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Le 10 Lezioni della Montagna Ovvero: perché vago (spesso solo) in mezzo ai boschi Massimo Draghi

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Le 10LezionidellaMontagna

Ovvero: perché vago (spesso solo) in mezzo ai boschi

Massimo Draghi

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Le dieci lezioni della montagna

di

Massimo Draghi

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A Vincenzo,

che aveva imparato ad imparare.

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“E io, Nefi , andavo spesso sulla montagna

e pregavo spesso il Signore.”

1 Nefi 18:3

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INDICE

Introduzione pag. 9

Lezione 1 “Elogio della fatica” pag. 13

Lezione 2 “Un premio esclusivo” pag. 17

Lezione 3 “La gioia del presente” pag. 21

Lezione 4 “Se siete preparati, voi non temerete” pag. 25

Lezione 5 “Non scherzare col gigante” pag. 29

Lezione 6 “Diversamente uguali” pag. 33

Lezione 7 “Cento modi per dire montagna” pag. 37

Lezione 8 “C’è un tempo per ogni cosa” pag. 41

Lezione 9 “Fondare o aff ondare” pag. 45

Lezione 10 “Smarrirsi per ritrovarsi” pag. 49

Conclusione pag. 53

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INTRODUZIONE

Il fi losofo francese Blaise Pascal disse che “il cuore ha le sue ragioni che la ra-

gione non conosce”. La montagna per me è un amore e, come citato, non è possibile

spiegare razionalmente le ragioni di tale sentimento. Eppure, con questa raccolta di

lezioni e rifl essioni sono caduto nel tranello, tentando di spiegare e razionalizzare i

motivi per cui amo tanto andare a spasso fra i boschi.

Amo l’ozio e non disconosco i piaceri del riposo. Sono nato in una città di

mare e non voglio tradire le mie origini: dichiarare di amare la montagna non signi-

fi ca necessariamente dire contestualmente di odiare il mare. Certamente non amo

molto la spiaggia. Non voglio dire che ogni mio singolo gesto abbia la pretesa di es-

sere destinato a rimanere indelebilmente scolpito nella roccia, ma mi piace pensare

che le esperienze della vita siano dei piccoli mattoncini che contribuiscono ad edifi -

care il mio carattere ed a plasmare, verosimilmente in meglio, la mia natura. E’ per

questa ragione che cerco di abbinare al piacere di fare una cosa per il puerile gusto di

farla, anche un aspetto edifi cante. Tornando dalla spiaggia ho detto e pensato molte

cose, ma non ho mai detto o pensato “anche oggi ho imparato qualcosa di nuovo”.

Invece, almeno la metà delle volte che torno a casa da un trekking, mi accorgo di

avere appreso una preziosa lezione di vita; questo mi gratifi ca e mi fa sentire che ho

dato un senso alla mia giornata.

Questa non è una guida per escursionisti. Queste sono le lezioni che io ho

appreso dalla montagna, non lezioni che ho la pretesa di insegnare. Io non posso

insegnare nulla a nessuno. E’ la montagna che insegna, non io. Il docente in questo

caso è la natura.

Tenterò anche un approccio volutamente laico, limitando al massimo riferi-

menti scritturali, per non turbare la sensibilità del lettore non credente. Impresa

ardua quest’ultima perché per me è diffi cile scindere vita e fede. La mia vita è come

una ricetta con tanti ingredienti ed uno dei più importanti è proprio il mio richiamo

verso l’infi nito. La ricerca di Dio è anche una delle ragioni principali per le quali

vago per i monti.

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Le dieci lezioni della montagna

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Lezione 1

Elogio della fatica

“Quando il viaggiatore sme e di muoversi,sme e di esistere.”

Will Ferguson

Odio il pulsante del “mi piace” su Facebook.

Mi sia consentito spiegarne la ragione.

Una volta portammo dei ragazzi a fare un’escursione in Umbria, in occasione

di un campeggio. Eravamo due guide adulte con una decina di adolescenti. La meta

era il monte Cucco, cima più alta dell’omonimo parco. Le informazioni descriveva-

no un bel trek di media diffi coltà nel bosco, con scorci panoramici lungo il sentiero

e comodo pratone una volta giunti in cima, con tanto di belvedere, tavolini e fonte.

Le nostre aspettative non furono deluse e l’escursione andò come previsto. Giunti in

prossimità del pratone vedemmo una coppia di signore non più giovanissime, co-

modamente adagiate su due sedie a sdraio. L’immagine delle attempate trekkers che

scalavano lo stesso sentiero da noi appena percorso, con tanto di sdraio sulle spalle,

fu una bella botta per noi e per la nostra autostima, in quanto pensavamo di avere

appena compiuto una virile impresa. Il mistero fu svelato pochi metri più avanti,

quando vedemmo alcune auto parcheggiate ed altri turisti sdraiati a prendere il sole.

Il grido stupito dei nostri giovani fu unanime:

“Ma si poteva venire in auto!”

L’idea che tutto il percorso fatto arrancando faticosamente potesse essere so-

stituito da un comodo viaggio, sonnecchiando sul sedile di un’auto, aveva fatto di-

menticare loro il piacere della conquista, il gusto dello sforzo e della fatica, la gioia

che deriva dallo spingere il proprio corpo ai limiti delle proprie possibilità fi siche.

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Massimo Draghi

Inoltre, se è pur vero che queste persone potevano ammirare lo stesso panorama che

vedevamo noi, è altrettanto vero che si erano perse la possibilità di vedere gli scorci

su cui si aff acciava il sentiero e non avevano goduto del bellissimo percorso nel bo-

sco. Tutti questi fattori, considerati da noi guide elementi preponderanti nella valu-

tazione fi nale del trek, godevano di scarsa considerazione da parte dei nostri ragazzi,

i quali avrebbero voluto raggiungere lo stesso scopo, compiendo il minimo sforzo.

Nel lontano 1994 andai con mia moglie in vacanza negli Stati Uniti. Tra le

tante cose che vidi, e che ammirai, ce ne fu una che mi colpì e che ancora oggi ram-

mento vividamente. A quanto mi era dato modo vedere gli americani cercavano

continuamente scorciatoie e passavano il tempo studiando metodi per risparmiare

la fatica. Fra le tante stranezze che vidi ricordo quando un giorno un amico, mentre

ci accompagnava a visitare una località, ci disse che lungo il tragitto avrebbe dovuto

fare una operazione bancaria; ovviamente acconsentimmo e ci apprestammo a scen-

dere dall’auto quando parcheggiò vicino all’ingresso della banca. Al nostro gesto ci

fermò e chiese, con stupore:

“Dove state andando?”

Rispondemmo che stavamo entrando in banca per accompagnarlo.

Davanti al nostro stupore rispose con un sorriso sornione e, senza aggiungere

altre parole, abbassò il fi nestrino e suonò il campanello di un quadro citofono che,

sino a quel momento, non avevamo notato. Alla risposta dell’operatrice diede alcu-

ne indicazioni e, dopo pochi secondi, arrivò lungo un circuito a spinta idraulica un

bussolotto contenente la modulistica che doveva compilare. Completata l’operazio-

ne restituì il modulo utilizzando lo stesso sistema di invio e concluse parlando al

citofono con l’impiegata. L’operazione era durata due minuti e non eravamo neppure

scesi dall’auto. Era il 1994 e ci sembrava fantascienza. Oggi anche io faccio la stessa

cosa per molte operazioni bancarie e non devo neppure mettermi in auto, posso

comodamente farlo da casa grazie al servizio di home-banking.

A volte mi domando se queste agevolazioni tecnologiche siano positive o ne-

gative. Chi scrive non vive di certo nel XIX secolo e non ha scritto questo libretto

con penna d’oca su carta pergamena. Io amo la tecnologia e ne faccio largo uso, sia

per ragioni professionali che per svago e consultazione. Amo anche le comodità e

non ne lesino nella mia casa. Ho un’auto, uno scooter, la lavatrice e l’aria condizio-

nata. Non mi faccio mancare nulla! Continuo però a domandarmi se veramente

tutto questo sia progresso. Penso che la risposta stia nel modo in cui ci rapportiamo

con questi strumenti e queste opportunità. A volte ne abusiamo. Non può non ve-

nirmi in mente un poco fortunato fi lm Disney intitolato “Wall-e”, nel quale viene

descritta una società del futuro nella quale il genere umano è mutato geneticamente,

diventando molliccio e indolente, a causa di un abuso degli strumenti che avrebbero

dovuto aiutarli ad alleviare le fatiche.

Questa è l’epoca del fast-food, del tutto e subito, delle scorciatoie e delle cose

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Le dieci lezioni della montagna

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rese semplici. La montagna insegna che questa spasmodica ricerca di abbreviazione

del tragitto non sempre è la scelta migliore, oppure che se anche riusciamo nel no-

stro intento di evitare fatica e ridurre gli aff anni, contestualmente stiamo perdendo-

ci grandi panorami o grandi occasioni.

A volte è bello faticare solo per il gusto di faticare. A volte è bello avere qual-

cosa sapendo di averlo conquistato, di esserselo meritato con il sudore della fronte,

piuttosto che averlo ottenuto con compromessi furbetti o scorciatoie morali.

Mi accontento di avere poche cose, sapendo che me le sono guadagnate one-

stamente con fatica, piuttosto che averne tante e che per conquistarle ho fatto dei

compromessi con la mia coscienza, oppure ho scavalcato qualcuno o qualcosa.

Mentre scrivo mi rendo conto che le mie possano sembrare le parole di un

noioso parruccone, del nonno rimbambito e brontolone che sa solo condannare

l’attuale generazione per esaltare le meraviglie della propria. Vorrei evitare di cadere

in questo tranello o anche darne solamente l’impressione. Sto solo tentando di dire

che dobbiamo sapere essere saggi nella gestione degli strumenti che ci alleviano le

fatiche, senza farne uno scorretto abuso, altrimenti ci ritroveremo ad essere come

i mollicci ominidi di “Wall-e” o rischieremo di non riuscire a distinguere ciò che è

vero da ciò che non lo è, confondendo alcuni strumenti come un surrogato della

realtà, demandando ai social network le relazioni personali.

Meglio avere tre amici veri che averne trecento su Facebook.

Il bottone “mi piace” di Facebook, che a volte uso anche io, è il simbolo del-

la nostra svogliataggine. Non riusciamo più neppure ad esprimere un’opinione,

non dobbiamo nemmeno fare la fatica di scrivere che una cosa ci piace, basta che

spingiamo un bottone perché qualcuno lo ha già scritto per noi, mettendoci su un

vassoio d’argento un servizio già confezionato. Ma se quel “mi piace” non esprime

veramente la nostra opinione, troviamo il tempo di scrivere quello che pensiamo?

Alziamo il telefono per parlare con quella persona? Cerchiamo il rapporto umano

che forse quell’amico voleva nel momento in cui aveva pubblicato in rete quella foto

o postato quella frase?

Mi rendo conto di camminare su un terreno minato sul quale è più facile es-

sere fraintesi che essere compresi.

A me la montagna insegna che le scorciatoie possono essere pericolose e che

la fatica raramente non viene abbondantemente ripagata.

Esiste anche un altro aspetto piacevole, legato alla soddisfazione che deriva

dalla fatica e dall’impegno che si deve necessariamente spendere salendo sulla cima

di un monte. E’ il piacere della conquista e della vista esclusiva che si gode da un

punto belvedere. La montagna in eff etti non insegna tante lezioni, ma un’unica gran-

de lezione, che io ho voluto schematizzare e suddividere in dieci soggetti diff erenti,

strettamente connessi l’uno con l’altro.

A quest’ultimo argomento dedicherò la prossima lezione.

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Vista da Monte Penna. Sullo sfondo l’invaso di Ridracoli.

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Le dieci lezioni della montagna

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Lezione 2

Un premio esclusivo

“Se ho visto così lontano è perché sono salitosulle spalle dei giganti.”

Isaac Newton

Dalle parti di Badia Prataglia c'è il Monte Penna. Ci sono stato tre volte.

Sulla cima del monte c'è un punto panoramico che si aff accia sulla valle sotto-

stante. Sono molti gli escursionisti che si recano su questa terrazza naturale per am-

mirare la straordinaria vista che si può godere da quel luogo nelle giornate limpide.

La prima volta che son salito sino al punto belvedere non ho potuto ammirare

molto, in quanto, essendo una giornata autunnale, la foschia ci nascondeva alla vista

quasi tutto il panorama. Mi sono limitato ad ascoltare la descrizione dell'amico che

ci aveva accompagnato sul posto, facendoci da guida; le sue parole cariche di entu-

siasmo però non facevano altro che aumentare la mia frustrazione per quello che

avrei potuto, ma che non riuscivo a vedere.

La seconda volta mi ci sono recato da solo, sempre in periodo autunnale ed il

risultato non è aff atto cambiato, anzi, la nebbia era ancora più fi tta e densa e dovevo

stare attento a dove mettevo i piedi, per evitare di spingermi inconsapevolmente

troppo vicino allo strapiombo, non protetto da una balaustra.

La terza volta ho scelto la stagione giusta e sono salito sul Monte Penna nel

mese di maggio. Sapevo che era un punto panoramico, ma lo sapevo solo per sen-

tito dire; le due visite precedenti avevano radicato in me il pensiero che quella vista

straordinaria doveva essere più il frutto della suggestione degli altri escursionisti che

una cosa reale. Per me il Monte Penna era solo un punto elevato dal quale ammirare

un vasto oceano di nebbia.

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Massimo Draghi

Quando percorri l'ultimo tratto che porta alla cima, alla tua destra hai il bosco

dal quale sei venuto e alla tua sinistra lo strapiombo, parzialmente nascosto dagli

alberi; le piante che ti accompagnano fi no alla cima sono un sipario naturale che si

spalanca sulla vallata proprio un attimo prima di mettere piede sull'ultima roccia

dalla cima della quale ti ergi sopra tutto e sopra tutti per riempirti gli occhi di una

vista che ti rimarrà nella mente, ma soprattutto nel cuore. A destra e sinistra si ve-

dono solo foreste a perdita d'occhio, sotto di te, in una picchiata di circa 600 metri,

si stende il tappeto erboso della lussureggiante Foresta della Lama e davanti al tuo

sguardo, incoronato dagli alberi, c'è l'invaso della diga di Ridracoli che pare così vi-

cino da poterci aff ondare una mano, come se fosse la tinozza di un gigante.

La terza volta che sono salito fi no al Monte Penna ho compreso perché le per-

sone ci vanno e non nascondo che il mio cuore era colmo di emozione e gli occhi

mi si sono bagnati per la gioia nel vedere una cosa tanto bella fatta da Dio. Sono

emozioni diffi cili da descrivere e, parlando di queste cose con chi non condivide la

stessa passione, si corre il rischio di non essere compresi o addirittura apparire ridi-

coli. Vinco la paura e dichiaro che la prima volta che ho potuto vedere veramente il

panorama dalla cima del Monte Penna, mi sono commosso fi no alle lacrime.

Non ho proprio pianto, ma due goccioloni li ho fatti.

Senza porre un'enfasi esagerata e senza nulla togliere alla bellezza della mia

regione, mi rendo anche conto del fatto che non sto descrivendo un panorama moz-

zafi ato unico al mondo. E' solo una bella veduta sulle foreste romagnole. Non è il

Tibet o il Grand Canyon, non sono le immense distese boschive del Canada o nep-

pure le aff ascinanti vedute della Nuova Zelanda. Non escludo che esistano al mondo

luoghi più spettacolari e suggestivi, ma questo libretto non è una guida turistica, e

non devo promuovere nulla. La mia è una libera condivisione su ciò che apprendo

camminando per i monti e la veduta da Monte Penna è perfettamente funzionale

all'insegnamento che si può ricavare da esperienze simili, magari avendo la fortuna

e la possibilità di visitare luoghi più noti o più ricchi paesaggisticamente.

Il punto belvedere di Monte Penna ha una cosa in comune con tanti altri bel-

lissimi posti di questo pianeta:

non è un luogo facilmente accessibile e può essere raggiunto solo dopo avere

coperto un tragitto a piedi, nemmeno troppo lungo o impegnativo, a onor del vero.

Nel caso del Monte Penna basta salire soltanto per mezz'ora a piedi, una volta la-

sciata l'auto, e il gioco è fatto. Dopo questo sforzo il premio però ripaga abbondan-

temente le energie profuse.

Nel caso di altre località bisogna impegnarsi molto più a lungo e duramente,

prima di raggiungere la cima, ma in tutti i casi il comune denominatore è che non

è possibile vedere quel panorama se non si è disposti a pagare il prezzo della fatica e

dell'impegno. Non esistono strade che portano al Monte Penna, non esistono servizi

di trasporto, scorciatoie o escamotages, esistono solo le proprie gambe:

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Le dieci lezioni della montagna

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se siamo disposti ad usarle vedremo quel panorama, altrimenti dovremo ac-

contentarci di un surrogato di tale gioia, ovvero il racconto altrui e, mi creda chi

legge, non è proprio la stessa cosa.

La lezione della montagna in questo caso è lapalissiana.

A mio avviso ci sono almeno due aspetti da tenere in considerazione.

Il primo riguarda la posizione esclusiva nella quale si trova chi è disposto a

sacrifi carsi per trovarsi in una posizione elevata.

Il secondo tocca la sfera delle relazioni interpersonali.

Con riferimento al primo aspetto mi viene alla mente una espressione idioma-

tica inglese che recita:

“You can’t see the forest for the trees.”

Che in italiano suona più o meno:

“Non puoi vedere la foresta per via degli alberi.”

Il signifi cato di questa espressione è abbastanza esplicito:

a volte abbiamo bisogno di estraniarci da un contesto per comprenderlo me-

glio. A volte siamo così presi dalle questione di tutti i giorni, che abbiamo bisogno

di recarci sul nostro Monte Penna, di porci su di una sommità elevata per avere un

diverso angolo prospettico ed inquadrare diversamente la nostra vita. Analizzare e

capire i dettagli è fondamentale, ma fermarsi alla sola analisi di questi ultimi può li-

mitare la nostra visione d’insieme e infi ciare la nostra valutazione. A volte capita che

un estraneo piombi nella nostra vita e con poche parole riesca a trovare la soluzione

a problemi che a noi parevano insormontabili. Si tratta di un illuminato? Probabil-

mente no, si tratta solo di una persona che, a motivo della sua posizione distaccata e

probabilmente del suo scarso coinvolgimento emotivo, riesce a vedere tutta la fore-

sta, quando noi riusciamo a vedere solo l’albero che abbiamo ad un palmo dal naso.

Il secondo aspetto positivo del recarsi di tanto in tanto su un proprio Monte

Penna è che esistono molte cose belle nella vita, molte gioie, di cui non possiamo

godere se non siamo disposti a pagare il prezzo di impegno e dedizione richiesti. Ca-

pita spesso che non esistano vie alternative al nostro sforzo personale; ci sono molte

cose che dobbiamo fare esclusivamente noi e che non possiamo demandare ad altri.

La vita è piena di Monti Penna e spesso rinunciamo al panorama perché non siamo

disposti a fare il minimo sforzo per guadagnare la cima.

Ognuno trovi, in questo parallelismo, il proprio Monte Penna:

un obiettivo professionale, la carriera formativa, un investimento economico.

Forse il campo meno considerato, ma a mio avviso più importante, nel quale

siamo disposti a mettere meno impegno e nel quale siamo meno disposti a scom-

mettere, è quello dei rapporti umani. Non per condannare i social network, di cui

anche io faccio lago uso, ma sembrano essere l’esempio moderno più semplice a cui

fare riferimento per chiarire questo concetto. Grazie a questi strumenti possiamo

rimanere in contatto con centinaia o migliaia di persone. Questa è una cosa posi-

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tiva. C’è però il rischio che avere mille seguaci su Twitter o mille amici su Facebo-

ok alimenti la falsa convinzione che noi si sappia correttamente gestire le relazioni

interpersonali. In realtà penso che si tratti di una scorciatoia, ovvero un modo per

raggiungere la cima in modo disonesto. La tecnologia, nata per unirci in condizioni

estreme e rendere possibili le relazioni che un tempo erano diffi cili, se non impossi-

bili, oggi è divenuta uno strumento per surrogare la vera amicizia ed a volte costitu-

isca un alibi per pacifi care la nostra coscienza, evitandoci l’impegno che è richiesto

nel costruire una vera relazione umana. Chi scrive cade spesso in questo tranello e

la mia è più una confessione che un j’accuse.

Last but not least, come dicono quelli bravi, parlando di relazioni sociali non

posso fare a meno di citare la relazione a mio parere più importante nella società.

Ovviamente faccio riferimento alla famiglia. Quella che un tempo era universal-

mente ritenuta il nucleo cardine di una società moralmente forte e prospera, oggi è

divenuta un concetto più che altro astratto. E’ mia personale convinzione che molti

dei mali sociali derivino dai traumi che nascono in seno a nuclei familiari che hanno

perso l’identità e il riferimento che questi dovrebbero off rire negli anni più impor-

tanti della formazione. Oggi siamo troppo poco disposti ad investire nelle relazioni

familiari e troppo spesso i coniugi abbandonano la casa, mentre i fi gli non vedono

l’ora di fuggire da quello che un tempo era considerato l’unico vero rifugio a cui fare

sempre riferimento. Questa forse è la cima più alta che deve scalare la società mo-

derna e, quando troverà la determinazione di salire su questo Monte Penna, ancora

una volta, la vista sarà spettacolare e lo sforzo ripagato oltre misura.

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Lezione 3

La gioia del presente

“Il senso della ricerca sta nel cammino fa o e non nella meta;il fi ne del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare.”

Tiziano Terzani

Quante volte ho costretto qualche amico poco allenato e poco amante della

montagna a venire a scarpinare sui monti insieme a me? Ogni volta che l'ho fatto,

nel vano tentativo di infondere in loro il sacro fuoco dell'amore per la montagna, mi

sono ritrovato appresso persone che, strisciando i piedi, mi seguivano con indolenza

chiedendomi frequentemente sempre le stesse cose:

"Quanto manca?"

"Quando arriviamo?"

Ogni volta questa scena rievoca in me il ricordo del fi lm Shrek, quando Ciu-

chino durante il viaggio in carrozza chiede ripetutamente all'amico quanto manca

alla destinazione fi nale, un po' come fanno i bambini quando si annoiano a morte

durante un viaggio in auto. La stanchezza riduce adulti vigorosi allo stato di bambini

annoiati o Ciuchini brontoloni:

"Sono stanco, mi fanno male i piedi, ho fame, ho sete. Quanto manca?"

Quante volte ho sentito queste parole?

Un giorno d'estate ho proposto ad una famiglia di carissimi amici un giro

intorno al santuario de La Verna, con destinazione fi nale il bellissimo monastero

medievale francescano. San Francesco sapeva scegliere molto bene i luoghi di iso-

lamento e meditazione e la foresta attorno a La Verna sembra uscita da un libro di

fi abe. Tutti i membri della combriccola hanno apprezzato la gita, una facile cam-

minata di circa cinque chilometri, tranne il mio caro amico Giuseppe, il cui nome

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Massimo Draghi

ho modifi cato per rispetto della privacy e soprattutto della sua dignità. Giuseppe

svolge un impiego abbastanza sedentario che lo impegna comunque per molte ore

al giorno e, quando è a casa, vuole giustamente godersi il meritato riposo evitando

impegni e fatiche. Desiderio sacrosanto e rispettabilissimo. Il problema è che questa

sedentarietà sommata a quella del lavoro, hanno reso Giuseppe pingue e insoff e-

rente. Durante quel tragitto era lui il Ciuchino di turno. Poiché la fatica toglie anche

il lume della ragione, circa a metà percorso mi chiese quanto mancava. Faccio una

stima approssimativa e indico l'orario di arrivo a un'ora dal momento della sua ri-

chiesta. Camminiamo per ancora trenta minuti e, complice un bel panorama, ci

fermiamo per scattare delle foto. Il gruppo incomincia ad essere stanco e i ragazzi

colgono l'occasione per sedersi sull'erba, qualcuno espleta funzioni fi siologiche ed

altri si abbeverano. La sosta si prolunga un po' e ci fermiamo per circa trenta minuti.

Quando riprendiamo il cammino Giuseppe guarda all'orizzonte, non vede il san-

tuario e mi chiede nuovamente quanto mancherà. Ovviamente rispondo che manca

ancora mezz'ora e, alle mie parole, sbuff ando e sudando mi rimprovera:

"Hai detto che mancava un'ora ed è passata un'ora, ma ancora non siamo ar-

rivati!"

Inizialmente pensavo scherzasse, ma quando ho capito che non era così ho

risposto divertito:

"Ho detto che mancava un'ora calcolando che avremmo sempre camminato, ma

visto che abbiamo fatto una sosta di trenta minuti è normale che abbiamo fatto solo la

metà della strada che ci mancava."

Giuseppe forse pensava di stare aspettando l'autobus. Mi dispiace deludere il

lettore neofi ta di tragitti montani: come insegnò il Profeta secoli orsono, siamo noi a

dovere andare alla montagna perché se pretendiamo che accada il contrario rischia-

mo di aspettare a lungo inutilmente. Chi va a scarpinare confi dando nella deriva dei

continenti rimarrà inevitabilmente deluso. Povero amico mio, era proprio stanco.

Mi sia consentito riportare un altro episodio, prima di tirar le fi la di questa

ennesima lezione della montagna. Un giorno d'estate portai mia moglie e mio fi glio

alla cascata dell'Acquacheta. Escursione bellissima alla portata di tutti. Il rientro

però non prevedeva di percorrere nuovamente gli stessi passi a ritroso, ma una salita

al monte Londa per poi scendere, con un tragitto ad anello, al punto di partenza,

ovvero San Benedetto in Alpe. Come sempre avevo con me la mia inseparabile mac-

china fotografi ca e mi godevo l'escursione scattando foto. Fino alla cascata i miei

familiari avevano assecondato i miei ritardi, ma lungo la salita alla cima del monte

iniziarono a dare segni di irritazione, attribuendo al mio hobby la frustrazione per

la loro stanchezza. Doppio ruolo: guida paterna e capro espiatorio. Sostavo di tanto

in tanto per immortalare i bellissimi fi ori che sbocciano su quelle cime, quando im-

provvisamente mi accorsi che di fi ori non ce n'erano più. Quando ne rividi uno mi ci

avvicinai felicissimo e, mentre componevo il mio scatto regolando maniacalmente

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Le dieci lezioni della montagna

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messa a fuoco e apertura del diaframma, sentii mio fi glio, sangue del mio sangue,

dire:

"No! Quello ci è sfuggito."

Tu quoque Brute, fi li mi?

I due teppisti camminavano davanti a me strappando tutti gli innocenti fi orel-

lini che trovavano sul sentiero, solo per la sadica ragione di impedirmi di sostare per

scattare foto. Erano diventati così stanchi è insoff erenti che non riuscivano a vedere

la bellezza del micro e del macro cosmo nel quale ci trovavamo, erano solamente

concentrati sulla fatica. Che spreco.

Il sentiero in montagna non cambia in base alle nostre lamentele. E' sempre

quello. Se è una dura salita resterà una dura salita, se è lungo dieci chilometri resterà

lungo dieci chilometri. Il sentiero è qualcosa che non possiamo modifi care, dob-

biamo solo percorrerlo e aff rontarlo con il cuore sereno e un animo felice renderà

la nostra fatica più sopportabile. Nella vita è la stessa cosa. Ci sono alcune cose che

vorremmo cambiare, ma non ci è possibile farlo. Ci sono ostacoli che vorremmo

evitare, ma non è possibile. Le lamentele non ci saranno d'aiuto, ci aiuterà molto di

più assumere un atteggiamento positivo, là dove possibile. Preoccuparsi di quando

fi nirà una prova non la alleggerisce, anzi ci impedisce di vedere le belle opportunità

che quella diffi coltà ci sta off rendo. Dico sempre ai miei compagni brontoloni:

"Perché concentrate i vostri pensieri su quanto manca alla fi ne del percorso,

quando questo vi impedisce di ammirare il bello che c'è intorno a voi?"

E’ indubbio che esistano nella nostra vita dei giorni davvero speciali. Per alcu-

ni sono le feste natalizie, per altri le ferie, per altri ancora un compleanno o il giorno

in cui possono andare a pesca. Il problema a volte è che viviamo nell’attesa di quei

giorni speciali senza godere delle gioie, magari piccole ma importanti, che ci conce-

dono i giorni un po’ più anonimi. Credo sia proprio il nostro atteggiamento a tra-

sformare le giornate normali in giornate un più signifi cative. Il pensiero che, avendo

una sola vita da vivere, io ne sprechi anche un solo giorno, mi serve da stimolo per

suggere da ogni giorno quello che ha da donarmi.

Una volta ascoltai il racconto di un ricco uomo d’aff ari che, salendo nell’a-

scensore di un grande albergo, trovò all’interno della cabina un giovane lift che fi -

schiettava durante il suo turno di servizio. L’ombroso uomo d’aff ari non rispose al

suo saluto e imbronciato borbottò solo il numero del suo piano. L’atteggiamento

scorbutico del cliente non scoraggiò il ragazzo che, continuando a fi schiettare, spin-

se il bottone che fece partire l’ascensore. Davanti a tanta inspiegabile allegria l’uomo

chiese al giovane cosa avesse per lui quel giorno di tanto speciale. Il ragazzo rispose

sorridendo candidamente:

“Questo è un buon giorno perché non l’ho mai vissuto prima!”

Che bell’atteggiamento. La montagna mi insegna a godere di ogni passo sul

sentiero e di ogni giorno della mia vita, sforzandomi di renderlo indimenticabile.

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Segnaletica sulla piana della Burraia.

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Le dieci lezioni della montagna

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Lezione 4

Se siete preparati, voi non temerete

“Se avessi o o ore per tagliare un albero,ne spenderei sei ad affi lare la lama della mia ascia.”

Abraham Lincoln

Il GPS è uno strumento relativamente nuovo. Oggi è molto diff uso, facilmente

fruibile ed abbastanza economico. La maggior parte di noi ne ha uno in auto, mol-

tissimi hanno una applicazione nello smart-phone ed anche alcuni trekkers ne fanno

uso. Personalmente, pur venendo da una generazione che ne ha dovuto apprendere

l’uso dopo i trent’anni, non ne disconosco aff atto l’uso e la praticità. Non ce l’ho nel

cellulare perché non possiedo uno smart-phone e perché non sono molto amico

dei cellulari. Però ne ho uno in auto e lo uso diff usamente. Non ne ho uno per il

trekking per un motivo molto semplice: uno decente costa circa 300 euro e, onesta-

mente, non posso permettermelo. O meglio, per il tipo di escursioni che faccio non

mi è così indispensabile, altrimenti non esiterei a procurarmene uno.

Se pure non uso un GPS, non esco mai senza una cartina nello zaino. Chi

non porta una cartina nello zaino è uno sprovveduto oppure è tanto orgoglioso da

ritenere di non averne bisogno. In tutti e due i casi la parola fa rima con stupido. In

sostanza il mio pensiero è che chi esce per una escursione senza uno strumento che

lo aiuti lungo la via, agisce in modo stupido o sconsiderato.

Lo dico sulla mia pelle, quindi, il primo stupido della fi la c’est moi!

Una volta io e mio fi glio uscimmo per una bella escursione nella meravigliosa

foresta camaldolese. Ero felicissimo del fatto che avesse accettato il mio invito e vo-

levo fare una bella fi gura, nonché fare vivere a lui una bella esperienza. Volevo che

fosse una di quelle esperienza padre-fi glio che non si dimenticano. In un certo senso

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Massimo Draghi

penso di esserci riuscito, ma non nel modo che avevo pianifi cato.

Avevo identifi cato un bel percorso in un sito su internet, avevo stampato i fo-

gli informativi, gli avevo dato una rapida occhiata ed avevo buttato tutto nello zaino.

Avevo capito perfettamente di che percorso si trattava perché conosco la zona.

Quello che non avevo capito è che non avevo capito niente.…

Il percorso in eff etti era segnato abbastanza bene e, con altrettanta chiarezza,

era segnalato un tratto fuori pista, di cui però io non mi ero accorto. In eff etti si

trattava di un piccolo tratto privo di indicazioni lungo la via, ma evidentemente suf-

fi ciente per farci smarrire. Dopo poco apparve evidente che le sommarie indicazioni

del nostro stampato non ci avevano messo in condizione di raccordare i due tratti

di sentiero segnalati sia sulla carta che lungo la via. Ci trovammo a metà strada fra

tornare sui nostri passi o proseguire caparbiamente davanti a noi, nella speranza di

ritrovare un sentiero noto. Confortandoci il fatto che non ci trovavamo nelle scon-

fi nate foreste del Montana, dove si potrebbe camminare per giorni senza incontrare

traccia d’uomo, decidemmo di prendere la direzione meno facile ma più avventu-

rosa, scalando la cima che si parava dinanzi a noi. Non fu facile ma ci riuscimmo.

Come previsto incrociammo il sentiero che avremmo dovuto prendere, anche se un

po’ più a nord del previsto. Per mia fortuna Giacomo ama suo padre e la montagna

più di quanto io pensi e viene ancora a camminare per i boschi insieme a me, ma se

in quell’occasione avesse deciso di non seguirmi più, non avrei potuto biasimarlo.

Non si può seguire una guida così incapace.

Avevo commesso un classico errore di presunzione: conoscevo il posto e quin-

di non avevo bisogno di studiare con attenzione la cartina. Nella zona in cui mi

muovo solitamente i percorsi sono ben segnalati, la carta dei sentieri è facilmente

reperibile ed è veramente diffi cile smarrirsi. Sono stato in altri parchi, non molti per

la verità, ma non ho trovato la stessa qualità segnaletica. Sono stato nelle Marche,

in Abruzzo, in Calabria, in Veneto, ma sono sempre rimasto abbastanza deluso dal

confronto. Nelle foreste casentinesi i centri visitatori sono numerosi, le guide carta-

cee curate e le segnalazioni lungo il percorso frequenti e chiare.

La cosa che apprezzo maggiormente sono i segnavia. I segnavia sono tracciati

dalla Guardia Forestale con due strisce di vernice, una bianca ed una rossa. Solita-

mente sono posti in punti ben visibili sui rami basi o sul tronco degli alberi a bordo

sentiero; in alcuni casi sono posti sulle rocce. Di tanto in tanto nei segnavia si tro-

vano dei numeri che indicano su quale sentiero ci troviamo. In corrispondenza dei

crocevia sono presenti dei cartelli segnaletici in legno dove è scritto il nome della

località, dove dobbiamo andare per raggiungere un altro punto del parco e quanto

tempo medio occorre per arrivarci.

Ho imparato l’importanza dei segnavia quando ho seriamente rischiato di

perdermi facendo il percorso che va da Bocconi, in provincia di Forlì-Cesena, fi no

ai Monti Gemelli. Era una bella giornata invernale, aveva nevicato in settimana ed il

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sentiero era completamente ammantato. Dopo alcune ore di cammino incominciai

a perdere i segnavia. L’esperienza mi ha insegnato che in questo Parco, così ben se-

gnalato, se dopo 50 o 100 metri al massimo non vedi un segnavia, vuole dire che sei

fuori strada. Cosa era successo? Essendo il sentiero abbastanza scoperto, i segnavia

erano stati posti sulle rocce e non sugli alberi, ma in alcuni posti erano stati ricoperti

da un generoso strato di neve fresca. L’ipotesi di rimanere bloccato al buio in mezzo

al bosco allertò i miei sensi e mi mise le ali ai piedi. In quel caso risolsi l’impasse

battendo in ritirata e tornando all’auto correndo indecorosamente a ritroso sui miei

passi. Narrerò più dettagliatamente questa disavventura nella prossima lezione, che

mi aiuterà ad allargare ed estendere il concetto espresso in questa. Mi basti dire che

quell’esperienza mi insegnò il valore dei segnavia e, più generalmente, l’importanza

di sapere sempre dove mi trovo.

La lezione della montagna in questo caso è davvero facile da apprendere.

Se paragoniamo la vita ad un percorso di montagna, un percorso a volte tor-

tuoso ed irto di ostacoli, non possiamo fare a meno di considerare con attenzione la

fondamentale necessità di una guida. L’approccio volutamente laico di questo mio

libretto non mi mette nelle condizioni di dire con esattezza quale sia la guida per

ognuno di noi. So bene qual è la mia stella polare e qual è la mia carta dei sentieri.

Sto parlando di Gesù Cristo e delle Sacre Scritture, che sono per me fonte di ispira-

zione, guida, riferimento e sostegno nel percorso di tutti i giorni. A prescindere dalle

proprie convinzioni personali, dal proprio credo o dalla fede che può separarci, ri-

tengo che almeno un elemento debba unirci, ovvero la necessità di avere una guida,

un programma, un riferimento. Ognuno scelga il suo credo.

Una volta qualcuno disse che ci ritroviamo in questa vita come se ci svegliassi-

mo su di un treno in corsa senza rammentare per quale ragione vi siamo saliti. Quali

sono le domande che ci porremmo in quel caso?

“Dove sono? Da dove vengo? Dove sto andando?”

Mi sembra impossibile che qualcuno aff ronti l’esistenza senza porsi queste

questioni fondamentali e senza cercare gli strumenti per dare un senso al tutto.

Vivere alla giornata può essere divertente, ma persistere in questo senza avere

delle norme morali o comportamentali, può farci smarrire o aff ondare, alla lunga.

Aff rontare il percorso della nostra esistenza senza una meta o un progetto,

credo possa essere stolto al pari del partire per un trekking senza una cartina nello

zaino. Questo non esclude che possano esserci comunque problemi nel percorso.

Dobbiamo imparare a leggere quella cartina, dobbiamo imparare a capire quando

e come cambiare direzione, dobbiamo imparare che a volte i segnavia vengono na-

scosti ai nostri occhi.

Perdersi non è una colpa. Ritengo invece che possa considerarsi una colpa

evitare scientemente l’utilizzo di un qualsiasi strumento di ausilio.

Ognuno scelga il suo.

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Le montagne: giganti che dormono spalla a spalla.

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Le dieci lezioni della montagna

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Lezione 5

Non scherzare col gigante

“Queste montagne suscitano nel cuore il senso dell’infi nito,con il desiderio di sollevare la mente verso ciò che è sublime.”

Karol Józef Wojtyła

Ho già narrato in parte la mia piccola disavventura ai Monti Gemelli, ma in

questa lezione desidero raccontare meglio cosa accadde quel giorno, poiché fu l’oc-

casione per imparare una grande lezione.

Era una bellissima giornata invernale, nei giorni precedenti aveva nevicato e

la montagna non è mai bella come quando il cielo è sereno e il sole brilla sulla neve

fresca e cristallina. Ero da solo ed avevo programmato un bel percorso ad anello.

La bellezza del paesaggio aveva rubato tutta la mia attenzione ed avevo perso tanto

tempo a scattare fotografi e, inoltre, come già descritto nella lezione precedente, la

neve copriva i segnavia e questo mi fece smarrire un paio di volte il sentiero.

Altri elementi concorsero ad insegnarmi la lezione:

avevo notato i cartelli di una battuta di caccia ai cinghiali e li avevo ignorati,

avevo incontrato probabili tracce di lupo e non avevo considerato che la neve, salen-

do, sarebbe ovviamente contestualmente aumentata. Avevo guardato le previsioni

del tempo ed anche se non davano un peggioramento del tempo, avrei dovuto met-

tere in preventivo il fatto che in montagna il tempo è volubile e che molto spesso i

meteorologi sbagliano le previsioni.

Ebbene tutti questi elementi concorsero a farmi trovare in una rischiosa zona

border-line fra sicurezza e pericolo ed a farmi prendere un bello spavento.

Dopo avere percorso il sentiero faticosamente, a causa degli smarrimenti nella

neve sempre più alta, in tre ore avevo percorso a malapena metà del tragitto pro-

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Massimo Draghi

grammato. Le energie scarseggiavano ed improvvisamente un fronte temporalesco,

che non avevo notato avvicinarsi, coprì il cielo che fi no a pochi minuti prima era

stato sereno. A quel punto guardai l'orologio, feci un rapido calcolo, e stabilii che

proseguendo lungo l'anello probabilmente non sarei riuscito a tornare all'auto pri-

ma che calassero le prime ombre della sera. A quel punto, pensando ai lupi e ai cin-

ghiali braccati dai cacciatori, non trovai particolarmente allettante il pensiero di una

notte del bosco. Inoltre mi accorsi che nel mio zaino delle meraviglie mancavano

tante cose che mi sarebbero potute essere utili, in caso di fermo notturno forzato:

non avevo una torcia e non avevo neppure una fonte di calore, come un ac-

cendino o qualcosa di simile. Spaventato dall'ipotesi di morire seduto nella neve

come Jack Nicholson in Shining, tornai di corsa sui miei passi, accorgendomi, una

volta giunto all'auto, che avevo sbagliato i calcoli e che avrei avuto più tempo a di-

sposizione per percorrere l'anello in condizioni di sicurezza. Per prima cosa risi di

me stesso, e continuo a farlo ancora oggi, soprattutto pensando alla mia immagine

mentre zampetto sulla neve come uno Yeti impazzito. L’occasione però mi off rì uno

spunto di rifl essione, dandomi modo di pensare a quanto mi era capitato e cercando

di fare tesoro della lezione:

quando si cammina in montagna, soprattutto in solitaria, bisogna prepararsi

per quasi qualsiasi evenienza. Ho enfatizzato il termine “quasi” perché mi rendo

conto che è impossibile avere la pretesa di essere pronti ad aff rontare ogni problema.

Certo non tutto è prevedibile o risolvibile, ma molti problemi che incontrano

gli escursionisti “della domenica”, quelli che nello zaino mettono solo panini e ac-

qua, possono essere evitati se si rispettano alcune semplici regole.

Ho imparato, ad esempio, che il cibo non è una cosa tanto importante e che

se devo limitare il peso preferisco portare meno cibo, ma non devono mai mancare

acqua o bevande integrative. Una volta facemmo un'escursione di gruppo, in estate,

con dei ragazzi poco esperti che si erano portati poca acqua e l'avevano tracannata

allegramente nei primi due chilometri come erano abituati a fare a casa, quando

basta che vai un cucina e trovi tutta l'acqua che vuoi, magari bella fresca di frigori-

fero. Quella escursione si trasformò per loro in un incubo di arsura. Impararono la

lezione.

Poiché, come già scritto, in montagna il tempo cambia spesso, è bene avere

nello zaino una maglia in caso di freddo e un impermeabile o un poncho in caso di

pioggia. Una volta andammo in escursione con degli amici e fummo sorpresi addi-

rittura dalla grandine, in barba alle previsioni che davano bel tempo. Da allora ho

sempre nello zaino almeno un k-way.

A me non è mai successo, e spero che mai mi accada, ma da quella volta che

temetti di rimanere fuori di notte, metto sempre nello zaino un accendino o un

acciarino e una torcia con carica manuale a dinamo. Sono oggetti leggeri e stanno

comodamente in una tasca laterale. Io mi porto sempre appresso anche dei guanti e

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una cima. Quante volte li ho usati? Mai. Ma se servono, ce li ho.

Ovviamente ho sempre con me un coltello multiuso ed un oggetto fondamen-

tale come un kit di primo soccorso. Non sono un esperto, ma se mi faccio male o ac-

cade qualcosa a chi è con me, posso ingegnarmi con una rudimentale medicazione.

Poiché caviglie e ginocchia sono particolarmente esposte allo stress, ho sempre con

me anche almeno una cavigliera e una ginocchiera.

Una volta soccorsi una escursionista che, durante la discesa dal Monte Falte-

rona a Capo d'Arno, era particolarmente in diffi coltà a causa di un ginocchio dolo-

rante. Purtroppo era anche poco allenata e piuttosto sovrappeso e forse aveva scelto

incautamente un sentiero non adatto alle sue condizioni fi siche, altro errore da evi-

tare. Diedi alla signora la mia ginocchiera e questo la aiutò in parte a proseguire la

discesa fi no all'auto.

Io non sono certo Bear Grylls e questo libro, come già scritto, non ha la pretesa

di essere un manuale per escursionisti. Allora perché sto scrivendo queste cose?

Perché tutte queste esperienze mi hanno insegnato una lezione che è contenu-

ta anche nelle Sacre Scritture, dove sta scritto:

"Se siete preparati, voi non temerete" (DeA 38:30).

Un aspetto su cui desidero porre particolare enfasi è quello del timore, ancor-

ché quello della preparazione. L'ho già scritto e lo ripeto: non è possibile prevenire

ogni problema e ancor meno avere la presunzione di poterli risolvere tutti. La regola

prima è temere la montagna, ovvero temere la natura. In questo caso il timore deve

avere una accezione diversa da quella comunemente concepita, in questo caso il

termine timore fa rima con rispetto. Non deve essere il timore che possiamo ave-

re di un nemico ostile, piuttosto il timore reverenziale che può avere un fi glio nei

confronti del padre: il padre è più grande e più forte, ma non fa mai nulla nei nostri

confronti spinto dall'odio, piuttosto sempre spinto dall'amore.

La montagna non può amarci con la coscienza di un genitore, ma certamente

non prova odio nei nostri confronti. La montagna e la natura rispondono a leggi

superiori. Avere paura della montagna signifi ca soprattutto mettere da parte la pre-

sunzione di poterla aff rontare senza rispettare le sue regole.

Rammento che una volta, andando in barca con mio zio, un autentico lupo di

mare, durante una bufera spaventosa mentre io ero terrorizzato, lui scrutava sere-

namente l'orizzonte impetuoso. Gli chiesi come faceva a non avere paura del mare

e lui mi rispose dicendo che non era vero che non aveva paura e che soltanto uno

stupido non ha paura del mare. Lui lo amava come nessun altro, ma sapeva temere

e rispettare la sua forza. Sapeva che non si poteva andare in mare senza rispettare

alcune fondamentali regole di sicurezza.

Per la montagna il discorso non è aff atto diverso.

La montagna è un gigante muto che mi costringe ad inginocchiarmi al co-

spetto di una forza soverchiante. La forza della natura ci impone una condizione di

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Massimo Draghi

umiltà, poiché non siamo mai tanto alti come quando siamo in ginocchio.

Riportando questo principio alla morale religiosa che governa la mia vita, ho

imparato che le regole non sono un limite alle mie possibilità, ma un trampolino

verso una condizione di libertà perché mi impediscono di ritrovarmi legato dalle

catene del peccato.

Il Salvatore disse:

"Conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi." (Giovanni 8:32).

Mi rendo conto che citare le Sacre Scritture e fare riferimento alla morale cri-

stiana possa sembrare anacronistico al giorno d’oggi, ma ritengo che questi principi

siano di estrema attualità e governano egregiamente la mia vita. Anzi, per meglio

dire, mi aiutano a governarla. Pertanto, nonostante il mio desiderio di laicismo e

neutralità religiosa, inevitabilmente di tanto in tanto non riesco ad evitare di fare

riferimento alle norme che permeano il mio quotidiano.

Riportando la citazione cristiana nel contesto di quanto descritto sopra, ri-

tengo utile spiegare che aff rontare il viaggio della vita con la presunzione di non

rispettare determinate regole morali ci ponga nella medesima condizione di rischio

nella quale ci troviamo quando aff rontiamo sguarniti una natura che è più grande e

forte di noi. Nella mia vita i comandamenti non sono un limite, come invece alcune

persone potrebbero considerarli, ma sono come quegli strumenti senza i quali non

mi azzarderei mai ad andare in un trek in solitaria.

Anche in questo caso mi permetto di condividere la mia morale e le mie con-

vinzioni, ma non mi arrogo il diritto di volere imporre ad alcuno la scelta della pro-

pria morale di vita. Ad ognuno le proprie convinzioni.

La lezione della montagna non indica cosa mettere nello zaino, ma certamente

insegna che è poco saggio aff rontare il sentiero impreparati e con lo zaino vuoto.

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Le dieci lezioni della montagna

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Lezione 6

Diversamente uguali

“La nostra meta non è di trasformarci l’un l’altro, ma di conoscerci l’un l’altroe d’imparar a vedere e a rispe are nell’altro ciò che egli è:

il nostro opposto e il nostro completamento.”Hermann Hesse

Una volta ho fatto una romantica escursione con la mia dolce metà. Conside-

rate le mie e le sue dimensioni dovrei più propriamente defi nirla la mia dolce “un

terzo”. Abbiamo fatto un comodo giretto intorno a Campigna e siamo rimasti spalla

a spalla per tutto il tragitto, chiacchierando amabilmente. Negli ultimi due chilome-

tri c’è stato un cambio di ritmo. Il percorso prevedeva una lenta discesa circolare fi no

a fondo valle e, nell’ultimo tratto, una inevitabile risalita al punto di partenza. Sarà

stato il dislivello nel breve tratto di percorrenza, sarà stato per colpa dello strappo fi -

nale che giungeva dopo che avevamo messo nelle gambe già un bel po’ di strada, ma

quei due chilometri fi nali ci hanno messo un po’ in diffi coltà. Ovviamente essendo

io fra i due più allenato, per me è stato meno diffi cile risalire quel tratto fi nale, ma a

Roberta è sembrata una Via Crucis. Aggiungendo a questo il fatto che quando mia

moglie si innervosisce si ricorda di essere romana ed inizia ad imprecare in verna-

colo, la cosa era tragica e comica al contempo. E’ stato in quella circostanza che mi

sono reso conto di una cosa che prima di allora non avevo notato:

se mantenevo il mio passo continuavo a sentire la fatica, ma non in modo così

evidente come quando la sentivo quando cercavo di rallentare per rimanere al suo.

Banale? Banale può esserlo per chi lo ha già provato, ma per chi non ha mai fatto

questa esperienza, ed io sino a quel momento non l’avevo fatta, non è così banale.

Almeno non me ne ero mai accorto in modo così evidente. Quando si cammina in

gruppo ci si divide in modo quasi naturale e si ha sempre accanto un compagno di

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Massimo Draghi

cordata e questo attenua quel senso di diff erenza che invece, in quella occasione,

sperimentai in modo così chiaro ed inequivocabile.

Quando Roberta cercava di tenere il mio passo non ci riusciva e faticava il

doppio, aumentando anche la frustrazione ed il nervosismo. Quando io rallentavo

per rimanerle accanto sentivo le gambe appesantite ed aff aticate. Se camminavo al

mio passo e mi fermavo, di tanto in tanto, per attenderla e ricongiungermi a lei era

ancor peggio: per lei non c’erano soste, perché io ripartivo subito appena lei mi rag-

giungeva e questa continua interruzione di ritmo aveva eff etti negativi anche sulle

mie gambe e sul mio fi ato. Decidemmo allora di mettere in atto una semplicissima

strategia, non dimenticando il fatto che in montagna bisogna sempre ridurre al mi-

nimo i rischi. Dissi a mia moglie che io avrei camminato salendo al mio passo e che

lei avrebbe dovuto fare lo stesso e che quando avrei perso il contatto visivo avrei

mantenuto quello uditivo, solo in via precauzionale. Io camminavo al mio ritmo ed

ogni tanto mi voltavo per controllare la situazione, quando un tornante la nascon-

deva al mio sguardo gridavo:

“Roby, ci sei, tutto bene?”

Di rimando lei, ansimando e sbuff ando, mi rispondeva:

“Ce so’, ce sò. Stò qua, ‘ndo vado.…”

In un paio di circostanze ricordo che aveva anche inspiegabilmente fatto rife-

rimento ai miei antenati defunti. Rincuorato sorridevo sotto i baffi e riprendevo la

salita. Arrivati in cima non posso dire che fossimo freschi e riposati, avevamo pur

sempre una dozzina di chilometri nelle gambe, ma eravamo meno provati di quanto

lo saremmo stati se avessimo proseguito con quel ritmo innaturale, senza ascoltare

le esigenze del nostro fi sico.

Con compiacimento ci rendemmo conto che, in modo inatteso, avevamo im-

parato una lezione applicabile anche al nostro rapporto di coppia e non solo.

Ci rendemmo conto che rispettare le diff erenze, le divergenze e le diverse in-

clinazioni, non toglie nulla al rapporto. Camminare ad un passo diverso non im-

pedisce di raggiungere la cima, non impedisce di realizzare un obiettivo comune.

Viceversa consente di raggiungere prima e meglio lo scopo comune prefi ssato.

Io e mia moglie siamo molto diversi, non solo fi sicamente. Abbiamo un back-

ground culturale molto diverso, veniamo da due regioni diverse, da due famiglie

molto distanti fra loro ed abbiamo fatto molte esperienze diff erenti. Inoltre io ho

delle inclinazioni, dei talenti e dei difetti che diff eriscono molto dalle sue inclinazio-

ni e dalle sue capacità.

Io sono timido e Roberta è estroversa. Io sono rifl essivo, invece lei è molto

impulsiva. Io sono eccessivamente diplomatico, lei a volte è eccessivamente franca.

Ovviamente non siamo solo separati da diff erenze caratteriali, ci sono anche tante

cose che ci accomunano, dall’umorismo alla fede, ma anche in queste cose abbiamo

un approccio diff erente.

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Le dieci lezioni della montagna

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Quello che ci accomuna sono i sentimenti che proviamo l’uno per l’altra e

l’obiettivo di restare uniti, come famiglia, per sempre. In modo istintivo e naturale

abbiamo intrapreso questo percorso mettendo in atto dai primi giorni la tecnica che

abbiamo imparato durante quel trekking in montagna un paio di anni fa.

Abbiamo imparato a rispettarci e ad aspettarci, senza forzare il passo dell’altro.

Qualche tempo fa lessi una bella storia accaduta nel periodo in cui, caduta la

Linea Gotica, l’esercito tedesco arretrava in disfatta pressato dall’avanzata alleata. I

tedeschi non avevano più i mezzi per mettersi in salvo e, anche quando li avevano,

non avevano più carburante per farli muovere. Razziarono dunque il bestiame dei

contadini locali per aggiogare i buoi ai mezzi deputati al trasporto di uomini e cari-

chi. Un contadino aveva soltanto due buoi e, cedendoli ai tedeschi, avrebbe perso il

vitale e unico strumento di cui disponeva per arare il suo campo.

Con un astuto stratagemma risolse il problema. Dietro ordine dell’uffi ciale in

comando aggiogò a destra l’animale abituato a stare a sinistra e viceversa. Gli anima-

li incominciarono a tirare come d’abitudine, convergendo e scontrandosi. Dopo al-

cuni tentativi l’uffi ciale stabilì che quei buoi erano evidentemente pazzi e che sareb-

bero stati più un intralcio che un aiuto e decise così di lasciarli al furbo contadino.

A volte vogliamo collocarci in una posizione che non è di nostra competenza

o abbiamo la presunzione di imporre al nostro coniuge qualcosa che non può fare

o non riesce a fare nel tempo e nel modo che noi abbiamo stabilito essere quello

giusto.

La lezione della montagna, ancora una volta, è quella della pazienza, della

tolleranza e del rispetto. Ho imparato a camminare verso l’obiettivo comune che ci

siamo posti, come marito e moglie, accogliendo le diff erenze e rispettando le diver-

sità. A volte vado avanti io, a volte va avanti mia moglie, altre volte sono io a soste-

nerla quando è stanca, altre ancora è lei a fare altrettanto con me. Ho capito che non

esiste un sesso forte o un sesso debole, ho compreso che esistono diversità e che la

diversità non è un difetto, ma un valore aggiunto, tanto nel matrimonio quanto nella

vita in genere.

La montagna non mi insegna solo ad inchinarmi rispettosamente alle sue re-

gole, come esposto nella lezione precedente, ma anche a rispettare coloro che cam-

minano al mio fi anco, per amore dei miei compagni di viaggio o anche solo per

opportunismo:

tutti noi abbiamo bisogno degli altri, il nostro prossimo arricchisce il nostro

cammino e contribuisce, in modo diverso e inatteso, a migliorarci e ad arricchirci

come individui. Credo che questa ricchezza accresca nella misura in cui aumenta la

nostra diversità.

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Targa posta sul sentiero Maciano-Scavolino.

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Le dieci lezioni della montagna

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Lezione 7

Cento modi per dire montagna

“Un uccello mi ha de o:rallenta il passo, ogni tanto siediti sopra un sasso.”

Luigi Cappella

Considero ogni escursione in montagna un’esperienza. Per questo defi nisco

spesso il rapporto con questa meraviglia della natura “l’esperienza della montagna”.

Ci sono molti modi per vivere l’esperienza della montagna e molti modi diver-

si di concepirla. Tutti questi modi hanno un comune denominatore:

sono tutti giusti.

A mio avviso non esiste un modo giusto od un modo sbagliato per approc-

ciarsi all’esperienza della montagna. Certamente ci sono modi che personalmente

preferisco ed altri che neppure concepisco, ma non ho la presunzione di ritenere che

il mio sia l’unico approccio valido all’esperienza della montagna.

Tenterò di chiarire il concetto.

La prima volta che sono salito da Campigna al passo della Calla è stata una

esperienza emozionante. Per prima cosa ero da solo e la solitudine amplifi ca sempre

le emozioni in montagna. In secondo luogo era una ovattata mattinata autunnale e

la nebbia mi fece dono di un panorama fi abesco. Conoscevo la storia di quel sentiero

e sapevo che era stato costruito e calcato da uomini che lo avevano percorso per se-

coli prima di me per ragioni commerciali e, in quella evocativa atmosfera autunnale,

mi sembrava di camminare al fi anco dei carbonai che il secolo scorso salivano fi no

al passo con il loro prezioso carico sulle spalle. In questo clima di suggestione fi abe-

sca un rumore assordante guastò il silenzio, tranciando nettamente il percorso delle

mie emozioni: era il rombo di una moto che saliva lungo la strada che ci portava alla

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Massimo Draghi

comune destinazione del passo. La moderna strada asfaltata è stata costruita paralle-

lamente all’antico sentiero nel bosco e in un paio di tratti la vecchia pista lambisce e

attraversa la strada nuova, togliendo tutto il romanticismo agli amanti della natura.

La moto è uno dei tanti modi in cui le persone amano vivere l’esperienza della

montagna. Conosco alcuni motociclisti ed è rarissimo che mettano il cavalletto al

loro bolide, si carichino uno zaino sulle spalle e si inoltrino nella foresta che attra-

versano ai 100 km orari. Il loro modo di concepire l’esperienza della montagna è

attraversarla a folle velocità, vedere gli alberi scorrere veloci, sostare in una trattoria

o fermarsi a fare qualche foto in un punto belvedere per potere dire ai loro amici,

una volta tornati a casa:

“Guarda in che bei posti sono stato.”

A volte scendono dalle moto, si tolgono il casco e, contemplando il panorama

con i loro amici centauri, sentenziando:

“Senti che aria buona.”

Quando li sento fare quei commenti mi verrebbe da dire che sarebbe ancor

più buona se loro non sfrecciassero in lungo e in largo sulle strade di montagna, ma

poi penso che anche io sono venuto qui in auto e allora mi mordo il labbro e reprimo

il mio spirito da ecologista da due soldi. Il motociclista ama la quantità ed è poco

interessato alla qualità. Vuole vedere molta montagna e vuole andare molto lontano.

E’ un modo di vivere l’esperienza della montagna che non condivido, ma che cerco

di rispettare, ironia a parte.

Una volta solo salito a piedi dal vecchio paesino di Ridracoli sino a Casanova

dell’Alpe, meraviglioso borgo ristrutturato, alle spalle della nota diga. La salita, nel

periodo estivo, era stata lunga e piuttosto faticosa per via del caldo. Arrivo sullo stra-

dello che porta a Casanova e incontro un ciclista che si sta dissetando e concedendo

una pausa. Mi fermo e scambiamo quattro chiacchiere. Mi chiede quanta strada ho

fatto e, con un sorriso sornione, mi dice quanta ne ha fatta lui e quanta ne percor-

rerà ancora prima di concludere la sua giornata fra i monti. Ho la vaga impressione

che sia una sorta di mascolino colloquio su chi dispone di più centimetri di virilità.

Infatti conclude l’esposizione con un lapidario:

“Certo che voi a piedi ne fate meno di strada, ne vedete meno di posti.”

Decodifi co:

“Voi trekkers ce l’avete più piccolo di noi bikers.”

Non l’avevo mai vista in quest’ottica. Dunque l’esperienza della montagna è

una gara e vince chi ne vede di più e ne percorre di più? Evidentemente per alcuni

è così.

In un’altra occasione ci trovavamo con degli amici a percorrere un anello in-

torno al santuario de La Verna. Quel bosco è un luogo magico. Non so se Francesco

lo ha scelto per quel motivo oppure se è divenuto tale proprio grazie a Francesco

ed ai suoi fratelli. Quello che so è che camminare nel bosco attorno all’eremo ha un

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Le dieci lezioni della montagna

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che di mistico. Stavamo camminando insieme a questi amici, due allegre famigliole

con codazzo di fi gli al seguito, quando improvvisamente veniamo superati da due

escursionisti con le ali ai piedi. Avevano un abbigliamento da olimpionici e spinge-

vano lunghe falcate grazie all’ausilio delle bacchette. Non usavano le bacchette come

me, che mi ci appoggio arrancando come il nonno di Heidi, ma le usavano come

propulsori della loro corsetta di mezzofondo. Pareva che facessero sci di fondo e che

avessero perso gli sci per la fretta. Era il mio primo incontro con il nordic walking,

una disciplina che di lì a poco avrebbe spopolato anche dalle nostre parti. Alla sera

sul lungomare di Rimini, soprattutto nel periodo invernale, non è più insolito ve-

dere gruppi di nordic walkers saltellare sul bagnasciuga. Il nordic è un altro modo

di vivere l’esperienza della montagna. Ho un collega che pratica questa nobile disci-

plina e che, parlando a volte come il ciclista di cui sopra, mi chiede se nel week-end

ho fatto trekking. Quando gli rispondo di sì inizia il suo fuoco di fi la di domande:

“Quanta strada hai fatto? Quanto tempo hai impiegato?”

Immancabilmente snocciola le sue tabelle di marcia e, con biasimo, mi dice

che lui ci impiega la metà del tempo a percorrere la strada che faccio io. Quando gli

dico che a me piace anche la fotografi a e che a volte mi piace sostare per qualche

scatto, il suo sguardo passa dal compassionevole al biasimevole e mi accorgo che

ancora una volta l’esperienza della montagna si trasforma in una competizione.

Ci sono poi altri modi di vivere la montagna:

ci sono quelli che vanno a cavallo, quelli che fanno motocross, quelli che vanno

a caccia, quelli che raccolgono i funghi, quelli che fanno corsa campestre e quelli che

fanno parapendio. Ci sono poi i tanti mondi di vivere l’esperienza durante la stagio-

ne invernale: chi scia, chi scia di fondo, chi usa lo snowboard, chi si spaparanza a

prendere il sole e chi si aff oga di sgnapa in baita.

Ogni scelta è democraticamente valida ed ha diritto di cittadinanza. La mon-

tagna accoglie tutti, come una mamma generosa che abbraccia ognuno dei suoi fi gli.

Io penso però che ci sia un modo per vivere veramente l’esperienza della montagna,

un modo al quale anche io, per premura, poco spesso ho fatto ricorso.

Credo che il modo migliore sia, senza nessuna fretta, arrivare sino al cuore

della foresta, sedersi ed aspettare. Aspettare cosa? Aspettare che la natura si ma-

nifesti veramente. Nel silenzio e nell’immobilità è come se lentamente venissimo

inglobati in un mondo nel quale normalmente siamo un elemento di disturbo, se

non ostile. Allora incominciamo a sentire i suoni, gli odori e iniziamo a vedere cose

che normalmente restano celate all’escursionista frettoloso e distratto. In questo mo-

mento mistico, se siamo molto fortunati, possiamo anche vedere degli animali e,

soprattutto, sentire il respiro della montagna.

Mi viene spontaneo un paragone con un’altra cosa che amo molto: la lettura

delle Sacre Scritture. Le Scritture possono essere lette. Non c’è nulla di male e nulla

di sbagliato nel leggere semplicemente le Scritture. Purtroppo però è una pratica

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Massimo Draghi

che ci permette di comprendere solo una piccola parte del messaggio che vogliono

portare. Un po’ come andare in montagna con una moto. La fretta è traditrice.

Le Scritture devono essere lette, rilette, studiate, ponderate, meditate e, in un

certo senso, assorbite. Le Scritture devono essere vissute. La conoscenza accademica

è solo la scorza del frutto; la polpa è l’applicazione nel quotidiano.

Non riesco a pensare ad una pratica rilevante nella mia vita, che possa essere

goduta pienamente andando di corsa. Dal cibo all’amore, nella fretta c’è solo un

piacere parziale e incompleto. La montagna ci insegna che se vogliamo conoscerla

dobbiamo viverla senza premura.

La montagna ci insegna che è così anche della vita. Con la fretta e la frenesia

si perdono i dettagli e si smarrisce il gusto delle cose. A volte corro così tanto che mi

devo imporre una sosta e domandarmi per quale motivo corro e dove sto andando.

Il più delle volte non riesco a dare una risposta sensata a queste domande perché ho

lasciato che la corrente mi trasportasse. L’ esperienza della montagna mi insegna che

le cose vanno fatte con calma e con cura.

Non importa la quantità delle cose riusciremo a fare, ciò che più conta è la

qualità delle poche cose che riusciremo a fare e l’intensità con la quale le avremo

veramente vissute.

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Le dieci lezioni della montagna

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Lezione 8

C’è un tempo per ogni cosa

“Chiunque sme a di imparare è vecchio....chiunque continua ad imparare resta giovane.”

Dalai Lama

“Qual’è la stagione che preferisci?”

Quante volte è capitato di sentirci rivolgere questa domanda nella vita? Spes-

so questo tema è dibattuto nei talk-show alla radio o alla televisione ed ognuno ha

la sua risposta. Anche in questo caso mi sento di dire che non esiste una risposta

corretta ed una sbagliata, poiché la cosa è troppo soggettiva. La maggior parte delle

persone probabilmente propenderà per le stagioni calde perché la primavera ha un

clima ideale e l’estate porta il sole e le vacanze. Personalmente se dovessi sceglierne

una voterei l’autunno perché è una stagione di mezzo tendente al freddo, condizione

ambientale che preferisco rispetto al caldo dal quale non posso difendermi. Il mio

abbondante strato adiposo mi rende più facile aff rontare le temperature rigide.

Probabilmente davanti a questa domanda la maggior parte delle persone ri-

sponderebbero giustamente con un altro quesito, ovvero porrebbero la valutazione

in rapporto a qualcosa chiedendo:

“La migliore stagione per fare che cosa?”

Ad esempio se volessi andare al caldo e la mia meta fosse il sudamerica, dovrei

scegliere l’inverno europeo. Viceversa se volessi andare a sciare in Trentino non po-

trei farlo in estate, a meno di non avventurarmi su un ghiacciaio. Insomma parlando

di stagioni non si può prescindere dalla massima del “tutto è relativo”.

Parlando da riminese, o da italiano in genere, se voglio andare in spiaggia

devo per forza limitare la mia frequenza al periodo estivo. Oppure, posseduto dallo

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Massimo Draghi

spirito di Enrico Ruggeri, camminare sul bagnasciuga apprezzando l’indubbio fasci-

no poetico del mare durante la stagione invernale. Ma è comunque una condizione

limitante. La montagna, ça va sans dire, è bella sempre.

In primavera la montagna è meravigliosa. La primavera è la stagione della

rinascita ed il desiderio dell’uomo di ritornare all’aria aperta dopo il lungo fermo

invernale fa il paio con il desiderio della natura di tornare a vivere rigogliosamente.

In primavera probabilmente le zone di montagna danno il meglio di sé, con le loro

fi oriture, gli alberi ed i prati rianimati al verde. In primavera la montagna esplode di

colori accesi e cangianti.

L’estate è la stagione migliore per visitare le montagne alte, dove l’aria ed il cli-

ma fresco costituiscono un oasi di refrigerio naturale. In estate è ancora un trionfo

di colori e la natura off re probabilmente il massimo. In quella stagione gli animali

sono più facilmente avvistabili e per chi, come me, cerca questi incontri, è decisa-

mente la stagione migliore.

L’autunno, come scritto, è la stagione che preferisco perché è un passaggio fra

caldo e freddo durante il quale si acquietano i rumori e gli animi e l’uomo è natu-

ralmente riportato a rallentare il ritmo. L’autunno è la stagione della rifl essione e per

me è la vera stagione della rinascita. Inoltre personalmente adoro i profumi e i sa-

pori del bosco in questa stagione: il muschio, il legname, le foglie caduche. E’ anche

la stagione delle castagne, dei funghi e dei camini accesi. Il caldo riduce l’appetito e

quando arriva l’autunno, con i primi freddi, il corpo riprende vigore. Autunno per

me vuol dire pappardelle alla lepre e cinghiale in umido.

L’inverno è la stagione durante la quale, probabilmente, la montagna è mag-

giormente frequentata. Sono un ex sciatore e grazie alla passione dei miei genitori

ho percorso con gli sci ai piedi buona parte delle Alpi, ed anche degli Appennini.

Oggi non è il mio approccio preferito alla montagna, ma gli sport invernali sono

tanti e tali da rendere una vacanza fra i monti un’esperienza bella e divertente.

Amo la fotografi a e posso dire che non esiste una stagione che non ispira un

fotografo. Credo si possa dire altrettanto per i pittori, i poeti ed i musicisti. La mon-

tagna è una inesauribile musa ispiratrice.

Gusti personali a parte, mi è utile dire che se togliessimo anche una sola delle

quattro stagioni, l’ecosistema collasserebbe immediatamente. L’uomo e la natura in

genere hanno bisogno della ciclicità stagionale e del positivo apporto di ogni stagio-

ne all’equilibrio cosmico. La montagna è subordinata a questa legge e gode dei doni

di ogni stagione. La montagna è un macro cosmo che rispecchia fedelmente quel

micro cosmo che è il nostro corpo.

In questo caso la lezione della montagna è duplice ed applicabile sia alla cicli-

cità di un solo giorno come a quella di una intera esistenza.

Tento un chiarimento del concetto.

La montagna ha bisogno dell’autunno perché quella che noi chiamiamo la

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Le dieci lezioni della montagna

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morte delle foglie altro non è che il modo che ha la natura di nutrire il suolo: le fo-

glie cadono, macerano ed alimentano il terreno. L’inverno è la stagione del riposo

che precede e favorisce il periodo della rinascita e del risveglio che hanno luogo nei

mesi caldi.

La montagna ci insegna che il nostro corpo, nell’arco delle ventiquattro ore,

ha bisogno di nutrirsi, riposarsi e lavorare. A volte noi vorremmo fare solo una o

due di queste cose, limitando o eliminando dalle nostre vite quelle che non amiamo.

Alcuni desiderano solo mangiare, altri si smarriscono nell’ozio, altri vorrebbero solo

divertirsi ed altri ancora pensano solo al lavoro. La lezione della montagna è che

tutto è importante e tutto è funzionale all’equilibrio fi sico ed emotivo.

Inoltre la montagna ci insegna che ogni stagione è bella e che non ne esiste

una migliore o peggiore di un’altra. Avverto la sensazione che, nella società attuale,

invecchiare sia considerata una colpa, ma forse è solo una mia fallace impressione.

La ricerca del benessere deve essere un must per l’uomo, una esigenza, quasi un do-

vere. Ma negli ultimi anni ho come la sensazione che si sia passato il segno:

è un fi orire di templi del benessere, centri estetici e cliniche per la chirurgia

estetica. L’impressione che ne ricavo è che l’uomo cerchi spasmodicamente di fer-

mare il tempo, ingannandolo con ritocchi estetici. I capelli persi vengono sostituiti

da parrucchini o costosi trapianti, il grasso in eccesso viene espulso chirurgicamen-

te, le rughe vengono tirate in punti nascosti come se fossero sporcizia nascosta sotto

un tappeto. I capelli canuti devono essere assolutamente tinti, ai seni e alle labbra

bisogna controllare la pressione come ai pneumatici dal gommista.

Bella e dignitosa è una frase pronunciata da Anna Magnani al suo truccatore

che tentava di mascherare i segni del tempo sul viso dell’attrice:

“Lasciami tutte le rughe , non me ne togliere nemmeno una. Ci ho messo una

vita a farmele venire.”

La vecchiaia non è una malattia. E’ solo la stagione nella quale, banalmente, il

corpo si ammala più frequentemente. Ma è comunque una stagione della vita, come

lo sono l’infanzia, l’adolescenza, la gioventù e l’età adulta e come ogni stagione porta

occasioni, opportunità e benefi ci. Questa è la testimonianza che ho raccolto parlan-

do con persone anziane che avevano compreso la bellezza della loro condizione e

non amavano piangersi addosso o considerarsi anime vaganti sul viale del tramon-

to. La nostra vita è fatta di stagioni e, proprio come accade per la montagna, non

dovrebbe esserci una stagione più bella dell’altra o una stagione migliore di un’altra.

Ancora una volta la Bibbia sostiene un principio importante, in questo caso quello

del rispetto della stagionalità della vita:

“Per tutto v’è il suo tempo, v’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tem-

po per nascere e un tempo per morire; un tempo per piantare e un tempo per svellere

ciò ch’è piantato; un tempo per uccidere e un tempo per guarire; un tempo per demolire

e un tempo per costruire; un tempo per piangere e un tempo per ridere; un tempo per

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Massimo Draghi

far cordoglio e un tempo per ballare; un tempo per gettar via pietre e un tempo per

raccoglierle; un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracciamenti;

un tempo per cercare e un tempo per perdere; un tempo per conservare e un tempo per

buttar via; un tempo per strappare e un tempo per cucire; un tempo per tacere e un

tempo per parlare; un tempo per amare e un tempo per odiare; un tempo per la guerra

e un tempo per la pace.” (Ecclesiaste 3:1-8)

La lezione della montagna non si limita ad insegnarci che esistendo un tempo

per ogni cosa dobbiamo sapere rispettare le regole, i tempi ed i ritmi che ci insegna

madre natura; la montagna ci insegna anche che esistono gioia, soddisfazione e gra-

tifi cazione nel rispetto di questo equilibrio. Esiste un età dell’innocenza nella quale

guardiamo la realtà con occhi “spalancati sul mondo come carte assorbenti”, per dirla

con le parole di Francesco Guccini. Esistono, o dovrebbe esistere, un’età della consa-

pevolezza e della maturazione nella quale lavorare, produrre e tentare di trasmettere

quanto appreso. Ed esiste poi un inverno della vita ricco di opportunità e bellezza.

La montagna mi insegna ad apprezzare e valorizzare la diversità di queste con-

dizioni, salutando come un dono e una benedizione ogni stagione della vita.

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Le dieci lezioni della montagna

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Lezione 9

Fondare o aff ondare

“Troverai più nei boschi che nei libri.Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà.”

Bernardo Di Clairvaux

Camminando nel bosco capita molto spesso di incontrare alberi abbattuti dal-

la forza del vento. La foresta è periodicamente sferzata da violenti temporali; il vento

fi schia fra i rami, la pioggia cade copiosa ed allenta il terreno, trasformando il sotto-

bosco in una trappola di fango.

Guar dando l’altezza di questi alberi, che si ergono anche a venti metri dal ter-

reno, ed ammirando la loro circonferenza, paiono colonne di marmo, solidamente

piantate nel terreno da capaci costruttori.

Eppure fra questi giganti di legno, sovente, se ne incontrano di abbattuti. Per

la stessa ragione per cui chi vola più in alto quando cade fa uno schianto più grosso,

il collasso di questi secolari protagonisti della foresta lascia particolarmente stupito

il viandante. Vedere un fuscello sradicato e trasportato dal vento a suo piacimento,

non spaventa noi uomini quanto ci impressiona la vista di questi colossi distesi su

un fi anco, come pugili invincibili messi in ginocchio da un avversario che, avventa-

tamente, ritenevamo non potesse sconfi ggere il nostro campione.

Come può il vento, il soffi o dell’aria, anche quando raggiunge grande velocità,

abbattere alberi dall’alto fusto, massicci e pesantissimi?

Le risposte a questo quesito sono molteplici, ma io ne ho trovata una singolare

ed interessante analizzando la tenuta di altri alberi. Per quanto sia comune vedere

alberi abbattuti nella foresta, ed a volte si rende necessario scavalcarli perché sono

crollati proprio sul sentiero che stiamo percorrendo, è altrettanto vero che è raro ve-

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Massimo Draghi

dere alberi solitari abbattuti in aree aperte. Paradossalmente pare che non valga per

gli abitanti del bosco, l’antica massima secondo la quale “l’unione fa la forza”. Anzi,

in alcuni casi, è proprio l’unione la causa del crollo di alcuni alberi, trascinati a terra

dallo schianto di altri alberi vicini che hanno innescato un eff etto domino.

Comprendere la ragione che determina questa diff erenza, ci permette di ca-

pire per quale motivo cadono gli alberi in mezzo alla foresta e, contestualmente,

imparare la grande lezione che ci insegna, anche in questo caso, la montagna.

Non serve essere un esperto di botanica, basta guardare, osservare e analizza-

re, per arrivare alla comprensione. La prima cosa che si nota negli alberi abbattuti

è la pochezza delle loro radici, in rapporto alle ciclopiche dimensioni della parte

che emerge dal terreno. L’ampiezza della parte di radici divelte dal terreno è molto

ridotta, rispetto all’altezza dell’albero. Una legge fi sica elementare insegna che, per

mantenere il baricentro, l’ampiezza della base deve aumentare gradualmente mano a

mano che il soggetto sostenuto si eleva dal terreno. Questi alberi hanno una circon-

ferenza di radici troppo ridotta e quindi perdono facilmente il loro baricentro. Ma la

cosa più grave è che le loro radici, ed è facilmente visibile dopo l’abbattimento, sono

piccole e troppo poco radicate, ovvero aff ondano troppo poco nel terreno. Questi

giganti avrebbero bisogno di una struttura portante ampia, robusta e profondamen-

te infossata nel terreno, ma così non è. Per quale strana ragione?

La ragione principale è che crescono troppo a ridosso l’uno all’altro. La loro

unione, ovvero la loro vicinanza fi sica, non è la loro forza, ma la causa principale

della loro debolezza. Crescendo così vicini non aff ondano solide radici nel terreno

per due ragioni:

la prima è che non gli è consentito farlo. Semplicemente non possono, nem-

meno se lo volessero. Le loro radici incontrano presto le radici degli alberi confi -

nanti e questo soff oca e inibisce la naturale tendenza di ogni albero a radicarsi in

profondità e larghezza.

La seconda ragione è che non sentono la necessità di costruire fondamenta

solide. Crescendo così vicini, molto presto, i loro rami entrano in contatto con i

rami degli alberi che li circondano. Questo contatto infonde in loro una fallace sen-

sazione di equilibrio. Ovviamente gli alberi non hanno una mente pensante e non

sviluppano dei ragionamenti nel modo in cui lo fanno gli esseri umani, ma vivono

secondi leggi della natura che possono essere abbinabili agli schemi di pensiero del

genere umano. Deve essere qualcosa di molto simile all’istinto che governa le azio-

ni degli animali. Secondo tali leggi è come se pensassero che, visto che stanno in

equilibrio comunque, non hanno la necessità di aff ondare maggiormente le loro

radici. E’ come se ritenessero il radicamento una fatica non necessaria, tanto stanno

comunque in piedi.

Gli alberi solitari non possono applicare il medesimo ragionamento. Dai pri-

mi giorni di vita devono fare i conti con una realtà ben diversa: non viene rispar-

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Le dieci lezioni della montagna

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miato loro il minimo refolo di vento, niente e nessuno li mette al riparo dagli agenti

atmosferici per il semplice fatto che vicino a loro non c’è niente e nessuno. L’unico

modo che hanno per aff rontare le intemperie è ancorarsi profondamente nel terre-

no, costretti dall’isolamento a fare affi damento unicamente sulle proprie forze. Cer-

tamente molti verranno abbattuti quando saranno ancora giovani arbusti, ma quelli

che riescono a resistere, per tenacia o per buona sorte, crescono tanto solidi fuori dal

terreno quanto sono radicati sotto di esso.

La lezione che ci insegna la montagna è che gli alberi che crescono vicini cre-

scono deboli, poiché fanno troppo affi damento sulla forza altrui o perché non pos-

sono fi sicamente sviluppare tanto quanto vorrebbero.

Gli alberi isolati, volenti o nolenti, devono sviluppare una solidità ed un radi-

camento che consente loro di aff rontare i carichi di neve, le piogge torrenziali e la

forza degli uragani.

Questo mio non vuol essere un elogio all’isolamento monastico. Viviamo nel-

la società e dobbiamo imparare a vivere serenamente in seno ad essa. Penso però che

potremmo imparare dalle due qualità di alberi sopra descritte.

Troppo spesso ci lasciamo trascinare dalla corrente e soccombiamo all’im-

personale fi losofi a del “così fan tutti”, cadendo nell’omologazione che appiattisce le

coscienze e svilisce la meraviglia dell’individualità. Non sto insegnando nulla, lungi

da me. Sto piuttosto facendo autocritica. Appoggiarsi troppo agli altri non ci con-

sente di imparare a volare con le nostre ali, a camminare sulle nostre gambe, a svi-

luppare i muscoli che servono per vivere più serenamente nella società. A diff erenza

degli alberi, per ovvie ragioni fi siche statici ed immobili, noi esseri umani abbiamo

la facoltà di mutare la nostra condizione, passando dall’essere alberi della foresta a

alberi solitari e viceversa. Seguendo correttamente questo percorso di maturazione

dobbiamo imparare a dosare saggiamente l’isolamento al coinvolgimento sociale,

entrambi strumenti di raff orzamento.

Qualcuno una volta mi insegnò che il pulcino soff re moltissimo nel rompere

il guscio dell’uovo in cui è nato. Vedendo le diffi coltà del piccolo pulcino un’animo

gentile potrebbe cadere nella tentazione di rompere il guscio al suo posto. Facendo

questo condanneremmo a morte il pulcino. Perché? Perché il pulcino ha bisogno di

faticare nel rompere il guscio. In questo processo, lungo e faticoso, egli sviluppa le

energie muscolari e la solidità di becco che gli serviranno per aff rontare la vita fuori

dall’uovo.

Noi non siamo molto diversi dai pulcini. Abbiamo bisogno delle diffi coltà ed

a volte anche delle soff erenze, per sviluppare quelle capacità che ci consentiranno di

aff rontare le prove che inevitabilmente la vita ci porrà sul cammino. La naturale ten-

denza ci porta a scansare le diffi coltà, ad evitare il pericolo, a rimuovere i problemi

dalla nostra vita. Quando facciamo questo, contestualmente e senza accorgercene,

ci indeboliamo.

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Massimo Draghi

Mi accorgo che trascorro buona parte del mio tempo e consumo buona parte

delle mie sostanze nel creare condizioni di agio e comodità per me e per i miei fa-

miliari, arrecando, senza volere e senza accorgermene, un danno a me stesso ed alle

persone che amo. Lungi da me l’intenzione di cercare i problemi, quelli arrivano da

soli e senza invito, ma non è evitandoli sistematicamente che cresco come uomo.

La natura mi insegna che se evito i problemi, se rifi uto il confronto, se non svi-

luppo un pensiero personale, se non alimento la mia coscienza, se non cerco l’indi-

pendenza emotiva, commetto lo stesso errore degli alberi della foresta: mi appoggio

agli altri, la mia forza non è la mia forza ma quella di coloro che mi stanno intorno.

E quando viene a mancare questo appoggio esterno? Oppure se chi mi è vi-

cino cade, che cosa farò? Probabilmente non sarò in grado di sostenere, ma verrò

trascinato al suolo anche io, così come accade nella foresta quando lo schianto di un

albero genera un tremendo eff etto domino. Se non ho basi, non ho fondamenta mo-

rali solide, non posso attaccarmi a niente e a nessuno quando arrivano le diffi coltà

vere, perché non ho radicato in nulla le mie convinzioni. Non ho baricentro, non ho

l’equilibrio emotivo che mi serve per resistere al soffi o della bufera.

La maturità e l’indipendenza emotiva invece ci porta ad essere come un albero

solitario. Non mancheranno le diffi coltà ma sia la nostra percezione che la nostra

capacità ad aff rontarle saranno diverse e più sviluppate. Così come nelle lezioni pre-

cedenti, nel trarre la morale da ciò che mi insegna la montagna, non posso fare a

meno di condividere un pensiero, ovvero su quale roccia solida tento di costruire le

mie fondamenta, il Salvatore Gesù Cristo:

“E’ sulla roccia del nostro Redentore, che è Cristo, il Figlio di Dio, che dovete

costruire le vostre fondamenta.” (Helaman 5:12)

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Le dieci lezioni della montagna

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Lezione 10

Smarrirsi per ritrovarsi

“Non mi ero perso,avevo trovato destinazioni alternative.”

Anonimo

Qualche tempo fa ho pubblicato sul mio blog un post dal titolo “Solo come un

portiere”. Il titolo faceva il verso ad una poesia di Stefano Benni il quale, come altri

prima e dopo di lui, ha descritto con tenerezza poetica la solitudine di un giocatore

costretto ad un ruolo solitario all’interno di un gioco di squadra.

Io amo andare per i monti da solo ed a volte, nel farlo, mi sento solo come un

portiere. Convivo piacevolmente con questo sentimento velato di tristezza.

L’uomo non è un animale solitario, è un animale da branco, istintivamente

portato a cercare il piacere ed il conforto della convivenza con i propri simili. Io non

desidero vivere una vita solitaria, però trovo gratifi cazione anche nell’isolamento,

soprattutto nelle mie escursioni in montagna.

Mia moglie e mia madre non condividono questa mia passione. Ogni volta

che mi vedono partire mi chiedono se vado via da solo e tirano un sospiro di sollievo

quando dico loro che faccio trekking in compagnia, anche di un solo amico.

Comprendo la loro preoccupazione, perché è anche la mia. Ho già scritto in

merito all’importanza di rispettare la forza della montagna e, cosciente del pericolo

che corro, cerco sempre di prendere tutte le precauzioni utili ad evitare che una pia-

cevole escursione si trasformi in un incubo o addirittura una tragedia. Nessuno più

di me ci tiene a riportare a casa la vecchia pellaccia, integra e sana.

Quello che le mie donne ignorano è che, statisticamente, stanno rischiando

più loro passeggiando in città di quanto non sia io esposto ai pericoli presenti sugli

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Massimo Draghi

isolati sentieri montani.

Pagato questo piccolo tributo al buon senso ed alla prudenza, resta una do-

manda che si pone chi non ha mai provato tale esperienza:

perché andare in escursione solitaria?

Diffi cile spiegarlo.

Una mattina di inizio primavera mi alzai di buon’ora per recarmi a San Paolo

in Alpe, meraviglioso alpeggio a 1000 metri di quota, poco distante da Santa Sofi a.

Il mio obiettivo era vedere e fotografare dei cervi, abituali frequentatori del posto.

La mia missione riuscì solo a metà: non vidi nemmeno un cervo, ma ebbi l’insolito

piacere di svegliare dal torpore un intero branco di daini, circa trenta elementi, pi-

gramente accovacciati all’ombra dei radi alberi che circondano l’altopiano. Alla mia

vista i daini mi osservarono guardinghi, senza fuggire, permettendomi di scattare

numerose foto che conservo ancora come un trofeo di caccia. Proseguendo lungo lo

stradello che attraversa la vicina faggeta incontrai una allegra comitiva composta da

una decina di genitori e altrettanti bambini dai 5 ai 10, con tanto di festoso Labrador

al seguito. Mi fermai a scambiare due chiacchiere con il gruppo e dissi loro, per la

gioia dei bambini, che se si fossero avvicinati con discrezione a San Paolo avrebbero

avuto il piacere di ammirare il branco al pascolo. Alle mie parole i bambini presero

a correre gridando “i daini!”, mentre il cane li seguiva abbaiando.

E’ ovvio che non videro mai gli ungulati.

Qual’è la morale di questa favola?

Se vuoi vedere un branco di daini, devi essere da solo.

Sono andato tante volte in montagna in compagnia di amici e confesso che

adoro le escursioni di gruppo. Anzi, penso di poter dire che l’ho fatto meno spesso

di quanto avrei voluto. Le chiacchiere, i canti, gli scherzi, i giochi, i picnic luculliani,

i bagni al fi ume, le grigliate e le castagnate. Sono tutti bei ricordi e non vedo l’ora di

ripetere tali esperienze.

Però quando faccio queste esperienze di gruppo “vedo” la montagna, ma non

“sento” la montagna. La prima volta che sono andato da solo l’ho fatto un po’ per

desiderio ed un po’ per costrizione. Era da tanto che non riuscivo ad andare a cam-

minare e, non essendo disposto ad aspettare che qualcuno si decidesse a farmi com-

pagnia, scelsi di fare la mia prima solitaria. Salii fi no ai prati della Burraia e, quando

sbucai dal bosco per immettermi sul pratone, la nebbia mi impedì di vedere perché

avvolgeva tutto il panorama. Sentii il bramito di un cervo provenire da Monte Ga-

brendo e tentai di avvicinarmi per vederlo da vicino, senza successo. Fatico a de-

scrivere quei ricordi e quelle emozioni, ma fu un’esperienza intensa che ancora oggi

conservo come un ricordo prezioso custodito nel mio cuore. La cosa buff a è che non

vidi nulla, non vidi il cervo, non vidi il prato e non vidi nemmeno il panorama su

Romagna e Toscana che in seguito avrei imparato ad amare ed apprezzare, ma quella

mia prima volta da solo con le ombre diafane a venirmi incontro in una atmosfera

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Le dieci lezioni della montagna

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da Amarcord felliniano, resta indimenticabile.

L’esperienza in solitaria è vissuta al cento per cento. I sensi sono acuiti e vigili

e il silenzio e l’isolamento favoriscono la meditazione e la rifl essione. Salire sulla

montagna da soli è un modo per imparare a conoscersi e per avvicinarsi di più a Dio.

Basti pensare a tutti gli uomini di fede che, in ogni epoca ed in ogni luogo,

hanno privilegiato luoghi ameni per ritirarsi in isolamento allo scopo di perfeziona-

re il rapporto con se stessi ed il proprio creatore, a prescindere dalla fede professata.

Dai monaci tibetani a quelli camaldolesi il fi l rouge è il medesimo:

isolarsi per ritrovarsi.

Nelle Sacre Scritture il principio espresso è il medesimo. Spesso si parla di de-

serto anche quando non si descrive un luogo arido e sabbioso. Il deserto più spesso

nelle Scritture esprime isolamento dalla società, rifuggire il rumore e la confusio-

ne per cercare un silenzio più eloquente. Molteplici sono gli esempi a sostegno di

quanto ho appena scritto, ma mi piace privilegiare il caso del Salvatore, Maestro in

ogni cosa, che scelse ben quaranta giorni di isolamento e meditazione alla vigilia del

proprio ministero terreno.

Chi non ama stare da solo, molto spesso inconsciamente, rifi uta di trascor-

rere del tempo con la persona che dovrebbe amare e curare maggiormente, ovvero

se stesso. Chi evita la solitudine non sta bene con la propria persona, forse perché

nell’isolamento siamo costretti a scrutare la nostra anima ed a volte questa scoperta

può non essere piacevole. Stare da soli signifi ca guardarsi allo specchio ed è molto

raro che una persona si piaccia, guardandosi allo specchio. Più spesso siamo giudici

molto severi di noi stessi. L’autocritica è una cosa importante e preziosa, ma diventa

negativa quando causa frustrazione, disistima e limita il nostro progresso. Non dob-

biamo rifi utare il confronto con la nostra natura più intima e vera, al fi ne di modi-

fi carla per renderla migliore. Vorrei poter dire che ogni volta che vado in montagna

in solitaria, al ritorno sono una persona migliore, anche se di poco.

La lezione della montagna, l’ultima lezione, è che per trovarsi bisogna un po’

smarrirsi, che per conoscersi bisogna accettare di confrontarsi.

E’ un percorso impegnativo, ma quando facciamo uno sforzo per salire un

gradino ci ritroviamo più in alto e quando siamo più in alto, siamo più vicini a Dio.

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CONCLUSIONE

Madonna quanto ho scritto!

Ho scritto decisamente molto più di quanto pensavo all’inizio di questa mia

piacevolissima fatica. L’intenzione era solo quella di spiegare in modo dettagliato

per quale ragione amo andare in montagna e invece alla fi ne ne è uscito un tratta-

to dai toni forse un po’ troppo saccenti e pontifi catori. Sono stato meno politically

correct di quanto avrei voluto, in tema di fede, e se questo ha disturbato il lettore

ateo, faccio ammenda. Sono stato anche ripetitivo e prolisso, come nel mio stile. Per

questo errore sono disposto a restituire tutto il denaro speso dal lettore (...).

Rileggendo il testo mi rendo conto che pare io abbia avuto la presunzione di

mettere in questa raccolta di rifl essioni tutto ciò che so. In realtà nel far questo mi

sono ritrovato costretto ad aff rontare un inatteso quanto gradito esercizio di umiltà,

poiché mi ha aiutato a rammentare che in realtà non so nulla e non posso insegnare

niente a nessuno. Per rubare le parole a Socrate, io “so di non sapere”.

In conclusione devo ringraziare due persone.

La prima è la professoressa Elisabetta Gazzoni Jacobsen, per il suo prezioso

contributo di revisione. Se il libro non è piaciuto al lettore la colpa è tutta dello scrit-

tore, non certo di Elisabetta che con pazienza e disponibilità, solo in cambio di una

pacca sulla spalla, ha accettato l’ingrato compito di correggere il mio testo, dal quale

avrà tratto il medesimo piacere che trae correggendo il tema dell’ultimo della classe.

L’ultimo ringraziamento e l’ultima citazione vanno alla donna che occupa

consolidamente la pole-position nel mio cuore: mia moglie Roberta. Se posso andare

in montagna è grazie a lei ed alla sua pazienza. Roberta mi concede qualche sabato

ogni tanto, anche se mi dispiace lasciarla a casa. Qualche volta viene con me, ma mai

tanto spesso quanto io vorrei. Purtroppo non condivide pienamente il mio amore

per la montagna, ma non importa. Posso accettare il dispiacere di camminare sui

monti senza averla al mio fi anco, se in cambio accetta di camminare ogni giorno

insieme a me sul percorso della vita.

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Massimo Draghi

Pubblicazione elettronica gratuita

Settembre 2013

DeA 61:13-19