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1 Dispense di politica economica Le politiche per il welfare Il Welfare State Nell’attuare le politiche macroeconomiche e microeconomiche lo Stato si propone come obiettivo fondamentale quello di assicurare un efficiente funzionamento dei mercati, correggendone le imperfezioni e definendo un quadro di regole all’interno delle quali gli agenti economici prendono le proprie decisioni. Il perseguimento dell’efficienza non esaurisce le motivazioni dell’intervento pubblico nell’economia. Uno Stato democratico deve proporsi di offrire ai cittadini uguali opportunità non solo sul piano politico ma anche, e soprattutto, su quello economico. Inoltre, in una concezione della società non puramente liberista, esso non può esimersi dal promuovere la coesione sociale, garantendo a tutti i cittadini un tenore di vita dignitoso e la tutela di alcuni diritti fondamentali. Tutto ciò implica il perseguimento simultaneo di obiettivi di efficienza e di equità. Questi due obiettivi non sono necessariamente complementari, nel senso che l’uno non può essere considerato come un semplice effetto collaterale dell’altro. Un equilibrio di piena efficienza in senso paretiano è compatibile con una situazione di assoluta iniquità distributiva. Da qui la necessità di specifiche politiche volte ad attenuare e correggere le conseguenze indesiderabili dell’attività economica anche quando i mercati funzionano in modo efficiente. Tali politiche possono assumere varie forme: dalla tutela del lavoro alla previdenza e assistenza alle persone in condizioni disagiate, dalla sanità all’istruzione. Sarebbe errato tuttavia pensare che lo stato sociale si fondi unicamente su principi di equità. In molti casi esistono ragioni economiche ben precise a giustificazione delle politiche sociali. Ciò accade ogniqualvolta si manifestino fallimenti del mercato sotto forma di esternalità o difetti di informazione che causano inefficienza nell’allocazione delle risorse. Come avremo modo di vedere, questi problemi sono molto frequenti nei settori che esamineremo, e questo spiega perché, anche fra gli economisti, il dibattito sui limiti dello Stato sociale è molto acceso. L’evoluzione del Welfare State Il Welfare State si è affermato, sia pure con forme e intensità diverse, in quasi tutti i paesi industrializzati a partire dalla seconda metà del secolo scorso quando, soprattutto per iniziativa dei lavoratori e delle loro organizzazioni, comincia a porsi il problema della tutela di alcuni diritti e bisogni. Il Welfare State nasce nel momento in cui alcuni rischi, a cui può andare incontro un individuo o una famiglia, vengono riconosciuti come rischi sociali. Il rischio principale è la perdita del posto di lavoro, tanto che i sistemi di Welfare si sono sviluppati a partire dall’esperienza della grande depressione degli anni ’30 con l’introduzione del sussidio di disoccupazione. Successivamente, con la crescita del reddito e i mutamenti delle ideologie politiche in direzione di una maggiore equità sociale e solidarismo, le forme di tutela si sono ampliate e sono state estese al di là del gruppo dei lavoratori dipendenti, fino a diventare una delle componenti principali della spesa pubblica degli stati contemporanei. I modelli di Welfare State Possiamo distinguere due fondamentali sistemi di Welfare State che, a loro volta, si articolano in modelli differenziati che riflettono spesso specifiche esperienze nazionali. Il primo è il sistema universalistico, il secondo quello occupazionale. Il principale criterio di distinzione è il “tipo di copertura” (la scelta di chi includere), che definisce i confini della solidarietà sociale. I sistemi

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Dispense di politica economica

Le politiche per il welfare

Il Welfare State

Nell’attuare le politiche macroeconomiche e microeconomiche lo Stato si propone come obiettivo fondamentale quello di assicurare un efficiente funzionamento dei mercati, correggendone le imperfezioni e definendo un quadro di regole all’interno delle quali gli agenti economici prendono le proprie decisioni. Il perseguimento dell’efficienza non esaurisce le motivazioni dell’intervento pubblico nell’economia. Uno Stato democratico deve proporsi di offrire ai cittadini uguali opportunità non solo sul piano politico ma anche, e soprattutto, su quello economico. Inoltre, in una concezione della società non puramente liberista, esso non può esimersi dal promuovere la coesione sociale, garantendo a tutti i cittadini un tenore di vita dignitoso e la tutela di alcuni diritti fondamentali. Tutto ciò implica il perseguimento simultaneo di obiettivi di efficienza e di equità.

Questi due obiettivi non sono necessariamente complementari, nel senso che l’uno non può essere considerato come un semplice effetto collaterale dell’altro. Un equilibrio di piena efficienza in senso paretiano è compatibile con una situazione di assoluta iniquità distributiva. Da qui la necessità di specifiche politiche volte ad attenuare e correggere le conseguenze indesiderabili dell’attività economica anche quando i mercati funzionano in modo efficiente.

Tali politiche possono assumere varie forme: dalla tutela del lavoro alla previdenza e assistenza alle persone in condizioni disagiate, dalla sanità all’istruzione.

Sarebbe errato tuttavia pensare che lo stato sociale si fondi unicamente su principi di equità. In molti casi esistono ragioni economiche ben precise a giustificazione delle politiche sociali. Ciò accade ogniqualvolta si manifestino fallimenti del mercato sotto forma di esternalità o difetti di informazione che causano inefficienza nell’allocazione delle risorse. Come avremo modo di vedere, questi problemi sono molto frequenti nei settori che esamineremo, e questo spiega perché, anche fra gli economisti, il dibattito sui limiti dello Stato sociale è molto acceso.

L’evoluzione del Welfare State

Il Welfare State si è affermato, sia pure con forme e intensità diverse, in quasi tutti i paesi industrializzati a partire dalla seconda metà del secolo scorso quando, soprattutto per iniziativa dei lavoratori e delle loro organizzazioni, comincia a porsi il problema della tutela di alcuni diritti e bisogni. Il Welfare State nasce nel momento in cui alcuni rischi, a cui può andare incontro un individuo o una famiglia, vengono riconosciuti come rischi sociali. Il rischio principale è la perdita del posto di lavoro, tanto che i sistemi di Welfare si sono sviluppati a partire dall’esperienza della grande depressione degli anni ’30 con l’introduzione del sussidio di disoccupazione.

Successivamente, con la crescita del reddito e i mutamenti delle ideologie politiche in direzione di una maggiore equità sociale e solidarismo, le forme di tutela si sono ampliate e sono state estese al di là del gruppo dei lavoratori dipendenti, fino a diventare una delle componenti principali della spesa pubblica degli stati contemporanei.

I modelli di Welfare State

Possiamo distinguere due fondamentali sistemi di Welfare State che, a loro volta, si articolano in modelli differenziati che riflettono spesso specifiche esperienze nazionali. Il primo è il sistema universalistico, il secondo quello occupazionale. Il principale criterio di distinzione è il “tipo di copertura” (la scelta di chi includere), che definisce i confini della solidarietà sociale. I sistemi

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universalistici si caratterizzano per essere inclusivi e indifferenziati, in generale tutti coloro che si trovano in condizioni di disagio hanno diritto ai benefici e questi ultimi sono uguali per tutti. Quelli occupazionali condizionano l'elargizione delle prestazioni all'appartenenza a una determinata categoria occupazionale inoltre le prestazioni sono frammentate e differenziate in base ai settori produttivi e alle gerarchie occupazionali. All'interno di questa classificazione generale si distinguono quattro modelli.

Il modello socialdemocratico (o scandinavo) riflette i valori delle ideologie socialdemocratiche e si caratterizza per:

l’universalismo, per cui i programmi di spesa sociale sono concepiti come diritti del cittadino ed estesi a tutti;

il preponderante intervento pubblico, con una elevata offerta di servizi nel campo della salute e in quello della cura dei figli e degli anziani;

il prevalere di una idea di equità che prescinde da eventuali responsabilità del cittadini nel determinare il loro stato di bisogno.

il finanziamento della spesa sociale prevalentemente mediante le imposte generali. Il modello corporativo, tipicamente tedesco ma presente anche in Francia, rimane più collegato

al mondo del lavoro. Il titolare dei diritti è il cittadino in quanto lavoratore. I programmi di spesa sono più frammentati e differenziati per categorie sociali, con particolari privilegi per i dipendenti pubblici. Il finanziamento della spesa ha una base fondamentalmente contributiva.

Il modello liberale, prevalente nel mondo anglo sassone, parte da una visione più restrittiva del concetto di equità che limita la tutela a forme molto gravi di disagio sociale come la povertà estrema, e condiziona l’erogazione dei sussidi alla preventiva verifica dei mezzi di cui il beneficiario dispone. Inoltre considera favorevolmente e incentiva forme private di previdenza e assistenza.

E’ possibile individuare anche un quarto modello: quello mediterraneo che rappresenta una variante del modello corporativo, cui somiglia soprattutto sotto il profilo della frammentazione dei programmi, ma dal quale si discosta per una minore pervasività dell’intervento pubblico e un ruolo più rilevante della famiglia. Questo modello si caratterizza inoltre per i seguenti aspetti:

mercato del lavoro caratterizzato da vasta “economia sommersa”

modello di famiglia solidaristico, incline a funzionare come “ammortizzatore sociale" che spesso sostituisce lo stato in questa funzione

trasferimenti di reddito (pensioni, sussidi, indennità disoccupazione) molto generosi per le categorie centrali del mercato del lavoro e modesto per quelle periferiche, che porta a creare un sistema di protezione dualistico e polarizzato

il divario di protezione fra le categorie occupazionali è elevato e divide la popolazione in garantiti (dipendenti pubblici e grandi imprese), semi garantiti (lavoratori atipici, autonomi, piccole imprese, edilizia e agricoltura) e non garantiti (lavoratori delle economie sommerse)

bassa capacità di attenuare le differenze sociali.

Giustificazioni economiche della spesa sociale: i beni di merito

Nonostante l’obiettivo della spesa sociale sia quello di accrescere il benessere dei cittadini, essa non trova fondamento nelle teorie dell’economia del benessere, perlomeno non in quelle di matrice utilitarista. Nella grande maggioranza dei casi le prestazioni offerte dallo Stato sociale non sono beni pubblici, pertanto essi potrebbero essere forniti dal mercato.

Tuttavia, in alcuni casi, l’intervento pubblico trova giustificazione anche nella teoria economica dominante, soprattutto quando il mercato non svolge in modo corretto i suoi compiti, cioè quando si verificano fallimenti del mercato. I casi classici sono i beni pubblici, le imperfezioni del mercato (monopolio oligopolio ecc.), le esternalità. Ma esistono anche altri casi in cui il cattivo funzionamento del mercato dipende dal fatto che gli agenti non sono in grado di prendere

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decisioni corrette per mancanza di informazione o perché quest'ultima è in qualche modo distorta. In qualche caso può trattarsi di miopia cioè di difficoltà a considerare tutti gli effetti delle proprie decisioni. Per esempio i fumatori sottovalutano gli effetti che il fumo può avere sulla loro salute nel lungo periodo. Oppure qualora avessero la libertà potrebbero non assicurare la propria auto sottovalutando i rischi di incidenti e i costi conseguenti per altri eventuali danneggiati. Questi sono due casi in cui le decisioni degli agenti producono risultati non ottimali nel senso che due beni importanti come la salute e la sicurezza sono prodotti in quantità insufficiente. I beni di questo tipo sono denominati beni di merito. Il nome deriva dal fatto che la coscienza sociale ritiene che essi siano meritevoli di essere promossi anche con l'intervento pubblico qualora il mercato non lo faccia nel migliore dei modi. Lo Stato quindi si sovrappone alle preferenze dei cittadini e, secondo una logica paternalistica, decide quale sia il modo migliore per soddisfarle. Nei casi descritti per esempio lo stato potrebbe intervenire tassando le sigarette per scoraggiarne il consumo, oppure rendendo l'assicurazione auto obbligatoria per legge.

In altri casi molto frequenti in vari campi delle scelte economiche, le distorsioni sono dovute ad insufficienza o asimmetria dell’informazione. Con questo termine si intende il fatto che, fra due agenti che interagiscono in una transazione, uno è più informato dell’altro. Questo fenomeno, apparentemente innocuo, è invece all'origine di molti problemi ed è in grado di spiegare perché l'intervento pubblico può produrre risultati migliori del mercato.

Il mercato dei “bidoni”

L'asimmetria di informazione da luogo a due fenomeni molto importanti: la selezione avversa e l'azzardo morale (o anche rischio morale).

La selezione avversa si verifica quando coloro che hanno un forte interesse a fare una transazione sono in realtà pessimi partner per la controparte della transazione stessa. Se vi trovate a girare fra i banchi del mercato del pesce accade di frequente che qualcuno cerchi di attirarvi con proposte di prezzo allettanti o magnificando la sua merce. Se siete in grado di valutare la freschezza del prodotto nessun problema ma, se non è questo il caso, è proprio il momento in cui dovete stare attenti, è probabile infatti che lo facciano perché sanno di avere un prodotto di scarsa qualità che non riuscirebbero a vendere senza qualche colorita presentazione. Il fenomeno che stiamo descrivendo è proprio un caso di selezione avversa.

Ma il miglior modo per spiegare ciò di cui stiamo parlando è un famoso esempio di G. Akerlof, relativo al mercato delle automobili usate che in America si chiama market for lemmons e in italiano, più prosaicamente, mercato dei bidoni. E’ ragionevole ipotizzare che, in un mercato di questo tipo, i venditori conoscano meglio dei compratori le caratteristiche delle automobili. Le automobili sono di qualità diversa: alcune più integre e affidabili, altre più logorate. Se i compratori non sono in grado di distinguerle, non saranno disposti a pagare prezzi differenziati. Perché pagare di più per una specifica automobile se non siamo in grado di stabilire che è migliore delle altre, potrebbe essere anche peggiore. Il prezzo sarà quindi unico e pari a una media dei valori attribuibili a ciascuna auto sul mercato. A questo prezzo i venditori di auto di qualità superiore (che sono consapevoli di questo fatto) non hanno convenienza a vendere (perché il valore supera il prezzo) e tendono ad uscire dal mercato. Il contrario accade per i venditori che sanno di avere un’auto di valore inferiore al prezzo. Il prezzo medio di mercato è un buon affare per il venditore di un bidone che ha quindi un forte interesse a rimanere sul mercato e vendere il suo prodotto. La selezione avversa consiste dunque nel fatto che nel mercato tendono a rimanere solo i beni di qualità inferiore mentre quelli di buona qualità spariscono. I compratori non sanno quale specifica automobile è un bidone e quale non lo è ma non è difficile rendersi conto, in generale, che il rischio di incappare in un bidone è molto alto in un mercato di questo genere. A questo punto molti di loro, magari più avveduti, decideranno di non acquistare potenziali “bidoni”

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(auto di bassa qualità) a meno ché i prezzi non diventino molto convenienti. Il prezzo scende ma alcuni venditori, che al vecchio prezzo avevano convenienza a vendere, potrebbero arrivare alla conclusione che la loro auto è sì di qualità non eccelsa ma non un tale catorcio da poter essere venduta a un prezzo così basso. Morale anch'essi lasceranno il mercato, chi rimarrà sono coloro che sanno di fare ancora un buon affare perché hanno auto ancora peggiori. L'effetto di tutto questo può essere devastante, le transazioni potrebbero annullarsi e il mercato scomparire.

Qualcuno potrebbe pensare che questa favoletta che pare uscita dalla penna di Trilussa sia molto divertente ma, in definitiva, applicabile solo in casi molto particolari. E sarebbe in buona compagnia perché questo è esattamente ciò che pensarono i selezionatori della rivista American Economic Review (in pratica alcuni fra i migliori economisti al mondo!) quando, all'inizio degli anni 70 del secolo scorso, Akerlof sottopose loro il suo articolo per la pubblicazione. L'articolo fu rifiutato ma, come spesso accade, divenne ben presto uno dei lavori più influenti e citati nella ricerca economica dei successivi trenta anni. Il motivo è che questa situazione può verificarsi in un numero enorme di casi e nei mercati più diversi con effetti pervasivi sul loro funzionamento. Quando gli economisti (ma la cosa si può estendere tranquillamente anche ad altri scienziati) vogliono imitare gli struzzi e rifiutarsi di vedere sono imbattibili!

Mentre la selezione avversa si manifesta prima che la transazione avvenga (anzi impedisce proprio che avvenga), il secondo tipo di problema, l'azzardo morale, sorge perché un contraente (denominato principale) non è in grado di controllare il comportamento dell’altro (agente) il quale svolge una certa attività per suo conto. Il contraente non controllabile ha interesse a comportarsi in modo opportunistico. In sostanza l'agente si comporta in modo truffaldino (in questo senso si parla di azzardo morale) facendo i propri interessi anziché quelli del committente. Per esempio, un datore di lavoro ha difficoltà a controllare che il lavoratore eroghi uno sforzo lavorativo pari a quello previsto nel contratto (il lavoratore può prendersi delle pause senza essere scoperto). Se il contratto prevede una remunerazione fissa, il lavoratore ha un incentivo a sfruttare questo vantaggio informativo lavorando meno e battendo la fiacca perché, finché il datore di lavoro non se ne accorge, non rischia una riduzione del salario.

Lo stesso problema può sorgere in molti altri campi, per esempio nel campo assicurativo. Un individuo che ha stipulato un’assicurazione antincendio può non prendere tutte le precauzioni necessarie per evitare che l’incendio si verifichi, poiché sa che il danno è indennizzato dall’assicurazione. Oppure in quello del credito dove un imprenditore che si è indebitato può non adottare tutti i comportamenti necessari a far fruttare i suoi investimenti per essere poi in grado di restituire i suoi debiti.

Questo è ciò che abbiamo definito rischio o azzardo morale. In entrambi i casi il prezzo risulta distorto e l’equilibrio di mercato non è ottimale. Il datore di lavoro paga un salario uguale alla media del rendimento dei lavoratori, ma pagherebbe di più un lavoratore efficiente e meno uno inefficiente. L’assicurazione fa pagare un premio più alto per coprire il rischio di comportamenti opportunistici. Lo stesso fanno le banche con le imprese.

I due fenomeni che abbiamo descritto si verificano un po' dappertutto quindi anche nei settori interessati dalle politiche sociali. Come vedremo essi condizionano il funzionamento del settore sanitario, come del mercato del lavoro e, perfino, quelli della previdenza e assistenza.

Le critiche alla spesa sociale

Negli ultimi decenni, le voci critiche che ritengono eccessiva l’espansione della spesa sociale si sono moltiplicate e, in alcuni paesi, si è assistito ad un forte ridimensionamento delle politiche sociali in nome di un ritorno all’efficienza del mercato. In gran parte tali critiche provengono dalla destra liberista radicale. Esse riguardano sia le ragioni di principio che stanno alla base delle politiche sociali, sia la loro compatibilità con il funzionamento efficiente del sistema economico.

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Nella loro versione più estrema queste critiche negano la legittimità delle politiche sociali e redistributive in quanto esse violano la libertà individuale (libertari). Se l’individuo gode di un diritto assoluto ad usare la proprietà come preferisce, la redistribuzione del reddito è legittima solo se gode del consenso esplicito di chi subisce un danno. In caso contrario essa è una sottrazione indebita.

Un secondo tipo di critica sottolinea il fatto che la spesa per il welfare è cresciuta a tal punto da non essere finanziabile mediante il prelievo fiscale. La conseguenza è un forte aumento del debito pubblico che si ripercuote negativamente sulla crescita economica in quanto, per finanziarlo, il governo è costretto a pagare tassi di interesse elevati il cui effetto è quello di scoraggiare gli investimenti produttivi (crowding out). Nella prima fase dell'evoluzione del Welfare State questo non è accaduto perché gli anni 50 e 60 del secolo scorso sono stati anni di crescita sostenuta in tutte le economie europee, che hanno messo a disposizione dei governi crescenti risorse fiscali. Successivamente, a partire dagli anni 70, la contrazione dei tassi di crescita e l'invecchiamento della popolazione che aumentava soprattutto il peso della spesa previdenziale hanno cominciato a mettere in discussione la sostenibilità delle politiche sociali.

Alcuni hanno inoltre messo in evidenza che la lievitazione della spesa sociale dipende da alcune distorsioni presenti nelle scelte pubbliche e, in particolare, in quelle della classe politica. Il fatto che i benefici del welfare sono tangibili (es. pensioni a favore di certi gruppi sociali) mentre i costi sono meno visibili, e facilmente occultabili nel calderone del bilancio pubblico crea una spinta ad aumentare la spesa. I politici, il cui obiettivo (in genere di breve periodo) è quello di farsi rieleggere, hanno interesse ad elargire risorse con modalità clientelari che garantiscono un ritorno elettorale (in quanto tangibili). Dal lato dei costi invece il finanziamento avviene solo in parte mediante il prelievo fiscale (che ha un costo elettorale) e in parte sul debito pubblico che scarica il peso della restituzione e della tassazione che ne consegue sui governi successivi. Anche per coloro che subiscono il prelievo di risorse i costi sono meno visibili perché non è chiara la destinazione delle risorse prelevate. Inoltre, in caso di finanziamento con emissione di debito, il costo ricadrà in gran parte sulle generazioni future che non hanno modo di far sentire la loro voce.

Altre argomentazioni hanno una matrice efficientistica e si concentrano sul trade-off fra equità ed efficienza. La crescita economica è più importante delle politiche sociali al fine di aumentare il benessere dei cittadini. A sua volta la crescita dipende dalla protezione dei diritti di proprietà e dal funzionamento efficiente del mercato, grazie a una corretta struttura degli incentivi. Le politiche sociali provocano distorsioni, riducendo gli incentivi individuali a sforzarsi di migliorare la propria condizione. Esse favoriscono atteggiamenti di dipendenza e, in definitiva, intrappolano la popolazione povera nel suo stato di povertà.

Equità ed efficienza

La critica efficientista allo Stato sociale è senza dubbio quella più importante e che ha maggiore rilevanza politica. Proprio in base ad essa all'inizio degli anni ottanta del secolo scorso è stata avviata una politica di ridimensionamento del Welfare State negli Stati Uniti ad opera dell'amministrazione Reagan e in Gran Bretagna da parte del governo conservatore di Margareth Thatcher. La contrazione della crescita economica verificatasi nei paesi industrializzati nel corso degli anni 70 veniva addebitata dai critici alle politiche keynesiane e alla spesa sociale. In particolare quest'ultima veniva accusata di sacrificare l'efficienza per migliorare le condizioni di gruppi sociali disagiati senza riuscire a conseguire l'obiettivo proprio a causa della riduzione dell'efficienza complessiva dell'economia e della crescita nel lungo periodo. L'alternativa suggerita è quella di concentrare l'attenzione sull'efficienza e la crescita economica che portano con sé, come effetto collaterale, anche un miglioramento delle condizioni dei più disagiati. Usando una

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metafora si può affermare che l'idea sottostante è che la crescita funziona come la marea che solleva tutte le barche, fuor di metafora equivale a dire che migliora le condizioni di tutti.

Il trade off fra efficienza e equità è rappresentato graficamente nella figura seguente.

La figura rappresenta una frontiera delle utilità. Il punto A è efficiente perché si trova sulla

frontiera ma la distribuzione è molto diseguale a favore dei ricchi. Secondo alcuni se si vuole redistribuire il reddito in modo che i poveri abbiano Y2 l'economia si muove non verso il punto B della frontiera ma verso un punto inefficiente come C. In altri termini qualcosa va perso nel processo distributivo. È come se, trovandoci in un'oasi nel deserto dove l'acqua è abbondante, volessimo trasportarla in un altro punto dove scarseggia e qualcuno ha sete ma disponessimo soltanto di una borraccia bucata. Gran parte dell'acqua andrebbe persa per strada. Il problema è perché la borraccia è bucata?

Una spiegazione molto articolata è stata data da un economista di nome Okun. Okun (che, peraltro, non era distante da posizioni egualitarie) si accorse che la riduzione della diseguaglianza nella distribuzione del reddito può portare con sé una diminuzione della produzione totale. Se il governo eccede nel togliere ai ricchi per trasferire ai poveri questi ultimi reagiscono modificando il modo in cui utilizzano le proprie risorse, per esempio si preoccuperebbero meno di fare investimenti fruttuosi dato che parte dei benefici vengono loro sottratti. Pertanto cercare di dividere la torta in fette più simili può ridurre le dimensioni della torta stessa. Inoltre bisogna considerare che la crescita dipende in gran parte da decisioni molto rischiose. Una di queste, molto importante, è la decisione di introdurre innovazioni. Se i profitti guadagnati da coloro che introducono innovazioni rischiose non fossero soddisfacenti, gli innovatori preferirebbero andare sul sicuro mantenendo più spesso le tecnologie esistenti e la crescita economica ne soffrirebbe.

Un altro aspetto importante è l'efficacia dei trasferimenti. Quanto delle risorse destinate ai più poveri arriva a destinazione e quanto si disperde in altre direzioni. Tornando alla metafora precedente quanto è grande il buco nella borraccia?

Quando il governo si impegna a redistribuire risorse vari interessi si organizzano per goderne i frutti. Molto spesso questi gruppi organizzati non coincidono affatto con gli originari destinatari che hanno in genere scarsa capacità di organizzarsi per far valere i loro diritti. Basta pensare alle

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risorse destinate all'assistenza che si traducono in profitti ingiustificati per i fornitori dei servizi o alla corruzione all'interno degli apparati burocratici coinvolti.

Esistono anche argomentazioni che vanno nella direzione opposta, cioè spiegano perché una distribuzione più equa può favorire la crescita (diverse ricerche empiriche confermano questa associazione). Una ragione è che una redistribuzione che trasferisce reddito da chi risparmia di più (ricchi) a chi spende di più (poveri) fa crescere la domanda aggregata e contribuisce, in questo modo, a sostenere la crescita. Un altro aspetto che ha risvolti negativi ai fini della crescita è che una distribuzione molto favorevole ai ricchi (come quella che si è venuta a creare negli ultimi decenni nei paesi industrializzati) da luogo a un eccesso di risparmio che non necessariamente si traduce in investimenti produttivi, bensì in speculazioni finanziarie che sono all'origine di crisi come quella che stiamo vivendo. Su questo punto torneremo comunque nell'ultima parte del corso.

Crisi e revisione dello Stato sociale

Anche se in modo meno radicale rispetto ai paesi anglo-sassoni, il problema del ridimen-sionamento dello Stato sociale e dell’eliminazione dei suoi aspetti deteriori, come l’assistenzialismo, ha interessato tutti i paesi industrializzati. Questo processo di revisione è stato stimolato anche da alcuni cambiamenti oggettivi, come l’aumentata partecipazione femminile al mercato del lavoro che modifica il ruolo della famiglia, e la globalizzazione dell’economia che impone vincoli di competitività più stringenti alle economie industrializzate.

E’ cresciuta, inoltre, la consapevolezza che la dinamica della spesa sociale è divenuta insostenibile in economie che presentano oggi tassi di crescita inferiori al passato. Ciò comporta che la dinamica della spesa sociale tende a superare quella del PIL e si traduce, necessariamente, in una maggiore pressione fiscale o, come rilevato in precedenza, in un maggiore debito pubblico.

Questa tendenza è particolarmente evidente nei due settori più importanti: le pensioni e la sanità, in cui l’invecchiamento della popolazione ha determinato una enorme dilatazione dei costi a causa dello squilibrio fra popolazione lavorativa e non lavorativa, del prolungamento dei trattamenti pensionistici, e della maggiore incidenza delle malattie nella popolazione anziana.

Anche nelle forze politiche di ispirazione socialdemocratica si è quindi fatta strada l’idea che alcune delle critiche liberiste allo Stato sociale abbiano qualche fondamento, e che una eccessiva espansione della spesa sociale finisca per influire negativamente sulla crescita dell’economia nel lungo periodo e, di conseguenza, sul benessere dei cittadini disagiati.

Le funzioni dello Stato sociale

In termini generali lo Stato sociale svolge quattro funzioni fondamentali: 1. Funzione di regolamentazione: disciplina i comportamenti dei cittadini orientandoli in certe

direzioni (es. obbligo scolastico, obblighi di sicurezza), incentiva certi comportamenti attraverso tasse e sussidi (incentivi alla previdenza integrativa, disincentivi al fumo ecc.)

2. Funzione ridistributiva: ridistribuisce risorse e opportunità fra i cittadini assicurando condizioni di vita dignitose e alcuni servizi di base (istruzione, sanità) sia attraverso prestazioni monetarie (pensioni sociali, buoni acquisto) sia attraverso la fornitura diretta di beni e servizi (istruzione, sanità)

3. Funzione assicurativa: corregge i difetti del mercato dovuti ad asimmetrie informative finanziando schemi assicurativi obbligatori contro rischi gravi (salute, lavoro, vecchiaia) attraverso la fiscalità generale

4. Funzione produttiva: si sostituisce alla produzione privata o la integra in presenza di esternalità o asimmetrie informative molto forti producendo ed erogando direttamente alcuni beni e servizi (es. istruzione, sanità)

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Tipologie di spesa

Possiamo distinguere quattro tipologie generali di spesa sociale:

Pensioni previdenziali: hanno lo scopo di garantire un reddito a lavoratori dipendenti o autonomi (oppure ai loro familiari in caso di decesso del lavoratore) nel periodo successivo al termine dell’attività lavorativa. Le pensioni previdenziali si distinguono da quelle assistenziali perché sono un corrispettivo dei contributi pagati durante l’attività lavorativa.

Sanità: include tutte le prestazioni mirate ad assicurare a tutti i soggetti della collettività condizioni di salute adeguata. La spesa si articola in medicina di base, spesa farmaceutica ed assistenza ospedaliera.

Ammortizzatori sociali: con tale termine si intendono forme di assicurazione contro i rischi connessi al rapporto di lavoro. Le più rilevanti sono quelle che riguardano il rischio di sospensione o perdita del posto di lavoro dipendente, come la cassa integrazione, indennità di disoccupazione, assicurazione infortuni, malattia, maternità. Anche i lavoratori autonomi, sia pure con una disciplina specifica, godono di alcune di tali garanzie (assicurazione infortuni, malattia, maternità).

Assistenza: riguarda prestazioni che coprono i rischi di povertà, non autosufficienza e handicap e hanno carattere gratuito perché sono rivolte ad individui in condizioni di particolare disagio. Appartengono a questa categoria la pensione sociale, erogata a soggetti con più di 65 anni e privi di mezzi; il reddito minimo di inserimento a favore delle famiglie povere; assegni per il nucleo familiare a favore di famiglie con figli e mezzi limitati; indennità per handicap; prestazioni a favore degli anziani non autosufficienti; forme di assistenza ad emarginati sociali.

Istruzione: l’istruzione è offerta in larga misura dal settore pubblico. In molti paesi l’istruzione obbligatoria ha una finalità sociale ed è gratuita. Nel caso dei livelli più alti il grado di intervento e finanziamento pubblico tende a ridursi differenziandosi da paese a paese.

Le pensioni

La spesa sociale in Italia si attesta intorno al 22% del prodotto interno lordo. Da questo punto di vista essa è in linea con l’incidenza dei costi del Welfare State negli altri paesi europei. Ciò che invece differenzia il caso italiano è il peso abnorme della spesa pensionistica. Tale voce ha un peso molto superiore alle altre (circa il 60% della spesa sociale totale), inoltre la sua dinamica è stata molto sostenuta negli ultimi anni nonostante le varie riforme del regime pensionistico. Data la grande rilevanza di questa voce di spesa per l’equilibrio dei conti pubblici, è importante capire le ragioni di tale crescita e i problemi che essa pone.

I regimi pensionistici

Le pensioni di vecchiaia ed anzianità hanno carattere previdenziale in quanto costituiscono il corrispettivo assicurativo dei contributi versati durante l’attività lavorativa. Le altre forme di pensione hanno invece una valenza prevalentemente assistenziale.

Nonostante i sistemi pensionistici siano a gestione pubblica in quasi tutti i paesi industrializzati, non esistono forti motivazioni economiche a sostegno di questo intervento. Il problema del trasferimento di reddito dall’età lavorativa alla vecchiaia è un problema assicurativo che potrebbe essere risolto dal mercato. La previdenza può essere vista come un bene di merito nel senso che, per miopia, i giovani non sarebbero in grado di accantonare risorse sufficienti, pertanto lo Stato impone una contribuzione obbligatoria.

Un sistema pensionistico può essere organizzato in due modi fondamentali: a) sistema a capitalizzazione;

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b) sistema a ripartizione. Il sistema a capitalizzazione funziona come un’assicurazione privata. Durante il periodo

lavorativo, dalla retribuzione del lavoratore vengono effettuate trattenute (obbligatorie o volontarie) che, versate presso istituti assicurativi o fondi pensionistici, sono poi investite nel mercato finanziario. Il rendimento capitalizzato di tali investimenti (da qui il termine capitalizzazione) finanzierà le pensioni degli stessi lavoratori nel momento in cui lasceranno l’attività lavorativa.

Il sistema a ripartizione si fonda su un patto intergenerazionale. I lavoratori oggi in attività risparmiano forzatamente (pagando contributi obbligatori) parte del loro reddito. Il risparmio viene utilizzato per pagare le pensioni di coloro che, nello stesso periodo, hanno lasciato il lavoro per ragioni di età.

Nel primo caso, quindi, ogni lavoratore finanzia la propria pensione in un momento futuro. Nel secondo ogni lavoratore finanzia la pensione di un altro ex lavoratore che, in quel momento, si trova in stato di quiescenza.

Nell’ambito del sistema a ripartizione possiamo distinguere due sotto tipi che si differenziano per il metodo di calcolo della pensione:

sistemi di tipo retributivo;

sistemi di tipo contributivo. Nel primo caso il calcolo della pensione si basa sul salario del lavoratore. Può essere commisurata all’ultima retribuzione o a una media delle retribuzioni lungo tutta la vita lavorativa (per esempio l’80%). Nel secondo la pensione dipende esclusivamente dai contributi versati nel senso che la somma complessiva che il pensionato riceverà nell’arco dell’intero periodo di pensionamento è uguale al valore capitalizzato dei contributi versati in età lavorativa. Nei sistemi a ripartizione, a differenza di quelli a capitalizzazione, il rendimento applicato nel calcolo delle somme capitalizzate non è il tasso di interesse di mercato bensì un valore fissato dalla legge.

Queste due tipologie sono compatibili solo con il sistema a ripartizione mentre il sistema a capitalizzazione, per sua stessa natura, non può che essere di tipo contributivo.

Capitalizzazione o ripartizione?

Possiamo a questo punto chiederci quale dei due sistemi funziona meglio. Il problema può essere posto in questi termini: quale dei due assicura una pensione pro capite più elevata? La risposta è: dipende dal rendimento del risparmio e dal tasso di crescita dell’economia. Vediamo perché.

Cominciamo dal sistema a capitalizzazione. Ipotizziamo di dividere il tempo in 2 periodi: nel periodo t i lavoratori sono attivi, mentre nel periodo t+1 diventano pensionati. Al tempo t sono attivi Nt lavoratori, ciascuno dei quali percepisce un salario wt e paga contributi obbligatori pari a una quota s del proprio salario. Il risparmio totale al tempo t è quindi: St = swtNt Se viene investito sul mercato finanziario e il rendimento medio reale è pari a r, nel periodo successivo le risorse accumulate saranno pari a: St+1 = swtNt (1+r) Queste risorse sono sufficienti per pagare a ciascun lavoratore che va in pensione nel periodo t+1 una somma pari a: Pensione pro capitet+1 = swtNt (1+r)/ Nt = swt(1+r) Ovvero è uguale alle risorse totali accumulate divise per il numero di lavoratori che devono ricevere la pensione.

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Con il sistema a ripartizione le risorse disponibili al tempo t+1 sono pari al risparmio dei lavoratori attivi in quel periodo. Se ipotizziamo che la popolazione cresca a un tasso n, essi saranno Nt+1 = Nt(1+n). Il risparmio sarà quindi: St+1 = swt+1Nt+1 Ne deriva che la pensione pro capite degli Nt lavoratori in pensione è: Pensione pro capitet+1 = swt+1Nt+1/ Nt = swt+1(1+n)

In questo semplice caso quindi le risorse disponibili sono maggiori con il sistema a capitalizzazione se r>n. In caso contrario il sistema a ripartizione sarebbe preferibile. Perché il sistema a ripartizione non è più sostenibile?

Tuttavia sarebbe irrealistico non considerare che la produttività dei lavoratori cresce nel tempo e questo fa crescere i salari reali. Se teniamo conto di questo fatto, le risorse disponibili con il

sistema a ripartizione cambiano. Ipotizziamo che la produttività cresca ad un tasso e che i salari

crescano in linea con essa. Nel secondo periodo il salario sarà wt+1 = wt(1+). Il tasso di crescita del reddito nazionale dipende dai tassi di crescita della produttività e della popolazione, più

precisamente è uguale alla loro somma: g = Y/Y = (n+). Le risorse generate dai lavoratori attivi nel periodo t+1 saranno pari a:

St+1 = swt+1Nt+1= swt(1+)Nt(1+n) da cui si può ricavare facilmente la pensione pro capite:

Pensione pro capitet+1 = swt(1+)Nt(1+n)/Nt = = swt(1+)(1+n) = swt(1+g) Possiamo ora procedere nuovamente al confronto fra i due sistemi. In definitiva la disponibilità

di risorse dipende dal tasso di rendimento degli investimenti finanziari nel sistema a capitalizza-zione e dal tasso di crescita dell’economia in quello a ripartizione. Se g>r il sistema a ripartizione genera più risorse di quello a capitalizzazione, e viceversa se r>g.

Questo risultato è importante per capire in quali condizioni l’uno o l’altro regime sono sostenibili. Il sistema a ripartizione funziona bene quando popolazione e produttività crescono a tassi elevati perché questo significa più risorse e più lavoratori attivi. Questo è quanto accadeva dopo la seconda guerra mondiale, e ciò spiega perché in molti paesi sono stati adottati sistemi a ripartizione. Per gli stessi motivi, la caduta della produttività e della natalità negli anni ‘70 del secolo scorso spiega perché questi sistemi sono diventati insostenibili negli anni recenti. La caduta della produttività riduce il tasso di crescita dei salari e quindi delle risorse disponibili per il pagamento delle pensioni. La caduta della natalità, a sua volta, modifica il rapporto fra lavoratori attivi (che generano risorse) e quelli in pensione (ai quali le risorse devono essere distribuite) aumentando il peso dei secondi.

I problemi del sistema pensionistico italiano

Il sistema pensionistico italiano è un tipico esempio di sistema a ripartizione sviluppatosi in un periodo di elevata crescita del reddito e della popolazione (il secondo dopoguerra), che entra in crisi non appena queste condizioni vengono a mancare. All’inizio degli anni ’90 appare chiaro a tutti gli analisti che la spesa pensionistica è destinata a diventare incontrollabile in assenza di opportune riforme del sistema. Nel corso degli anni ‘90 vengono introdotti sostanziali mutamenti attraverso una serie di riforme. Ciononostante il sistema pensionistico italiano rimane ancora fondamentalmente un sistema a ripartizione. Il motivo è che il passaggio da un sistema a ripartizione ad uno a capitalizzazione, che rappresenta l’obiettivo tendenziale delle riforme, è un processo molto lungo perché, al momento del passaggio, implica un salto che obbliga una generazione a pagare i contributi due volte: una per finanziare le pensioni dei lavoratori della generazione precedente ora in pensione, e un’altra per finanziare le proprie pensioni nel periodo successivo.

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All’inizio degli anni ‘90 il sistema pensionistico italiano presentava caratteristiche che lo rendevano molto farraginoso, squilibrato e iniquo:

debito previdenziale molto alto (oltre 2 miliardi di euro nel 1992);

forti sperequazioni tra categorie e settori, con situazioni di privilegio nel settore agricolo e nel pubblico impiego;

abnorme estensione della pensione di anzianità, ottenibile dopo un periodo di contribuzione molto breve (pensionati baby) che grava per un lungo periodo sul bilancio pubblico;

alcuni tipi di pensioni, come quelle di invalidità, sono usate per perseguire finalità improprie di tipo assistenziale;

il sistema pensionistico pubblico si fa carico di problemi del mercato del lavoro (pensionamenti anticipati in caso di crisi aziendale o settoriale).

Le riforme degli anni ‘90

La prima riforma viene introdotta dal governo Amato nel 1992, con l’obiettivo di porre sotto controllo la spesa pensionistica. I punti principali della riforma sono:

aumento dell’età pensionabile a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne con anzianità contributiva minima di almeno 20 anni;

la pensione è calcolata moltiplicando 2 punti percentuali della “retribuzione pensionabile” (data dalla media delle retribuzioni imponibili durante la vita lavorativa) per gli anni di contribuzione;

le pensioni sono indicizzate ai prezzi.

la pensione di anzianità spetta a chi abbia lavorato per almeno 35 anni. La riforma introduce per la prima volta alcuni elementi del metodo contributivo: la pensione è,

infatti, proporzionale al numero di anni di contribuzione. Tuttavia prevale ancora un criterio retributivo perché essa non è commisurata ai contributi versati ma alla retribuzione.

Nel 1995 Il governo presieduto da Dini introduce un nuovo metodo di calcolo delle pensioni. Con questa riforma il metodo contributivo si afferma come il principale sistema di calcolo delle pensioni. Esso viene applicato integralmente ai lavoratori che, alla fine del 1995, avevano meno di 18 anni di anzianità.

Ha diritto al pensionamento chi abbia compiuto 57 anni o abbia maturato, indipendentemente dall’età, almeno 40 anni di contribuzione. La pensione è determinata moltiplicando il valore capitalizzato dei contributi versati durante l’intera carriera lavorativa (utilizzando come tasso di capitalizzazione la crescita media quinquennale del PIL nominale) per un coefficiente di trasformazione, variabile a seconda dell’età dell’assicurato al momento del pensionamento. Il coefficiente di trasformazione è definito in modo tale che il valore attuale, al momento del pensionamento, del flusso dei redditi pensionistici durante la vita restante (calcolata in base alla speranza di vita) sia uguale all’ammontare dei contributi capitalizzati.

La pensione è indicizzata integralmente rispetto all’inflazione, pertanto risulta costante nel tempo in termini reali, ma non è agganciata ai salari. Se i salari reali crescono, ciò può dare luogo ad un effetto di impoverimento relativo (pensioni d’annata) che pone problemi di equità.

La riforma Dini crea un sistema finanziariamente sostenibile nel lungo periodo, nel senso che il rapporto spesa pensionistica/PIL tende a rimanere costante nel tempo.

Inoltre la riforma rimette ordine all’interno delle gestioni dell’INPS, separando la spesa previdenziale da quella assistenziale, al fine di rendere più trasparente la spesa sociale.

Negli anni recenti altre riforme si sono succedute (Prodi, Maroni, Fornero) sempre con l'obiettivo di ridurre la dinamica della spesa pensionistica. I metodi per ottenere questo risultato sono essenzialmente due: l'aumento dell'età pensionistica in linea con l'aumento della speranza di vita, e l'estensione del sistema contributivo al maggior numero possibile di lavoratori compatibilmente con i diritti acquisiti.

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Esiste un conflitto fra generazioni in Italia?

Negli ultimi trent'anni la posizione economica relativa della parte più anziana della popolazione è molto migliorata. Nel frattempo i destini economici delle famiglie più giovani sono andati sempre più deteriorandosi. Il peggioramento delle condizioni dei giovani dipende in parte dalla diversa situazione del mercato del lavoro rispetto a qualche decennio fa, ma gli squilibri della spesa per il welfare, e di quella previdenziale in particolare, hanno giocato un ruolo determinante. L’attuale sistema favorisce gli anziani a scapito dei giovani creando fra essi un conflitto distributivo.

Un primo dato interessante a questo proposito è che il valore del rapporto tra spesa per le generazioni anziane e spesa per le generazioni giovani è pari a 3,5 in Italia, contro una media di 1,7 nei paesi dell’Europa continentale, di 1,2 nei paesi anglo-sassoni e di 0,8 in quelli scandinavi.

Il conflitto emerge chiaramente anche esaminando l’andamento dei redditi medi relativi delle varie classi d’età riportato nella figura precedente. Dalla fine degli anni ‘70 ad oggi aumenta il reddito relativo delle famiglie con genitori tra i 51 e i 65 anni; migliorano le condizioni degli ultra sessantacinquenni, mentre si registra un forte peggioramento della posizione delle famiglie con genitori sotto i 30 anni (si veda la figura).

Come se non bastasse, le generazioni future dovranno accollarsi il peso di un enorme debito pubblico causato in gran parte dalla spesa per garantire i privilegi di quelle attuali.

La sanità

Peculiarità dei servizi sanitari

In quasi tutti i paesi industrializzati (ad eccezione degli U.S.A., ma anche là le cose stanno parzialmente cambiando) la sanità ha un ruolo importante all’interno del Welfare State. E’ ben noto che i servizi sanitari sono offerti sia dal settore pubblico che da quello privato. Essi non hanno infatti le caratteristiche dei beni pubblici. Tuttavia esistono vari motivi, legati non solo a considerazioni di equità ma anche di efficienza, che giustificano l’intervento pubblico.

In primo luogo alcuni servizi sono caratterizzati da esternalità positive (es. programmi di vaccinazione che tutelano dai rischi di epidemie e contagi). In questo caso il mercato da luogo a una domanda insufficiente del servizio. Il motivo è noto: chi decide di vaccinarsi lo fa prendendo in considerazione solo i benefici per sé stesso (benefici individuali) ma non quelli di cui godrebbero coloro che, grazie a questa scelta, eviterebbero un possibile contagio (benefici sociali).

Il mercato sanitario ha carattere eminentemente assicurativo. In questo tipo di mercati la presenza di problemi di informazione genera varie distorsioni. I malati non hanno conoscenze adeguate sulle cure alle quali vengono sottoposti e sui loro possibili effetti. Inoltre, spesso, non

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sono in grado di valutare la qualità del servizio (es. livello professionale del medico) se non dopo averlo consumato (i beni che hanno la caratteristica di poter essere valutati solo dopo il consumo sono denominati beni esperienza). E’ necessario quindi offrire garanzie sul livello professionale dei medici attraverso esami pubblici, albi professionali, certificazioni. Infine la domanda deve essere filtrata da intermediari esperti (i medici di base hanno questa funzione) perché la capacità di scelta dei fruitori è molto ridotta.

Rischi non assicurabili

Altri problemi hanno a che fare con la probabilità che alcuni eventi accadano. I sistemi sanitari pubblici sono essenzialmente forme di assicurazione contro il rischio di contrarre una malattia non disponendo delle risorse necessarie a pagare le cure. In generale un rischio è assicurabile se la probabilità che un evento si verifichi in un determinato momento o luogo è indipendente da quella che lo stesso evento si verifichi in un altro momento o luogo. Il principio dell’assicurazione si basa, infatti, proprio sulla possibilità di prevedere il rischio medio di un numero elevato di eventi dannosi fra loro indipendenti. Se questo non è vero, il rischio diventa così elevato che nessuna assicurazione potrebbe accollarselo.

Un esempio di questo tipo è una malattia altamente infettiva. Nessuna assicurazione sarebbe disposta a coprire il rischio di una malattia sapendo che, una volta contratta dall’assicurato, si estenderà agli altri assicurati con elevata probabilità. La spiegazione non è difficile. Perché i pazienti accettino di assicurarsi il premio pagato all'assicurazione deve essere necessariamente inferiore al costo delle cure in caso di malattia, altrimenti non avrebbe senso assicurarsi. Se tutti o gran parte degli assicurati si ammalassero simultaneamente, i costi complessivi delle cure supererebbero il valore dei premi e l'assicurazione andrebbe in perdita.

In altri casi la probabilità può essere vicina all’unità. Per esempio un individuo che abbia malattie ereditarie o congenite che prima poi si manifesteranno con certezza o quasi, incontra evidentemente difficoltà a stipulare una polizza assicurativa sulla salute.

Altre distorsioni possono derivare da comportamenti diretti a catturare solo la parte migliore del mercato da parte dei fornitori dei servizi (cream skimming o scrematura dei rischi). Per esempio, a parità di rimborso delle spese da parte dell'azienda sanitaria pubblica per una certa patologia, un ospedale privato ha interesse a selezionare i pazienti che presentano forme più lievi perché più remunerativi (per esempio perché la durata della degenza può essere più breve).

C’è inoltre un problema di copertura territoriale. Per essere efficace l’offerta sanitaria deve avere una distribuzione sufficientemente diffusa nel territorio di ospedali e presidi sanitari. Ciò può comportare maggiori costi dovuti a diseconomie di scala che il settore privato non può accollarsi.

Tutte queste distorsioni rappresentano altrettante giustificazioni dell’intervento pubblico nel mercato sanitario. E’ importante osservare che non si tratta di giustificazioni legate a principi di equità quanto, piuttosto, a considerazioni di efficienza che si aggiungono ovviamente ai primi.

Naturalmente i principi di equità hanno un’importanza cruciale nel campo sanitario. L’accesso all’assistenza sanitaria, anche per i meno abbienti, è un elemento essenziale del principio dell’uguaglianza delle opportunità che un regime democratico si propone di attuare.

Nel settore sanitario assumono particolare rilevanza gli effetti della selezione avversa e dell'azzardo morale. La selezione avversa si manifesta con la tendenza alla concentrazione nel mercato dei pazienti più rischiosi. Immaginiamo di trovarci in un sistema sanitario interamente privato in cui i costi delle cure sono coperti da una polizza di assicurazione privata. Il meccanismo della selezione avversa è analogo a quello già visto all'opera nel mercato delle automobili usate. L'assicurazione non ha informazioni sufficienti per distinguere i pazienti più rischiosi da quelli meno rischiosi. Il premio assicurativo dovrà quindi essere una media fra quanto pagherebbero i

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primi e i secondi. Il resto vien da sé: i pazienti meno rischiosi, che pagano un premio più alto di quello corrispondente al loro grado di rischiosità, avrebbero minore interesse ad assicurarsi, il contrario accadrebbe per quelli più rischiosi. Così nel mercato aumenterebbe la quota di pazienti rischiosi e l'assicurazione sarebbe costretta ad aumentare i premi. Via via altri pazienti meno rischiosi uscirebbero di scena facendo nuovamente lievitare i premi, e così via in una spirale che porterebbe a una forte contrazione del mercato. Ma qui il problema è decisamente più serio di quanto non fosse nel mercato dei bidoni. Pazienza se ci sono poche compravendite di auto usate, molto più grave è invece che i malati non vengano curati o che siano costretti a farlo a prezzi esorbitanti. Quello che succederebbe è che i pazienti in condizioni di salute peggiori sarebbero costretti a pagare premi molto alti, oppure dovrebbero rinunciare all'assicurazione non potendoselo permettere oppure, ancora, le stesse assicurazioni rifiuterebbero di assicurarli. È un vero paradosso: proprio coloro che ne hanno più bisogno (per esempio anziani, malati cronici ecc.) rischiano di rimanere esclusi dalle prestazioni sanitarie.

L'azzardo morale può manifestarsi nel comportamento del paziente o del medico curante a danno del sistema sanitario. Per quanto riguarda il paziente può manifestarsi in due modi:

il fatto di essere assicurato può indurre l'individuo a ridurre l'attività di prevenzione della malattia (evento negativo);

il fatto di essere assicurato può indurre l'individuo ad aumentare le prestazioni richieste dopo la stipulazione del contratto. Nel primo caso se il paziente sa che, nel caso contraesse una malattia, sarebbe curato senza

costi, potrebbe essere spinto a trascurare un po' le precauzioni necessarie per evitare di contrarla. Un tipico esempio del secondo caso è il consumo di farmaci. Il fatto di non dovere sopportare costi induce a consumare una quantità di farmaci superiore alle esigenze reali. Questo è il motivo per il quale sono stati introdotti i ticket. Ciononostante il fenomeno del sovra consumo continua a manifestarsi soprattutto per i farmaci che non prevedono ticket ma, in una certa misura, anche per gli altri.

Nel caso del medico l'azzardo morale origina dalla mancanza di consapevolezza e/o da un carente senso di responsabilità. Spesso i medici non si curano del costo degli accertamenti o delle cure che prescrivono (oppure a volte lo fanno per un specifico interesse, basta pensare agli omaggi delle case farmaceutiche), causando un eccessivo ed ingiustificato uso delle risorse.

Modelli organizzativi

I sistemi sanitari dei paesi industrializzati assumono varie forme organizzative che si differenziano in base al maggiore o minore peso relativo della sanità pubblica rispetto a quella privata e al grado di copertura del rischio sanitario.

Modello pubblico o del servizio sanitario nazionale

Questo modello è tipico dei paesi scandinavi, ma è stato attuato anche nel Regno Unito prima del 1989 e in Italia sino al 1992. Si basa su un criterio universalistico, nel senso che tutti i cittadini hanno il diritto di usufruire dei servizi sanitari indipendentemente dalla loro disponibilità a pagare. Il servizio è finanziato mediante la fiscalità generale e da contributi sociali all’interno di schemi di assicurazione obbligatoria. I servizi sono offerti dallo Stato nell’ambito di strutture pubbliche, con una limitata libertà di scelta per il cittadino.

Il modello garantisce uniformità di prestazioni, ma presenta rischi di inefficienza nella definizione della capacità produttiva e nell’organizzazione dei fattori.

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Modello privato o delle assicurazioni private

È caratteristico degli Stati Uniti. L’intervento pubblico è assente. L’offerta sanitaria è gestita interamente da privati con una logica di mercato. I cittadini si affidano a forme di assicurazione privata volontaria e possono scegliere liberamente le strutture a cui rivolgersi. I premi assicurativi sono commisurati al rischio specifico di ogni individuo, e variano con l’età e lo stato di salute.

La concorrenza fra produttori riduce alcune forme di inefficienza, ma non risolve i problemi di informazione di cui si detto in precedenza. Il sistema presenta inoltre forti elementi di iniquità, con prestazioni non uniformi fra individui ed aree diverse del paese.

Negli U.S.A. esistono programmi pubblici come il programma di aiuto per gli anziani (Medicare) e quello per i più poveri (Medicaid), ma il loro grado di copertura è limitato. Ultimamente, con la riforma dell'amministrazione Obama, la copertura è stata significativamente ampliata.

Modello misto

Tipico della maggior parte dei Paesi Europei, presenta elementi di entrambi i modelli precedenti, anche se, spesso, prevalgono le caratteristiche del modello pubblico. L’offerta di servizi proviene sia dal settore pubblico che da quello privato. L’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Dati i problemi di informazione descritti in precedenza, le decisioni di domanda e la scelta del fornitore di servizi è filtrata da un medico di base che svolge una funzione vicaria e di indirizzo.

Il finanziamento della spesa avviene in parte mediante la fiscalità generale, in parte mediante contributi, in parte ancora mediante pagamenti diretti da parte degli utenti (ticket). In alcuni paesi (Germania, Francia) il sistema è di tipo mutualistico, e si avvale di fondi e casse malattia organizzati per settori, e finanziati attraverso contributi dei lavoratori del settore. Le diverse mutue sono caratterizzate da aliquote contributive, livelli di copertura e modalità di erogazione delle prestazioni molto differenziati.

Gli obiettivi delle riforme dei sistemi sanitari

I sistemi sanitari sono stati caratterizzati negli ultimi decenni da un forte aumento della spesa che richiede nuove soluzioni capaci di conciliare l’esigenza di offrire a tutti livelli simili di assistenza, la liberta di scelta dell’utente e il contenimento dei costi. Se chi definisce il livello della prestazione, sia esso il beneficiario, l’ospedale o il medico di base, non ne sopporta i costi, possono verificarsi notevoli sprechi. Si noti che questo fenomeno non riguarda soltanto i sistemi prevalentemente pubblici. Al contrario, il paese con il livello più alto di spesa sanitaria sono, come abbiamo visto, gli U.S.A.

In generale le riforme dei sistemi sanitari dove è maggiore la presenza pubblica sono orientate a migliorare l’efficienza introducendo alcuni elementi di mercato. In particolare:

riducendo l’intervento diretto dello Stato;

aumentando la concorrenza fra i fornitori pubblici e privati;

accrescendo le possibilità di scelta del paziente. Dal lato dell’offerta, si cerca di promuovere la creazione di istituzioni (ambulatori, ospedali ecc.)

pubbliche o private, con e senza fini di lucro (si noti che, anche negli U.S.A., gli ospedali privati sono per il 68% organizzazioni senza fini di lucro) che operano in concorrenza fra loro e godono di autonomia gestionale. In genere questo significa che possono decidere autonomamente le proprie spese e tariffe, e l’impiego di eventuali utili di gestione.

Dal lato della domanda, all’utente vengono assegnati fondi vincolati ad un uso sanitario (voucher) che gli consentono una certa libertà decisionale anche se, a causa del difetto di

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informazione e della difficoltà di valutare i bisogni, la gestione deve essere mediata da enti intermedi che interagiscono con i fornitori di servizi contrattando i prezzi e le prestazioni.

Queste forme di organizzazione sono definite quasi mercati o mercati interni.

Il sistema sanitario in Italia

Nell’ordinamento italiano il servizio sanitario è affidato alle regioni. Con la riforma del 1978 (Legge 833/1978), è stato abbandonato il precedente sistema mutualistico a rimborso, adottando un modello di servizio sanitario nazionale con completo finanziamento pubblico e una prevalente offerta pubblica dei servizi. L’offerta pubblica è integrata in parte da prestazioni di strutture private, regolate sulla base di convenzioni.

Nel corso degli anni ‘90 la crescita della spesa e la scarsa qualità dei servizi hanno reso necessarie alcune modifiche dell’assetto organizzativo. Questo problema non è solo italiano, dato che la spesa sanitaria in Italia risulta in linea con quella degli altri paesi industrializzati, ma generale. Le principali innovazioni sono consistite nell’introduzione di:

autonomia gestionale degli ospedali;

il rimborso ROD (Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi) per le prestazioni ospedaliere (in pratica i pazienti ricoverati sono classificati in gruppi omogenei in base ad alcuni parametri che definiscono l'impiego di risorse necessarie per curarli. I rimborsi sono quindi calcolati in base alle risorse impiegate);

la compartecipazione dei pazienti al costo (ticket sanitari). L’autonomia gestionale consente ai fornitori di servizi pubblici di decidere autonomamente

l’uso dei fattori produttivi (contratti di lavoro, acquisti di beni e servizi, investimenti) e di eventuali utili. Anche in assenza di una motivazione di profitto, l'autonomia incentiva l'efficienza.

Il sistema sanitario negli U.S.A.

Negli U.S.A. l’assistenza sanitaria pubblica non è un diritto del cittadino in quanto tale, ma lo è soltanto in presenza di particolari condizioni di invalidità, povertà o età. I programmi di assistenza pubblica, come Medicare e Medicaid, si limitano a coprire le situazioni più gravi e difficili e interessano una fascia molto ristretta della popolazione. I cittadini non coperti possono stipulare polizze assicurative volontarie che, in genere, sono offerte dai datori di lavoro e godono di forti sgravi fiscali. L’assicurazione è quindi legata allo stato occupazionale: il licenziamento comporta la perdita della protezione sanitaria.

Nonostante l’elevata spesa sanitaria, negli U.S.A. è alto il numero dei non assicurati (secondo una stima approssimativa sarebbero circa il 14% della popolazione), in prevalenza adulti a basso reddito e occupati nelle piccole imprese. La spesa elevata non è quindi dovuta all’estensione della copertura sanitaria quanto all’alto costo delle prestazioni. Quest’ultimo, a sua volta, è influenzato dalle agevolazioni fiscali sulle assicurazioni sanitarie che stimolano la domanda di polizze assicurative e, di conseguenza, quella di prestazioni mediche anche molto sofisticate, facendone aumentare i prezzi.

La spesa è inoltre concentrata su un’esigua minoranza di individui (il 55% della spesa riguarda il 5% della popolazione). Questo fa sì che le assicurazioni private cerchino di evitare di assicurare gli individui particolarmente rischiosi (è il fenomeno della scrematura dei rischi o cream skimming) e di selezionare quelli che hanno meno probabilità di ammalarsi. Le assicurazioni sopportano costi considerevoli per accertare le condizioni sanitarie dei potenziali assicurati (i costi amministrativi superano il 25% delle spese sanitarie complessive) e questo fa lievitare i premi assicurativi.

L’effetto di questa concorrenza è un meccanismo di selezione avversa, per cui i premi elevati delle polizze fanno sì che solo gli individui ad elevato rischio sanitario abbiano interesse ad assicurarsi. Il costo medio dell’assicurazione sanitaria inevitabilmente aumenta e i premi sono

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spinti ulteriormente verso l’alto. Il risultato di questo circolo vizioso è un mercato assicurativo che non copre una quota consistente della popolazione, e un sistema sanitario che tende ad offrire prestazioni sofisticate e molto costose a una minoranza di cittadini.

Le politiche del lavoro

Le politiche del lavoro sono l’insieme degli interventi pubblici a tutela dell’interesse collettivo rappresentato dall’occupazione. In tutti i paesi industrializzati esiste qualche forma di intervento pubblico nel mercato del lavoro anche se con forti differenze. Si va da paesi fortemente interventisti come quelli scandinavi a quelli anglo-sassoni che, in linea con il clima politico generale più liberista, si caratterizzano per una presenza pubblica assai più limitata, sia sul piano della regolamentazione del mercato che su quello delle tutele contro il rischio di disoccupazione. I principali ambiti in cui operano le politiche pubbliche per il lavoro sono tre:

la regolamentazione del mercato del lavoro che disciplina i rapporti di lavoro per quanto riguarda le assunzioni (per esempio norme anti discriminazione) e i licenziamenti (in Italia esiste il principio della giusta causa che impedisce il licenziamento non motivato), oppure le condizioni di lavoro (norme sulla sicurezza e salute ecc.)

la promozione dell’occupazione, ovvero le misure che tendono a favorire l'inserimento nel mercato del lavoro (collocamento, formazione professionale, incentivi all’occupazione ecc.)

la garanzia del reddito che tutela il lavoratore contro il rischio di disoccupazione o sospensione temporanea del rapporto di lavoro, garantendogli una fonte di sostentamento (cassa integrazione, indennità di disoccupazione ecc.)

Possiamo inoltre distinguere due fondamentali tipologie di interventi:

le politiche passive del lavoro che consistono in prestazioni monetarie a favore del disoccupato, in genere non discrezionali ma automatiche (ammortizzatori sociali)

le politiche attive che mirano a incidere sulla struttura del mercato del lavoro creando condizioni favorevoli alla crescita dell’occupazione e puntando a prevenire la disoccupazione. Le politiche passive affrontano il problema della disoccupazione con un approccio curativo. Esse

intervengono ex post quando la disoccupazione si è già creata e mirano ad alleviarne gli effetti negativi sostenendo finanziariamente il lavoratore disoccupato.

Viceversa le politiche attive assumono un ottica preventiva, cercano cioè di impedire che si crei disoccupazione facilitando i contatti fra lavoratori e datori di lavoro, favorendo la formazione delle competenze richieste dal mercato e così via. Tra le misure più frequenti vi sono:

sussidi all’occupazione: mirano a stimolare l’occupazione riducendo il costo del lavoro per le imprese

creazione diretta di posti di lavoro: un esempio sono i lavori socialmente utili

formazione professionale: favorisce l’inserimento nel lavoro e attenua i problemi di mismatching attraverso la creazione di competenze

sostegno finanziario all’imprenditorialità: consiste in politiche di incentivazione finanziaria mediante tassi di interesse agevolati e contributi per favorire la creazione d'impresa

servizi per l’orientamento e il collocamento.

Gli ammortizzatori sociali

Gli ammortizzatori sociali sono forme di assicurazione sociale destinate a coprire il principale rischio affrontato dai lavoratori nelle economie di mercato: la disoccupazione. Il sussidio di disoccupazione è pertanto l’istituto più rilevante nell’ambito delle politiche sociali destinate al mondo del lavoro. La copertura del rischio di disoccupazione può assumere varie forme che dipendono anche dalla natura della disoccupazione.

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Possiamo distinguere fra tre tipi principali di istituti:

la tutela del lavoratore in caso di disoccupazione temporanea

la tutela in caso di disoccupazione definitiva

forme di protezione di ultima istanza per coloro che non hanno lavoro e sono in condizioni di particolare bisogno. In caso di sospensione temporanea del rapporto di lavoro, la prestazione assicurativa è

garantita solo ai lavoratori con una certa età o anzianità contributiva, dal momento che è finanziata con contributi sociali a carico dei lavoratori e delle imprese. Per gli stessi motivi l’ammontare della prestazione è proporzionale alla remunerazione ed ha una durata limitata. In Italia i principali istituti di tutela di questo tipo sono:

la Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO) che riguarda il settore industriale e può essere richiesta per difficoltà aziendali derivanti da situazioni temporanee di crisi del mercato. Il sussidio, che è pari all’80% del salario, non richiede alcun requisito di anzianità ed ha una durata limitata a 3 mesi, estendibile fino a 12. Durante il periodo di godimento il lavoratore non può svolgere altri lavori.

la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS) che copre rischi di maggiore gravità e durata, per esempio in caso di ristrutturazioni, riorganizzazioni, riconversioni industriali, crisi aziendali e fallimento. E’ in genere condizionata alla predisposizione di un piano di rilancio, volto a salvaguardare l’occupazione ed ha una durata non superiore a 36 mesi.

Rientrano fra questi tipi di tutela anche l’Assicurazione per infortuni sul lavoro, l’Assicurazione per malattia e l’Assicurazione per maternità.

In caso di sospensione definitiva del rapporto di lavoro, le forme di tutela sono simili al caso precedente, ma hanno maggiore durata e il lavoratore deve dimostrare di essere alla ricerca di una nuova occupazione, e/o deve partecipare a programmi pubblici di formazione o lavoro.

I principali strumenti di tutela sono:

l’indennità di mobilità: copre il rischio di disoccupazione nel caso di licenziamenti collettivi ed ha una durata fino a 48 mesi, variabile in base all’età e alla zona territoriale (più alta all’aumentare dell’età e nel Sud); la prestazione è pari all’80% della retribuzione lorda per i primi 12 mesi e decresce successivamente al 64%;

l’indennità di disoccupazione: è lo strumento più importante di tutela nel caso di licenziamenti individuali e prevede una prestazione pari al 40% della retribuzione lorda per un periodo massimo di 6 mesi. Per quanto rientri più propriamente nell’ambito dell’assistenza, anche il reddito minimo di

inserimento (RMI) può svolgere funzioni di tutela contro la perdita di reddito dovuta a disoccupazione. Esso agisce come rete di protezione di ultima istanza garantendo un reddito minimo ad ex lavoratori che si trovano in stato di bisogno e non hanno più accesso agli altri istituti di tutela. Tali programmi di protezione sono finanziati con la fiscalità generale. L’erogazione del sussidio avviene a seguito di un controllo dei mezzi (means testing) di sostentamento del beneficiario.

I motivi dell’intervento pubblico

Anche il rischio di disoccupazione, come già quello sanitario, potrebbe essere coperto attraverso il ricorso al mercato assicurativo privato ma, anche in questo caso, l’intervento pubblico è giustificato sulla base del fatto che il mercato non è in grado di risolvere il problema in modo efficiente. Anche qui le ragioni fondamentali sono la presenza di problemi di informazione e la non indipendenza dei rischi assicurati. Il deficit di informazione da luogo a fenomeni di:

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selezione avversa, nel senso che tendono ad assicurarsi i lavoratori che hanno più probabilità di rimanere disoccupati (ad esempio, lavoratori meno qualificati o che lavorano in imprese più esposte al rischio di fallimento)

azzardo morale, per cui la copertura del rischio riduce gli incentivi a ricercare un nuovo posto di lavoro e ad evitarne la perdita, di conseguenza le compagnie assicuratrici dovrebbero sostenere costi elevati per effettuare i controlli. Per entrambi i motivi i premi assicurativi tendono ad essere troppo alti. La seconda ragione è

che, spesso, il rischio di disoccupazione non è assicurabile perché, in caso di crisi economiche generali, le probabilità che i singoli lavoratori perdano il lavoro sono collegate fra loro.

Le critiche agli ammortizzatori sociali

I sussidi di disoccupazione sono stati oggetto di forti critiche da parte degli avversari del Welfare State. Secondo i critici essi introducono distorsioni nel mercato del lavoro e, lungi dall’attenuarlo, finiscono per accentuare il problema della disoccupazione. I critici argomentano che i sussidi riducono gli incentivi alla ricerca di un posto di lavoro e contribuiscono, quindi, ad allungare la durata della disoccupazione. Inoltre, attenuando le conseguenze negative del licenziamento e riducendo le motivazioni del lavoratore a fornire una prestazione efficiente, possono influire negativamente sulla produttività.

La teoria economica non fornisce indicazioni chiare a sostegno delle argomentazioni favorevoli o di quelle critiche, e nemmeno le ricerche empiriche sono molto utili a questo scopo. Esiste comunque una certa concordanza di vedute sul fatto che gli effetti negativi dei sussidi di disoccupazione dipendono più dalla durata che dall’entità del sussidio.

L’esigenza di riformare questi istituti è stata avvertita in tutti i paesi industrializzati. In generale le proposte di riforma mirano a stimolare l’operosità del lavoratore, condizionando la concessione del sussidio alla partecipazione a programmi di riqualificazione o a lavori socialmente utili, e a ridurre la durata delle prestazioni.

Un’interessante alternativa ai sussidi di disoccupazione è stata sperimentata nei paesi anglosassoni. Alcuni programmi (un esempio è l’Earned income tax credit negli U.S.A.) introducono nuove modalità di erogazione: al posto del sussidio a chi è disoccupato, si offre una integrazione del salario a chi ha un lavoro ma guadagna poco, sotto forma di credito di imposta e per un periodo di tempo limitato. L’idea sottostante è di ridurre la disoccupazione per due vie: da un lato la riduzione fiscale contribuisce a contenere i salari dei lavoratori più esposti al rischio disoccupazione, e stimola la domanda di lavoro da parte delle imprese; dall’altro il lavoratore è incentivato a cercare lavoro, perché un’occupazione poco remunerata diviene più conveniente rispetto al sussidio di disoccupazione.

La riforma degli ammortizzatori sociali in Italia: molto rumore per nulla

Anche in Italia il tema della riforma degli ammortizzatori è stato oggetto di dibattito con varie proposte di riforma, alle quali non hanno fatto seguito misure concrete. Tra le più importanti e organiche proposte di riforma spicca quella della Commissione Onofri (1997) che suggeriva una semplificazione e razionalizzazione degli istituti, eliminando le frammentazione dei programmi e rafforzando il principio di selettività con più stringenti criteri di controllo dei mezzi. Si sottolineava inoltre la necessità di condizionare i benefici alla partecipazione ad attività formative o a programmi di lavori socialmente utili. Le proposte della commissione Onofri non si sono mai concretizzate in un provvedimento di legge.

La riforma degli ammortizzatori è divenuta particolarmente urgente in seguito alla flessibilizzazione del mercato del lavoro operata dalla legge Biagi, con l’introduzione di nuove forme contrattuali e di una disciplina dei servizi per l’impiego, volta a snellire le procedure di

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incontro tra domanda ed offerta di lavoro. In assenza di una riorganizzazione degli ammortizzatori sociali, la flessibilità introdotta dalla legge Biagi ha finito per generare situazioni di precarietà e disagio sociale.

Solo con la recente riforma Fornero è stato fatto un primo tentativo di revisione organica della normativa esistente. La riforma punta a superare l'attuale dualismo fra lavoratori protetti e non protetti che caratterizza il mercato del lavoro italiano estendendo la platea dei beneficiari delle indennità di disoccupazione. L'idea guida è che le forme di tutela devono riguardare non il posto di lavoro (come avviene con la CIG che presuppone il mantenimento del rapporto di lavoro fra il lavoratore e l'azienda in cui lavora) ma il lavoratore nei suoi percorsi all'interno del mercato del lavoro. Lo strumento principale con cui si persegue questo obiettivo è l'ASPI (Assicurazione sociale per l'impiego) destinata ad assorbire tutti gli altri ammortizzatori sociali oggi in vigore ad eccezione della cassa integrazione ordinaria. L'Aspi è applicabile ai lavoratori dipendenti del settore privato e a quelli della pubblica amministrazione con contratto non a tempo indeterminato, nonché apprendisti e artisti dipendenti (che prima erano esclusi). Possono accedervi tutti coloro che abbiano almeno due anni di anzianità assicurativa senza alcuna distinzione, comprendendo così anche coloro che possono contare su meno anni di esperienza o coloro che hanno contratti atipici e precari. L'Assicurazione sociale per l'impiego ha una durata di 12 mesi, prorogabili a 18 nel caso in cui il lavoratore interessato abbia più di 55 anni. L'indennità viene decurtata del 15% dopo i primi 6 mesi, e di un altro 15% dopo gli altri 6 mesi.

Sia pure con alcuni limiti, la riforma si muove nella direzione di avvicinare il sistema italiano degli ammortizzatori sociali alle tipologie presenti in altri paesi europei rendendolo più coerente con le esigenze di flessibilità del mercato del lavoro.

La flessibilità del lavoro

Negli anni 90 la crescita della disoccupazione in Europa ha determinato un mutamento di approccio alle politiche del lavoro. Si passa dalla tutela passiva della disoccupazione a politiche attive volte a promuovere la capacità di inserimento professionale. Si sviluppa un processo di coordinamento delle politiche del lavoro degli stati membri noto come "strategia europea per l’occupazione", che si articola nei seguenti punti:

aumentare l’occupabilità attraverso la formazione professionale e servizi di assistenza ai disoccupati

sviluppare l’imprenditorialità mediante la semplificazione degli espletamenti amministrativi e lo sviluppo del mercato dei capitali di rischio

accrescere la flessibilità nell’organizzazione delle imprese e del lavoro

rafforzare le pari opportunità. In Italia sono stati introdotti numerosi provvedimenti con l'obiettivo di accrescere la flessibilità.

Il primo è il pacchetto Treu del 1996 che introduce il lavoro interinale. Con questo termine si intende la fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo da parte di agenzie private. Il lavoratore non ha un rapporto diretto con l'impresa che lo utilizza temporaneamente ma è dipendente dell'agenzia che fornisce i suoi servizi lavorativi alle imprese che ne fanno richiesta.

Nel 2003 viene approvata la legge Biagi che introduce nuove tipologie di contratti di lavoro:

lavoro a progetto

contratto di inserimento

lavoro ripartito (job sharing)

lavoro a chiamata

apprendistato

part time

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Il contratto a progetto riguarda una prestazione lavorativa che si svolge e si esaurisce nell'ambito di uno o più progetti specifici o fasi di essi, determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato sotto il coordinamento del committente.

Il contratto di inserimento ha la funzione di adeguare le competenze professionali del lavoratore ad un determinato tipo di lavoro, facilitando l'inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro.

Il contratto di lavoro ripartito è uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due lavoratori assumono insieme l'adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa. Ogni lavoratore è personalmente e direttamente responsabile dell'adempimento della intera obbligazione lavorativa.

Con il contratto di lavoro intermittente (o a chiamata) un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa. Può essere stipulato anche a tempo determinato. Il lavoratore viene retribuito non solo per il lavoro effettivamente svolto ma anche per il tempo in cui offre semplicemente la propria disponibilità.

Il part-time è una soluzione contrattuale che prevede una durata dell’orario di lavoro inferiore al tempo pieno. Si divide in 3 tipologie:

orizzontale: riduzione dell’orario di lavoro giornaliero

verticale: la prestazione di lavoro avviene a tempo pieno, ma è limitata a giorni prestabiliti nella settimana, nel mese o nell’anno;

misto: prevede un orario misto tra part time verticale e orizzontale.

La flexsecurity

La flexsecurity (o flexicurity) è il tentativo di combinare flessibilità e sicurezza sociale nel mercato del lavoro attraverso uno scambio fra maggiori tutele ai lavoratori disoccupati e maggiore libertà di licenziamento per i datori di lavoro. Questo tipo di organizzazione è stata introdotta inizialmente in Danimarca per diffondersi poi in altri paesi. In pratica le imprese possono licenziare liberamente in base alle proprie esigenze di produzione e i lavoratori possono godere di un reddito che consente loro di sopravvivere nel periodo in cui sono alla ricerca di una nuova occupazione. Questa idea può essere attuata concretamente in vari modi, il modello danese è solo uno di essi.

In Italia una proposta di questo tipo molto influente è stata presentata da giuslavorista Pietro Ichino. La proposta si articola in diversi punti.

le imprese possono licenziare senza controllo giudiziale (salvo il caso di licenziamento discriminatorio)

tranne pochi casi in cui è ammesso il contratto a termine, i nuovi dipendenti sono tutti assunti con contratto a tempo indeterminato e un periodo di prova di massimo sei mesi

il lavoratore ha diritto a un preavviso convertibile in indennità di licenziamento pari a un mese se ha un anno di anzianità

in caso di anzianità superiore ad un anno, oltre al preavviso, il lavoratore ha diritto al trattamento di riallocazione Il trattamento di riallocazione consiste in un contratto assicurativo stipulato dall'impresa con

un'agenzia che paga al lavoratore licenziato il 90% dell'ultima retribuzione per il primo anno di disoccupazione, poi l'80% e il 70% nei due anni successivi. Il lavoratore è tenuto a partecipare a tempo pieno a tutte le iniziative di riqualificazione e ricerca della nuova occupazione attivate per lui, e l'agenzia può recedere dal contratto in caso di inadempimento del lavoratore. Il finanziamento delle attività di riqualificazione e collocamento grava su fondi pubblici mentre il trattamento di disoccupazione è a carico dell’impresa che licenzia.

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Uno degli aspetti positivi di questa proposta è che il costo per l’azienda è molto ridotto per il primo anno successivo al licenziamento, in cui operano sussidi già esistenti (trattamento ordinario e speciale di disoccupazione) ma aumenta molto nei due anni successivi, creando un forte incentivo a ricollocare il lavoratore entro un anno dal licenziamento. Al momento la proposta Ichino non ha ancora avuto applicazione concreta.

Gli effetti della flessibilità

Si è molto dibattuto sul fatto che la flessibilità introdotta da queste riforme abbia effettivamente accresciuto l'occupazione in Italia, in particolare quella giovanile. Se consideriamo il tasso di disoccupazione la risposta è affermativa come appare nel grafico che segue (si tenga presente che il grafico non include gli effetti della crisi globale in corso).

Tuttavia ad un esame più approfondito l'ottimismo lascia il posto a qualche perplessità. Per capire meglio cosa è successo nel mercato del lavoro giovanile occorre rispondere ad altre due domande: che cosa è accaduto al tasso di occupazione? Quali tipologie di lavoro sono state create grazie alla flessibilità? Riguardo al primo punto la tavola seguente offre indicazioni molto utili.

I dati mostrano chiaramente che, a differenza degli altri paesi europei, l'occupazione giovanile

in Italia è di fatto diminuita tra il 2000 e il 2008 e questa diminuzione non è imputabile alla crisi globale che, a quell'epoca, non aveva ancora prodotto i suoi effetti.

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Anche sul fronte della stabilità del lavoro la realtà non sembra molto allegra per i giovani. Se consideriamo gli under 35, l'incidenza delle occupazioni precarie è aumentata dal 20% del 2004 al 39% nel 2011.

Il quadro assume tinte ancora più fosche per quanto riguarda altre caratteristiche dell'occupazione giovanile come quelle sotto indicate.

i salari dei lavoratori giovani precari sono inferiori del 20/30% rispetto a quelli dei lavoratori con contratti standard

i giovani non godono di alcuna rete di protezione in caso di scadenza del contratto

i contributi previdenziali sono più bassi e questo significa pensioni più basse in futuro

la crisi ha colpito soprattutto questa fascia di lavoratori perché le imprese non rinnovano i contratti in scadenza

la formazione sul lavoro non cresce perché le imprese non hanno interesse a investire nella formazione di lavoratori che lasceranno l'impresa dopo breve tempo. L'ultimo punto è forse quello più gravido di conseguenze perché il mancato sviluppo del

capitale umano, oltre alla disoccupazione, produce anche effetti negativi molto forti sulla produttività complessiva del sistema Italia nel lungo periodo.

L’assistenza

Obiettivi e criteri delle politiche di assistenza

La finalità fondamentale della spesa per l’assistenza sociale è quella di combattere la povertà e di attenuare forme di disagio personale (dovute ad handicap o mancanza di autosufficienza) e sociale (riconducibili ad emarginazione, tossicodipendenze ecc.). Rientrano all’interno di questa categoria anche le spese a sostegno delle famiglie. Le politiche per l’assistenza attuano una redistribuzione del reddito, sia sotto forma di trasferimenti monetari che di offerta di beni e servizi, a favore dei gruppi sociali più poveri e disagiati.

E’ difficile trovare specifiche giustificazioni economiche di efficienza a sostegno di tali politiche che si fondano sostanzialmente su principi etici e solidaristici.

Possiamo distinguere due impostazioni generali delle politiche di assistenza:

impostazione selettiva: riserva i programmi di assistenza a individui e gruppi che si trovino in condizioni di particolare disagio che devono pertanto essere sottoposte ad accertamenti; questa impostazione è tipica del modello anglo-sassone di Welfare State.

impostazione universalistica: è propria dei programmi che erogano prestazioni a tutti i cittadini, indipendentemente da qualunque accertamento dello stato di bisogno o del rispetto di altre condizioni.

Disuguaglianza e povertà

Le politiche di assistenza si rendono necessarie perché una distribuzione del reddito ineguale crea condizioni di povertà e disagio economico. Come si definiscono e misurano la povertà e la disuguaglianza?

Il primo problema da affrontare è che cosa misurare e a chi riferire la misurazione. Nonostante, come abbiamo già visto, il concetto di povertà sia stato oggetto di una profonda riconsiderazione e ridefinizione da parte di approcci come quello delle capacità, nella pratica concreta delle politiche di assistenza la povertà continua ad essere intesa come deprivazione puramente materiale. Normalmente la variabile misurata è il reddito, ma si potrebbero considerare anche altre variabili, come il consumo o la ricchezza. L’individuo è spesso preso come unità di analisi ma la famiglia risulta, in molti casi, più appropriata se si tiene conto della diversa composizione dei nuclei familiari. A questo scopo vengono usate le cosiddette scale di equivalenza. Una scala di

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equivalenza è un insieme di parametri che vengono utilizzati per dividere il reddito familiare, in modo da ottenere un reddito equivalente che tiene conto della diversa composizione delle famiglie. Se si prendesse il reddito familiare e lo si dividesse per il numero dei componenti si otterrebbe una misura distorta, perché ignorerebbe completamente il fatto che i costi di una famiglia non sono perfettamente proporzionali al numero di componenti a causa della presenza di economie di scala. Per esempio, la bolletta del gas di una famiglia di quattro persone è, in generale, inferiore a quattro volte la spesa di una persona sola. Per questo motivo i membri della famiglia sono pesati in modo diverso ai fini del calcolo del reddito equivalente. L’Eurostat, per esempio attribuisce peso 1 al primo adulto, 0,5 ad ogni altro adulto e 0,3 ad ogni minore di 14 anni.

Curva di Lorenz

La disuguaglianza può essere misurata utilizzando vari indicatori statistici di dispersione che

misurano di quanto i valori di una data distribuzione si discostano dalla media. La varianza o la deviazione standard sono indicatori di questo tipo, ma non necessariamente deve trattarsi di un indicatore sintetico (consistente in un unico valore numerico). Una misura largamente usata, che non rientra in questa categoria, è la curva di Lorenz.

La curva di Lorenz viene costruita nel modo seguente. Immaginiamo di dividere la popolazione di cui vogliamo misurare la disuguaglianza in 5 gruppi di uguale numerosità. Consideriamo quindi un quadrato sul cui lato orizzontale misuriamo la percentuale cumulata della popolazione così divisa. Ciascuno gruppo rappresenta il 20% della popolazione totale. Sommando il primo e il secondo si avrà il 40%, i primi due più il terzo rappresenteranno il 60% e così via.

Sul lato verticale misuriamo la quota cumulata di reddito attribuita ai gruppi. Se la distribuzione fosse perfettamente ugualitaria il primo 20% della popolazione dovrebbe appropriarsi del 20% del reddito (punto A), il 40% percepirebbe il 40% del reddito (punto B) e così via. Ci muoveremmo cioè lungo la diagonale del quadrato.

In caso di distribuzione perfettamente ineguale tutta la popolazione percepirebbe un reddito pari a zero e un solo individuo si impossesserebbe del 100% del reddito. Questo caso sarebbe raffigurato dalla linea spezzata rossa corrispondente ai lati inferiore e destro del quadrato.

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Nella caso concreto che stiamo esaminando il primo gruppo (20% della popolazione) si appropria del 10% del reddito (punto C). I primi due, sommati insieme, percepiscono il 20% del reddito totale (punto D), i primi tre il 35% (punto E), i primi quattro il 60% (punto F). L’ultimo 20% si appropria del 40% restante. Unendo i vari punti otteniamo la linea spezzata azzurra.

La disuguaglianza può quindi essere misurata dallo scostamento della spezzata azzurra, che rappresenta il caso concreto, dalla diagonale rossa che descrive una distribuzione teorica perfettamente ugualitaria. Lo scostamento è misurato dall’area beige inclusa fra le due linee.

Il rapporto fra l’area beige e l’area compresa fra la diagonale e i due lati del quadrato (l'area del triangolo rosso) corrisponde al valore di un indicatore di disuguaglianza molto noto e molto usato: l’indice di Gini. L’indice varia fra 0 e 1. Se la distribuzione è perfettamente ugualitaria la spezzata azzurra coincide con la diagonale e l’area beige è nulla. L’indice assume quindi valore 0. In caso di assoluta disuguaglianza la spezzata azzurra coincide con i cateti del triangolo rosso, l’area beige è uguale a quella del triangolo rosso, pertanto l’indice assume valore 1.

La misura della povertà

La povertà viene misurata fissando una linea di demarcazione, detta linea della povertà, che fa da spartiacque fra chi è povero e chi non lo è. Coloro che hanno un livello di reddito inferiore a quello stabilito dalla linea sono identificati come poveri.

Il concetto di povertà può essere definito in senso relativo o assoluto. E’ relativamente povero chi ha meno degli altri. La povertà relativa viene misurata con riferimento alla media o alla mediana della distribuzione del reddito, pertanto il valore soglia varia con la crescita dell’economia. Questo concetto finisce per confondersi con quello di disuguaglianza, inoltre non sempre rispecchia situazioni di vero bisogno.

La nozione di povertà assoluta si fonda sull’idea che sia possibile individuare un paniere di beni e servizi essenziali che assicura il soddisfacimento di bisogni minimi. I poveri sono coloro il cui potere d’acquisto è inferiore a quello richiesto dal paniere. Questa misura è usata dagli organismi internazionali (ONU, Banca mondiale) per misurare la povertà nei paesi in via di sviluppo. La soglia varia a seconda delle aree: in Asia è pari a un dollaro al giorno, in America latina raddoppia a due dollari al giorno. Il concetto di povertà assoluta consente di cogliere meglio situazioni di disagio estremo rispetto a quello di povertà relativa, ma presenta l’inconveniente di non fornire una misura di quanto si è poveri, ovvero di quanto il reddito di un individuo è distante dalla linea della povertà.

Le politiche contro la povertà

Concentriamo l’attenzione sulle politiche che mirano ad attenuare o eliminare la povertà mediante trasferimenti monetari. Molte di queste politiche sono integrate all’interno del sistema tributario e si basano su sussidi o riduzioni di imposta.

I programmi possono avere carattere selettivo o universale. I programmi a carattere selettivo trasferiscono in genere un sussidio a coloro che hanno un reddito al di sotto della soglia della povertà. Il sussidio è uguale alla differenza fra il reddito soglia e quello effettivo. Questo tipo di programmi consentono di ridurre la povertà a costi molto minori rispetto a quelli a carattere universale ma presentano alcuni inconvenienti:

eliminano l’incentivo a produrre reddito perché ogni euro di reddito prodotto in più è esattamente compensato da una riduzione del sussidio, questo effetto è denominato trappola della povertà;

la concessione del sussidio è subordinata a un controllo dei mezzi che comporta non solo costi psicologici per gli individui che vi vengono sottoposti, ma anche costi amministrativi non indifferenti per impedire che ne usufruiscano individui che non ne hanno titolo.

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I più noti programmi a carattere universale sono il dividendo sociale e l’imposta negativa sul reddito.

Il dividendo sociale consiste in un sussidio a carattere universale non sottoposto a tassazione. Il sussidio modifica l’imposta sul reddito nel modo seguente: 1) T = tY – S Dove T è l’imposta totale, S è il sussidio e t l’aliquota di imposta. Il reddito disponibile a seguito del sussidio sarà quindi: 2) Yd = Y – T = Y – tY + S

Se il reddito di un individuo è pari a zero egli percepirà comunque un sussidio pari a S. Dividendo sociale

Nella figura la linea rossa rappresenta il reddito disponibile (Yd, misurato in ordinata), che

aumenta all'aumentare del reddito totale (Y, misurato in ascissa) ma è minore di esso. La differenza è data dall'imposta, se il reddito totale è Y1 (uguale a Y1B perché il punto B si trova sulla linea inclinata a 45° in cui ascissa e ordinata sono sempre uguali) quello disponibile è Y1A, l'imposta pagata è AB. Il sussidio S è uguale alla distanza verticale fra la linea blu e quella rossa. Quando il reddito è Y* il reddito disponibile sarebbe Yd1 senza il sussidio, ma quest'ultimo compensa esattamente l'imposta da pagare quindi il reddito disponibile, incluso il sussidio, diventa Yd=Y*. Quando il reddito è minore di Y* il sussidio è maggiore dell'imposta e aggiunge qualcosa al reddito, il reddito disponibile con sussidio supera pertanto il reddito totale (la linea blu sta sopra quella a 45°). Il contrario accade quando il reddito totale è maggiore di Y* come si può vedere in corrispondenza di Y1 (la linea blu sta sotto quella a 45°). Se S fosse pari alla soglia di povertà questo programma avrebbe l’effetto di eliminare completamente la povertà.

L’imposta negativa sul reddito consiste nel dedurre dal reddito imponibile un certo ammontare prima di calcolare l’imposta. Il reddito dedotto può essere, per esempio, uguale alla soglia della povertà. Coloro che hanno un reddito inferiore a tale ammontare pagheranno un’imposta negativa, ossia riceveranno un sussidio equivalente.

Imposta negativa

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In questo caso l’imposta è data da: 2) T = tY – tY* dove Y* è l’ammontare di reddito che viene dedotto. Il reddito disponibile è: 3) Yd = Y – T = Y – tY +tY*

Nella figura l'imposta è misurata dall'ordinata dei punti della linea blu. Quando il reddito è Y* l'imposta è uguale a zero e diventa positiva per redditi superiori. Per esempio, in corrispondenza del reddito Y1, la tassa è Y1A. L'area rossa rappresenta l'ammontare complessivo di imposte pagate da tutti coloro che pagano un'imposta positiva. In caso di reddito inferiore a Y* l'imposta diventa negativa cioè equivale a un sussidio, per il reddito Y2 il sussidio e Y2B e l'area verde misura l'ammontare complessivo di sussidi che vanno a tutti coloro che hanno redditi inferiori a Y*.

Un esempio numerico può aiutare a capirne gli effetti. Ipotizziamo che l'aliquota sia il 30% e che Y*= 10.000 euro. È facile calcolare l'imposta corrispondente a un reddito pari a 30.000: T = 0,3x30.000-0,3x10.000 = 6.000 Se invece il reddito è zero avremmo un'imposta negativa: T = 0,3x0-0,3x10.000 = -3.000 In questo caso il cittadino riceverebbe un sussidio pari a 3.000. Se, invece, il reddito è pari a Y*=10.000 possiamo vedere facilmente che: T = 0,3x10.000-0,3x10.000 = 0 Ovvero non è dovuta alcuna imposta né si riceve alcun sussidio.

Disuguaglianza e povertà in Italia

Secondo il rapporto annuale sull'economia dell'Istat relativo al 2006, i poveri in Italia sono 7,6 milioni, di cui 1,5 milioni non arrivano a 800 euro al mese. La povertà interessa per lo più i nuclei con tre o più figli minori, le famiglie dove il capofamiglia è pensionato o donna, anziana o sola.

Se si misura la distribuzione in termini di reddito equivalente, il 20% delle famiglie più agiate (quinto quintile) detiene il 39,1% del reddito totale, mentre al 20% delle famiglie più povere (primo quintile) va appena il 7,8%.

Disuguaglianza territoriale

L'emergenza povertà riguarda soprattutto il Sud, dove una famiglia su quattro è povera e dove le persone povere nel 2004 sono aumentate di circa 900 mila unità. Anche per quanto riguarda la disuguaglianza, la differenza fra centro Nord e Sud è netta. il 38,5% delle famiglie residenti nel Sud

Y1

A

Y2

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e nelle Isole appartiene al quintile dei redditi più bassi, rispetto al 12,7% di quelle che vivono nel Centro e al 10,5% delle famiglie del Nord.

L’istruzione

Perché l'istruzione è importante?

Nonostante oggi molti tendano a sminuirne il ruolo accusandola di non essere in grado di assicurare un lavoro e di non garantire guadagni commisurati ai costi sostenuti per conseguirla, l'istruzione riveste un'importanza cruciale nella società e nell'economia.

Dal punto di vista sociale l'istruzione è un importantissimo fattore di equità perché favorisce la mobilità sociale. I figli dei più disagiati possono raggiungere posizioni più elevate, grazie ad un alto livello di istruzione e, benché altri fattori siano in gioco, l'istruzione è certamente quello più facilmente accessibile ai ceti subalterni.

All'istruzione è legata, in gran parte, l'attuazione del principio meritocratico che si basa sulla uguaglianza delle opportunità. Quest'ultima implica l’azzeramento o, almeno, la forte attenuazione delle disuguaglianze sociali nel passaggio da una generazione all’altra come presupposto imprescindibile per una gara che si giochi fondamentalmente sul merito. L'istruzione è il migliore strumento per ridurre l’impatto del background socio-familiare sulle competenze delle nuove generazioni e creare, almeno sotto questo profilo, le condizioni necessarie per una competizione più equa.

Inoltre l'istruzione trasmette valori e capacità sociali importanti: la tolleranza, il civismo, la partecipazione politica, la capacità di prendere decisioni più consapevoli. Tutti questi sono elementi indispensabili per garantire la coesione sociale in quanto favoriscono la condivisione di valori e la composizione dei conflitti.

Il suo ruolo nell'economia non è da meno. Come avremo modo di vedere, le più recenti teorie della crescita economica sostengono che la dinamica delle economie avanzate (e non solo) si spiega in gran parte con la crescita del capitale umano al quale viene attribuita un'importanza maggiore del capitale fisico. Per capire questo fatto basta pensare a un caso come quello tedesco. Perché la Germania, nonostante sia uscita completamente distrutta dall'ultima guerra, ha saputo rapidamente riprendersi e diventare l'economia leader in Europa? La spiegazione è una sola: perché aveva un capitale umano di straordinaria qualità. Ricostruire il capitale fisico distrutto richiede ingenti risorse ma i tempi sono relativamente brevi. La costruzione del capitale umano richiede, invece, tempi lunghissimi (15-20 anni per un ciclo di istruzione completo) e risorse non inferiori. Il capitale umano è quindi il più importante vincolo alla crescita e, insieme, il più importante fattore di crescita.

La ragione di questo è che l'istruzione trasmette le conoscenze scientifiche e tecnologiche necessarie per usare in modo efficiente le tecnologie esistenti e introdurne di nuove, migliora le capacità manageriali e organizzative. Il capitale umano si crea in vari modi (per esempio l'esperienza) ma, soprattutto, attraverso l'istruzione. Perché finanziare l’istruzione?

In tutti i paesi sviluppati l’offerta di istruzione proviene in gran parte dal settore pubblico e la spesa pubblica per istruzione rappresenta una quota significativa del bilancio statale. Tutto ciò nonostante il fatto che l’istruzione non abbia le caratteristiche di bene pubblico, ma possa essere considerata come un investimento privato, grazie al quale i cittadini ottengono un ritorno in termini di maggior reddito.

In gran parte le ragioni sociali di questo interessamento sono quelle indicate in precedenza. Indubbiamente l’intervento pubblico si giustifica sulla base della considerazione che l’istruzione è

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una delle forme più importanti di realizzazione della personalità umana e, in quanto tale, non può non rientrare fra i compiti primari di uno stato democratico. Tuttavia, dal punto di vista strettamente economico si potrebbe affermare che, nella misura in cui l'istruzione è un investimento che garantisce un rendimento, il suo finanziamento dovrebbe essere lasciato alle scelte degli agenti privati che operano sul mercato, esattamente come per il capitale fisico. In realtà il capitale umano si differenzia da quello fisico per molti aspetti (come abbiamo già avuto modo di notare) ma uno di essi è particolarmente importante nel caso in esame perché, in assenza di intervento pubblico, il mercato tenderebbe a sotto investire in istruzione. Il motivo è che l’istruzione è fonte di esternalità positive.

In generale una forza lavoro più qualificata aumenta la produttività dell’economia, ma le esternalità dipendono da altri fattori, in particolare dal fatto che l’istruzione di un individuo aumenta la produttività di altri individui che interagiscono con lui. Tutti conosciamo i vantaggi che derivano dal fatto di lavorare a contatto con persone istruite e di scambiare con loro conoscenze ed esperienze. Non solo, il fatto che più individui investano in capitale umano accresce il rendimento dello stesso investimento per altri individui. Il meccanismo funziona nel modo seguente: tanto maggiore è il numero di ingegneri e di coloro che fanno ricerca e sviluppo, tanto più rapida è le produzione di nuove conoscenze tecnologiche e tanto più importante diventa acquisire tali conoscenze attraverso l’istruzione e l’apprendimento per ottenere una più elevata remunerazione nel mercato del lavoro. L’effetto di questo meccanismo è di aumentare la domanda di istruzione perché cresce il suo rendimento. Il risultato è un aumento del tasso ottimale di investimento in capitale umano nell’economia. Ma ciascun individuo che decide quante risorse investire nella propria istruzione non considera minimamente i benefici che non lo riguardano direttamente, pertanto investe meno di quanto sarebbe socialmente desiderabile.

Alcuni economisti, come Robert Lucas, ritengono che tali esternalità siano il vero motore della crescita economica.

Fallimenti del mercato

Se l’investimento in capitale umano genera benefici sociali superiori a quelli privati, il mercato da luogo a un ammontare di investimenti sub ottimale, nel senso che si investe troppo poco in istruzione. Come dovrebbe intervenire lo Stato per ovviare a questa inefficienza? Possiamo trascurare l’istruzione obbligatoria assumendo che debba essere finanziata e fornita gratuitamente dallo Stato per motivi di equità.

Per quanto riguarda l’istruzione superiore, sulla base di una logica di efficienza, l’intervento pubblico dovrebbe coprire i costi di istruzione per quella parte che si traduce in benefici sociali dovuti alle esternalità. Il modo più semplice e largamente adottato è quello di far pagare l’istruzione con una tassa inferiore al costo medio del servizio. La differenza fra la tassa e il costo medio rappresenta un sussidio a carico del bilancio pubblico.

Il finanziamento della scuola

Data la sua importanza il finanziamento della scuola ha suscitato un serrato dibattito in tutti i paesi sviluppati. Esiste un ampio accordo sul fatto che la scuola debba essere sostenuta dallo Stato altrimenti, a causa delle esternalità, l'investimento in istruzione da parte delle famiglie sarebbe troppo basso. Su alcuni aspetti importanti le opinioni sono invece divergenti.

La scuola deve perseguire due finalità non sempre conciliabili:

assicurare adeguati livelli qualitativi

garantire a tutti uguali opportunità di accesso

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Un primo problema che sorge è: le finalità menzionate sono complementari fra loro e possono essere ottenute mediante le stesse politiche oppure no? e se non lo sono, quale deve avere priorità e in quale misura possono essere riconciliate?

Alcuni ritengono che la risposta sia negativa. La promozione della qualità richiede la concentrazione delle risorse nelle scuole migliori che devono essere premiate per incentivare comportamenti virtuosi. Ma ciò va a scapito delle altre che, private di risorse sufficienti, potrebbero allontanarsi progressivamente dagli standard delle migliori. Tutto questo si tradurrebbe necessariamente in una divaricazione crescente delle competenze degli studenti e, probabilmente, a patirne le conseguenze sarebbero soprattutto quelli provenienti da famiglie disagiate che non possono accedere alle scuole migliori.

Il dibattito ha riguardato, in una certa misura, l'impiego delle risorse destinate alla scuola pubblica ma, soprattutto, la loro allocazione fra scuola pubblica e privata. La domanda cruciale è la seguente: lo Stato dovrebbe finanziare solo la scuola pubblica o anche quella privata?

La domanda è importante perché la scuola pubblica garantisce in genere un'offerta formativa più omogenea sia sotto il profilo qualitativo che dei contenuti, viceversa la scuola privata è più diversificata da entrambi i punti di vista ma, soprattutto, da quello dei costi di accesso. Finanziare la scuola privata equivale dunque a privilegiare l'obiettivo della qualità rispetto a quello dell'equità di accesso.

Alcuni economisti liberisti (un esempio è Milton Friedman) sostengono che lo stato dovrebbe finanziare la scuola privata mediante un programma di voucher, cioè sussidi che le famiglie possono spendere per pagare (parzialmente) l'istruzione in qualunque istituzione scolastica. Secondo i sostenitori di questa tesi ne deriverebbero molti benefici. Il primo sarebbe la maggiore libertà di scelta per le famiglie. L'idea è che in una società libera ognuno deve essere posto nelle condizioni di scegliere il tipo di istruzione che preferisce e non essere limitato all'offerta pubblica.

Il secondo argomento riguarda la maggiore competizione fra istituzioni scolastiche che si verrebbe a creare. Maggiore competizione significa che le scuole dovrebbero migliorarsi in termini di qualità e prezzi per attrarre gli studenti, quelle di qualità più bassa verrebbero espulse dal mercato e la qualità media aumenterebbe. Anche la scuola pubblica risentirebbe positivamente della competizione. Il risultato finale sarebbe in generale una maggiore efficienza e qualità in rapporto alle risorse investite.

Gli esponenti del campo avverso sottolineano invece alcuni pericoli che questa forma di organizzazione comporta. Innanzitutto vi sarebbe maggiore disuguaglianza. Alcuni riceverebbero un'istruzione migliore di altri, inoltre l'espansione della scuola privata, che comporta costi più alti, restringerebbe le opportunità di accesso all'istruzione per le famiglie indigenti. Tutto ciò favorirebbe la perpetuazione dello status sociale di partenza vanificando uno dei compiti fondamentali della scuola, quello di attenuare le disuguaglianze di opportunità. Vi sarebbero inoltre maggiori costi amministrativi perché le scuole dovrebbero essere sottoposte a controlli di qualità e sui contenuti, al fine di garantire l'acquisizione di competenze di base.

Un altro punto è che il finanziamento della scuola privata implicherebbe una sottrazione di risorse alla scuola pubblica e potrebbe contribuire ad abbassarne la qualità.

Infine i critici del finanziamento alla scuola privata contestano anche l'idea che aumenti la qualità media dell'insegnamento, rilevando che non esiste alcuna evidenza empirica capace di dimostrare che la scuola privata sia qualitativamente migliore di quella pubblica.

Il finanziamento dell’istruzione universitaria

Nel caso dell'istruzione universitaria la differenza fra le soluzioni organizzative è ancora maggiore. Il motivo è che, trattandosi di un livello di istruzione non di base, molti ritengono che l'obiettivo della qualità assuma maggiore rilevanza rispetto a quello dell'equità di accesso. Nei

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paesi anglo-sassoni (soprattutto negli USA) le università private sono prevalenti rispetto a quelle pubbliche, e si distinguono in genere per livelli qualitativi decisamente più elevati. Naturalmente questo sistema comporta costi molto onerosi che limitano l'accesso per i ceti meno abbienti.

Uno strumento molto usato in vari paesi (ma non in Italia) per ovviare a questo inconveniente è il prestito d’onore. Lo Stato anticipa allo studente le risorse di cui ha bisogno per finanziare i costi espliciti ed impliciti dell’istruzione. Il prestito prevede un piano di ammortamento con restituzione del capitale e degli interessi a partire da quando il beneficiario comincia a percepire redditi da lavoro. In altri casi lo Stato può limitarsi a intervenire come garante della restituzione di un prestito concesso dalle banche.

Data l’incertezza che caratterizza i redditi futuri, spesso il piano di restituzione del prestito tiene conto del reddito effettivamente guadagnato (prestiti condizionati al reddito o income contingent), nel senso che possono essere richiesti pagamenti più alti nei periodi di maggiore guadagno e viceversa.

In Italia questo metodo di finanziamento dell’istruzione universitaria non ha trovato applicazione. L’abbattimento dei costi dell’istruzione avviene mediante l’imposizione di tasse di importo inferiore al costo per studente, e la concessione di borse di studio a favore degli studenti meritevoli e bisognosi, finanziate mediante la fiscalità generale. Ciò accade perché, nel nostro paese, l’istruzione universitaria è, nella quasi totalità, pubblica ed è stata storicamente caratterizzata da un’organizzazione fortemente centralizzata, sia sul piano dell’offerta formativa che della distribuzione delle risorse.

Il caso italiano: perché l'università funziona così male?

Tutti conosciamo i gravi problemi che affliggono l'università italiana, il cui livello qualitativo è più basso rispetto a quello vigente in molti altri paesi avanzati, mentre questo non è vero per i costi. I problemi sono tali che sembra essersi messo in moto un meccanismo esattamente opposto a quello descritto in precedenza: lungi dal creare le condizioni per ulteriori investimenti in capitale umano, in Italia lo stato dell'istruzione finisce per scoraggiare il completamento degli studi non garantendo posti di lavoro consoni alle competenze acquisite e non stimolando la domanda di tali competenze da parte del sistema produttivo. Una delle principali conseguenze è che l'università non funziona come un fattore di mobilità sociale, non permette cioè ai giovani di famiglie meno abbienti di migliorare il proprio status economico sulla base delle competenze acquisite.

Per capire se questo è vero o no dobbiamo porci due domande: • il grado di istruzione dei figli dipende da quello dei genitori? • lo status sociale e il reddito raggiunti dai figli dipendono dal grado di istruzione o dallo

status e dal reddito dei genitori? Perché ci sia mobilità sociale il grado di istruzione dei figli non deve dipendere da quello dei

genitori, inoltre lo status sociale e il reddito raggiunti dai figli devono dipendere solo dal grado di istruzione e dalle proprie capacità (non facilmente misurabili), non dallo status e dal reddito dei genitori. Cominciamo a vedere quale è, in generale, il grado di mobilità sociale in Italia. La tavola alla pagina seguente mostra la probabilità di passaggio da una fascia all'altra di reddito. La prima colonna si riferisce al passaggio dal primo al secondo quartile (in pratica dal 25% della popolazione più povera al 25% che ha un livello di reddito appena superiore). Nella seconda si osserva la probabilità di passaggio dal secondo al terzo quartile. I dati parlano molto chiaro, se si esclude la Finlandia, l'Italia è il paese europeo con la più bassa mobilità sociale in entrambi i casi. Solo il 15,9% della popolazione che parte dal secondo quartile riesce a transitare nel terzo contro il 26,7% della Germania (quasi il doppio!). Anche relativamente alla mobilità dal primo al secondo quartile l’Italia non se la passa affatto bene collocandosi al penultimo posto.

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Probabilità di passaggio da una fascia sociale alla successiva in % Da primo a secondo quartile Da secondo a terzo quartile Danimarca 24,8 24,5 Irlanda 24,7 20,6 Spagna 23,9 16,8 Stati Uniti 23,1 24,0 Portogallo 22,9 23,7 Olanda 22,9 21,0 Grecia 22,6 23,6 Regno Unito 22,4 21,2 Austria 21,8 16,1 Francia 21,7 20,8 Belgio 21,7 23,3 Australia 21,5 23,5 Germania 20,8 26,7 Italia 17,6 15,9 Finlandia 16,8 13,7

Ma la cosa che colpisce maggiormente è quanto poco incida l'istruzione universitaria su questa

bassa mobilità. Percentuale di iscritti all’università per istruzione dei genitori

I due dati si riferiscono alla vecchia laurea quadriennale (1998) e al sistema 3+2 (2001). Con la vecchia laurea quadriennale solo il 36% dei figli i cui genitori avevano titoli inferiori o nessuno si iscrivevano all'università, contro il 93% dei figli con genitori laureati. Con la riforma le cose sono un po' migliorate (43,6% contro 95%) ma il divario rimane molto elevato confermando che l'istruzione dei figli dipende da quella dei genitori. Se poi consideriamo la probabilità di un giovane con padre laureato di laurearsi a sua volta, scopriamo che è 25 volte superiore a quella di un giovane con padre senza laurea. Negli Stati Uniti è solo 6 volte superiore. Si tratta di un dato molto preoccupante perché ci dice che una società come quella americana, considerata tra le più inique, lo è molto meno dell'Italia, almeno per quanto riguarda l'accesso ai livelli più alti di istruzione.

Non a caso la quota dei laureati sulla popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni in Italia è pari all’11% contro una media del 25% nei paesi dell’OCSE e del 23% nei 19 paesi dell’Unione Europea che sono anche membri dell’OCSE. Contrariamente a quanto accade per i

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diplomati, il divario nelle coorti più giovani (quelle di età compresa tra i 25 e i 34 anni) è maggiore non solo di quello per l’intera popolazione tra i 25 e i 64 anni di età (15% rispetto al 31% della media OCSE), ma anche di quello della coorte più anziana, tra i 55 e i 64 anni (7% rispetto al 18% della media OCSE). Questo equivale a dire che le cose sono peggiorate nel tempo relativamente agli altri paesi.

La dipendenza della carriera universitaria dal background familiare contribuisce a spiegare perché in Italia non si osserva, al succedersi delle generazioni, una crescita della quota di laureati che avvicini il nostro paese alla gran parte dei paesi europei. Sembra in atto una sequenza di avvenimenti che finiscono per rendere molto elevata la dipendenza della carriera scolastica dal contesto familiare: la votazione ottenuta all’esame di scuola media dipende fortemente dalle caratteristiche familiari; essa influenza molto la scelta del tipo di istruzione secondaria che, a sua volta, incide notevolmente sulla probabilità di conseguire una laurea.

Percentuale di laureati sulla popolazione nei paesi europei

Nemmeno coloro che arrivano alla laurea, nonostante un background familiare sfavorevole, riescono a colmare il divario di status socioeconomico rispetto a quanti provengono dalle classi più alte. Infatti la probabilità di esercitare professioni socialmente più prestigiose e remunerative è più alta per coloro che provengono da famiglie di livello sociale alto e più bassa per gli altri, viceversa i figli laureati di famiglie disagiate finiscono più spesso in professioni non qualificate come si può osservare nella tavola seguente.

Occupati di 25-55 anni laureati per professione e background familiare

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Le ragioni dell'anomalia italiana

Come abbiamo visto, in Italia, l'istruzione contribuisce assai poco ad attenuare le disuguaglianze di opportunità perché, almeno ai livelli più alti, rimane una prerogativa soprattutto delle classi più agiate. Inoltre non promuove abbastanza la mobilità sociale.

Paradossalmente, nonostante gli studi universitari siano meno costosi della media dei paesi industrializzati, il numero di laureati è più basso, soprattutto a causa degli abbandoni (60%). Il motivo principale è che gli incentivi ad investire in capitale umano sono minori che in altri paesi. Ciò accade perché il merito e la qualità dell'istruzione non sono adeguatamente valorizzati, in altre parole i lavoratori istruiti non ricevono una remunerazione corrispondente alle loro qualifiche.

In Italia i differenziali retributivi per livelli di istruzione sono simili a quelli medi dei paesi dell’OCSE fra diplomati di scuola secondaria e di scuola media. Sono invece inferiori a quelli degli altri principali paesi se si fa il confronto tra laureati e diplomati di scuola secondaria. Il differenziale in Italia è, in questo caso, meno della metà di quello degli Stati Uniti. Maggiore retribuzione media dei laureati rispetto ai diplomati

Stati Uniti 81% Regno Unito 74% Francia 67% Germania 61% Italia 38%

Inoltre, normalmente, nei paesi industrializzati il rischio di disoccupazione è minore per i

laureati. In Italia questo è meno vero. Per la classe d’età 15-39, il passaggio dall’istruzione inferiore alla laurea riduce il tasso di disoccupazione dal 14,3% all’11,2%, mentre la riduzione media europea è dal 14,4% al 5,9%. Dal punto di vista della logica economica anche questo è paradossale perché, in base alla legge della domanda e offerta, un fattore scarso (i laureati in Italia) dovrebbe avere una remunerazione più alta e una minore probabilità di disoccupazione. Ma l'Italia, si sa, è il paese dei paradossi.

Tuttavia anche questo ha una spiegazione. Per capire cosa c'è dietro dobbiamo analizzare una sorta di circolo vizioso che funziona, approssimativamente, nel modo seguente. I bassi rendimenti dell’istruzione scoraggiano gli investimenti in capitale umano e impediscono di raggiungere il livello dello stock prevalente nei paesi più avanzati. La scarsa dotazione di capitale umano, a sua volta, non stimola la capacità dell’economia di innovare e adottare quelle tecnologie che, grazie alla complementarità con il capitale umano, ne accrescono la domanda e i rendimenti.

La domanda di laureati rimane bassa anche perché la struttura del nostro sistema industriale non richiede lavoratori particolarmente qualificati. Le imprese sono in gran parte piccole (circa il 95% del totale), con un'organizzazione che non necessita di elevate abilità manageriali. La specializzazione produttiva è concentrata in settori tradizionali e non privilegia i settori a tecnologie avanzate e ad alta intensità di lavoro qualificato. Il celeberrimo "made in Italy"

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è fatto quasi esclusivamente di questi settori e la sua competitività sembra dipendere molto da un talento che ci deriva soprattutto dal nostro retaggio storico e culturale. La maggioranza delle imprese italiane, come confermano le grandi preoccupazioni suscitate dalla penetrazione commerciale della Cina sui nostri mercati, sembra interessata a una sola forma di competitività: quella che scaturisce dalla riduzione dei costi del lavoro e di ogni forma di tributo fiscale. Le innovazioni e la crescita della produttività (che attraversa una fase davvero drammatica nel nostro paese) interessano molto meno come strategie competitive. La ricaduta di tutto ciò sul rendimento del capitale umano è fin troppo facile da prevedere.

Quella che abbiamo descritto è solo una parte della spiegazione. Non tutte le colpe ricadono sul sistema produttivo. L'altro corno del problema è la qualità dell'istruzione che ha un'importanza cruciale nella dinamica del circolo vizioso.

Nei test internazionali (per esempio PISA) gli studenti italiani raggiungono risultati fra i peggiori nel gruppo dei paesi industrializzati. Abbiamo visto prima che l'accumulazione del capitale umano può dar luogo a un circolo virtuoso: tanto maggiore è la domanda di competenze qualificate tanto più si investe in capitale umano ma, se utilizzato nel processo produttivo, esso favorisce l'innovazione che, a sua volta, richiede capitale umano qualificato e così via. In molti casi ad un circolo virtuoso ne corrisponde uno vizioso e, se qualcosa va storto nel meccanismo sottostante, il primo può tramutarsi facilmente nel secondo.

Così, se la qualità dell’istruzione è bassa, l’investimento in capitale umano da parte delle famiglie e la domanda di lavoratori istruiti proveniente dalle imprese sono scoraggiati, e l'interazione virtuosa tra domanda e accumulazione lascia il posto al suo contrario. Il grado di istruzione non è più un indicatore affidabile per decidere l’allocazione delle posizioni migliori, questo rafforza la dipendenza dei redditi dalle condizioni della famiglia di origine piuttosto che dal grado di istruzione.

Il mercato del lavoro qualificato funziona allora esattamente come un mercato con asimmetria informativa: i datori di lavoro non sono in grado di identificare la qualità dei lavoratori e abbassano la retribuzione scontando il rischio di bassa qualità. La bassa retribuzione scoraggia l'investimento in capitale umano e genera una selezione avversa: i più dotati e istruiti abbandonano il mercato (vanno all'estero) o cercano di affermarsi con altri mezzi (raccomandazioni, legami familiari).

Possibili soluzioni

Questa situazione ha stimolato un intenso dibattito sulle possibili soluzioni a questo drammatico stato di cose. Alcuni propongono di:

aumentare le tasse universitarie, in linea con i costi del servizio e finanziare gli studenti più meritevoli con borse di studio

finanziare la spesa per tasse mediante prestiti agli studenti che devono essere restituiti condizionatamente ai guadagni futuri (o borse di studio ai più meritevoli)

differenziare le università sulla base della loro qualità nell’assegnazione dei fondi di ricerca e nella possibilità di offrire corsi specialistici

accrescere l’autonomia degli atenei nelle politiche di assunzione e retribuzione del personale, fino ad abolire il valore legale del titolo di studio e il ruolo pubblico dei docenti.

Come in tutte le soluzioni ci sono i pro e i contro. I principali vantaggi sono i seguenti:

l'aumento delle tasse redistribuisce il carico verso chi più usufruisce dell'università (i figli delle famiglie più agiate) e incentiva una domanda di qualità

l'allocazione dei fondi in base ai risultati della ricerca promuove la qualità della ricerca e della didattica e la competizione fra università, spingendole ad assumere i docenti più capaci

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la privatizzazione del ruolo dei docenti e la differenziazione delle remunerazioni crea incentivi a migliorare la ricerca e la didattica

l'abolizione del valore legale del titolo di studio fa sì che i percorsi formativi siano valutati in base alla loro qualità e spinge gli studenti a scegliere le università che garantiscono un'elevata qualità.

Ma le critiche non mancano:

l'investimento in istruzione universitaria è rischioso, un costo più elevato scoraggerebbe molti studenti soprattutto delle famiglie meno in grado di sostenere i costi

viene meno la finalità dell'istruzione di creare opportunità per tutti

con gli attuali livelli di disoccupazione giovanile e precarietà del lavoro molti studenti non sarebbero in grado di restituire i prestiti

non è facile misurare i risultati della ricerca e della didattica, esempi di indicatori sono i brevetti e la percentuale di studenti che si laureano o che trovano lavoro entro un certo lasso di tempo

l'uso di indicatori di questo tipo convoglierebbe le risorse verso studi più funzionali alle esigenze del sistema produttivo ma penalizzerebbe alcuni percorsi di ricerca e di studio (discipline umanistiche) attenuando il ruolo di coscienza critica della ricerca universitaria.

Globalizzazione e Welfare State

Si discute molto sul fatto che la crisi dello stato sociale sia da ricondurre o meno alla globalizzazione. Non è facile dare una risposta a questa domanda, ma molti concordano nel ritenere che vi siano forti connessioni. La globalizzazione implica una riduzione delle barriere commerciali e una maggiore competizione internazionale. Questo fatto ha varie implicazioni, fra le quali:

i consumatori hanno più libertà di scelta fra beni prodotti all'interno e beni importati, aumenti delle tasse o forme di regolamentazione o accordi fra le parti sociali fanno crescere il prezzo relativo dei beni interni rispetto a quelli importati, riducendo la competitività;

le imprese possono scegliere liberamente fra diverse localizzazioni, aumenti delle tasse o forme di regolamentazione o accordi fra le parti sociali che aumentano i costi di produzione all’interno, possono spingerle a localizzarsi altrove, causando la perdita di posti di lavoro. In sostanza la globalizzazione fa entrare in competizione paesi che sostengono ingenti spese per

sostenere lo Stato sociale, finanziandole con il prelievo fiscale, e introducono vincoli alla libertà d’azione delle imprese (in pratica i paesi industrializzati), con altri che non sostengono tali spese e possono mantenere un prelievo fiscale e un costo del lavoro più bassi (paesi emergenti come la Cina, l'India, il Brasile).

In passato i paesi industrializzati avevano un costo del lavoro più alto dei paesi in via di sviluppo, ma anche una produttività molto più alta grazie alle tecnologie più avanzate. In questo modo riuscivano ad essere competitivi. La globalizzazione ha contribuito ad erodere questi margini di competitività. Per questi motivi i paesi industrializzati sono costretti a competere in termini di tassazione, regolamentazione del mercato e salari per difendere le proprie quote nel mercato mondiale dei beni e servizi e attrarre investimenti.

Tutto questo crea vincoli al prelievo fiscale, quindi alla possibilità di accrescere la spesa sociale e di introdurre regole a tutela dei lavoratori. I vincoli al prelievo fiscale dipendono soprattutto dal fatto che il capitale è molto mobile. Una multinazionale può oggi trasferire le sue attività da un paese all'altro a seconda delle convenienze, e queste dipendono dal costo del lavoro e dal trattamento fiscale. Se in Cina si pagano meno imposte, alle multinazionali conviene trasferire là i propri impianti, oppure aprire una filiale in un paradiso fiscale come le isole Cayman, dove far confluire gran parte dei propri profitti soggetti a tassazione. Pensiamo per esempio ai grandi

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rivenditori che operano su internet come Google o Ebay che vendono le loro merci nei paesi industrializzati ma pagano le tasse dove sono più basse.

Alcuni sostengono però che questa è solo una fase transitoria. Prima o poi i livelli salariali cominceranno a crescere (come è avvenuto da noi nel passato) anche in Cina e negli altri paesi oggi molto competitivi grazie al costo del lavoro. A quel punto grazie, all'aumento del reddito, anche in quei paesi cominceranno a diffondersi le garanzie e le tutele del Welfare State e la competizione tornerà ad essere più equilibrata. In questo contesto un paese come l'Italia dovrebbe mirare a rafforzare la propria competitività puntando sull'innovazione tecnologica e su un riposizionamento in settori meno tradizionali e meno esposti alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, piuttosto che smantellare le conquiste del Welfare State.