzione.

due opposte concezioni di welfare

Il tipo di società che «Democrazia Partecipativa» ha in mente attribuisce al welfare una posizione molto alta nella gerarchia della spesa pubblica, diversamente da quanto accade oggi nel nostro Paese, dove esso viene di solito considerato come qualcosa di residuale (… “se rimane qualcosa in cassa, lo si da in welfare”), e

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si è sempre pronti, in caso di necessità, ad utilizzare questo residuo come volano per aggiustare i conti statali.

Sappiamo bene che, se si toglie al welfare l’attuale carattere residuale e, di conseguenza, se ne irrigidisce l’onere, si irrigidisce anche il bilancio dello Stato. Né ignoriamo i complessi problemi di sostenibilità che la sua posizione alta nella gerarchia della spesa comporta. Ma queste ed altre simili difficoltà non riescono a mettere in discussione la centralità del welfare in una società che non voglia perdere di vista l’uomo e la sua dignità.

Naturalmente i conti debbono quadrare, altrimenti si costruiscono castelli di sabbia. E per farli tornare non c’è altra soluzione che crescere. E, per crescere, non si conosce finora altro modo che mettere le imprese in grado di competere alla pari sui grandi mercati internazionali. Cosa, quest’ultima, che si riesce a garantire solo se si consente alle tante persone che hanno idee e capacità innovative di esprimerle al meglio.

il problema della sostenibilità

Il problema della sostenibilità del welfare non va sot-tovalutato, ma non va neppure ingigantito. Nel nostro Paese vi sono ancora ampi margini per recuperare

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8. Un progetto per il nostro Paese. III.

efficienza, soprattutto attraverso una migliore orga-nizzazione dei servizi, che dovrebbe mirare a due obiettivi principali:

– dare maggiore spazio agli effettivi portatori di bisogno,

– riservare allo Stato non il ruolo di produttore ma quello – ben più importante – di garante del buon funzionamento del sistema dei servizi.

Naturalmente non si può escludere che, in caso di crisi particolarmente gravi, anche le risorse per il welfare possano subire tagli. Ma dovrebbe trattarsi in ogni caso di tagli sostenibili. E, soprattutto, le procedure per effettuarli dovrebbero essere stabilite in anticipo – ad esempio in sede di approvazione parlamentare dei bilanci preventivi, precisando come debbano essere fatti gli «aggiustamenti» dei conti qualora la finanza pubblica abbia un andamento difforme dalle previsioni e in quali specifiche condizioni possano essere ridotte le spese per il welfare.

Noi siamo convinti che il nostro sistema di welfare (oggi caratterizzato da sovrapposizioni, alti costi di gestione e gravi inefficienze) potrebbe essere reso più efficace, a parità di condizioni, anche da una sua semplice revisione generale, che potrebbe liberare

Democrazia partecipativa

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risorse sufficienti a renderlo più sicuro o meglio articolato, migliorare la qualità dei servizi, risolvere alcuni gravi problemi endemici.

Nella nostra sanità vi sono casi di eccellenza, dovuti per lo più all’abnegazione e allo spirito di sacrificio di singole persone particolarmente motivate. Ma è un fatto che le persone povere fanno fatica a curarsi. Molte patologie sono curate solo parzialmente e, spesso, proprio nella fase più delicata, il paziente viene abbandonato a se stesso. Una conferma di questa amara realtà l’abbiamo dalla circostanza che in Italia una delle principali cause dell’usura è proprio la sanità. Si può discutere quanto si vuole sull’usura e sulla sanità. Resta il fatto che tra l’una e l’altra non dovrebbe esserci alcuna connessione; e invece c’è ed è anche molto stretta.

il welfare come diritto di cittadinanza

D’altra parte, quand’anche vi fossero seri problemi di costo per conservare un buon livello di welfare, rimarrebbero pur sempre queste domande:

– come rassegnarsi all’idea che i concittadini in difficoltà debbano ricevere come elemosina ciò che dovrebbe essere loro dovuto per diritto di cittadinanza?

– quale futuro può avere una società che non

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8. Un progetto per il nostro Paese. III.

riesce a soddisfare i bisogni essenziali di una parte dei suoi componenti e perciò stesso è soggetta a forti lacerazioni del tessuto civile?

Sarebbe molto miope un comportamento che guardasse solo agli aspetti di breve termine e non s’interrogasse sugli effetti di lungo periodo. In questa materia la miopia, col tempo, non paga. Non si può ridurre un fatto di grande rilevanza etico-politica, un fatto di civiltà – qual è un buon sistema di welfare – ad un mero problema di conti. Tagliare il welfare, negare a tante persone il minimo vitale, non è un’opzione! Vanno esplorate altre strade per tenere in equilibrio i conti pubblici.

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9.

TRA SVILUPPO E WELFARE

chi deve farsi carico del welfare?

Non c’è dubbio che, nel mondo sempre più compe-titivo della globalizzazione, il welfare vada protetto, riformato e migliorato. D’altra parte, per garantire questa protezione e questo miglioramento, è indi-è indi- indi-spensabile consentire all’economia del Paese di crescere e svilupparsi. Nemmeno di questo è lecito dubitare.

Questo significa che la tutela (sempre più necessaria e onerosa) dei soggetti che non reggono il ritmo della competizione  andrà garantita con criteri che non compromettano l’economicità delle imprese. E infatti è privo di senso comune pensare di scaricare su di esse (come si fa oggi in Italia) la protezione dei soggetti deboli, obbligandole ad assumere lavoratori scelti in determinate categorie, oppure imponendo loro forti limiti alla rescissione dei rapporti di lavoro, ecc. In questo modo non si fa che indebolire la loro capacità

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9. Tra sviluppo e welfare

di competere e, alla lunga, si rende assai precaria la tutela stessa dei lavoratori.

Se si vuole ottenere la crescita dell’economia – indispensabile per il sostegno del welfare –, si deve consentire alle imprese di recuperare flessibilità anche nel campo del lavoro. E di recuperarla in fretta.

Ma – sia chiaro – flessibilità dell’impresa non vuol dire, per noi, precarietà dell’occupazione e del lavoro, perché contrastare quest’ultima è altrettanto essenziale quanto proteggere l’altra. L’impegno deve consistere nel trovare soluzioni che rendano compatibili le due cose.

E queste soluzioni ci sono, purché si abbandoni l’idea che alla sicurezza dei lavoratori debbano comunque provvedere le imprese in cui questi prestano la loro opera; e infatti, se si vuole dare vera stabilità alla tutela dei più deboli, non si può pensare di caricare sulle imprese oneri che alla lunga esse non potrebbero sopportare.

Tuttavia abbandonare tale idea non è possibile se non si mette in discussione il convincimento che la sorregge, vale a dire la tesi che tra capitale e lavoro non possa esserci che un rapporto conflittuale, sicché quando le parti hanno in qualche modo raggiunto un’intesa lo Stato non avrebbe più niente da dire.

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E invece compito dello Stato dovrebbe essere quello di non accontentarsi di apparenti soluzioni dei conflitti tra capitale e lavoro, ma collaborare alla neutralizzazione delle cause che li scatenano o li alimentano. Pensando di rinunciare a questa sua alta responsabilità, scaricando la patata bollente sulle imprese, lo Stato non solo non assolve ad un suo preciso compito, ma nuoce alle imprese e finisce alla lunga col danneggiare gli stessi lavoratori.

Anche se non è facile liberarsi da idee e prassi così fortemente radicate nella nostra cultura, bisognerà provarci, nella consapevolezza che può riuscirci solo una politica rinnovata in profondità dalla partecipazione dei cittadini.

proteggere l’impresa per proteggere il welfare!

Resta naturalmente il fatto che lo sviluppo è opera delle imprese e che la politica deve prestare la massima attenzione ai loro problemi, e non certo per arricchirne i proprietari, ma per far sì che le imprese possano competere sempre più efficacemente nel mondo globale.

Occorre cioè una vera e propria politica dell’impresa, che tra l’altro crei le condizioni per una corretta cultura d’impresa.

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9. Tra sviluppo e welfare

Oggi nel nostro Paese questa cultura è praticamente assente, intrisa com’è di luoghi comuni, di preconcetti e di idee francamente sbagliate. Ma più che ricercare le cause di questa situazione, qui ci interessa ribadire tre concetti sul ruolo e sul funzionamento dell’impresa.

Il primo è che la produzione di beni e servizi, come fonte di occupazione e di soddisfacimento dei bisogni dell’uomo, può essere modellata nei modi più vari e senza che implichino necessariamente il profitto d’impresa. Ma, dopo il fallimento di tante ipotesi, questi modelli vanno ancora ricercati e collaudati. Sicché per adesso serie alternative all’impresa tipica (all’impresa volta al profitto) non sono ancora emerse.

Il secondo è che, certamente, altri modelli – come quelli non profit, cooperativistici, ecc. – si possono af-fiancare all’impresa volta al profitto, ma è innegabile che questa rimane il modello di gran lunga più fun-zionale allo sviluppo.

Il terzo è che, si cerchino pure altri e più efficaci modelli di produzione, ma intanto si faccia funzionare al meglio l’impresa e si renda meno problematico (e possibilmente anche più amichevole) il contesto in cui essa deve operare. E lo si faccia, prendendosi cura dei fattori che incidono sulle scelte d’impresa in materia di crescita e di localizzazione.

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una fiscalità per lo sviluppo

Tra i fattori che più hanno bisogno di interventi c’è certamente il trattamento fiscale, che in Italia è estremamente confuso, oltre che molto oneroso.

In questa materia sono indispensabili essenzialmente due cose: chiarezza nella normativa e meccanismi idonei a stimolare gli investimenti.

Per quanto riguarda il primo punto, basterebbe il già ricordato Testo Unico sull’attività d’impresa, destinato ad essere il cuore di una politica di crescita della nostra economia.

Sul secondo punto bisognerebbe varare una vera e propria fiscalità per lo sviluppo, che affermi il principio che – in materia d’imposizione diretta – le imprese non sono soggetto d’imposta, mentre lo sono coloro (a cominciare dagli azionisti e dagli investitori di capitale in genere) che percepiscono da esse dei redditi. In tal modo, tra l’altro, si combatterebbe energicamente l’evasione, oggi in parte dovuta proprio al groviglio di norme in materia di determinazione del reddito d’impresa. E inoltre si accrescerebbero le possibilità di autofinanziamento delle imprese (grazie al fatto che, fino a quando non è distribuito, il reddito è esente da imposta) e si favorirebbe il loro sviluppo.

Una trasformazione di questo tipo può essere

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9. Tra sviluppo e welfare

fatta anche gradualmente, ma è innegabile che il suo solo annuncio darebbe una vera e propria scossa al mondo imprenditoriale e consentirebbe di vincere uno dei mali endemici del nostro apparato produttivo, costituito dalla scarsità del cosiddetto capitale di rischio. E infatti il nostro Paese ha sì (o meglio l’aveva fino a qualche anno fa) una certa abbondanza di risparmio – che è cosa diversa dal capitale di rischio, pur avendo con esso stretti legami –, ma soffre di una grave carenza di capitale disposto a correre l’alea dell’impresa, o – in altre parole – non riesce a trasformare il risparmio in capitale di rischio, probabilmente anche a causa di un trattamento fiscale che, nel finanziamento dell’impresa, favorisce l’indebitamento.

La riforma radicale che qui si propone sembra essere – nelle attuali condizioni della finanza pubblica – di problematica attuazione, anche perché, almeno nei primi anni, potrebbe determinare un calo di gettito. Ma la sua introduzione, oltre a dare quella scossa di cui l’economia ha assoluto bisogno, potrebbe essere l’occasione per aprire un dialogo franco e sereno con l’Europa di cui non possiamo più fare a meno.

Di fronte ad un progetto serio, che porti nel tempo al riequilibrio dei nostri conti, l’Europa potrebbe

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anche accordarci ulteriori e controllati sforamenti di debiti e deficit.

A questo proposito è sciocco (oltre che inutile) rivendicare con arroganza la nostra autonomia. La verità è che la nostra autonomia è già compromessa, e non tanto per colpa dell’Europa ma per il livello di debito che abbiamo accumulato e per la nostra pervicace ostinazione a non prenderne atto. Un gesto di coraggiosa e responsabile umiltà potrebbe aiutarci, ci renderebbe più forti e ci darebbe un ruolo che, per ora, i nostri partner non ci riconoscono.

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10.

PER UN WELFARE MIGLIORE.I. LA DESTATALIZZAZIONE

destatalizzare non significa privatizzare

Per prima cosa giova ribadire il concetto di fondo. Non si può avere un buon welfare se l’economia non cresce. Chi desidera aiutare gli altri (in particolare i più bisognosi) a migliorare le proprie condizioni di vita, se non vuol fare opera vana, deve parallelamente monitorare lo stato di salute delle imprese. Se non c’è sviluppo dell’economia, non si può nemmeno assicurare a nessuno un buon welfare. Si fanno solo sterili denunce, vuote declamazioni di principio, vieta demagogia.

Ciò premesso, riteniamo che il nostro sistema di welfare – pieno di buchi e di incongruenze – debba essere profondamente ripensato, e a partire dalle sue basi, e cioè dal ruolo (così pieno di contraddizioni) che in esso occupa lo Stato – assente là dove ci sarebbe bisogno della sua presenza, e invece onnipresente (senza che la sua presenza garantisca equità e qualità

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10. Per un welfare migliore. I.

dei servizi) in situazioni in cui dovrebbe lasciare spazio ad altri soggetti.

La quadratura del cerchio può essere garantita solo da formule che per un verso coinvolgano sempre più i cittadini (sia i portatori di bisogno che coloro che vogliono dar loro una mano), e per un altro verso affidino allo Stato il ruolo di garante o anche, quando occorre, di finanziatore, ma non quello di gestore o erogatore del servizio. Occorrerebbero insomma soluzioni che in un modo o nell’altro mettano in moto un vasto processo di destatalizzazione della nostra società.

Destatalizzare non significa, per noi, semplicemente privatizzare, nel senso che questa parola ha abitual-mente di affidare alle imprese e al mercato compiti in precedenza svolti dallo Stato, e non significa nemmeno – come tanti credono (privilegiando un’altra accezione vulgata di privatizzare) – tagliare le spese, tagliare le imposte, ridurre sempre e comunque il ruolo del pubblico.

Destatalizzare è un’operazione molto più complessa, che definisce situazioni in cui lo Stato rinuncia al ruolo di produttore di servizi necessari ai cittadini e di interprete unico delle necessità delle persone e si limita a porre le condizioni perché gli

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stessi cittadini – anche con il suo aiuto – possano provvedervi direttamente, da soli o in concerto tra loro, divenendo così attori, arbitri delle scelte su materie che li riguardano da vicino.

Destatalizzare, insomma, non significa minore attenzione dello Stato e della politica in genere ai bisogni delle persone (e soprattutto delle più deboli), significa soltanto manifestare questa attenzione in modo diverso, in un modo che sia più rispettoso della persona, della sua dignità e dei suoi naturali diritti e, nello stesso tempo, più efficace, perché lascia maggiore spazio ai soggetti interessati.

una nuova accezione di destatalizzazione

Non c’è dubbio che gli uomini, nelle loro azioni, non sono mossi solo dal tornaconto personale. E infatti non sono poche le persone disponibili ad un impegno volontario gratuito in progetti di rilevanza sociale, soprattutto se esse possono scegliere il campo d’in-tervento e possono contribuire a definire le modalità della loro partecipazione.

Tenendo conto di questo ragionevole assunto sul comportamento umano, un programma di destalizzazione potrebbe prendere le mosse, nel nostro Paese, dai seguenti punti fermi:

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10. Per un welfare migliore. I.

a) la disponibilità a “dare una mano”. – La naturale disponibilità degli uomini a «dare una mano» è una straordinaria risorsa, destinata ad assumere rilievo sempre maggiore in conseguenza dell’allungarsi della vita media, perché è certo che in futuro l’uomo disporrà di più tempo libero rispetto ad oggi.

b) il potenziale della reciprocità. – In uno spirito di mutualità, l’uomo – l’uomo comune – è disposto a sacrificarsi per le persone in difficoltà, se sa di poter contare sulla reciprocità quando fosse lui a trovarsi in situazioni di bisogno.

c) volontariato d’impresa. – Come la persona fisica, anche l’impresa, nonostante punti al profitto, può essere disponibile a svolgere attività su basi volontarie e gratuite, a sostegno di iniziative socialmente utili. Si parla in proposito di volontariato d’impresa.

Alla radice di questo tipo di volontariato, c’è la constatazione che – per produrre – qualunque impresa deve disporre di una struttura produttiva, intesa come insieme coordinato di uomini e mezzi, i cui costi hanno carattere di rigidità, nel senso che sono indipendenti dalla maggiore o minore intensità della sua utilizzazione. Ne deriva che, in date condizioni, un’impresa potrebbe fornire determinate prestazioni senza alcun aggravio di

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costo o con costi trascurabili, mentre tali prestazioni potrebbero avere un apprezzabile valore per il destinatario, in funzione del prezzo che altrimenti egli dovrebbe pagare. In questo divario tra l’utilità per il destinatario e il costo per il donante sta il fondamento, anche economico, del volontariato d’impresa.

Nel nostro Paese, nonostante le non lievi complicazioni burocratiche, vi sono interessanti esempi di volontariato d’impresa, ed è chiaro che essi potrebbero moltiplicarsi, se si rimuovessero quelle complicazioni e, ancor più, se di adottassero misure idonee a incoraggiare simili forme di collaborazione.

due linee di azione

Muovendo da questi punti fermi, una politica che voglia destatalizzare la società italiana deve agire con-temporaneamente su due leve: l’una culturale e l’altra economico-fiscale.

Sul piano culturale occorre, innanzi tutto, dare un chiaro messaggio sulla superiorità etico-pratica dell’azione individuale sull’azione statale, anche nel variegato campo del sociale. A chiarire questo punto possono servire le illuminanti considerazioni sviluppate a questo proposito, in varie occasioni, da Giovanni Paolo II.

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10. Per un welfare migliore. I.

Occorre inoltre risvegliare negli italiani l’orgoglio di appartenere ad una comunità ricca di storia e – se potesse contare sull’impegno di tutti – anche di prospettive.

Occorre infine risvegliare in tutti il senso dei doveri civili.

A un tale messaggio (che va ribadito con forza, perché i lunghi periodi di statalismo sembrano averlo appannato nella prassi quotidiana) va unito un ben calibrato insieme di provvedimenti (anche di carattere fiscale) (a) che consentano ai cittadini – in tutti i casi in cui ciò sia possibile – di scegliere, in condizioni di neutralità e di equivalenza finanziaria, se accedere al servizio pubblico o se provvedervi direttamente, e (b) che siano capaci di attivare le «energie» (largamente presenti nella società) disponibili ad impegnarsi per promuovere iniziative utili alla crescita sociale e civile della comunità e per soddisfare bisogni a cui dovrebbe provvedere in qualche modo lo Stato.

Per quanto concerne in particolare lo strumento tributario, occorre puntare sulla deducibilità fiscale dei contributi dati dai cittadini alle istituzioni non profit che perseguono finalità d’interesse generale, opportunamente individuate.

I contributi vanno dedotti non dal reddito

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imponibile ma direttamente dalle imposte dovute (attraverso un credito d’imposta agevolmente recuperabile) allo scopo di non penalizzare persone a basso reddito e con bassa aliquota marginale. La misura della deducibilità può variare da un minimo del 30-40% ad un massimo del 90-95%, a seconda della rilevanza sociale dell’attività svolta dal soggetto beneficiario del contributo. È chiaro che quando la deducibilità è spinta fino al 90-95% il peso della contribuzione ricade praticamente sullo Stato (che rinuncia ad entrate tributarie pressoché pari al contributo donato dal cittadino all’istituzione non profit); e questo evidentemente ha senso solo per quelle attività che – in assenza di iniziativa privata – lo Stato dovrebbe comunque svolgere.

Con questa formula, il finanziamento di certe attività ritenute d’interesse generale rimane sostanzialmente a carico dello Stato, ma la loro gestione viene affidata ad organismi non profit privati, scelti liberamente da altri privati i quali, per avere questa possibilità di scelta, debbono in qualche modo contribuire all’onere del finanziamento. Per questa via, si introducono nel finanziamento e nella gestione di quelle attività, diffusi meccanismi di selezione e di controllo, dai quali è lecito attendersi effetti positivi sull’efficienza delle risorse

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10. Per un welfare migliore. I.

pubbliche e private impiegate e sulla congruità dei risultati raggiunti dalle istituzioni finanziate.

Meccanismi di questo tipo sono particolarmente adatti per promuovere – attraverso strutture non profit – l’iniziativa privata in campo assistenziale, culturale e scientifico nonché gli aiuti ai Paesi poveri e il finanziamento della politica e dei partiti politici.

In verità, la normativa fiscale del nostro Paese prevede qualche esempio del meccanismo qui descritto. Ma si tratta di timidi tentativi sostanzialmente inefficaci, perché farraginosi, poco divulgati e, soprattutto, perché la misura della deducibilità è assai limitata.

Occorre, al contrario, che questi meccanismi siano introdotti su vasta scala, siano accompagnati da consistenti e ben calibrate deduzioni fiscali e –  cosa molto importante  – siano presentati all’opinione pubblica come il portato di un profondo cambiamento del rapporto stato-cittadino, stato-società; insomma come il portato di una pacifica «rivoluzione» che vuol rimettere la persona umana al centro della politica.

È ragionevole prevedere che, per questa via, grazie alla generosità e alla fantasia degli italiani assisteremmo ad una grande fioritura di iniziative,

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capaci di migliorare largamente il nostro tessuto sociale e civile.

A chi opponesse problemi di copertura della spesa si potrebbe replicare che l’iniziativa prospettata – implicando un diffuso cambiamento di mentalità e di costume – richiede tempi di rodaggio non brevi e, dunque, produce effetti differiti sul bilancio statale, E in secondo luogo va chiarito che essa si inquadra nel più ampio contesto del «Progetto-Paese», per il quale, come si è già detto, occorre un’auspicabile intesa con la Comunità Europea.

Non ci nascondiamo che il descritto processo di destatalizzazione non può essere né breve né facile.

Per agevolarne il corso può rivelarsi utile la costituzione di un apposito «Organismo» pubblico-privato con struttura estremamente leggera, di durata limitata e con una governance che veda largamente presenti i cittadini e le loro organizzazioni. Alla scadenza tale «Organismo» verrebbe sciolto, oppure – previo drastico ridimensionamento – verrebbe trasformato per assumere il compito di monitorare per qualche anno ancora il buon funzionamento del sistema di welfare così destatalizzato.

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11.

PER UN WELFARE MIGLIORE.

II. UN’INFRASTRUTTURA SOCIALE SUL TERRITORIO

Non ci nascondiamo che un sistema di welfare, pur costruito con cura, non dà la certezza che non si manifestino carenze o disfunzioni dovute per lo più all’insorgere improvviso di esigenze e situazioni non prevedibili.

Per prevenire questi inconvenienti e dare al sistema di welfare efficienza e prontezza d’intervento, sarebbe opportuno realizzare un’infrastruttura sociale o, ciò che è lo stesso, una rete di prevenzione sul territorio, con il compito di ascoltare le persone in difficoltà per consigliarle, orientarle e aiutarle; di monitorare il territorio per cogliere bisogni generali o individuali che il più delle volte, per malintesa riservatezza, restano silenti e nascosti. I punti di ascolto e di monitoraggio dovrebbero essere molto numerosi; ad esempio uno ogni 10-30 mila abitanti.

Una tale infrastruttura sarebbe facilmente realizzabile. Basterebbe coordinare – magari con un

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11. Per un welfare migliore. II.

apposito «logo» – le tante Associazioni di volontariato presenti sul territorio, alcune delle quali di provata esperienza e di riconosciuta efficacia. A tal fine sarebbe sufficiente un organismo di coordinamento che chiarisse le finalità dell’infrastruttura e dettasse le regole alle quali le Associazioni locali – ove decidano di partecipare – debbono uniformarsi.

Sul piano giuridico tale organismo potrebbe avere natura di soggetto privato incaricato di un pubblico servizio: in ogni caso, come abbiamo già detto, nella sua gestione occorrerebbe dare il dovuto rilievo ai privati e al mondo del volontariato.

Si potrebbe anche esplorare la possibilità di costruire l’infrastruttura utilizzando, ad esempio, l’Arma dei Carabiniere ben presente e radicata sul territorio.

Nel quadro di un auspicabile riordinamento delle forze dell’ordine, si potrebbe affidare ai carabinieri anche i compiti sopra indicati, magari attraverso la costituzione di un’apposita sezione speciale dotata di personale specializzato. Con la credibilità di cui gode e con la capillare struttura territoriale di cui dispone, l’Arma dei Carabinieri, potrebbe svolgere egregiamente il compito coinvolgendo Associazioni di volontariato già esistenti ed incoraggiando la costituzione di nuove Associazioni.

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12.

OLTRE LO STATO, LA PERSONA

Per quanto ben costruito, per quanto integrato con un’infrastruttura sociale sul territorio, il sistema di welfare lascia – nell’assistenza delle persone in difficoltà – comunque un vuoto che solo l’impe-gno gratuito e volontario e la partecipe attenzione dell’uomo ai bisogni dei propri simili può colmare.

Dobbiamo renderci conto che le strutture più o meno burocratiche o burocratizzate, per quanto ben congegnate, non possono fare quello che solo un rapporto personale – improntato ad amicizia e solidarietà – riesce a fare.

Questo significa che la solidarietà istituzionale che fa capo allo Stato – anche quando è realizzata nel modo migliore e a misura d’uomo – non basta. Occorre integrarla con la solidarietà individuale nelle diverse forme che essa può assumere in funzione delle caratteristiche e delle attitudini delle persone che se ne fanno portatrici.

L’idea che possa far tutto lo Stato è fallace non solo

12. Oltre lo Stato, la persona

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e non tanto perché esso non riesce a reperire i mezzi necessari, ma perché, quand’anche vi riuscisse, non sarebbe comunque in grado di dare alla sua azione la cosa più importante, vale a dire la capacità di far sentire all’altro amicizia e solidarietà.

La verità è che, se vogliamo fare della nostra Comunità – o meglio delle nostre Comunità locali (piccoli e medi comuni e quartieri delle grandi città) – delle autentiche Comunità solidali, non basta impegnarsi per realizzare un welfare sempre migliore; dobbiamo saper andare oltre, e scoprire o riscoprire l’importanza della partecipazione personale e dell’impegno volontario.

Ecco perché noi auspichiamo che nelle piccole e grandi Comunità locali sorgano Associazioni di residenti con lo scopo di fare tutto quel che si può fare per migliorarne le condizioni di vita e per occuparsi di cose che un sistema di welfare – per quanto ben costruito – non può fare.

Queste Associazioni si dovrebbero anche proporre di diffondere – soprattutto tra i giovani – la cultura della solidarietà, e in particolare l’idea che esistono certamente i diritti di cittadinanza ma che, prima di questi, ci sono i doveri di cittadinanza, senza i quali i primi risulterebbero del tutto privi di

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significato. È solo così che si formano cittadini consapevoli, oltre che dei diritti, anche dei doveri di cittadinanza, e perciò disponibili, ad esempio, ad accettare un aumento delle imposte per spostare verso l’alto l’asticella della solidarietà istituzionale, come condizione per migliorare sempre più il sistema di welfare.

Il nostro Partito vede con grande favore queste forme associative – con scopi, per così dire, indifferenziati –, ma non se ne vuole fare diretto promotore, perché è convinto che esse debbono nascere e crescere al di fuori dei partiti. Queste Associazioni debbono coinvolgere il meglio della comunità senza distinzione di credo politico: il legame che deve unire gli aderenti non è l’appartenenza ad uno stesso Partito, ma il rispetto per i propri simili e la consapevolezza profonda che al nostro simile in difficoltà dobbiamo prestare aiuto non perché ne proviamo compassione ma perché ne abbiamo il dovere.

Il nostro partito dunque guarda con grande favore a queste Associazioni e si augura che i propri aderenti vi partecipino attivamente. Per ora non può far altro. Ma se in futuro avrà forza politica per incidere sulle decisioni parlamentari si adopererà perché – nel quadro delle cose dette in precedenza – i contributi

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dati ad Associazioni aventi gli scopi sopra delineati abbiano un favorevole trattamento fiscale.

Finito di stampare nell’ottobre 2014 presso Dali Studio srl, Viale delle Milizie 38 (Roma)

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