del processo ovverso per la sua sospensione a sensi dell ... - Corte Assise... · Italia, superando...

153
FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Boffelli Giorgio è stato condannato alla pena dell’ergastolo con sentenza in data 11 marzo 2000 della 5^ Corte d’assise di Milano che lo ha ritenuto e dichiarato responsabile del delitto di strage commesso in Milano il 17 maggio 1973 in concorso con Maggi Carlo Maria e Neami Francesco, nonché con Bertoli Gianfranco, autore materiale, e altri. Gli stesso Boffelli, unitamente al Maggi e al Neami, con sentenza della 3^ Corte d’assise di Appello di Milano in data 27 settembre 2002, è stato assolto da tale imputazione per non avere commesso il fatto. Accogliendo su alcuni punti il ricorso proposto dal Procuratore Generale, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza in data 11 luglio 2003, ha annullato la sentenza pronunciata in grado di appello rinviando per un nuovo giudizio, nei confronti dei tre imputati e per il solo reato di strage, ad altra sezione della Corte d’assise di Appello di Milano. L’accusa di concorso nel delitto di cui all’art. 422 C.P. ascritta agli imputati si riferisce al gravissimo episodio che ebbe in Gianfranco Bertoli l’esecutore materiale dell’attentato compiuto in Milano il 17 maggio ’73 in prossimità dell’ingresso della Questura in occasione della cerimonia in memoria del commissario Luigi Calabresi, ucciso esattamente un anno prima. Circa alle ore 11 di quel giorno un individuo che sostava sul marciapiedi opposto all’ingresso della Questura, in via Fatebenefratelli, lanciava un ordigno esplosivo, poi risultato una bomba a mano, in direzione dell’ingresso stesso. L’esplosione cagionava la morte di quattro persone (Bortolon Gabriella, Panzino Giuseppe, Masarin Federico e Bertolazzi Felicita) oltre al ferimento di altre quarantacinque. L’attentatore, subito fermato e trovato in possesso di un passaporto intestato a tale Magri Massimo, dichiarava di chiamarsi Bertoli Gianfranco, che quel passaporto era falso, di provenire da un kibbutz di

Transcript of del processo ovverso per la sua sospensione a sensi dell ... - Corte Assise... · Italia, superando...

FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Boffelli Giorgio è stato condannato alla pena dell’ergastolo con

sentenza in data 11 marzo 2000 della 5^ Corte d’assise di Milano che lo

ha ritenuto e dichiarato responsabile del delitto di strage commesso in

Milano il 17 maggio 1973 in concorso con Maggi Carlo Maria e Neami

Francesco, nonché con Bertoli Gianfranco, autore materiale, e altri.

Gli stesso Boffelli, unitamente al Maggi e al Neami, con sentenza della

3^ Corte d’assise di Appello di Milano in data 27 settembre 2002, è stato

assolto da tale imputazione per non avere commesso il fatto.

Accogliendo su alcuni punti il ricorso proposto dal Procuratore

Generale, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza in data 11

luglio 2003, ha annullato la sentenza pronunciata in grado di appello

rinviando per un nuovo giudizio, nei confronti dei tre imputati e per il solo

reato di strage, ad altra sezione della Corte d’assise di Appello di Milano.

L’accusa di concorso nel delitto di cui all’art. 422 C.P. ascritta agli

imputati si riferisce al gravissimo episodio che ebbe in Gianfranco Bertoli

l’esecutore materiale dell’attentato compiuto in Milano il 17 maggio ’73 in

prossimità dell’ingresso della Questura in occasione della cerimonia in

memoria del commissario Luigi Calabresi, ucciso esattamente un anno

prima.

Circa alle ore 11 di quel giorno un individuo che sostava sul marciapiedi

opposto all’ingresso della Questura, in via Fatebenefratelli, lanciava un

ordigno esplosivo, poi risultato una bomba a mano, in direzione

dell’ingresso stesso. L’esplosione cagionava la morte di quattro persone

(Bortolon Gabriella, Panzino Giuseppe, Masarin Federico e Bertolazzi

Felicita) oltre al ferimento di altre quarantacinque.

L’attentatore, subito fermato e trovato in possesso di un passaporto

intestato a tale Magri Massimo, dichiarava di chiamarsi Bertoli

Gianfranco, che quel passaporto era falso, di provenire da un kibbutz di

Israele, di essere un “anarchico individualista”, di aver acquistato quella

stessa mattina del 17 maggio il Corriere della sera venendo così a

sapere che il giorno stesso, alle 10,30 , vi sarebbe stata la cerimonia in

Questura e di essere giunto in via Fatebenefratelli alle 10,40 essendo

sua intenzione raggiungere il luogo a cerimonia iniziata. Ritenendo che

questa si sarebbe protratta, era andato in un bar nei pressi per bere un

cognac ma, accortosi che la cerimonia era terminata e che alcune auto

stavano uscendo sulla strada, si era avvicinato in fretta all’ingresso della

Questura e dal marciapiede opposto aveva lanciato la bomba che,

essendo risultato corto il lancio, era rotolata lateralmente all’ingresso per

cinque o sei metri esplodendo tra gli astanti e non contro le vetture delle

autorità.

Fin dal primo interrogatorio il Bertoli affermava che il Ministro degli

Interni On. Mariano Rumor era uno dei bersagli dell’attentato; precisava

inoltre di essere arrivato a Milano il giorno prima, proveniente - via

Marsiglia - da un kibbutz israeliano dove era rimasto ininterrottamente

per circa due anni (dal 22.6.1971 all’8.5.1973), di aver portato con sé la

bomba a mano tipo “ananas” trafugata in precedenza nel kibbutz e, al

riguardo, forniva spiegazione dei sistemi usati per non far scoprire

l’ordigno in occasione dei controlli cui era stato sottoposto alle frontiere.

Si premette che, nell’udienza del 10 novembre 2004, su istanza del

difensore (che allegava congrua documentazione medica) e sentito il

Procuratore Generale, era separata la posizione di Giorgio Boffelli per

disporre perizia medico-legale intesa ad accertare se lo stesso, stante le

sue attuali condizioni fisiche e mentali, fosse in grado di partecipare

coscientemente al processo, in vista di una eventuale sospensione dello

stesso. L’incarico peritale, con il relativo quesito, era affidato ai dottori

Paolo Bianchi e Lia Radaelli nell’udienza, all’uopo fissata, del 18

novembre 2004; la Corte, assegnato un termine ai periti, fissava quindi

l’udienza del 22 febbraio 2005 per la loro audizione e per la prosecuzione

del processo ovverso per la sua sospensione a sensi dell’art. 88 C.p.p.

1930.

A detta udienza i periti rassegnavano le seguenti conclusioni

confermando la relazione scritta: “A seguito di una demenza fronto-

temporale il sig. Boffelli Giorgio possiede al momento una capacità di

intendere e volere, ancorché non abolita, di certo grandemente scemata.

Tale patologia risulta congruente con l’esame effettuato dai sottoscritti e

dalla storia clinica del soggetto, per come è documentata, e dalle

risultanze dei più recenti accertamenti clinici.

L’assenza di critica adeguata, il grave deficit della memoria, come pure

la alternante confusione del pensiero, il disorientamento, la critica

inadeguata e quanto descritto sopra, inducono ad affermate che sia

anche abolita la capacità del Sig. Boffelli di adeguatamente partecipare

al dibattimento.

Per quanto riguarda la prognosi della patologia descritta, gli elementi di

conoscenza di cui si dispone inducono a dire che questa sia certamente

cronicizzata, e verosimilmente non solo stazionaria nel tempo, ma con un

andamento ingravescente”.

Il Procuratore Generale chiedeva che il processo, pendente in questa

fase di rinvio, fosse sospeso a sensi del citato art. 88 C.p.p.

Rilevato che la norma di rito in questione così recita: “Quando

l’imputato viene a trovarsi in tale stato di infermità di mente da escludere

la capacità di intendere o di volere, il giudice, se non deve pronunciare

sentenza di proscioglimento (artt. 378, 479), dispone con ordinanza, in

ogni stato e grado del procedimento di merito, la sospensione del

procesimento”, la Corte, accogliendo la richiesta della difesa

dell’imputato, ha ritenuto di poter giudicare nel merito,

indipendentemente dalle condizioni mentali del Boffelli, sussistendo tutte

le condizioni per una pronuncia di proscioglimento, nella specie per non

avere commesso il fatto. Ciò tenuto conto, in particolare, di quanto

ritenuto dalla Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento, di

tutte le risultanze processuali e della sentenza emessa da questa stessa

Corte d’assise di Appello in data 1.12.2004, con cui assolveva (per non

avere commesso il fatto) dalla medesima imputazione i coimputati Maggi

e Neami.

Poiché il quadro probatorio afferente all’imputazione di strage per cui si

procede, relativo sia al contesto generale sia a taluni elementi indiziari, è

sostanzialmente il medesimo già esaminato per i coimputati, si ritiene di

dover riportare di seguito l’intera motivazione della citata sentenza in

data 1.12.2004, per poi trattare della posizione personale di Giorgio

Boffelli.

==========================

“”” L’istruttoria

Il Giudice Istruttore, rilevate nel racconto del Bertoli palesi incongruenzee contraddizioni, conclusa l’istruttoria e, con ordinanza in data 30.7.1974,disposto il rinvio a giudizio dello stesso Bertoli (in seguito condannatoalla pena dell’ergastolo), stralciava gli atti che – come si leggenell’ordinanza/sentenza in data 18.7.1998 – inducevano a ritenerel’esistenza di mandanti dietro l’esecutore materiale, proseguendo quindile indagini istruttorie che infine porteranno all’incriminazione degli attualiimputati.

I dubbi sulla effettiva corrispondenza al vero del racconto di GianfrancoBertoli riguardavano in particolare:

il fatto che l’esecutore materiale dell’attentato si fosse davveroprocurato la bomba a mano in Israele, pur essendo accertato chel’ordigno era effettivamente di produzione israeliana, dato che dalleindagini svolte era risultato che negli ultimi anni nessun furto era statocommesso nell’armeria del kibbutz, nella quale per altro non eranocustodite bombe, e che esercitazioni militari non erano state maicompiute con quel tipo di armamento; appariva inoltre improbabile cheBertoli avesse corso il rischio di superare varie frontiere portando con séla bomba, tra l’altro sbarcando in Francia, a Marsiglia, quando benavrebbe potuto sbarcare a Genova dove la nave “Dan”, proveniente dalporto di Haifa dove si era imbarcato, aveva fatto scalo;

la natura e l’origine del passaporto di cui Bertoli era in possesso, undocumento intestato a Massimo Magri – esponente del partitomarxista/leninista italiano – provento di furto e falsificato; ad avviso delG.I. era improbabile che Bertoli fosse potuto espatriare e rientrare in

Italia, superando numerose frontiere, oltre ai meticolosi controlli operatidalle autorità israeliane, utilizzando quel documento;

cosa avesse fatto Gianfranco Bertoli nei giorni precedenti alla stragedato che era pacificamente risultato che lo stesso era sbarcato aMarsiglia il 13 maggio ’73, che aveva preso una camera nell’Hotel duRhone per tre notti, cioè fino al 16 maggio, ma dove, pur pagando perl’intero soggiorno, si era trattenuto una sola notte; da Marsiglia il Bertoliera partito in treno la mattina del 16 maggio raggiungendo Milanointorno alle ore 16 e prendendo alloggio in una pensione di Via Vitruvio;non aveva quindi chiarito cosa avesse fatto a Marsiglia nei giorniprecedenti e chi avesse eventualmente incontrato sia nella città francesesia a Milano;

neppure era certo che Bertoli avesse agito da solo la mattina del 17maggio ponendosi in contrasto con la sua versione quanto dichiarato dalteste Gemelli il quale, verso le 9,50 , aveva osservato l’attentatore sulmarciapiede antistante la Questura affiancato da due individui;

oscuro era poi l’episodio dell’incontro del Bertoli – la sera precedenteall’attentato – con Rodolfo Mersi, sindacalista della Cisnal e confidentedella Polizia. Quest’ultimo (testimonianza Mazzari) alle ore 23 circa del16 maggio aveva fatto una telefonata dal ristorante dove lavoravapronunciando la frase “pronto dottore, è già arrivato il treno, io sono acasa tra 35/40 minuti”. Il Mersi, affermando che il Mazzari avevaequivocato, aveva dichiarato al G.I. di aver parlato per telefono verso le22,30 con la moglie la quale in precedenza lo aveva avvertito dell’arrivodi Bertoli; aveva così chiesto alla moglie se l’amico doveva prendere iltreno dato che il Bertoli aveva detto che a mezzanotte doveva trovarsialla stazione; la parola “dottore” l’aveva pronunciata per scherzoriferendosi al Bertoli.

Dubbi, infine, anche sulle modalità e circostanze con cui Bertoli eraentrato in possesso del passaporto falso, nonché su come avesse potutoespatriare con una certa facilità in Israele il che, tenuto conto che ciò eraavvenuto con l’aiuto di persone in contatto con i servizi segreti italiani eisraeliani, prospettava la possibilità che Bertoli fosse fuggito dall’Italia conla protezione dei Servizi.

Per quanto attiene alla collocazione politica di Gianfranco Bertoli, in

contrasto con l’affermazione di questi di essere un “anarchicoindividualista”, le indagini del G.I. consentivano di accertare rapporti tra lostesso Bertoli ed elementi dell’estrema destra veneta, appartenenti aOrdine Nuovo, segnatamente con Sandro Sedona ed Eugenio Rizzato.In effetti era risultato che il Sedona e il Bertoli, entrambi di Mestre efrequentatori degli stessi ambienti, in un comune periodo di detenzione incarcere avevano condiviso la stessa cella. Il Sedona, al riguardo,dichiarava al G.I. di aver conosciuto il Bertoli in carcere nel 1963, di nonaver instaurato con lui rapporti di amicizia, di non averlo mai sentitoparlare di politica tanto che, dopo aver appreso dalla lettura dei giornali

che il Bertoli si era qualificato come anarchico, era rimasto assaisorpreso.

Gli accertamenti disposti dal G.I. hanno riguardato, in particolare, unaltro punto della versione di Gianfranco Bertoli, quello secondo cui lostesso – come sempre sostenuto – nei circa due anni che precedettero lastrage di via Fatebenefratelli, aveva vissuto nel kibbutz israeliano diKarmia, sito in prossimità della “striscia di Gaza”, da dove non si era maimosso se non per raggiungere l’Italia, via Marsiglia, nell’imminenza del17 maggio ’73 e dell’attentato.

In proposito, gli esiti delle indagini, ritenuti come smentite delleaffermazioni del Bertoli, avevano consentito di accertare non solol’esistenza di contatti epistolari dello stesso con soggetti residenti in Italiama anche, sia documentalmente che mediante testimonianze, che ilBertoli, nel periodo in questione, era stato sia in Francia (Marsiglia eParigi), sia in Italia.

Nello specifico: il G.I. ha richiamato le dichiarazioni rese da BorelliGiuseppe, confidente della polizia e autista dell’avv. Giancarlo De Marchidi Genova, quest’ultimo indicato da alcuni testimoni come finanziatore dimovimenti eversivi di estrema destra. Il Borelli, già sentito in precedenza,nel marzo 1976 si era presentato spontaneamente al G.I. e avevaaffermato che, vedendo la foto di Bertoli nella rivista “Panorama”, nonsolo lo aveva riconosciuto ma aveva ricordato di averlo visto due volte aRecco nel 1973; nella prima di tali occasioni Bertoli era in compagnia diPietro Benvenuto che lo aveva presentato come amico spagnolo; ilBenvenuto successivamente negherà il fatto smentendo le affermazionidel Borelli.

Sulla presenza di Gianfranco Bertoli in Italia, nel periodo in cui questi –secondo le sue affermazioni – non si sarebbe mosso dal kibbutzisraeliano, il 16.2.75 il G.I. assumeva la testimonianza di Sorteni Giorgio;questi premetteva di aver conosciuto il Bertoli nel 1953, quando lo stessocommetteva rapine in danno di omosessuali, che lo stesso Bertoli nel ’54lo aveva messo in contatto con il brigadiere Fanutza il quale gli avevaproposto di svolgere attività di informatore dietro compenso mensile di50.000 lire, attività che anche il Bertoli svolgeva; aveva accettato e avevafatto l’informatore con il nome di copertura “Sergio”; smentival’affermazione di Bertoli, riportata dai giornali, secondo cui questi sarebberimasto ininterrottamente in Israele dal febbraio 1971 al maggio ’73,affermando con certezza (facendo anche riferimento temporale aun’operazione commerciale conclusa a Mestre) di averlo incontrato neipressi della stazione di Mestre in un giorno compreso tra il 25 maggio el’8 giugno 1972. Quanto affermato dal testimone ha trovato confermanelle dichiarazioni del fratello, Sorteni Tommaso, il quale ha ricordato diessersi incontrato, insieme al fratello, con Gianfranco Bertoli nei pressidella stazione di Venezia nella primavera del 1972.

Il G.I. individuava altri elementi di prova idonei a smentire l’affermazionedel Bertoli di essere rimasto nel kibbutz in Israele per un periodocontinuativo di circa due anni: risultava infatti che Gianfranco Bertoli dal10 al 20 novembre 1971 era stato registrato come ospite dell’Hotel duRhone di Marsiglia. La testimonianza resa per rogatoria da SerraSantolo, detenuto in Francia, forniva ulteriore conferma: il Serra,riconosciuto il Bertoli nella fotografia riportata dai giornali dopo la strage,indicava lo stesso come la persona da lui incontrata casualmente aParigi un mese prima del proprio arresto (avvenuto il 18 settembre 1971);il teste ricordava in particolare che Bertoli, dopo essersi trattenuto con luiin un bar, si era allontanato in compagnia di una donna e di due uomini abordo di una Wolksvagen bianca.

Nell’ambito di tale campo di indagine il G.I. ha attribuito particolareimportanza alle dichiarazioni rese da Cavallaro Roberto, sentito più voltee da ultimo il 17.1 e il 17.2.75. Nel corso di questi due interrogatori ilCavallaro aveva ricordato che una volta, probabilmente verso la fine del1973, aveva sentito dire da Amos Spiazzi o da altra persona presenteche qualcuno aveva programmato di uccidere il Ministro degli InterniMariano Rumor nella sua villa di Pianezze, nel vicentino. Il Cavallaroaveva anche precisato che in tale occasione insieme allo Spiazzi vi eraun esponente di Ordine Nuovo, Massagrande o Bizzarri; l’episodio di chetrattasi era avvenuto sicuramente nell’aprile del ’73 nella caserma diMontorio Veronese; si era parlato sia di Rumor che di un altro uomopolitico per l’eliminazione dei quali, secondo l’opinione dello Spiazzi,occorreva un’azione di nucleo.

Il Cavallaro, preso atto che dalla trascrizione del colloquio avvenuto aLugano il 29.3.74 tra Lercari e il cap. Labruna del SID risultava che tra lafine di giugno e i primi di luglio 1973 vi era stata una riunione al ristoranteSavini di Milano nella quale era stata pronunciata la frase “attendevamol’attentato a Rumor e non c’è stato alcun attentato a Rumor”, avevanegato di aver preso parte a detta riunione pur non escludendo che contale frase si fosse fatto riferimento all’attentato compiuto da Bertolidavanti alla Questura di Milano.

Infine il Cavallaro aveva dichiarato che l’organizzazione della qualeaveva fatto parte era nata nel 1964, dopo il fallimento del “Piano Solo”; diessere entrato in contatto con l’organizzazione per il tramite dello Spiazzie che il suo incarico era quello di contattare ufficiali di un certo indirizzomentale e politico per legarli ai programmi dell’organizzazione stessa;questa non era la “Rosa dei Venti” ma un’organizzazione che usava per ipropri fini gruppi di estrema destra, tra i quali anche la “Rosa dei Venti”;fine principale dell’organizzazione, che faceva capo a strutture disicurezza dello Stato e a servizi segreti anche stranieri, era ilcambiamento della gestione del potere in Italia mediante la strategiadella tensione.

Nel corso della lunga e complessa istruttoria erano compiuti alcuniaccertamenti presso il Servizio Informazioni Difesa (S.I.D.). Taliaccertamenti, di cui il G.I. ha dato ampio conto nella motivazionedell’ordinanza conclusiva, possono essere così riassunti: Il 25 ottobre1974 il capitano Antonio Labruna aveva fornito al Giudice Istruttore delTribunale di Padova la fotocopia della trascrizione del colloquio avvenutoa Lugano il 29.3.74 tra lo stesso Labruna e Attilio Lercari. Trasmesso taledocumento al Giudice Istruttore di Milano, questi il 17.12.74 aveva sentitoil Labruna il quale aveva precisato che Lercari, che aveva consentito allaregistrazione, nel corso di quel colloquio aveva affermato che allariunione tenutasi a Milano nel ristorante Savini erano intervenuti, oltreallo stesso Lercari, Amos Spiazzi, il De Marchi, il Rizzato e tale Palinuro,oltre a un giovane appartenente a un gruppo della destraextraparlamentare di Milano. Contestualmente il capitano Labruna avevaconsegnato al G.I. la trascrizione integrale del colloquio e tre velinerelative agli accertamenti compiuti in relazione ai fatti riferitigli dal Lercari.In altra copia di detta trascrizione, successivamente consegnata sempredal capitano Labruna, risultava l’annotazione apposta dal colonnelloRomagnoli a commento e spiegazione della frase “noi attendevamol’attentato a Rumor e non c’è stato alcun attentato a Rumor” secondo cuiil Lercari probabilmente si riferiva al fatto che l’uccisione dell’agenteMarino e l’attentato di Bertoli non avevano prodotto i risultati sperati, valea dire una situazione di emergenza e il conseguente intervento delleForze Armate.

Antonio Labruna, sentito altre tre volte dal G.I. (18.1, 5.11 e16.11.1991), dopo aver spiegato che egli era stato capo del NucleoOperativo Diretto (N.O.D.) e di aver operato agli ordini del generaleMaletti, capo del Reparto D, riferiva che dal 16 gennaio 1973 avevaavuto numerosi colloqui, in tutto sei o sette, con Remo Orlandini, colloquiche aveva registrato e fatti trascrivere; precisava il Labruna che sia inastri che le trascrizioni erano stati trasmessi al colonnello Romagnoli,capo della terza sezione del S.I.D. il quale aveva l’incarico di coordinarele indagini sotto la direzione del Maletti. Il Labruna non era in grado dispiegare il perché all’Autorità giudiziaria fossero stati consegnati solo duedi quei nastri, relativi ai colloqui con Remo Orlandini. In seguito il G.I.accerterà che i colloqui registrati erano stati almeno dieci ed eranoavvenuti nell’arco di tempo compreso tra il 16.1 e il 28.6.1973. I relativinastri erano infine acquisiti nel 1991 per il tramite del giornalista NorbertoValentini e successivamente del Labruna.

Quanto al numero e all’oggetto di tali colloqui il G.I. assumeva letestimonianze dei marescialli del N.O.D. Di Gregorio Paolo e GiulianiNicola, ai quali era stato affidato l’incarico di ascoltare e trascrivere leregistrazioni effettuate dal cap. Labruna; dalle loro dichiarazioni il G.I.desumeva che i colloqui registrati erano stati undici, sicché era mancanteun nastro, dato che i due sottufficiali avevano riferito che in una delleregistrazioni, non compresa tra quelle consegnate, in un colloquioLabruna/Orlandini si era fatto riferimento a un attentato al ministro

Rumor, progettato dall’Orlandini. Entrambi i testi avevano anche riferito diessere rimasti sorpresi dall’oggetto di quel colloquio, tanto che l’avevanocommentato con espressioni del tipo “ma quello è pazzo”, riferendosiall’Orlandini.

A seguito delle dichiarazioni rese da Giorgio Sorteni il 25 febbraio ’75avanti la Corte d’assise di Milano, l’ammiraglio Casardi, capo del S.I.D.,confermava con una missiva che il Bertoli era stato un informatore delS.I.F.A.R. nel periodo dal novembre 1954 e che quella sua attività eracessata nel marzo 1960 a causa dello scarso rendimento fornito.

In proposito il G.I., nel corso di un accesso agli archivi del SISMIcompiuto nel 1991, accertava che appunto il Bertoli aveva collaboratocon il SIFAR nel periodo suddetto, sotto il nome convenzionale “Negro”,e che in tale veste aveva fornito informazioni circa le attività che eranosvolte in alcune sedi del Partito Comunista Italiano, in cui si era infiltrato.

Erano rinvenuti anche alcuni appunti allegati a rapporti inseriti nelfascicolo del Bertoli; tra questi uno datato 1.6.73 a firma Viezzer(colonnello, all’epoca capo della segreteria del reparto D) del seguenteletterale tenore: “da cap. Di Carlo – prega di non dare all’autoritàgiudiziaria, se non importante ed indispensabile, le notizie sul Bertolicontenute nell’allegato due”, nonché altro, siglato dal generale Maletti indata 21 maggio, con l’annotazione “Viezzer – non farne uso per ora”.

Da un documento rinvenuto negli archivi del SISMI il G.I. riteneva dipoter desumere che in realtà il Bertoli aveva proseguito la propria attivitàdi informatore fino al 1966 o, comunque, era stato riassunto in serviziofino a quell’anno. Infatti nella scheda “titolo 225, sottotitolo 4, pratica 4bis- segreteria anno 1966 - oggetto informatore “Negro” - era appostal’annotazione “cessato” scritta di pugno dal colonnello Viezzer.

Quest’ultimo, sentito l’8 novembre 1991, affermava di aver appostosulla scheda detta annotazione sicuramente dopo il giugno ’71 e,considerato che la scheda recava la data del 1966, deduceva che lacollaborazione con l’informatore Negro doveva essere ancora in corso inquell’anno. Il Viezzer affermava tra l’altro che nel periodo in cui eranoavvenuti i colloqui tra l’Orlandini e il capitano Labruna aveva sentitoparlare di un progetto di attentato in danno dell’On. Rumor ma non era ingrado ricordare chi gliene avesse parlato. Personalmente non si erainteressato delle indagini su Bertoli dopo la strage della Questura.

Attività di indagine sull’autore materiale dell’attentato erano statecompiute dal colonnello dei carabinieri Di Carlo Vitaliano, all’epoca inservizio al SID; questi aveva ricordato che, immediatamente dopo lastrage, era stato inviato dal generale Maletti in Israele per svolgereindagini; di queste aveva riferito con un lungo rapporto, acquisito pressoil SISMI, nel quale aveva precisato che Gianfranco Bertoli era collocatosu posizioni di estrema sinistra e che lo stesso in Israele aveva avutocontatti con i fratelli Jemmy, dei quali però non aveva accertato rapporticon Ordine Nuovo.

Procedendo dagli elementi di perplessità ingenerati dalla versione diGianfranco Bertoli circa il proprio espatrio nonché tenuto conto delletestimonianze relative alla sua presenza in Italia (non solo quelle delBorelli e dei fratelli Sorteni ma anche di chi lo aveva incontrato a Parigi,infine degli accertamenti della polizia francese su sue saltuarie presenzea Marsiglia) il G.I. svolgeva ulteriori indagini per appurare in quale modoil Bertoli fosse riuscito ad essere ammesso nel kibbutz di Karmia inIsraele. Gli accertamenti, sia di natura documentale che testimoniale,consentivano di acclarare che il Bertoli aveva ottenuto in pochi giorni econ facilità, inusuale quanto sospetta, l’autorizzazione ad emigrare nellostato di Israele e l’assegnazione al kibbutz, in contrasto con la proceduranormalmente seguita, consistente in lunghi e meticolosi accertamenti evisite mediche. Tutto ciò induceva il G.I. ha ipotizzare che il Bertoli, perquel suo espatrio e sistemazione in Israele, avesse fruito dell’appoggiodei Servizi Segreti italiani con i quali risultava aver collaboratocertamente fino al 1966 e con tutta probabilità fino al 1971.

La citata ordinanza/sentenza del G.I. di Milano dedica ampio spazio alledichiarazioni, ritenute di notevole interesse, rese nel corso dell’istruttoriada Vincenzo Vinciguerra, da Giuseppe Albanese e da Ettore Malcangi,oltre alle deposizioni testimoniali dell’On. Mariano Rumor e del SenatorePaolo Emilio Taviani.

Vincenzo Vinciguerra, sentito dal G.I. il 3 gennaio e il 5 febbraio 1992,teneva a chiarire di non essere né un dissociato né un pentito ma solo diaver voluto dimostrare per amore di verità, anche scrivendo il libro“Ergastolo per la libertà”, che la linea stragista, quella che sarebbe statadefinita “strategia della tensione”, era perseguita da appartenenti agliapparati di sicurezza con l’intento di destabilizzare la situazione politicae dell’ordine pubblico, creando con gli attentati e le stragi, caos,insicurezza e sentimenti di ribellione da cui sarebbe derivata la necessitàdi uno stato forte, di svolte autoritarie con le relative leggi di emergenza.Il Vinciguerra confermava quanto in precedenza, nel 1984, avevadichiarato ai Giudici Istruttori di Venezia e Bologna e cioè che CarloMaria Maggi e Delfo Zorzi per ben tre volte gli avevano proposto dicompiere un attentato alla vita dell’On. Mariano Rumor. Ciò era avvenutouna prima volta nel 1971 fuori dal ristorante Diana, sito tra Udine eTrigesimo, la seconda volta a Udine nell’autunno dello stesso anno,infine nel febbraio/marzo ’72; gli era stato assicurato che avrebbe potutointrodursi agevolmente nella villa dell’On. Rumor dato che la scorta delministro non gli avrebbe creato problemi; egli non aveva aderito a quelleproposte sia perché non aveva compreso il senso politico diquell’attentato sia perché aveva sospettato che questo potesseriguardare più una logica di conflitto di potere all’interno di apparati stataliche un’azione politica rivoluzionaria; aveva inoltre avuto il sentore di uncoinvolgimento dei servizi segreti tenuto conto della connivenza dellascorta del ministro così come gli era stato fatto intendere. Il Vinciguerra

ha, tra l’altro, affermato che, successivamente alla strage compiutadavanti alla Questura di Milano, negli ambienti dell’estremismo di destraGianfranco Bertoli era indicato come persona vicina a Ordine Nuovo.

Giuseppe Albanese, sentito dal G.I. nel carcere di Volterra il 20 giugno’92, dichiarava che dopo la strage era stato detenuto a lungo con ilBertoli il quale, gradualmente, gli aveva confidato di essersi spacciatoper elemento della sinistra allo scopo di sviare le indagini; che, in realtà,era andato in Israele per combattere il terrorismo di sinistra; che eranostati i servizi segreti italiani, in contatto con quelli israeliani, a favorire ilsuo espatrio ed il suo soggiorno nel kibbutz; che poteva lasciare ilkibbutz e lo stato di Israele quando voleva, cosa che aveva fatto alcunevolte; che la bomba a mano utilizzata nell’attentato alla Questura gli erastata fornita da un camerata di Milano e che un gruppo di camerati avevail compito di coprirlo la mattina del 17 maggio ’73 al momentodell’attentato e di favorirgli la fuga; che il suo scopo era quello diattentare alla vita dell’On. Rumor; che, infine, era stato istruito su ciò cheavrebbe dovuto dire nel caso fosse stato catturato, cioè di essere unanarchico e di avere agito da solo.

Angelo Izzo, sentito il 23 aprile e il 10 giugno 1994, riferiva che in ungiorno non precisato del maggio ’73 Enzo Dantini si era fatto consegnarecinque o sei milioni di lire (parte del provento di una rapina) perchédoveva consegnarli a Marsiglia a un individuo per un’azione clamorosache avrebbe dovuto essere commessa a Milano. Qualche tempo dopo,nel corso di colloqui nei quali gli aveva rivelato alcuni particolari alriguardo, Dantini gli aveva detto che l’uomo con cui si era incontrato aMarsiglia era il Bertoli, che l’attentato era diretto a uccidere il ministroRumor, che Bertoli aveva commesso un errore nel lanciare la bomba,che lo stesso non avrebbe mai confessato la vera matrice dell’attentato,che al momento dell’azione si trovavano nei pressi, in funzione diappoggio, alcuni camerati; che, secondo quanto prestabilito, il Bertolidopo l’attentato doveva essere condotto in una località del Veneto in unacasa di cui disponeva un camerata esperto in arti marziali e che, proprioper tale ragione, era soprannominato “Samurai”; Izzo aggiungeva che, sel’attentato fosse riuscito, non si escludeva l’eliminazione del Bertoli permano di lui stesso Izzo e del Ghira.

Malcangi Ettore, sentito il 3 luglio 1995, riferiva che Carlo Digilio(persona con la quale era espatriato clandestinamente a Santo Domingo)gli aveva parlato di una riunione nei primi mesi del 1973, a Verona, allaquale avevano preso parte anche il Fumagalli, Spiazzi e Frasca,generale dei carabinieri, e che quella riunione era preparatoria di unevento importante, come un colpo di Stato. Malcangi dichiarava di averappreso da Marco Rebosio che era stato Giuliano Bovolato aconsegnare la bomba al Bertoli il giorno precedente l’attentato. Il Rebosioammetterà di aver fatto parte delle Squadre d’Azione Mussolini (S.A.M.)

sostenendo però di non ricordare, dato il lungo tempo trascorso, seBovolato gli avesse detto di aver consegnato la bomba al Bertoli.

L’On. Mariano Rumor, presunto bersaglio dell’attentato del 17.5.73,dichiarava di non aver mai sentito parlare della preparazione di unattentato nei suoi confronti anche se ben capiva la ragione per cuiestremisti di destra potessero coltivare tali propositi posto che egli, nellasua qualità di Ministro degli Interni, aveva contrastato attivamente leviolenze della destra eversiva, tanto da aver presentato alla magistraturaromana un esposto contro Ordine Nuovo per violazione della leggeScelba; a seguito di quell’esposto, nel novembre 1973, quel movimentoera stato sciolto con decreto del ministro degli interni pro tempore, On.Paolo Emilio Taviani.

Quest’ultimo, in relazione all’attentato compiuto dal Bertoli, escludevache lo stesso potesse aver agito alle dipendenze dei servizi segretiisraeliani dato che questi erano soliti agire direttamente edesclusivamente per un loro esclusivo interesse. Non riteneva che Bertoliavesse agito da solo e di propria iniziativa, suggerendo di indagare sueventuali contatti tra il Bertoli e gli uomini del generale Maletti.

Altro importante capitolo dell’ordinanza del G.I. è dedicato alla vicendadella così detta strage annunciata, ed ai relativi accertamenti, oggettodelle dichiarazioni rese da Ivo Dalla Costa. Questi, funzionario del PartitoComunista Italiano fin dal 1950, aveva chiesto di essere sentito dal G.I.al quale il 24 marzo 1995 riferiva quanto segue: già in epoca precedentealla strage di P.za Fontana (avvenuta nel dicembre 1969) aveva avutocontatti con il conte Pietro Loredan, che il teste descriveva comepersonaggio squinternato con velleità rivoluzionarie che intendevaperseguire con l’appoggio di forze estremiste, sia di destra che disinistra; il Loredan, che all’epoca manteneva stretti contatti con la destraeversiva veneta, alle ore 6,30 del 15 maggio ’73 gli aveva telefonatodicendogli che doveva parlargli urgentemente e gli aveva fissato unappuntamento nel centro di Treviso; si era recato all’appuntamento e ilLoredan gli aveva detto, secondo quanto testualmente riferito daltestimone, “questa volta spero che mi diate un po’ di fiducia: a Milano traquarantotto ore succederà un attentato contro un’alta personalità delGoverno e ne parlerà l’intera Italia. Avvisa chi di competenza”. Il DallaCosta aveva ritenuto opportuno avvertire dell’informazione ricevuta i suoireferenti di partito a Venezia, dove si era subito recato in treno.Ritenendo il segretario provinciale non sufficientemente esperto, avevapreferito rivelare quanto appreso dal Loredan all’On. Ceravolo. membrodel Comitato Regionale Veneto del P.C.I. Il Ceravolo aveva deciso,seduta stante, di recarsi con lui in auto a Milano dove erano giunti intornoalle ore 11 di quella stessa mattina; il Ceravolo però, prima di partire,aveva fatto telefonare alla direzione del P.C.I. a Roma chiedendo chel’On. Pajetta si recasse immediatamente a Milano. Questi avevaraggiunto Milano in aereo e a lui, nonché all’On. Malagugini (all’epoca

giudice della Corte Costituzionale), aveva riferito quanto affermato daPietro Loredan e riportatogli da Ivo Dalla Costa. L’On. Malagugini si eraassunto l’incarico di informare immediatamente l’autorità giudiziaria, inpersona del Sostituto Procuratore Alessandrini. Precisava il teste che,dopo aver avuto notizia della strage, non aveva chiesto all’On.Malagugini se avesse avvertito il dr. Alessandrini né aveva più incontratoil Loredan. Di quanto sopra non aveva riferito prima, mantenendo ilsegreto per tanti anni anche per non coinvolgere i due uomini politici(ormai deceduti) ma si era deciso a parlare quando, due giorni prima diessere sentito dal G.I., aveva letto sul Corriere della Sera un’intervista aBertoli il quale aveva ribadito di aver compiuto la strage da solo; allalettura di tale affermazione si era indignato e aveva ritenuto di doverrivelare quanto a sua conoscenza

Poiché Pietro Loredan risultava deceduto nel settembre 1994, sui fattiriferiti da Ivo Dalla Costa era sentito l’On. Ceravolo il quale, preso tempoper mettere meglio a fuoco i propri ricordi, confermava sostanzialmentel’episodio di che trattasi ricordando che appunto il Dalla Costa gli avevaparlato di un grave atto eversivo, un attentato, il cui verificarsi a Milanoera dato per imminente; confermava che l’incarico di informareimmediatamente la magistratura milanese era stato affidato all’On.Malagugini ma non ricordava se si fosse accennato al P.M. Alessandrini.

Nel prosieguo delle indagini, il G.I. riteneva di notevole interesse perricostruire l’attività di Ordine Nuovo nel Veneto tra la fine degli annisessanta e l’inizio dei settanta le dichiarazioni rese da Martino Siciliano,persona che aveva fatto parte del gruppo di Ordine Nuovo di Mestre finoalla fine del 1972 e che aveva avuto contatti con esponenti dei gruppiordinovisti di Venezia, Udine, Verona e Trieste fino al 1974, anno nelquale si era trasferito in Francia.

Negli interrogatori del 14.10.95 e del 3.7.97 Martino Siciliano, perquanto attiene a Gianfranco Bertoli, pur non avendolo conosciuto,affermava di averne sentito parlare nell’ambito di Ordine Nuovo aVenezia. Ricordava, in particolare, che alcuni giorni dopo la strage dellaQuestura, in un colloquio avuto con Carlo Maria Maggi nell’ospedalegeriatrico in cui questi lavorava aveva appreso che lo stesso Maggi, findai tempi in cui frequentava l’Università di Padova, conoscevaGianfranco Bertoli; quest’ultimo, a detta del Maggi, non era un anarchicobensì un camerata; Maggi gli aveva detto anche di aver mantenutocontatti con il Bertoli anche nel periodo in cui questi si trovava all’estero.

Analoghi discorsi, vale a dire essere il Bertoli un camerata e non unanarchico, gli erano stati fatti da Delfo Zorzi, con il quale aveva parlatocirca quindici giorni dopo la strage di Milano; lo Zorzi gli aveva detto chel’episodio Bertoli rientrava nella strategia di Ordine Nuovo.

Martino Siciliano dichiarava inoltre che nei primi anni settanta avevasentito parlare, nell’ambito di Ordine Nuovo, di eliminare – nell’otticadella strategia del gruppo – un importante uomo politico; Zorzi, Maggi eMolin avevano anche fatto il nome dell’On. Rumor ma non era in grado di

riferire del progetto nei dettagli, anche perché sospeso da Ordine Nuovonel 1972. Nulla sapeva delle proposte fatte al Vinciguerra di ucciderel’On. Rumor.

Siciliano dichiarava infine di aver frequentato in quegli anni il locale“Graspo de uva” sito in Spinea (provincia di Venezia), un locale cheapriva alle quattro del mattino ed era meta abituale di nottambuli; il localeera frequentato tra gli altri da Delfo Zorzi, da Giampiero Mariga, dalSedona e dal Bertoli. Mariga, con cui intratteneva rapporti di strettaamicizia, gli aveva confidato che Bertoli andava e veniva da Israele e chelo aveva incontrato più volte a Spinea nel 1972. Mariga aveva anchedetto di aver appreso dal Bertoli che lo stesso, nel kibbutz, era statoaddestrato all’uso di armi ed esplosivi e che godeva di grande libertàdato che era protetto dai servizi segreti israeliani.

Seguendo lo sviluppo delle indagini sulla strage del 17 maggio ’73 unatrattazione più dettagliata, così come fatto dal G.I., spetterebbe alledichiarazioni rese da Carlo Digilio nel corso di vari interrogatori,all’attendibilità dello stesso e del suo racconto nonché agli elementi diriscontro individuati. Qui ci si limiterà, invece, a un breve cenno attesoche quanto dichiarato dal collaboratore di giustizia, con particolareriferimento al coinvolgimento di Maggi, Neami e Boffelli comeorganizzatori e mandanti della strage, sarà oggetto di approfonditadisamina sia nella motivazione della sentenza di primo grado sia inquella di appello (di cui si dirà), infine in quella della Suprema Corte chesancirà come inutilizzabili le dichiarazioni del Digilio, ritenute inattendibili,nell’accertamento delle penali responsabilità degli attuali imputati.

Carlo Digilio - all’epoca dei fatti per cui si procede pienamente inseritonell’ambito del gruppo ordinovista dei Venezia Mestre, indicato comearmiere del gruppo, in stretti rapporti con Marcello Soffiati, Carlo MariaMaggi, Neami e Boffelli – operata una scelta collaborativa, talorarivelatasi e ritenuta utile in altri procedimenti penali, riferiva al G.I. che indata imprecisata, ma collocata nel lasso temporale compreso tra uno odue mesi prima della strage alla Questura di Milano, aveva abitato percinque o sei giorni nell’abitazione del Soffiati, in via Stella a Verona, conl’incarico di controllare la situazione di una persona, Gianfranco Bertoli,anch’essa ospite di quella casa. Affermava, in particolare, che il Bertoliera ivi trattenuto per essere convinto e istruito dal Neami in vistadell’esecuzione di un attentato alla vita dell’On. Mariano Rumor che lostesso Bertoli avrebbe dovuto eseguire, su come avrebbe dovuto agire esu ciò che avrebbe dovuto dire nel caso fosse stato arrestato.

Il Giudice Istruttore ha indicato quali elementi di conferma alledichiarazioni del Digilio quelle rese da Pietro Battiston, da GabrieleForziati, da Dario Persic, da Anna Maria Bassan, da Gallo Rosa, daGobbi Giuseppina, ritenendo infine pienamente attendibile quantodichiarato dal collaboratore di giustizia a carico degli attuali imputati e inordine alle rispettive responsabilità nei fatti che qui riguardano.

Traendo le conclusioni della lunga e laboriosa indagine il G.I. haritenuto innanzitutto non veritiera la versione fornita da Gianfranco Bertoli(da ultimo ribadita con interviste rilasciate nel 1997). Questi, ribadita latesi, sempre sostenuta, di avere agito da solo come anarchicoindividualista nell’esecuzione della strage del 17 maggio 1973, dopo gliarresti di Maggi, Neami e Boffelli quali concorrenti in quel delitto, si eralimitato ad affermare una propria conoscenza occasionale con il Maggi(che sapeva essere un medico che una volta gli aveva fatto una ricetta) edi aver conosciuto Boffelli negli anni cinquanta; a Verona c’era stato masempre in quegli anni, quando vendeva impermeabili.

Il G.I. riteneva le affermazioni di Bertoli – non interrogato a causa di untentativo di suicidio compiuto il 18.6.97 – smentite dai suoi provatirapporti con estremisti di destra come dimostrato dall’avere lo stessoBertoli fornito ospitalità, nel kibbutz israeliano, ai fratelli Jemmy (entrambirisultati inseriti nel movimento eversivo di destra Ordre Nouveau), dallefrequentazioni con il Sedona e con il Mariga, dall’amicizia con Boffelli edai rapporti intrattenuti con Carlo Maria Maggi come riferito da MartinoSiciliano e da Pietro Battiston.

Si era, inoltre, dimostrata falsa l’affermazione del Bertoli di non essersimai allontanato dal kibbutz di Karmia dal 26.2.71 all’8.5.73 dato che ciòera stato smentito dalle testimonianze di Giuseppe Albanese, dei fratelliGiorgio e Tommaso Sorteni, di Serra Santolo e di Martino Siciliano, oltreche dagli accertamenti di polizia compiuti a Marsiglia nell’Hotel duRhone.

Il G.I., ritenute attendibili le dichiarazioni rese da Carlo Digilio neiconfronti di Maggi, Neami e Boffelli, indicava i seguenti elementi diconferma delle stesse: 1) le dichiarazioni di Cavallaro, Vinciguerra,Albanese e Izzo; 2) i fatti riferiti da Pietro Loredan, 3) l’appartenenza deitre imputati alla stessa area di Ordine Nuovo; 4) la conoscenza e irapporti di Bertoli con Boffelli; 5) la conoscenza di Bertoli da parte delMaggi; i rapporti tra Mariga e Bertoli; 6) quanto emerso in relazione allasaltuaria presenza in Italia di Gianfranco Bertoli, circostanza compatibilecon la presenza di questi nell’appartamento di via Stella a Verona; 7) laconferma provenuta da Dario Perisch circa la presenza di unosconosciuto nell’abitazione del Soffiati in un periodo temporale in cui ilBertoli sarebbe stato ospite nella casa di via Stella.

Il G.I. ha ritenuto poi di poter ravvisare con certezza nella linea stragistadell’estrema destra eversiva, in particolare del gruppo ordinovista diVenezia Mestre, la matrice dell’attentato di via Fatebenfratelli e diaffermare che questo aveva come vero bersaglio l’allora Ministro degliInterni On. Mariano Rumor sia per le immediate ammissioni dello stessoBertoli sia per il fatto che nella formazione eversiva di che trattasi si erasvolta, proprio in quel periodo, un’intensa attività preparatoria diretta aquel fine. Il che, inoltre, risultava dai colloqui di Antonio Labruna con ilLercari e con l’Orlandini (il secondo non trasmesso alla A.G.) nei quali siparlava di un attentato alla vita dell’On. Rumor. In proposito sono

richiamate le dichiarazioni rese da Roberto Cavallaro fin dal 1974,nonché da Giuseppe Albanese, da Vincenzo Vinciguerra e da AngeloIzzo. Gli stessi Izzo, Siciliano e Vinciguerra, oltre a Pietro Battiston,avevano indicato il Maggi come sostenitore della linea stragistanell’ambito di Ordine Nuovo.

Ha ritenuto il G.I. che il gruppo ordinovista si era servito, per compierel’attentato contro l’On. Rumor, di Gianfranco Bertoli sia per la disponibilitàdi questi a compiere atti criminosi, sia per il fatto che era esperto nell’usodi armi ed esplosivi, sia infine perché persona facilmentesuggestionabile; ma, soprattutto, ci si era serviti di lui per poter attribuireuna matrice anarchica all’attentato, in coerenza con la tecnica dellamimetizzazione più volte attuata in quegli anni dalla destra eversiva.

Il Giudice Istruttore, con la più volte citata ordinanza/sentenza,disponeva il rinvio a giudizio avanti la Corte d’assise di Milano, tra gli altrie per varie imputazioni, degli attuali imputati per rispondere del delitto distrage e dei reati connessi. Indicava per ciascuno i seguenti e piùrilevanti elementi di prova:

quanto a Carlo Maria Maggi: nell’aprile del 1957 Maggi aveva costituitoa Venezia la prima sezione del “Centro Studi Ordine Nuovo”; nel ’64 eraentrato a far parte del direttivo nazionale di Ordine Nuovo ed era statonominato ispettore per il Triveneto; aveva diretto il gruppo di OrdineNuovo di Venezia Mestre negli anni 1969-1973, mantenendo i contatti inparticolare con i gruppi di Verona e Trieste. Il coinvolgimento di Magginell’attentato all’On. Rumor era risultato dalle dichiarazioni di VincenzoVinciguerra. Dalle dichiarazioni di Carlo Digilio era emerso il ruolocentrale di Maggi nell’organizzazione dell’attentato compiuto daGianfranco Bertoli contro Rumor e dette dichiarazioni risultavanoconfermate dagli accertati collegamenti di Maggi con i gruppi di Verona eTrieste, dagli stretti rapporti intrattenuti dall’imputato con Soffiati, Boffelli,Neami e Digilio, dalle dichiarazioni di Martino Siciliano circa i rapporti tralo stesso Maggi e il Bertoli, dai contatti di Bertoli con elementi di OrdineNuovo di Mestre e in particolare con Mariga, dalla telefonata compiutadal Mersi il 16 maggio 1973 come riferita dal teste Mazzeri, dalcoinvolgimento di Maggi nell’episodio dell’avv. Forziati con il Digilio e ilNeami, infine dall’aver propugnato teorie stragiste come riferito da PietroBattiston, Marzio Dedemo e Martino Siciliano.

Quanto a Giorgio Boffelli, dall’istruttoria era risultato che aveva semprefrequentato a Venezia gli ambienti dell’estrema destra. Dal novembre1966 all’ottobre ’67 aveva fatto il mercenario in Congo, arruolato da ItaloZambon. Per circa dieci anni, fino al 1977, nella trattoria veneziana “LoScalinetto” gestito dalla convivente Giusepina Gobbi, si era incontratospesso con il Maggi (del quale era anche guardaspalle) nonché con ilDigilio e il Soffiati. Boffelli era in rapporti di amicizia con il Mariga il qualea sua volta era in stretti rapporti con il Bertoli. Dalle dichiarazioni di CarloDigilio era risultato essere stato proprio il Boffelli a suggerire al Maggi diaffidare al Bertoli l’incarico di uccidere Rumor, in considerazione della

abilità del Bertoli nell’uso delle armi. Era stato fatto intervenire il Boffellinell’appartamento di via Stella per convincere e rincuorare il Bertoli, oltreche per sorvegliarlo sostituendosi al Digilio, quando Bertoli avevamostrato riluttanza a compiere il progettato attentato all’On. Rumor. Erasempre stato il Boffelli, qualche giorno dopo il fallito attentato, arispondere al Maggi, che gli chiedeva spiegazioni, che tutti possonosbagliare, evidentemente riferendosi all’errore nel lancio della bombacommesso dal Bertoli. Frase che il Boffelli, ammessa la propriaconoscenza con il Bertoli, aveva tentato invano di spiegarediversamente. Infine l’imputato, nel corso dell’interrogatorio, aveva dettoche Bertoli, oltre al francese, parlava l’ebraico così mostrando di averlovisto dopo il ritorno da Israele. Al riguardo non era ritenuta attendibile laspiegazione fornita dal Boffelli di aver appreso quel particolare dallalettura di un giornale.

Francesco Neami era stato responsabile del Centro Triestino di OrdineNuovo ricoprendo anche la carica di dirigente del settore organizzativogiovanile del M.S.I. ma nel 1973 era stato espulso dal partito perindisciplina. Da quanto dichiarato da Carlo Digilio era risultato che ilNeami aveva partecipato all’organizzazione e ai preparativi dell’attentatocontro il ministro Rumor istruendo il Bertoli sull’azione che dovevacompiere, sull’uso della bomba, sul piano di fuga e sulle risposte cheavrebbe dovuto fornire in caso di arresto. Le indagini avevanoconfermato i collegamenti del Neami con Maggi e Digilio e, in particolare,era risultata la partecipazione dello stesso Neami all’episodio dell’avv.Forziati, che aveva visto il coinvolgimento delle medesime persone chein seguito avrebbero partecipato alla preparazione del Bertoli in vistadell’attentato. Infine il Neami, negli interrogatori, aveva ammesso lapropria partecipazione all’episodio Forziati e i propri assidui contatti conMaggi.

La sentenza di primo grado Il processo avanti la Corte d’assise di Milano aveva inizio l’11 giugno

1999 in presenza tra gli altri degli imputati Maggi, Boffelli e Neami e,dopo numerose udienze, si concludeva l’11 marzo 2000, data in cui eradata lettura del dispositivo.

Come si è detto in premessa, la Corte d’assise ha dichiarato BoffelliGiorgio, Maggi Carlo Maria, Neami Francesco e Spiazzi Amospenalmente responsabili del delitto di strage di cui al capo A della rubrica(artt. 110, 112 n.1 e 422 C.P.) condannandoli alla pena dell’ergastolo;quanto a Digilio Carlo, in ordine allo stesso delitto, riconosciuta ladiminuente di cui all’art. 4 L. 6.2.80 n.15, ha dichiarato non doversiprocedere per intervenuta prescrizione. Maggi, Boffelli, Neami e Spiazzisono stati altresì condannati, in solido tra loro, al risarcimento del dannoin favore delle parti civili costituite, tra le quali il Comune di Milano.

La motivazione della sentenza di primo grado pone come premessa undato di fatto, ritenuto assolutamente certo e attendibile, tale da un lato dadimostrare la falsità dell’affermazione di Gianfranco Bertoli di avere agitoda solo, senza mandanti e appoggi, dall’altro comprovante che ideazioneed esecuzione dell’attentato di via Fatebenefratelli era da attribuirsi a benprecisi ambienti della destra eversiva veneta: la strage compiuta il 17maggio 1973 davanti alla Questura di Milano era stata annunciata, siadue giorni sia circa due mesi prima che avvenisse, da due fonti, tantoautonome quanto attendibili, cioè dalle informazioni fornite a Ivo DallaCosta dal conte Pietro Loredan e dai colloqui (debitamente registrati)avvenuti tra il capitano Antonio Labruna e Remo Orlandini.

E’ presa in esame, per prima, la vicenda Loredan/Ivo dalla Costa. LaCorte di primo grado, prescindendo dal fatto che il Dalla Costa è untestimone, ha compiuto un approfondito esame della sua personalità,delle sue attività politiche e culturali, della sua personale attendibilitàpervenendo a escludere “senza alcuna incertezza” che si tratti di unmistificatore. La generale attendibilità del teste e, in particolare, di quantodallo stesso riferito al G.I., secondo i primi giudici ha trovato pienoriscontro, da una lato, nella testimonianza totalmente confirmatoria delCeravolo il quale, sia pur dopo qualche iniziale esitazione, ha riferito deifatti in questione in totale concordanza con il Dalla Costa, da altro latonelle testimonianze (Universo, Alvise Loredan, Stimamiglio) e neirapporti di polizia riferiti alla personalità e all’attività politica svoltaall’epoca da Pietro Loredan, ai contatti di questi con elementi della destraeversiva che si riunivano nel locale “la Falconiera” dello stesso Loredan,in particolare ai rapporti con Giovanni e Luigi Ventura e alla concretapossibilità che il Loredan, assiduo frequentatore della casa di GiovanniVentura (all’epoca detenuto ma spesso visitato in carcere dai famigliari),per quella via avesse potuto venire a conoscenza dell’attentato che sistava preparando.

La Corte di primo grado sottolinea poi che, come riferito dal testeStimamiglio, proprio in quel periodo Ordine Nuovo aveva in progetto diattuare una serie di attentati per creare uno stato di tensione su cuidoveva innestarsi un possibile intervento militare. Sicché, osservano iprimi giudici, è ben possibile che il Loredan avesse appreso in quelcontesto, da fonte attendibile, del tempo e del luogo dell’attentato.

Non a caso, si osserva ancora, il Loredan nei giorni immediatamentesuccessivi alla strage manifesterà uno stato di paura e di forte agitazionee, dopo poco tempo, alienerà tutti i suoi beni per allontanarsi dall’Italiaalmeno fino al 1994.

I primi giudici, sulla scorta delle testimonianze assunte, hanno esclusoche l’On. Malagugini avesse informato l’autorità giudiziaria di quantoappreso da Ivo Dalla Costa e dall’On. Ceravolo, forse perché nonritenuta sufficientemente attendibile la loro fonte.

I giudici di primo grado, sulle tracce dell’ordinanza del G.I., hannoattribuito grande rilievo probatorio alla vicenda Orlandini/Labruna perattribuire all’eversione di destra, in particolare a elementi di OrdineNuovo, il progetto di uccidere il ministro degli interni On. Mariano Rumornonché la conoscenza di quel progetto da parte dei servizi segreti e ilmancato attivarsi di questi per opporvisi e sventare quanto poi accadutodavanti alla Questura di Milano il 17 maggio ‘73.

Ad avviso dei giudici di primo grado le affermazioni dell’Orlandini sipongono in perfetta sintonia con le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerrasecondo il quale, per almeno vent’anni, strutture dello Stato (i Servizi)avevano perseguito la c.d. strategia della tensione, una strategiadifensiva e improntata a spiccato anticomunismo, intesa a garantire alleclassi politiche dominanti il mantenimento del potere, strategia riducibilealla formula “destabilizzare per stabilizzare”; ciò doveva appuntoavvenire mediante la diffusione nella popolazione di senso di insicurezzaa causa di atti terroristici eclatanti che dovevano essere commessi a talescopo; per il conseguimento di tali fini, appartenenti a quelle strutturedello Stato si servivano dei gruppi estremisti di destra (i quali vivevanonell’aspettativa salvifica dell’intervento delle Forze Armate); gli attentatidovevano poi essere attribuiti alla sinistra. Per tale ragione gli autori deipiù gravi attentati avvenuti in Italia in quegli anni avevano fruito diinterventi di sviamento e copertura. Uno di tali atti eclatanti, pienamenterientrante nella strategia della tensione, era stato appunto l’attentatocompiuto dal Bertoli alla Questura di Milano e avente come bersaglio ilministro degli Interni Mariano Rumor.

In proposito i giudici di primo grado richiamano la testimonianza resa daTorquato Nicoli, appartenuto al Fronte Nazionale dal quale però, appresodel tentativo di golpe del dicembre ’70, si era allontanato non fidandosipiù delle persone che ne facevano parte: “detti le dimissioni – avevaaffermato il Nicoli – e non partecipai all’attività del Fronte; purabbandonando il Fronte conservai una serie di conoscenze: seppi che ilBorghese scappò in Spagna, dell’arresto dell’Orlandini e del passaggiodella direzione del Fronte al dr. Ciabatti della Direzione di Grosseto.Conservai un rapporto amichevole con De Marchi; anche a me DeMarchi propose di entrare a far parte del suo gruppo, assumendo che eraimminente un colpo di Stato; nel chiedermi di partecipare all’operazione ilDe Marchi disse che la situazione era matura, che avevano tanti soldi,che c’era l’adesione di militari del Nord, ed anzi che tutte le truppedell’Italia settentrionale erano controllabili. Mi disse in particolare chec’erano dei generali e vari ufficiali superiori; successivamente neinumerosi incontri da me avuti in Svizzera con Orlandini, Lercari, Massa ealtri del gruppo che stava movendosi, ho potuto ricostruire che era statafissata un’epoca per il colpo di stato, intorno al settembre 1973”.Torquato Nicoli aveva anche affermato che negli ambienti del FronteNazionale, che egli non aveva mai cessato di frequentare, “si era parlatodell’utilizzazione di elementi di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale

per atti violenti”. Affermava infine il Nicoli che nel 72/73 i gruppi delFronte Nazionale, di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo si eranosostanzialmente fusi dato che gli appartenenti al Fronte Nazionale siiscrivevano anche a Ordine Nuovo e ad Avanguardia Nazionale. I primigiudici, al riguardo, annotano che persino Antonio Labruna avevaammesso che quei gruppi erano tutti quanti collegati.

Da ultimo nella motivazione si citano le dichiarazioni del collaboratore digiustizia Roberto Cavallaio il quale, sin dal 28 febbraio 1975, avevariferito al G.I. di Roma che Amos Spiazzi più volte gli aveva detto che egli“subordinava l’intervento delle Forze Armate a uno stato di particolaretensione”; nell’ambito di tali discorsi, aveva aggiunto il Cavallaro, loSpiazzi parlava dell’organizzazione Ordine Nuovo come l’unica, in quelmomento, capace di compiere fatti concreti.

La Corte di primo grado, data per pacificamente acclarata l’esistenza, inquegli anni, di una vera e propria strategia della tensione avente lefinalità ampiamente illustrate, cioè creare le condizioni socio-politicheidonee a rendere necessario un colpo di Stato, ha individuato nel gruppodi estrema destra Ordine Nuovo una delle organizzazioni che avrebbedovuto attuare quella strategia.

I giudici di primo grado, poste tali premesse, dedicano la successivaparte della sentenza appellata all’oggetto del presente processo, vale adire all’attentato compiuto da Gianfranco Bertoli alla vita dell’On. Rumor il17 maggio 1973, nonché alle posizioni processuali dei tre attuali imputati,Maggi, Boffelli e Neami.

Quanto al primo punto, l’attentato avente come bersaglio il Ministrodegli Interni, sono richiamate innanzitutto le dichiarazioni rese il 2 agosto’84 al G.I. di Bologna da Vincenzo Vinciguerra relative alla proposta, daquesti ricevuta da parte di Carlo Maria Maggi e da Delfo Zorzi, diuccidere Mariano Rumor, accusa reiterata dal dichiarante il successivo14 agosto al G.I. di Venezia nell’ambito dell’indagine sull’esistenzadell’associazione eversiva di cui lo stesso Vinciguerra faceva parte.

Precisato che questi non era da considerarsi, tecnicamente, comecollaboratore di giustizia, se non altro per non aver chiesto – per le suedichiarazioni – corrispettivo alcuno allo Stato, ritenute altresìintrinsecamente attendibili e disinteressate tali dichiarazioni (si annota, alriguardo, che il Vinciguerra era reo confesso della strage di Peteano perla quale gli era stata inflitta la pena dell’ergastolo), la sentenza riportaampi brani di quanto allo stesso riferito al G.I. e di poi confermato nellafase dibattimentale.

I primi giudici, nella valutazione delle dichiarazioni del Vinciguerra,ritengono non possa prescindersi da alcune accertate circostanze difatto, vale a dire: 1) in quel preciso torno di tempo, vale a dire i primi anni’70, sia il gruppo ordinovista di Mestre, sia il gruppo di Udine

perseguivano la strategia della tensione attraverso la linea stragista; 2) ifautori di tale linea di condotta, a Udine e a Venezia Mestre, erano perl’appunto i tre protagonisti degli incontri descritti dal Vinciguerra e cioè ilVinciguerra medesimo, per il gruppo di Udine, Maggi e Zorzi per il gruppodi Venezia Mestre. Tali circostanze erano da ritenersi avvalorate dallepronunce del Tribunale e della Corte d’assise di Venezia circal’operatività del gruppo ordinovista di Venezia Mestre e sulla figura diDelfo Zorzi, sulla freddezza e determinazione del quale nell’operare ilsalto di qualità della cellula nell’eversione dell’ordine costituito avevanoconcordemente riferito Martino Siciliano e Giancarlo Vianello. Sicché, siosserva, è più che verosimile che fosse proprio Zorzi ad accompagnare ilMaggi nei reiterati incontri con Vinciguerra durante i quali si tentò conogni mezzo di convincerlo ad eseguire l’attentato contro l’On. Rumor.

Si osserva poi come il fatto che lo Zorzi sia stato prosciolto dal G.I. inrelazione all’imputazione di strage, per il fatto che questi nel maggio1973, si era già trasferito in Giappone, non implica in alcun modol’inattendibilità di quanto riferito dal Vinciguerra. Le sue dichiarazioni, delresto, hanno trovato conferma e riscontro in quelle di Roberto Cavallaro,anch’egli a conoscenza sia del progetto di eliminare il ministro Rumor siadel luogo previsto in un primo tempo in cui lo stesso doveva esserecolpito, cioè nella sua villa nel vicentino. Ulteriore conferma alVinciguerra, secondo i giudici di primo grado, era venuta dal fatto provatoche l’attentato compiuto dal Bertoli aveva effettivamente come bersagliol’On. Rumor il quale, tra tutti gli uomini politici che potevano essere presidi mira, era quello che più aveva suscitato profonda irritazione negliambienti dell’estrema destra ordinovista.

Sul punto sono citate le dichiarazioni di Marco Affatigato, di Carlo Digilioe di Dario Persic; quest’ultimo, in particolare, aveva riferito al G.I. “iosapevo che Soffiati e gli altri non potevano soffrire Rumor perché erastato lui uno dei principali artefici dello scioglimento di Ordine Nuovochiedendo l’applicazione della legge Scelba nei confronti di taleorganizzazione”.

Di fatto, si osserva, che fu proprio l’On. Mariano Rumor ad avviare ilmeccanismo che sfocerà nel provvedimento di scioglimento di OrdineNuovo, anche se l’operazione sarà portata a termine dell’On. Taviani,succeduto a Rumor al ministero degli Interni.

La Corte d’assise osserva a questo punto, quanto all’imputazione distrage di cui al capo A della rubrica, che dalle molteplici fonti di prova,eterogenee e autonome, è dimostrato che: 1) la strage di viaFatebenefratelli poteva essere evitata in quanto da più parti annunciata;2) la responsabilità della strage è da attribuirsi all’estrema destraeversiva; 3) la strage si inserisce a pieno titolo nella strategia dellatensione che in quegli anni ha avuto di mira la destabilizzazione delPaese, in realtà per stabilizzarlo; 4) tra i protagonisti della strategia dellatensione vi era la cellula eversiva di Ordine Nuovo di Venezia-Mestre,della quale era incontrastato capo carismatico Carlo Maria Maggi; 5) tale

cellula sopravvisse alla riunificazione, solo di facciata, con il MovimentoSociale Italiano.

Conclusioni queste, si sottolinea da parte dei primi giudici, alle quali si èpervenuti anche prescindendo dalle dichiarazioni di Carlo Digilio (rese alG.I. in cinque interrogatori, tra il 16 dicembre 1996 e il 25 giugno 1997),esaminate e valutate come segue nella motivazione della sentenzaimpugnata.

Il collaboratore di giustizia, anch’egli imputato come concorrente nellastrage materialmente compiuta da Gianfranco Bertoli, pur affermando dinon aver fatto parte di Ordine Nuovo, affermava di avere avuto contattiassidui e prolungati con appartenenti a quell’organizzazione, quali ilMaggi, Zorzi, Minetto, Boffelli, Neami e Marcello Soffiati. All’inizio del1973 aveva appreso da Maggi e Zorzi del proposito di eliminare l’On.Rumor, della proposta fatta in tal al Vinciguerra nonché del fatto chequesti si era rifiutato. Maggi non aveva rinunciato al progetto e gli rivelòche intendeva reclutare per quell’azione il Bertoli, descritto comefrequentatore di un circolo anarchico di Mestre, il che – in caso di arresto– sarebbe servito per idonea copertura davanti all’opinione pubblica. DelBertoli gli avevano parlato sia il Boffelli che il Neami, che Digilioconosceva come guardaspalle del Maggi; glielo avevano descritto comeun mercenario che aveva soggiornato per qualche tempo in Israele, cheera tornato in Italia e che era in procinto di ripartire per il Libano, semprecome mercenario.

Era stato Marcello Soffiati a chiedere a lui, Digilio, di andare ad abitareper qualche tempo nella sua casa veronese di via Stella, dove avrebbedovuto controllare la situazione, dato che in quella abitazione era statoportato il Bertoli. Nella casa del Soffiati si era trattenuto per cinque o seigiorni ed ivi aveva trovato il Bertoli (del quale descriveva abitudini e tratticaratteriali); erano pure presenti il Neami e, meno assiduamente, ilBoffelli e il Maggi; il primo istruiva il Bertoli, anche con metodi violenti, sucome si doveva comportare in occasione dell’attentato all’On. Rumor esu cosa avrebbe dovuto dire nel caso fosse stato arrestato (cioè diessere un anarchico, di avere agito da solo, di aver portato con sé labomba da Israele). Neami, a detta del Digilio, faceva in modo dirafforzare il proposito del Bertoli, sollecitandone la vanità (tutta l’Italiaavrebbe parlato di lui) e promettendogli una somma di denaro di alcunimilioni di lire. Nell’abitazione del Soffiati erano conservate armi e, inparticolare, alcune bombe a mano tipo “ananas” provenienti da casermeamericane. Alla fine della settimana Digilio aveva lasciato la casa di viaTella non sopportando più quella situazione e aveva preso il suo posto ilBoffelli. Per un certo tempo non aveva più saputo nulla del Bertoli, salvoche sarebbe stato portato sul luogo dell’attentato da due persone; avevapoi appreso dai giornali e dalla televisione che l’attentato del Bertoli erafallito. Qualche giorno dopo la strage alla Questura di Milano, Digilio siera trovato a cena nella trattoria Lo Scalinetto con Maggi e Boffelli;Maggi, che appariva abbattuto, chiedeva continuamente a Boffelli come

mai Bertoli avesse sbagliato e il Boffelli gli aveva risposto “siamo tuttiesseri umani e tutti possono sbagliare”.

Sicché, secondo i giudici di primo grado, 1) Maggi, in una con Zorzi,fino a che quest’ultimo era rimasto a Mestre, intendeva attentare alla vitadel ministro degli Interni Mariano Rumor; 2) dopo il rifiuto reiteratamenteopposto dal Vinciguerra alla richiesta di provvedere alla esecuzionemateriale del piano, Maggi cercava un sostituto e stava prendendo inesame, su suggerimento di Boffelli, la persona di Gianfranco Bertoli, unuomo disposto a tutto non avendo nulla da perdere; 3) effettivamenteBertoli era stato prescelto, prelevato e condotto nella casa di Soffiati invia Stella a Verona; dopo aver appreso tutto ciò, Digilio accettaval’incarico di tenere sotto controllo la situazione, sufficientementeesplosiva per richiedere la supervisione di una persona accorta come lostesso Digilio, esistente in quell’appartamento, dove Francesco Neami(esponente di Ordine Nuovo triestino) istruiva ma, prima ancora, standoalle stesse dichiarazioni di Digilio, tentava di condizionare il prescelto,superando le resistenze di lui e preparandolo psicologicamente alla duraprova che doveva affrontare.

Dunque, si osserva, Carlo Digilio, per sue stesse ammissioni, dovevaconsiderarsi reo confesso di concorso nella strage, secondo il suospecifico ruolo, come contestatogli nel capo di imputazione. Il che, vale adire l’assunzione delle proprie responsabilità, implica di per sé un buongrado di attendibilità delle dichiarazioni del collaborante, stante laspontaneità e il disinteresse delle stesse.

Quanto alla valutazione della chiamata di correo operata dal Digilio,ritenuta precisa, ricca di dettagli e intrinsecamente logica, i primi giudiciosservano che ben poco rilievo assume l’affermazione, vera o no chefosse, del collaborante di aver mantenuto rapporti con gli ordinovistiperché informatore dei Servizi Segreti Americani, così come l’aversostenuto di non avere mai fatto parte di Ordine Nuovo quando, invece, ilruolo attivo del Digilio nell’organizzazione (indicato anche come “armieredel gruppo”) è stato positivamente affermato da sentenze definitive edalla sua assidua frequentazione di Carlo Maria Maggi, riferitaconcordemente da numerosi testimoni (Giuseppina Gobbi, compagnaall’epoca di Giorgio Boffelli, Dario Persic, Pietro Battiston e FrancescoZaffoni, Martino Siciliano, Marzio Dedemo).

La Corte di primo grado, in tema di attendibilità generale e intrinseca diCarlo Digilio ha sottolineato la concordanza delle dichiarazioni di questicon quelle di Martino Siciliano (rese in varie occasioni a Giudici Istruttori),su punti sia marginali sia di estrema importanza. Tra questi: il ruolo diBoffelli nell’ambito di Ordine Nuovo, il possesso da parte di costui di unapenna-pistola calibro 22, le confidenze di Zorzi circa le responsabilità delgruppo per gli attentati ai treni nell’estate ’69, gli esplosivi nelladisponibilità del gruppo e alla loro custodia, le armi detenute dal Soffiatinell’appartamento di via Stella, l’attentato alla scuola Slovena di Trieste,

il ruolo del Tettamanzi come guardaspalle di Carlo Maria Maggi, il ruolodello stesso Digilio nell’ambito di Ordine Nuovo nel reperimento,riparazione e adattamento di armi oltre a traffico di esplosivi.

Le mansioni di armiere cui era destinato il Digilio hanno trovatoconferma nelle dichiarazioni del Vinciguerra il quale ha affermato diaverlo conosciuto tramite il Maggi con un nome di copertura, Otto, il chegli fece intendere che Digilio “era un quadro coperto di cui era necessarioproteggere l’identità”. Ulteriore conferma di quel ruolo era provenuta daAngelo Izzo il quale aveva dichiarato al G.I. il 31.1.94 che da FrancoFreda, nel carcere di Trani, aveva appreso che il fornitore degli esplosiviutilizzati anche nella strage di piazza Fontana a Milano e negli attentatiprecedenti era un personaggio del veneto soprannominato Zio Otto. IlDigilio finirà per annettere che proprio quello era il suo nome dicopertura. Il tutto, secondo i primi giudici, sta a dimostrare l’assuntorelativo al ruolo fondamentale che Carlo Digilio ricopriva nella cellulaclandestina ed eversiva che faceva capo a Maggi; in conclusione, ilpunto di osservazione della operatività di quel gruppo era davveroprivilegiato sicché, anche sotto tale profilo, l’attendibilità del collaboratoredi giustizia è considerata elevatissima dal punto di vista intrinseco egenerale.

Attendibilità non posta in dubbio dalle condizioni fisiche del Digilio,colpito da ictus il 10 maggio ’95 quando la collaborazione con L’A.G. erain corso da un considerevole lasso di tempo. Ciò sulla scorta della periziacollegiale disposta dalla Corte, all’esito della quale si osserva che èpacifica la capacità del Digilio di stare in giudizio e di difendersiadeguatamente dalle accuse, in specie nel corso del lungo interrogatorioin cui ha dimostrato di essere in ogni momento all’altezza dellasituazione e di essere in grado di utilizzare al meglio quello strumentoprocessuale (cosa che, per inciso, non aveva fatto il Maggi il quale si eraavvalso della facoltà di non rispondere). In conclusione, non solo Digilioaveva sempre risposto a tono, apparendo in grado di collocare senzafatica nel tempo e nello spazio fatti e circostanze, persone e relazioni trapersone, ma anche di fornire adeguate risposte sui temi sui quali erastato sollecitato, in particolare sul suo specifico ruolo nella cellulaeversiva di O.N. Per tali ragioni i giudici di primo grado hanno ritenutoche il giudizio finale sull’attendibilità intrinseca e su quella generale delcollaboratore non può che essere positivo.

Altrettanto si afferma quanto all’attendibilità estrinseca del Digilio inrelazione al fatto per cui si procede, cioè la strage del 17 maggio 1973.

Quale primo e fondamentale elemento di riscontro al racconto di CarloDigilio è indicata l’individuazione da parte sua della casa di MarcelloSoffiati, in via Stella a Verona, abitazione adibita a luogo di riparo degliordinovisti e di latitanti. Digilio aveva frequentato quella casa fin daglianni ’60 stante la stretta amicizia con il Soffiati, sicché la conoscenza diquell’appartamento era da considerarsi scarsamente rilevante; senonchéin quella casa, secondo le indicazioni del collaboratore di giustizia, ametà degli anni ’60 (nel 1972 secondo l’interessato) era stato ospitato, o

meglio sequestrato, per circa un mese l’avv. Forziati. Si temeva chequesti potesse riferire all’autorità giudiziaria quanto sapeva circa gliattentati alla scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine a Gorizia,sicché il Maggi lo aveva fatto prelevare e condurre dapprima a VeneziaLido nella casa di Giangastone Romani, quindi a Colognola ai Colli dalSoffiati e poi nell’abitazione di quest’ultimo in via Stella, dove il Forziatiera stato sorvegliato dal Neami e dove pure era inviato il Digilio perchétenesse sotto controllo la situazione e tranquillizzasse la persona ivitrattenuta. Il Forziati aveva confermato l’episodio ricordando la saltuariapresenza nell’abitazione di via Stella di una persona che riconosceva nelDigilio in una fotografia che lo ritraeve tra i presenti al matrimonio diMarcello Soffiati.

Quanto al Neami, il Forziati aveva riferito che questi partecipava allamanifestazioni del M.S.I. fin dal 1969; a Trieste erano noti i contatti cheNeami aveva con Maggi, ispettore del Triveneto, e con altri elementiveneti e friulani di Ordine Nuovo; lo stesso Neami spesso si recava aVenezia dal Maggi, mentre per i contatti friulani il suo referente era ilVinciguerra. Secondo il Forziati, Neami sapeva dell’esistenzadell’appartamento veronese di via Stella; glielo aveva descritto come“sepolcrale” e, quando vi era stato trasferito, si era reso conto che ilNeami effettivamente lo conosceva.

Nel complesso delle dichiarazioni rese dal Forziati, i primi giudici, oltreagli specifici riferimenti a Carlo Digilio e al Neami, individuano in via disintesi e seguenti punti di rilievo: il Forziati ha fornito ulteriore riprovadella tesi, condivisa dalla Corte d’assise, dell’esistenza di due celluleordinoviste, in ciascuna sede del gruppo; Forziati faceva senz’altro partesoltanto della struttura politica: frequentava le manifestazioni pubblicheincontrando e conoscendo Maggi, Zorzi e Soffiati, il cui impegnoordinovista prevedeva anche l’operatività eversiva, il che vale anche peril Neami il quale non solo faceva il basista per la cellula eversiva diVenezia Mestre in occasione degli attentati dinamitardi compiuti da Zorzi,Siciliano e Vinello, su ordine e con l’auto del Maggi, ma intervenivaattivamente nell’operazione si contenimento dello stesso Forziati.Risultano confermati i contatti fra la cellula eversiva di Venezia Mestre equella di Troieste: Neami prendeva parte attiva in una operazione ditutela della posizione dei mestrini implicati nell’attentato alla ScuolaSlovena e conosceva perfettamente la casa di via Stella ancor prima direcarvisi con Forziati; il che qualifica quei contatti fra i due gruppi deiquali era a conoscenza lo stesso testimone. La casa di via Stella, aVerona, era un covo-rifugio della cellula eversiva ordinovista del Venetoe, al riguardo, è di rilievo il riferimento del Forziati alle finestre oscurate.Infine risultava dimostrato che la solidarietà umana ed eversiva traMaggi, Soffiati e Digilio era intensissima.

Si annota infine che il Neami non ha potuto far a meno di confermare diaver preso parte alla vicenda Forziati e, in particolare, di aver visto in viaStella una persona taciturna che aveva poi saputo essere Carlo Digilioma che, nell’occasione, non gli era stato presentato.

La vicenda dell’avv. Forziati nonché l’episodio di cui ha riferito al G.I.Martino Siciliano, circa la partecipazione del Neami a un pestaggio dielementi di estrema sinistra avvenuto a Trieste in epoca imprecisata masuccessiva alla strage di piazza Fontana, sta a dimostrare che nelperiodo tra il dicembre 1969 (tempo della confluenza nel M.S.I.) e ilmaggio 1973 nulla era mutato e Neami aveva continuato a svolgere ilruolo che ricopriva all’interno della cellula clandestina: partecipava apestaggi, ad attentati dinamitardi e ad azioni di forza nei confronti di chipoteva rappresentare un pericolo per il gruppo.

E’ per tanto ritenuto provato che Neami, nel marzo 1972, avevapartecipato a un’operazione della cellula clandestina di O.N. di VeneziaMestre nel covo di via Stella; che già prima di quella data egli era giàstato in quell’abitazione, da lui stesso definita sepolcrale; che, perl’operazione Bertoli, il Maggi non poteva più valesi degli appartenenti allacellula di Mestre, essendo la stessa in gran parte smantellata a causadell’abbandono da parte di molti giovani come Vinello e dell’emigrazionedello Zorzi in Giappone; che il compito di vincere le ultime resistenze delBertoli e di condizionarlo in vista dell’attentato doveva essere affidato apersona, come il Neami, decisa e abituata all’occorrenza all’uso dimaniere forti; che, infine, Neami intratteneva un ottimo rapportopersonale con Carlo Maria Maggi, la casa del quale frequentavaabitualmente, e che considerava il proprio referente politico. Tuttielementi di prova logica, osservano i primi giudici, che riscontrano leaccuse del Digilio a carico del Neami.

Quanto affermato da Carlo Digilio circa il periodo di sua permanenzanell’abitazione del Soffiati in via Stella, presenti il Bertoli e il Neami, nonsarebbe stato smentito dalla testimonianza resa da Anna Bessan al G.I.(considerata reticente e volutamente favorevole agli imputati quelladibattimentale); costei aveva affermato di aver convissuto per alcuni mesicon Marcello Soffiati prima del matrimonio, periodo in cui si assentavaper lavoro anche per settimane intere; dall’aprile ’73, cioè dopo ilmatrimonio, aveva lasciato il lavoro ed era rimasta continuativamente invia Stella. Si osserva che, allora, la teste abitava nell’appartamento di viaStella anche nel dicembre ’74 quando il marito fu arrestato perchétrovato in possesso di un vero e proprio arsenale di armi, munizioni edesplosivi. Ma la donna aveva sostenuto di non aver visto arminell’abitazione (per altro molto piccola, formata da un ingresso e duestanze); aveva comunque ricordato che esisteva un vano molto profondonel corridoio munito di mensole installate dal Soffiati; non aveva vistoarmi ma, se vi fossero state, avrebbe anche potuto non accorgersene.

Le dichiarazioni mendaci della Bassan sono considerate riscontro alledichiarazioni del Digilio così come pure la presenza in via Stella dibombe a mano sequestrate molti mesi dopo la strage di Milano.

Altri riscontri sono stati individuati nelle dichiarazioni di Dario Persic ilquale aveva visto alcune armi nella casa di via Stella, collocate sulpavimento sotto le mensole del ripostiglio ricavato nel corridoio. Lostesso Persic ha riferito che, dopo l’episodio dell’avv. Forziati, era stata

ospitata un’altra persona nell’appartamento di via Stella; collocava taleseconda presenza in data precedente al matrimonio di Marcello Soffiati,avvenuto il 28 aprile 1973. Nulla sapeva di tale persona, salvo il fatto chesi era trattenuta per qualche tempo e poi se ne era andata, poiché alriguardo – diversamente dalla vicenda Forziati – vi era stata moltariservatezza. Tuttavia aveva avuto modo di sentire Bruno Soffiatirimproverare il figlio proprio perché teneva quella persona in casaavvertendolo che ciò era pericoloso.

Dunque, questa è la deduzione dei primi giudici, è provato che Persicseppe, esattamente nel periodo indicato da Digilio, di un secondopersonaggio, molto più misterioso del primo, ospitato in via Stella controil parere del padre di Marcello Soffiati che premeva perché il figlio siliberasse di tanto scomoda e pericolosa presenza.

La motivazione della sentenza impugnata volge al termine ribadendo lamatrice eversiva di destra della strage alla Questura di Milano, unamatrice in evidente contrasto con la versione sostenuta per anni daGianfranco Bertoli di aver agito da solo e come anarchico individualista.Si ritiene, invece, quell’attentato certamente collocato nella strategiadella tensione, cioè in quella strategia diretta a creare uno stato diemergenza nella prospettiva, con l’attribuzione della responsabilità allasinistra, di un’evoluzione autoritaria della situazione politica. Tanto che, siosserva, anche in questo caso era scattata l’azione di copertura perattribuire una etichetta anarchica all’attentato coprendo i contatti delBertoli con l’estremismo di destra. Quei contatti sono risultati provati e, inproposito, i giudici di prima istanza richiamano numerose dichiarazioni etestimonianze (Pietro Battiston, Martino Siciliano, Carlo Rebosio, AngeloIzzo) dalle quali, appunto, risulta che il Bertoli negli ambientidell’eversione di destra era considerato un camerata, un buon cameratache anche in carcere era in rapporti di amicizia e confidenza con FrancoFreda.

Un altro punto delle dichiarazioni di Carlo Digilio, quello secondo cuiBertoli negli ultimi tempi poteva liberamente andare e venire da Israele,ha trovato puntuale riscontro nella concorde testimonianza dei fratelliGiorgio e Tommaso Sorteni i quali (il primo, in seguito deceduto, al G.I., ilsecondo in fase dibattimentale) hanno riferito del loro incontro conBertoli a Venezia nella primavera 1972. Dette testimonianze sono stateritenute pienamente attendibili in considerazione che le stesse facevanoriferimento a rapporti con persona conosciuta da antica data, indicavanotutti gli elementi necessaria per valutare tale risalente conoscenza,unitamente a circostanze contingenti relative al singolo episodio e leragioni per le quali nella memoria era rimasta impressa la circostanzaessenziale riferita ai giudici. Quelle testimonianze sono ritenute dai primigiudici più che sufficienti a smentire l’affermazione del Bertoli di non averlasciato il kibbutz di Karmia., se non nel maggio 1973, per circa due anni,una permanenza comunque smentita anche da altre fonti, quali ledichiarazioni del Mariga, e in particolare l’accertata presenza del Bertoli

nell’Hotel du Rhone a Marsiglia tra il 10 e il 20 novembre 1971, comeriferito da un rapporto ufficiale dell’Ufficio UCLAT del ministerodell’interno francese.

Si richiama infine l’episodio della cena, a poche ore di distanza dallastrage, cui parteciparono Digilio, Maggi e Boffelli: come riferito dal primo,il Maggi se la prendeva con Boffelli che gli aveva proposto il Bertoli perl’esecuzione dell’attentato. Boffelli aveva risposto “tutti possonosbagliare” (lo stesso, con le dichiarazioni dibattimentali, tenterà ancora einutilmente di attribuire un diverso significato a quella frase: si riferiva allosbaglio non nel lancio della bomba ma nell’aver compiuto quell’azionedelittuosa).

Secondo l’atto di appello, il Boffelli non aveva mai ricoperto alcun ruolo

nell’ambito di Ordine Nuovo ed era priva di fondamento la notizia che i

suoi viaggi in Germania erano finalizzati a mantenere i contatti con

estremisti di destra di quel Paese, dato che Boffelli all’epoca si recava in

Germania avendo una relazione con una cittadina tedesca. Si contesta

l’ipotesi di accusa secondo cui Bertoli, stante i suoi collegamenti con i

Servizi Segreti, si sarebbe allontanato quando voleva da Israele. In

proposito non sarebbero credibili le testimonianze dei fratelli Sorteni né,

tanto meno, l’informativa UCLAT relativa alla presenza di Bertoli a

Marsiglia nel novembre 1971, smentita dalle indagini disposte al

riguardo. Del resto, l’ininterrotta presenza di Bertoli nel Kibbutz era stata

confermata da tutti i testimoni israeliani. Quanto affermato dalla teste

Bassa, di vivere all’epoca nella casa del Soffiati in via Stella e di farvi

rientro dai suoi viaggi di lavoro ogni fine settimana, ha smentito il

racconto del Digilio circa la presenza del Bertoli e del Neami

nell’abitazione. Il Digilio, inoltre, aveva mutato versione circa il ruolo del

Boffelli, prima affermando che questi si era recato in via Stella una sola

volta e in compagnia del Maggi, poi sostenendo che Boffelli si era

sostituito al Neami nella vigilanza di Gianfranco Bertoli. Non rispondeva a

verità, né alcuna prova esiste in proposito, che Bertoli tra la fine del 1972

e l’inizio del ’73 vivesse abitualmente nella zona di Mestre. Illogico,

infine, che Bertoli sia stato tenuto segregato in via Stella due mesi prima

dell’attentato e poi sia stato lasciato libero di tornare in Israele.

Il processo e la sentenza in grado di appello

Il processo in grado di appello iniziava nell’udienza del 15 maggio 2002,in presenza degli imputati Maggi e Boffelli, contumace il Neami, e siconcludeva in quella del 27 settembre 2002 con l’assoluzione piena deitre imputati, come già si è detto.

Giorgio Boffelli, confermando le dichiarazioni rese nella fase istruttoria edibattimentale di primo grado, ribadiva la propria completa estraneità allastrage. Dichiarava di aver conosciuto Gianfranco Bertoli all’inizio deglianni cinquanta perché entrambi vivevano nello stesso quartiere aVenezia, ma non erano mai stati amici essendo di opinioni politichediametralmente opposte; di essersi arruolato nella Legione Straniera dal’59 al ’62, di essere rientrato in Italia per qualche anno ma di esseretornato in Africa dove aveva fatto il mercenario nel Congo dal ’66 al ’67.Tornato a Venezia, aveva lavorato come marinaio per vent’anni finchénon era andato in pensione. Verso la fine degli anni sessanta, a Venezia,aveva rivisto il Bertoli apprendendo che lo stesso era diventatoanarchico. Quando allo Scalinetto Giuseppina Gobbi gli aveva mostratola foto del Bertoli sul giornale che riportava la notizia della strage allaQuestura di Milano, si era limitato a commentare che Bertoli avevasbagliato. Che Bertoli conoscesse l’ebraico l’aveva appreso da notiziariportata da giornali, in specie dal “Giornale” di Montanelli. Con il Maggiaveva instaurato rapporti di frequentazione e amicizia alla fine degli annisessanta, era diventato suo paziente, a volte lo aveva accompagnato manon gli aveva fatto da vero e proprio guardaspalle. Pur essendosimpatizzante della destra, non aveva mai fatto politica attiva. Non avevamai conosciuto il Neami mentre aveva conosciuto il Digilio, che potevadefinirsi amico del Maggi, nonché Marcello Soffiati nella casa del quale,in via Stella, era stato una volta passando per Verona diretto inGermania.

Carlo Maria Maggi, sentito nell’udienza del 30 maggio 2002, dichiarava:di non aver mai visto e conosciuto Gianfranco Bertoli, così come, primadel processo, non aveva mai sentito parlare di Remo Orlandini; di averconosciuto Amos Spiazzi solo nel 1978, tramite Marcello Soffiati nellatrattoria di questi in Colognola ai Colli, mentre conosceva il Soffiati fin dal1962; di avere esercitato la propria professione di medico in un ospedalegeriatrico di Venezia dal 1966 (in precedenza aveva lavorato in unospedale psichiatrico); di aver aderito a Ordine Nuovo fin dall’inizio e diessere stato nominato ispettore nel 1959, anno in cui aveva conosciutoCarlo Digilio come aderente a quel movimento; di aver rivisto il Digilio nel1965 e di avere appreso dallo stesso che non intendeva più dedicarsi ad

attività politiche; di aver frequentato lo stesso Digilio negli anni settantacon una certa assiduità, ospitandolo, con il Soffiati e altri, per partite apoker; di aver conosciuto Vincenzo Vinciguerra prima del 1969essendosi recato qualche volta in Friuli come ispettore di O.N.; di nonsapersi spiegare il perché delle accuse, del tutto inventate, formulatecontro di lui dal Vinciguerra; di non aver mai avuto ragioni di astio control’On. Rumor; di essere rientrato nel MSI nel 1969 e di non aver mai avutorapporti con il gruppo ordinovista che non aveva voluto rientrare nelpartito; di aver conosciuto Gabriele Forziati nei primi mesi del 1972quando Giangastone Romani, responsabile organizzativo del CentroOrdine Nuovo di Trieste, temendo come imminente l’emissione di unmandato di cattura contro il Forziati gli aveva chiesto di ospitarlo ed egliaveva girato la richiesta al Soffiati il quale aveva dato ospitalità al Forziatiin via Stella a Verona; di essersi recato in quell’abitazione per fornireassistenza medica al Forziati e di avervi incontrato il Neami, amico delForziati, anch’egli già aderente a Ordine Nuovo ma rientrato nel MSI nel1969; di ricordare che nel 1982 Digilio sembrava coinvolto in una vicendadi armi non consegnate e di denaro trattenuto che aveva suscitatoinquietudine nello stesso Digilio; questi ggli aveva chiesto di far si che ilsoffiati lo ospitasse per qualche tempo, il che era avvenuto per alcunimesi; infine di non essere mai stato informato delle attività del Digilio inmateria di recupero di esplosivi da residuati bellici.

La Corte d’assise di Appello, con ordinanza in data 30 maggio 2002,respinte alcune eccezioni di nullità e di illegittimità costituzionaleproposte dai difensori, disponeva la parziale rinnovazione deldibattimento per acquisire documentazione e per l’assunzione in qualitàdi testimone del generale Nicolò Pollari, direttore del SISMI, per ottenerechiarimenti in ordine all’effettivo periodo di collaborazione di GianfrancoBertoli con il SIFAR.

La motivazione della sentenza emessa in esito al giudizio di appello, dipoi annullata dalla Corte di Cassazione, premette che il vero nodo darisolvere è se Bertoli agì da solo, come sempre dallo stesso sostenuto,ovvero se egli - collegato ai Servizi Segreti che lo avrebbero aiutato,prima ad espatriare nel gennaio/febbraio 1971, poi a tornare in Italia, viaMarsiglia, nel periodo in cui ufficialmente risultava ospite di un kibbutzisraeliano – sia stato manovrato da esponenti di Ordine Nuovo perindurlo a compiere un attentato contro l’allora ministro degli interni On.Mariano Rumor.

Richiamate le ragioni che avevano indotto il G.I., così come i primigiudici, a ritenere non veritiera la versione fornita da Gianfranco Bertoli siosserva che, trascurata un’approfondita disamina della sua versione edella sua personalità, il convincimento che il Bertoli non avesse agito dasolo e di propria esclusiva iniziativa si fondava da un lato sulla suacollaborazione con il SIFAR tra il 1954 e il 1959 e successivamente con ilSID dal 1966 fino al 1971, dall’altro sul fatto che la strage del 17 maggio

’73 era stata preannunciata da due fonti autonome rispettivamente alcunimesi e due giorni prima della sua esecuzione.

Su tali punti l’anticipata conclusione dei giudici di appello è drastica:“anche attraverso gli elementi acquisiti nel corso della rinnovazioneparziale del dibattimento nel giudizio di appello, si deve ritenereincontestabilmente accertato, in primo luogo, che la strage compiuta dalBertoli non è stata in alcun modo preannunciata da Pietro Loredan e daRemo Orlandini e, in secondo luogo, che Bertoli, dopo il 1960, non haavuto alcun contatto con Servizi Segreti italiani o stranieri”.

Sgombrato il campo da quelli che sono definiti “equivoci” in cuisarebbero incorsi sia il G.I. che i giudici di primo grado, e riaffermato cheil tema decidendi riguarda innanzitutto la riconducibilità dell’attentato alsolo Bertoli, quale atto di protesta e vendetta verso chi era ritenutoresponsabile della morte dell’anarchico Pinelli, previo un attento esamesia della sua versione dei fatti che della sua personalità, si osserva che ilG.I., in vent’anni di indagini - tramite le dichiarazioni di RobertoCavallaro, di Vincenzo Vinciguerra e di Angelo Izzo (oltre che con icolloqui registrati dal capitano Antonio Labruna) - era pervenutoall’individuazione di presunti complici del Bertoli (Spiazzi, Rizzato, DeMarchi, Lercari, Rampazzo, Camillo Virginio, Maggi, Zorzi, RemoOrlandini, Dantini e Bovolato), ma che la svolta decisiva all’istruttoria erastata impressa dalle dichiarazioni di Carlo Digilio che avevano consentitodi focalizzare il ruolo avuto nella strage da Maggi, Neami, Boffelli e dallostesso Digilio.

Secondo i giudici di appello il punto centrale delle dichiarazioni di CarloDigilio, vale a dire la permanenza del Bertoli nell’appartamento di viaStella a Verona nel marzo 1973, prescindendo dalla valutazionedell’intrinseca attendibilità del Digilio, deve ritenersi senz’altro smentitodalle affermazioni di testimoni israeliani relative all’ininterrotta presenzadel Bertoli nel kibbutz di Karmia dal febbraio 1971 al maggio 1973, oltreche dalla corretta valutazione del rapporto di Polizia che indicava lapresenza del Bertoli nell’Hotel du Rhone a Marsiglia dal 10 al 20novembre 1971.

L’esame del vasto materiale probatorio inizia con la ricostruzione dellacosì detta vicenda Loredan. A quell’episodio, ricostruito come giàripetutamente si è detto, i giudici di appello hanno ritenuto di non poteree dover attribuire il significato di annuncio dell’attentato che si stavapreparando e che doveva essere eseguito a Milano in danno di unimportante esponente del Governo. Sull’episodio di che trattasi, persondarne significato e rilevanza, si è fatto riferimento alle dichiarazionidibattimentali dell’On. Ceravolo (u. 24.11.99) secondo il quale il DallaCosta, che era andato a trovarlo a Venezia, gli aveva riferito chesecondo una “soffiata” di Pietro Loredan “qualcosa stava maturando,qualche attentato, qualcosa del genere, che circolava la voce chequalcosa bolliva in pentola”; il Ceravolo aveva telefonato a Roma e gliavevano detto che il giorno dopo avrebbe potuto incontrarsi a Milano con

gli On.li Malagugini e Pajetta, così come in effetti avvenuto. Dal tenore ditali dichiarazioni si è dedotto che le informazioni fornite da Loredan alDalla Costa e da questi al Ceravolo erano assai vaghe e poco attendibili.

Quel minimo residuo di attendibilità era venuto definitivamente amancare una volta individuata la fonte delle informazioni di PietroLoredan: sulla scorta di quanto dichiarato dal teste Giuseppe Universo edalla lettura degli atti del processo per diffamazione intentato dalgiornalista dell’ANSA Sergio D’Asnasch nei confronti di Sergio Saviane edi Livio Zanetti, si riteneva accertato che nel 1973 (esattamente il 15maggio ’73, come sicuramente desumibile dall’articolo del Savianepubblicato sul settimanale l’Espresso del 12 agosto ’73) nel corso di unacena cui avevano partecipato anche Universo e Loredan, il D’Asnaschaveva parlato, ma in modo del tutto generico, di fatti gravi che si stavanopreparando a Milano. Evidentemente, secondo i giudici di secondogrado, Pietro Loredan, aveva dato credito a quei discorsi e aveva decisodi metterne al corrente Ivo Dalla Costa. Conferma di tutto ciò è tratta daquanto dichiarato dallo stesso Loredan in quel processo per diffamazionee cioè che D’Asnasch aveva fatto generico riferimento alla situazione ditensione esistente a Milano in quel periodo, sicché aveva pensato che ilgiornalista fosse stato anticipatamente informato di ciò che stava peraccadere.

La conclusione dei giudici di appello e, per tanto, la seguente: “non èimportante sapere che Saviane e Zanetti furono condannati dal Tribunaledi Milano. E’ invece molto importante aver accertato che Pietro Loredanha appreso, il 15 maggio 1973, dal giornalista Sergio D’Asnasch lanotizia generica di gravi fatti che stavano per accadere in Milano, che lostesso Loredan, ritenendo che D’Asnasch fosse in possesso di notizieriservate in quanto agente della CIA, aveva avvertito Ivo Dalla Costa; chequesti, a sua volta, aveva ritenuto di informare prima Ceravolo e poi altiesponenti del Partito Comunista Italiano (Pajetta e Malagugini); checostoro, sia per la genericità della notizia sia per la poca affidabilità dellafonte, non avevano ritenuto di dover allertare né i locali dirigenti delPartito né il capo gabinetto del Questore”. Si ritiene infine che Ivo DallaCosta, con il passare degli anni, aveva sicuramente rielaborato l’episodioe probabilmente in buona fede aveva riferito al G.I. che Pietro Loredan gliaveva parlato di un attentato entro quarantotto ore contro un’altapersonalità del Governo. Pietro Loredan, invece, gli aveva comunicatouna notizia molto più generica, appresa dal D’Asnasch. Di conseguenzacade completamente l’assunto del primo giudice che la strage compiutada Gianfranco Bertoli fosse stata preannunciata da Pietro Loredan a Ivodalla Costa.

La motivazione della sentenza di appello prosegue con la disamina

della vicenda relativa ai colloqui avvenuti tra il capitano Antonio Labrunae Remo Orlandini, in almeno uno dei quali l’Orlandini avrebbe annunciatocome imminente un attentato contro l’On. Rumor.

Assumendo che il nastro su cui era stato registrato quel colloquio erasparito, si osserva che mentre il G.I. ne aveva attribuito la responsabilità,più che al Labruna, ai suoi diretti superiori (colonnello Romagnoli egenrale Maletti), i giudici di primo grado erano pervenuti alla conclusioneche Antonio La bruna, il quale evidentemente fruiva della piena fiduciadell’Orlandini, aveva occultato il nastro o i nastri relativi ai colloqui neiquali si parlava dell’attentato all’On. Rumor omettendo di attivarsi perprevenirlo, come i doveri del suo ufficio gli imponevano.

Per far luce sulla vicenda, i giudici di secondo grado - ricostruite lecomplesse modalità con cui nastri e trascrizioni erano pervenuti nelladisponibilità del Giudice Istruttore (in parte da altre autorità giudiziarieinquirenti, successivamente per il tramite del giornalista NorbertoValentini, infine ad opera dello stesso Labruna) – hanno esaminato tempie contenuti dei colloqui con l’Orlandini, registrati a sua insaputa dalLabruna, e le relative trascrizioni; hanno quindi rilevato che il G.I. avevapiù volte sentito come testimoni i sottufficiali del NOD che avevanoeseguito le trascrizioni di quei nastri (Mar.lli Mario Esposito, NicolaGiuliani, Giuseppe Pasin, Paolo Di Gregorio, quest’ultimo risultato averpreso servizio al NOD dal 15 ottobre 1973 e quindi ben cinque mesi dopola strage compiuta dal Bertoli), ricevendo solo dal Di Gregorio e dalGiuliani vaghe indicazioni circa un colloquio Orlandini/Labruna in cui ilprimo parlava di attentati, in particolare contro uomini politici ed avevafatto espressamente il nome del ministro Rumor.

Antonio Labruna, sentito più volte, non aveva escluso l’esistenza di altrinastri registrati oltre a quelli da lui consegnati (trattenuti per premunirsi, asuo dire, da possibili scarichi di responsabilità da parte dei superiori) edaveva ammesso che sia il Di Gregorio sia il Giuliani erano personedegnissime e sicuramente avevano riferito il vero.

Tutto ciò premesso La Corte d’assise di Appello perviene alla seguenteconclusione: “non vi è mai stato un nastro contenente riferimenti, daparte di Remo Orlandini a un attentato contro Rumor, e quindi non èvero, come ha ritenuto il primo giudice, che l’azione compiuta da Bertolifosse stata preannunciata”. Il che è derivato dal fatto che l’esistenza diquel nastro era stata derivata dallo spontaneo ricordo del marescialloPaolo Di Gregorio il quale, però, proprio perché entrato in servizio alNOD nell’ottobre ’73, non poteva fare riferimento a all’attentatocommesso dal Bertoli nel maggio di quell’anno. Si spiega l’inesattoricordo del Di Gregorio con la possibilità che questi avesse avuto inmente il colloquio Labruna/Lercari. Dal canto suo il maresciallo Giuliani,trovatosi in grave difficoltà di fronte alla contestazione di quantodichiarato dal suo collega, temendo di essere incriminato, abbia preferitocompiacere il G.I. ammettendo che l’Orlandini, in uno dei colloquiregistrati, aveva parlato dell’attentato contro l’On. Rumor. E’ considerato,inoltre, del tutto illogico, oltre che inverosimile, che il Labruna si fossedistratto proprio nel mentre l’Orlandini lo informava di un progetto tantograve, ovvero che lo stesso Labruna – ammesso e non concesso fosse

favorevole ai disegni eversivi dell’Orlandini – avesse poi affidato queinastri, per la trascrizione, a dei subalterni i quali si sarebbero potutiattivare per scongiurare l’attentato e, comunque, sarebbero statipericolosissimi testimoni dei preparativi dello stesso.

Scarsa rilevanza è attribuita alla frase pronunciata da Remo Orlandininel colloquio del 6 aprile ’73 (“maggio non passerà, può darsi ancheaprile”) essendo certamente riferita a un possibile colpo di Stato. Infine,quanto al colloquio registrato avvenuto in Lugano il 29 marzo 1974 traAntonio Labruna e il Lercari, il riferimento all’atteso attentato all’On.Rumor, che poi non si era verificato non riguardava l’azione diGianfranco Bertoli bensì altro attentato promesso e, come altri, noneseguito.

Nella motivazione della sentenza annullata un capitolo è dedicato arisolvere, una volta per tutte secondo i giudici di appello, la questione seil Bertoli fu a libro paga del SIFAR, come informatore infiltrato negliambienti del P.C.I., solo dal 1954 al 1960 come affermato dall’ammiraglioCasardi, sentito sul punto a seguito delle dichiarazioni dibattimentali reseda Giorgio Sorteni il 25 febbraio 1975, ovvero fu riassunto in quel ruolonel 1966 fino alla cessazione, avvenuta nel 1971, così come chiarito econfermato dalle deposizioni del colonnello Viezzer e del generaleCogliandro. Sulla scorta della testimonianza del generale Pollari, sentitonella fase di appello, e mediante il raffronto con un fascicolo del SIDrelativo ad altro informatore, si è stabilito che sia il Viezzer che ilCogliandro erano incorsi in errore atteso che la scritta “1966” sullacopertina del fascicolo dell’informatore “Negro” (nome di copertura diGianfranco Bertoli) non stava a significare la riassunzione in serviziodell’informatore a far tempo da quella data (e fino al 1971, quandoViezzer, di sua pugno, aveva apposto la dicitura “cessato”) bensìindicava la data in cui la segreteria aveva raccolto la documentazionerelativa al Bertoli, i cui rapporti con il SIFAR erano, appunto, cessati nel1960.

Escluso quindi che all’epoca della strage, o negli anni di pocoprecedenti, il Bertoli fosse ancora un informatore, si deduce chel’espatrio dello stesso non fu in alcun modo favorito dai Sevizi Segreti, néitaliani né stranieri, mentre è certo che - a tal fine - appoggio e assistenzafurono forniti da appartenenti al gruppo anarchico Ponte della Ghisolfa,pur ammettendo che di quell’espatrio i Servizi furono in qualche modo aconoscenza per il tramite dell’informatore Enrico Rovelli (quello che,infiltrato nel circolo anarchico, aveva fornito al commissario Calabresi lafoto – identica a quella poi servita per formare il passaporto falso delBertoli – con l’informazione che si stava aiutando a espatriare unanarchico colpito da mandato di cattura) oltre che per il tramite diRolando Bevilacqua (in contatto con il Mossad e con il colonnello deicarabinieri Renzo Monico) che aveva dato ospitalità al Bertoli(presentatogli come Massimo Magri) a Tresivio, in provincia di Sondrio,

in vista dell’espatrio prima in Svizzera e di qui a Marsiglia e infine inIsraele.

Per l’espatrio Gianfranco Bertoli non aveva fruito di alcuna “corsiapreferenziale” tant’è vero che egli risulta essere stato controllato dallaPolizia di Marsiglia, nei pressi della stazione ferroviaria, l’8 gennaio 1971e che il suo ingresso nel kibbutz di Karmia, dove si trattenneininterrottamente per circa due anni e fino all’8 maggio ’73, non fu pernulla facilitato ma avvenne secondo le regole vigenti all’epoca comeriferito dai testimoni israeliani Farhi Michel, delegato della Agence Juivedi Marsiglia, e Grubstajn Haim, delegato europeo della Hachomer Hatzairdi Parigi.

A questo punto i giudici di secondo grado procedono a una meticolosadisamina della versione resa dal Bertoli al G.I. in numerosi interrogatori edi poi in fase dibattimentale alla Corte d’assise, considerato che l’accusanei confronti di Maggi, Neami e Boffelli, proveniente dalle dichiarazioni diCarlo Digilio, ha i suoi presupposti necessari nel fatto che GianfrancoBertoli, sostenendo di aver agito da solo, avrebbe mentito, che lo stessosi trovasse in Italia nel 1973 e che l’attentato fosse diretto contro ilMinistro degli Interni On. Rumor.

In sintesi, nel corso di detti interrogatori, Bertoli aveva dichiarato: diessere un anarchico e, come tale, di non riconoscere alcuna autorità; diaver commesso il fatto per vendicare l’anarchico Pinelli che, secondoquanto appreso mentre si trovava nel kibbutz, sarebbe stato gettato dallafinestra dal commissario Luigi Calabresi; di essere arrivato a Milano ilgiorno 16 maggio intorno alle ore 16 prendendo alloggio in una pensionedi via Vitruvio; che il passaporto falso gli era stato a suo tempo fornito dadei “capelloni hippy; di aver girato per Milano nel pomeriggio del 16 e diessere rientrato alla Pensione verso mezzanotte; che il giorno 17 maggioera uscito intorno alle 8 con la bomba in tasca, aveva acquistato ilCorriere della Sera apprendendo così della manifestazione in Questura,in programma quella stessa mattina, per la commemorazione delCommissario Calabresi; verso le 9,30/9,45, giunto alla Questura, doveintendeva lanciare la bomba contro il busto che riproduceva ilcommissario ucciso, era stato fermato da alcuni agenti; di essersi allorarecato in un vicino bar dove aveva bevuto un brandy; di essere poitornato davanti alla Questura e, visti uscire dei militari e avuta confermada due poliziotti che si trattava della commemorazione del Calabresi,aveva lanciato la bomba; di essersi procurato l’ordigno nel kibbutzintendendo servirsene nel caso fossero andati ad arrestarlo, ma anche diaver avuto in animo, in un primo momento, di farne uso per un attentatoa Pisa nell’anniversario della morte di Franco Serantini (7 maggio 1972),poi in occasione della commemorazione del commissario Calabresi; diessere partito in nave dal porto di Haifa l’8 maggio proponendosi dicompiere l’attentato il giorno 17 a Milano ritenendo che sicuramente visarebbe stata una cerimonia per il primo anniversario della morte di LuigiCalabresi; di non essere sbarcato a Genova temendo che da un controllo

risultasse che disponeva di un passaporto falso; di avere eluso controlli eperquisizioni trasferendo, secondo necessità, la bomba dalla borsa allatasca; di aver compiuto l’attentato contro le Autorità presenti purammettendo che, se fosse riuscito a entrare nel cortile della Questura,suo intento sarebbe stato quello di eliminare il ministro insieme alle altreautorità; di essere espatriato dall’Italia raggiungendo Israele passandoper la Svizzera e per Marsiglia ma di non essere stato aiutato daelementi anarchici; che, nel lungo periodo di permanenza nel kibbutz,non aveva mantenuto contatti con persone in Italia; che non aveva alcunappuntamento in Francia per il 15 maggio ’73, attribuendo l’affermazionedello Shusterman in tal senso a pura fantasia. In fase dibattimentaleBertoli aveva confermato quanto sopra dichiarando poi testualmente: “iovolevo compiere un gesto contro le Autorità e, in particolare, quando hosaputo della presenza di Rumor, avrei preferito eliminare lui. Anche senon ci fosse stato Rumor, io la bomba l’avrei lanciata lo stesso, e meglioancora se ci fosse stato il Capo dello Stato o il Papa, insomma qualsiasiautorità”.

Ai fini della verifica di attendibilità della versione sempre fornita daGianfranco Bertoli su motivazioni e modalità dell’attentato, nellamotivazione della sentenza di appello ci si sofferma, prima ancora chesui riscontri individuati a conferma di tale versione, sulla personalità dellostesso Bertoli, sondata attraverso le sue stesse dichiarazioni, la periziapsichiatrica cui fu sottoposto, le annotazioni sul diario da lui redatto incarcere nel 1968. Il che consentiva alla Corte di secondo grado diritenere per certo non solo che Bertoli era in effetti un anarchico,insofferente di leggi e autorità, ma che lo stesso, ben prima della strage,aveva in animo di commettere un gesto eclatante.

La versione sempre sostenuta da Gianfranco Bertoli, cioè di avere dasolo e quindi non per conto di altri e senza l’appoggio dei servizi segreti èstata ritenuta veritiera anche perché confermata dai seguenti elementi diprova: 1) la bomba utilizzata nell’attentato era risultata di produzioneisraeliana e in dotazione alle forze armate di quel Paese, un dato assaisignificativo non smentito dal fatto che nell’armeria del kibbutz, nelperiodo che interessa, non si erano verificati furti, atteso che il Bertoli hasostenuto di aver sottratto la bomba non dall’armeria bensì in un alloggiodi militari che stazionavano nel kibbutz; era ben possibile che Bertolifosse riuscito a portare con sé la bomba, superando indenne i controlli difrontiera, essendo una persona scaltra e adusa a commettere azioniillecite. 2) Bertoli effettivamente, come da lui sostenuto, ritornò in Italiaper vendicare, con l’attentato, l’uccisione dell’anarchico Pinelli e con ilproposito di lanciare la bomba nel corso della cerimonia che immaginavasi sarebbe tenuta a Milano per l’anniversario della morte del commissarioCalabresi, da lui ritenuto il responsabile dell’uccisione del Pinelli. Un datooggettivo, annotano i giudici di appello, che conferma la versione diBertoli è proprio il fatto che ha compiuto l’attentato proprio nel giorno di

quell’anniversario, predisponendo tutto per essere a Milano solo il giornoprima dell’attentato. Partito da Haifa l’8 maggio e giunto a Marsiglia il 13per poi raggiungere Milano la mattina del giorno 16. Il fatto che Bertoli sifosse trattenuto per tre giorni a Marsiglia arrivando a Milano solo il giornoprecedente all’attentato è spiegato con il timore del Bertoli di sostare sulterritorio italiano, dove credeva di essere ancora ricercato, e di esserefermato. Si osserva inoltre sul punto: “tenendo conto della personalità delBertoli, e in particolare del suo modo di agire disordinato edisorganizzato, non è affatto incredibile che abbi aspettato la mattina del17 maggio per conoscere il luogo dove si sarebbe svolta la cerimonia perl’anniversario della morte di Calabresi”. Del resto, si osserva ancora,Bertoli aveva effettivamente letto sul Corriere della Sera la notizia dellacerimonia avendo, nel suo racconto, ricordato esattamente alcuniparticolari riportati da quel quotidiano. 3) Che Gianfranco Bertoli fossedavvero un anarchico e che possa aver maturato da solo, durante ilsoggiorno nel kibbutz, la decisione di compiere un clamoroso gesto dirivolta contro la società, non solo risulta dal diario da lui redatto in epocaprecedente alla perizia psichiatrica (1973) ma anche da testimonianzerese da persone che erano vissute con lui nel kibbutz (Alex Weinberg,Noah Shusterman, Jean Michel Jemmy). 4) Posto che il G.I. non avevacreduto all’affermazione del Bertoli di avere agito da solo e senzal’appoggio di alcuno, si oppone che dalle indagini svolte non era risultatala presenza di italiani nel kibbutz nel periodo di permanenza di Bertoli;questi non riceveva corrispondenza né aveva ricevuto o effettuatotelefonate da e per l’estero, non esisteva traccia alcuna di suoi rapporticon elementi della destra eversiva di Marsiglia. Da tali elementi la Cortedi secondo grado ritiene possa evincersi con chiarezza che Bertoli, nénel periodo in cui è stato nel kibbutz né a Marsiglia, ha avuto un qualchecontatto sospetto in relazione ai preparativi dell’attentato. E’ vero, siaggiunge, che Bertoli non ha voluto fornire indicazioni sulle persone conle quali intrattenne qualche rapporto epistolare, ma è facilmentededucibile dal complesso delle risultanze che doveva trattarsi dicompagni anarchici con i quali aveva mantenuto sporadici rapporti e chenon voleva in alcun modo coinvolgere nel fatto in cui egli era implicato.Tanto vale per la negazione di aver ricevuto il passaporto falso daappartenenti al Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa. Non è ritenutosignificativo circa l’eventuale appoggio fornito al Bertoli l’episodio relativoa Rodolfo Mersi, avvenuto a Milano la sera del 16 maggio ’73, quando lostesso, dal ristorante dove lavorava, aveva fatto una telefonata dicendo“pronto dottore, è già arrivato il treno, io sono a casa tra 35/40 minuti”,dato che il significato di quella telefonata era stato spiegato dal Mersi inmodo convincente: in quella telefonata aveva parlato con la moglie,essendo sua abitudine, prima di lasciare il ristorante, di telefonare a casaper avvertire del suo arrivo; probabilmente aveva chiesto alla moglie ache ora Bertoli, che si trovava con lei, a che ora Bertoli doveva prendereil treno dato che la moglie in precedenza gli aveva comunicato pertelefono che il Bertoli si doveva trovare alla stazione a mezzanotte.

Quanto alle modalità dell’attentato sono state richiamate letestimonianze di persone presenti in via Fatebenefratelli e che avevanoassistito al fatto in base alle quali si ritiene accertato che Bertoli sitrovava da solo sul marciapiede opposto all’ingresso della Questura, cheaveva lanciato la bomba quando ormai la cerimonia era finita, che almometo del lancio aveva gridato qualcosa come “questo è ciò che meritaCalabresi”, che infine, pur avendo tentato di assumere un atteggiamentodisinvolto infilando le mani nelle tasche dell’impermeabile, Bertoli erastato immediatamente bloccato da almeno quattro agenti.

Da quelle modalità di commissione del fatto, ad avviso dei giudici diappello, si evince con chiarezza che Bertoli (come sempre da luisostenuto) non aveva alcuna intenzione di fuggire dopo aver lanciato labomba, avendo eseguito il lancio non solo in un momento in cui davantialla Questura vi erano numerosissime persone, ma anche quando apochi passi da lui vi erano agenti che poi in effetti sono immediatamenteintervenuti.

Infine si osserva che l’ipotesi di accusa nei confronti degli attualiimputati si fonda sul presupposto che Bertoli intendesse colpire l’On.Rumor, mentre tutte le risultanze dimostrano che non era quellol’obiettivo dell’attentatore considerato che Bertoli non sapeva che Rumoravrebbe partecipato alla cerimonia, che non aveva mostrato particolareinteresse a colpire il ministro degli interni essendosi attardato al bar abere un brandy prima di eseguire l’attentato, che la posizione da doveeffettuò il lancio faceva intendere che Bertoli intendeva colpire a caso enon necessariamente l’On. Rumor.

La versione di Gianfranco Bertoli aveva trovato conferma anche sullacircostanza, dallo stesso sempre affermata, relativa alla sua ininterrottapermanenza nel kibbutz di Karmia dal 28 febbraio 1971 all’8 maggio ’73.Sul punto, si osserva che sia il G.I. che i giudici di primo grado avevanodato credito unicamente alle testimonianze dei fratelli Sorteni e alcontenuto della nota UCLAT del 30 marzo 1992 relativa alla presenza delBertoli a Marsiglia nel novembre 1971, oltre ad altre fonti che avevanoriferito di aver visto il Bertoli sia a Parigi che a Recco, nei pressi diGenova, in tempi compresi nel periodo in questione. Inspiegabilmentenon erano stati valutati gli accertamenti disposti al riguardo, in particolaredel P.M. di Milano e le varie testimonianze di personale del kibbutz, tuttedi segno contrario. Premesso che dalle annotazioni sul passaporto inpossesso del Bertoli, quello recante il nome di Massimo Magri, nonpoteva desumersi che il Bertoli fosse uscito dallo Stato di Israele se nonl’( maggio ’73 quando si imbarcò sulla nave Dan nel porto di Haifa direttoa Marsiglia, sono esaminate tutte le dichiarazioni testimoniali assunte inIsraele dalla polizia italiana con l’assistenza di quella israeliana;dall’insieme di queste la C.A.A. perviene alla conclusione che Bertoli,non si allontanò dal kibbutz se non in una sola occasione e per un sologiorno, salvo fruire di un permesso quindicinale per sottoporsi a cureodontoiatriche. Tali testimonianze sono state ritenute attendibili e non

smentite da quelle, definite incerte e contraddittorie, dei fratelli Sorteni (iquali avrebbero riferito del loro incontro con il Bertoli nella primavera del1972 solo per accreditare la tesi di un Bertoli finto anarchico al soldo deiservizi segreti e collegato alla destra eversiva), dalla nota UCLATdeterminata da evidente errore di registrazione di dati dell’autoritàfrancese, dalle dichiarazioni di Serra Santolo (relative all’incontro con ilBertoli a Parigi) ritenute inattendibili sia perché imprecise sia perl’intrinseca inaffidabilità di chi le aveva rese, infine da quelle del testeBorelli e di Martino Siciliano ritenute le prime inverosimili e le seconde discarso valore perché “de relato”. Del resto, si conclude sullo specificopunto, sarebbe stato assurdo che Bertoli, consapevole dell’ordine dicattura emesso nei suoi confronti, fosse rientrato in Italia, anche se perpochi giorni, recandosi in luoghi (Mestre, Spinea al “Graspo de uva”)dove era conosciuto e poteva essere arrestato.

I giudici di appello, infine, prendono in esame le dichiarazioni rese innumerosi interrogatori (a diversi Giudici Istruttori e in fase dibattimentale)da Carlo Digilio, sulle quali troverebbe fondamento l’accusa contro gliimputati di aver concorso con Gianfranco Bertoli, ciascuno secondo unben preciso ruolo, all’attentato in danno dell’On. Rumor risoltosi con lastrage compiuta davanti alla Questura di Milano il 17 maggio 1973.

In sintesi, secondo tali dichiarazioni, costituenti chiamata in correitàanche se il Digilio non si era assunto alcuna personale responsabilitàdelineando un proprio ruolo defilato (quello di controllare la situazione delBertoli per cinque o sei giorni), su iniziativa del Maggi (che avevaprescelto per l’attentato il Bertoli su suggerimento del Boffelli) GianfrancoBertoli era stato prelevato e condotto nell’abitazione del Soffiati a Veronain via Stella dove dal Neami, con gli sporadici interventi del Maggi e delBoffelli, era stato convinto ad eseguire l’attentato, rafforzato nel propositodelittuoso, istruito all’uso della bomba a mano nonché su ciò che avrebbedovuto dire in caso di arresto, cioè di essere un anarchico individualista edi avere agito da solo e di propria iniziativa.

Premesso che l’episodio in questione, secondo la C.A.A., non èpossibile si sia verificato attesa la dimostrata presenza ininterrotta delBertoli nel kibbutz israeliano, anche nel periodo (marzo o aprile 1973) cuisi fa riferimento, le dichiarazioni di Carlo Digilio in relazione a taleepisodio sono state ritenute totalmente inattendibili sia intrinsecamentesia sul piano dei riscontri. Sotto il primo profilo si rileva l’assoluta carenzadei requisiti di attendibilità della costanza, della spontaneità e dellacoerenza logica. Si rileva, quanto al primo di tali requisiti, che ildichiarante, pur avendo affermato nel primo interrogatorio di poter riferiresui rapporti tra Maggie Bertoli, non aveva fatto alcun cenno all’episodio divia Stella; successivamente aveva parlato della vicenda ma, nelsuccedersi degli interrogatori, aveva sempre modificato la propriaversione su particolari sicuramente rilevanti (la collocazione temporaledella vicenda stessa, la durata della propria presenza nell’abitazione delSoffiati, l’esistenza di bombe a mano in quell’abitazione, il luogo e il

tempo in cui doveva essere eseguito l’attentato); le sue dichiarazioni nonerano state spontanee perche, da un lato, evidentemente intese adadattare i fatti alla precostituita figura del Bertoli come falso anarchico,aderente a Ordine Nuovo e pedina nelle mani di chi professava strategiestragiste, dall’altro essendo forse il dichiarante condizionato dal proprioprecario stato psico-fisico in conseguenza dell’ictus che lo aveva colpitoe dal timore di perdere i benefici premiali di cui godeva per lacollaborazione fornita in altri processi. Il difetto di coerenza logica delledichiarazioni del Digilio è stato ravvisato sui seguenti punti: 1) se Bertoli,come ritenuto dal G.I. e dai primi giudici, fosse stato veramente unaderente al movimento Ordine Nuovo non sarebbe stato necessarioconvincerlo, anche ricorrendo alle maniere forti, promettergli uncompenso in denaro e addirittura tenerlo segregato a lungonell’appartamento del Soffiati; se, invece, Bertoli nulla aveva a che farecon Ordine Nuovo, la sua scelta sarebbe stata un azzardo inspiegabile,dato che avrebbe potuto trasformarsi in un pericoloso testimone. 2) Deltutto incredibile che un simile attentato fosse stato progettato senzapredisporre un piano di fuga, così rendendo praticamente certo l’arrestodell’autore materiale. 3) Non ha alcun senso credere che Bertoli, il qualein vista dell’attentato doveva essere convinto e condizionato, con un veroe proprio lavaggio del cervello, sia stato poi lasciato libero di tornare inIsraele e che quel condizionamento abbia spiegato la propria efficaciaper un periodo, non breve, di circa due mesi. 4) Nel periodo in cui,secondo il Digilio, il Bertoli sarebbe stato ospite nella casa di via Stella, laBassan era incita di sei mesi, conviveva con Marcello Soffiati inquell’abitazione, il che rendeva incompatibile la contemporanea presenzadel Bertoli, del Neami e del Digilio, oltre all’andirivieni del Maggi e delBoffelli.

Infine il racconto di Carlo Digilio è stato ritenuto privo di riscontri perquanto attiene all’accusa nei confronti degli imputati, non potendo essereritenuti tali le dichiarazioni relative alle vicende di ciascuno nell’ambito diOrdine Nuovo e ai rapporti esistenti tra gli stessi e con altri elementi delladestra eversiva.

Ritenute false le dichiarazioni del Digilio a carico degli imputati, Maggi,Neami e Boffelli sono stati assolti dal delitto di strage per non averecommesso il fatto.

Avverso la sentenza emessa in grado di appello proponeva ricorso ilProcuratore Generale e la Corte di Cassazione, con sentenza in data 11luglio 2003, annullava la sentenza impugnata rinviando ad altra sezionedella Corte d’assise di Appello di Milano per un nuovo giudizio neiconfronti di Maggi, Neami e Boffelli limitatamente all’imputazione distrage loro contestata.

Il processo nel presente ulteriore grado di giudizio era fissato perl’udienza del 10 novembre 2004 e si concludeva in quella dell’1.12.2004.

La Corte decideva sulle istanze di rinnovazione parziale deldibattimento con l’ordinanza in data 11 novembre 2004 che si riportatestualmente: “Sulle istanze di rinnovazione del dibattimento di appellovariamente proposte dalle parti, rilevato che le produzioni documentaliappaiono necessarie per consentire alle parti di argomentare le rispettivetesi; considerato che le prove dichiarative richieste – qualunque fosse illoro esito – non sarebbero in ogni caso risolutive in ordine al tema delgiudizio di rinvio come stabilito dalla sentenza di annullamento; attesoche gli ulteriori atti di indagine sollecitati dalla difesa degli imputati hannocarattere meramente esplorativo e, come tali, non sono compatibili con lanatura e le finalità della rinnovazione del dibattimento di appello regolatadall’articolo 520 del C.p.p. previgente;

ammette l’acquisizione e la lettura dei documenti prodotti dalle parti erespinge tutte le altre istanze di rinnovazione del dibattimento; ordinaprocedersi alla discussione e rinvia all’udienza del 16 novembreprossimo per la conclusione dei difensori di parte civile ed eventualmenteper la requisitoria del Procuratore Generale”.

Le parti concludevano come da verbale in atti.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Come già detto, la Corte Suprema di Cassazione, V^ Sezione penale –ritenuti fondati alcuni dei motivi di ricorso proposti dal ProcuratoreGenerale - con sentenza in data 11 luglio 2003 ha annullato la sentenzapronunciata in grado di appello, nei confronti di Maggi Carlo Maria,Boffelli Giorgio e Neami Francesco, limitatamente all’imputazione distrage, rinviando per un nuovo esame ad altra sezione di questa Corte.

Al fine di individuare il campo di indagine e tracciare i limiti dell’ulterioreesame demandato al giudice di rinvio occorre, ovviamente, fareriferimento alla motivazione della sentenza di annullamento pronunciatadalla Corte di Cassazione, che qui si richiama in ampia sintesi: i giudici dilegittimità, dopo la disamina dei fatti per cui si procede, dello svolgimentodel processo e delle risultanze istruttorie e dibattimentali, individuano ilpunto di diritto al quale si ispirano e sul quale si fondano le censuremosse dal Procuratore Generale sia all’impianto generale della sentenzaimpugnata sia agli specifici punti in cui la sentenza si articola, cioé laviolazione dell’art. 524 n.1 del C.p.p. 1930 per travisamento dei fattideterminato da erronea applicazione delle norme relative alla valutazionedelle prove. E’ richiamata la costante giurisprudenza della Corte diCassazione, alla quale lo stesso ricorrente fa riferimento, secondo cui “ilvizio di travisamento del fatto si risolve in un vizio logico-giuridico dellaratio decidendi che determina mancanza e contraddittorietà dellamotivazione quando il giudice abbia manifestamente errato ammettendoun fatto inesistente o escludendo un fatto decisivo”.

Rilevato che, secondo il Procuratore Generale, la Corte d’assise diAppello sarebbe incorsa nell’errore logico di aderire a una tesi

preconcetta, modulando poi la motivazione su di essa al fine di avallarla,la Suprema Corte procede all’esame dei punti della motivazioneconsiderati viziati da illogicità o contraddittorietà, iniziando dal capitolointitolato “una strage annunciata”.

Si osserva che i giudici di appello hanno concluso l’esame deglielementi di prova acquisiti affermando, in modo perentorio, che la stragecompiuta da Gianfranco Bertoli non era stata in alcun modopreannunciata da Pietro Loredan e da Remo Orlandini. Taleaffermazione, con riferimento all’episodio Loredan, è considerata frutto diun travisamento dei fatti che ha determinato una motivazione illogicaperché non coerente con gli elementi obiettivamente accertati.

Tali elementi, di seguito indicati e valutati dai giudici della Cassazione,sono costituiti: 1) dalla deposizione resa al G.I. il 24 marzo 1995 da IvoDalla Costa il quale aveva riferito di un incontro avvenuto a Treviso il 15maggio ’73 con Pietro Loredan (che lo aveva richiesto per telefono quellastessa mattina, alle ore 6,30) e al colloquio nel quale il Loredan lo avevaavvertito che entro 48 ore, a Milano, sarebbe stato compiuto un attentatocontro un’alta personalità del Governo. Ne era seguito l’immediatoviaggio di Dalla Costa a Venezia per riferire quella informazione all’On.Ceravolo e l’altrettanto immediata partenza di entrambi per Milano dove,la mattina stessa del 15 maggio, i due avevano conferito con gli On.liPajetta e Malagugini appositamente giunti da Roma su richiestatelefonica del Ceravolo. 2) dalla conferma dell’episodio provenuta dallatestimonianza dell’On. Ceravolo il quale, tra l’altro, aveva ricordato chel’On. Malagugini si era assunto l’incarico di informare l’autorità giudiziaria(in persona del Sostituto Procuratore della Repubblica EmilioAlessandrini) dell’informazione fornita da Pietro Loredan.

I giudici di legittimità, premesso che dalla ricostruzione del fatto non puòescludersi il significato dell’episodio riferito, osservano: “non si puòescludere che l’episodio si sia verificato, o che il contenuto dellacomunicazione sia stato tale da aver allarmato il Dalla Costa e ilCeravolo. D’altra parte il Dalla Costa è persona assolutamente credibilee ha reso una deposizione logica e concludente, dando una spiegazioneaccettabile dei motivi per cui, dopo tanto tempo, aveva deposto,affermando di essersi deciso dopo la lettura sul Corriere della Sera delledichiarazioni fatte da Bertoli, da lui considerate contrarie alla verità. DallaCosta conosceva bene il conte Pietro Loredan che era suo buon amico esapeva che era in contatto continuo con elementi di Ordine Nuovo delVeneto, aveva quindi personalmente dato credito alla notizia,successivamente rivelatasi coincidente o almeno molto simile, conl’attentato di via Fatebenefratelli”.

Secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito avrebbero dovutoritenere valida la preoccupazione del Dalla Costa esistendo in attielementi di prova idonei a confermare i rapporti tra Loredan ed elementidi Ordine Nuovo (il teste Universo aveva riferito di aver incontrato piùvolte Giovanni Ventura nel ristorante del Loredan “la Falconiera”, il testeStimamiglio aveva riferito, a sua volta, dei rapporti di amicizia esistenti tra

il Loredan e Giovanni Ventura e della concreta possibilità che lo stessoLoredan avesse appreso dell’imminente attentato grazie allafrequentazione di Luigi Ventura, fratello di Giovanni all’epoca detenutoper la strage di Piazza Fontana.

Si osserva quindi che la Corte d’Appello “pur potendo tranquillamenteritenere che il Loredan aveva appreso la notizia del prossimo attentatonegli ambienti di Ordine Nuovo, ha preferito avventurarsi in unacomplicata e incerta costruzione logica che l’ha condotta ad affermareche Pietro Loredan aveva appreso, il 15 maggio 1973, dal giornalistaSergio D’Asnasch, nel corso di una cena, la notizia (generica) di gravifatti che stavano per accadere in Milano; che lo stesso Loredan,ritenendo che D’Asnasch fosse in possesso di notizie riservate in quantoagente della CIA, aveva avvertito Ivo Dalla Costa; che questi, a suavolta, aveva ritenuto di informare prima Ceravolo e poi altri esponenti delP.C.I. (Pajetta e Malagugini); che costoro, sia per la genericità dellanotizia sia per la poca affidabilità della fonte (Loredan), non avevanoritenuto di dover allertare né i locali dirigenti del Partito né il capogabinetto del Questore, anche perché all’epoca si sentivano con notevolefrequenza voci dello stesso genere. Ivo Dalla Costa, con il passare deglianni, avrebbe sicuramente rielaborato l’episodio e probabilmente inbuona fede avrebbe riferito al G.I. che Pietro Loredan gli aveva parlato diun attentato entro quarantotto ore contro un’alta personalità delGoverno”.

Queste le conclusioni della Cassazione sul punto in esame: laricostruzione compiuta dalla Corte di secondo grado apparecontraddittoria perché in contrasto con il fatto che il Dalla Costa ricevettela telefonata del Loredan alle 6,30 del 15 maggio ’73, mentre la Cortestessa ha indicato come avvenuta la sera di quel giorno la cena con ilD’Asnasch sicché Loredan, quando parlò con Dalla Costa, non avrebbepotuto avere dal D’Asnasch le informazioni sull’attentato in preparazione.Ben più credibile che, invece, sia stato proprio il Loredan a dire qualcosadi quanto aveva saputo al D’Asnasch e che questi abbia poi elaborato lanotizia a suo modo.

“Deve quindi ritenersi che sul punto indicato la Corte di merito abbiaeffettuato una analisi non esauriente delle risultanze probatorie acquisite,che ha inciso sul libero convincimento del giudice di Appello,condizionandolo fino a produrre gli effetti negativi di un’imprecisaricostruzione del contenuto delle prove esistenti in atti, con conseguentiscelte non coerenti sul piano logico”. Il che comporta la necessità di unriesame nel merito al fine di valutare l’episodio in questione perverificarne la rilevanza in ordine all’oggetto del giudizio. “In particolare –prosegue la Cassazione – dato per accertato che Loredan abbia avutosentore, in modo più o meno approssimativo, dell’attentato verificatosi il17 maggio 1973, tanto da sentire il dovere di avvisare il suo amicoimpegnato politicamente sul fronte avverso, resta però da chiarire qualesia stata la fonte della notizia. Il P.G. ricorrente ha sottolineato i rapportidel Loredan con Giovanni e Luigi Ventura, indicando una possibilità di

verificare ulteriormente il fatto. Dovrà però la Corte di rinvio, attraversouna rilettura delle prove esistenti, soprattutto valutare se vi sia stato uncollegamento fra Loredan e il gruppo di O.N. diretto da Carlo MariaMaggi, e se la notizia sia scaturita da informazioni ricollegabili all’attivitàdegli imputati”.

La Suprema Corte, sempre sul tema della “strage annunciata”, haritenuto infondata la censura proposta dal Procuratore Generale diMilano alla motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui laC.A.A. ha escluso l’esistenza di almeno un colloquio tra Remo Orlandinie il capitano Antonio Labruna (registrato), risalente ad epoca precedentealla strage, in cui si parlava espressamente di un attentato contro l’On.Rumor in preparazione. L’esistenza di quel colloquio e della relativaregistrazione, invece, era stata ritenuta sia dal G.I. che dai giudici diprimo grado sulla scorta della testimonianza resa dal maresciallo PaoloDi Gregorio. Il travisamento dei fatti, secondo il ricorrente, sarebberavvisabile nell’affermazione dei giudici di appello secondo cui il DiGregorio, nel riferire che in uno di quei colloqui si parlava di attentati auomini politici e che gli era rimasto impresso il nome del ministro degliinterni Rumor, aveva equivocato intendendo, evidentemente, riferirsi alcolloquio del Labruna con il Lercari, persona quest’ultima della quale il DiGregorio ha detto di non essersi mai occupato.

Al riguardo i giudici di legittimità osservano che dalle dichiarazioni del DiGregorio non può dedursi l’esistenza di un nastro in cui si parlava di unattentato all’On. Rumor ma soltanto di generici riferimenti ad attentati, attirivoluzionari, colpi di Stato e che tra le persone prese di mira vi era ilministro Rumor, considerato nemico degli estremisti di destra. Il che, siaggiunge, “non comporta l’esistenza di un nastro che preannunziassel’attentato verificatosi. Non vi è in atti, quindi, alcuna prova o serio indizio,dell’esistenza di un preciso riferimento all’attentato di via Fatebenefratelli.Gli elementi acquisiti confermano soltanto l’esistenza di una ferventeattività eversiva nell’ambiente dell’estremismo di destra, che certamentenon basta a creare un collegamento con l’attentato oggetto del giudizioed un riferimento operativo al gruppo di Carlo Maria Maggi. La Corted’assise di Appello avrebbe potuto escludere la rilevanza probatoriadell’episodio senza tentare di negare in radice l’attendibile testimonianzadel Di Gregorio. Il teste, infatti, non ha mai parlato di uno specifico nastroche si riferisse a un attentato in preparazione contro Rumor ma delgenerico contenuto di tutti i nastri da lui trascritti”.

Sono quindi indicati altri tre punti della motivazione della sentenzaimpugnata, censurati dal Procuratore Generale: 1) la tassativaesclusione che il Bertoli possa aver avuto contatti con i servizi segretiitaliani o israeliani dopo aver chiuso la sua esperienza quale informatoredel SIFAR ufficialmente avvenuta dal 1954 al 1960; 2) l’altrettantotassativa affermazione che Bertoli aveva soggiornato in Israele dal 1971al 1973 senza essersi mai allontanato per recarsi in Francia o in Italia,

basando questa certezza unicamente sulle risultanze del passaportofalso intestato a Massimo Magri e in possesso del Bertoli; 3) il fatto diaver ritenuto credibile e sincero il Bertoli fino al punto di considerare nonveritiere tutte le dichiarazioni contrastanti con la ricostruzione dei fatti dalui effettuata.

Quanto al primo punto, la Corte di Cassazione rileva che i giudici diappello si sono preoccupati di escludere totalmente i servizi segretiitaliani ed israeliani dall’espatrio di Bertoli e si è avventurata in unacomplicata e incerta disamina del sistema di fascicolazione delle praticherelative agli informatori del servizio segreto, fondata sui ragionamenti delteste Pollari. In realtà il teste, solo recentemente posto a capo dei servizisegreti, ha tentato di spiegare il sistema di fascicolazione delle pratichecontenenti i contributi forniti dagli informatori, vigente negli anni sessanta,attribuendo un significato logico ad annotazioni ed archiviazioni di dati,che sembrerebbero improntate ad approssimazione e disordine.

La Corte ha dato totalmente credito al Pollari, trasformando così unasemplice ipotesi logica, effettuata da un funzionario che non avevapartecipato alla fascicolazione delle vecchie pratiche, in una indiscutibileverità, in grado di superare tutte le dichiarazioni fatte dai funzionariaddetti al servizio. In merito può solo osservarsi che, anche se Bertoliabbia continuato dopo il 1960 ad avere qualche rapporto qualeinformatore del servizio segreto ed anche se sia stato aiutato adespatriare, il fatto non assume rilevanza con riferimento alla strage diMilano e alle imputazioni ascritte agli odierni imputati”.

Quanto al secondo e terzo punto la Suprema Corte ha ritenuto fondatele censure del Procuratore Generale. Questi denunciava l’incompleta enon adeguatamente motivata la valutazione del materiale probatorioessendo stata attribuita esclusiva rilevanza alle annotazioni sul falsopassaporto del Bertoli e alle dichiarazioni di testimoni israeliani assunteda personale dei servizi segreti italiani e di Israele, in ordineall’ininterrotta permanenza di Gianfranco Bertoli nel kibbutz dal febbraio’71 all’8 maggio 1973.

Si osserva in proposito che la Corte di merito si è fatta influenzare inmodo rilevante da detti elementi di prova, sottovalutando quelli di segnocontrario, avventurandosi in congetture non fondate sui fatti evidenziatima conseguenza di una lettura sin dall’inizio incredula. In particolare nonè stato attribuito credito alla nota UCLAT che conteneva l’informazionefornita dalla polizia francese circa la presenza del Bertoli a Marsiglia nonsolo l’8 gennaio ’71 e il 13 maggio ’73 ma anche, in particolare, dal 10 al20 novembre 1971, periodo in cui fu ospite dell’Hotel du Rhone doveinvece il Bertoli aveva sostenuto di aver preso alloggio l’8 gennaio ’71.Fra le due tesi, ritengono i giudici di legittimità, deve privilegiarsi quellafornita dagli organi inquirenti francesi, maggiormente affidabile e priva diinteressi particolari. “D’altra parte – si osserva – è poco credibile che almomento della fuga dall’Italia il Bertoli, con un passaporto falso e unmandato di cattura pendente, si avventurasse a recarsi in un albergo,

dando così alla polizia la possibilità di controllarlo con maggioreprecisione e di far fallire il suo progetto di fuga. Del tutto gratuita appareinvece la conclusione indicata in sentenza in cui si asserisce: ^solo permero errore la polizia francese ha comunicato all’UCLAT che GianfrancoBertoli aveva soggiornato a Marsiglia nel novembre 1971 invece che nelgennaio/febbraio ‘71^. La nota informativa della polizia francese hacarattere di prova in ordine ai fatti accertati, indipendentemente daeventuali vizi di forma attinenti alle modalità con cui è stata richiesta etrasmessa.”

La Cassazione osserva ancora che i giudici di appello hanno disattesole testimonianze dalle quali risultava la presenza del Bertoli in Italia o inFrancia nel periodo che interessa, rilevandone l’inattendibilità o la falsità“con argomenti talvolta corretti e condivisibili ma in altri casi conl’evidente intento di evidenziare possibili contraddizioni ed incoerenzeper eliminare tutti gli ostacoli logici alla tesi della veridicità assoluta diquanto dichiarato dal Bertoli”.

In particolare erano stati dichiarati non credibili i testimoni SantoloSerra, Borelli, Albanese, Martino Siciliano, Giorgio e Tommaso Sorteni e,infine, era stato ignorato il rapporto dei Carabinieri di Milano che avevanoacquisito le testimonianze di quattro persone (Negriolli, Liardo, Miele eSedona) dalle quali era emerso che Bertoli era abituale frequentatore ditrattorie e di altri locali di Spinea dove incontrava Rampazzo e Rizzato.

In conclusione la Corte di merito “così liquidando tutte le prove contrariealla possibile interruzione del soggiorno, ha dato per dimostrato quantoera oggetto di dimostrazione, compiendo un evidente errore logico. Il cherende necessario un riesame di merito demandato al giudice di rinvio”.

E ancora: la versione di Bertoli è stata creduta anche perchéconfermata dal fatto che la bomba a mano a lui servita per l’attentato erarisultata inequivocabilmente di produzione israeliana, il che rendevaattendibile l’affermazione che il Bertoli era entrato in possessodell’ordigno quando si trovava nel kibbutz e che lo aveva portato con sénel viaggio fino a Marsiglia e a Milano. Di conseguenza i giudici diappello, ritenuto altamente improbabile che per l’attentato – severamente organizzato da elementi di Ordine Nuovo – non fosse statafornita a Bertoli una bomba prelevata dagli arsenali del movimentoeversivo, hanno ritenuto credibile il modo con cui il Bertoli, come da luidescritto, sarebbe riuscito a superare i controlli di frontiera. Al riguardo,convenendo con le argomentazioni del P.G., si evidenzia che la sentenzaimpugnata non ha tenuto conto di altri elementi esistenti nel processo: inparticolare a) che nel 1966 erano state sequestrate nelle abitazioni didue militanti di O.N. armi e munizioni di provenienza israeliana; che tragli esponenti di O.N. del Veneto vi era una corrente filo.israeliana e chemolti aderenti avevano soggiornato in Israele, che dall’agendasequestrata a Leo Pagnotta (italo-americano con interessi commerciali aPadova) erano risultati traffici d’armi con Israele sin dal 1960, attuati conil sistema della triangolazione.

Di contro devono ritenersi poco credibili sia il sotterfugio indicato daBertoli per portare con sé la bomba fino a Milano, perché di difficilerealizzazione, sia l’affermazione dello stesso Bertoli di non esseresbarcato a Genova per il timore di essere arrestato, non sapendo diessere stato assolto fin dall’11.6.71 dal reato per cui era stato emessomandato di cattura nei suoi confronti.

Secondo la Suprema Corte “andavano, invece, verificati attentamente imotivi che lo hanno indotto a sbarcare a Marsiglia, tenendo conto cheproprio in quel periodo nella citta di Marsiglia era in corso un raduno diOrdine Nuovo al quale partecipavano i fratelli Jemmy, dal Bertoli inprecedenza ospitati per lunghi periodi nel kibbutz”.

Per tanto la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della C.A.A.di Milano, relativamente al secondo e terzo punto di cui sopra, affidandoalla Corte di rinvio il compito di effettuare le seguenti verifiche di merito.1) Riesaminare in fatto tutti gli elementi di prova esistenti, sia in ordinealla permanenza di Bertoli in Israele, sia relativi ai suoi spostamenti, perverificarne per ciascun teste l’attendibilità intrinseca, la concordanza e lalogicità; 2) valutare la rilevanza di ciascuna prova in ordine all’attentatooggetto del presente giudizio, sia con riferimento al periodo in cui ipresunti rientri in Italia si sarebbero verificati, sia all’esistenza dicollegamenti fra eventuali presenze in Francia o in Italia di Bertoli e ilgruppo di O.N. e in particolare con Carlo Maria Maggi e gli altri imputati;3) riesaminare i rapporti di Bertoli con il gruppo francese di O.N. e con ifratelli Jemmy, e precisare se vi siano stati collegamenti di costoro con ilgruppo di Carlo Maria Maggi”.

I giudici della Corte Suprema dedicano ampio spazio all’esame delledichiarazioni rese da Carlo Digilio in occasione di numerosi interrogatori,sia nella fase istruttoria sia in quella dibattimentale (oltre che ad altreautorità giudiziarie).

Esaminati singolarmente e nel loro complesso tali dichiarazioni, siosserva, sostanzialmente convenendo con i giudici di appello, che ilDigilio aveva modificato più volte la propria versione, in specie quellarelativa all’episodio in cui, a suo dire, il Bertoli era stato trattenutonell’appartamento del Soffiati per essere convinto e addestrato dalNeami in vista dell’attentato contro il ministro Rumor; modifiche,incertezze e contraddizioni avevano riguardato punti essenziali dellavicenda riferita, in particolare da chi, come e quando era stata presa ladecisione dell’attentato e di incaricarne il Bertoli; il tempo in cui Bertoliera stato ospite in via Stella a Verona e come vi era stato condotto; lepersone che avevano frequentato la casa del Soffiati in quel periodo e illoro ruolo; dove e per quando era programmato l’attentato; il ruolo svoltodallo stesso Digilio; la presenza o meno di armi e di ordigni esplosivinell’abitazione del Soffiati.

La Corte regolatrice enuncia quindi i criteri di valutazione delledichiarazioni del coimputato, da tempo costanti nella giurisprudenza,ribadendo che affinché le stesse assurgano a dignità di prova occorre,

oltre alla verifica di generale e intrinseca attendibilità del dichiarante, chei fatti riferiti trovino adeguata conferma in elementi di riscontro; questi,“per superare il deficit probatorio intrinseco alla chiamata in correità,possono consistere in elementi di qualsivoglia natura, cioè nonpredeterminati per specie o qualità, e quindi anche solo di caratterelogico che, pur non avendo autonoma forza probante, siano in grado dicorroborare la chiamata, in radice passibile di sospetto, conferendole lacredibilità di qualsiasi elemento di prova. Essi debbono, comunque,consistere in elementi fattuali e/o logici, esterni alla chiamata nel sensoche, pur dovendosi collegare ai fatti riferiti dal dichiarante, debbonotuttavia essere esterni ad essi, allo scopo di evitare che la verifica siacircolare, tautologica ed autoreferente e cioè che in definitiva la ricercafinisca per usare come sostegno l’ipotesi probatoria che si trae dallachiamata, la chiamata stessa e cioè lo stesso dato da riscontrare”.

Ciò posto, si osserva che la Corte di merito, da un lato, ha manifestatodi privilegiare la veridicità del racconto fatto da Bertoli tacciandoimmediatamente di falsità il Digilio perché le sue dichiarazionicontrastavano con quelle di Bertoli, ma dall’altro aveva poi effettuato unaaccurata analisi dell’attendibilità intrinseca del Digilio, indipendentementedal contrasto con quanto affermato dall’imputato Bertoli. E, sulla basedegli atti, la Corte di merito ha ritenuto di dover considerare il teste Digilionon credibile, in relazione alle dichiarazioni rese in questo processo, inragione della sua particolare situazione psicologica verificatasi in seguitoad altre collaborazioni e all’insorgere di una grave malattia. Infatti, daivari elementi in atti era stato possibile desumere che Digilio (tenutoanche conto delle dichiarazioni di questi sul punto), dopo la malattiaaveva temuto fortemente di perdere i benefici previsti dal programma diprotezione al quale era sottoposto, in quanto gli inquirenti – così pensava– sospettavano che egli tacesse su altri fatti molto gravi di cui sarebbestato a conoscenza. Sicché, con tutta probabilità, l’organismogravemente defedato e il timore di perdere quei benefici sarebbero statila molla che aveva spinto Digilio a fare rivelazioni sulla strage compiutada Bertoli, ritenendo così – nella sua ottica – di dimostrare lacompletezza della sua collaborazione e di assicurarsi i benefici derivantidal programma di protezione.

La Corte di Cassazione indica una linea valutativa delle di dichiarazionidi Carlo Digilio parzialmente diversa da quella dei giudici di appello: se èvero che le osservazioni formulate dalla sentenza impugnata senz’altrominano la credibilità del dichiarante sotto il profilo della spontaneità e deldisinteresse della collaborazione, tuttavia è doveroso osservare, da unlato, che Digilio già fruiva dei benefici economici per il suo ruolo dicollaboratore e che, accettando di fare altre dichiarazioni, si sottoponevaal rischio di perdere detti benefici se i nuovi fatti da lui riferiti fossero statiritenuti non veritieri, dall’altro che la disposta perizia psichiatrica avevaaccertato che il dichiarante ha conservato le normali capacità di

intendere e volere, pur ammettendo che, a causa della malattia, la suacredibilità può essere considerata notevolmente attenuata.

Ciò premesso, sull’attendibilità intrinseca si osserva che, in base alprincipio della frazionabilità delle dichiarazioni, alcune parti delledichiarazioni di Carlo Digilio possono ritenersi attendibili eadeguatamente riscontrate: 1) può ritenersi certo che Digilio benconoscesse la casa di via Stella a Verona e sapeva che il gruppo di O.N.del Veneto la utilizzava come base per attività di vario genere; 2)l’appartenenza al gruppo degli odierni imputati, con i rapporti gerarchiciindicati e la loro dedizione all’attività eversiva; 3) i rapporti di conoscenzafra Bertoli e alcuni esponenti del gruppo Ordine Nuovo.

Su altri punti, invece, le dichiarazioni di Digilio, non collegatenecessariamente con le precedenti, sono censurabili in base ai criteridella precisione, della coerenza e della costanza e, più in particolare: 1)“le sue dichiarazioni sono approssimative in ordine al periodo dipresenza di Bertoli nella casa di via Stella (dapprima ha indicato unadata assai prossima all’attentato - mese di maggio – successivamentel’ha retrocessa di vari mesi; 2) dapprima ha dichiarato che in via Stella vierano armi e successivamente lo ha negato; 3) ha fornito tre tesi diversee contraddittorie in ordine ai presunti pagamenti di compensi assicurati alBertoli; 4) ha dato diverse versioni dei comportamenti degli imputati nelcorso del presunto soggiorno di Bertoli in via Stella; 5) ha dato versionidiverse della riunione nella quale sarebbe stato deciso di affidare aBertoli il compito di uccidere Rumor, modificando più volte sia lapresenza di alcune persone sia il luogo nel quale si sarebbe tenutol’incontro”.

In conclusione, i contrasti tra le varie versioni sono ritenuti rilevanti esintomatici di progressivi aggiustamenti verso gli obiettivi di rendere,contemporaneamente, influenti i fatti narrati e di ridurre al minimo laresponsabilità personale dello stesso Digilio. “Complessivamente –secondo i giudici della Cassazione – deve ritenersi che la testimonianzadi Digilio sia notevolmente carente sul piano della credibilità e che inoltrel’attendibilità intrinseca delle singole dichiarazioni non possa ritenersipienamente raggiunta, su punti particolarmente individuanti, per difetto dicoerenza e per manifesta incertezza e contraddittorietà”.

Si osserva poi che mancano riscontri esterni individualizzanti in grado disuperare il deficit probatorio indicato. Tali non sono ritenuti quelliindividuati dal Procuratore Generale, idonei a confermare soltanto laparziale credibilità del Digilio, già evidenziata ma limitata a punti nonessenziali nella vicenda. Ad avviso della Suprema Corte “i punti, centralie particolarmente indizianti delle affermazioni del Digilio in ordine allaresponsabilità degli imputati, consistono nella presenza di Bertoli alcunimesi prima dell’attentato nella casa di via Stella a Verona e nel fatto cheMaggi, Boffelli e Neami lo abbiano, in quel loro rifugio, preparato eaddestrato all’attentato, tenendolo segregato per vari giorni e chepresumibilmente gli abbiano fornito la bomba. Gli elementi indicati comeriscontro, in realtà, non si inseriscono in modo necessario nella dinamica

degli avvenimenti descritta dal Digilio ma costituiscono argomenti, o inparte prove, di un coinvolgimento generale del gruppo Maggi e dellostesso Bertoli in attività eversive. Anche la dichiarazione resa dalVinciguerra, che riguarda un attentato a Rumor progettato dal Maggi, nonpuò essere considerata riscontro perché si tratta di un fatto diverso,progettato in epoca precedente con modalità nettamente diverse. Anche ibuoni rapporti esistenti fra Bertoli, Maggi e altri aderenti a Ordine Nuovo,sono indizi rilevanti per l’intera vicenda ma non necessariamente legatiall’episodio criminale così come descritto dal Digilio. Gli elementi indicaticome riscontri, in realtà, consistono in elementi autonomi di prova cheservono certamente a incrinare la credibilità di Bertoli come anarchicoindividualista, lontano da qualsiasi contatto con gruppi associati oeversivi, ma nulla aggiungono o chiariscono in ordine alla sua presenzain Verona nella casa di via Stella”.

Di conseguenza i giudici di legittimità dispongono che l’impiantoaccusatorio sia riesaminato nel merito, alla luce dei chiarimenti indicati,attribuendo validità indiziaria agli elementi di prova esclusi dalla sentenzaimpugnata, sui punti annullati in accoglimento del ricorso del ProcuratoreGenerale, ed escludendo la validità probatoria del teste Digilio.

La Suprema Corte, dopo aver indicato gli elementi di prova risultanti perciascun imputato dalla sentenza impugnata, dai ricorsi e dalla sentenzadi primo grado, così conclude: “Su tali elementi, e sugli altri cheeventualmente nel nuovo giudizio di merito possano ricavarsidall’istruttoria o dai dibattimenti effettuati, deve essere compiuta unanuova verifica in fatto per valutarne la validità probatoria e la rilevanza inordine all’imputazione di concorso in strage e alla possibilità di attribuireagli imputati Maggi, Boffelli e Neami il coinvolgimento nella ideazione,nella preparazione e nell’attuazione dell’attentato o di alcune sue fasi econseguentemente di dichiarane la responsabilità”.

********************** Sulla scorta delle indicazioni fornite dai giudici di legittimità, così come

sopra ampiamente riassunte, è dunque affidato a questa Corte il compitodi riesaminare le prove acquisite ed eventualmente di ricostruire, sullabase di una diversa valutazione dei fatti, l’intera dinamica della vicendaoggetto del giudizio, tenuti presenti appunto i temi di indagine evalutazione specificati dalla Suprema Corte - in ordine ai quali lasentenza di annullamento ha rilevato incongruenze motivazionali,travisamento dei fatti, adattamento delle risultanze processuali a tesiprecostituite - e senza quindi riproporre le medesime argomentazioni econclusioni già censurate dai giudici di legittimità.

Per tali ragioni gran parte della motivazione sarà dedicata - con idoverosi approfondimenti quali richiedono la complessità dei fatti, lerisultanze delle indagini istruttorie e dibattimentali, l’ingente quantità dielementi acquisiti, sia documentali che testimoniali - agli argomenti sui

quali la Corte di Cassazione ha richiamato l’attenzione del giudice dirinvio, mentre per quanto attiene ad altri temi del processo, sui quali né laSuprema Corte né la sentenza d’appello annullata si sonoespressamente pronunciate, per evitare inutili ripetizioni e per nonappesantire ulteriormente la già complessa trattazione, sarannorichiamate (se del caso in sintesi o più diffusamente) quelle partidell’ordinanza del Giudice Istruttore e della sentenza della Corte d’assisedi Milano non oggetto di specifiche contestazioni e, comunque, condiviseda questa Corte.

Nella motivazione della presente sentenza si seguirà un ordine ditrattazione che si ritiene il più logico ai fini dell’esaustivo riesame, perquanto possibile, della complessa vicenda oggetto del processo,prendendo le mosse dalla strage avvenuta la mattina del 17 maggio1973 nei pressi della Questura di Milano, dall’immediato arresto diGianfranco Bertoli, esecutore materiale dell’attentato, e dalledichiarazioni rese dallo stesso nell’immediatezza e nei numerosisuccessivi interrogatori.

Su tempi, modalità e circostanze dell’attentato per cui si procede benpoco può aggiungersi rispetto a quanto già detto nella parte espositivache precede: la bomba a mano, che provocò la morte di quattro personee il ferimento di altre quarantacinque, fu lanciata alle ore 11 circa del 17maggio 1973, dal marciapiede opposto, in direzione del portone diingresso del palazzo di via Fatebenfratelli a Milano, dove ha sede laQuestura; probabilmente per un errore nel lancio, la bomba rotolò afinaco del portone per alcuni metri esplodendo tra le persone in quelmomento presenti sul marciapiede. L’autore del gesto criminoso,Gianfranco Bertoli (alias Massimo Magri, come da passaporto falso insuo possesso), immediatamente individuato (per alcuni testimoniaddirittura nel momento del lancio) era subito tratto in arresto.

Forse proprio per l’immediato arresto del responsabile della strage nonfurono effettuati particolari rilievi e l’azione non fu ricostruita nei minimidettagli. Furono assunte, in vero, numerose testimonianze di personeche avevano assistito al fatto (cittadini e poliziotti) che consentirono distabilire che l’attentatore, fermo sul lato opposto della strada rispetto alportone d’ingresso della Questura, improvvisamente aveva lanciato unoggetto che teneva in mano e, solo per alcuni testimoni, aveva gridatoqualcosa che si riferiva al commissario Calabresi. Secondo alcunetestimonianze il Bertoli non aveva tentato di fuggire, secondo altre avevaassunto un atteggiamento indifferente, quasi volesse far credere diessere estraneo al fatto. Altre testimonianze, infine, indicheranno chel’autore della strage era già presente nei pressi della Questura tra le 9,30e le 9,50 essendo stato visto in un bar della zona e, secondo quandodichiarato dal teste Gemelli (della polizia scientifica), lo stesso alle 9,50circa si trovava già sul marciapiede opposto alla Questura,apparentemente in compagnia di due uomini.

La versione di Gianfranco Bertoli

Ritiene la Corte che il naturale e logico punto di partenza per ilpressocché completo riesame del materiale probatorio acquisito, cosìcome richiesto dalla sentenza di annullamento, non possa che esserequello concernente l’approfondita e rigorosa verifica dell’attendibilità dellaversione dei fatti fornita da Gianfranco Bertoli, tenuto conto in particolaredel fatto che, rispetto ad altri episodi di strage che insanguinarono ilnostro Paese in quegli anni settanta, quello in esame fu caratterizzato, inmodo peculiare e differenziale, dall’immediata individuazione edall’arresto del suo esecutore, un esecutore che da subito si dichiaròcolpevole dell’attentato assumendosene la piena ed esclusivaresponsabilità.

Inutile sottolineare l’assoluta rilevanza di tale verifica, considerato chese questa si risolvesse positivamente, vale a dire con un giudizio di pienacredibilità di quanto affermato da Gianfranco Bertoli circa i personalimoventi, la spinta ideologica del suo agire (quella anarchica), l’ideazionee l’esecuzione del progetto delittuoso, oltre a tutti gli altri elementi dicontorno riferiti (dall’espatrio in Israele al soggiorno nel kibbutz,dall’occasione e dal modo con cui Bertoli si procurò la bomba poiutilizzata nella strage alla Questura al viaggio di ritorno prima a Marsigliae poi a Milano, dalla decisione di compiere l’attentato alla suaesecuzione), si porrebbe come del tutto superflua ogni ulteriore attività diindagine intesa a individuare eventuali mandanti della strage nonché adaccertare se, come e in quale contesto abbiano avuto una diversa genesii fatti di via Fatebenefratelli del 17 maggio 1973.

Se, aderendo per un momento a tale ipotesi, l’attentato fueffettivamente esclusiva opera del Bertoli essendo stato questi il suounico ideatore ed esecutore, con le ovvie conseguenze sulla posizionedegli imputati, si dovrebbe pervenire necessariamente alle medesimeconclusioni dei precedenti giudici di appello, seguendo in sostanza unpercorso argomentativo non ritenuto convincente, né sul piano logico néaderente alle acquisizioni probatorie, dalla sentenza di annullamentopronunciata dalla Suprema Corte.

E’ per tali ragioni che le dichiarazioni rese da Gianfranco Bertoli nei suoiripetuti Interrogatori (avanti al P.M. e al Giudice Istruttore) devono essereora riesaminate e attentamente valutate. Solo una volta stabilito se laversione complessivamente fornita dal reo confesso dell’attentato sia ono attendibile si potranno assumere le prime conclusioni e, a secondadel loro segno, sarà possibile procedere alla disamina di tutti gli altrielementi di giudizio, frutto di una lunga e complessa istruttoria, giàoggetto di approfondita valutazione nella motivazione della sentenzaappellata.

Dei numerosi interrogatori di Bertoli nella fase istruttoria (ben dodici),avanti al P.M. e al Giudice Istruttore tra il 17 maggio 1973 e il 25 giugno1974, il più significativo, per ampiezza e contenuti, è senz’altro il primo,

avvenuto nel Carcere di San Vittore a Milano lo stesso giorno dellastrage, iniziato alle ore 14,35 del 17 maggio e terminato alle 0,05 del 18.Nell’occasione il Bertoli, ammessa pienamente la propria responsabilitàin ordine ai fatti di via Fatebenefratelli, fornì al Pubblico Ministero laversione che, sia pur oggetto in seguito di aggiustamenti e precisazioni,sarebbe rimasta costante e che si presta ad essere riassunta con pocheparole: anarchico individualista, aveva da tempo coltivato il proposito dicompiere un attentato contro Autorità costituite; a tal fine si era procuratouna bomba a mano nel kibbutz di Karmia, in Israele, dove aveva vissutonegli ultimi due anni, si era imbarcato ad Haifa raggiungendo Marsiglia il13 maggio e di qui Milano, nel pomeriggio del 16 maggio, dove la mattinadel 17 aveva compiuto l’attentato, agendo di propria iniziativa, da solo esenza il mandato o la copertura di chicchessia.

Del primo interrogatorio reso da Gianfranco Bertoli si ritiene opportunoriferire con una certa ampiezza, all’occorrenza riportandone testualmentealcuni brani.

Preso atto dell’imputazione di strage (oltre a quelle di ricettazione efalso relative al passaporto), il Bertoli così esordiva: “Non nego quanto hocommesso. In sostanza ammetto tutti gli addebiti. Io non riconoscoalcuna autorità, perché secondo me l’uomo è nato libero e deve esserelibero; tutte le forme di autorità sono basate soltanto sulla violenza.Quando ho commesso i fatti, speravo che subito dopo fossi ucciso;speravo ache che qualcuno mi avrebbe imitato. Tutto il resto non me nefrega niente. La vita è una beffa, un assurdo.” Proseguiva, quindi,dichiarando quanto segue:

di essere fuggito dall’Italia per sottrarsi a un ordine cattura emesso neisuoi confronti dall’autorità giudiziaria di Padova e di essersi rifugiato in unkibbutz in Israele; contrariato dai metodi repressivi di quello Stato, avevapensato di compiere un attentato in danno del primo ministro Golda Mairma vi aveva rinunciato a causa delle difficoltà che l’impresa presentava;durante la permanenza nel kibbutz aveva appreso dell’uccisione delcommissario Calabresi, da lui ritenuto responsabile della mortedell’anarchico Pinelli, non approvando il fato che l’attentatore fossefuggito invece di farsi arrestare.

Di essere arrivato in treno a Milano, proveniente da Marsiglia, verso leore sedici del 16 maggio; nessuno era ad attenderlo, aveva lasciato ilproprio bagaglio alla stazione Centrale e si era diretto in piazza delDuomo dove sperava di incontrare non megli indicati “capelloni”, glistessi che a suo tempo gli avevano procurato il passaporto falso, perchégli indicassero dove trovare alloggio; aveva desistito per la presenza dimolti poliziotti e Carabinieri ed era tornato nei pressi della stazione, invia Vitruvio, dove aveva preso una stanza nella pensione “Italia”esibendo il passaporto falso e confidando che non fosse registrato; datoche la stanza non era pronta e appreso che la pensione rimaneva apertafino all’una di notte, si era messo a girare per la città senza una meta.

Quanto alla mattina del 17 maggio, Bertoli affermava: “mi sono alzatoverso le otto, sono subito uscito, ho acquistato un giornale e ho preso uncaffè. Quando ho acquistato il giornale e ho appreso l’ora dellamanifestazione, ho preso il Metrò e mi sono recato in piazza del Duomo.In piazza del Duomo mi sono informato sulla strada da fare per andare invia Fatebenefratelli e mi sono diretto verso la Questura. Io mi sonodiretto verso la Questura per tirare la bomba. Ammetto quindi lacircostanza che questa mattina io sono uscito dalla pensione con labomba nella tasca destra dei pantaloni. Ammetto di aver tentato dientrare nell’atrio della Questura ma degli agenti mi hanno impedito dientrare. Dopo sono andato in un bar poco distante e ho preso unbrandy..............Preciso che era mia intenzione, una volta entratonell’atrio della Questura, compiere un’azione dimostrativa, nel senso che,a seconda delle circostanze, avrei gridato, una volta portatomi accanto albusto di Calabresi, ^allontanatevi tutti^ tenendo in mano la bomba cheavrei lanciato contro il busto di Calabresi. Se non avessero accolto il mioinvito ad allontanarsi tutti, era comunque mia intenzione fare esplodereugualmente l’ordigno. Ho pensato anche che, nel caso in cui avesserocercato di fermarmi, avrei fatto esplodere l’ordigno su di me e lo stessoavrebbe naturalmente colpito anche gli altri”.

Sull’attentato: “Dato che non ero riuscito a entrare, dopo di essereandato al bar, mi sono riportato davanti alla Questura, sul marciapiedeantistante, o meglio di fronte alla Questura nel lato opposto, proprio nelmomento in cui uscivano le persone che erano intervenute allamanifestazione. Ho visto uscire dei militari e ho chiesto a due agenti chestavano davanti a me se si trattava della manifestazione relativa aCalabresi; gli agenti hanno risposto di si e io, dopo aver detto ^Calabresiè l’assassino di Pinelli^, ho lanciato la bomba verso il portone. Dopo chela bomba è scoppiata, alle persone che mi stavano vicino e che mistavano intorno meravigliate, io ho detto ^sono stato io^, aggiungendoaltre parole che adesso non ricordo. Da quel momento non ricordo benecosa sia accaduto anche perché sono stato circondato dalla follatumultuosa. Sono stato preso e condotto in Questura dove mi hannoarrestato. Quando compii l’atto io ero solo e accanto a me non vi eraalcuna persona che io conoscessi”.

Bertoli proseguiva dichiarando: di essersi procurato la bomba a manoprelevandola, tra altre bombe e armi, in un alloggio di militari nel kibbutzdi Israele; intendeva usarla quando sarebbero andati ad arrestarlo;comunque pensava anche di utilizzarla in un gesto eclatante, precisando:“ quando ho appreso la notizia della morte di Calabresi, ho pensatoanche di fare un attentato dal momento che, a seguito della morte diCalabresi, c’erano state troppe celebrazioni che non si sarebbero dovutefare, perché le decine di migliaia di persone che avevano partecipato aquelle celebrazioni si erano rese solidali con Calabresi, che io ritenevoun assassino. Su questo non ho alcun dubbio”.

Di avere progettato, in un primo tempo, di compiere un attentato a Pisain occasione dell’anniversario della morte di Franco Serantini avvenuta il

7 maggio 1972, ma non era riuscito a trovare alcun mezzo per giungerein tempo in Italia. Quando si era reso conto che non poteva più giungerein tempo utile a Pisa per compiere l’attentato il 7 maggio, aveva “pensatodi compiere l’attentato a Milano in occasione della celebrazione” per ilcommissario Calabresi. Precisava meglio in proposito: “Non mi sonoinformato direttamente sul giorno della celebrazione perché ho pensatoche essendo morto Calabresi il giorno diciassette maggio, certamentenell’anniversario della sua morte ci sarebbe stata una celebrazione. Nonsapevo infatti che durante la celebrazione che ritenevo quasi certa, sisarebbe scoperto un busto di Calabresi nella Questura di Milano”. Bertoli,sul punto, ribadiva: io avevo saputo che stamane vi era l’inaugurazionedel busto di Calabresi avendolo appreso dal Corriere, che avevocomprato questa mattina. La notizia era riportata nella pagina dellacronaca di Milano”.

Si era imbarcato sulla nave “Dan” nel porto di Haifa ed era partito l’8maggio ’73, portando con sé una valigia, una borsa e la bomba a manoche teneva in tasca; prima erano stati controllati i bagagli dopo di che, almomento della perquisizione personale aveva messo la bomba nellaborsa senza essere visto. La nave aveva fatto scalo a Genova dove siera fermata per circa due ore; era sceso a terra e aveva girato per ilporto, proseguendo poi per Marsiglia preferendo sbarcare in quella città.Precisava al riguardo: “feci ciò in quanto temevo che a Genova potessiincontrare qualche poliziotto che scoprisse che il passaporto di cui ero inpossesso era falso e comunque proveniente da furto, per via del numero,pensando che fosse stato segnalato. Inoltre temevo di trovare qualchepoliziotto il quale mi facesse magari delle domande sulla città in cuirisultava rilasciato il passaporto e che io non conoscevo, non essendomai stato a Bergamo”.

A Marsiglia si era trattenuto per due giorni prendendo nell’Hotel “duRhone”, nei pressi della Gare de l’Est, ed era partito alla volta di Milanoalle 6 antimeridiane del 16 maggio. A Marsiglia si era trattenuto per circadue mesi due anni prima, senza una ragione particolare, ma per sottrarsiall’ordine di cattura; in quel periodo aveva vissuto di espedienti e conmezzi illegali, aveva conosciuto persone che non intendeva indicare,infine era stato fermato e identificato dalla polizia dopo di che, nonavendo destato sospetti il passaporto falso di cui disponeva, si erasentito più sicuro e aveva preso una camera nell’Hotel “du Rhone”;sbarcato a Marsiglia, proveniente da Haifa, non aveva incontratonessuna delle persone conosciute due anni prima nella città francese.

Di essere espatriato dall’Italia servendosi di un passaporto falso, quellotrovato in suo possesso al momento dell’arresto e recante il nome diMassimo Magri, che gli era stato procurato da alcuni “capelloni” (dei qualinon era in grado di fornire più precise indicazioni) conosciuti a Milano inpiazza del Duomo; con quel passaporto si era recato a Zurigo, a Ginevra,a Parigi e a Marsiglia.

Rispondendo a una domanda del difensore, Bertoli teneva a precisareche, giunto a Milano per compiere l’attentato, aveva evitato di prendere

contatto con qualsiasi persona, per non compromettere nessuno nellasua azione, trattandosi di un’azione individuale. A fronte della relativacontestazione, ammetteva di conoscere Rodolfo Mersi (un sindacalistadella CISNAL, caposala in un ristorante milanese) e la moglie di questi,di essersi recato nella sua abitazione (in via Pericle n.5) la sera del 16maggio, verso le ore 21, trattenendosi per circa mezz’ora. (per inciso, ilMersi, poche ore dopo l’attentato, si presenterà in Questura per riferiredell’incontro avuto la sera prima con il Bertoli, persona che aveva subitosospettato essere l’autore della strage – n.d.u.). Non escludeva di aver“parlato di bombe” con la moglie del Mersi e precisava di aver conosciutoRodolfo Mersi a Venezia nel 1954/55 quando lo stesso era esponente diun movimento neofascista, trafficava in armi ed era informatore dellaPolizia. Mersi gli si era rivolto perché lui, Bertoli, conosciuto all’epocacome commerciante di armi gliene fornisse alcune. Ammetteva chequella sera si era incontrato con il Mersi il quale, avvertitotelefonicamente dalla moglie della sua visita, era giunto intorno alle ore23,15; aveva trascorso circa due ore a chiacchierare con la moglie e lafiglia del Mersi, raccontando cose fantasiose (“che ero un appartenentead Alfatah, che ero in grado di far saltare il Parlamento, che se midavano centomila lire gli eliminavo la portinaia”) più che altro perscaricare la tensione che era in lui a causa di ciò che avrebbe dovutofare l’indomani.

Di non aver parlato dei suoi propositi con il Mersi, dichiarandotestualmente: “non è vero che ho parlato con il Mersi della celebrazioneche si sarebbe tenuta oggi in Questura. Non ne ho parlato perché ancoranon sapevo bene se quella celebrazione si fosse tenuta o meno. Io ineffetti ero venuto a Milano nella certezza che la celebrazione sarebbeavvenuta il giorno 17, però ieri ho letto i giornali e non vi ho trovatoalcuna notizia in ordine a quella celebrazione; in sostanza io ho avuto lacertezza della celebrazione che sarebbe avvenuta soltanto questamattina leggendo il Corriere della Sera. Non è vero che ho detto al Mersiche ero venuto a Milano per compiere un attentato e che avevo con meuna bomba. Come ripeto, ho parlato di bombe solo genericamente”. Nonescludeva di aver parlato di Calabresi con la moglie del Mersi, maribadiva: “non è vero che ho parlato ai coniugi Mersi dell’attentato cheavevo in mente di compiere. Non è vero nemmeno che io abbia dettoloro che ero in possesso di una bomba.

Di non avere dovuto affrontare alcuna difficoltà per recarsi in Israele:aveva compilato alcuni moduli al consolato di Marsiglia e aveva ottenutoil visto d’ingresso; giunto in Israele aveva chiesto di essere assegnato aun kibbutz, cosa che gli era stata concessa senza particolari formalità.Quanto al periodo di permanenza in quel luogo dichiarava: “sono rimastonel kibbutz per circa due anni. Naturalmente durante questo periodo hofatto delle amicizie, però non intendo fare alcun nome delle persone cheho conosciuto e con le quali ho trattenuto rapporti di amicizia, perché nonvolgio coinvolgerle in questi fatti”. Nel periodo di permanenza nel Kibbutznon aveva avuto alcun contatto con italiani.

Gianfranco Bertoli, due giorni dopo, affermava di aver lanciato la bombaquando aveva visto uscire dal portone della Questura alcuni UfficialiSuperiori, precisando inoltre: “nel caso in cui io fossi riuscito a entrare inQuestura speravo di eliminare il Ministro e tutte le autorità presenti, inparticolare speravo che fosse presente il dr. Guida e il dr. Amati che ioavevo intenzione di eliminare in quanto, secondo me, essi si erano resiresponsabili della morte di Pinelli”. Ribadita la propria intenzione dicolpire il gruppo delle Autorità, riteneva che l’errore nel lancio dellabomba fosse da attribuire alla concitazione del momento e al timore chel’ordigno, una volta tolta la sicura, gli esplodesse in mano. Ammetteva diaver parlato di bombe con la Di Lalla (moglie di Rodolfo Mersi) ma,quanto ai suoi propositi per la mattina del 17 maggio, dichiarava: “negoancora una volta di aver detto al Mersi e alla moglie che avevointenzione di compiere un attentato l’indomani mattina in occasione dellacelebrazione dell’anniversario della morte di Calabresi. Non gliel’ho dettoanche perché temevo che egli avrebbe potuto avvertire la polizia”.

Quanto al suo soggiorno a Marsiglia, dal 13 al 16 maggio, Bertoliconfermava di aver gironzolato per la città senza una meta precisa, inattesa di prendere il treno per Milano, e di non avere incontrato nessunapersona di sua conoscenza. Così concludeva l’interrogatorio: “Ribadiscoancora una volta che ho agito da solo, che dietro di me non c’è nessuno,che non faccio parte di alcuna organizzazione e che non vi ho mai fattoparte essendo contrario al principio stesso di organizzazione.

Ribadisco altresì che nessuno mi ha detto che il giorno 17 maggio 1973ci sarebbe stata la celebrazione per l’anniversario della morte diCalabresi”.

Nel succedersi degli interrogatori Gianfranco Bertoli, spontaneamente oa specifiche domande, forniva ulteriori particolari e precisazioni:

durante la permanenza nel kibbutz aveva conosciuto i fratelli Jemmi,Michael e Jacques, negava di aver fatto parte del movimento “Pace eLibertà” come del gruppo “Ordine Nuovo”; aveva lasciato il propriobagaglio alla stazione Centrale di Milano ritenendo di non avernebisogno dato che, se la mattina del 17 maggio avesse compiutol’attentato, sarebbe morto o sarebbe stato arrestato (al P.M. interr.21.5.1973);

aveva conosciuto i fratelli Jemmi nel marzo 1971, ospiti anche loro delkibbutz, instaurando rapporti di amicizia data la comune ideologia disinistra; i due erano stati allontanati dal kibbutz, a seguito di una lite permotivi religiosi avvenuta con tale Claude, e riteneva si fossero recatiprima in Grecia e poi a Parigi; li aveva rivisti nell’autunno ’72 quando liaveva ospitati, di nascosto, nel suo alloggio. Si era allontanato dalkibbutz in varie occasioni, per recarsi in città di Israele, per tre giorni almassimo ma il più delle volte rientrando in giornata. A Marsiglia avevaalloggiato per tre notti nell’Hotel “du Rhone”, pagando la stanza diecifranchi a notte, e nel suo girovagare per la città non aveva avuto contatti

con alcuno. Sempre sull’attentato ribadiva: “il mio obiettivo esclusivo eraquello di provocare la morte delle Autorità che partecipavano a quellacelebrazione” (al P.M. interr. 24 maggio ’73).

Dall’interrogatorio reso al Giudice Istruttore il 1° giugno ’73: “era miaintenzione gettare la bomba in mezzo agli ufficiali di P.S. che stavanouscendo dal portone in quel momento e dietro ai quali supponevo cifossero le Autorità”................”Confermo che a casa del Mersi arrivaiintorno alle 21..........il Mersi arrivò alle 23,15 , io andai via alle 23,55circa.......avevo telefonato alla signora Mersi alle ore 20,30 prima diandare. Poco dopo il mio arrivo la signora Mersi telefonò al marito ilquale ci chiese di raggiungerlo al ristorante ma, per ovvi motivi, io nonvolli andare e preferii aspettarlo. Mi sembra che la signora Mersi telefonòuna sola volta al marito. Non mi pare che la signora Mersi ricevette altratelefonata mentre io ero lì”..........”Telefonai al Mersi perché, essendo inuno stato di tensione, desideravo che qualcuno mi chiamasse con il mionome. Inoltre in quel momento non ero sicuro che ci sarebbe stata unaqualche manifestazione in memoria di Calabresi; la mia sicurezzaprecedente aveva vacillato per il fatto che sui giornali non era riportataalcuna notizia sulla celebrazione. Comunque considero la mia visita alMersi una debolezza”...........”durante la conversazione con il Mersi nonfeci alcun riferimento specifico alla celebrazione che vi sarebbe stata ilgiorno seguente........Non riesco a capire come, subito dopo il lancio dellabomba, il Mersi abbia immediatamente intuito che ero stato io, pur nonconoscendo le caratteristiche di chi aveva compiuto il gesto”.

Alla contestazione che tale Shusterman e un suo amico, ospiti delkibbutz, avevano affermato che lui, Bertoli, aveva detto di avere unappuntamento a Parigi per il 15 maggio, replicava: “è probabile che abbiadichiarato ciò, ma ho dichiarato il falso perché non avevo alcunappuntamento”. Negava di aver detto ai due di aver paura di essereucciso e di aver ricevuto una lettera dalla Francia e del denaro dall’Italia(“avendo una concezione nichilista della vita, non posso aver paura dimorire. Escludo di aver deciso di partire dopo aver ricevuto una letteradalla Francia. E’ probabile che i miei discorsi siano stati fraintesi perchémi esprimevo male in ebraico”). Ribadiva di aver dormito tre nottinell’hotel “du Rhone” contrariamente a quanto affermato dalla titolaresecondo la quale egli aveva trascorso nell’albergo una sola notte.

Quanto al giorno dell’attentatto: “andai alla pensione in via Vitruvio tra leore 0,30 e le ore 0,45. La mattina seguente uscii alle ore 8 circa. Appenauscito andai alla stazione a comprare il giornale dove appresi dellamanifestazione.......sapevo che la cerimonia era alle 10,30 e non volevoarrivare prima per evitare di essere notato.....arrivai in viaFatebenefratelli, passando per via Manzoni, alle 10,45 circa. Lacerimonia era già iniziata.........Pensavo che la celebrazione sarebbedurata ancora per parecchio, almeno fino a mezzogiorno. Entrai in un bardistante circa 50 metri e presi un cognac. Uscito dal bar mi resi conto chela cerimonia era già finita e la gente stava uscendo. Mi portai sulmarciapiede opposto di fronte all’ingresso”. Aveva lanciato la bomba

quando alcuni poliziotti, ai quali si era rivolto, gli avevano confermato chesi trattava della cerimonia per il commissario Calabresi. Lanciandol’ordigno aveva gridato “Calabresi è l’assassino di Pinelli. Viva l’anarchiae viva la rivoluzione”.

(interr. G.I. 14.6.1973) ..........“confermo che la sera precedente io nonsapevo che vi sarebbe stata la manifestazione; la mia era solo unasupposizione, anzi dico una certezza morale. E’ probabile che abbiadetto, lasciando la casa del Mersi, ^se non mi ammazzano ci vediamo tradieci anni^. Escludo di aver detto al Mersi che avevo paura che miammazzassero mentre dormivo...........Se dovevo essere ammazzato,pensavo che ciò sarebbe avvenuto nell’esecuzione del mio attentato enon altrimenti”.

“La mia aspirazione era di gettare la bomba nel momento in cui c’era lamassima autorità presente; sarei stato lieto di gettare la bomba versoRumor. Purtroppo non mi accorsi del momento in cui uscì dal cortileperché ero nel bar”.

Alla contestazione delle dichiarazioni rese da Augusta Farvo(strettamente legata ad ambienti anarchici milanesi – n.d.u.), Bertolinegava di aver preso contatto con costei verso le 18,30 del 16 maggio’73 sostenendo di non conoscere la donna e di non averne mai sentitoparlare, spiegando che probabilmente si trattava di un equivoco o diqualcuno che mentiva per suoi fini particolari.

Bertoli sarà sentito ancora dal Giudice Istruttore (25.7 e 3.10 1973,17.1, 19.2, 24 e 25.6.1974) per rispondere in ordine a fatti, consideratirilevanti, man mano emersi dalle indagini, relativi in particolare allemodalità dell’espatrio in Israele, alla permanenza nel kibbutz, alledichiarazioni di alcuni testimoni circa i suoi mantenuti rapporti conpersone in Italia e sulle ragioni che lo avevano indotto a partire perMarsiglia.

Se ne tratterà, quando occorra, nel prosieguo della motivazione. Almomento, però, l’attenzione della Corte deve rivolgersi a una prima efondamentale verifica: l’attendibilità o meno della versione dei fatti fornitada Gianfranco Bertoli con le dichiarazioni rese in occasione dei richiamatiinterrogatori.

Quegli stessi elementi di dubbio che, già a suo tempo, furonoprospettati dal Giudice Istruttore nonché dalla Corte d’assise di Milanoche giudicò l’autore materiale della strage di via Fatebenefratelli e cheresero necessarie ulteriori approfondite indagini in ordine all’esistenza dimandanti dell’attentato e alla loro individuazione, del che si è occupata lalunga istruttoria sfociata nel processo contro gli attuali imputati, nonpossono non essere condivisi da questa Corte, confortata in propositodalle conclusioni, su punti particolarmente significativi, cui sono giunti igiudici di legittimità con la sentenza di annullamento.

Prescindendo, per il momento, dalle numerose incongruenze econtraddizioni di cui appare infarcita la versione ripetutamente sostenutada Gianfranco Bertoli, uno dei punti più significativi, per illogicità einverosimiglianza, di quella versione è senz’altro quello attinente allaideazione dell’attentato, vale a dire al tempo, ai modi e alle circostanze incui maturò nel Bertoli il proposito di compiere il gesto criminale inoccasione della cerimonia, fissata per quel 17 maggio 1973, in memoriadel commissario Luigi Calabresi.

Il tema, poco approfondito se non trascurato nella sentenza di primogrado, merita ora una compiuta disamina: deve ritenersi assurdo, pertanto assolutamente incredibile, quanto sostenuto da Bertoli circa ilprogetto, meditato e deciso quando ancora si trovava nel kibbutz diKarmia, di esprimere in concreto la propria personale protesta di“anarchico individualista” contro le Autorità statuali e contro la societàritenuta ingiusta mediante un gesto eclatante, il lancio di una bomba, dacompiere in occasione della commemorazione del dr. Calabresinell’anniversario della sua uccisione. Un progetto che, secondo leripetute affermazioni dello stesso Bertoli, aveva come presupposto per lasua realizzazione il presentarsi dell’unica occasione possibile,rappresentata nella specie dalla cerimonia che si sarebbe svolta allaQuestura di Milano il 17 maggio ’73.

Orbene, Bertoli ha sostenuto, e più volte ribadito, di avere soltantosperato e confidato che la cerimonia vi sarebbe stata, essendo cosaovvia e logica - a suo dire - che a distanza di un anno dalla morte nonsarebbe certamente mancata la commemorazione del Commissariovittima del terrorismo.

Sicché, sempre seguendo il suo racconto e attribuendogli un purminimo credito, Bertoli avrebbe raggiunto Milano nel pomeriggio del 16maggio senza neppure sapere se le condizioni e l’occasione per attuareil suo proposito si sarebbero verificate. E infatti è lo stesso Bertoli aspiegare, prima al P.M. poi al Giudice Istruttore, che solo verso le ore 8del 17 maggio ’73 aveva appreso, dalla lettura del Corriere della Sera,che nella mattinata stessa si sarebbe tenuta la cerimonia nel cortile dellaQuestura in via Fatebenefratelli. Appresa quella notizia e avuta confermadella propria previsione, meglio definita - usando le sue parole - “unasupposizione, anzi una certezza morale”, Bertoli si era recato in piazzadel Duomo e di qui in via Fatebenfratelli percorrendo via Manzoni.

L’autore dell’attentato stragista ha sempre sostenuto, e lo ha fatto concontinui riferimento alle proprie scelte filosofiche e politiche, di aver alungo meditato di compiere un gesto eclatante, quello appunto di lanciareuna bomba, per vendicare la morte dell’anarchico Pinelli e in segno diprotesta contro tutti coloro che, Autorità o comuni cittadini, avevanomanifestato cordoglio e indignazione per l’uccisione del commissarioCalabresi, da lui ritenuto responsabile dell’uccisione del Pinelli.

Per il vero, della serietà e fermezza di un tale proposito è quanto menolecito dubitare considerato che, stando alle sue stesse dichiarazioni,Bertoli, poco prima di intraprendere il viaggio da Haifa a Marsiglia, aveva

anche pensato di eseguire l’attentato a Pisa nell’anniversario della mortedell’anarchico Serantini, rinunciando al progetto per la contingenteragione di non aver trovato un mezzo di trasporto che gli consentisse diessere a Pisa in tempo utile.

E’ allora lecito, se non doveroso, domandarsi quale dei due progettistesse a cuore al Bertoli: chi intenedeva vendicare, Serantini o Pinelli ?contro chi intendeva protestare facendo esplodere la bomba, contro lasituazione che determinò la morte del Serantini (avvenuta nel corso discontri con le forze dell’ordine) o contro le Autorità e cittadini milanesi ?

Ma non si tratta degli unici interrogativi. Ve ne sono altri, correlati conaltrettante incongruenze, che le dichiarazioni del Bertoli pongono comeineludibili: è mai possibile, o anche soltanto verosimile, che un’azionetanto grave, e tanto “importante” nelle intenzioni dell’autore (l’attentatonel corso della cerimonia per il commissario Calabresi), che l’attuazionedi un progetto tanto a lungo meditato e assurto a gesto nobilitante econclusivo (Bertoli, sono sue parole, aveva messo in conto di poteressere ucciso nel corso o a seguito dell’azione) fosse affidata al caso, alverificarsi di una condizione ipotizzata o sperata ma della quale il Bertoli,per sua stessa ammissione, non aveva la minima certezza ?

Si può ragionevolmente credere che l’autore dell’attentato non solo sifosse procurato la bomba a mano (sottraendola a dei militari !) mal’avesse anche a lungo conservata e occultata, l’avesse poi portata consé facendo ricorso a inverosimili stratagemmi, comunque correndo ilgrave rischio di esserne trovato in possesso, nella prospettiva dicompiere un’azione contemplata in termini di mera possibilità ?

Come è possibile non rilevare l’evidente incongruenza di un Bertoli cheda un lato, a suo dire, si guarda bene dallo sbarcare dalla nave “Dan” aGenova, pur potendo farlo, ma prosegue per Marsiglia per evitare diessere fermato dalla polizia per via del passaporto falso o per lapendenza dell’ordine di cattura, e dall’altro affronta i rischi connessi agliulteriori controlli di frontiera cui sarebbe stato sottoposto ? Per quantoastuto nell’occultare l’ordigno, ora nel bagaglio ora sulla persona, potevaessere scoperto e allora come avrebbe spiegato il possesso, non di uncoltello o di una pistola, ma di una bomba ? E tale rischio Bertoli avrebbecorso consapevolmente per compiere qualcosa che, lo afferma luistesso, gli si presentava come assolutamente incerta ?

E ancora: se è vero, come è vero, che il viaggio da Israele fuorganizzato meticolosamente da Bertoli per consentirgli di sbarcare aMarsiglia il 13 maggio e, sopratutto, di essere a Milano nel pomeriggiodel giorno 16, per tanto proprio nell’imminenza della cerimonia inQuestura, come conciliare tutto ciò con la semplice speranza(“supposizione o certezza morale” che dir si voglia) che quella cerimoniavi sarebbe stata ?

Infine, come è possibile credere che un simile attentato, tanto gravenegli effetti e significati ma altrettanto “importante” per chi si apprestava acompierlo, possa essere dipeso nella decisione e nellaesecuzione..........dalla lettura di un quotidiano? E se la notizia della

cerimonia (confinata nella pagina della cronaca milanese) gli fossesfuggita, cosa ne avrebbe fatto Gianfranco Bertoli della sua tantoagognata azione eclatante, da eseguire - secondo i suoi dichiaratipropositi - non a caso, cioè contro innocenti cittadini, ma controrappresentanti dello Stato ? si sarebbe tenuta la bomba in tasca in attesadi altra favorevole ed altrettanto ipotetica occasione ?

La risposta a quest’ultimo interrogativo è fornita dallo stesso Bertoli: “sela celebrazione non vi fosse stata, me ne sarei andato” !

Si tratta di interrogativi che trovano conclusiva risposta solonell’assoluta inattendibilità delle dichiarazioni rese dal Bertoli sullospecifico punto in esame, in quanto illogiche, incongruenti e inverosimili,implicanti necessariamente una versione menzognera dei fatti, che dovràessere compresa e spiegata.

Prima ancora, però, occorre soffermarsi sui fatti della sera del 16maggio quando cioé il Bertoli, previo accordo telefonico con la Di Lalla, sirecò nell’abitazione di Rodolfo Mersi in via Pericle 5 e vi si trattenne finverso le 23,50 prima di prendere la metropolitana diretto alla stazioneCentrale. L’autore dell’attentato, all’inizio del suo primo interrogatorio, haimplicitamente escluso quell’incontro affermando che a Milano, prima dicompiere la strage alla Questura, non aveva preso contatto con alcuno.Ammetterà poi di essersi recato a casa del Mersi, sua vecchiaconoscenza fin dai tempi in cui abitava a Venezia, intrattenendosi percirca mezz’ora con la Di Lalla e la figlia di questa e, infine, che la visita siera protratta fin verso mezzanotte, di aver rifiutato l’invito di Mersi -avvertito telefonicamente dalla moglie della sua presenza - diraggiungerlo al ristorante “Alfio”, preferendo attenderne il rientro.

Nonostante i ripetuti interrogatori del Mersi, della moglie e della figlia,non è stato possibile chiarire del tutto le ragioni e lo scopo di quellavisita, spiegata dal Bertoli, in modo ben poco convincente, con ildesiderio di parlare con “qualcuno che lo chiamasse per nome”. Tuttavia,prescindendo da tale mancato accertamento, anche dall’episodio inquestione si traggono elementi a conferma della falsità dell’assunto diBertoli di aver appreso della cerimonia in Questura solo la mattina del 17maggio dalla lettura del Corriere della Sera e di avere deciso, sedutastante, di compiere l’attentato.

Innanzitutto, dopo averlo inizialmente negato, Bertoli ha finito perammettere di aver parlato con la Di Lalla della bomba che aveva con sé;lo avrà pur detto per scherzo, ma sta di fatto che la donna ritenneopportuno informarne immediatamente il marito al suo rientro; haammesso anche di aver parlato del commissario Calabresi e, infine, diaver detto a Rodolfo Mersi, al momento del commiato, che se “non loavessero ammazzato, si sarebbero visti dopo dieci anni”.

Si tratta di comportamenti che non possono diversamente spiegarsi senon con il fatto che Bertoli, la sera del 16 maggio già sapeva, con tuttacertezza, ciò che avrebbe compiuto la mattina successiva, al punto di

dare per scontata la possibilità di essere ucciso o arrestato e di nonnascondere il possesso della bomba, anzi vantandosì di averla con sé,naturalmente scherzando. Uno scherzo, si osserva, talmente ben riuscito(unitamente ai discorsi su Calabresi e all’ipotesi dell’arresto o di essereammazzato) che indurrà il Mersi, la stessa mattina dell’attentato, aprecipitarsi in Questura per fornire informazioni sul suo amico Bertoli(quando non era stato ancora reso noto il nome dell’attentatore), nelcaso fosse stato proprio lui a lanciare la bomba; il tutto in piena sintoniacon le dichiarazioni del teste Mazzari, collega di lavoro del Mersi,secondo cui quest’ultimo - appresa la notizia di quanto accaduto in viaFatebenefratelli - aveva immediatamente collegato i due fatti, cioél’attentato e la visita della sera precedente, manifestando la quasicertezza che autore dell’attentato fosse il “figlio del giudice”, cioé Franco“il bidone” (significativo soprannome con cui Mersi conosceva GianfrancoBertoli).

A questo punto è giocoforza chiedersi per quale ragione Bertoli abbia

mentito in modo tanto evidente quanto gratuito (fu lui stesso a dire,spontaneamente, quando e come aveva appreso della cerimonia che sisarebbe svolta nel cortile della Questura) nel fornire la sua versione sulpunto in esame e, in seguito, nell’insistervi ostinatamente. La veraragione, ad avviso della Corte, può essere desunta dalla lettura deinumerosi interrogatori nei quali è apparso evidente come GianfrancoBertoli si sia preoccupato innanzitutto di sostenere di avere agito da solo,senza l’appoggio di alcuno, senza essere parte di qualsivogliaorganizzazione; lo ha fatto fin dall’inizio delle sue dichiarazioni e, consingolare insistenza, è tornato più volte sull’argomento, in particolarecercando in tutti i modi di fornire di sé un’immagine “romantica”, per nondire eroica, per dipingersi come idealista desideroso di far giustizia deimali di un sistema statuale da lui ritenuto colpevole della morte di uncompagno innocente, disposto ad assumersi fino in fondo - anchesacrificando la propria vita - la responsabilità di un gesto estremo diprotesta.

Per sostenere la propria versione, quella cioè dell’”anarchicoindividualista” che aveva agito da solo, per iniziativa esclusivamentepersonale, Bertoli non aveva altra scelta se non quella di affermare chel’occasione per compiere l’attentato gli si era presentata, in modo deltutto occasionale, nel momento in cui, meno di tre ore prima della strage,aveva appreso dal Corriere della Sera che vi sarebbe stata la cerimoniain memoria del commissario Calabresi. Non poteva certo sostenere,smentendo se stesso, di averne avuto notizia mentre si trovava nelkibbutz di Karmia - dove a suo dire non aveva avuto rapporti di nessungenere con persone abitanti in Italia, dove al più aveva ricevuto qualcherivista e dove non aveva messo a parte nessuno dei suoi progetti - tantomeno che altri - a Marsiglia o a Milano dove, sempre a suo dire, nonaveva incontrato nessuno ( a parte il Mersi) - gliene avevano fornitoconferma.

Secondo questa Corte l’unica logica conclusione che può trarsi da tuttoquanto detto finora è quella che Gianfranco Bertoli mentì sul punto inquestione e che la menzogna non fu, ovviamente, fine a se stessa maspiegabile solo se intesa come diretta ad accreditare l’insistitaaffermazione, altrettanto falsa, dell’iniziativa autonoma e strettamentepersonale.

Fornire una falsa rappresentazione dei fatti implica che quei fatti sisvolsero diversamente e che, mentendo, si intese occultare la verità.Nella specie, la ritenuta inattendibilità della versione di Bertoli circa ilmodo e il tempo della decisione di attuare il progetto criminoso rendenecessario accertare l’effettiva realtà dei fatti, con ciò intendendol’esistenza di un piano delittuoso altrove e da altri ideato e, diconseguenza, l’individuazione dei possibili mandanti che armarono lamano dell’esecutore materiale dell’attentato del 17 maggio 1973.

Gianfranco Bertoli non mentì soltanto sul punto che si è testéesaminato, per altro da considerarsi dato cruciale del suo racconto, manon disse il vero su altri particolari di non poco conto, quegli stessi che aragione destarono i dubbi sia del Giudice Istruttore che della Corted’assise e che ora si ripropongono a questo Giudice di rinvio, sollecitatoin proposito dalle indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione con lasentenza di annullamento.

I dubbi di che trattasi riguardano in particolare: 1) come e dove Bertolientrò in possesso della bomba mano poi utilizzata nell’attentato di viaFatebenefratelli; 2) le ragioni che indussero Bertoli a non sbarcare aGenova ma a recarsi a Marsiglia, dove si sarebbe trattenuto per tregiorni, e chi eventualmente incontrò nella città francese; 3) seeffettivamente Bertoli, come dallo stesso sostenuto, rimaseininterrottamente dal 26 febbraio ’71 al maggio ‘73 nel kibbutz in Israeleovvero se ne allontanò, anche per brevi periodi, per recarsi in Italia oaltrove; 4) i rapporti avuti con i Servizi segreti italiani (SIFAR) in qualità diinformatore e la loro effettiva durata; 5) le modalità dell’espatrio inIsraele.

Quanto al primo dei punti sopra elencati la Corte condivide le ragioni diperplessità già a suo tempo manifestate dal Giudice Istruttore circa ilfatto che Bertoli si sia effettivamente procurato la bomba a mano mentresi trovava nel kibbutz in Israele. Se dalle indagini istruttorie, svolte inproposito, da un lato è risultato che l’ordigno esplosivo era certamente diproduzione israeliana (come è stato possibile desumere dalle iscrizioniesistenti sulla linguetta recuperata dopo l’attentato e dai relativiaccertamenti), dall’altro (rapporto 14.6.73 del Reparto Unità Speciali –R.U.S. – che aveva svolto indagini in Israele) è stato escluso non soloche fossero avvenuti furti di armi o munizioni nell’armeria del kibbutz maanche che in quell’armeria fossero state custodite bombe; così pure èstato escluso che, nel periodo che qui interessa (circa un anno prima del

17 maggio 1973, come indicato dal Bertoli), che nelle vicinanze delkibbutz vi fossero state esercitazioni militari con lancio di bombe a mano.

Orbene: se l’armeria del kibbtz di Karmia non disponeva di bombe,deve ritenersi quanto meno improbabile che ne disponessero, a titolopersonale, dei militari di stanza in quel luogo; sicché appare ben pococredibile la versione di Bertoli su come e quando si sarebbe procurata labomba, versione per altro - come già rilevato dal G.I. – apparsa da subitoestremamente generica (“in un alloggio di militari” – “non ricordo bene inquale posto in particolare io abbia sottratto la bomba; mi sembra accantoa un letto ove vi erano altre bombe”), diversamente da altri punti del suoracconto in cui Bertoli aveva dimostrato ottima memoria e grandeprecisione, anche nel riferire minimi particolari.

Inutile ripetere quanto già si è detto circa l’assoluta inverosimiglianzadel trasporto dell’ordigno attraverso varie frontiere, in primis quellaisraeliana dove i controlli erano meticolosi, con i rischi del caso, nonchèdegli improbabili trucchi per occultare la bomba ed evitare che fossetrovata nelle perquisizioni; è bene, invece, prestare attenzione al fattoche Bertoli, non estraneo al traffico di armi (come dallo stesso ammessoe come attestato dai suoi precedenti) avrebbe potuto procurarsi la bombaa mano, più facilmente e con minori rischi, sia a Marsiglia che a Milano.Ci si riserva di tornare sul punto, tra l’altro specificamente indicato dallaSuprema Corte come meritevole di ulteriori accertamenti, ma fin d’orapuò trarsi la conclusione che, pur non potendosi individuare con certezzatempo e circostanze in cui l’autore dell’attentato si procurò l’ordignoesplosivo, la versione di Gianfranco Bertoli deve ritenersi scarsamente,se non del tutto, inattendibile.

Altrettanto inattendibile, perché non adeguatamente spiegata, e in partefalsa, la versione del Bertoli circa le ragioni del viaggio a Marsiglia e dellapermanenza per tre giorni in quella città. Innanzitutto è difficile, se nonimpossibile, comprendere per quale motivo Bertoli non approfittò dellasosta di circa due ore che la nave “Dan”, su cui era imbarcato, avevafatto a Genova. Visto che, secondo le sue dichiarazioni, lo scopo delviaggio era quello di raggiungere Milano per compiere l’attentato lamattina del 17 maggio, sarebbe stato per lui molto più agevole, oltre chemeno rischioso, sbarcare a Genova e di lì proseguire per il capoluogolombardo. Bertoli ha tentato di spiegare la strana scelta di non sbarcare edi proseguire per Marsiglia con il timore di essere identificato ed arrestatoper via del passaporto falso e per la pendenza dell’ordine di catturacontro di lui emesso nel 1971 dalla Procura di Padova (cioé quello stessoprovvedimento che lo aveva indotto a fuggire dall’Italia e a riparare inIsraele). Tale spiegazione, ad avviso della Corte, non regge a unavalutazione che sia sorretta da un minimo di logica: va da sé che per chiusufruisce di un passaporto falso i rischi di essere scoperto aumentanoprogressivamente in proporzione all’uso di quel documento, sicché ècosa evidente che Bertoli avrebbe corso ulteriori e maggiori rischi,recandosi a Marsiglia e poi in Italia, rappresentati da almeno altri due

controlli alle frontiere. E’ poi assolutamente incredibile che la scelta dinon sbarcare a Genova sia stata suggerita dal timore di essere arrestatoin esecuzione dell’ordine di cattura, dato che per i fatti che ne avevanodeterminato l’emissione egli era stato assolto; è ragionevole ritenere chedi ciò fosse a conoscenza, sia per l’ovvio interesse che egli doveva avereper l’esito di quella vicenda giudiziaria che lo aveva indotto a fuggireall’estero, sia essendo risultato provato che Bertoli, nel periodo dipermanenza nel kibbutz, aveva ricevuto lettere dall’Italia (da Mestre eVenezia in particolare) con le quali ben poteva aver ricevutol’informazione di che trattasi. Ma, se così non fosse stato, Bertoli nonavrebbe corso l’identico rischio di essere arrestato al posto di frontiera traFrancia e Italia nel viaggio da Marsiglia a Milano ?

E’ allora evidente che ben altri erano i motivi per i quali il Bertoli dovevarecarsi nella città francese, non certo quelli, che lo stesso ha sostenuto etentato di accreditare, che lo avevano indotto a non sbarcare a Genova.

Gianfranco Bertoli ha sempre sostenuto che, durante la permanenzanel kibbutz, non aveva mai avuto rapporti con italiani, che nessuno inItalia era a conoscenza di dove egli si trovava in quel periodo di tempo, diaver avuto contatti epistolari unicamente con persone che avevaconosciute nel kibbutz (delle quali, per non coinvolgerle, non avevainteso fare i nomi). Sul punto Bertoli ha mentito essendo risultato(testimonianze Weinberg e Azzolai) che egli riceveva lettere dall’Italia,una delle quali - come attestato da un francobollo regalato dal Bertoli aun bambino nel kibbutz - sicuramente proveniente da Mestre. Sempre intema di lettere, il teste Weinberg ha dichiarato che Bertoli gli avevaconfidato che “doveva ricevere una lettera che avrebbe determinato lasua partenza da Israele”, una lettera importante che avrebbe indicato iparticolari del viaggio; Bertoli gli aveva poi confermato che quella letteraera effettivamente arrivata e che, per tanto, doveva partire. Al testeShustermann il Bertoli aveva detto che doveva trovarsi in Francia il 15Maggio, dove era atteso da un compagno, precisando che dovevaessere “assolutamente” in Francia per quel giorno, che temeva di nongiungere in tempo all’appuntamento e che “forse”, dopo, sarebbe andatoin Italia.

Altrettanto menzognera l’affermazione di Bertoli di avere dormito per trenotti nell’Hotel “du Rhone” a Marsiglia: secondo la testimonianza dellaproprietaria dell’albergo, Sassi Virginia, egli aveva lasciato il bagaglio,aveva pagato quanto dovuto per tre notti ma aveva dormito nell’hotel unasola notte, ritirando i bagagli la mattina del 16 maggio, alle ore 6, vale adire nell’imminenza della partenza per Milano.

Cosa Gianfranco Bertoli abbia fatto in quei tre giorni trascorsi aMarsiglia, o altrove in Francia, e con chi possa essersi incontrato, non èstato possibile accertare. L’interessato non ha fornito al riguardoalcunché di preciso e verificabile, limitandosi a dire di aver “gironzolato”per Marsiglia (per tre giorni ! n.d.u.) e di non avere incontrato nessunadelle persone conosciute durante il precedente soggiorno di circa duemesi, prima della partenza per Israele. Le indagini non hanno consentito

positivi accertamenti in proposito ma dal racconto non veritiero del Bertolila Corte ritiene di poter concludere che lo stesso avesse mantenutorapporti con persone in Italia, che dovesse partire dal kibbutz per trovarsia Marsiglia il 15 maggio ’73 per ivi incontrarsi con qualcuno, non appenagli fosse giunta una lettera di cui era in attesa, che avesse preso contattocon persone, da lui conosciute, in quella città o in altro luogo dellaFrancia tenuto conto della non spiegata permanenza di tre giorni e dellafalsa affermazione delle tre notti trascorse nell’Hotel “du Rhone”.

Per tanto, anche per quanto attiene a questa parte del racconto, laversione di Gianfranco Bertoli Bertoli deve essere consideratainattendibile e volta a nascondere la verità dei fatti.

Un altro punto, particolarmente significativo ai fini della verifica diattendibilità delle dichiarazioni del Bertoli, sul quale la Corte diCassazione ha richiesto al giudice di rinvio un giudizio più attento eaderente agli elementi di prova acquisiti, riguarda l’asserita permanenzaininterrotta nel kibbutz di Karmia nei circa due anni che precedettero ilmaggio 1973. In proposito Bertoli ha riferito di assenze temporanee, ingenere di un giorno o al massimo di tre, per sottoporsi a terapie medicheo per visite a città israeliane, escludendo quindi di avere lasciato ilterritorio di Israele per tornare, anche se temporaneamente, in Italia o perrecarsi altrove.

Si tratterà dell’argomento in forma schematica considerato, da un lato,che i giudici di legittimità censurando le argomentazioni della sentenzaannullata, pur riservando al giudice di merito la compiuta valutazionedegli elementi di prova emersi dalle indagini e contrastanti con laversione del Bertoli, in sostanza ne hanno già tracciato la corretta lineainterpretativa e, da altro lato, che l’accertamento in questione ha ormaiperso, almeno in parte, l’originario valore indiziante (o, se si vuole, diriscontro ad altrui dichiarazioni). Si intende dire, con ciò, che la provatapresenza del Bertoli in Italia (o anche in Francia), per periodi più o menolunghi, tra il 1971 e il maggio ’73 era, e sarebbe, di importanzafondamentale se posta in relazione a quanto dichiarato da Carlo Digiliosulla permanenza del Bertoli per circa una settimana nell’abitazione diMarcello Soffiati a Verona, dove lo stesso sarebbe stato convinto epreparato dagli odierni imputati a compiere l’attentato contro il Ministrodegli Interni On. Mariano Rumor. La Suprema Corte non ha consentito diutilizzare quelle dichiarazioni, ritenute contraddittorie e nonadeguatamente riscontrate, sicché l’accertamento de quo vede limitata lapropria valenza, come altri elementi di valutazione, alla verifica diattendibilità della versione di Gianfranco Bertoli ovvero, più in particolare,alla concreta possibilità che lo stesso, in quei due anni, abbiaeffettivamente mantenuto contatti (non soltanto epistolari) con persone inItalia.

Gli elementi di prova contrastanti con l’affermazione di Bertoli di nonavere mai lasciato Israele dal 26 febbraio 1971 all’8 maggio 1973,secondo la Cassazione “sottovalutati, talvolta avventurandosi incongetture non fondate sui fatti evidenziati, ma conseguenza di unalettura sin dall’inizio incredula”, sono i seguenti: - la presenza di Bertoli aMarsiglia non solo l’8 gennaio 1971 (quando fu identificato dalla localePolizia) e il 13 maggio ’73 (proveniente da Haifa) ma anche dal 10 al 20novembre 1971, periodo in cui alloggiò nell’Hotel “du Rhone” - latestimonianza di Santolo Serra il quale avrebbe visto il Bertoli a Pariginell’agosto ’71 - quella del teste Borelli che lo avrebbe incontrato aRecco nel maggio 1973 - quella di Martino Siciliano di aver visto il Bertolia Spinea nella trattoria “Graspo de uva” nel 1972 - infine, latestimonianza dei fratelli Giorgio e Tommaso Sorteni i quali hannoaffermato di avere incontrato Bertoli a Venezia (o a Mestre) tra il 25maggio e l’8 giugno 1972.

Il soggiorno di Gianfranco Bertoli a Marsiglia tra il 10 e il 20 novembre1971 era risultato dalla nota UCLAT che trasmetteva le informazionifornite dalla polizia francese il 30.3.1992 ricavate dalle annotazioni diarchivio presumibilmente riferite alle notizie giornalmente fornite daglialbergatori e memorizzate nei registri della Polizia. Di contro Bertoli, findal suo primo interrogatorio, aveva sostenuto di aver preso alloggionell’Hotel “du Rhone” l’8 gennaio 1971, cioè il giorno in cui, controllatodalla Polizia, aveva ritenuto di non correre più rischi utilizzando ilpassaporto falso in suo possesso. Dall’informativa in questione è invecerisultato che Bertoli nel gennaio ’71 non aveva dormito in quell’albergoma, più verosimilmente, presso amici che lo avevano aiutato aespatriare.

Tra le due contrastanti tesi deve essere privilegiata quella fornita dagliorgani inquirenti francesi, maggiormente affidabile e priva di interessiparticolari. In tal senso si è esplicitamente pronunciata la Corte diCassazione (pag. 16 della sentenza di annullamento) la quale, tra l’altro,ha stabilito che “la nota informativa della polizia francese ha carattere diprova in ordine ai fatti accertati, indipendentemente da eventuali vizi diforma attinenti alle modalità con cui è stata richiesta e trasmessa”aggiungendo su quest’ultimo punto che “l’autorità giudiziaria italianaaveva chiesto in precedenza opportuni accertamenti, attraverso la formadella rogatoria internazionale, ma non aveva ottenuto le informazionirichieste. La risposta fornita dalla polizia francese all’UCLAT è il frutto delcompletamento delle indagini e contiene la relazione conclusiva. Essa,per tanto, legittimamente è stata acquisita formalmente agli atti edassume valore di fonte di prova”.

Questa Corte ritiene di dover aderire alle indicazioni dei giudici dilegittimità, condividendo pienamente anche l’osservazione di meritosecondo cui “è poco credibile che al momento della fuga dall’Italia ilBertoli, con un passaporto falso e un mandato di cattura pendente, siavventurasse a recarsi in un albergo dando così alla polizia la possibilità

di controllarlo con maggiore precisione e di far fallire il suo progetto difuga”, così come, per escludere l’attendibilità dell’informativa inquestione, non può riproporre la conclusione dei precedenti giudici diappello, censurata come “del tutto gratuita” dalla Suprema Corte,secondo cui “solo per mero errore la polizia francese ha comunicatoall’UCLAT che Gianfranco Bertoli aveva soggiornato a Marsiglia nelnovembre 1971 invece che nel gennaio-febbraio 1971”.

La Corte regolatrice ha ritenuto necessario, da parte del giudice dirinvio, un riesame di merito per quanto attiene all’attendibilità di alcunitestimoni che avevano riferito della presenza del Bertoli in Francia e inItalia nel periodo, compreso tra il 26 febbraio ’71 e l’8 maggio ’73, in cuilo stesso ha sostenuto di essere sempre rimasto in Israele.

Serra Santolo, detenuto dal 14.10.72 nel carcere francese di Bois LaDuc, aveva inviato una lettera al Giudice Istruttore affermando di avereconosciuto Gianfranco Bertoli, da lui incontrato a Parigi ai Campi Elisi, edi averlo riconosciuto quando aveva visto la sua foto pubblicata daigiornali. Aveva ritenuto suo dovere inviare quella lettera essendosi resoconto che Bertoli mentiva quando aveva affermato di non aver lasciato ilkibbutz dal febbraio 1971.

Il Serra, sentito per rogatoria a Parigi il 31.7.73, riferiva di averavvicinato il Bertoli e, ritenendolo un francese, gli si era rivolto parlandofrancese; aveva poi capito che si trattava di un italiano, gli aveva vendutoun orologio e si era intrattenuto un pò di tempo con lui in un bar; a untratto Bertoli aveva lasciato il bar correndo ed era salito su un’autovetturaVolkswagen bianca targata Parigi a bordo della quale si trovavano unuomo e una donna. Serra si dichiarava certo che quel fatto era accadutocirca trenta giorni prima di essere arrestato a Milano, il che era avvenuto(come da accertamenti esperiti - rapp. 21.11.92) il 18 settembre 1971.

La Corte non ravvisa alcuna valida ragione per ritenere inattendibile taletestimone: pacifico il fatto che Santolo Serra rese le dichiarazioni di chetrattasi del tutto spontaneamente (fu lui stesso a prendere l’iniziativa dirivolgersi agli inquirenti), certamente agì in modo del tutto disinteressatonon potendo certo sperare di ottenere qualsivoglia beneficio dalla suacollaborazione. Deve, quindi, ritenersi che il Serra rivelò quanto a propriaconoscenza unicamente mosso dal desiderio di essere utile alle indaginisulla strage di via Fatebenefratelli nonché, come dallo stesso affermato,per smentire quanto falsamente sostenuto dal Bertoli.

Unico argomento contrario è quello, sostenuto dal difensore di CarloMaria Maggi, relativo alla scarsa attendibilità dei riconoscimentifotografici, ma l’obiezione non appare fondata: nel caso in esame èimproprio riferirsi a quel tipo di riconoscimento nel quale, come è bennoto, sono mostrate al testimone alcune fotografie affinche questi possaeventualmente riconoscere la persona a suo tempo osservata e poidescritta (il che, in alcuni casi, può indurre il teste in errorenell’individuare, tra altri, la persona da riconoscere); tutt’affatto diverso ilriconoscimento compiuto da Santolo Serra il quale, anzicché dover

scegliere tra le foto effigianti varie persone, vista sui giornali la foto diGianfranco Bertoli ha subito individuato la persona che aveva incontratosui Campi Elisi e con la quale si era intrattenuto per un tempoapprezzabile, comunque tale da consentirgli un preciso ricordo.

Analoghe considerazioni valgono per il riconoscimento effettuato daBorelli Giuseppe: questi, all’epoca dei fatti, era cliente e amico (a voltefungendo anche da autista) dell’Avv. De Marchi (coinvolto, con AttilioLercari, nella relativa inchiesta del G.I. di Padova, come uno deifinanziatori di attività eversive del gruppo “Rosa dei Venti”, in contattocon il Rizzato e il Rampazzo), oltre che confidente della Polizia. Il 18marzo 1976 il Borelli, già sentito in precedenza, si presentavaspontaneamente al G.I. di questo processo riferendo che pochi giorniprima, mentre si trovava nella sala d’attesa di un dentista, aveva sfogliatola rivista “Panorama” (n. 513 del 17.2.76) e aveva osservato a pagina 43la foto di Gianfranco Bertoli, foto che non aveva mai visto prima, neppureall’epoca della strage. Si dichiarava certo di avere visto il Bertoli duevolte, a Recco, nel 1973, ricordandolo la prima volta seduto a fianco diPietrino Benvenuto a bordo della Mini Minor rossa di quest’ultimo davantialla Pretura di Recco, dove egli era in attesa dell’avv. De Marchi.Ricordava in particolare che Benvenuto glielo aveva presentato come“amico spagnolo” senza dire alcun nome; l’individuo era molto magro,spalle strette, barba a V (la stessa poi vista nella fotografia pubblicata da“Panorama”) e parlava perfettamente l’italiano. Uno o due giorni dopoaveva rivisto lo stesso individuo, osservandolo da una distanza di circa20 metri mentre passeggiava sotto i portici di Recco.

Anche per il teste Borelli non si ravvisano ragioni di inattendibilità: aparte la spontaneità e disinteresse di cui evidentemente sono connotate,le sue dichiarazioni appaiono ancor più credibili provenendo da personache, anche per il ruolo di informatore della polizia, era particolarmente“attrezzata” per ricordare con precisione fatti che avrebbe poi dovutoriferire; a maggior ragione nel caso di specie, riferendosi il suoriconoscimento a una persona, il Bertoli, avente caratteristiche somaticheparticolari e inconfondibili. Si osserva ancora che il Borelli ha collocatonel 1973 i due incontri di cui ha parlato, cioé in epoca in cui eranoavvenuti fatti che il teste ha perfettamente ricordati e riferiti al GiudiceIstruttore (ad esempio quelli relativi al viaggio in auto compiuto con l’avv.De Marchi a Brescia il 17.5.73, lo stesso giorno della strage allaQuestura di Milano, confermato dall’acquisizione del relativo talloncinoautostradale).

E’ appena il caso di osservare che Giuseppe Borelli, pur non avendoneindicato le date esatte, stando all’epoca in cui ha collocato i due episodi,vide Gianfranco Bertoli a Recco nel 1973 e ciò, ovviamente, avvenneprima del 17 maggio dato che quel giorno Bertoli fu arrestatoimmediatamente dopo il lancio della bomba.

Martino Siciliano - collaboratore di giustizia dal 1993, inizialmentefacente parte della “Giovane Italia” di Mestre-Venezia con Delfo Zorzi,quindi del movimento neofascista “Ordine Nuovo” fino a tutto il 1972 e aconoscenza delle vicende di quel movimento e di molti suoi membri - il 3luglio 1997 aveva dichiarato al G.I. quanto segue: “Confermo di averevisto varie volte Sandro Sedona al ^Graspo de uva^ di Spinea a cavallodegli anni ’70. Vidi alcune volte Sedona con Delfo Zorzi e lo vidi anchecon Gianfranco Bertoli con il quale frequentava il ^Graspo de uva^. Vidi aSpinea e in tale locale più volte il Sedona e Bertoli. Prendo atto che miviene mostrata la fotografia di Gianfranco Bertoli, foto che ho visto piùvolte sulla stampa e riconosco senza alcun dubbio nella stessa ilGianfranco Bertoli di cui ho parlato oggi e nel precedente interrogatorio(G.I. 14.10.1995 – n.d.u.). Confermo di non avere mai conosciuto dipersona Bertoli, nel senso che non gli ho mai parlato né l’ho maifrequentato; però l’ho conosciuto di vista nel senso che l’ho visto, comeho detto, alcune volte in compagnia di Sandro Sedona ed anche perchémi fu presentato di sfuggita al ^Graspo de uva^ da Gianni Mariga in unadelle tante occasioni in cui mi trovavo in sua compagnia. Bertoli avevaun’aria triste ed era malmesso; aveva una barbetta che lo rendeva ancorpiù triste, appariva malandato, piuttosto magro, aveva occhi spiritatianche perché beveva parecchio....................Ribadisco di aver visto piùvolte Bertoli e Mariga insieme a Spinea. Tra i due vi era un rapporto diamicizia come riferitomi dallo stesso Mariga.................Sia negli anniprecedenti il ’70 che in quelli immediatamente successivi stavospessissimo in compagnia del Mariga. Ci scambiavamo confidenze econoscevo le sue frequentazioni. Appresi dallo stesso, tra le altre cose,che Gianfranco Bertoli, la persona che avevo visto con lui a Spinea e al^Graspo de uva^, era andato in un kibbutz in Israele. Mi disse di averappreso dal Bertoli che egli andava e tornava da Israele e lo aveva piùvolte incontrato nel 1972 a Spinea. Ricordo che mi riferì quanto Bertoli gliaveva raccontato sul suo soggiorno al kibbutz. A detta del Mariga, Bertoligli raccontò che lavorava nel kibbutz ma che nello stesso tempo venivaaddestrato all’uso di armi ed esplosivi per eventuali attacchi da partedegli arabi. Sono assolutamente certo che Mariga già nel ’72, cioé primadella strage del 17.5.73, mi riferì di aver visto Gianfranco Bertoli nellanostra zona. In più di un’occasione, in epoca che colloco a cavallo del’72-’73, Mariga mi raccontò di avere incontrato Bertoli e che questi, a suavolta, gli aveva narrato del suo soggiorno in Israele, del suoaddestramento nel kibbutz all’uso di armi ed esplosivi e della frequenzacon la quale lasciava il Kibbutz per venire in Italia e per tornare in Israele.

Quando vi fu la strage del 17.5.73 e Bertoli venne alla ribalta dellacronaca, ebbi occasione di parlare con Mariga su questa vicenda.Rimanemmo entrambi sorpresi leggendo sulla stampa che Bertolisarebbe stato per due anni in un kibbutz. Mariga infatti lo aveva visto piùvolte a Spinea e a Mestre nel periodo ’71-’72 come mi avevaprecedentemente raccontato. Io stesso non escludo di avere visto Bertolia Spinea nello stesso periodo. Ricordo perfettamente il contenuto dei

commenti del Mariga, il quale mi disse che Bertoli non era certamente unanarchico; d’altra parte, attese le note frequentazioni del Marigaesclusivamente con elementi di destra, lo stesso mi disse che se fossestato un anarchico non avrebbe stretto amicizia con lui.

Sempre Mariga commentò la circostanza che Bertoli andava e venivada Israele; mi disse che in quel periodo non era facile entrare e uscire daquel Paese ed espresse la convinzione che se Bertoli con tale facilitàpoteva andare e venire da Israele in Italia e viceversa, ciò potevaavvenire col consenso dei servizi segreti israeliani. Oltretutto Mariga edio, ricordando le scarse disponibilità del Bertoli, quasi sempre in bolletta,ritenemmo evidente che egli non poteva con le sue tasche sobbarcarsi lerilevanti spese di viaggio per andare e venire da Israele”.

Si ritiene opportuno osservare che le dichiarazioni di Martino Sicilianosopra testualmente riportate, benché sul punto tutt’altro che laconiche,occupano ben poco spazio tra quelle, molto più ampie, rese nei citatiinterrogatori avanti il Giudice Istruttore, con le quali il collaboratore digiustizia ha riferito diffusamente e con dovizia di particolari in ordine allevicende dell’organizzazione di apparteneza, a fatti attribuiti alla stessa,alle persone che ne facevano parte. A tali dichiarazioni si sono aggiunte,essendo state acquisite agli atti, tutte quelle rese dal Siciliano ad altrimagistrati nel corso di indagini sull’eversione neofascista di quegli anni’60-’70, il che ha consentito di constatare sia l’ampiezza delleconoscenze del dichiarante sia la costanza e la coerenza logica delle sueaffermazioni; da ciò è derivata, sia ad avviso del G.I. che dei giudici diprimo grado, una positiva valutazione di intrinseca attendibilità chequesta Corte non ha ragione alcuna di disattendere.

Per ciò che attiene all’argomento in questione (la conoscenza di Bertolie la sua presenza a Spinea e Mestre nel periodo di tempo in cui, a suodire, non si sarebbe mosso da Israele) il racconto di Martino Siciliano èapparso logico, coerente, preciso, ricco di dettagli nonché di riferimentiambientali e di fatto ma, sopratutto, sincero. Il dichiarante ha infattidistinto puntualmente quanto stava riferendo per diretta conoscenza daciò che aveva appreso da altri, cioè dall’amico Mariga, quando - perattribuire maggior rilevanza alla propria collaborazione ovvero percompiacere il G.I. - ben avrebbe potuto affermare di aver avutopersonale conoscenza di tutti i fatti riferiti. Siciliano, invece, ha sostenutodi aver conosciuto il Bertoli (pur precisando di non avergli mai parlato) elo ha fatto con precisi riferimenti di tempo e luogo oltre che alla persona,mentre, quanto alla presenza del Bertoli a Spinea nel 1972, ha soloriportato le confidenze del Mariga, limitandosi, dal canto suo, a nonescludere un incontro con il Bertoli in quell’anno.

Per tanto, le dichiarazioni di Martino Siciliano sul punto che quiinteressa, di per se stesse ritenute attendibili, necessitano di elementi diconferma. Tali elementi sono puntualmente emersi dalla testimonianzadei fratelli Giorgio e Tommaso Sorteni.

Giorgio Sorteni, sentito dal Giudice Istruttore il 16.2.1975 (poco dopo lostesso renderà la propria testimonianza avanti la Corte d’assise di Milanonel procedimento contro Gianfranco Bertoli), tra l’altro riferiva di averconosciuto il Bertoli nel 1953, nel periodo in cui questi eseguiva rapine indano di omosessuali. Sapendo dei suoi precedenti nel traffico di armi, gliaveva proposto di venderne una partita a una compagnia di navigazione;le armi erano state vendute a due ex appartenenti alla RepubblicaSociale, facenti parte di un fronte anticomunista, il che aveva provocatola reazione del Sorteni essendo questi di fede comunista. Il testimonedescriveva il Bertoli come persona amorale, omosessuale, incapace diidee personali, succube di chiunque avesse un temperamento o unprestigio più forte del suo. Ricordava inoltre che Bertoli, nel 1970, vivevaa Marghera presso un affittacamere.

Giorgio Sorteni dichiarava poi di aver appreso con sorpresa dalla letturadei giornali che Bertoli avrebbe soggiornato in Israele ininterrottamentedal febbraio 1971 al maggio 1973 ma che detta circostanza noncorrispondeva al vero ricordando di avere incontrato Bertoli nei pressidella stazione ferroviaria di Mestre in un giorno compreso tra il 25maggio e l’8 giugno 1972; il teste era certo di quel riferimento temporaleperché proprio in quei giorni egli si era recato quasi quotidianamente aMestre da Lugo di Romagna, dove si era trasferito, per concludere eperfezionare un’operazione commerciale (della quale fornivadocumentazione recante, appunto, la data dell’8 giugno 1972).L’incontro, di cui si diceva assolutamente certo, era durato pochi minuti ericordava, in particolare, che Bertoli indossava una giacca saharianacolor sabbia.

Il Giudice Istruttore, nell’ambito di indagini sull’appartenenza diGianfranco Bertoli al SIFAR in qualità di informatore (di cui si dirà inseguito), essendo nel frattempo deceduto Giorgio Sorteni, il 2 aprile 1992sentiva come testimone il fratello di questi, Sorteni Tommaso il qualedichiarava quanto segue: a conoscenza della stretta amicizia esistentetra il fratello e il Bertoli fin dagli anni ’50, della loro assiduafrequentazione in quegli stessi anni nonché dell’attività svolta nel SIFARsia dal fratello che dal Bertoli, ricordava che il giorno dell’attentato allaQuestura di Milano Giorgio gli aveva telefonato e aveva pronunciato lafrase “hai visrto che cosa ha combinato Gianfranco ? vedrai che sonostati i Servizi”. Qualche giorno dopo, proseguiva il Sorteni, era rimastoanch’egli sorpreso leggendo sui giornali che Bertoli negli ultimi due anniera rimasto sempre in Israele ricordando perfettamente di averlo visto aVenezia, dove si era recato con il fratello dalla Romagna, nella primaveradel 1972. Bertoli, che nell’occasione indossava una giacca saharianacolore beige, si era fermato in loro compagnia solo per pochi minuti maaveva avuto modo di dire di essere “diventato anarchico”. Significativo ilcommento del teste in proposito: “mancò poco che ci mettessimo a ridereconoscendo i suoi precedenti rapporti con il SIFAR e gli ex repubblichinidella compagnia di navigazione”. Anche Tommaso Rorteni, come ilfratello, si dichiarava certo che quell’incontro era avvenuto nella

primavera del 1972 dato che fin dal 1965 quella era stata l’unica volta incui egli si era recato a Venezia con il fratello, precisando che ciò eraavvenuto per un’operazione commerciale.

Non sembra possano esistere dubbi circa l’attendibilità di talitestimonianze stante la loro precisione in ordine a tutte le circostanze difatto, il disinteresse e la loro perfetta concordanza. Entrambi i fratelliSorteni, in tempi diversi e all’insaputa delle dichiarazioni dell’altro, hannoriferito della vecchia conoscenza (di Giorgio Sorteni) con il Bertoli,dell’incontro con questi nella primavera inoltrata del 1972, dell’occasionee della durata di quell’incontro, infine del breve colloquio con GianfrancoBertoli.

Particolarmente attendibili le dichiarazioni di Giorgio Sorteni riferite alBertoli, tenuto conto che il teste ha riferito di un incontro con una personada lui molto ben conosciuta, e da lunga data.

Solo su un punto i fratelli Sorteni non sono stati concordi: nell’indicare illuogo dell’incontro, la stazione di Mestre per Giorgio, quella di Veneziaper Tommaso. Non si ritiene, tuttavia, che tale discrepanza, su unparticolare di scarso rilievo (Venezia e Mestre sono assai vicine,separate da un ponte), possa incidere negativamente sul valore erilevanza probatoria delle due testimonianze. Si consideri inoltre, inproposito, che mentre Giorgio Sorteni fu sentito dal G.I. nel febbraio 1975(quindi poco più di tre anni dopo l’episodio riferito), Tommaso Sortenirese la propria testimonianza nell’aprile 1992 (circa diciassette anni dopoil fratello e circa 20 dopo i fatti narrati) sicché è ben possibile che ilsecondo abbia avuto un ricordo impreciso circa il luogo esattodell’incontro.

Un elemento di dubbio più consistente era stato sollevato dallo stessoGiudice Istruttore il quale aveva fatto presente a Tommaso che il fratelloGiorgio, a suo tempo, non lo aveva indicato presente all’incontro con ilBertoli. La Corte ritiene la risposta di Tommaso Sorteni, che si riportatestualmente, ragionevole e convincente: “ritengo che Giorgionell’occasione non abbia voluto dire che anche io incontrai Bertoli pernon coinvolgermi in questa vicenda in quanto sarei stato certamentechiamato a deporre e sarei venuto alla ribalta della cronaca come vennelui; dato che egli nell’occasione riferì i suoi pregressi rapporti con ilSIFAR, ritengo che abbia voluto lasciarmi fuori da questa vicenda, ancheperché io ero all’oscuro di tanti dettagli, come quello relativo al suo nomedi copertura ^Sergio^ che ho appreso solo oggi. Oltretutto, se avessisaputo all’epoca tante cose, gliele avrei suonate di santa ragione”.

Quanto finora osservato circa tutti gli elementi probatori di segnocontrario, rispetto alla versione sostenuta da Gianfranco Bertoli di nonavere mai lasciato Israele nei circa due anni precedente l’8 maggio 1973,può concludersi con le dichiarazioni di Giuseppe Albanese, alle quali talielementi costituiscono riscontro. Costui, estremista di destra e giàdetenuto a lungo con il Bertoli nel carcere di Volterra, sentito dal G.I. il

20.6.1992, ha affermato che lo stesso Bertoli, parlando del suo soggiornoin Israele, tra l’altro gli aveva confidato che poteva lasciare quel Paesequando voleva, cosa che aveva fatto alcune volte per poi fare ritorno nelkibbutz.

A detti elementi si oppongono in via residuale, a parte le dichiarazionidel Bertoli, gli esiti degli accertamenti compiuti dal RUS in Israele, incollaborazione con i locali organi di polizia, su incarico del P.M. di Milanoin data 25.5.1973 che richiedeva di accertare, tra l’altro, i movimenti dellostesso Bertoli nel periodo di permanenza nel kibbutz di Karmia. Eranoassunte le testimonianze di Rachel Vered, di Amminadav Ofer, di NoahShusterman e di Miriam Cohen. Costoro, ognuno per quanto a propriaconoscenza, riferiva circa l’assidua presenza del Bertoli (alias MassimoMagri) nel kibbutz, il suo diligente attivarsi nei lavori del pollaio, le breviassenze (di solito un solo giorno) per lo più motivate da cureodontoiatriche. Sta di fatto che nessuno di costoro, come ovvio, è stato ingrado di affermare la continua, costante e ininterrotta presenza delBertoli.

La Corte esclude che tali testimonianze possano prevalere su quellesopra esaminate (in particolare del Serra, del Borelli e dei fratelli Sorteni):da un lato i testimoni israeliani, pur avendo riferito quanto a loroconoscenza, non potevano in alcun modo fornire la prova “in negativo”del fatto che Gianfranco Bertoli non si era mai allontanato per un periodoapprezzabile (un fatto che ben poteva sfuggire non risultando chequalcuno di loro abbia vissuto costantemente con il sedicente Magri),dall’altro, invece, vi sono testimoni che hanno riferito, questa volta “inpositivo”, fatti e circostanze precisi ed esattamente collocati nel tempo,di cui si sono dimostrati assolutamente certi e che, comunque, per la loropeculiarità erano facilmente memorizzabili.

Per quanto attiene alla attendibilità del personaggio Bertoli (e del suoracconto), a questo punto si ritiene di scarsa utilità analizzarne nei minimiaspetti la personalità. E’ evidente, infatti, che a fronte di risultanze divalore obiettivo quali gli elementi di prova finora esaminati sui quali sifonda il giudizio di scarsa credibilità, in taluni casi di assoltua falsità, delledichiarazioni dell’autore dell’attentato, l’indagine sulla personalità finisceper assumere valenza del tutto marginale. L’argomento, comunque, èstato ampiamente trattato nella sentenza/ordinanza del Giudice istruttoree nella motivazione della sentenza appellata, alle quali si rimanda. E’stato trattato, altrettanto ampiamente, dalla sentenza annullata ma, inquesto caso, secondo una chiave di lettura rivolta a individuare in quellapersonalità non solo le autentiche ragioni dell’attentato stragista ma,sopratutto, per trarne argomenti a sostegno di una tesi presupponente lapiena atendibilità della versione del Bertoli e nel quadro di una metodicasvalutazione di ogni contrario elemento di prova, suggerita (secondol’espressione usata dai giudici di legittimità) da una lettura sin dall’inizioincredula.

In sostanza, tale indagine non può ritenersi risolutiva ai fini che quiriguardano, se non sotto il profilo della compatibilità, o meno, dellapersonalità del Bertoli con l’effettiva genesi ed esecuzione del progettostragista.

E’ evidente che, attenendosi alle dichiarazioni di Bertoli e ai suoi scritti(il diario) e ritenendo veritiera la sua versione, l’esecutore materialedell’attentato dovrebbe definirsi, a ragione, “anarchico individualista” e ilsuo un gesto di eclatante protesta contro le Autorità dello Stato,autonomamente deliberato e attuato.

Di contro, ove si tengano presenti le affermazioni di alcuni collaboratoridi giustizia e testimoni (tra questi ultimi Rossella Monaco, l’assistentesociale alla quale fu affidato il Bertoli una volta posto in regime disemilibertà), oltre alle conclusioni della perizia psichiatrica, la personalitàdi Gianfranco Bertoli appare delineata come quella di un uomosostanzialmente debole, vittimista, timoroso, volubile, facilmentesuggestionabile; in questo secondo caso, quella personalità dovrebberitenersi difficilmente compatibile con la natura e motivazioni del gestocompiuto, quali il Bertoli ha inteso accreditare.

In tema di personalità (ivi comprese le scelte politico-filosofiche) sidovrebbe semmai accertare, pur nei limiti insiti nell’accertamento stesso,se Bertoli fosse veramente un idealista “puro”, un anarchico, un uomodisposto a sacrificare la propria vita o ad essere condannato all’ergastolopur di realizzare il proprio anelito di giustizia, se in lui la spinta ad agireper realizzare fini ritenuti nobili fosse davvero tanto forte.

Quanto alla fede anarchica di Gianfranco Bertoli, recente o no chefosse, taluno ha manifestato dubbi (Tommasoni Franco), altri non hannonascosto la loro sorpresa (Giorgio e Tommaso Sorteni, Sedona Sandro),altri ancora l’hanno esclusa attribuendo a Bertoli la qualifica di“camerata”, da sempre vicino agli ambienti dell’estrema destraneofascista veneta (Ferorelli Giovanni, Rebosio Marco, Martino Siciliano,Giuseppe Albanese) ma, secondo la Corte, il dato di fatto che induce aldubbio più serio circa l’effettività della scelta anarchica è costituito dallaretribuita appartenenza del Bertoli ai Servizi segreti italiani (prima alSIFAR e poi al SID) in qualità di informatore fino ad epoca non lontanadal suo espatrio in Israele.

Il dato in questione è stato accertato dal Giudice Istruttore e verificatonella fase dibattimentale di primo grado ma, stranamente, della qualificadi Bertoli come informatore dei “Servizi” non è stato riferito all’autoritàgiudiziaria inquirente da chi ne era a conoscenza ed era tenuto a farlo (esi che il Gen. Maletti, all’epoca a capo del SIFAR, subito dopo la stragedi via Fatebenefratelli aveva inviato il cap. Di Carlo in Israele perchéindagasse proprio sul Bertoli !); tutto, invece, è emerso dallatestimonianza resa da Giorgio Sorteni, prima al G.I. e poi in fasedibattimentale avanti la Corte d’assise di Milano nel procedimento penalea carico dell’autore dell’attentato.

Il Sorteni, individuato dal Giudice Istruttore tra numerose persone cheavevano avuto contatti con il Bertoli (come emerso dai fascicoli di variprocedimenti penali a carico dello stesso, tenutisi a Venezia, Padova eTrieste), il 16.2.1975 aveva riferito, tra l’altro, che nel 1954 Bertoli, cheera informatore del SIFAR, lo aveva messo in contatto con il brigadieredei Carabinieri Carlo Fanutza; successivamente era stato contattato datale dr. Bonetti che gli aveva proposto di di svolgere attività informativaper tale struttura con un compenso di 50.000 lire mensili; aveva accettatoe aveva svolto quell’attività con il nome di coperture “Sergio”.

Quanto affermato da Giorgio Sorteni, anche alla Corte d’assise nelgiudizio a carico di Gianfranco Bertoli, trovava conferma il 4 marzo 1975quando l’allora capo del SID Ammiraglio Casardi informava per iscrittoche “il Bertoli è stato fonte del SIFAR dal novembre 1954 al marzo 1960,data sotto la quale ha cessato l’attività a causa dello scarsissimorendimento fornito. Risulta agli atti che solo fino all’agosto 1955 haricevuto un compenso per complessive lire 50.000. Il Sorteni haparimenti collaborato con l’ex SIFAR, in qualità di fonte, dal 1954 almarzo 1960, data sotto la quale ha cessato qualsiasi rapporto, avendofornito come il Bertoli scarsissimo rendimento”.

Il fatto che Bertoli fosse stato collaboratore del SIFAR come informatorenon è, quindi, in discussione e nessuno l’ha posto in dubbio;l’approfondimento delle indagini sul punto, di cui ha reso conto il GiudiceIstruttore e di cui hanno trattato - con diverse conclusioni - la sentenza diprimo grado e quella d’appello annullata, ha riguardato l’effettiva duratadi quella collaborazione. Richiamato quanto in proposito si è già riferitonella parte espositiva, si ritiene sufficiente registrare i principali elementiacquisiti dal G.I.: 1) dal relativo fascicolo personale esistente negli archividel SISMI era risultato che Bertoli aveva svolto la sua attività con il nomedi copertura “Negro” tra il 1954 e il 1960; 2) sempre in detti archivi erastata rinvenuta la scheda (titolo 225, sottotitolo 4 – pratica 4bis –segreteria . anno 1966) relativa all’informatore “Negro” recate l’appunto“cessato” risultato di pugno del colonnello Viezzer; 3) il Viezzer,interrogato in proposito - premesso di essere stato segretario dell’ufficio“D” del SIFAR fino al novembre ’97, di essere tornato in quell’ufficioquattro anni dopo svolgendovi dal giugno 1971 al 30 aprile ’74 il ruolo dicapo della segreteria del Reparto D – dichiarava testualmente: “l’annotazione ^cessato^ è di mio pugno; devo averla apposta dopo ilgiugno 1971 in quanto alla segreteria del Reparto D passai in quelladata. Posso dedurre con certezza che, se la scheda porta l’anno 1966 ese io ho scritto cessato, certamente la collaborazione dell’informatoreNegro nel 1966 era ancora in atto. Non sono in grado di precisarel’epoca in cui tale collaborazione è cessata, certamente in epocasuccessova. Se ho scritto ^cessato^ non posso averlo scritto prima delgiugno 1971”. Preso atto che la scheda in questione riguardava il Bertolie che la stessa era stata richiesta con missiva in data 17.6.74 dalReparto “R” al Reparto “D”, il Viezzer precisava: “se la schedadell’informatore Negro è stata richiesta dal Reparto R, che sta a indicare

^ricerche all’estero^, ciò può voler dire solo due cose: o che l’informatoreera andato all’estero, o che era in contatto con gente in grado di fornirenotizie sull’estero. Poiché allegata alla missiva del 17.6.74 è allegata lascheda individuale ^Negro^ sigla IR 031, da cui si evince chiaramenteche l’informatore ha operato per il SIFAR negli anni dal 1955 al 1959 e,poiché la scheda della segreteria che lei mi ha mostratoprecedentemente porta l’anno 1966, deduco chiaramente che taleinformatore Negro ha fornito la sua opera dal ’54 al ’59 e,successivamente, nell’anno 1966 ha ripreso la sua attività di informatore,per cui è stata impostata una nuova scheda portante l’anno 1966”. 4) IlGenerale Demetrio Cogliandro, predecessore del Viezzer quale capodella segreteria del Reparto “D” fino al giugno 1971, sentito dal G.I. il24.2.92, concordava con quanto riferito dal colonnello Viezzerdeducendo inoltre che se questi aveva apposto la scritta “cessato” sullascheda dell’informatore “Negro” nel 1971, evidentemente lacollaborazione di questi era cessata dopo il giugno ’71.

Sulla scorta degli elementi acquisiti si può, dunque, ritenere provato cheGianfranco Bertoli svolse la sua attività di informatore del SIFARinizialmente negli anni tra il 1954 e il 1959 e che riprese la collaborazionea partire dal 1966 (con il SID); che, infine, la stessa era ancora in atto nelgiugno 1971, vale a dire quando il Bertoli era già fuggito dall’Italia eaveva trovato riparo nel kibbutz israeliano.

Il che, oltre a chiarire almeno in parte le circostanze dell’espatrio diGianfranco Bertoli, conferma l’assunto e spiega perchénell’immediatezza della strage alla Questura di Milano l’allora capitanoVitaliano Di Carlo (in servizio al SID dal 1967) fu incaricato dal generaleMaletti di recarsi in Israele per ivi svolgere sul Bertoli indagini non certodi competenza dei servizi segreti, comunque non a questi riservate.Come pure trova spiegazione l’appunto, a firma del Viezzer, allegato alrapporto del cap. Di Carlo, del seguente letterale tenore “dal cap. DiCarlo: prega di non dare all’Autorità Giudiziaria, se non importante eindispensabile, le notizie su Bertoli contenute nell’allegato 2” .

Il fatto che Bertoli avesse proseguito la collaborazione con i Servizisegreti dal 1966 al giugno 1971 poteva trovare smentita esclusivamentenella ricostruzione compiuta dai precedenti giudici di appello sulla scortadella testimonianza loro resa dal generale Pollari, attualmente a capo delSISMI, ma tale ricostruzione è stata censurata dalla Corte di Cassazione(sentenza di annullamento, pagg. 13-14) che testualmente ha affermato:“La Corte di secondo grado si è preoccupata di escludere totalmente iservizi segreti italiani e israeliani dall’espatrio di Bertoli, e si èavventurata in una complicata e incerta disamina del sistema difascicolazione e intestazione delle pratiche relative agli informatori delservizio segreto, fondata sui ragionamenti del teste Pollari. In realtà ilteste, solo recentemente a capo dei servizi segreti, ha tentato di spiegare

il sistema di fascicolazione delle pratiche contenenti i contributi fornitidagli informatori, vigente negli anni sessanta, attribuendo un significatologico ad annotazioni e archiviazioni di dati che sembrerebberoimprontate ad approssimazione e disordine. La Corte ha dato totalmentecredito al Pollari trasformando così una semplice ipotesi logica, effettuatada un funzionario che non aveva partecipato alla fascicolazione dellevecchie pratiche, in una indiscutibile verità, in grado di superare tutte ledichiarazioni fatte dai funzionari addetti al servizio”.

Quanto osservato dai giudici di legittimità non consente, evidentemente,al giudice di rinvio alcun margine per confermare la tesi esposta nellamotivazione della sentenza annullata, tesi per altro non condivisa; siribadiscono, quindi, le conclusioni che questa Corte ha già formulato sulpunto.

Esistono valide ragioni per ritenere i Servizi segreti italiani non del tuttoestranei all’espatrio di Gianfranco Bertoli, sebbene ciò non comportialcun coinvolgimento dei Servizi stessi nella preparazione enell’attuazione della strage (come osserva la Corte di Cassazione –sentenza di annullamento, pag. 13). Le indagini compiute o disposte dalG.I. – gli esiti delle quali sono ampiamente riferiti nella citata ordinanza indata 18.7.1998 – si rivolgevano innanzitutto a chiarire le circostanze nellequali nel gennaio 1971 il Bertoli, sottraendosi all’ordine di cattura emessonei suoi confronti dal P.M. di Padova il 7 ottobre di quell’anno, erariuscito a espatriare dall’Italia aiutato in ciò da chi si era attivato perprocurargli il passaporto falso, intestato a Massimo Magri. Si accertò inparticolare che già nel 1970, come da informativa di tale Rovelli Enrico alcommissario Luigi Calabresi, alcuni anarchici milanesi, facenti capo algruppo “Ponte della Ghisolfa”, si stavano interessando per far espatriareun individuo, un anarchico, colpito da ordine di cattura. Lo stesso Rovelliaveva fornito al commissario Calabresi una fotografia di detto individuo,identica a quella che poi sarebbe stata utilizzata per formare ilpassaporto falso. Dell’operazione, a detta del Rovelli, si erano interessatiDel Grande Umberto e Bertolo Amedeo. Si accertava che l’anarchico chedoveva espatriare era proprio Gianfranco Bertoli il quale, dopo unperiodo trascorso in Valtellina, era stato accompagnato da Bonomi Aldoin Svizzera, da dove si era trasferito a Marsiglia imbarcandosi poi perIsraele. Nel 1992 il G.I. accertava che all’espatrio del Bertoli avevacollaborato, con il Bonomi, un medico di Sondrio, Bevilacqua Rolando,sedicente anarchico ma informatore del SID negli anni ‘69/’72 e incontatto con i servizi segreti israeliani.

Rolando Bevilacqua, già interrogato nell’ambito dell’istruttoria n.1650/74F che vedeva imputati Del Grande Umberto e Bertolo Amedeo inrelazione alla vicenda del passaporto falso procurato al Bertoli, eranuovamente sentito dal G.I. nel 1992 e nell’occasione, abbandonandol’atteggiamento reticente tenuto in precedenza, rendeva ampiedichiarazioni. Si ritiene utile fornirne una sintesi riportando stralci

dell’ordinanza in data 18.7.1998 del Giudice Istruttore (pagg. 32-34):dichiarava che nel 1970/71 faceva il medico a Tresivio (Sondrio) quandoera stato avvicinato dal Del Grande, anarchico del Ponte della Ghisolfa diMilano (il Bevilacqua frequentava invece il circolo “Sacco e Vanzetti”) chegli aveva chiesto la sua disponibilità ad aiutare un operaio di Marghera,tale Massimo (poi rivelatosi essere il Bertoli). Ottenuta la suadisponibilità, il Del Grande aveva condotto il Massimo nella suaabitazione a Tresivio. Da quel momento la vicenda era stata gestitasempre e completamente da Aldo Bonomi, anch’egli di Tresivio, che giàconosceva il Massimo. Il Bonomi si era recato ripetutamente in queiquattro o cinque giorni a casa del Bevilacqua, appartandosi sempre conl’ospite che era ammalato. A un certo punto il Bevilacqua non aveva piùvoluto saperne dello strano ospite e questo era stato condottonell’abitazione del Parolo e da lì fatto espatriare in Svizzera in base a unpiano organizzato ed eseguito dal Bonomi. Il Bertoli era stato portato daquesti in una pensione di Saint Moritz dove, consegnando il passaporto,si era qualificato come Massimo Magri.

Bevilacqua dichiarava inoltre di aver fatto parte da giovane, durante laguerra, di un gruppo di resistenza contro i tedeschi nella zonadell’Appennino e aveva più volte soccorso in quel periodo ebrei indifficoltà aiutando molti di loro a passare le linee. Quando era statocreato lo Stato di Israele il 5 maggio 1948, alcuni agenti del Mossadavevano preso contatto con lui che aveva svolto per essi attivitàinformativa (Bevilacqua forniva precise indicazioni sulle persone con cuiaveva avuto contatti che avevano trovato riscontro negli accertamentidisposti). Intorno al 1969 un colonnello dei carabinieri di Sondrio (poiriconosciuto in Renzo Monico) gli aveva chiesto di svolgere attivitàinformativa anche per il SID e aveva cominciato a frequentare costuinella caserma di Sondrio, chiedendo di lui con una frase convenzionaleogni volta che doveva fornire informazioni. Il colonnello lo aveva messoin contatto anche con un tenente appartenente al SID. Tra i compitiaffidatigli quello di infiltrarsi tra gli anarchici e fornire notizie sulla loroattività.

Sugli sviluppi della vicenda Magri (alias Bertoli) e sui movimenti delBonomi egli aveva informato giorno per giorno il colonnello di Sondrio.Dell’espatrio dell’anarchico era a conoscenza il colonnello Monico; deglisviluppi della vicenda il Bevilacqua aveva tenuto anche informato il suoreferente per il Mossad (servizi segreti israeliani).

Il colonnello Monico (nel 1989 coinvolto, per falsa testimonianza,nell’inchiesta sulla strage di Peteano), sentito in proposito, purtrincerandosi dietro asseriti vuoti di memoria, ammetteva di aver fattoparte dei Servizi dal 1957 al 1972, di aver comandato il GruppoCarabinieri di Sondrio dal maggio ’69 al settembre ’72, di avere avutocontatti con il capo del Mossad, di non poter escludere di aver conosciutoil Bevilacqua e che questi gli avesse fornito informazioni su gruppianarchici nonché su un anarchico che stava per espatriare.

Tenuto conto dei fatti sopra richiamati, la Corte ritiene si possaaffermare con certezza non solo che Bertoli rese una versione falsa sucome si procurò il passaporto e su come in effetti riuscì a lasciare l’Italia(sottraendosi all’ordine di cattura) e raggiungere Israele con facilitàcertamente sospetta, ma anche che l’espatrio dell’”anarchico” Bertoli,sotto le false generalità di Massimo Magri, avvenne, per così dire, sottogli occhi dei Servizi segreti italiani (e probabilmente di quelli israeliani),se non con un aiuto concreto quanto meno con la loro connivenza.

Acquistano così un rilevante grado di attendibilità le dichiarazioni diGiuseppe Albanese (G.I. 20.6.92) secondo cui Bertoli gli aveva confidatoche i Servizi segreti italiani lo avevano appoggiato nel suo espatriodall’Italia e lo avevano aiutato anche a Marsiglia per consentirgli direcarsi in Israele; che i Servizi italiani si erano rivolti a quelli israeliani perconsentirgli quel lungo periodo di soggiorno in Israele; che senza questaintesa tra Servizi non avrebbe potuto fare ciò che voleva, cioé andareliberamente all’estero e poi tornare nel kibbutz.

A conclusione di tutto quanto si è detto finora, questa Corte ritiene dipoter affermare con certezza la totale inattendibilità della versione fornitada Gianfranco Bertoli fin dal suo primo interrogatorio (e, sui punti piùsignificativi, sempre ribadita in seguito) posto che la stessa è apparsaspesso inverosimile e contraddittoria oltre che risultare, su temi di sicuraimportanza, palesemente falsa essendo stata smentita dall’emergere divalidi elementi probatori di segno contrario.

Bertoli ha cercato, in tutti i modi, di accreditare la sua verità, quella diaver ideato e realizzato l’attentato perché mosso da esigenze di giustiziasecondo che gli suggerivano le sue scelte filosoficho-politiche di“anarchico individualista”, di propria iniziativa, senza appoggi dichicchessia, senza che vi fossero mandanti, fuori da qualsiasiorganizzazione. Ha tentato di perseguire il proprio scopo tacendo alcunifatti ovvero adattandoli alla bisogna, mentendo su altri, escogitandospiegazioni inverosimili su altri ancora. Così, ad esempio, ha rivelato soloin parte le modalità dell’espatrio e dell’ingresso in Israele tacendo sugliappoggi ricevuti da appartenenti ai Servizi segreti e su come veramentesi era procurato il passaporto falso, ha mentito circa i periodi della suapermanenza a Marsiglia e sull’ininterrotto soggiorno nel kibbutz di Karmiaper circa due anni fino al giorno della partenza da Haifa, ha escogitato lafantasiosa tesi sul momento e sull’occasione che lo aveva fatto decideredi compiere l’attentato.

Sopratutto ha taciuto sulla sua qualità di informatore del SIFAR/SID(oltre che sulle sue frequentazioni di personaggi e ambienti dell’estremadestra eversiva, di cui si dirà in seguito) e lo ha fatto evidentemente perevitare che ciò incidesse negativamente sulla credibilità della sua sceltaanarchica. Non si intende affermare che Bertoli, sia pure con scelterecenti, non avesse fatto propri gli ideali dell’anarchia (lo attesterebbero isuoi scritti e la “A” tatuata su un braccio) - il che, comunque, nonesclude, anzi rende credibile, che proprio l’apparire e professarsi

anarchico dovesse tornare utile agli scopi di chi di lui si era servito – mache quella scelta non doveva né poteva essere tale, e talmentecoinvolgente, da indurlo a compiere un gesto di gravità inaudita e disubirne tutte le conseguenze.

Se Gianfranco Bertoli ha sostenuto una versione che la Corte ritienenon veritiera, non può che averlo fatto - come già si è detto – per coprireuna verità che non voleva né poteva rivelare: l’attentato del 17 maggio1973 non era stato frutto della sua personale iniziativa; egli era solol’esecutore materiale di un progetto criminoso deciso e organizzato, perscopi tutt’affatto diversi, da altri e altrove.

La vicenda Loredan – Dalla Torre

Se Bertoli avesse realmente agito da solo e di propria esclusivainiziativa, come sempre ostinatamente sostenuto, sopratutto se davverola sua decisione di agire fosse stata estemporanea (meno di tre oreprima della strage alla Questura), è evidente che nessuno tranne luisarebbe stato a conoscenza di ciò che sarebbe accaduto a Milano lamattina del 17 maggio 1973.

Il fatto che l’attentato fu preannunciato due giorni prima della suaesecuzione costituisce prova certa, da un lato, delle menzogneredichiarazioni del suo esecutore, dall’altro dell’esistenza di un progetto edi mandanti.

Qualcuno, infatti, messo a conoscenza di quanto si stava preparando,in quei giorni si era attivato per informarne chi di dovere, indicando conprecisione sorprendente sia il giorno, sia l’obiettivo dell’attentato sia illuogo (la città) in cui sarebbe avvenuto.

La vicenda vede come protagonisti Ivo Dalla Costa, Pietro Loredan eDomenico Ceravolo. Queste le risultanze istruttorie: Il 21 marzo 1995Gianfranco Bertoli, in libertà nonostante la condanna all’ergastoloinflittagli, aveva rilasciato al Corriere della Sera un’intervista nella quale,duramente e con parole sprezzanti, attaccava il G.I, colpevole, a suodire, di insistere senza alcuna prova in un’indagine avente comepresupposto che lo stesso Bertoli non avesse agito da solo ma fossestato esecutore materiale di un piano criminoso da altri progettato eavente ben altri moventi e fini che non quelli della protesta di unanarchico individualista.

La lettura di tale intervista aveva indignato il Dalla Costa il quale avevadeciso di por fine a un silenzio durato oltre vent’anni e di riferireall’autorità giudiziaria quanto a sua conoscenza. Il Dalla Costa sirivolgeva al dr. Valmassoi (Sostituto Procuratore della Repubblica aTreviso) e il 24 marzo 1995 riferiva al G.I. quanto a suo tempoconfidatogli dal Conte Pietro Loredan nel corso di un colloquio, dallostesso Loredan sollecitato, avvenuto in Treviso la mattina del 15 maggio1973. Dell’oggetto di quel colloquio si è già fatto cenno nella parteespositiva della sentenza, ma si ritiene opportuno riferirne in modo più

completo, servendosi delle parole del testimone il quale così dichiarava:”Nel corso della mia lunga attività politica ho svolto anche servizio diinformazione in ordine alla resistenza in Grecia. Durante la stagione cosìdetta delle ^trame nere^ ho svolto, d’intesa con la Polizia Giudiziariadella Procura della Repubblica di Treviso, in forma spontanea eriservata, indagini sulle attività neofasciste.

Nel corso di questa attività, unitamente al segretario della Federazionecomunista, mi interessavo degli operai delle grosse fabbriche in zona,prendendo contatto con gli stessi, per preservarli dalle provocazioni chegli stessi potevano subire da pseudo rivoluzionari.

In tale ambito ebbi modo di prendere contatti con il Conte PietroLoredan, il quale, a mio avviso, era uno squinternato con velleitàpseudorivoluzionarie; pretendeva di dirigere la rivoluzione in Italia e ciògli è costato soldi e pericolosi contatti con elementi neofascisti tra cuianche Freda e Ventura. Nei suoi discorsi che intavolava con me midiceva che a suo dire la sinistra aveva fallito il suo programmarivoluzionario per cui egli era costretto ad attuare un suo programmaalternativo utilizzando fascisti e comunisti; in tale ambito si era collegatoappunto, fra gli altri, anche con Freda e Ventura.

Aveva infatti aperto un locale chiamato ^la Falconiera^ a Venegazzù diVolpato di Montello, un ristorante di lusso che era anche un luogo diritrovo; in essi si ritrovavano provocatori di ogni tipo, prevalentementepersonaggi neofascisti, compresi Freda e Ventura, strani soggetti deiquali si diceva appartenessero alla C.I.A. ovvero a Servizi segretistranieri diversi come il Servizio Israeliano.

I contatti tra me e il Loredan divennero più frequenti, cominciammo afrequentarci con una certa assiduità ed egli venne alcune volte a casamia; mi regalò anche alcune casse di vino, che produceva. Io all’epocacercavo di metterlo sull’avviso per evitare che egli si spingesse troppooltre nel propagandare le sue idee rivoluzionarie; egli aveva adocchiatovarie industrie della zona, come la Zoppas di Conegliano e la ConfezioniSanremo di Cairano San Marco, per fare proselitismo delle sue idee fragli operai. Io mi attivavo nei confronti degli operai ammonendoli di starein guardia dalle provocazioni del Conte Loredan.

Il Conte, dal canto suo, cercava di conoscere circostanze relative allamia attività politica durante gli incontri che all’epoca divennero periodici.Io ovviamente non gli dicevo nulla in ordine all’attività politica del PartitoComunista Italiano e cercavo di fargli capire la pericolosità delle idee chesi era messo in testa, cioè propagandare una rivoluzione di stamponeofascista, e delle persone che frequentavano il suo locale.

L’epoca in cui si svolgevano questi contatti è quella del 1968/69,immediatamente precedente alla strage di Piazza Fontana del12.12.1969. Dopo Piazza Fontana Loredan sparì letteralmente dallacircolazione anche se il suo ritrovo fu gestito da altri; nello stessocontinuarono le frequentazioni dei personaggi sopra descritti.

Dopo molto tempo in cui non avevo più avuto contatti con il Conte, unamattina alle ore 6,30 improvvisamente lo stesso mi telefonò a casa.

Posso essere molto preciso su tale data in quanto essa avvenne duegiorni prima della strage di via Fatebenefratelli. Per tanto era il 15 maggio1973. La telefonata mattutina mi pervenne da un telefono pubblico, a suodire; il Conte mi apparve agitato e disse che doveva parlarmiurgentemente dicendomi di andare a Porta Santi Quaranta, un luogo delcentro di Treviso. Mi recai immediatamente sul posto, salii sulla sua autoe qui, dopo esserci spostati di poco, lo stesso mi disse queste testualiparole: ^questa volta spero che mi diate un po’ di fiducia; a Milano entro48 ore succederà un attentato contro un’alta personalità del Governo ene parlerà l’intera Italia. Avvisa chi di competenza^. Era molto agitato ecapii che mi aveva chiamato nella sincera speranza che io riuscissi adevitare quanto di grave stava per succedere. Preciso che egli mi parlòdicendomi solo che l’attentato sarebbe avvenuto a Milano ma non mifornì alcun altro dettaglio sulla località o la zona in cui esso sarebbeavvenuto. Egli non mi disse testualmente la matrice dell’attentato;tuttavia ciò era implicito per me date le sue frequentazioni all’epoca con ineofascisti. Il conte sapeva perfettamente che io ero al corrente delle suefrequentazioni con Freda, Ventura ed i neofascisti e che consideravo luidi estrema destra nonostante le sue coperture a sinistra, o in ogni caso isuoi tentativi di copertura a sinistra. Dopo avermi detto ciò egli siallontanò con la sua auto ed era veramente molto agitato.

Io non ebbi alcun dubbio sulla sincerità della sua preoccupazione, nédubitai sulla veridicità di quanto mi era venuto a dire; naturalmente rimasimolto scosso. Dopo aver riflettuto un attimo, ritenni di non avvertire ilsegretario della mia Federazione di quello che mi era successo perchéera molto giovane. Poiché non ho mai guidato mi recai subito allastazione, che era poco distante, e presi il primo treno per Venezia, ovemi recai dal dirigente On. Ceravolo, del Comitato Regionale Veneto delPartito Comunista Italiano. Gli riferii tutti i dettagli dell’episodio, le paroleprecise dettemi dal Conte e la fonte delle mie notizie, cioè il ConteLoredan. Anche l’On. Ceravolo rimase scosso; per tanto salimmoimmediatamente sulla sua auto e ci mettemmo in viaggio per Milano. Eraun ottimo conducente, ricordo che corse ad alta velocità sull’autostrada;arrivammo alle ore 11 circa in via Volturno ove era la sede dellaFederazione Comunista. Devo a questo punto aggiungere che ilcolloquio fra me e l’On. Ceravolo avvenne a quattr’occhi nella sede delComitato Regionale del P.C.I. ubicato in Corte del Remer a Venezia.Prima di partire il Ceravolo incaricò la funzionaria del Comitato Regionaledi telefonare alla Direzione del Partito Comunista Italiano a Roma al finedi invitare l’On. Pajetta, o chi per esso, di salire subito a Milano per unacosa molto grave. Infatti mezz’ora dopo il nostro arrivo in via Volturno aMilano arrivarono anche Pajetta, che aveva preso un aereo, e l’On.Malagugini, Consigliere della Corte Costituzionale. Riferii testualmentequanto avvenuto e l’informazione ricevuta al Pajetta e al Malagugini. Surichiesta degli altri il Malagugini si incaricò di contattare il giudiceAlessandrini per riferire l’episodio e l’informazione ricevuta dal Loredan.Dopo aver parlato con il Malagugini, io e il Ceravolo ripartimmo per

Venezia. Non ho più saputo nulla dopo quel giorno, cioè quel 15 maggio1973. Due giorni dopo appresi dalla televisione della strage. In veritàappena informato della strage pensai che Loredan aveva avuto ragione;in realtà avevo pensato che avesse detto il vero sin dal 15.5.73 ed è perquesto che mi ero attivato nel modo sopra descritto. Mi ero reso contoche lo scopo per cui il Loredan mi aveva avvertito era proprio quello diattivarmi”.

Quanto al fatto di aver taciuto tanto a lungo, il teste dichiarava: “nonritenevo di dover propagandare un fatto segreto che mi era stato riferito eanche perché il mio intervento non aveva ottenuto i risultati che speravo”.

Il 31 marzo 1995 il Giudice Istruttore sentiva Domenico Ceravolo (giàdeputato, dal ’58 al ’72, prima per il PSI poi per il PSIUP, nel 1980parlamentare europeo per il PCI, nel 1973 dirigente del ComitatoRegionale Veneto del Partito Comunista Italiano). Il teste inizialmentericordava che effettivamente il Dalla Costa era giunto a Venezia,proveniente da Treviso, e gli aveva riferito di una trama eversiva in cui ilLoredan era coinvolto, “poiché la trama eversiva poteva sfociare inqualcosa di grave a breve scadenza, egli era venuto a mettere in guardiail Partito. Il suo avvertimento mi parve attendibile in quanto sorretto dallesue frequentazioni con il Loredan di cui ci mise al corrente.........Ripeto: laricostruzione di Dalla Costa mi apparve attendibile, perché io ricordo chesi parlò di un pericolo imminente e che io conseguentemente decisi diallertare subito il Centro nazionale del Partito a Roma, e cioé la DirezioneNazionale........La convinzione che io e il Dalla Costa ci formammo è cheil Loredan avesse voluto sul serio, con le sue informazioni, prevenirel’attentato”.

Dopo una breve sosta richiesta dallo stesso testimone “per mettereordine” nei suoi ricordi, il Ceravolo confermava anche nei dettagli quantoriferito da Ivo Dalla Costa. Così proseguiva: “la sosta mi è stata proficuain quanto, mettendo a fuoco l’episodio, mi sono ricordato di un dettaglioapparentemente banale ma che in realtà mi ha aperto uno squarcio neiricordi consentendomi di rievocare il viaggio e altri ricordi. Mi sono insostanza ricordato che per la fretta di arrivare all’appuntamento, ero unpo’ agitato, dopo aver percorso l’autostrada Venezia-Milano sbagliail’accesso migliore per arrivare speditamente all’appuntamento infederazione in via Volturno; dovemmo per tanto fare un giro più lungoche ci procurò un certo ritardo. Mi sono ricordato anche che, a seguitodella telefonata fatta a Venezia alla Direzione del Partito, mi era statodetto di recarci a Milano in via Volturno dove avremmo trovato gliOnorevoli Pajetta e Malagugini”.

Il Ceravolo confermava quanto già riferito da Ivo Dalla Costa sulcolloquio avuto con gli Onorevoli Pajetta e Malagugini e circa il fatto cheil secondo si era assunto l’incarico di informare l’autorità giudiziaria (inpersona del giudice Alessandrini), cosa che il teste riteneva fossecertamente avvenuta, anche perché il Malagugini si era allontanato primaancora che la riunione terminasse.

Ritiene questa Corte, come già i primi giudici, che non possanosussistere dubbi sull’attendibilità dei due testimoni: il Dalla Costa avevasvolto a Treviso una lunga attività politica nel Partito Comunista Italiano efin dal 1950 ne era stato un funzionario, era stato consigliere Provincialee Presidente del Comitato Regionale di Controllo; al tempo della suatestimonianza era componente del Comitato Scientifico dell’IstitutoStorico della Resistenza. Della sua serietà e attendibilità aveva poigarantito Domenico Ceravolo, all’epoca dei fatti dirigente nazionale delP.C.I., il quale così si esprimeva a proposito di Ivo Dalla Costa: “benchénon vi fosse una frequentazione assidua tra me e il predetto, ricordo chelo stesso svolgeva attività politica nella federazione provinciale del PartitoComunista Italiano, anche se non ricordo esattamente con qualimansioni. Ribadisco che in quel periodo per motivi politici l’ho incontratoalcune volte a Treviso e anche a Venezia nel Comitato RegionaleVeneto. Posso dire che considero Ivo Dalla Costa persona degna distima, equilibrata e attendibile nelle circostanze che può averle riferito.

L’attendibilità intrinseca dei due testimoni, comunque, non è statamessa in dubbio da alcuno, tenuto conto della assoluta concordanzadelle loro dichiarazioni. I prospettati elementi di perplessità hannosemmai riguardato l’affidabilità della fonte di Ivo Dalla Costa nonchél’esatta natura dell’informazione dallo stesso ricevuta e riferita dopo moltianni.

Occorre, quindi, dedicare la giusta attenzione al personaggio Loredan.Su questi riferiva al Giudice Istruttore il comandante della PoliziaGiudiziaria dei Carabinieri presso il Tribunale di Milano con rapporto indata 18 aprile 1995: Pietro Loredan, nato a Venezia nel 1924, trasferitosinel 1954 a Venegazzù di Volpago di Montello (TV), era personabenestante, proprietaria di case e terreni (una parte venduti nel 1970) siaa Venegazzù che a Venezia; era descritto come militante del movimento“Avanguardia Nazionale”, la stessa organizzazione di Giovanni Ventura;risultava che il Loredan e il Ventura erano cointeressati a un’impresaeditoriale (la “Lerici”) e che lo stesso Ventura, nel 1972, aveva effettuatoalcune operazioni bancarie garantite dai fratelli Pietro e Alvise Loredan;da un rapporto del Servizio Informazioni Difesa, di poco successivo allastrage di via Fatebenefratelli, risultava ancora che Pietro Loredan avevafatto parte di Ordine Nuovo per un lungo periodo di tempo, che lo stessosi era poi infiltrato nel partito marxista leninista dal quale era statoespulso, che aveva alienato tutto il suo patrimonio, ricavandone oltre unmiliardo di lire, recandosi poi all’estero.

I rapporti tra Ventura e il conte Loredan erano confermati dal testeGiuseppe Universo (ospite del Loredan dall’autunno 1971 al luglio 1973)il quale affermava di aver conosciuto Ventura nella libreria di Treviso dicui era direttore e di averlo visto una o due volte nel ristorante “laFalconiera” di proprietà del Loredan in compagnia di questi; confermavaaltresì il comune interessamento del Ventura e del Loredan per una casaeditrice in procinto di fallire.

Stimamiglio Giampaolo - aderente a Ordine Nuovo dal 1969 ed entratoin contatto con numerosi esponenti di rilievo di quella organizzazione(Soffiati, Digilio, Massagrande, Besutti, Bizzarri, Spiazzi, Maggi, Zorzi,Neami, Portolan) - sentito dal Giudice Istruttore il 19.7.97, dichiarava dinon aver conosciuto il conte Pietro Loredan, del quale però GiovanniVentura gli aveva parlato come di una vecchia conoscenza. Fin dagiovane era stato amico della famiglia Ventura, mantenendoquell’amicizio anche quando Ventura era stato arrestato per la strage diPiazza Fontana; era stato poi coinvolto nella fuga di Giovanni Ventura esi era anche recato a trovarlo in Argentina nel 1981.

Quanto all’informazione relativa all’attentato della Questura, chesarebbe stata fornita dal Loredan due giorni prima della sua esecuzione,Stimamiglio rendeva dichiarazioni di notevole importanza, non tanto perl’opinione espressa su come Pietro Loredan potesse essere venuto aconoscenza dell’imminente attentato, quanto per comprendere qualifossero, all’epoca che qui interessa, le frequentazioni del Conte: “ritengoche Pietro Loredan deve aver appreso dell’attentato del 17.5.73dall’entourage di Giovanni Ventura. Se non erro, nel ‘73 GiovanniVentura era detenuto ed è possibile che ne abbia parlato con le personeche andavano a colloquio con lui o che qualcuno ne avesse parlato conpersone che andavano a colloquio con lui.

Ricordo che all’epoca andavano a colloquio con Giovanni spesso lamadre e la sorella Mariangela. La mia interpretazione dell’episodio è laseguente: qualche amico della famiglia Ventura che continuava amantenere i contatti con l’organizzazione deve avere parlato conqualcuno dei famigliari di Giovanni in occasione delle frequenti visite chetutti gli amici facevano in casa Ventura per avere notizie di Giovanni.Qualcuno di tali amici deve avere avvertito la Mariangela o qualcun’altroche il programma di attentati ideato negli anni precedenti era ancora infase di esecuzione e che un altro attentato era in fase di realizzazione.

Il Conte Pietro Loredan che, per l’amicizia con Giovanni, era abitualefrequentatore di casa Ventura e deve avere appreso che stava peravvenire di lì a qualche giorno l’attentato a Milano; deve essersipreoccupato e ha cercato una persona di sua fiducia che potesseavvertire qualcuno che potesse prevenirlo.

Ho sempre goduto della fiducia e delle confidenze di Giovanni Ventura(ucciso nel maggio 1989 nella zona di Campagnano Romano inoccasione di una rapina) per gli stretti rapporti di amicizia. Luigi, già nelperiodo settembre-novembre ‘69 mi aveva parlato del programmadell’organizzazione di porre in essere una catena di attentati successivinel tempo da eseguire a più riprese. Mi parlò in particolare di uncrescendo di attentati eclatanti che avrebbero dovuto portare a unasvolta politica. Parlando di organizzazione Luigi si riferiva a una strutturache aveva ramificazioni anche negli apparati statali.

In conclusione, tenuto conto dei discorsi ascoltati dal Luigi nel ‘69,riferentisi a un programma da effettuarsi nel tempo, tenuto conto deisuccessivi discorsi del Luigi del ‘73 indicanti che quei programmi erano

ancora attuali, essendo a conoscenza dei rapporti di amicizia tra PietroLoredan e la famiglia Ventura, ho ritenuto di formularle la mia opinione ela mia chiave di lettura dei fatti relativi a Pietro Loredan di cui mi ha testèedotto”.

La vicenda in esame, definita dai primi giudici “la strage annunciata”, dicui si sono sopra indicati i punti fondamentali e gli elementi di verificaacquisiti, richiede di essere esaminata in ogni dettaglio, così comerichiesto dalla Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento,considerata la sua assoluta rilevanza - come si è detto - in ordine a undefinitivo giudizio sulla credibilità delle dichiarazioni di Gianfranco Bertolie all’individuazione della vera matrice della strage del 17 maggio 1973.

Si ribadisce innanzitutto, come già fatto dai giudici di primo grado, lapersonale attendibilità del teste Ivo Dalla Costa: la sua fu senz’altro unatestimonianza spontanea, frutto si potrebbe dire di un imperativo moralein lui risvegliato, dopo oltre vent’anni dai fatti, dalla protervia con cuiBertoli, con l’intervista rilasciata al giornalista del Corriere della Sera, perl’ennesima volta aveva ribadito di aver agito da solo, che il suo era statoil gesto di un “anarchico individualista”, di non aver mai ricevuto soldidagli “007”, e se la prendeva con il Giudice Istruttore che non sirassegnava a recepire, una volta per tutte, quella versione. Fu per taliragioni, come dallo stesso affermato, che Dalla Costa si rivolse al dr.Valmassoi della Procura di Treviso e, per suo tramite, entrò in contattocon il Giudice Istruttore che ancora proseguiva l’indagine sugli eventualimandanti della strage della Questura.

E’ più che giusto chiedersi perché il Dalla Costa abbia atteso tantotempo per rivelare personalmente all’autorità giudiziaria quanto appresodal conte Loredan due giorni prima dell’attentato. La risposta fornita daltestimone può, almeno in parte, spiegare le ragioni di quel lungo silenzio:il suo attivarsi, all’epoca, per mettere altri al corrente delle informazioniricevute non aveva sortito effetto alcuno dato che la strage, come benpoteva essere, non era stata evitata. Ma anche altre, ad avviso di questaCorte, sono le ragioni che devono avere indotto il testimone a tacere peranni sulla vicenda: egli, diversamente da qualunque cittadino che fossevenuto a conoscenza di fatti tanto gravi che si stavano preparando,anzicché riferirne direttamente alle forze di polizia o all’autoritàgiudiziaria, agì da uomo politico, forse ritenendo che le notizie di cui eraentrato in possesso dovessero essere prima valutate da chi si trovava,nel P.C.I., a un livello gerarchico superiore al suo, da chi, se del caso, sisarebbe assunto il compito di allertare i pubblici poteri. Dalla Costa sicomportò ancora da uomo politico, anche se la sua fu una condottaumanamente comprensibile, tacendo per anni non solo su quantoappreso, al tempo, da Pietro Loredan ma anche sul fatto di averneimmediatamente riferito a due importanti esponenti del PartitoComunista, cioè agli On.li Pajetta e Malagugini.

Dalla Costa, come ben fa intendere con le sue dichiarazioni conclusive,riteneva, informando i due parlamentari, di aver fatto tutto quanto nelle

sue possibilità per sventare l’attentato, tant’è vero che non si era piùinteressato se le informazioni fornite fossero state trasmesse a chi didovere, né aveva chiesto o saputo in seguito se l’On. Malagugini avesseinformato l’autorità giudiziaria così come si era impegnato a fare.

E’ cosa certa, come acclarato dalle relative indagini, che l’informazionepreannunciante l’attentato non pervenne mai al Dr. Emilio Alessandrini(della Procura di Milano), indicato come il magistrato che doveva esserecontattato dall’On. Malagugini, sicché non si fece nulla per allertare chiavrebbe potuto prevenire e sventare la strage del 17 maggio 1973.

L’attentato, purtroppo, puntualmente avvenne così come era statopreannunciato da Pietro Loredan, ed è ben comprensibile, se nonscusabile, che in seguito si sia serbato assoluto silenzio sulla vicenda: sisarebbe trattato, infatti, di attribuire una gravissima responsabilità, con leimmaginabili conseguenze di natura politica, a due alti esponenti delP.C.I., a chi, pur potendo e dovendolo fare, non ritenne di attivarsi.

Questi, secondo la Corte, furono con tutta probabilità i motivi cheindussero Ivo Dalla Costa a tacere per lunghi anni, ma di ciò non puòessere fatto soverchio rimprovero al testimone posto che il vero errore,semmai, fu commesso quel giorno 15 maggio ’73 dagli On.li Pajetta eMalagugini. Gli stessi, al tempo della testimonianze di Dalla Costa, eranogià deceduti sicché non è stato possibile comprendere fino in fondo leragioni della loro inerzia del tempo. L’ipotesi più probabile, ma è soloun’ipotesi per quanto ragionevole, è che i due parlamentari (il Malaguginiin particolare), analizzando meglio l’informazione loro fornita da DallaCosta e la fonte di questi, non abbiano attribuito la giusta importanza eattendibilità all’avvertimento, anche tenuto conto che in quegli anni ditensione, non erano infrequenti simili allarmi.

La testimonianza di Ivo Dalla Costa è stata precisa e perfettamentelineare per quanto attiene al punto focale delle sue dichiarazioni relativeall’oggetto e alle modalità dell’informazione ricevuta dal conte Loredan:precisi i riferimenti di tempo e luogo con l’indicazione che la telefonata diLoredan gli era pervenuta alle ore 6,30 del mattino due giorni primadell’attentato alla Questura; il teste si è dichiarato assolutamente certoche si trattasse proprio del 15 maggio ’73; l’incontro immediatamentesuccessivo con Pietro Loredan in una zona di Treviso ben determinata(Porta Santi Quaranta).

Tutti segni di un ricordo nitido dei fatti nonostante il tempo trascorso.Altrettanto preciso e lineare il racconto di Dalla Costa per quanto attiene:1) al colloquio avuto con il conte Loredan e il letterale tenoredell’informazione/avvertimento da questi ricevuta (“Questa volta speroche mi diate un po’ di fiducia: a Milano tra 48 ore succederà un attentatocontro un’alta personalità del Governo e ne parlerà l’intera Italia. Avvisachi di competenza”), 2) all’immediata partenza in treno per Venezia, 3)all’informazione subito portata aconoscenza del Ceravolo, 4) allatelefonata fatta alla Direzione Centrale del Partito a Roma e l’invito arecarsi, la mattina stessa, a Milano per incontrarsi con gli On.li Pajetta e

Malagugini, 5) il veloce viaggio a Milano sull’autovettura guidata dalCeravolo, 6) l’incontro con i due parlamentari nella sede milanese di viaVolturno.

Su tutte le indicate circostanze la testimonianza di Dalla Costa hatrovato piena conferma in quella di Domenico Ceravolo (ribadita anche infase dibattimentale, nella quale non fu sentito, con l’accordo delle parti, ilDalla Costa stante l’età avanzata e le precarie condizioni di salute) ilquale, come si è detto, dopo iniziali esitazioni, reso edotto dal G.I. delledichiarazioni di Ivo Dalla Costa e chiesta una breve pausa “per riordinarei ricordi”, riferiva sostanzialmente negli stessi termini la vicenda inesame.

Il teste rendeva ancor più credibile il rinnovato ricordo dei fatti riferendoun particolare apparentemente privo di rilievo: percorsa l’autostradaVenezia-Milano ( a tutta velocità secondo Dalla Costa), al momento didirigersi verso il centro città aveva sbagliato strada, il che avevacomportato un certo ritardo del loro arrivo in via Volturno. E’ superfluosottolineare che se il Ceravolo ricordò, tra l’altro, quel particolare èevidente che egli non solo aveva perfetta memoria del viaggio ma chericordava anche l’estrema urgenza e necessità di quella trasferta nelcapoluogo lombardo per recarsi all’appuntamento con il Pajetta e ilMalagugini.

Su un solo punto le due testimonianze non hanno concordatopienamente, ma si tratta di particolare di poco conto, questo si passibiledi un ricordo non perfetto: secondo Dalla Costa la telefonata fatta daVenezia alla Direzione Centrale del P.C.I. avrebbe determinatol’immediata partenza da Roma per Milano degli On. Pajetta e Malaguginimentre, secondo il Ceravolo i due parlamentari erano già presenti aMilano nella locale sede del Partito, dove poi sarebbe avvenutol’incontro.

Tenuto conto della accertata attendibilità dei due testimoni non si ritienepossa essere messo in dubbio che Dalla Costa ebbe l’infomazionedell’imminente attentato proprio dal conte Pietro Loredan. Lo stessotestimone ha ampiamente illustrato le ragioni della conoscenza e dellafrequentazione del Loredan, sicchè appare del tutto verosimile chequest’ultimo, ritenendo di informare qualcuno di propria fiducia il quale asua volta avrebbe dovuto avvertire “chi di competenza”. D’altro canto èaltrettanto credibile che Dalla Costa abbia prestato fede a quanto gliaveva detto il Loredan considerato che questi non era certo una personaqualsiasi (il che avrebbe destato perpressità e probabilmente incredulitànell’interlocutore) ma era quel personaggio che il testimone ha descrittoin modo esauriente: uno “squinternato” (vale a dire un individuo singolaree strano nei propri comportamenti) con velleità rivoluzionarie che speravadi far leva, per conseguire i suoi scopi eversivi, sia sull’estrema destraneofascista sia su frange estreme opposte. Sta di fatto che Dalla Costanon lo aveva del tutto sottovalutato se è vero che lo stesso aveva cercato

di convincere Loredan a non fare più certi discorsi, a non frequentarecerti ambienti e persone, a rinunciare ai suoi propositi tanto velleitariquanto pericolosi, se è vero infine che Dalla Costa, come da lui stessoaffermato, si era attivato per mettere in guardia gli ambienti operai vicinial Partito da provocatori del tipo, appunto, del conte Loredan.

E’ probabile che il testimone, stante il giudizio poco lusinghiero sulConte, non fosse portato ad attribuire troppo credito alle parole diLoredan ma quella mattina del 15 maggio ’73, a Treviso - evidentementeturbato dalla telefonata giuntagli in ora tanto mattutina – non solo avevaimmediatamente accolto l’invito ad incontrarsi ma aveva prestato fedealle parole di Pietro Loredan sia per l’assoluta gravità dell’informazionesia perché l’interlocutore aveva cercato in tutti i modi di essere credutoiniziando il suo dire con la frase “spero che questa volta mi diate un po’ difiducia” (a dimostrazione che Loredan sapeva di non essere,normalmente, preso troppo sul serio ma confidava che, almeno in quellaoccasione, si credesse alle sue parole; il che implica che egli fosse certodi quanto diceva e che lo scopo del colloquio era quello di far si chel’attentato fosse sventato).

E’ del tutto credibile che Pietro Loredan, stanti le sue conoscenze efrequentazioni, fosse in possesso dell’informazione trasmessa al DallaCosta: come accertato dalle indagini, egli frequentava per lo più ambientidell’estrema destra veneta, aveva fatto parte di Avanguardia Nazionale edi Ordine Nuovo, si incontrava, per lo più nel ristorante già di suaproprietà a Vengazzù, con personaggi che facevano parte di quelleorganizzazioni, in particolare manteneva assidui contatti con la famigliadi Giovanni Ventura, all’epoca detenuto in relazione alla strage di PiazzaFontana del dicembre 1969.

Le indagini non hanno consentito di accertare come, quando e da chi ilLoredan abbia appreso dell’imminente attentato a Milano ma non sembradi essere lontani dal vero ritenendo molto verosimile l’opinione diGiampaolo Stimamiglio (persona ben inserita negli ambienti dell’estremadestra neofascista veneta) secondo cui Pietro Loredan poteva averericevuto, nell’entourage della famiglia di Giovanni Ventura,l’informazione che a breve sarebbe stato eseguito l’attentato nel quadrodi un programma da tempo ideato e ancora, all’epoca, attuale.

Su quale fosse stata la fonte di Pietro Loredan, o meglio su come lostesso si fosse convinto che era imminente l’attentato al punto diavvertire il Dalla Costa, è stata prospettata un’ipotesi alternativa, giàesaminata dal Giudice Istruttore oltre che dalla Corte d’assise esenz’altro scartata, nonché dai giudici di appello i quali, invece, l’hannoritenuta idonea a spiegare esaustivamente come e in quale occasione ilconte Loredan era venuto a conoscenza di ciò che, secondo la suaconvinzione, si stava preparando a Milano. In sintesi, questi avrebbepartecipato a una cena nella propria villa a Venegazzù con GiuseppeUniverso (scrittore, suo ospite con la moglie per circa due anni), Sergio

D’Asnash (giornalista dell’ANSA) e Sergio Saviane (anch’egli giornalista).Nell’occasione, come riferito dal teste Universo, tutti avevano ecceduto inlibagioni e si era parlato della situazione politica e dell’ordine pubblico,considerata esplosiva. Sergio Saviane in seguito aveva scritto unarticolo, dal titolo “domani salta in aria Milano”, pubblicato dall’Espresssoil 12 agosto 1973.

A seguito di quell’articolo il D’Asnash aveva temuto di perdere il postodi lavoro (evidentemente se ritenuto in possesso di notizie non riferite), eaveva querelato per diffamazione sia il Saviane sia Zanetti (direttoredell’Espresso), ottenendo la condanna di entrambi, anche grazie allatestimonianza di Giuseppe Universo.

Nel corso dell’istruttoria di quel processo era stato sentito anche il conteLoredan il quale aveva minimizzato i fatti, pur ammettendo che la cenaera avvenuta e che gli argomenti toccati erano quelli cui aveva fattoriferimento il teste Universo.

Si annota, per inciso, che poco tempo dopo il Loredan alienerà tutte lesue proprietà e sparirà dalla circolazione emigrando all’estero (si avrannosue tracce in Italia solo nel 1994 quando lo stesso, a seguito di unincidente stradale e di un tumore, morirà in quel di CampagnanoRomano, per singolare coincidenza lo stesso luogo dove nel 1989Giovanni Ventura era stato ucciso nel corso di una rapina). La fuga delLoredan - da porsi senz’altro in relazione con lo stato di estremaagitazione in lui notato da Giuseppe Universo nei giorni successiviall’attentato di via Fatebenefratelli (condizione che, oltre agli straniatteggiamenti del Conte, avevano indotto Universo a lasciare la villa diVenegazzù) - così può essere ragionevolmente spiegata: Pietro Loredanben sapeva di aver confidato a Dalla Costa quanto appreso sull’attentato;se il fatto fosse in qualche modo emerso è ovvio che egli avrebbe corsogravi rischi; quei rischi dovevano essergli apparsi concreti quando il suonome era stato associato, a causa dell’articolo del Saviane e al processoche ne era seguito, con i fatti del 17 maggio 1973.

L’ipotesi alternativa di cui si è detto, che - se adeguatamente accertata -dimostrerebbe che quanto riferito a Dalla Costa da Pietro Loredannull’altro era che una elaborazione di discorsi generici avvenuti nel corsodella menzionata cena e delle relative libagioni, è stata ritenutainsussistente dalla Suprema Corte la quale (pag. 10 della sentenza diannullamento), censurando sullo specifico punto la motivazione deigiudici di appello, ha affermato: “La ricostruzione fatta dalla Corte dimerito, oltre che poco credibile, appare contraddittoria, perché contrastacon il fatto che Dalla Costa ha riferito di avere ricevuto la telefonata daLoredan alle ore 6,30 del giorno 15.5.1973, mentre la cena con D’asnashè stata dalla stessa Corte indicata nella sera dle giorno 15.5.73, quindiLoredan, quando ha parlato con Dalla Costa non avrebbe avuto ancoradal D’Asnash le informazioni sull’attentato in preparazione. Appareinvece maggiormente credibile che il Loredan nel corso della cena abbia

detto qualcosa di quanto aveva saputo e che il D’Asnash (rectius: ilSaviane, n.d.u.) abbia elaborato la notizia a suo modo.

Ma, prescindendo per un momento dalla testé riportata affermazionedella Corte di Cassazione, che già di per se stessa sarebbe sufficiente astabilire che - lungi dall’essere l’elaborazione fantasiosa di chiacchiere daristorante - l’infomazione trasferita al Dalla Costa dal Conte Loredan furicevuta da quest’ultimo altrove e da altri, la su accennata spiegazionealternativa non regge a un esame sorretto da un minimo di logica:occorrerebbe, in vero, un grande sforzo di immaginazione per ipotizzare,nella vicenda in questione, il realizzarsi di una incredibile coincidenza,rappresentata dal fatto che Loredan, elaborando per conto suo e a suopiacimento discorsi generici e frutto di un uso eccessivo di bevandealcoliche, si sia convinto (al punto di informarne con urgenza il DallaCosta, alle 6,30 del mattino) che nel giro di 48 ore a Milano vi sarebbestato un attentato di estrema gravità, avente come bersaglio unimportante membro del Governo (alla cerimonia in memoria delcommissario Calabresi era presente il Ministro degli Interni On. MarianoRumor) e dal fatto che l’attentato si verificò esattamente, per tempo eluogo, come previsto.

E’ allora evidente che la notizia in possesso di Pietro Loredan eraassolutamente precisa e attendibile e che la stessa non poteva cheprovenire dagli ambienti e dalle persone frequentate dallo stessoLoredan.

E’ infine da escludere categoricamente la lontanissima ipotesi cheLoredan abbia riferito a Dalla Costa qualcosa di più generico (e se cosìfosse stato, perché farlo con tanta urgenza ?): a parte la serietà el’attendibilità di questo testimone, è semplicemente assurdo pensare chelo stesso, a fronte di generiche informazioni, abbia reagito, come in effettifece, prendendo il primo treno per Venezia, informando il Ceravolo diquanto aveva appreso, abbia ritenuto di informare la Direzione Centraledel P.C.I, si sia precipitato a Milano con il Ceravolo per riferirel’informazione ricevuta a due altissimi esponenti del Partito. Tutto ciòavvenne perché quanto riferito da Pietro Loredan non solo era statoestremamente preciso ma era apparso del tutto credibile all’interlocutore.

Da ultimo, a conforto delle considerazioni che precedono, si ritiene utilerichiamare alcuni punti della sentenza di annullamento. Sulla “vicendaLoredan” la Corte di Cassazione ha, tra l’altro, osservato: “La Corted’assise di Appello ha concluso la disamina degli elementi di provaacquisiti con un giudizio perentorio sintetizzato nella frase ^Orbene,anche attraverso gli elementi acquisiti nel corso della rinnovazioneparziale del dibattimento nel giudizio d’appello, si deve ritenereincontestabilmente accertato che la strage compiuta da Bertoli non èstata in alcun modo preannunciata da Pietro Loreda^. L’indicataaffermazione, per quanto concerne l’episodio Loredan, va considerata

frutto di un travisamento dei fatti, che ha determinato una motivazioneillogica perché non coerente con gli elementi obiettivamente accertati”.Esaminati i punti più significativi delle testimonianze di Ivo Dalla Costa edi Domenico Ceravolo, i giudici di legittimità così proseguono: “Da questaricostruzione in fatto non può escludersi il significato indiziariodell’episodio riferito. Infatti non si può escludere che l’episodio si siaverificato o che il contenuto della comunicazione sia stato tale da averallarmato il Dalla Costa e il Ceravolo.............Dalla Costa conosceva beneil conte Pietro Loredan che era suo buon amico e sapeva che era incontatto continuo con elementi di Ordine Nuovo del Veneto, aveva quindipersonalmente dato credito alla notizia, successivamente rivelatasicoincidente, o almeno molto simile, con l’attentato di via Fatebenefratelli.La Corte di merito avrebbe dovuto ritenere valida la preoccupazione delDalla Costa, dato che agli atti vi erano elementi di prova idonei aconfermare i rapporti fra Loredan ed elementi di Ordine Nuovo. Il testeUniverso aveva affermato di aver incontrato più volte Giovanni Venturanel ristorante denominato La Falconiera di proprietà del conte Loredan.La sentenza ha inoltre omesso di valutare (sul punto) le dichiarazioni delteste Stimamiglio”. Richiamate le dichiarazioni di quest’ultimo, laSuprema Corte ha ancora osservato: “Pur potendo la Corte d’Appellotranquillamente ritenere che il Loredan aveva appreso la notizia delprossimo attentato negli ambienti di Ordine Nuovo, ha preferitoavventurarsi in una complicata e incerta costruzione logica che l’hacondotta ad affermare che Pietro Loredan aveva appreso, il 15 maggio1973, dal giornalista Sergio D’Asnash la notizia (generica) di gravi fattiche stavano per accadere a Milano. Deve quindi ritenersi che, sul punto,la Corte di merito abbia effettuato una analisi non esauriente dellerisultanze probatorie acquisite, che ha inciso sul processo di liberoconvincimento del giudice di Appello, condizionandolo fino a produrre glieffetti negativi di un’imprecisa ricostruzione del contenuto delle proveesistenti in atti, con conseguenze non coerenti sul piano logico”.

Per tali ragioni la Suprema Corte ha annullato la sentenza d’appello sulpunto, rinviando a questa Corte la corretta rilettura delle prove esistenti,per accertare “se vi sia stato un collegamento fra Loredan e il gruppo diOrdine Nuovo diretto da Carlo Maria Maggi e se la notizia sia scaturita dainformazioni ricollegabili all’attività degli imputati”.

Si ritiene, nel limite del possibile e degli elementi probatori disponibili, diavere compiuto il riesame richiesto. Quale conclusione si può ribadireche l’informazione fornita da Pietro Loredan a Ivo Dalla Costa fuestremamente precisa e attendibile e che la stessa provenne senz’altrodagli ambienti e personaggi dell’estrema destra veneta all’epocafrequentati dal Loredan; difficile dire, invece, se l’infomazione ebbe comefonte il gruppo di Ordine Nuovo del Maggi, o personalmente dallo stesso,pur potendosi ritenere verosimile tale eventualità, per quanto si dirà nelprosieguo della motivazione.

Due fatti sono, comunque, certi al di là di ogni dubbio: la strage di viaFatebenefratelli fu annunciata, due giorni prima del suo verificarsi,dall’informazione fornita da Pietro Loredan. Gianfranco Bertoli hasicuramente mentito attribuendo a se stesso, come “anarchicoindividualista” la decisione e l’esecuzione dell’attentato. Questo fustudiato, deliberato e organizzato da altri (che, infatti, ne erano aconoscenza) e a Bertoli fu affidato il compito di compiere la strage.

A conclusione di questa parte della sentenza, merita un cennol’interrogativo che la Corte si è posta: il motivo per cui Bertoli non abbiamai mutato versione, nelle linee essenziali, e perché si sia ostinato amentire. Lo si tratta per completezza ma il tema, a questo punto, è diassai scarso rilievo. Tenuto conto della difficoltà dell’argomento stante lacomplessità del personaggio Bertoli, quale appare dalle sue stessedichiarazioni, dalla perizia psichiatrica e dalla testimonianzadell’assistente sociale Rossella Monaco (alle quali si rimanda) nonchédall’indagine sulla sua personalità compiuta dal Giudice Istruttore (siveda l’apposita nota), si può solo tentare una risposta: GianfrancoBertoli, probabilmente prescelto per compiere l’attentato sia perchéfacilmente suggestionabile sia per le proprie conclamate (ma assaidubbie) scelte politico/ideologiche, aveva messo in conto che, a seguitodel suo gesto (si noti, una bomba da lanciare contro un ben precisobersaglio, un’azione che, a differenza di altri gesti terroristici, richiedevala palese partecipazione del suo autore) sarebbe stato ucciso o quantomeno arrestato e condannato a una lunga pena detentiva; in questaseconda ipotesi egli non avrebbe dovuto fare i nomi dei suoi mandanti,sicché l’unico modo per non fare quei nomi era quello di negare in radicel’appartenenza a un’organizzazione e l’esistenza di persone che avevanoideato/organizzato l’attentato e che lo avevano incaricato della suaesecuzione.

Così Bertoli avrebbe conseguito lo scopo, che si ritiene primario: evitaregravissime ritorsioni da parte dei mandanti, quali il rischio di essereucciso che lo stesso Bertoli - stando alle dichiarazioni dello Shustermane di Rossella Monaco – apertamente temeva (sembra, in proposito,fornire conferma la messinscena del tentato suicidio proprio inconcomitanza con l’arresto di Carlo Maria Maggi e degli altri).. Altraipotesi, ma molto meno verosimile, è che Bertoli, una volta individuato earrestato, con la versione resa intendesse attribuirsi la “gloria” di ungesto da lui stesso insistentemente indicato come nobile e giusto.

Al termine di questa parte della motivazione e per introdurre il tema chesarà ora trattato, è opportuno evidenziare che uno dei punti piùsignificativi dell’informazione che Pietro Loredan affidò all’amico DallaCosta, nel colloquio tra loro avvenuto a Treviso all’alba del 15 maggio1973, oltre all’annuncio dell’attentato che sarebbe stato compiuto aMilano quarantotto ore dopo (puntualmente verificatosi la mattina del 17maggio), fu l’indicazione secondo cui bersaglio dell’attentato sarebbe

stato un importante esponente del Governo. Anche sotto tale profilol’informazione si rivelò assolutamente esatta perché, il giornodell’anniversario dell’uccisione del commissario Calabresi, per assisterealla cerimonia nel cortile della Questura era presente l’allora Ministrodegli Interni On. Mariano Rumor.

Gianfranco Bertoli, dopo avere affermato che il suo gesto era direttonon certo contro innocenti cittadini ma (per i noti motivi) contro le Autoritàpresenti alla cerimonia, in particolare contro Ufficiali della Polizia, nelprosieguo degli interrogatori ha gradualmente ammesso che il MinistroRumor era tra i suoi obiettivi e che certamente non gli sarebbedispiaciuto se questi fosse stato colpito e ucciso.

Nonostante lo scarso credito che le dichiarazioni del Bertoli meritano,per tutto quanto finora esposto, tuttavia tale ammissione, benchéparziale, appare senz’altro in sintonia con le precise informazioni inpossesso del conte Loredan e rende, per tanto, credibile che l’autoremateriale dell’attentato fosse perfettamente al corrente della presenzadell’On. Rumor, e non certo per averlo appreso all’ultimo momento,quella stessa mattina, dalla lettura del Corriere della Sera.

Si può, quindi, affermare con certezza che l’attentato, che per la caricapubblica rivestita dalla vittima designata doveva essere eclatante (“neparlerà tutta Italia”), fu diretto contro il Ministro degli Interni.

I progetti di attentato alla vita dell’On. Mariano Rumor

Il Giudice Istruttore ha condotto lunghe e laboriose indagini perindividuare chi - soggetti, organizzazioni o gruppi politici professantiteorie eversive - avesse “buone ragioni” o comunque un interesse adattentare alla vita dell’On Rumor. Di seguito si riferirà degli esiti di detteindagini, il cui punto più significativo è rappresentato da quella che puòchiamarsi “vicenda Orlandini/Labruna”, alla quale la Corte di Cassazionenon ha attribuito il significato di “strage annunciata” ma che, senzadubbio, appare rilevante perché disvelante trame che, appunto,contemplavano l’eliminazione dell’On. Mariano Rumor.

Il capitano Antonio Labruna, in servizio nel SID dal 1966, era statodirigente del N.O.D. (Nucleo Operativo Diretto) dal 1970, con superioridiretti il Generale Gian Adelio Maletti e il colonnello Romagnoli; avevasvolto attività di indagine per il tentato o mancato golpe di Junio ValerioBorghese dell’8 dicembre 1970, conducendole in particolare conl’instaurazione di rapporti diretti con Remo Orlandini, considerato bracciodestro di Borghese e per il ruolo rilevante avuto in quella vicenda. Inproposito si legge nella motivazione della sentenza appellata: “eglifigurava fra i costitutori – insieme allo stesso Borghese e a Mario Rosa –di un Fronte Nazionale, cioè di un’organizzazione di massa diintonazione anticomunista nata nel 1968 con il proposito di sovvertire leIstituzioni dello Stato attraverso un golpe. L’anno successivo alla sua

costituzione, il Fronte Nazionale partecipava a riunioni di vari movimentiper coagulare tutte le forze di destra, tentando in particolare diagganciare Avanguardia Nazionale e dotandosi altresì di una nuovaorganizzazione nella quale, in ciascuna unità territoriale, accanto agruppi palesi destinati al proselitismo, erano previsti gruppi occulti di tipomilitare destinati all’approntamento di strumenti operativi:essenzialmente, raccolta e conservazione di armi, acquisizione dipersonale valido per azioni violente, approntamento di ^santuari^;parallelamente, a livello centrale, si provvedeva alla costituzione di unnucleo speciale con a capo Remo Orlandini e alle dirette dipendenze diBorghese. Orlandini faceva parte del Direttivo Nazionale”. Osservano igiudici di prima istanza che “già da questi sommari rilievi risultaassolutamente evidente che Labruna avesse perfetta conoscenza dellecaratteristiche del proprio interlocutore allorquando, così come egli hariferito al G.I., egli ottenne dal generale Maletti l’autorizzazione a stabilirequel contatto con l’Orlandini”.

Con lo stesso Orlandini il capitano Labruna, nella prima metà del 1973,aveva avuto numerosi colloqui, parte dei quali registrati e trascritti.L’ordinanza di rinvio a giudizio, consente di ricostruire tutti i passaggi deltortuoso iter investigativo che porterà il G.I. ad acquisire i nastri (tranneuno) e le relative trascrizioni di quei colloqui (undici in tutto).

L’operazione era stata convenzionalmente denominata “Furiosino” e icolloqui registrati all’insaputa dell’Orlandini, secondo Labruna, erano statisei o sette (ma inizialmente lo stesso aveva parlato di soli due colloquiregistrati); i nastri e le relative trascrizioni, effettuate da sottufficialidipendenti, erano stati sempre consegnati al colonnello Romagnoli e daquesti al generale Maletti. Il Labruna non sapeva se il tutto fosse statotrasmesso o meno all’Autorità Giudiziaria nell’ambito del procedimentopenale per il tentato golpe Borghese.

Tramite la collaborazione del giornalista Norberto Valentini che, per lastesura di un libro (“La notte della Madonna”, altra denominazione deltentato golpe) era in possesso di nastri e trascrizioni, il G.I. acquisivadieci degli undici nastri che dovevano essere stati registrati secondo leinformazioni fornite dal Valentini.

Il capitano Labruna, nell’interrogatorio del 5 novembre 1991, ammetteràdi aver registrato in tutto dieci o quindici nastri dei quali solo tre o quattro,quelli riferiti al colloquio con il Lercari (di cui si dirà) e a quello conl’Orlandini del giugno 1974 a Lugano, erano stati trasmessi all’autoritàgiudiziaria. Il 7 novembre 1991 il Labruna consegnava al G.I. una borsacontenente dieci nastri affermando che negli stessi erano registrati tutti icolloqui avuti con Remo Orlandini. Non sapeva, ma non escludeva, che inastri registrati potessero, in effetti, essere undici.

Al fine di accertare quale effettivamente fosse stato l’oggetto deicolloqui tra il capitano Labruna e Remo Orlandini, il G.I. provvedevaallora a sentire come testimoni i marescialli Paolo Di Gregorio e NicolaGiuliani, cioè i sottufficiali ai quali era stato affidato il compito di ascoltaree trascrivere il contenuto dei colloqui registrati dal Labruna. Entrambi, pur

non essendo in grado di ricordare con esattezza la data dellaregistrazione, affermavano (riferendo anche i rispettivi commenti) che inuno dei colloqui l’Orlandini aveva parlato espressamente e ripetutamentedi un attentato alla vita dell’On. Rumor, che doveva essere compiuto. InParticolare il M.llo Di Gregorio, parlando con il collega, aveva fattointendere che di quel progetto si parlava anche in altri colloqui registrati,di cui aveva personalmente curato la trascrizione.

Si condividono le conclusioni dei primi giudici sulla piena attendibilitàdelle testimonianze dei due sottufficiali: “gli evidenti accenti di sinceritàdel Di Gregorio e del Giuliani esaltano quanto concordemente essi hannodichiarato al riguardo degli espliciti riferimenti compiuti dall’Orlandini aprogetti per attentare alla vita di Mariano Rumor. Persino il Labruna,posto di fronte alle dichiarazioni dei testimoni, aveva dovuto arrendersiammettendo che il maresciallo Giuliani è una degnissima persona ecertamente aveva detto il vero”.

Da condividere anche il giudizio di segno contrario espresso sulcapitano Labruna nonché la descrizione delle attività di questi: “lo stessoha pervicacemente mistificato la verità in tutte le dichiarazioni di cui laCorte ha notizia, fin che la situazione processuale glielo ha consentito, eanche oltre. Nel lontano 1974 ha dichiarato al G.I. di Padova che soloalcuni incontri erano stati registrati, perché alcune registrazioni soltantoerano state consegnate all’autorità giudiziaria che procedeva per i fattidelittuosi del dicembre 1970; ha conservato fino al 7 novembre 1991molte altre registrazioni, che consegnava all’autorità giudiziaria milanesesolo allorquando quest’ultima ne era venuta in possesso per altra via,affermando tranquillamente che quei nastri erano sempre stati in suopossesso dal momento dello scioglimento del Reparto N.O.D., da luidiretto presso il S.I.D., dopo aver dichiarato reiteratamente di ignorare lasorte di dette bobine che lui aveva trasmesso, secondo il suo dovere, aisuoi superiori. Ha negato fino all’ultimo, e cioè fino a quando due suoisubalterni dell’epoca si sono decisi a parlare, dell’esistenza di altri nastricontenenti gravissime affermazioni dell’Orlandini a proposito di progettatiattentati alla vita dell’On. Mariano Rumor, e tale comportamento, allaluce dei fatti del 17 maggio 1973, è la migliore riprova della veridicitàdelle affermazioni di Di Gregorio e di Giuliani, che Labruna non ha osatosmentire, senza per altro confermare le loro dichiarazioni, come se nonfosse stato lui l’unico interlocutore di Remo Orlandini, come se taliaffermazioni Orlandini non le avesse profferite in conversazioniintrattenute con lui. Conscio della assoluta inverosimiglianza di talearretrato bastione difensivo – così prosegue la motivazione dellasentenza appellata – il mistificatore Labruna ha tentato di dipingere sestesso come un semplice esecutore di ordini, un subalterno che del tuttoinformalmente, e non già per ragioni del proprio ufficio, conversava conuna persona senza darsi cura di elaborare le informazioni ricevute. E’tuttavia la struttura stessa del N.O.D., che egli era stato chiamato adirigere, che smentisce tali assurde prospettazioni: l’ufficio era statocostituito per essere posto alle dirette dipendenze del Capo del reparto

D, al quale soltanto il capo del N.O.D. rispondeva dell’espletamento dellemissioni ricevute, non predeterminate, come per altre sezioni delle quali ilreparto D era composto, ma assegnate di volta in volta dal generaleMaletti il quale, dunque, per ciò solo, non poteva non nutrire la massimafiducia nella persona che aveva scelto per un compito tanto delicato. Einfatti Di Gregorio e Giuliani hanno descritto una realtà del tutto diversa:l’operazione Furiosino era un’operazione come tante altre espletate dalServizio, che aveva acquisito, per la connessione ad altre delicatevicende via via manifestatesi, semprer maggiore rilevanza, tanto daessere seguite praticamente da tutti gli ufficiali superiori che dipendevanodal capo del reparto D, vale a dire Romagnoli, Genovesi, Viezzer. Erastato formato un regolare fascicolo che era diventato sempre piùponderoso e che era custodito negli uffici del reparto, tanto che i duesottufficiali si meravigliavano che non fosse stato consegnato allamagistratura milanese. Nonostante i complicati scenari connessi (golpeBorghese, Rosa dei Venti) Labruna aveva mantenuto il controllo delleoperazioni il cui articolarsi ed evolversi non mancava di commentare coni subalterni incaricati non solo delle trascrizioni ma anche degliaccertamenti che di volta in volta si rendevano necessari in ordine alledichiarazioni di Orlandini, secondo la valutazione dello stesso Labruna.Ha affermato Labruna che lentamente era stato emarginatodall’operazione Furiosino, ancora una volta essendo per altro smentitodai fatti, giacché proprio lui sarebbe stato incaricato, tra il 1973 e il 1974,di contattare il Lercari. Tutte queste menzogne si sono rese necessarieper nascondere la verità, e cioè la vera natura dei rapporti intrattenuti daLabruna, per conto dei Servizi di informazione, con Orlandini, che nonsolo ha riferito al suo interlocutore dei progetti di attentato a Rumor, maanche al conseguimento dei quali erano finalizzate quelle azioni di forzatra le quali doveva essere annoverato l’attentato al Ministro degli Interni:il sovvertimento delle Istituzioni democratiche. Labruna ha dichiarato inpiù occasioni al G.I. di non sapersi spiegare la fiducia in lui ripostadall’Orlandini, che gli confidava segreti così pericolosi, sebbene eglifacesse parte, con elevate responsabilità, di strutture dello Statoincaricate che gli scopi di Orlandini, quelli tattici e quelli strategici, fosseroconseguiti. Deve constatare la Corte che invece la ricostruzione cheprecede documenta inequivocabilmente che Remo Orlandini nutriva unafiducia assoluta in Antonio Labruna e che si trattava di una fiducia benriposta: posto a conoscenza dei delittuosi e gravissimi progetti che il suointerlocutore coltivava, non mosse un dito per impedirne la realizzazione,sebbene ciò costituisse proprio il principale dei doveri del suo ufficio esebbene egli avesse curato di verificare attraverso i suoi collaboratori lacapacità criminale di Orlandini; successivamente alla strage di viaFatebenefratelli che aveva sfiorato quel bersaglio, da lui conosciutocome primario per Orlandini ed i suoi accoliti, nulla fece per indirizzare leindagini delle competenti Autorità. Anzi, occultò i nastri che fornivano laprova delle macchinazioni di Orlandini, neppure citate, naturalmente, neitre rapporti inviati all’autorità giudiziaria dal generale Maletti dopo la

strage, ed anzi (lungi dall’essere esautorato, come egli ha più volteaffermato) ha continuato almeno per tutto il 1973 a incontrare Orlandini,dal quale poi si faceva presentare ad Attilio Lercari e ad altripericolosissimi appartenenti all’ambiente del Fronte Nazionale e, più ingenerale, della destra eversiva”.

A completamento del quadro relativo al cap. Labruna si ritiene utilerichiamare la testimonianza di Torquato Nicoli: questi ebbe modo diassistere alla telefonata fatta dal Labruna all’Orlandini, da un ristorantesito a Roma all’altezza del 12° chilometro della Via Aurelia, perconsigliarlo di “andarsi a prendere una cioccolata”, chiaro invito ripararein Svizzera, quando risultava imminente la trasmissione allamagistratura, da parte dell’On. Andreotti, del dossier sul golpe con laregistrazione del colloquio di Lugano, e quando appariva certal’emissione di ordine di cattura nei confronti dello stesso Orlandini.

Quanto al contenuto dei colloqui tra l’Orlandini e il capitano Labruna,così come risultanti dalla trascrizione dei nastri registrati finiti nelladisponibilità del G.I., se ne può riferire solo in estrema sintesi: in queicolloqui Orlandini affermava la necessità di riportare l’ordine in Italia, intutti i campi, con l’eliminazione di tutti i partiti politici (definiti ladri), conl’abolizione degli scioperi (agli operai non deve mancare nulla ma devonolavorare), con la promulgazione di leggi emergenziali che consentissero,dal Capo dello Stato a certa magistratura e alle Forze Armate di agire inforza di leggi e quindi negli ambiti della Costituzione. Secondo l’Orlandini,per conseguire tali scopi – che sarebbero stati accettati senz’altro daun’opinione pubblica preoccupata dell’ordine pubblico nonché in campointernazionale con aumentato credito dell’Italia – era necessario crearecondizioni di tensione mediante atti eclatanti come una serie di attentati.Orlandini, in quei colloqui, aveva parlato esplicitamente di personeoneste e per bene, sia delle Forze armate sia civili, costituenti unagrande ed estesa organizzazione, pronti ad assumere il potere almomento opportuno, ciascuno secondo le proprie specifichecompetenze. Infine Orlandini aveva parlato espressamente di qualcosache sarebbe dovuto accadere con certezza nell’aprile o, al massimo, nelmaggio 1973, alludendo a un attentato o a un colpo di Stato; un colpo diStato che, quindi, a suo avviso, era in preparazione e doveva essereattuato da gruppi dell’estremismo di destra oltre che da elementi deiServizi di sicurezza e di informazione (secondo Labruna l’Orlandini avevaanche indicato i nomi di alcuni ufficiali ma i nastri erano stati manipolatiperché quei nomi non risultassero).

Questa Corte ritiene che dall’esame delle risultanze delle indaginirelative ai numerosi colloqui (e al loro oggetto) avvenuti nel 1973 tra ilcapitano Labruna e l’Orlandini possano trarsi le medesime conclusionialle quali sono giunti i giudici di legittimità (pag. 12 della sentenza diannullamento): “dalla dichiarazione resa dal Di Gregorio non si evince

che vi sia stato un nastro nel quale si parlava espressamente di unattentato al ministro Rumor. Il teste ha riferito di ricordare che ^ilcontenuto dei colloqui era alquanto fantasioso perché si parlava più voltedi attentati da eseguire^, con molti nomi, fra i quali ha ricordato quello diRumor. L’oggetto dei colloqui riguardava l’attività eversiva, che qualchetempo dopo avrebbe determinato lo scioglimento di Ordine Nuovo, èquindi logico che nei nastri si parlasse di attentati, di colpi di Stato e dipossibili atti rivoluzionari, e che tra le persone prese di mira vi fosse ilMinistro Rumor, che era considerato un nemico degli estremisti di destra.Questo non comporta l’esistenza di un nastro che preannunziassel’attentato verificatosi. Non vi è in atti, quindi, alcuna prova o serio indiziodell’esistenza di un preciso riferimento all’attentato di via Fatebenefratelli.Gli elementi acquisiti confermano soltanto l’esistenza di una ferventeattività eversiva nell’ambiente dell’estremismo di destra, che cretamentenon basta a creare un collegamento con l’attentato oggetto del giudizio eun riferimento operativo al gruppo di Carlo Maria Maggi. La Corted’assise di Appello avrebbe potuto escludere la rilevanza probatoriadell’episodio, senza tentare di negare in radice l’attendibile testimonianzadel Di Gregorio. Il teste infatti non ha mai parlato di uno specifico nastroche si riferisse a un attentato in preparazione a Rumor, ma del genericocontenuto di tutti i nastri da lui trascritti”.

Quanto affermato dalla Corte di Cassazione, dunque, pur escludendoche dai colloquio Orlandini/Labruna possa essere desunta la prova diuno specifico progetto di uccidere l’On. Rumor e di espliciti riferimentiall’attentato del 17 maggio 1973, attribuisce piena attendibilità al teste DiGregorio circa il contenuto di quei colloqui, conferma implicitamente ilgiudizio espresso dai primi giudici sulla condotta del capitano Labruna,attribuisce pieno credito al fatto che all’epoca negli ambienti dell’estremadestra eversiva (di cui l’Orlandini era esponente di rilievo), in particolaredi Ordine Nuovo, era - per così dire - normale che si parlasse di colpi diStato, di possibili atti rivoluzionari, di attentati che ben potevano averecome bersaglio l’allora Ministro degli Interni.

In tale quadro si inseriscono, quali elementi di conferma, le numerose esignificative dichiarazioni di testimoni e collaboratori di giustizia sentiti dalGiudice Istruttore:

sulla traccia del rapporto in data 19.1.1974 dei carabinieri del NucleoInvestigativo di Milano, con cui si riferiva di rapporti tra Gianfranco Bertolied esponenti del gruppo veneto di Ordine Nuovo (Sandro Sedona,Eugenio Rizzato e Sandro Rampazzo), il 4.6.1992 era sentito l’AppuntatoToniolo Angelo della squadra di polizia Giudiziaria presso il Tribunale diPadova; questi, confermando e meglio precisando quanto già detto nel1974, così dichiarava: “Confermo di avere riferito che l’attentato allaQuestura di Milano fu preparato da più persone per far fuori Rumor.Confermo che tale notizia mi fu riferita dall’avvocato Brancalion. Mi dissein particolare che sapeva ciò con certezza per averlo appreso da piùpersone facenti parte di gruppi eversivi di destra con cui era in contatto.

Io sapevo dei suoi contatti con Rizzato, Rampazzo e altri e capii che talenotizia fornitami proveniva da quel gruppo. La circostanza che l’attentatoalla Questura di Bertoli era stato organizzato da altre persone pereliminare Rumor fu riferita al Brancalion dai vari Rizzato e Rampazzocome egli mi disse esplicitamente. Ricordo le parole precise riferitemidall’avvocato Brancalion: furono, come ho già riferito nel ’74,^nell’attentato di Milano volevano la testa di Rumor^. Escludo chel’avvocato Brancalion mi abbia riferito ciò come sue opinione personale.Mi disse invece che tale notizia gli era stata riferita con certezza dallepersone che ho indicato”. Dal canto suo l’avvocato GiangaleazzoBrancalion, quando era stato sentito il 23.2.74, aveva dichiarato:“ammetto di avere parlato amichevolmente con l’Appuntato dei CC.Toniolo, mentre bevevamo un bicchiere di vino in compagnia, di alcunecircostanze sapute dal Negriolli senza dire per altro la mia fonte diinformazione e pregandolo se gli fosse possibile di controllare alcunecircostanze. Ho riferito che l’attentato di Milano era stato preparato perfar fuori la persona dell’On. Rumor esprimendo però solo una puraopinione personale”. Il riferimento al Negriolli, fatto dall’avv. Brancalion, sicollega con quanto dichiarato da Gianfrancesco Belloni (già collaboratoredel SID): questi ricordava che, in un’occasione successiva alla stragecompiuta da Bertoli, il Negriolli gli aveva mostrato una foto di unsettimanale (anno 1975) raffigurante lo stesso Bertoli in atteggiamentoconfidenziale con Freda nel carcere di San Vittore; nella medesimaoccasione Negriolli gli aveva detto, a seguito di accertamenti svolti perconto del SID, che Bertoli era legato a Ordine Nuovo, che egli non eraaltro che un burattino manovrato da altri e che l’attentato di viaFatebenefratelli era stato preparato per eliminare l’On. Rumor.

Il 10 febbraio 1974 Giampaolo Portacasucci riferiva al G.I. di contattiavuti con Rizzato, Rampazzo, Cavallaro e Camillo Virginio che eranoandati ad incontrarlo nella sua abitazione a Ortonovo. In particolarericordava che Rampazzo gli aveva detto di disporre di un gruppo benaddestrato per compiere azioni eversive e attentati. Lo stessoRampazzo, in successivi incontri, gli aveva pure detto di aver partecipatoall’esecuzione di importanti attentati, ma senza specificare quali.Rampazzo gli aveva anche mostrato un foglietto in cui erano indicate lepersone da eliminare e, tra i nomi di quelle persone, egli aveva vistoanche quello di Rumor.

Di particolare interesse, sul punto in esame, quanto affermato daRoberto Cavallaro nel contesto di ampie dichiarazioni rese al GiudiceIstruttore in più riprese a partire dal 23.11.1974. Tra le registrazionieseguite dal cap. Labruna, in quella relativa al colloquio avvenuto aLugano il 29.3.74 con il Lercari (quando quest’ultimo aveva riferito idiscorsi fatti nel corso di un incontro avvenuto nel luglio ’73 nel ristoranteSavini a Milano), il Lercari, tra l’altro, aveva aveva detto “attendevamol’attentato a Rumor e non c’è stato nessun attentato a Rumor”. Informatodi quanto sopra dal G.I., Cavallaro aveva commentato: “poiché il discorsoè riferito alla fine di giugno 1973 è evidente che l’operazione richiamata

dal Lercari, che non è avvenuta, è certamente precedente. Sinceramentenon escludo che la frase del Lercari si riferisse all’attentato di Bertoli allaQuestura di Milano in cui l’attentatore manifestò l’intenzione di colpireRumor non riuscendovi. Non mi meraviglierei se l’organizzazione (OrdineNuovo, n.d.u.) non fosse estranea a questa azione in quanto ricordoperfettamente il clima in cui operavamo; tutta l’organizzazione era tesaperché qualche cosa di grosso di determinasse; un attentato ad unapersonalità politica era nell’aria; vivevamo in un clima di follia; l’attentatoa Rumor era proprio l’episodio classico che poteva legittimare un’azionedi forza di presa del potere o di rafforzamento del potere”.

Giuseppe Albanese, nel riferire le confidenze fattegli in carcere nelperiodo di comune detenzione da Gianfranco Bertoli, dichiarava chequest’ultimo tra l’altro gli aveva detto che, dopo l’attentato a Rumor,mancato per l’errore nel lancio della bomba, avrebbe dovuto fuggiregrazie all’azione di copertura di “camerati” del Veneto i quali avrebberodovuto creare un diversivo che poi non era stato attuato; Bertoli nonaveva specificato chi fossero quei camerati ma che questiappartenevano a un gruppo facente capo ad Amos Spiazzi, esponente dirilievo di Ordine Nuovo.

Marco Affatigato, facente parte dal ’71 al ’73 della struttura legale diOrdine Nuovo e fino al settembre ’76 della struttura clandestina nonchésuccessivamente informatore dei Servizi Segreti francesi (SDECE) edella CIA, il 23.6.95 riferiva al Giudice Istruttore di avere avuto contatti,tra gli altri, con Luigi Falica (nel 1973 dirigente di contatto di OrdineNuovo per tutto il Nord, che teneva contatti tra Ordine Nuovo eAvanguardia Nazionale) il quale gli aveva detto che nel 1973 era inprogramma un attentato contro l’On. Rumor da parte del gruppo diOrdine Nuovo di Verona; Falica però si era mostrato incerto circa la fontedell’informazione non ricordando se l’aveva appresa in una riunione diOrdine Nuovo alla quale aveva partecipato con lo Spiazzi o se il fatto gliera stato riferito dal Massagrande.

Il 31 gennaio e il 5 febbraio 1992 il Giudice Istruttore sentiva VincenzoVinciguerra - dichiaratosi responsabile della “strage di Peteano” e deldirottamento aereo di Ronchi dei Legionari – il quale, per sua stessaaffermazione nè pentito né dissociato ma per una scelta di leale eresponsabile collaborazione, riferiva di progetti di un attentato control’On. Rumor, espressamente attribuiti a Ordine Nuovo, nelle persone diCarlo Maria Maggi e di Delfo Zorzi. Il Vinciguerra, tra l’altro, dichiarava“confermo integralmente quanto dichiarato il 14.8.84 al G.I. di Venezia eil 2.8.84 al G.I. di Bologna in ordine alla proposta fattami fuori dalristorante Diana, tra Udine e Tricesimo nel settembre o comunquenell’estate del 1971, poi ancora a Udine nell’autunno dello stesso annoed ancora nel febbraio/marzo 1972, da Maggi e Delfo Zorzi di compiereun attentato contro Rumor. Ricordo che mi telefonò Maggi dandomiappuntamento al ristorante Diana sulla strada che da Udine va aTricesimo. Mi recai all’appuntamento in macchina accompagnato da uncamerata friulano che non intendo indicare; per altro il predetto non

partecipò al colloquio. Su posto trovai Maggi e Zorzi i quali chiesero diparlarmi da solo e mi dissero che c’era un progetto destabilizzante daporre in atto, volto alla eliminazione fisica di vari uomini politici di primopiano. A me fecero il nome di Mariano Rumor alla cui eliminazione avreidovuto provvedere io. Dissero che potevano darmi tutte le informazionisulla villa in cui abitava Rumor e, testualmente, che non avrei avutoproblemi con la scorta, nel senso che sarei potuto entraretranquillamente nella villa di Rumor, eliminarlo e me ne sarei andato. Midissero che tutti i particolari dell’attentato erano già stati studiati perchéavevano la possibilità di fornirmi tutte le indicazioni necessarie pereseguirlo; la localizzazione della villa di Rumor, la maniera di entrarvi e ilmodo di andarmene indisturbato, perché testualmente mi dissero chenon ci sarebbero stati problemi con la scorta. Non accolsi la proposta,che respinsi senza esitazioni per due ordini di motivi. In primo luogo ilcontesto politico del fatto mi sembrava fumoso e privo di senso. Noncomprendevo il senso politico dell’attentato poiché non mi era chiaro checosa sarebbe avvenuto dopo e per quali scopi reali esso sarebbe statofatto. In secondo luogo il cenno fatto all’atteggiamento della scorta miinsospettiva lasciando pensare a un’azione torbida coordinata all’internostesso delle Forze di Polizia. Mi formai l’idea che l’attentato potessecorrispondere più a una logica di conflitto di potere all’interno degliapparati statali che ad una azione politica rivoluzionaria. L’incontro cessòavendo io detto loro che potevo prendere in considerazione la cosa solose mi fosse stato rivelato il motivo reale. Risposi dunque di noriservandomi comunque di pernsarci. Nell’autunno dello stesso anno1971 incontrai ancora a Udine il Maggi che mi chiese se ci avevoripensato. Risposi nuovamente di no. Tornarono alla carica per la terzavolta in Udine, in ora serale, sia Maggi che Zorzi a fine febbraio/marzo1972. Mi telefonò Maggi dicendo che si trovavano alla birreria Osoppo diUdine. Mi dissero che avevano saputo dai giornali dell’attentato a DeMichieli Vitturi e mi dissero che con soddisfazione avevano pensato cheavessi recepito le loro idee. Mi chiesero se ero disposto perl’eliminazione di Rumor. Negai di essere stato io il responsabiledell’attentato a Vitturi e dissi che non accettavo la loro proposta. Questavolta rifiutai definitivamente avendo cominciato a nutrire dubbi sulle figuredi Maggi e di Zorzi e sul loro inquadramento nei Servizi di Sicurezza.Dopo quel terzo incontro alla birreria Osoppo, pur avendo reincontratosia Maggi che Zorzi, non si parlò dell’attentato a Rumor. Quando dunquenel febbraio/marzo ’72 per la terza volta Maggi mi fece la proposta dieliminare Rumor mi fece comprendere, senza possibilità di dubbio, cheegli aveva stretti rapporti operativi con elementi di alto livello delle forzedi Polizia. A quel punto non avevo una visione chiara del contesto in cuisi muovevano certe operazioni; fu nell’ottobre ’72, cioè dopo ildirottamento dell’aereo di Ronchi dei Legionari, che ebbi coscienzadell’esistenza di una vera e propria strategia, ispirata, diretta e condottada persone inserite negli apparati pubblici che, per raggiungere i propriscopi politici, prevedevano di servirsi di attentati, o facendoli eseguire da

persone inconsapevoli, o eseguendoli direttamente o comunqueistigando e dando di fatto copertura a coloro che li eseguivano quandociò fosse stato funzionale al perseguimento dei fini strategici da loroindividuati.”

Dalle dichiarazioni rese al G.I. da Martino Siciliano (inserito in OrdineNuovo fin che non era stato sospeso alla fine del 1972, pur senzaperdere i contatti con quell’organizzazione) nell’ambito di una scelta dicollaborazione con l’autorità giudiziaria emergono ulteriori elementi dicollegamento dell’attentato all’On. Rumor con l’attività eversiva delgruppo di Ordine Nuovo facente capo all’imputato Carlo Maria Maggi. Nelcorso dei suoi interrogatori Martino Siciliano tra l’altro dichiarava: “Circaquindici/venti giorni dopo la strage del 17 maggio 1973 passò per MestreZorzi e mi incontrai con lui, non ricordo se in palestra o in un altro locale.Zorzi, parlando della situazione politica in Italia, mi disse ^l’episodioBertoli è inquadrato nella nostra strategia^ e mi confermò che Bertoli eraun camerata, che era sempre stato attestato su posizioni di estremadestra ed era conosciuto molto bene dal dr. Maggi con il quale si erafrequentato per lungo tempo. Voglio riferire che sentii più volte, inoccasione di discorsi nell’ambiente di Ordine Nuovo e in particolarenell’ambito della cellula di O.N. di Mestre, negli anni dal 1970 al 1973,parlare della necessità di eliminare un bersaglio politico importante,sempre nell’ottica della strategia del gruppo. In colloqui prima singoli epoi con Zorzi, Maggi e Molin, con i quali ero direttamente in contatto,sentii più volte dire esplicitamente dagli stessi che l’obiettivo da colpireera l’On. Rumor: era infatti necessario colpire lo Stato nella persona delMinistro dell’Interno nell’ambito della strategia tesa a destabilizzare loStato. L’uccisione del Ministro dell’Interno era un fatto capace diimpressionare di più l’opinione pubblica in quanto colui che avrebbedovuto proteggere gli altri non era stato capace di proteggere se stesso.Il nome esplicito di Rumor fu più volte fatto in quelle discussionidirettamente da Zorzi, Maggi e Molin fin dal 1972. Rumor era anche dellanostra zona in quanto abitava nel Vicentino, zona di cui era originarioZorzi nato ad Arzignano provincia di Vicenza. In sintesi: nel 1972 sidiscuteva tra i predetti Maggi, Zorzi e Molin di un progetto di attentato aRumor; tuttavia, considerata la mia sospensione da Ordine Nuovo,avvenuta alla fine del 1972, non mi furono forniti dettagli operativi suquesto progetto. Prendo atto che mi dite che il Vinciguerra le ha parlatodiffusamente di tre proposte in tempi diversi a lui fatte da Maggi e Zorzinegli anni 1971 e 1972 di compiere un attentato contro Rumor. Non sonulla di questa proposta specifica fatta al Vinciguerra”.

Il 19 novebre 1985 era sentito l’On. Mariano Rumor il quale, riferitegli ledichiarazioni del Vinciguerra circa proposte ricevute di attentare alla vitadel Ministro degli interni, affermava di non avere mai saputo nulla di tuttociò. Del resto, precisava il testimone, non aveva mai ricevuto minacce el’attentato di via Fatebenfratelli era stato per lui del tutto inaspettato. Dipoi dichiarava: “posso anche comprendere tali intenzioni di personaggidell’estrema destra in quanto quando ero Ministro degli Interni mi detti da

fare attivamente per contrastare le violenze della destra. Tra l’altropresentai un esposto alla Magistratura romana nei confronti di OrdineNuovo in relazione alla legge Scelba. Sulla base di tale esposto, quandogià ero Presidente del Consiglio dei Ministri, si giunse allo scioglimentoex lege del movimento Ordine Nuovo. Sono stato Ministro degli Internidal febbraio 1972 fino ai primi di luglio del 1973. Da tale data fuiPresidente del Consiglio dei Ministri fino a novembre 1974”. Premessoche effettivamente il decreto di scioglimento di Ordine Nuovo era statofirmato nell’autunno ’73 dal Ministro degli Interni dell’epoca, On. Taviani,il giudice Istruttore osserva nella propria sentenza/ordinanza(pagg.114,115) “Le dichiarazioni rese da Rumor nel 1985 e gliaccertamenti svolti sono molto indicativi sui moventi dell’attentato aRumor, ostinatamente più volte programmato dagli elementi di OrdineNuovo. Il Parlamentare vicentino, già sostenitore di una politica dicontrasto nei confronti dei gruppi di estrema destra, aveva infatti primadel ’72 chiesto l’applicazione della legge Scelba nei confronti di taliorganizzazioni e poi disposto ex lege lo scioglimento di Ordine Nuovoquando, dopo il luglio ’73, divenne Presidente del Consiglio”

Infine la testimonianza del Senatore Paolo Emilio Taviani, che nelnovembre 1972, come Ministro degli Interni, aveva firmato il decreto discioglimento di Ordine Nuovo. Sentito dal G.I. il 19 marzo 1992,dichiarava quanto segue: “Che il Bertoli fosse un personaggio non didue, ma di tre o quattro facce, a me risultava anche dalle informazioni delcapo della Polizia Zandaloy. Quando ero ancora Ministro delMezzogiorno io vidi l’episodio di via Fatebenefratelli sopratutto come unattentato a Rumor. Questo episodio presentava troppi collegamenti conla linea della strategia della tensione; ogni residuo dubbio al riguardo miè caduto dopo avere letto la sentenza istruttoria su Bertoli. Bertoli era unuomo che viveva alle spalle di chi poteva dargli del denaro, era stato alungo in Israele. Escludo che potesse essere al servizio dei serviziisraeliani; tutte le esperienze mi confermano che i servizi israelianicompiono operazioni mirate nel loro diretto, preciso, esclusivo interesse.Fin da allora mi posi la domanda se Bertoli sia stato utilizzato da chiaveva interesse a mantenere la pista di sinistra circa la soluzione delcaso di Piazza Fontana. La risposta non può essere no”.

Dai fatti e dalle testimonianze di cui si è detto sopra, La Corte ritienepossano trarsi le seguenti conclusioni: all’epoca del fatto per cui siprocede, anche in tempi di non molto precedenti, negli ambienti eorganizzazioni dell’estrema destra neofascista veneta, in particolarenell’ambito di Ordine Nuovo e dei suoi gruppi, era in corso una ferventeattività, quanto meno a livello programmatico, intesa a creare - medianteattentati, anche contro importanti uomini politici - le condizioni di caos edi tensione tali da giustificare un colpo di Stato o comunque una svoltaautoritaria della politica italiana.

Tra gli uomini politici che potevano o dovevano essere colpiti quelloindicato con maggiore insistenza è risultato essere l’On. Mariano Rumor,al tempo Ministro degli Interni.

Poco rileva che lo si volesse eliminare per rappresaglia in quantoritenuto primo responsabile delle misure che si stavano attuando controOrdine Nuovo, ovvero che colpendo il Ministro degli Interni si sarebberoottenuti, almeno nelle speranze di chi meditava piani eversivi, piùfacilmente gli effetti tesiderati.

La strategia della tensione

Nel corso della sua testimonianza il Sen. Paolo Emilio Taviani,succeduto nell’autunno del 1973 a Mariano Rumor nella carica diMinistro degli Interni, nel commentare l’attentato di via Fatebenfratelli,aveva accennato alla “strategia della tensione”, servendosi delladefinizione con cui un noto giornalista aveva inquadrato il complessodegli attentati stragisti che si andavano ripetendo in quegli anni, rilevandoche l’attentato compiuto dal Bertoli presentava “troppi collegamenti” conla linea di detta strategia.

Va da sé che nell’occasione il Sen. Taviani espresse una propriaopinione ma non certo un’opinione qualsiasi non potendosi trascurare ilfatto che egli, all’epoca, era il massimo responsabile della sicurezza edell’ordine pubblico.

Meno di due mesi prima, il 31 gennaio 1992, sentito dal GiudiceIstruttore, della “strategia della tensione” aveva ampiamente riferitoVincenzo Vinciguerra. Se ne è già accennato per sommi capi, ma ora èopportuno riportarne testualmente le dichiarazioni più significative: “Hointeso assumermi le mie responsabilità in merito all’attentato di Peteanoe riferire altri episodi e circostanze che hanno fatto parte della mia storiapolitica in quanto intendevo, non da pentito o da dissociato, dimostrare laresponsabilità di strutture dello Stato che, attraverso i suoi apparati disicurezza ha gestito gruppi e strumentalizzato ambienti politici sia didestra che di sinistra al fine di destabilizzare l’ordine pubblico perstabilizzare il potere politico. Mi sono proposto di dimostrare che la lineastragista non è stata seguita da alcuna formazione di estrema destra inquanto tale, ma soltanto da elementi mimetizzati, ma in realtàappartenenti ad apparati di sicurezza o comunque legati a questi darapporti di collaborazione. Il fine politico che attraverso le stragi si ètentato di raggiungere è molto chiaro: attraverso gravi provocazioniinnescare una risposta popolare di rabbia da utilizzare poi per unasuccessiva repressione.

Il fine massimo era quello di giungere alla promulgazioni di leggieccezionali o alla dichiarazione dello stato di emergenza. In tal modo sisarebbe realizzata quella operazione di rafforzamento del potere che divolta in volta sentiva vacillare il proprio dominio. Il tutto ovviamente

inserito in un contesto internazionale, nel quadro dell’inserimento italianonel sistema delle allenze occidentali. Ho sottolineato la natura difensivadella strategia della tensione, che si può riassumere nella formula^destrabilizzare per stabilizzare il Paese^. Era necessario creareincertezza, disordine e senso di pericolo e di urgenza per produrre unarichiesta di ordine e di autorità, premessa per il rafforzamento dello Statoe degli uomini che lo controllavano. Giudicati nel loro insieme oseparatamente i gruppi della destra extraparlamentare appaiono incapacidi costituire una minaccia politica, sono nati quali formazionifiancheggiatrici di forze capaci per potenza di giungere a una soluzionedel caso italiano, le Forze Armate, destinate a fare da supporto allaazione altrui.

Essi vivono nella speranza messianica dell’intervento risolutore delleForze Armate, fede abitualmente ispirata ed alimentata dall’azionepsicologica degli ufficiali incaricati di operare in tali ambienti.

E’ in questo modo, unito dall’avversione al comunismo e dalla fiducianelle Forze Armate, che gli uomini dei Servizi, appoggiati e coadiuvati daufficiali dei Carabinieri e da funzionari della Polizia Politica, selezionano ereclutano gli uomini che per caratteristiche appaiono più idonei atrasformarsi in loro collaboratori permanenti, ai quali affidare il compito dicreare gruppi d’azione, proporre attentati, svolgere attività informativa.Mentre non esiste la prova che in Italia si sia mai ipotizzato un colpo diStato, esistono tutte le prove che in più occasioni, a partire dal 1969 adoggi, negli ambienti politici e militari detentori del potere si è adombrato,suggerito, cercato il provvedimento di necessità, cioè quel particolarecolpo di Stato che temporaneamente sospende le garanzie costituzionalie permette l’emissione di provvedimenti eccezionali contro le forzepolitiche che minacciano la sicurezza e la stabilità delle istituzioni.

Solo in questo caso le Forze Armate avrebbero potuto intervenire nelrispetto di precise norme costituzionali e il loro operato, legittimato dalpotere politico ed istituzionale, avrebbe assunto il significato difensivodello stato e della democrazia. Politici e militari avrebbero giustificato illoro agire invocando lo stato di necessità provocato dall’attacco eversivodella sinistra, prima, di destra poi, avrebbero così ristabilito legge eordine in un Paese turbato dagli scioperi, dagli scontri di piazza, dagliattentati e dalle stragi, riscuotendo il plauso della maggioranza dellapopolazione e, internazionalmente, il rispetto e il consenzo dei Paesidella NATO.

Ruolo delle Forze Armate negli anni ‘60 fu quello di creare lo stato dinecessità attraverso i Servizi di sicurezza.

La strategia della tensione, che ha attraversato un ventennio dellanostra storia, trova così la sua logica e la sua ragion d’essere; insiemetrovano spiegazione logica e coerente le coperture che ancora oggivengono date a coloro che, civili e militari, hanno contribuito al successodi tale strategia, eversiva nei metodi e difensiva nei fini, che non possonoessere sconfessati da un potere politico e militare che dal loro operato ha

tratto solo vantaggio e che dall’emergere della verità può ricavare solodanno.

come hanno creato lo stato di necessità ? Operando lungo due lineedirettrici: l’azione diretta e l’omissione, ovvero la copertura: l’azionediretta affidata ai civili inseriti in una struttura mista o reclutati per labisogna negli ambienti politici più fervidamente anticomunisti opredisposti all’azione. L’omissione e la copertura affidate ai centri C.S.,agli ufficiali preposti all’ordine pubblico.

Il potere politico è l’unico beneficiario della strategia della tensione enon potrà mai abbandonare i suoi generali che l’hanno organizzata ecostoro, a loro volta, non possono lasciare che i loro subalterni paghinoper avere eseguito i loro ordini, né possono abbandonare al loro destino icivili che, a loro volta, devono tacere anche a costo di farsi qualchedecina di anni di carcere.

Così i tre livelli, politico-ideativo, militare-organizzativo e civile-esecutivo, sono fermamente uniti da un irrescindibile filo di omertà. Tuttele stragi che hanno insanguinato l’Italia appartengono a un’unica matriceorganizzativa.

L’unico episodio che organizzativamente è riferibile a persone nonappartenenti alla medesima struttura, l’attentato di Peteano, tuttavia nellastruttura predetta ha trovato copertura. Tale struttura organizzativaobbedisce a una logica secondo cui le direttive partono da apparatiinseriti nelle istituzioni e per l’esattezza in una struttura parallela esegreta, comprendenti elementi del Ministero dell’Interno e Carabinieri.

La strage di via Fatebenfratelli a Milano rappresenta uno dei momentipiù interessanti per cogliere la strategia complessiva del fenomeno”.

La Corte si riserva di valutare in modo più approfondito quantoaffermato da Vincenzo Vinciguerra, osservando fin d’ora che non si puòdubitare della serietà (volutamente non si usa il termine “attendibilità”),per altro già positivamente valutata dai giudici di primo grado e in altriprocedimenti penali, considerato che il Vinciguerra si è accusato(nonostante le coperture ricevute, ma non richieste) di fatti gravissimi,uno per tutti l’attentato di Peteano in cui - attirati in un trabocchetto -perirono alcuni Carabinieri, riportando la condanna alla penadell’ergastolo. Nella specie, comunque, non si pone il problema diverifica d’attendibilità intrinseca e di riscontri posto che il Vinciguerra nonha formulato accuse specifiche ma si è limitato a fornire una chiave diinterpretazione ai fatti criminosi della specie di quello in esame, a quellache fu definita giustamente “strategia della tensione”.

Per il momento ci si dovrà soffermare solo su alcuni punti delle suedichiarazioni rilevando come alcuni dei più significativi dati forniti dalVinciguerra, lungi dall’essere frutto di elaborazione puramente logica,trovino perfetta e singolare corrispondenza in elementi concreti emersianche nel presente processo.

Innanzitutto la natura e il bersaglio dell’attentato: escluso, per quanto siè detto, che questo fosse stato frutto di scelta e iniziativa autonoma di

una (sedicente) anarchico, deve ritenersi certo che si attentò alla vitadell’On. Rumor essendo questi un importante esponente del Governo,anzi il responsabile della sicurezza e dell’ordine pubblico. ColpendoRumor è evidente che si sarebbe attinto il culmine di un crescendo diattentati perché in questo caso non si sarebbe colpito alla cieca (si pensiad altri attentati, per tutti alla strage di Piazza Fontana) ma in modo“mirato”; un esito positivo sarebbe stato senz’altro idoneo a provocaresconcerto e allarme nell’opinione pubblica, ne avrebbe parlato tuttol’Italia (secondo quanto preannunciato dal conte Pietro Loredan),avrebbe creato le condizioni necessarie, se non per un colpo di Stato,per più subdole soluzioni (leggi speciali, finanche la proclamazione dellostato di emergenza) dirette a imprimere una decisa svolta autoritaria allaNazione. Lo scopo non fu conseguito, non solo perché l’attentato fallì maperché gradualmente le forze politiche e quelle della società piùconsapevole e attenta finirono per sventare i progetti di eversione, daqualunque parte provenissero, ma non si può negare che in quel tempo,negli ambienti della destra eversiva neofascista e nei gruppi veneti diOrdine Nuovo quello scopo fosse senz’altro perseguito mediante scelteorganizzative e operative che avevano, appunto, come finalità lacreazione di uno stato di tensione da conseguire mediante attentati estragi.

La “mimetizzazione”: la sterzata in senso autoritario della conduzionepolitica del Paese poteva essere ottenuta solo attribuendo laresponsabilità di attentati e stragi alla parte politica avversa, e ciò potevaavvenire con la rivendicazione, espressa o implicita (si pensi aneofascista Nico Azzi al quale fu trovata addosso copia dellapubblicazione “Lotta Continua” quando, nei pressi di Genova, rimaseferito dal scoppio casuale del detonatore con cui intendeva provocareun’esplosione sul direttissimo Torino-Roma), ovvero con la scelta diesecutori, come Gianfranco Bertoli, apparentemente schierati conl’anarchia o le forze della sinistra. Una “mimetizzazione” che, comenecessario corollario, avrebbe poi determinato, da un lato omertà edall’altro “copertura” che avrebbe legato con un filo irrescindibile(secondo l’espressione usata dal Vinciguerra) tra esecutore materiale,organizzatori e mandanti. Anche così si può comprendere, secondo unadeduzione esclusivamente logica ma pienamente verosimile eattendibile, l’ostinata affermazione di Bertoli di avere, contro ognievidenza, agito da solo come “anarchico individualista” e di averviinsistito tenacemente per tanti anni.

Così pure si spiega, in modo altrettanto logico e verosimile, come fupossibile spacciare per anarchico un informatore prima del SIFAR e poidel SID tacendo, anche all’autorità giudiziaria (si rammenti l’annotazionesulla scheda dell’informatore “Negro”, alias Gianfranco Bertoli) il ruolo,ancorché marginale, svolto nell’ambito dei Servizi dall’esecutoredell’attentato, tra l’altro attribuendo al Bertoli una collocazione politica diestrema sinistra, vale a dire esattamente l’opposto di quanto emergerà inseguito, “accertata” pochi giorni dopo la strage dal capitano Di Carlo

appositamente spedito in Israele dal generale Maletti (lo stesso di Carloche attribuirà, contro ogni l’evidenza, la medesima collocazione politica aifratelli Jemmy, amici del Bertoli nel kibbutz, risultati appartenere inveceall’organizzazione neofascista francese “Ordre Nouveau”)

Infine l’effettiva corrispondenza dell’attentato del 17 maggio 1973 agliscopi perseguiti dalle organizzazioni eversive della destra neofascista, inquanto a pieno titolo inserito in un ampio disegno di destabilizzazione.Ne è piena conferma il contenuto di alcuni colloqui tra il capitano Labrunae Remo Orlandini, registrati e trascritti, di assoluta rilevanza percomprendere quali fossero all’epoca i propositi, i piani, le speranze di chitramava contro le Istituzioni democratiche. Si è detto di come leregistrazioni e trascrizioni di quei colloqui siano stati acquisiti dal GiudiceIstruttore dopo molte vicissitudini, tra ostacoli di ogni genere, come lostesso Labruna avesse tentato in tutti i modi prima di negarne l’esistenzae poi di sminuirne l’importanza, come infine si sia accertato che inalmeno in uno di essi si parlava, sia pur genericamente di attentati aventicome bersaglio, tra gli altri, l’On. Rumor.

La Suprema Corte non ha affatto ritenuto irrilevante il contenuto deicolloqui Labruna/Orlandini ma si è limitata ad affermare la loroinidoneitàa fornire la prova che l’attentato alla Questura di Milano fossestato, per quella via, “annunciato”. Essi, per tanto, costituiscono validafonte di conoscenza dei fatti che interessano lo specifico punto inquestione e forniscono prova inoppugnabile che quanto affermato daVincenzo Vinciguerra non può essere attribuito a personali elaborazionidi tipo ideologico o politico.

Nei colloqui con il capitano Labruna, Remo Orlandini attribuiva a sestesso un ruolo primario nella preparazione di un colpo di Stato cheauspicava imminente, per altro rivendicando analogo ruolo anche inprecedenti tentativi golpisti (“Piano Solo” e c.d. “golpe Borghese”). Piùspecificamente e con riferimento al tempo e alla situazione in cui sisvolgevano i suoi colloqui con Antonio Labruna, di cui si riportanto i branipiù significativi, affermava la necessità dell’intervento delle Forze Armate(“non è possibile fare una cosa del genere senza il loro appoggio” coll.13.3.73) e che a ciò dovesse essere preparata l’opinione pubblica:“questi stanno aspettando il momento di un colpo militare, ma che siagiustificato sia di fronte alla nazione che di fronte al mondo” (coll.18.1.73). Il 13.3.73 Orlandini insisteva sul punto: “una specie di pianooperativo si fa sempre perché è una cosa che lei non può attuarla da unmomento all’altro. E una cosa di preparazione, preparazionedell’opinione pubblica, preparazione di atti, atti tali che debbanogalvanizzare.....la preparazione dell’opinione pubblica è la chiave”. Taliesigenze l’Orlandini ricollegava alla situazione socio-politica del Paese:(coll. 16.1.73) “quello che sta succedendo e al punto che hanno postatol’economia del Paese è una cosa che fa vomitare, perché tutto quello cheavviene fa vomitare. Dove arriveremo ? All’estero come siamoconsiderati ? Qui un risanamento penso che sia un dovere di ogni buon

italiano di arrivare a sanare....., qui non si vuole far niente a nessuno masaniamo questa situazione. Leviamo di mezzo questo branco di ladroni !Vediamo di mettere, prima di tutto, un po’ d’ordine.......che la gente lavori,che produca, che guadagni”.

Questo il progetto da realizzare, rozzo, populista e permeato del piùvieto qualunquismo: (coll. 18.1.73) “noi quello che vogliamo, e vediamose ci riesce, se è possibile, è ridare l’Italia in mano agli italiani, insomma !Che siano persone perbene, capaci e oneste, ecco solo questochiediamo. Il nostro programma non so se lei (Labruna, n.d.u.) loconosce, verte in dieci punti ed è quello di riportare l’ordine e mettere aposto le cose. Le persone devono mangiare, è vero, ma anche lavorare enon scioperare. Togliere di mezzo tutti i partiti perché sono il cancro dellaNazione; non avere altra bandiera che quella tricolore; riaffratellare gliitaliani perché i partiti hanno messo l’uno contro l’altro e stanno creandoodio fra italiano e italiano, così per l’Italia non se ne trova uno (disposto)a rischiare tanto così, per il partito si ammazzano, sono pronti ascannarsi. I partiti hanno le mani in tutto e per tutto. Questi sono proprioladri, quando arrivano a fare lo stanziamento per le Forze Armate fanno ipidocchiosi, tutti addosso e le fanno morire di fame, non possono fareniente, perché non bastano, quello che gli danno non basta nemmenoper le pratiche amministrative, però per i partiti, quelli non gli bastanomai, per quelli lì i miliardi ci sono. Insomma è tutto un insieme di coseche, secondo me, per uno che vuol bene alla Patria, questa gente non vabene. Io credo che sia dovere sacrosanto di ogni buon italiano di levarlidi mezzo. Non si dice ammazzarli, ma che se ne vadano via. Hannorubato abbastanza, se ne vadano. Questo credo sia il minimo che sipossa pretendere”.

Secondo Remo Orlandini al colpo di Stato sarebbero dovuteimmediatamente seguire leggi eccezionali che sicuramente il Capo delloStato avrebbe promulgato, perché in caso contrario lo avrebberocostretto (coll. 21.3.73 in cui il riferimento al Presidente della Repubblicaè esplicito). Si contava, per il progettato e auspicato colpo di Stato, sualcuni ufficiali disponibili allo scopo, dei quali Orlandini faceva i nomicome risultante dalla perizia di trascrizione dei colloqui disposta dal G.I.;in questa non mancava neppure il nome di un alto ufficiale dei Servizi eal riguardo puntualmente osservano i giudici di primo grado “non è uncaso che lo stesso Labruna abbia ammesso che quei nastri furonomanipolati almeno per cancellare quel nominativo inserendo un rumoredi tintinnio di bicchieri; ma non vale delibare incidentalmente laattendibilità dell’Orlandini in proposito, essendo già stata ampiamentedocumentata l’incredibile complicità che a Orlandini il ServizioInformazioni Difesa garantì, e il tenore delle conversazoni a sua voltaconvalida l’assunto”.

Si contava anche sulla collaborazione di molti civili coinvolti nel progettoeversivo: “siamo organizzati benissimo. Noi siamo organizzati in tuttaItalia nel campo civile, cioé abbiamo dei professionisti, degli uomini ingamba, ognuno destinato per la propria materia perché è capace, e

soprattutto galantuomini. Questo lo abbiamo fatto in tutta Italia, con ilnostro arresto poi il Fronte Nazionale si è ramificato in modo che non ledico” (coll. 16.1.73).

Infine il riferimento ad accordi con Servizi segreti stranieri (in specie,americani): (coll. 12.2.73) “abbiamo un filo diretto, abbiamo fatto dellerichieste, loro hanno fatto delle richieste a noi, ci sono delle trattative e cisiamo accordati”.

La Corte non può che condividere il commento dei primi giudici (pag.93): “Questi accenni documentano come la trama disegnata daVinciguerra a proposito dei legami fra alcuni settori della Forze Armate, iServizi di sicurezza ed altre forze interessate alla destabilizzazionestabilizzante, non appare del tutto avulsa dalla realtà: non deve esseredimenticato che le conferme che emergono dalle parole di orlandiniprovengono da persona che ha avuto un ruolo di notevole rilievo nei fattiche narra al suo interlocutore, e che di tale interlocutore egli si fida, comeè dimostrato al di là di ogni dubbio dai dettagli che fornisce a Labruna(anche dal punto di vista dei nomi delle persone a vario titolo coinvoltenel progetto che in quel momento egli stava coltivando per imprimereuna svolta autoritaria al Paese)”.

A scanso di qualsiasi fraintendimento, lo stesso Labruna, avuta letturadelle frasi dell’Orlandini, tratte dalle registrazioni dei colloqui, ammetteràche lo stesso faceva “chiaro riferimento all’opera di destabilizzazionedello Stato che il suo gruppo stava preparando” precisando che“Orlandini era un infatuato e diceva verità ma anche millanterie. Maanche tale discorso va interpretato nell’ottica del programma didestabilizzazione”. Il discorso di riferimento erano le parole pronunciateda Orlandini (trascr. 21.3.73. pag. 4) “penso che sia arrivato il momento,non si può più perdere tempo, bisogna agire, bisogna muoversi esoprattutto avere il coraggio di agire”.

Davvero inquietanti e più direttamente riferibili all’attentato le frasi diOrlandini, allusive a qualcosa che sarebbe dovuto accedere a brevescadenza “io credo che maggio non passerà, può darsi anche in aprile,ma comunque maggio non passerà sicuramente. Lei (Labruna, n.d.u.)tenga presente che sappia un po’ tutto quello che può fare, tengapresente lei, lo faccia con i dovuti modi, guardi come inserirsi, lei tengapresente che farà parte dll’organo, qui, quel gruppo di uomini, militari,civili, che sono quelli che devono guidare, quella è la guida, risolvere iproblemi, ma risolverli immediatamente, non discuterne sei mesi, poiquando arriva il momento non devono essere risolti, rimandarli e via diseguito. No, no, qui le cose vanno, bisogna avere le idee chiare erisolvere immediatamente”.

Si era al 6 aprile 1973 !

Quanto all’efficienza operativa Orlandini mostrava di avere ideesemplici e chiare, oltre alla convinzione che certi metodi sarebbero statisicuramente accettati: (stesso colloquio del 6.4.73) “il più delle volte

nasce una determinata cosa a Milano, uno, il più qualificato, parte e va arisolvere quel problema, come in Sicilia, come a Trieste, come daqualunque parte. Le disposizioni che partono per i vari organi devonoessere chiare e precise, e si devono risolvere (i problemi, n.d.u.) voltaper volta. Almeno in questo e in quello sarà il lavoro, quelle che saranno,che si presenteranno delle situazioni.

Tenga presente che l’80 % degli operai andrà a lavorare, nel lesembrerà vero. Saluteranno questa cosa perché non ci sarà piùpicchettaggio, non ci saranno più preoccupazioni, non avranno paura !Comunque potrebbero nascere delle questioni del genere: c’è darisolvere con Piaggio di Genova una situazione, perché tra operai e lui, evia di seguito. C’è qualcosa che non va ? Il più qualificato parte e va.

E poi siccome sarà inquadrato tutto a mezzo di leggi, sarà lamagistratura che tutela gli interessi dei lavoratori, ma saranno degliorgani speciali della magistratura con degli uomini scelti perché sonocapaci di risolvere. L’operaio avrà tutto quello che deve avere, non dovràavere preoccupazione che gli manchi il pezzo di pane, però dovrà anchelavorare. Si, bisogna mettere ordine in tutto ! Adesso le ho detto questonel campo del lavoro, ma è un po’ in tutti i campi”.

Quale prima conclusione da quanto detto da Remo Orlandini nei suoicolloqui con il capitano Labruna può dirsi senz’altro che lo stesso avevacome riferimento della sua “linea programmatica” il verificarsi di un colpodi Stato che considerava, oltre che necessario, imminente; per far si chequesto divenisse possibile in concreto, e si realizzasse con l’accettazioneda parte dei cittadini (o da una gran parte di essi) occorreva chel’opinione pubblica fosse adeguatamente “preparata”, vale a dire che lapopolazione fosse non solo disposta ad accettare, ma anche a ritenereinevitabile l’avvento di un potere forte che garantisse l’ordine. Soloaccadimenti eccezionali, eclatanti anche per i bersagli colpiti, potevanoessere i mezzi con cui l’opinione pubblica doveva essere condizionata econvinta. Insomma, nelle parole di Orlandini, la piena conferma eriscontro della teoria (“destabilizzare per stabilizzare”) illustrata daVincenzo Vinciguerra.

Il colpo di Stato, o qualcosa di molto simile, secondo Orlandini eraprevisto per l’aprile o, al massimo, per il maggio 1973 e, tenuto conto chela tanto desiderata svolta autoritaria doveva essere preceduta e resapossibile dalla tensione provocata da attentati e stragi, è ancor piùinquietante che in almeno in uno dei colloqui (il nastro non è statoreperito ma del contenuto hanno attendibilmente riferito i testi DiGregorio e Giuliani) si faceva riferimento a uno dei possibili bersagli,all’On. Mariano Rumor.

Significativo, al riguardo, il tenore del seguente passo dell’interrogatoriodi Antonio Labruna (G.I. 16.11.91): “Il Giudice Istruttore fa presente chedalle trascrizioni emerge che in quella del 3.5.73 l’Orlandini appare

abbattuto (^non si può continuare perdendo tempo, corriamo tropporischio - siamo tutti pronti: l’operazione va solo fatta^), mentre il 26.5.73l’Orlandini appare di buon umore, quasi euforico (^le avevo telefonatocinquanta volte. Le cose vanno bene. Io credo che questa sia l’ultimacarta, che bisogna giocarla molto bene^) - Labruna: anche io mi ero resoconto di questo mutamento dell’Orlandini e volevo fare accertamenti percapire cosa c’era di vero o era successo che aveva fatto cambiare il suoatteggiamento”.

Unico commento possibile: l’aprile 1973 era trascorso senza che nullaaccadesse e il 3 maggio, infatti, Orlandini appariva abbattuto e sfiduciatomentre il 26 maggio il suo umore sarà completamente diverso, euforicoed eccitato.

E’ superfluo osservare che tra le date dei due colloqui, il 17 maggio, viera stato l’attentato di via Fatebenefratelli contro l’On Rumor.

Che dall’attentato ci si attendesse qualcosa di importante risulteràconfermato dal successivo colloquio dell’Orlandini con il CapitanoLabruna (di cui si è detto) in occasione del quale il primo riferiràdell’incontro di Milano, nel ristorante Savini, quando il Lercari avevaconstatato che si attendeva l’attentato a Rumor, ma “non c’era statonessun attentato a Rumor”, evidentemente riferendosi al fatto chel’azione di Gianfranco Bertoli aveva mancato il bersaglio e non aveva,quindi, prodotto gli effetti desiderati.

La sicura attribuibilità della “strategia della tensione” a gruppideterminati dell’estrema destra eversiva era già emersa nelle indagini delGiudice Istruttore con l’audizione di Torquato Nicoli e le sue dichiarazionial riguardo venivano contestate a Remo Orlandini (2.1.2.91) senza lacitazione della fonte. Orlandini le respingeva definendole “tutte falsità”dichiarandosi inoltre completamente estraneo all’organizzazione di“qualsiasi fatto eversivo e, tanto meno, all’episodio del 17 maggio 1973alla Questura di Milano” ed escludendo che nell’ambito del FronteNazionale vi fosse stata una struttura occulta.

Torquato Nicoli, interrogato il 2.12.74 dal G.I. di Padova dopo esserestato colpito da mandato di cattura per partecipazione all’attivitàdell’associazione eversiva “avente varie denominazioni tra le quali quelladi Rosa dei Venti”, aveva reso le seguenti dichiarazioni: “fin dal 1948aderii ad alcune attività o associazioni che, senza essere fasciste,potevano essere orientate a destra. In particolare ero Vice Presidente deiMarinai d’Italia quando, nel ‘68, venni avvicinato dal rappresentantespezzino del fronte Nazionale il quale, pur senza conoscermi, mi invitòad aderire a quel movimento. Ricordo che la prima riunione alla qualepartecipai, nel novembre 1969 a Fiesole, vide l’afflusso di un migliaio dipersone, che ascoltarono un discorso del comandante Borghese, il qualeprospettò le finalità del Fronte come dirette a costituire una forza che in

Italia potesse contrastare un certo decadimento e potesse rinsaldare deivalori morali che sembravano minacciati. Il tono del discorso e il caratteredella riunione mi convinsero che si trattava di un’attività lecita e pubblica;mi ricordo che fuori e dentro della sala gremita erano presenti militaridell’Arma in servizio. Successivamente per altro, e precisamente in unariunione tenutasi intorno al 15 gennaio 1971 a Roma, in via XXI Aprile,venni a sapere che pochi giorni prima c’era stato un tentativo di colpo diStato da parte di elementi del Fronte Nazionale.

Lì per lì questo tentativo mi apparve una buffonata, tutavia pensai chefosse opportuno allontanarmi dal fronte perché non mi fidavo più di averea che fare con persone serie. Per tanto detti le dimissioni e nonpartecipai all’attività del Fronte, alle quali non venni più invitato. Dopo diallora, pur abbandonando il Fronte, conservai una serie di conoscenze:seppi che Borghese scappò in Spagna, dell’arresto dell’Orlandini.Conservai un rapporto amichevole con De Marchi. Anche a me DeMarchi propose di entrare a far parte del suo gruppo, assumendo che eraimminente un colpo di Stato. Nel chiedermi di partecipare all’operazioneil De Marchi disse che la situazione era matura, che avevano tanti soldi,che c’era l’adesione di militari del Nord, ed anzi che tutte le truppedell’Italia settentrionale erano controllabili. Mi disse in particolare chec’erano dei generali e vari ufficiali superiori. Successivamente neinumerosi incontri da me avuti in Svizzera con Orlandini, Lercari, Massa ealtri del gruppo che stavano muovendosi, ho potuto ricostruire che erastata fissata altresì un’epoca per il colpo di Stato, intorno al settembre1973”.

Lo stesso Nicoli, poco prima (il 4.11.74), aveva dichiarato al G.I. diTorino che negli ambienti del Fronte nazionale, che aveva continuato afrequentare, “si era parlato dell’utilizzazione di elementi di Ordine Nuovoe di Avanguardia Nazionale per atti violenti”.

Molto tempo dopo (29.3.91 al G.I. del presente processo) confermeràche De Marchi era legato da amicizia con Zagolin, del gruppo veneto, finda prima del 1973 e che il De Marchi, il Lercari e lo Zagolin avevanoriunioni con rappresentanti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale;nell’occasione dichiarava inoltre: “tra Fronte Nazionale ed AvanguardiaNazionale/Ordine Nuovo negli anni 1972/73 era avvenuta unasostanziale fusione in quanto i giovani che erano iscritti al Fronte siiscrivevano anche a Ordine Nuovo e ad Avanguardia Nazionale.Confermo quanto verbalizzato a pagina 4 dell’interrogatorio del4.11.1974 al G.I. di Torino, che cioè più volte nelle riunioni del Fronte,presenti Orlandini, De Marchi e altri, si parlò di elementi di Ordine Nuovoe di Avanguardia Nazionale da utilizzare per azioni violente a persone. Atal fine devo aggiungere che sentii in alcune occasioni anche il Pavia direche aveva sottomano alcuni uomini adatti da utilizzare per compiereattentati a persone fisiche e in particolare a uomini politici. Pavia facevaparte del Fronte Nazionale ed era responsabile del Piemonte”

A conferma merita citazione quanto, tra l’altro, riferito da RobertoCavallaro già il 28.2.75 al G.I. di Roma: Amos Spiazzi (ufficiale superioredell’Esercito, inizialmente imputato nel presente procedimento penale) gliaveva detto in più occasioni che egli “subordinava l’intervento delle ForzeArmate a uno stato di particolare tensione” e che, nel contesto di queidiscorsi, lo Spiazzi si era riferito espressamente a Ordine Nuovo comel’unica organizzazione che, in quel momento, era da ritenersi capace dicompiere “fatti concreti”.

Queste le conclusioni cui la Corte ritiene di pervenire sulla scorta di

quanto finora detto, con la premessa doverosa che quanto teorizzato dalVinciguerra non può essere del tutto condiviso, specialmente quandoquesti tende a una ingiusta generalizzazione, quasi che all’epoca che quiinteressa Forze Armate, Carabinieri, Servizi di sicurezza fossero occupatiunicamente nel tramare contro le Istituzioni democratiche, al fine disovvertirle. Sembra, tra l’altro, di poter cogliere nelle sue dichiarazionil’intento di sminuire l’effettiva pericolosità delle formazioni eversivedell’estrema destra, escludendone l’iniziativa nell’ideazione di attentati,attribuendo loro un mero ruolo esecutivo di decisioni assunte altrove e daaltri.

E’ ben vero che lo stesso Vinciguerra finisce per fare riferimento asingoli soggetti e a settori deviati di quelle strutture statali, tuttavia ègiusto sottolineare che solo una parte del tutto minoritaria mantenneequivoci rapporti con organizzazioni eversive di estrema destra, mentreun gran numero di “servitori” dello Stato fu leale con le Istituzioni e fedeleal giuramento prestato.

Detto ciò, non si può negare che in taluni casi, scheggie deviate edevianti, in specie dei Servizi di sicurezza ma anche dell’Esercito, furonoquanto meno conniventi o solidali con i propositi eversivi diorganizzazioni che, per ideologia e origine storica, avevano in odio ilsistema democratico, le sue regole e i suoi esponenti.

Scopo di tali organizzazioni (ormai lo si può affermare con certezza) eraquello di creare artificiosamente, con attentati stragisti da attribuire allaparte politica avversa, uno stato di tensione nell’opinione pubblica perrenderla non solo succube ma desiderosa di una svolta autoritaria chefosse in grado di garantire al Paese ordine e “legalità”, che riservasse ilgoverno del Paese ai “più qualificati”, chiamati a risolvere con efficienza iproblemi che si fossero di volta in volta presentati e, soprattutto, adifendere determinati “valori” dall’attacco di forze considerateantinazionali.

Che quello, e non altro, fosse lo scopo ultimo perseguito è un dato chetrova conferma nella natura degli attentati che, in quegli anni,insanguinarono molte città italiane: seminare terrore con bombe e stragi(anonime ma spesso attribuite, anche con idonee coperture, ad anarchicio schieramente della sinistra) non ha senso alcuno se fine a se stesso; ilterrorismo ha un “senso” se con esso si persegue il fine di ingenerarenella popolazione il timore per la propria incolumità, sempre e ovunque,

oltre alla sfiducia verso le Istituzioni e gli uomini che non appaiono ingrado di assicurare il tranquillo e ordinato svolgersi della vita sociale;allora il terrore trova il suo naturale sbocco nell’auspicio enell’accettazione di uno “Stato forte”, con le relative leggi emergenziali econseguente limitazione di diritti costituzionalmente garantiti.

La “strategia della tensione” aveva, appunto, quegli scopi perché essaavrebbe permesso di realizzare finalmente, con la tanto desiderata svoltaautoritaria, i disegni di chi intende il potere non come servizio allaNazione e ai cittadini ma come prerogativa personale e a favore dipochi privilegiati. I punti più qualificanti di questi disegni eranol’eliminazione dei partiti politici, l’esautoramento delle organizzazionisindacali mediante l’abolizione del diritto di sciopero (far ‘si che aglioperai non “mancasse il pane” ma che in cambio lavorassero),l’emanazione di leggi adeguate (anche in materia di lavoro) e la loroapplicazione da parte di una Magistratura selezionata (cioècondizionata), l’affidamento della gestione della pubblicaamministrazione a persone “perbene” a “galantuomini” accuratamenteprescelti negli ambiti delle rispettive professioni e competenze.

Il tutto all’evidente scopo di impedire, possibilmente per sempre,l’avvento al governo della cosa pubblica di rappresentanti delle classi inquel momento escluse e che tali dovevano restare.

In altri e più crudi termini: si perseguiva, teorizzandola, la negazione delprincipio fondamentale della Democrazia che, in ultima analisi, consistenella concreta possibilità di tutte le parti sociali, se legalmenteorganizzate e rappresentate, di aspirare e, se del caso, accedere algoverno della Nazione.

Quelle “idee” non conseguirono, se non in minima parte, i risultatidesiderati, ma non furono e non rimasero isolate; anzi, troverannoproseliti, anche in tempi più recenti, in coloro che, promotori o associati,tentarono di favorire l’avvento di una forma di Stato non dissimile daquella già auspicata dalle organizzazioni eversive, sia pure con metodicertamente meno cruenti ma, non per questo, meno insidiosi.

La strage di via Fatebenfratelli del 17 maggio 1973 - per lecaratteristiche personali dell’esecutore materiale (sedicente anarchico e,come tale, ideale per la così detta “mimetizzazione”), per l’ambientepolitico/eversivo in cui fu concepita e dal quale derivò il mandato, per ilbersaglio che si intendeva colpire, per la sua collocazione temporale(cioè proprio nel periodo in cui negli ambienti dell’eversione neofascistasi attendeva quel fatto eclatante che avrebbe dovuto determinarel’auspicato colpo di Stato), infine per le “coperture” di cui si è detto - adavviso della Corte deve essere inserita a pieno titolo nella linea di quelleattività terroristiche nel che si sostanziò la così detta “strategia dellatensione”.

L’ideazione e organizzazione di quell’attentato, sulla scorta di tutti glielementi di prova fino ad ora esaminati, non possono che essere

attribuite all’organizzazione che è stata indicata da più fonti come la piùinteressata e l’unica, all’epoca, capace in concreto di atti violenti, vale adire a Ordine Nuovo, in particolare ai gruppi di quel movimento attivi nelVeneto.

Ordine Nuovo: sue attività eversive e ruolo di Carlo Maria Maggi

Si può senz’altro affermare che, almeno per quanto qui riguarda, lastoria dell’organizzazione di estrema destra “Ordine Nuovo” è la storiagiudiziaria di quel movimento, atteso che i principali suoi dirigenti eadepti sono stati indagati e condannati per delitti connessi alle attivitàeversive dei gruppi di appartenza: ricostituzione del Partito Fascista,attentati stragisti o dimostrativi, detenzione illegale di esplosivi, armi emunizioni.

Le vicende di Ordine Nuovo possono essere qui ripercorse solo agrandi linee, rimandando alla completa trattazione fornita dai giudici diprimo grado (pagg. 109-169 della sentenza impugnata); una storiaprotrattasi per l’arco di poco meno di vent’anni, dalla sua costituzionecome “Centro Studi Ordine Nuovo” nel 1956 previa scissione dal M.S.I.,al suo scioglimento alla fine del 1973 in conformità della legge Scelbaessendo stato ravvisato, da parte di quel movimento, la ricostituzione deldisciolto partito fascista, di cui ha riferito con la propria testimonianza ilsen. Paolo Emilio Taviani, cioè del Ministro degli Interni pro tempore che,appunto nel novembre 1973, decretò lo scioglimento di Ordine Nuovo.

L’origine e la natura di tale organizzazione, le ideologie propugnate ed iprogetti eversivi perseguiti, sono stati approfonditi e descritti nellaacquisita sentenza del Tribunale di Roma, che si pronunciò sullaricostituzione del partito fascista, in cui furono individuati aspettiqualificanti di Ordine Nuovo, quali la denigrazione della democrazia edelle sue istituzioni, l’esaltazione dei principi, dei simboli e dei metodipropri del disciolto partito fascista. Uno dei passi più significativi,richiamato testualmente anche nella motivazione della sentenzaappellata, merita di essere anche qui considerato: “........e del restoquesta discendenza diretta dal fascismo è rivendicata chiaramente in undattiloscritto sequestrato a casa di Graziani e che questi attribuisce aPino Rauti: ^ma sapete da dove veniamo ? Sapete che cosa abbiamoalle spalle, quali sono le nostre origini? Noi veniamo come origine vicinae immediata da quel nazionalismo di Corradini che agli italiani ristrettinella politica del piede di casa seppe additare la visione immensa efascinosa dell’impero, dell’espansione oltremarina. Noi veniamo dalfuturismo di Martinetti che nell’Europo ancora della Belle Epoque del XIXsecolo che non voleva morire, gridava alle conformiste platee atterrite:

vogliamo uccidere anche la luna e urlava provocando tafferugli: guerra,sola igiene del mondo. Noi veniamo da quei sindacalisti rivoluzionari allaCorridoni che innalzavano il mito di Sorel contro Marx con lo stessoorgoglio con cui si alza la bandiera contro uno straccio stinto. Noiveniamo dall’interventismo, dalla beffa di Buccari, noi veniamo anche,camerati, da quel grande fenomeno politico che fu lo squadrismo delprimo dopoguerra, dallo squadrismo che sapeva inneggiare alle donne ealla vita, ma sapeva rischiare la vita, un’esaltazione di sangue giovane edella bella morte^.

Va citata anche la sentenza in data 12 ottobre 1993 della Corte diCassazione. Questa rendeva definitivi gli accertamenti della Corted’assise e della Corte d’assise di Appello di Roma le quali, in unprocedimento a carico di numerosi imputati e all’esito della disamina edella valutazione di fatti successivi allo scioglimento di Ordine Nuovo(disposto con il citato decreto in data 23.11.1973), avevano ravvisato laformazione di strutture di riaggregazione di militanti dell’estrema destraextra-parlamentare, snodatasi in successione temporale all’interno di uncontesto eversivo, sostanzialmente unitario, di sodalizi caratterizzati dallaopzione per la lotta armata, da una progettualità eversiva contro lo Statoe le Istituzioni democratiche, da attività delinquenziali e da un ampioprogramma criminoso.

Altre sentenze definitive hanno attribuito a elementi del gruppo romanodi Ordine Nuovo atti criminali (l’uccisione del giudice Occorsio, che perprimo aveva denunciato il movimento per ricostituzione del partitofascista) e numerosi episodi di violenza quali aggressioni a sedi delP.C.I., partecipazione alla rivolta di Reggio Calabria nonché aggressionia militanti di partiti politici.

Infine, con sentenze emesse dall’Autorità giudiziaria romana, passate ingiudicato, è stato accertato che, anche dopo il decreto di scioglimento,l’attività di Ordine Nuovo era continuata in un contesto eversivo,caratterizzato dalla opzione per la lotta armata.

Di particolare importanza le sentenze in data 9.12.88 della Corted’assise e 8.11.91 della Corte d’assise di Appello di Venezia, inparticolare nelle motivazioni dedicate alla ricostruzione organica delleattività delittuose del gruppo ordinovista che operava nel Triveneto.

Con quelle sentenze Carlo Maria Maggi era stato dichiaratoresponsabile del delitto di ricostituzione del disciolto partito fascista dal1969 al 1982 e condannato alla pena della reclusione per anni sei egiorni 15.

Nel processo di primo grado Carlo Maria Maggi – con Soffiati, Spiazzi,Digilio, Malcangi, Quaderni, Cinzia De Lorenzo, Giuseppina Gobbi,Claudio Bressan e Paolo Fasoli – era stato chiamato a rispondere deldelitto di cui all’art. 270bis C.P. (associazione con finalità di terrorismo edi eversione dell’ordine democratico) per aver costituito, organizzato e

diretto un’associazione realizzata con denaro proveniente dal discioltoOrdine Nuovo, che si tentava di ricostituire con le medesime finalitànell’intero territorio nazionale, riuscendovi in parte nel Veneto; quellaassociazione, attiva in Venezia, Verona, Colognola ai Colli e in altre zonetra il 1977 e il 1982, aveva come finalità l’esecuzione di atti di violenza ascopo di eversione dell’ordine democratico, attraverso il collegamentocon bande armate alle quali procurava armi; l’associazione disponeva diarmi, esplosivi e detonatori, procurava o formava falsi documenti diidentità, ospitava latitanti, promuoveva la stampa e la diffusione digiornali con contenuti di eversione neofascista, teneva schedari dipartecipanti a organizzazioni neofasciste in vista del compimento diazioni eversive terroristiche. I fatti di che trattasi, pienamente accertati,erano qualificati come “riorganizzazione del partito fascista”.

Secondo la Corte d’assise di Venezia era stata raggiunta la prova cheOrdine Nuovo “nato come movimento unitario in contrapposizione alMovimento Sociale Italiano, aveva mantenuto una unitarietà diimpostazione ideologica anche dopo il rientro nel M.S.I. e che coloro cheall’operazione rientro avevano aderito lo avevano fatto per motivimeramente strumentali, mantenendo una loro identità ideologicasicuramente non coincidente con quella del partito al quale avevano datola loro formale adesione”.

Inoltre era stata ritenuta inesistente la pretesa. radicale e assolutaincompatibilità della contemporanea appartenenza ai Centri Studi OrdineNuovo (rientrati nel M.S.I.) e al movimento politico Ordine Nuovo.

Nel giudizio di appello si operava la riunione di altro processo nel qualeera imputata al Maggi la riorganizzazione del partito fascista dal 1969 al1980 per avere, unitamente a Carlo Digilio e Delfo Zorzi, partecipato confunzioni organizzative, in Venezia, al sodalizio criminoso armatodenominato Ordine Nuovo, sodalizio operante nel Triveneto; il Maggi, ilDigilio e lo Zorzi, in particolare, sovrintendendo ai rapporti fra il gruppoveneto e il gruppo friulano, alle forniture di armi e materiale bellico, allafabbricazione, riparazione, custodia delle stesse nonché allapreparazione di attentati contro persone e cose.

Carlo Digilio, imputato in entrambi i procedimenti, ritenuta per lui la solaqualifica di partecipe, fu condannato alla pena di anni 5, mesi 2 e gg. 15di reclusione. Oltre a Maggi e Digilio, in relazione a tali fatti-reato, sonostati definitivamente condannati Mario Quaderni, Cinzia De Lorenzo eClaudio Bressan.

Convenendo con i giudici di primo grado del presente processo, laCorte ritiene che dalle sentenze definitive delle AA.GG. di Roma eVenezia si debba desumere: 1) che ben prima dello scioglimentodisposto dal ministro Taviani, Ordine Nuovo, nel timore che la propriaattività determinasse una dura repressione, decise per ragioni puramentestrumentali un fittizio rientro nel M.S.I.; nonostante che le ragionidell’originaria scissione (1956) permanessero e anzi si fosseroaccresciute nel frattempo, fu ordinato ai militanti di attenuare i contrasti

con i missini, ancora vivissimi nel 1968 a pochi mesi dalla riunione, alsolo scopo di poter contare sulla protezione di un partito politico chesedeva in Parlamento e per tentare nel contempo di eroderne la base,soprattutto giovanile; 2) proprio in attuazione di quella strategia deldoppio binario adottata da Ordine Nuovo, si posero in essere più sigle,tutte di facciata, permanendo in ogni sede, dotata di ampia autonomiadecisionale e operativa, sia un nucleo che svolgeva attività eversiva siauno che svolgeva attività politica, in parte o totalmente coincidenti neisoggetti.

Dall’analisi delle risultanze e delle acquisizioni processuali deve essereposto in rilievo il grande interesse che le decisioni delle Corti venezianeassumono nel presente processo avendo affrontato specificamentel’operatività dei gruppi di Ordine Nuovo nel Triveneto e, in particolare, diquello di Venezia.

In dette sentenze, segnatamente nella motivazione di quella emessa ingrado di appello, sono stati indicati gli elementi più rilevanti relativi alruolo di Carlo Maria Maggi. Questi negli anni sessanta ricopriva il ruolo diispettore di Ordine Nuovo per il Triveneto e sin dai primi anni settanta erastato il principale referente del gruppo ordinovista di Udine, facente capoai fratelli Vincenzo e Gaetano Vinciguerra, a Carlo Cicuttini, a CesareTurco, a Giancarlo Flaugnacco; quel gruppo era attivo sul piano militaree operativo avendo compiuto una serie di azioni violente tra le quali ildirottamento aereo di Ronchi dei Legionari del 6.10.72, l’attentatoall’abitazione dell’On. De Michieli Vitturi e la strage di Peteano del31.5.1972.

Vincenzo Vinciguerra aveva affermato che i suoi rapporti con Maggierano proseguiti anche dopo il 1969, epoca in cui era stato sciolto ilCentro Studi Ordine Nuovo. Giancarlo Vianello, a sua volta, avevadichiarato che Maggi era amico di Marcello Soffiati, che a Triesteesisteva un nucleo molto forte di Ordine Nuovo o comunque di unmovimento estremista di destra facente riferimento a Ordine Nuovo delquale facevano parte Neami, Portolan e Forziati; che a Mestre le riunionidegli ordinovisti si tenevano nello studio di un medico tricologo chelavorava con la copertura del Maggi. In quello studio, nel quale il Maggiaveva avuto la disponibilità di un locale tra il 1966 e il 1974, era avvenutauna serie di incontri tra ordinovisti veneti (tra i quali il Maggi) e ordinovistifriulani, tra i quali il Vinciguerra.

Carlo Maria Maggi era al vertice del gruppo di ordinovisti veneti e, cometale, aveva mantenuto rapporti con Massimiliano Fachini, Roberto Raho,Franco Freda, Paolo Signorelli e Giancarlo Rognoni.

Una prova indiretta della rilevanza del ruolo del Maggi nell’associazioneera rappresentata dal fatto che egli, benché coinvolto in tutte le attivitàposte in essere dal gruppo, per così dire “conservava le mani pulite”, cioèche mai le armi, le munizioni, i detonatori, i documenti falsi passavanoper le sue mani.

Quanto ad armi ed esplosivi la sentenza della Corte d’assise di Veneziaaveva evidenziato il rinvenimento in data 4.6.82, presso l’abitazione diCarlo Digilio a Venezia, di oltre tremila cartucce (anche per armi daguerra), di tre giubbotti antiproiettile, di due fucili e di una carabina;inoltre, su indicazione di Claudio Bressan, erano stati rinvenuti unapistola e un revolver occultati nel cimitero di San Zeno, nonchédetonatori nascosti nel tiro a segno di Venezia Lido.

Occorre ora soffermarsi su quanto, dagli elementi probatori documentalie testimoniali acquisiti, è risultato circa l’attività eversiva di Carlo MariaMaggi e dei suoi accoliti nel periodo precedente al 17 maggio 1973nell’ambito dell’organizzazione Ordine Nuovo e nel gruppospecificamente facente capo al Maggi, quello di Venezia-Mestre.

In proposito, assumono particolare rilievo i dati di fatto compendiatinella sintesi che segue: in un rapporto della DIGOS presso la Questuradi Venezia, datato 25.6.86 e diretto al Giudice Istruttore del localeTribunale, è stata dettagliatamente ricostruita la storia di Ordine Nuovonel Veneto, a partire dall’aprile 1957, tempo in cui a Venezia GianRiccardo Romani aveva costituito una sezione del Centro Studi OrdineNuovo. Da tale rapporto si possono trarre elementi utili per ciò cheattiene ai fatti per cui si procede, vale a dire: nel 1958, nella direzione delCentro Studi Ordine Nuovo, il Romani era stato sostituito da Carlo MariaMaggi il quale, nel 1961, aveva costituito a Verona un’altra sezione diquel Centro Studi. Nel 1963 una sezione era stata costituita a Padovacon a capo Franco Freda, mentre nel 1964 Marcello Soffiati era statonominato responsabile del Centro Studi Ordine Nuovo di Verona.

Nell’aprile 1966 erano state eseguite perquisizioni domiciliari neiconfronti di Besutti Roberto, Massagrande Elio e Soffiati Marcello, conrinvenimento e sequestro di numerose armi e munizioni; a seguito delleloro dichiarazioni in un appartamento di Reverè Veronese (preso in affittodal Besutti sotto falso nome) era rinvenuto un ingente quantitativo di armie munizioni tra cui quindici mitra, quattro fucili mitragliatori, quindicimilacartucce e quattordici chili di tritolo, a riprova dell’ampia disponibilità, daparte del gruppo veronese, di armi, munizioni ed esplosivo.

Il 16 novembre 1968 personale della Questura di Padova arrestavaMariga Giampiero, trovato in possesso di armi da guerra. Questi,residente a Mestre, risultava in stretti rapporti con Delfo Zorzi, facenteparte del Centro Studi Ordine Nuovo di Venezia, nell’abitazione delquale, il giorno successivo, erano rinvenute e sequestrate tre pistolenonché due sacchetti contenenti esplosivo.

Nel febbraio 1971 Martino Siciliano era stato indiziato come autore diun attentato all’Università di Milano dove era stato fatto esplodere unordigno che aveva prodotto solo danni a cose.

Nell’aprile 1971 il G.I. di Treviso aveva emesso mandati di cattura neiconfronti di Franco Freda e di Trinco Aldo, imputati di associazionesovversiva anche in relazione ad attentati dinamitardi commessi su treninel 1969.

Nel 1973 la segreteria del M.S.I. di Venezia aveva espulso MartinoSiciliano e Giampiero Mariga e sospeso a tempo indeterminato CarloMaria Maggi, Andreatta Pietro, Pasetto Carlo Maria, Delfo Zorzi, RomaniGian Gastone, Carnet Giampiero, Centenni Mario e Molin Paolo.

Meritano di essere richiamate, sia pure in estrema sintesi, ulterioriinformazioni sulle vicende dell’organizzazione Ordine Nuovo nelTriveneto fornite dalla DIGOS della Questura di Venezia con il citatorapporto:

nell’estate del 1963 “Molin partecipava al convegno indetto dallafederazione nazionale degli ex-combattenti della R.S.I., tenutosi aMilano, con altri esponenti di Ordine Nuovo di altre province”;

nel dicembre 1964 “a seguito del riordinamento ed ampliamento delquadro dirigente di Ordine Nuovo, entravano a far parte del direttivonazionale Carlo Maria Maggi e Gian Gastone Romani. Veniva costituito,inoltre, per il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia e l’Alto Adige, un Ispettoratoalle dipendenze dei soprascritti Maggi e Romani”;

il 27 giugno 1965 “al convegno nazionale di Ordine Nuovo, tenutosi aRoma presso il Palazzo Brancaccio, veniva segnalata la partecipazionedei veneziani Maggi, Molin, Romani e Carlet. A detto convegno si notavala partecipazione di militanti di Avanguardia Nazionale Giovanile,capeggiati da Stefano Delle Chiaie;

nel novembre 1966 “in Mestre si teneva il congresso interprovinciale delCentro Studi Ordine Nuovo, organizzato dai già citati Maggi Carlo Mariae Molin Paolo, cui prendevano parte, tra gli altri, Gino Rosoleni eGiovanni Cavarzere i quali, nel 1962, avevano partecipato all’attentatoalla sede veronese del P.C.I., risultando condannati a mesi sei direclusione”;

il 27 marzo 1967 e nel giugno dello stesso anno, a Milano e a Torino sierano tenuti convegni di Ordine Nuovo con la partecipazione di CarloMaria Maggi;

nel marzo 1968 “in Milano aveva luogo una riunione di dirigenti diOrdine Nuovo per l’Alta Italia, presieduta dal noto Pino Rauti. Come sededi riunione veniva utilizzata la sede della federazione nazionaleCombattenti Repubblica Sociale Italiana. Fra i partecipanti venivanosegnalati Maggi Carlo Maria e Romani Gian Gastone”;

il 28 marzo 1971 “i Carabinieri di Verona, su mandato di cattura di quelTribunale, procedevano all’arresto di Massagrande Elio, di BesuttiRoberto e di Rocchini Pietro per aggressione contro occupanti dellafacoltà di Magistero con il ferimento di tre persone (21.1.71), incendiodoloso dell’autovettura del senatore Adelio Albarello del P.S.I.U.P.(6.12.69), attentato dinamitardo contro il negozio Alta Moda sito inMantova (1.5.69);

nel dicembre 1971 “la Procura della Repubblica di Roma rinviava agiudizio, ai sensi degli articoli 1 e 2 della legge n.645, unitamente ad altri,Besutti Roberto, Massagrande Elio, Bizzarri Claudio, Simone Walter eMazzeo Leone. In quel periodo Carlo Maria Maggi avrebbe avuto

frequenti contatti con esponenti di Ordine Nuovo veronesi e soprattuttocon il noto Elio Massagrande. Risulta infatti che il Maggi aveva alloggiatoin Verona il 20.4.1973 presso l’Hotel Accademia, il 25.6.72 presso l’HotelAGIP, il 31.3.1973 e il 14.4.73 presso l’Hotel Rossi”.

Dalle notizie raccolte dalla DIGOS era risultato infine che gli stessi

uomini che avevano gestito i Centri Studi di Ordine Nuovo avevano puregestito l’attività eversiva di Ordine Nuovo, come del resto saràconfermato dalle dichiarazioni testimoniali rese al G.I. da Dario Persic il24 aprile 1997.

Di tali dichiarazioni si fornisce, di seguito, una sintesi rimandando allanota in calce per un resoconto più completo.

Il Persic, simpatizzante all’epoca dell’estrema destra e in rapporti conesponenti di Ordine Nuovo nel Veneto, benché mai coinvolto in attivitàeversive, dichiarava di essere stato, fin dall’inizio del 1968, amico diMarcello Soffiati tramite il quale aveva avuto modo di conoscere CarloMaria Maggi, Carlo Digilio, Sergio Minetto e altri, persone che aveva poifrequentato fino al 1981/82; considerava Marcello Soffiati come figura dirilievo del gruppo veronese di Ordine Nuovo mentre il Maggi, a Venezia,era secondo soltanto a Sergio Minetto il quale però non potevaconsiderarsi membro organico del gruppo; affermava il teste che Maggiera sempre in compagnia di Carlo Digilio quando li vedeva nel ristorantedel Soffiati in Colognola ai Colli.

Secondo il Persic, Marcello Soffiati si recava spesso nell’abitazione diAmos Spiazzi, persona che aveva visto anche nel ristorante dello stessoSoffiati; ricordava anche che il Soffiati si era sposato il 28 aprile 1973 eche i testimoni erano stati lui stesso Persic e Carlo Digilio; al banchettoavevano partecipato anche Maggi e Minetto.

Il Persic dichiarava inoltre che Marcello Soffiati teneva e custodiva nellapropria abitazione, a Verona in via Stella, armi in gran numero edesplosivo; ricordava in particolare un mitra MP40, due silenziatori, unapistola cecoslovacca calibro 9 nonché delle bombe a mano, di quelle inuso all’esercito italiano; secondo quanto riferitogli dal Soffiati, era Digilioche, all’occorrenza, procurava le armi; lo stesso era anche in grado diripararle ed era considerato l’armiere del gruppo; precisava il Persic cheaveva avuto modo di vedere le armi nell’abitazione di via Stella nelperiodo dal 1972 al 1974, quindi anche nel periodo in cui era andata adabitare in quella casa la moglie del Soffiati; ricordava inoltre chenell’appartamento esisteva un piccolo vano nel corridoio, munito dimensole sulle quali c’era un po’ di tutto ma, sul pavimento, eranoconservate le armi.

Il Persic aveva infine riferito di una riunione a casa sua, avvenuta nel1970/71, alla quale avevano partecipato il Maggi, il Minetto, Digilio,Marcello Soffiati e un uomo con i baffi “che faceva il croupier al Casinò diVenezia”; ricordava, in particolare, che nel corso della riunione si eraparlato di una rivoluzione che si prospettava imminente e che sarebbe

stata appoggiata dagli americani. In proposito il Persic ricordava di avervisto spesso, parcheggiate nei pressi della trattoria del Soffiati,autovetture con targa americana.

Quanto alla disponibilità di armi da parte di Ordine Nuovo del Veneto sirichiamano le dichiarazioni di Marco Pasetto, di Martino Siciliano, diVincenzo Vinciguerra, di Marzio Dedemo e di Pietro Battiston: secondoPasetto il Boffelli (guardaspalle di Carlo Maria Maggi) disponeva di unacarabina calibro 22 e di altre armi; lo stesso gli aveva mostrato unapenna-pistola (di quella strana arma aveva riferito anche MartinoSiciliano); Vinciguerra aveva visto nel 1973, nella casa di Delfo Zorzi,due valigie di munizioni; Dedemo aveva visto un silenziatore a casa delMaggi; Battiston aveva dichiarato che Carlo Digilio gli aveva confidato diessere in grado di ricavare dell’esplosivo da ordigni bellici recuperati inlaguna; Digilio gli aveva anche detto che dell’esplosivo, del tipo gelignite,di cui disponeva Ordine Nuovo si stava deteriorando, infine che Maggi gliaveva chiesto di trasformare detonatori tradizionali in detonatori elettrici.

Quanto al ruolo ricoperto da Carlo Maria Maggi nel gruppo ordinovistale testimonianze assunte lo hanno descritto come quello di un capomilitare, tra l’altro provvisto di un servizio di tutela armata compiuto dalDedemo, dal Tettamanzi e dal Boffelli. Il Maggi (da tutti chiamato“dottore” essendo un medico ed esercitando tale professione) rivestivauna posizione di assoluto rilievo non solo a Venezia ma anche in tuttal’Italia del Nord, e ciò secondo dichiarazioni tutte concordanti sul punto.Quella, ad esempio, resa da Marzio Dedemo al Giudice Istruttore il21.2.1997, sia sul ruolo che sull’importanza del Maggi nell’ambito diOrdine Nuovo, nonché sulle idee politiche e progetti rivoluzionari del“dottore”: nel suo ruolo di accompagnatore/guardaspalle del Maggi avevasvolto alcuni incarichi da questi affidatigli; ricordava in particolare che neiprimi anni ’70 si era recato a Milano per recare un suo messaggio agiovani appartenenti al gruppo “La Fenice” con l’ordine di non reagireall’aggressione subita dalla moglie del Rognoni dato che, in quelmomento, una vendetta sarebbe stata controproducente; nell’occasione idestinatari del messaggio avevano accettato senza obiezioni quantorichiesto da Carlo Maria Maggi.

Sempre su incarico di Maggi aveva portato in Spagna, dove si erarecato in viaggio di nozze, carte di identità e patenti destinate al latitanti.Ricordava infine di aver fatto da autista e guardaspalle in alcuni viaggi aMilano dove Maggi si incontrava, in una trattoria, per riunioni con ex-repubblichini, riunioni alle quali partecipava anche Pio Battiston (padre diPietro o Piero). Questi, in seguito, gli aveva riferito che in quelle riunioniMaggi aveva sostenuto la necessità della strategia di attentatidimostrativi, la cui responsabilità doveva essere attribuita alla sinistra,ritenendo la strage uno strumento della politica.

Sulla posizione ideologica e politico-strategica di Carlo Maria Maggi sicitano ancora le dichiarazioni rese al P.M. di Brescia il 6.10.1995 daPietro Battiston (ospitato dal Maggi nel periodo di latitanza trascorso aVenezia tra la fine del ’73 e il ’74): “a livello ideologico Maggi, nel periododella mia latitanza a Venezia, sosteneva la necessità di utilizzare lostrumento degli attentati e delle stragi come punto essenziale di unastrategia che mirava a creare il caos, cioè nell’ottica di costituire in talmodo il terreno sul quale potesse attecchire una vera e propriarivoluzione di destra da realizzarsi, nella sua ottica, senza l’interventodelle Forze Armate, e a prescindere da esso. Non faceva mistero di talesua ideologia, tanto da destare stupore anche nel nostro ambiente. Leriunioni a livello interregionale degli aderenti alla struttura ufficialmentedisciolta di Ordine Nuovo venivano organizzate, per quanto a miaconoscenza, da Signorelli. Anch’io ho preso parte a diverse di questeriunioni a Roma, Genova, Treviso e Milano; il Maggi, nell’ambito diqueste riunioni, si faceva promotore della linea di cui ho appena parlato.La posizione più vicina al Maggi era rappresentata da Rognoni e dalgruppo di quest’ultimo. A livello centrale direi che non incontravanogrossi consensi, tanto che ho sentito giudizi negativi pronunziati dalSignorelli e dallo stesso Massagrande”.

Infine le dichiarazioni di Ettore Malcangi (al G.I. 3.7.95) il quale riferiva,secondo quanto confidatogli da Carlo Digilio, della partecipazione diMaggi a una riunione di estremisti di destra avvenuta a Verona, in cui siera parlato di un colpo di Stato: “la riunione avvenne nei primi mesi del1973, cioè prima della morte di Giancarlo Esposti avvenuta il 30.4.73;uno degli scopi della riunione era la ricerca di armi per 40.000 uomini eGiancarlo Esposti era stato incaricato di reperire armi e la sua morteavvenne proprio mentre stava eseguendo tale incarico........ Io ero già aconoscenza di tale riunione di Verona avendomene parlato nel 1973Giuliano Bovolato anche se non mi indicò tutti i presenti alla riunione.Bovolato all’epoca era il dirigente delle vecchie S.A.M. (Squadre d’azioneMussolini – n.d.u.). Posso dire ciò in quanto tra la fine del 1972 e l’iniziodel 1973 fui presentato a Bovolato per essere arruolato nelle S.A.M.Restai a disposizione per qualche tempo e l’unico incarico che mi fu datofu quello di esplorare la possibilità di trovare armi. Dopo la morte diEsposti avvenuta alcuni mesi dopo io continuai a frequentare il Bovolatofino a settembre-ottobre ’73 e poi cominciai a prendere le distanze daquel gruppo”.

Carlo Maria Maggi, in conclusione, sulla scorta di tutti i dati acquisiti e,in particolare, delle dichiarazioni di Dario Persic, di Pietro Battiston, diMarzio Dedemo e di Ettore Malcangi – che hanno riferito delle opinionidallo stesso espresse e dei contatti avuti con personaggi chepropugnavano un colpo di Stato – deve essere ritenuto parte eprotagonista, a tutti gli effetti, della strategia della tensione di cui si ètrattato.

Infine, quanto all’attività eversiva di Ordine Nuovo di Venezia-Mestreispirata dal Maggi, meritano di essere citate le dichiarazioni di GiancarloVianello secondo il quale gli aspetti organizzativi del gruppo di OrdineNuovo di Venezia erano di competenza di Carlo Maria Maggi, che questiera gerarchicamente sovraordinato a Delfo Zorzi, che il gruppodisponeva di armi e di esplosivi, che il livello clandestinodell’organizzazione faceva capo a Maggi, Digilio e Zorzi.

Dal canto suo Martino Siciliano ha indicato altri attentati attribuibili algruppo ordinovista di Venezia-Mestre (oltre a quelli indicati dal Vianello,vale a dire gli attentati alla Scuola Slovena di Trieste e al cippo di confinea Gorizia compiuti nel 1969) nonché il possesso, da parte di quel gruppo,di numerose armi; Delfo Zorzi era il responsabile della sezione di Mestree aveva come suo referente il Maggi il quale, a sua volta, aveva comeriferimento, a Roma, Paolo Signorelli.

Per completezza di trattazione non si possono trascurare alcune azionieversive, inquadrabili nella strategia della tensione propugnata dalMaggi, benché non direttamente riferibili al suo gruppo, compiute daigruppi di Giancarlo Rognoni e di Vinciguerra negli anni immediatamenteprecedenti al 1973.

A quello facente capo al primo (di Milano, denominato “La Fenice”) ilmancato attentato dinamitardo compiuto sul treno Torino-Roma il 7 aprile1973, fatto per cui furono condannati dalla Autorità Giudiziaria di GenovaNico Azzi (autore materiale, nell’occasione ferito dallo scoppio di undetonatore) Giancarlo Rognoni, Mauro Marzorati e Francesco De Min.

Al gruppo ordinovista di Udine la strage di Peteano commessa il 31maggio 1972. Per quel gravissimo attentato, risoltasi con la generaleassoluzione di appartenenti alla malavita (inizialmente incriminati), nel1978 fu, infine, seguita la pista politica che portò ad attribuire la strage algruppo di Ordine Nuovo di Udine del quale facevano parte VincenzoVinciguerra e Carlo Cicuttini, già autori con Ivano Boccaccio deldirottamento aereo di Ronchi dei Legionari avvenuto il 7.10.72, entrambipoi condannati per i fatti di Peteano alla pena dell’ergastolo.

La vicenda di quella strage, la complessa indagine che ne era seguitacon i relativi tentativi di sviamento, meriterebbero una trattazione a parte,rivestendo la stessa un particolare significato in ordine alle attivitàcriminose propugnate e compiute da appartenenti a Ordine Nuovo. Siritiene però sufficiente richiamare, condividendole, le conclusioniformulate in proposito dai giudici di primo grado i quali hanno esaminatoa fondo detta vicenda, e non solo: “in epoca immediatamente precedentela strage di via Fatebenefratelli il gruppo ordinovista di Udine,geograficamente collocato in quel Triveneto da sempre posto sottol’influenza assoluta ed esclusiva di Carlo Maria Maggi, senza distinzionetra partecipanti a Centri Studi o Movimenti Politici di sorta, organizzavaed eseguiva sotto la guida di Vincenzo Vinciguerra una serie di attentatti

che, con una progressione incredibile di pericolosità, trascorrevadall’aggressione a un parlamentare missino al dirottamento di unaeromobile, all’uccisione di Carabinieri del Gruppo di Gorizia attirati inuna trappola mortale. Per la consumazione di tali delitti il gruppo diOrdine Nuovo di Udine si avvaleva di un micidiale arsenale, sullaprovenienza almeno di parte del quale la Corte d’assise di Appello diVenezia ha avanzato inquietanti ipotesi, tanto inquietanti quanto quelleavanzate dal Tribunale di Milano sulla provenienza di parte almenodell’arsenale sequestrato qualche anno prima a Besutti, Massagrande,Soffiati e Morin, già sin da allora iscritti a Ordine Nuovo. Viceversa, cosìcome per la responsabilità penale e per la matrice ordinovista degliattentati di cui si è occupata la Corte d’assise di Venezia, è certo che gliordinovisti godettero di protezioni e coperture non solo da parte del loroamico e sodale Morin, ma anche e soprattutto da parte di quegli apparatidello Stato che avrebbero dovuto prevenire, prima ancora che reprimere,l’azione” (Il riferimento è alla strage di Peteano, all’iniziale sviamentodelle relative indagini per il quale fu imputato il colonnello Monico, proprioquello che aveva comandato il Gruppo Carabinieri di Sondrio all’epocadell’espatrio di Gianfranco Bertoli - n.d.u.).

I rapporti di Bertoli con ambienti e personaggi della destra eversivaveneta e con Carlo Maria Maggi

Nel corso della presente motivazione, trattando del personaggio Bertolie dell’inattendibilità della sua versione relativa all’ideazione eall’esecuzione della strage di via Fatebenefratelli, in più occasioni si èosservato come debba ritenersi scarsa, per non dire nulla, l’attendibilitàdella sua asserita qualità di “anarchico”; una fede ideologico-politicaapparsa, tra l’altro, in contrasto irriducibile con l’attività di informatoresvolta da Gianfranco Bertoli, almeno fino al momento del suo espatrioalla volta di Israele (febbraio 1971), al servizio del S.I.F.A.R. prima e delS.I.D. poi, consistita per lo più nell’infiltrarsi in sezioni del PartitoComunista Italiano per raccogliere notizie sull’attività di quella formazionepolitica.

I già fondati dubbi sul suo collocamento politico-ideologico e sullagenuinità della pretesa scelta anarchica hanno trovato puntuale e ampiaconferma in numerose risultanze processuali che hanno indicato il Bertolicome individuo in stretti rapporti con ambienti e personaggi dell’estremadestra neofascista veneta, in particolare con appartenenti a gruppi diOrdine Nuovo, in primis con Carlo Maria Maggi, vale a dire il personaggiodi maggior spicco nell’ambito di quei gruppi e propugnatore di strategierivoluzionarie violente.

Quello che segue è l’elenco delle dichiarazioni rese da testimoni ecollaboratori di giustizia come acquisite nel corso dell’istruttoria (in parteribadite in fase dibattimentale):

quelle di Martino Siciliano (della cui scelta di collaborazione conl’autorità giudiziaria si è già detto) il quale - dopo aver riferito circa ilproprio percorso politico, prima nella Giovane Italia, poi in Ordine Nuovo(gruppo di Venezia-Mestre) fino a che non era stato sospeso alla fine del1972 – nel contesto di lunghe ha così dichiarato: “ricordo che uno o duegiorni dopo la strage del 17.5.1973 ebbi un lungo colloquio con il dottorMaggi in un incontro all’ospedale geriatrico Giustinian dovelavorava............Maggi per motivi di sicurezza non parlava mai diargomenti di Ordine Nuovo per telefono, nella sua abitazione o nellasede di O.N.; mi chiedeva infatti di parlare di tali argomenti solo dipersona o sul luogo di lavoro dove non poteva essere controllato. Talecolloquio avvenne pertanto nell’ambulatorio dell’ospedale senza lapresenza di alcuno..........Maggi mi disse in modo esplicito checonosceva molto bene Gianfranco Bertoli, che era un camerata cheaveva frequentato a lungo prima a Padova e poi a Venezia. Si eranofrequentati da molto tempo ed avevano continuato a frequentarsi fino apoco tempo prima, escluso naturalmente il periodo in cui il soggetto nonera stato in Italia. Maggi e Bertoli si conoscevano dai tempi in cui Maggiera giovane studente all’Università di Padova e, frequentando gliambienti di destra, aveva avuto l’opportunità di stringere amicizia conGianfranco Bertoli........Maggi, in quel colloquio durato circa un’ora, midisse inequivocabilmente che Bertoli non era un anarchico di sinistra mache aveva continuato ad essere un camerata, un simpatizzantedell’estrema destra in quanto aveva continuato a frequentarlo, come hogià detto, fino a poco tempo prima, escluso il periodo in cui era statoall’estero. Maggi mi disse che aveva continuato a mantenere contatti conBertoli anche durante il suo soggiorno all’estero e che li mantenevaancora. Voglio riferire che un po’ noi tutti ordinovisti e camerati di Mestreci facevamo curare sul piano medico dal dr. Maggi che era anche ilmedico della palestra (il teste si riferisce alla palestra di Mestre, abitualeluogo di ritrovo degli appartenenti al locale gruppo di O.N. e dove per uncerto tempo aveva vissuto stabilmente Delfo Zorzi – n.d.u.) Pertanto nonescludo, ma questa è solo una mia opinione, che anche Bertoli possaaver usufruito a Mestre delle prestazioni professionali mediche del dr.Maggi presso l’ospedale geriatrico Giustinian o anche presso l’ospedalepsichiatrico ove prima il Maggi prestava servizio (Bertoli, dopo l’arrestodel Maggi, ammetterà di essersi fatto fare qualche ricetta dallo stesso –n.d.u.).........Confermo anche quanto verbalizzato a foglio 3 al P.M. circa irapporti di conoscenza tra Molin e Bertoli per le frequentazioni avute dalMolin con il Bertoli quando studiava giurisprudenza a Padova. Anch’egli,frequentando ambienti di estrema destra, ebbe modo di conoscere efrequentare Bertoli. Tale circostanza mi fu riferita da Zorzi nel colloquio dicui ho parlato prima, nel quale mi precisò che oltre Maggi anche Molinaveva conosciuto e frequentato Bertoli a Padova. Successivamente miparlarono dei rapporti tra Bertoli, Maggi e Molin anche Roberto Lagna,detto Bobo, e Tringali Stefano, ultimo responsabile della palestra, amicointimo di Zorzi. Comunque voglio aggiungere che nell’ambiente di Ordine

Nuovo di Mestre tutti sapevano dei rapporti di conoscenza e deicollegamenti stretti tra Maggi e Molin con Bertoli. In verità in quel periodoio mi vidi anche con il Molin a Venezia subito dopo aver parlato con Zorzi(il riferimento è a un colloquio avvenuto verso la fine del maggio 1973 –n.d.u.) e gli domandai se aveva conosciuto Gianfranco Bertoli come sidiceva in giro. Molin non smentì né confermò i suoi pregressi rapporti conBertoli e mi rispose ^perché me lo domandi ? non sono fatti tuoi^. Devoaggiungere che era voce ampiamente diffusa nell’ambiente di OrdineNuovo ed oggetto di frequenti discorsi tra le persone che ho citato e altriordinovisti, che Bertoli era un ^anarchico bidone^ e che in realtà era uncamerata...........Confermo di aver visto varie volte Sandro Sedona alGraspo de Uva di Spinea a cavallo degli anni ’70. Vidi alcune volteSedona con Delfo Zorzi e lo vidi anche con Gianfranco Bertoli con ilquale frequentava il Graspo de Uva. Vidi a Spinea e in tale locale piùvolte il Sedona e Bertoli”. Si deve solo aggiungere che le dichiarazionirese da Martino Siciliano - rese in qualità di testimone, nell’ambito di unaleale scelta collaborativa, spontanee e disinteressate, confermate daaltre fonti di prova - debbono ritenersi pienamente attendibili.

Una delle più significative conferme alle dichiarazioni di MartinoSiciliano circa le frequentazioni del Bertoli è provenuta dallatestimonianza di Gallo Rosa, moglie separata di Giampiero Mariga. Lateste riferiva che negli anni ’60 e ’70 il marito frequentava assiduamenteil locale “Graspo de Uva” sito in Spinea e vi andava in compagnia di dueamici, all’epoca inseparabili, cioè Siciliano e Foscari; ricordava altresìche Mariga, prima di trasferirsi a Spinea, aveva abitato a Mestre doveaveva frequentato persone che spesso portava a casa; tra dette personela Gallo riconosceva in fotografia Siciliano, Foscari, Delfo Zorzi, SandroSedona e Boffelli. Individuava anche nell’album fotografico (foto nn. 5 e6) una persona da lei ben concosciuta e che ricordava perfettamente:“trattasi di persona che ho conosciuto in compagnia di Giampiero, anchese non so chi sia. Può darsi che sia anche venuto a casa mia perchéricordo bene questo viso; l’ho visto alcune volte con Giampiero quandoero a Spinea. Sono certa di avere visto tale persona in alcune occasioni;infatti l’ho riconosciuto subito come un uomo visto in compagnia di miomarito in più occasioni”. La teste, solo dopo tali affermazioni,apprendeva dal Giudice Istruttore (come lo stesso dava atto) che quellefoto raffiguravano Gianfranco Bertoli.

Giuseppe Albanese (G.I. 20.6.92) ricordava che Bertoli, nel periodo dicomune detenzione in carcere, gli aveva confidato tra l’altro che se fossestato catturato dopo aver compiuto l’attentato avrebbe dovuto dichiararsianarchico, di essere legato a camerati veneti appartenenti a un gruppofacente capo ad Amos Spiazzi, persona che Bertoli ben concosceva;poiché Albanese gli aveva detto di essere stato in passato a Marsigliaper sottrarsi alle ricerche e che ivi era stato ospitato daun’organizzazione di destra denominata “la Catena”, Bertoli gli avevarisposto di conoscere tale organizzazione, dimostrando di conoscereanche l’ubicazione del relativo ufficio.

Che Carlo Maria Maggi conoscesse il Bertoli e lo considerasse un“buon camerata” è stato concordemente confermato da Carlo Digilio e daPietro Battiston i quali lo avevano sentito usare quell’espressione in unariunione a casa dello stesso Maggi. Testualmente il Battiston: “mi ricordoche in un’occasione, mentre mi trovavo all’interno della sua (di Maggi –n.d.u.) abitazione per una partita a poker, l’ho sentito commentare cheBertoli era un buon camerata. La cosa ovviamente mi rimase impressa inquanto a quel tempo dai mass media veniva rappresentato comeanarchico individualista”. Singolare concordanza con l’incredulità deifratelli Giorgio e Tommaso Sorteni nel sentire il Bertoli (nella primaveradel 1972) che si dichiarava anarchico.

Si è detto di Gianfranco Belloni, (G.I. ’74 e ’92), già informatore delS.I.D., e circa la foto pubblicata su un settimanale, mostratagli dalNegriolli, foto che ritraeva in atteggiamento confidenziale con FrancoFreda nel carcere milanese di San Vittore (ovviamente dopo la stragealla Questura); Negriolli (anch’egli informatore del S.I.D.) gli aveva anchedetto, nella medesima occasione, che Bertoli era legato a Ordine Nuovoavendo avuto anche contatti con Clemente Graziani.

Giovanni Ferorelli, detenuto nel carcere di San Vittore con Bertoli,ricordava che referente di questi era Franco Freda, precisando: “quandoFreda ci disse che bisognava portare rispetto a Bertoli perché era unuomo da considerare di destra, noi ci uniformammo” .

L’avv. Giangaleazzo Brancalion (G.I. 23.2.74), con riferimento a quantoin precedenza affermato dall’appuntato dei Carabinieri Angelo Toniolo,pur attribuendo a chiacchiere da bar quanto da questi riferito, dichiarava:“nego di aver fatto altre confidenze al Toniolo se non quella che ilSedona conosceva Bertoli molto bene come mi aveva riferito il Negriolli”.

Crisetig Giovanna (G.I. 19.12.74 e successivo verbale di confronto),convivente nel 1973 di Camillo Virginio, nell’ambito di ampie dichiarazionicon cui riferiva dei rapporti del Camillo con lo Spiazzi, con il Rizzato econ il Rampazzo nonché dei comportamenti sospetti e minacciosi diquesti ultimi ai quali aveva avuto modo di assistere e del terrore diCamillo che aveva finito per fuggire in Nigeria (perché a conoscenza ditroppe cose), quanto a Gianfranco Bertoli riferiva quanto segue: “Miricordo perfettamente che nel 1973 ci fu un attentato alla Questura diMilano per una bomba lanciata da tale Bertoli. Seguii la vicenda all’epocaper televisione e sui giornali. Tale episodio fu oggetto di commentinell’officina del Camillo nelle riunioni cui partecipavano Rizzato,Rampazzo e Zoia. Sentii che nei loro commenti davano per certo che sitrattava di un attentato fascista. Devo far presente che quando facevanoquesti discorsi io non partecipavo e solo occasionalmente sentivoqualche parola. Ricordo comunque che.........il Rizzato e il Rampazzo inparticolare davano per certo che l’attentatore era un fascista. Mi sembròdi capire che Rizzato e Rampazzo lo conoscessero, nel senso chel’avevano conosciuto alcuni anni prima. Non saprei dire se entrambiavessero conosciuto Bertoli o soltanto uno di loro due”.

Anche Liardo Filippo (sentito più volte dal G.I.), dopo aver precisato diessere residente a Spinea, confermava che Sedona gli aveva parlatodella sua amicizia con Bertoli; personalmente ricordava di avere vistoBertoli in più occasioni negli anni ’68 e ’69 nella pizzeria “da Gigino”;Sandro Sedona gli aveva detto di essere stato lui a presentareGianfranco Bertoli al Rizzato e al Rampazzo.

Anche nel periodo di permanenza nel kibbutz di Karmia, GianfrancoBertoli aveva intrattenuto rapporti con appartenenti all’estrema destra,nella specie con i fratelli Jemmy, entrambi inseriti nell’organizzazionefrancese “Ordre Nouveau” e condannati per affissione illegale dimanifesti di tale movimento.

Sandro Sedona e Sandro Rampazzo (sentiti dal G.I. rispettivamente il16.12 e il 3.12.1974) confermavano la reciproca conoscenza efrequentazione; il primo, in particolare, dichiarava di avere conosciuto ilBertoli in carcere a Venezia nel 1963 e lo descriveva come persona chenon gli risultava si occupasse di politica o fosse un idealista, incapace didecisioni proprie e in grado di agire solo se suggestionato o stimolato daaltri. Lo aveva visto per l’ultima volta nel 1970 a San Tomà (VE). Analogadescrizione del Bertoli è stata fornita da Franco Tommasoni, padovano,estremista di destra in contatto con la malavita comune. Prescindendodalle opinioni personali da costoro espresse sul Bertoli, il dato rilevantedelle loro dichiarazioni è che le stesse, anche in questo caso,confermano quali fossero i personaggi, e quale fosse la loro collocazionepolitica, conosciuti dallo stesso Bertoli in epoca precedente, ma nonlontana, l’attentato del 17 maggio 1973.

Infine deve essere rammentata l’amicizia di Gianfranco Bertoli conRodolfo Mersi, cioé con la persona che l’autore dell’attentato incontrò lasera del 16 maggio ’73 recandosi a fargli visita nella sua abitazione di viaPericle a Milano. Anche Mersi, sindacalista della C.I.S.N.A.L., era uomodi destra e per tanto ben lontano dalle asserite idee anarchiche delBertoli.

**********************

La Corte ritiene che, sulla scorta di tutto quanto detto nella parte dellamotivazione che precede, si possano ora trarre le seguenti conclusioni,qui richiamate quelle già partitamente assunte a chiusura dei vari especifici temi trattati: l’attentato compiuto da Gianfranco Bertoli a Milano il17 maggio 1973 mediante il lancio di una bomba a mano in direzionedell’ingresso del palazzo della Questura in via Fatebenefratelli, attentatoche cagionò la morte di quattro persone (oltre a numerosi feriti) e da cuiderivò l’imputazione di strage, non fu ideato, deciso e organizzato dalsuo autore. Bertoli non agì perché mosso dalla propria scelta ideologico-politica di “anarchico Individualista”, come lo stesso ha sempresostenuto, bensì fu solo l’esecutore materiale dell’attentato, in attuazionedi un incarico da altri affidatogli. Sicché, come inevitabile deduzione, si

deve ritenere che egli fornì la sua falsa versione allo scopo di nonsvelare il retroscena del suo gesto e i nomi dei suoi mandanti.

Lo si può affermare con certezza essendo stata constatata e dimostratal’assoluta inattendibilità della versione fornita dallo stesso Bertoli,risultata senz’altro falsa su alcuni punti significativi, infine totalmentesmentita dalla precisa informazione di ciò che sarebbe avvenuto a Milanoil 17 maggio ’73 fornita da Pietro Loredan a Ivo Dalla Costa, adimostrazione che altri erano a conoscenza dell’imminente attentato; ilche si pone in contrasto irriducibile con l’affermazione del suo autore diavere agito per propria esclusiva scelta e iniziativa.

Verificata la piena attendibilità di quella informazione e della sua fonte,si deve affermare con altrettanta certezza che l’attentato, comepreannunciato, fu diretto contro un importante membro del Governo eche questi altri non poteva essere se non il Ministro degli Interni On.Mariano Rumor, presente quella mattina nel cortile della Questura perassistere alla commemorazione del commissario Calabresi nel primoanniversario della sua uccisione.

Al di là della significativa provenienza delle informazioni in possesso delLoredan (che, per ideologia, progetti e frequentazioni, era strettamentelegato ad ambienti e personaggi dell’estrema destra veneta, neofascistaed eversiva), in forza di plurime testimonianze e dichiarazioni dicollaboratori di giustizia è stata raggiunta piena prova che l’attentato allavita dell’On. Rumor costituiva, se non il più importante, uno dei principaliprogetti eversivi di appartenenti a cellule o gruppi dell’organizzazioneveneta di Ordine Nuovo, diretto a “punire” Mariano Rumor per esserestato questi, nella sua qualità di Ministro degli Interni, a promuovere loscioglimento di quell’organizzazione (per ricostituzione del partitofascista) in applicazione della “legge Scelba”, ovvero - come effettomediato - per determinare, con l’attentato, quello stato di caos e ditensione che avrebbe resa necessaria e infine possibile una svoltaautroritaria nel governo della Nazione e l’emanazioni di leggi diemergenza.

Il progetto di sovvertire le istituzioni democratiche doveva essereperseguito proprio mediante attentati e stragi, vale a dire attuando quellache è stata definita “strategia della tensione” che pure, per quanto si èdetto nella parte della motivazione ad essa dedicata, ha trovato numerosie validi elementi di conferma.

Negli ambienti dell’estrema destra neofascista, all’epoca dei fatti chequi interessano, l’unica formazione in grado di agire concretamente, dicompiere attentati, era senz’altro quella di Ordine Nuovo, in particolare igruppi attivi nel Veneto, tenuto conto della documentata virulenzadell’ideologia politica dei suoi aderenti e dei loro accertati programmioperativi, della effettiva esecuzione di azioni terroristiche nonché delladisponibilità di veri e propri arsenali di armi, munizioni ed esplosivi.

E’ stato accertato, infine, il ruolo coperto nell’ambito di Ordine Nuovo daCarlo Maria Maggi, principale imputato nel presente processo, un ruolo diassoluto rilievo, di capo carismatico e “militare” per quanto attiene algruppo di Venezia-Mestre, di supervisore e di coordinatore degli altrigruppi dell’organizzazione operanti nel Nord-Italia.

Così pure è stato verificato, per gran numero di coincidentidichiarazioni, l’inserimento di Gianfranco Bertoli in quegli ambienti diestremismo ed eversione, consistito in conoscenze e frequentazioni -anche in epoca recente, rispetto ai fatti in esame - di personaggi che adetti ambienti erano strettamente legati e che in quel contestooperavano. Con il che il cerchio si chiude, atteso che tali collegamenticonsentono di affermare con adeguato grado di certezza che proprio inquegli ambienti e da quei personaggi, per più ragioni interessati a colpirel’On. Rumor, Bertoli ricevette l’incarico ( e le relative istruzioni) dicompiere l’attentato.

Al dunque: esaurito il completo riesame di tutto il materiale probatorio adisposizione, secondo quanto richiesto dai giudici di legittimità con lasentenza di annullamento, riservata al prosieguo la verifica dellepersonali responsabilità di Carlo Maria Maggi e di Francesco Neami, èferma e motivata convinzione di questa Corte che, senza alcun possibiledubbio, la strage compiuta da Gianfranco Bertoli fu ideata e decisa, e perloro conto eseguita, da appartenenti ai gruppi veneti di Ordine Nuovo,con buona probabilità a quello di Venezia facente capo al Maggi.

Le posizioni di Carlo Maria Maggi e di Francesco Neami

Compito conclusivo di questo Giudice di rinvio, come richiesto dallaCorte di Cassazione, è quello di stabilire se - in base agli elementiprobatori acquisiti, riferiti specificamente agli imputati, oltre a quelliinerenti al quadro generale in cui si verificarono i fatti - la strage di viaFatebenefratelli possa essere attribuita con certezza al gruppo venezianodi Ordine Nuovo e, sul piano delle personali responsabilità, a Carlo MariaMaggi e a Francesco Neami, come ideatori, organizzatori e mandanti,secondo il ruolo loro rispettivamente assegnato nel capo di imputazione.

La Suprema Corte ha indicato, per ciascuno, i principali elementi diprova risultanti dalla sentenza annullata, dai quella di primo grado e dairicorsi:

A carico di Carlo Maria Maggi: 1) le ripetute proposte dello stesso e dello Zorzi, fatte a Vincenzo

Vinciguerra tra l’estate del 1971 e il febbraio-marzo ’72, di uccidere l’On.Rumor, essendo state ritenute attendibili, al riguardo, le dichiarazioni delVinciguerra perché confermate da quelle di Roberto Cavallaro e di DarioPersic; quest’ultimo, tra l’altro, aveva riferito che nell’ambiente di OrdineNuovo si nutriva profondo risentimento nei confronti di Rumor perché

ritenuto essere stato uno dei principali artefici di scioglimento diquell’organizzazione con la richiesta dell’applicazione della legge Scelba.

2) quanto risultato dal già citato rapporto della DIGOS presso laQuestura di Venezia in data 25.6.86 relativo alla storia e alle vicende diOrdine Nuovo nel Veneto e al ruolo di Carlo Maria Maggi.

3) Dalle notizie raccolte dalla DIGOS era emerso che gli stessi uominiche avevano gestito i Centri Studi di Ordine Nuovo avevano anche tiratole fila dell’attività eversiva di quel movimento, come risultato anche dalledichiarazioni rese da Dario Persic al Giudice Istruttore. Persic,simpatizzante dell’estrema destra e in contatto con esponenti di OrdineNuovo del Veneto era amico di Marcello Soffiati fin dal 1968; tramitequesti aveva conosciuto il Maggi, il Digilio e il Minetto; Maggi gli era statodescritto dal Soffiati come personaggio di spicco nel gruppo veneziano diO.N., secondo solo al Minetto; sempre secondo Dario Persic, il Soffiatiteneva nell’appartamento di via Stella a Verona un gran numero di armi egrosse quantità di esplosivo (tra cui anche bombe a mano) che avevaavuto modo di vedere dal 1972 al 1974 e anche dopo che in via Stellaera andata ad abitare Anna Maria Bassan; sempre secondo quantoriferitogli dal Soffiati, era Carlo Digilio a procurare tali armi ed esplosivi. IlPersic aveva preso parte ad alcune riunioni in una delle quali, nel1970/71, presenti Maggi-Minetto-Soffiati e Digilio, si era parlato di unaimminente rivoluzione che sarebbe avvenuta con l’appoggio degliamericani.

4) Maggi aveva svolto un ruolo di primo piano nella strategia dellatensione: oltre a quelle del Persic, sono richiamate le dichiarazioni diPietro Battiston ( Maggi, nel periodo successivo al dicembre 1973,sosteneva la necessità di utilizzare lo strumento degli attentati e dellestragi per costituire il terreno sul quale potesse attecchire una vera epropria rivoluzione di destra) nonché quelle di Marzio Dedemo secondocui Maggi, in riunioni tenutesi a Milano e precedenti alla prima metà del1973, alle quali avevano partecipato anche ex-repubblichini, avevaproposto di attuare una strategia di attentati dimostrativi la cuiresponsabilità si doveva far ricadere sulla sinistra.

5) La lettera in data 17.12.79, ritenuta significativa dalla Corte di primogrado, spedita da Maggi all’amico e camerata Miriello nella quale,riferendosi a Giancarlo Rognoni Che era stato ritenuto responsabileanche dell’attentato del 7.4.73 al treno direttissimo Torino-Roma) siaffermava che Rognoni “per una serie di disavventure – chi non è senzapeccato scagli la prima pietra – si è beccato un certo numero di anni digalera che sta scontando nel supercarcere di Cuneo”.

Questa Corte ha individuato e preso in esame anche altri elementi digiudizio relativi al diretto coinvolgimento di Carlo Maria Maggi nellavicenda che ci occupa e secondo il ruolo indicato, elementi che di seguitosi espongono:

Piero Battiston, esponente milanese di Ordine Nuovo, in stretti contatticon Maggi e, latitante, da questi ospitato a Venezia in periodo successivoal dicembre 1973, aveva dichiarato al Giudice Istruttore, tra l’altro “horivisto Digilio nel corso della sua latitanza in Venezuela nel 1984 circa.Ricordo che durante un discorso, alla presenza di Raho, Digilio ritenevadi essere stato incastrato dal Maggi e disse che era a conoscenza dellasua implicazione in fatti estremamente gravi; più specificamente ci disseche egli sapeva della bomba”. Sentito in proposito, Carlo Digilio,rispondeva: “sinceramente ricordo di avere incontrato in Venezuela Rahoe Battiston e di avere parlato con gli stessi di molte cose. Sinceramentenon ricordo le specifiche frasi dette nell’occasione anche perché sitrattavano vari argomenti. Comunque se, come mi dite, Battiston hadichiarato che io gli avrei detto che sapevo della bomba riferendomi alMaggi e della sua implicazione in fatti estremamente gravi, certamentedice il vero anche se non ricordo il discorso specifico. Come lei sa (sirivolge al G.I. – n.d.u.) ho parlato di responsabilità di Maggi sia perl’episodio di piazza Fontana che per la bomba di Bertoli alla Questura diMilano. Se ho detto effettivamente della bomba riferendomi a Maggi, duesono le ipotesi per cui posso aver fatto riferimento alla suaresponsabilità: o per piazza Fontana o per la bomba alla Questura”.

In merito alle dichiarazioni su riportate la Corte osserva: è noto comeCarlo Digilio abbia attribuito a Carlo Maria Maggi un ben preciso ruolonella ideazione e preparazione dell’attentato di via Fatebenefratelli maquelle sue specifiche dichiarazioni, costituenti a tutti gli effetti chiamata incorreità, non possono essere utilizzate perché così stabilito dallaSuprema Corte (se ne tratterà più avanti); limitando quindi l’esame allesole dichiarazioni del Digilio, rese a risposta e a chiarimento di quelle delBattiston, il riferimento alla responsabilità del Maggi appare del tuttogenerico, privo di specifici ragguagli di tempo, luogo e modalità, tali daconsentire la ricerca e individuazione di elementi di riscontro.

Più articolate, ma tutt’altro che decisive, le dichiarazioni rese al GiudiceIstruttore da Martino Siciliano sullo specifico punto. Si ritiene opportunorichiamarle testualmente: “Oltre che con gli altri militanti si Ordine Nuovoho avuto spesso contatti con Carlo Maria Maggi, l’ultimo dei quali nelmaggio del 1995 quando gli telefonai dalla Colombia. L’ultima volta chesono stato a Venezia è stato nel 1993 e l’ultima volta che ho visto Maggicredo sia stato nel 1992. Andai a trovarlo nell’ospedale geriatricoGiustinian di Venezia dove egli esercita..........Maggi era responsabileoperativo di O.N. per il Triveneto e successivamente per la Lombardiaquando si costituì il gruppo di Rognoni.........” Dopo aver riferito leconfidenze del dr. Maggi circa la vecchia conoscenza di questi conGianfranco Bertoli, Siciliano aggiungeva: “Circa quindici-venti giorni dopola strage del 17.5.73 passò per Mestre Zorzi e mi incontrai conlui.....Zorzi parlando della situazione politica in Italia mi disse ^l’episodioBertoli è inquadrato nella nostra strategia ^ e mi confermò che Bertoli era

un camerata, che era stato sempre attestato su posizioni di estremadestra ed era conosciuto molto bene dal dr. Maggi, con il quale si erafrequentato per lungo tempo...........sentii più volte , in occasione didiscorsi nell’ambiente di Ordine Nuovo, e in particolare nell’ambito dellacellula di Ordine Nuovo di Mestre, negli anni dal 1970 al 1973, parlaredella necessità di eliminare un bersaglio politico importante, semprenell’ottica della strategia del gruppo. In colloqui prima singoli e poiinsieme con Zorzi, Maggi e Molin, con i quali ero direttamente in contatto,sentii più volte dire espressamente dagli stessi che l’obiettivo da colpireera l’On. Rumor........In sintesi: nel 1972 si discuteva tra i predetti Maggi,Zorzi e Molin di un progetto di attentato a Rumor; tuttavia, considerata lamia sospensione da O.N. avvenuta alla fine del 1972, non mi furonoforniti dettagli operativi su questo progetto”.

Giuseppe Albanese, riferendo quanto appreso in carcere da GianfrancoBertoli, con il quale era entrato in confidenza, ha affermato che, a dettadello stesso Bertoli, questi aveva compiuto l’attentato contro Rumorconfidando sul promesso appoggio di non meglio indicati “camerati delVeneto”, con i quali era legato, appartenenti a un gruppo facente capoallo Spiazzi.

A parte quelli richiamati dalla Corte di Cassazione e quelli testé indicati,non sono stati individuati altri elementi indiziari o probatori riferiti al themadecidendi della personale e diretta partecipazione di Carlo Maria Maggiad uno specifico progetto di attentato nei confronti dell’allora Ministrodegli Interni, né tanto meno all’ideazione, deliberazione e organizzazionedell’attentato alla Questura di Milano.

L’imponente quantità di elementi raccolti nel corso della lungaistruttoria, sia di natura documentale che testimoniale, di cui sono staticitati ed esaminati quelli di maggior rilievo, hanno consentito diindividuare con certezza, come si è detto, il contesto politico-eversivo incui ebbe origine il gravissimo episodio stragista del 17 maggio 1973nonché di attribuirlo ad appartenenti all’organizzazione di Ordine Nuovoche operava in quel contesto, secondo metodi e finalità ormai noti.

Ha consentito inoltre di attribuire a Carlo Maria Maggi un ruolo di sicurorilievo nell’ambito di quell’organizzazione, che lo vedeva a capo delgruppo Ordinovista veneziano e, per la sua qualifica di ispettore per ilTriveneto, in costante contatto con tutti i più importanti componenti deivari gruppi. Maggi era quindi al vertice dell’organizzazione, secondo soloal Minetto e – in campo nazionale – al Signorelli; egli era inoltre uno tra ipiù accesi teorizzatori e propugnatori della linea stragista, della violenzacome metodo di lotta politica, del conseguimento degli scopi di OrdineNuovo – anche la realizzazione di un colpo di Stato – mediante attentati.Maggi, inoltre, era in stretto contatto con persone che, facenti partedell’organizzazione, detenevano per conto dei gruppi di Ordine Nuovoarsenali di armi, munizioni ed esplosivi.

Infine, Carlo Maria Maggi - con Zorzi e Molin – in un tempo di pocoprecedente alla strage di via Fatebenefratelli, aveva apertamente parlatodei suoi progetti, con particolare riferimento alla necessità di colpire unimportante uomo politico e indicato come bersaglio proprio l’On. Rumor.

E’ dunque ragionevole, e corrispondente a una valutazione logica deidati di fatto accertati, ritenere probabile che l’attentato per cui si procedesia stato deciso e organizzato proprio nell’ambito del gruppo ordinovistafacente capo al Maggi. Ma il giudizio di probabilità non è sufficiente peraffermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilitàdell’imputato in ordine al delitto a lui ascritto.

Non soccorre, in proposito, quanto dichiarato da Vincenzo Vinciguerracirca le proposte, fattegli da Maggi e Zorzi, di compiere un attentato allavita dell’On. Rumor: la Corte di Cassazione, pur riferendo le proprieconsiderazioni all’inadeguatezza di quelle dichiarazioni come riscontro alracconto del Digilio circa i fatti di via Stella, ha implicitamente ritenuto discarso rilievo probatorio tali proposte perché relative a un fatto diverso,“progettato in epoca antecedente e con modalità nettamente diverse”. Alfatto in questione, per i fini che qui riguardano, può attribuirsi solo ilvalore indiziario, dimostrativo, al più, dei progetti eversivi dell’imputato.Vale a dire lo stesso valore delle dichiarazioni con cui Martino Sicilianoha riferito, anch’egli in modo generico, di progetti del Maggi di attentarealla vita del Ministro degli Interni.

Si deve dare e prendere atto che nel caso in esame il ruolo diorganizzatore e mandante, attribuito dall’accusa a Carlo Maria Maggi,non trae fondamento da precise e riscontrate chiamate in reità o correità,in testimonianze o in altri mezzi di prova idonei a stabilire con certezzal’effettivo collegamento tra il presunto mandante ed l’esecutore materialedella strage.

Dal Giudice Istruttore e dai giudici di primo grado quel collegamento erastato individuato nelle dichiarazioni di Carlo Digilio. Se ne è riferitodiffusamente nella parte espositiva della motivazione: in sintesi, Digilioaveva sostenuto che uno o forse due mesi prima della strage del 17.5.73Gianfranco Bertoli era stato ospitato, o meglio custodito, per circa unasettimana nell’abitazione di Marcello Soffiati a Verona (via Stella) surichiesta di Maggi; ivi, anche in presenza del Digilio e dello stesso Maggi,Bertoli era stato convito e preparato a compiere l’attentato, prima dalNeami e poi dal Boffelli.

Per i primi giudici tali dichiarazioni dovevano ritenersi intrinsecamenteattendibili e fornite di riscontri. Non così per i giudici di appello cheavevano evidenziato l’interesse del dichiarante alla chiamata in correità,contraddizioni nel suo racconto, inattendibilità dello stesso Digilio per viadelle sue sopravvenute condizioni fisiche e psicologiche. Il punto (cioé ilgiudizio di attendibilità di quanto dichiarato da Carlo Digilio) è stato

oggetto delle critiche formulate dal Procuratore Generale con il ricorsoper cassazione.

La Suprema Corte, esaminate le argomentazioni del ricorrente e glielementi di riscontro indicati, ha confermato quanto deciso dai giudici diappello dichiarando “non utilizzabili” le dichiarazioni del Digilio nelriesame dell’impianto accusatorio rilevando che “gli elementi indicaticome riscontro, in realtà, consistono in elementi autonomi di prova cheservono certamente a incrinare la credibilità di Bertoli, come anarchicoindividualista lontano da qualsiasi contatto con gruppi associati oeversivi, ma nulla aggiungono o chiariscono in ordine alla sua presenzain Verona nella casa di via Stella”.

A questo giudice di rinvio non resta che adeguarsi alla precisastatuizione della Corte regolatrice.

Le dichiarazioni di Carlo Digilio rimangono utilizzabili, perché ritenuteattendibili e riscontrate (Cass. sentenza di annullamento, pag. 31) solosui seguenti punti: 1) può ritenersi certo che Digilio ben conoscesse lacasa di via Stella a Verona e sapeva che il gruppo di O.N. del Veneto lautilizzava come base per attività di vario genere; 2) l’appartenenza algruppo degli odierni imputati, con i rapporti gerarchici indicati e la lorodedizione all’attività eversiva; 3) i rapporti di conoscenza fra Bertoli ealcuni esponenti del gruppo Ordine Nuovo.

Il che, se costituisce ulteriore conferma a un quadro già ben delineato,nulla aggiunge circa il personale e diretto coinvolgimento del Maggi.

Rimangono da esaminare due dati indiziari, sotto certi aspettiinquietanti ma – è bene dirlo subito – di scarso valore probatorio. Il primoriguarda la frase attribuita dal teste Mazzari a Rodolfo Mersi; il secondol’oggetto e il contenuto della conversazione avvenuta a Venezia, nelristorante “lo Scalinetto”, tra Maggi, Boffelli e Digilio due o tre giorni dopola strage della Questura.

Il Mazzari, cameriere nello stesso ristorante milanese dove all’epocalavorava Rodolfo Mersi, ha ricordato e riferito che la sera del 16 maggio1973, verso le ore 23, aveva sentito il Mersi pronunciare la seguentefrase al telefono: “pronto dottore, è già arrivato il treno, io sono a casa tra35/40 minuti”; ha ricordato inoltre che Mersi, per la telefonata, avevausato un solo gettone.

Di quella frase è stata prospettata la seguente interpretazione: Mersidoveva essersi messo in contatto telefonico con Carlo Maria Maggi datoche questi era chiamato da tutti “dottore” e, infatti, Mersi aveva usatoquel titolo rivolgendosi al suo interlocutore; lo scopo della telefonatasarebbe stato quello di informare Maggi dell’arrivo di Bertoli, conl’espressione, per così dire in codice, “è già arrivato il treno”.

Una siffatta interpretazione di quella telefonata sarebbe senz’altrofantasiosa se non fosse che il Mersi, tentando di fornirne una improbabilespiegazione, ha finito per attribuirle un qualche significato indiziante.Rodolfo Mersi ha affermato di avere telefonato alla moglie verso le 22,30

per preannunciarle il proprio ritorno a casa, come era solito fare, e ancheperché in precedenza, sempre per telefono, la moglie lo aveva informatodella visita e della presenza del Bertoli; aveva pronunciato la parola“dottore” in modo scherzoso riferendosi proprio al Bertoli; aveva parlatodel treno ritenendo che Bertoli, come poi effettivamente avvenuto,dovesse recarsi alla stazione ferroviaria.

E’ evidente come la spiegazione del Mersi sia tortuosa e inverosimile,ma per affermare che lo stesso si fosse messo in contatto proprio conMaggi, per avvertirlo dell’arrivo di chi avrebbe eseguito l’attentato lamattina successiva, è altrettanto evidente che si dovrebbe ricorrere a unapura illazione. Del resto è non si può escludere che il Mazzari non abbiasentito bene o che non abbia riferito esattamente quanto sentito, ovveroancora che il Mersi (il quale, si badi, si presentò spontaneamente inQuestura poche ore dopo l’attentato per riferire quanto sapeva su Bertoli)abbia tentato la sua improbabile spiegazione perché preoccupato acausa del contatto avuto con l’autore della strage proprio la seraprecedente al fatto.

Carlo Digilio, nelle dichiarazioni rese al Giudice Istruttore, aveva tral’altro riferito: “Quando appresi dagli organi di informazioneradiotelevisiva della strage alla Questura di Milano, che mi dite essereavvenuta il 17.5.73, mi ritrovai a cena al ristorante Lo Scalinetto in mododel tutto casuale. Questa cena avvenne qualche giorno dopo il 17.5.1973ma non so precisare il giorno esatto. Maggi ci offrì la cena ma lo vidipoco loquace, era abbattuto e l’atmosfera era brutta. Si parlò pochissimo.Ricordo che Maggi chiedeva ripetutamente a Boffelli come mai Bertoliavesse sbagliato e le cose non fossero andate secondo il programma,come mai non era stato colpito Rumor. La risposta di Boffelli fu stizzosae disse ^siamo tutti esseri umani e tutti possiamo sbagliare^. Il dottoredisse a Boffelli che loro mercenari non davano affidamento. Boffelli,ricordo, si risentì anche dicendo che un errore nel lancio potevaaccadere a tutti”.

Anche in questo caso, più che i commenti di Maggi e di Boffelli,inducono perplessità proprio i tentativi di quest’ultimo di spiegarediversamente la risposta che aveva dato circa il fallimento dell’attentato:aveva inteso dire che l’attentatore aveva sbagliato non nel lancio dellabomba ma ad aver commesso quel fatto. E’ chiaro che tale spiegazionenon regge, sicché deve ritenersi certo che Boffelli, con il suo commento,si riferì alle errate modalità dell’azione, tentando di giustificare l’imperiziadi Bertoli.

Detto questo, però, la Corte non ritiene che i discorsi di Maggi e diBoffelli allo “Scalinetto” possano costituire indizio univoco delcoinvolgimento dell’imputato (e dello stesso Boffelli), come mandante,nell’attentato di via Fatebenefratelli. Questa è solo una delle possibiliinterpretazioni dell’episodio in questione, ma nulla si oppone a farritenere che lo stesso riguardasse semplicemente il commento al fatto,espresso da persone che, in quei tempi, si può ben dire non facessero

altro se non parlare di attentati e colpi di Stato. Il riferimento ai“mercenari” può essere alternativamente spiegato con il passato delBoffelli e con i trascorsi Israeliani dell’autore della strage, del qualefurono subito rese note identità e provenienza. L’accenno al“programma”, in base al quale Bertoli doveva compiere l’attentato, siricollega alla parte più significativa, non utilizzabile, delle dichiarazioni delDigilio

Si tratta, comunque, di un dato indiziario di scarso rilievo in quanto nonconnotato dai requisiti di gravità e di concordanza con altri indiziunivocamente valutabili a carico dell’imputato.

La mancanza di specifiche dichiarazioni di contenuto accusatorio(testimonianze o chiamate in reità/correità) così come di elementiindiziari gravi, precisi e concordanti (secondo quanto richiesto dall’art.192.2 C.p.p.) non può essere sopperita dall’attribuzione, con buon gradodi probabilità, dell’ideazione e organizzazione dell’attentato al gruppoveneziano di Ordine Nuovo e, di conseguenza, al Maggi che di quelgruppo era il capo. Essere a capo di un’organizzazione che perseguefinalità criminose, eversive nella specie, non può costituire di per séprova che di tutte le azioni delittuose a questa riferibili sia penalmenteresponsabile chi riveste un ruolo di vertice nell’organizzazione. Talecondizione personale, come nel caso di Carlo Maria Maggi, costituisceun dato di fatto idoneo, semmai, a confermare e ad attribuire valore diprova a un valido quadro indiziario acquisito, integrandolo sul pianologico, ovvero a fornire risconto (sempre sotto il profilo logico) a chiamatein reità o correità precise e attendibili.

Secondo questa Corte l’attentato del 17 maggio 1973 deve essereattribuito, con certezza, all’organizzazione Ordine Nuovo, in specie aigruppi del Veneto - con probabilità a quello di Venezia-Mestre – ma, inpresenza di elementi di prova insufficienti, non ritiene si possanoindividuare precise e personali responsabilità essendo ragionevolmentepossibile che il mandato ad eseguire l’attentato sia stato conferito alBertoli da altri esponenti di gruppi ordinovisti veneti che, come si èaccertato, all’epoca condividevano la “linea stragista”, meditavanoattentati, auspicavano un colpo di Stato e disponevano di consistentiquantità di armi, munizioni ed esplosivi.

Per Francesco Neami la Corte di Cassazione ha richiamato i seguentielementi valutati nelle precedenti sentenze, sostanzialmente gli unici adisposizione di questo Giudice di rinvio: Neami era stato responsabile delCentro triestino di Ordine Nuovo; rientrato nel M.S.I., ne era statoespulso nel 1973 per indisciplina; manteneva contatti con Maggi e Digilio;aveva ammesso la propria partecipazione nell’episodio dell’avv. Forziati.Il Neami conosceva bene il covo di via Stella a Verona ancor prima cheDigilio riferisse dell’episodio Forziati; infine la necessità del Maggi di

servirsi di elementi del gruppo di Trieste dato che nel 1973 la cellula diMestre era praticamente smantellata.

Tali elementi probatori, come si vede, attengono alla collocazionepolitica dell’imputato, alla sua adesione a Ordine Nuovo (gruppo diTrieste), ai suoi contatti con il Maggi e il Digilio; nulla dicono circa glispecifici fatti a lui attribuiti nel capo di imputazione (avere cioépartecipato all’organizzazione dell’attentato del 17.5.73). Taleimputazione si fondava, e traeva i suoi elementi di prova, sulledichiarazioni di Carlo Digilio relative alla permanenza di GianfrancoBertoli nell’abitazione di Marcello Soffiati a Verona, dove il Bertolisarebbe stato “convinto” e addestrato proprio dal Neami ad eseguirel’attentato.

La statuita inutilizzabilità di dette dichiarazioni ha fatto venir menol’unica risultanza probatoria a carico del Neami il quale per tanto, inriforma della sentenza appellata, deve essere assolto dall’imputazione distrage ascrittagli per non avere commesso il fatto, a sensi dell’art. 530.1C.p.p.

Stante l’insufficienza degli elementi di prova a suo carico, tale essendola valenza dei dati raccolti e residuati a seguito dell’impossibilità diutilizzare la chiamata in correità formulata dal Digilio, anche Carlo MariaMaggi deve essere assolto dalla imputazione di strage per non averecommesso il fatto, ma a sensi dell’art. 530, secondo comma, C.p.p.”””

===================

Come la stessa Corte di Cassazione ha rilevato, gli elementi acquisiti a

carico di Giorgio Boffelli sono i sguenti: è risultato che lo steso aveva

sempre frequentato a Venezia ambienti si estrema destra, che tra il 1966

e 1967 era stato mercenario nel Congo, che fino al 1977 aveva

frequentato la trattoria “lo Scalinetto” dove si incontrava con Maggi,

Digilio e Soffiati; aveva fatto da guardaspalle al Maggi e aveva

intrattenuto rapporti di amicizia con Giampiero Mariga il quale, secondo

Martino Siciliano, si accompagnava con Gianfranco Bertoli. Il Boffelli,

qualche giorno dopo l’attentato, rispondendo al Maggi che voleva

spiegazioni, aveva tentato di giustificare il Bertoli sostenendo che a tutti

poteva accadere di sbagliare. Boffelli, nei suoi interrogatori, aveva

ammesso di aver pronunciato quella frase ma le aveva attribuito un

diverso significato. Infine il Boffelli aveva mostrato di sapere che Bertoli

parlava la lingua ebraica; aveva spiegato di aver appreso quel particolare

dalla lettura di un quotidiano ma, come giustamente osservato dalla

Corte d’assise, quel riferimento il Boffelli lo aveva fatto al G.I. quando la

notizia che Bertoli conosceva l’ebraico non era stata ancora pubblicata.

Osserva questa Corte che, come per il Neami, anche per Giorgio

Boffelli l’imputazione di concorso nella strage compiuta da Gianfranco

Bertoli il 17 maggio 1973 era esclusivamente fondata, e ne traeva unico

ma decisivo elemento di prova, sulle dichiarazioni rese da Carlo Digilio

secondo cui il Boffelli aveva preso parte alla “custodia” del Bertoli

nell’abitazione di Marcello Soffiati a Verona,in via Stella. Ivi l’autore

materiale della strage, a detta del Digilio, era rimasto per circa una

settimana, uno o due mesi prima dell’attentato alla Questura di Milano,

ed era stato convinto e addestrato, sia dal Neami che dal Boffelli, proprio

in vista dell’esecuzione di detto attentato.

La Suprema Corte, con la motivazione della sentenza di annullamento,

ha statuito la non utilizzabilità delle dichiarazioni del Digilio sullo specifico

punto di cui sopra stante la carente attendibilità intrinseca del dichiarante

e la mancanza. comunque, di adeguati elementi di riscontro ai fatti riferiti.

Esclusa, dunque, la chiamata in correità formulata da Carlo Digilio, a

carico del Boffelli residuano solo elementi del tutto generici, riferibili alla

sua appartenenza al gruppo veneziano di Ordine Nuovo, alla sua

assidua frequentazione di personaggi che a quel gruppo facevano capo

all’epoca dei fatti, in particolare di Carlo Maria Maggi al quale l’imputato

faceva da guardaspalle, infine la conoscenza con Gianfranco Bertoli,

probabilmente da lui incontrato anche nel periodo in cui lo stesso Bertoli

ha sostenuto di non avere mai lasciato lo Stato di Israele.

E’ ovvio che l’accertata appartenenza del Boffelli a quel gruppo, avente

finalità eversive, nulla prova in ordine alla specifica imputazione di avere

concorso nell’organizzazione dell’attentato di via Fatebenefratelli.

Nè tale prova può essere ravvisata nell’unico episodio, per così dire

indiziante, relativo al colloquio avuto dal Boffelli con il Maggi (presente il

Digilio e da questi riferito) nel ristorante “lo Scalinetto” a Venezia due o

tre giorni dopo la strage del 17 maggio 1973. Al riguardo si richiamano le

considerazioni fatte nella sentenza in data 1.12.2004 riportata

integralmente e le si ribadiscono con riferimento all’imputato: il tentativo

di questi di spiegare o giustificare l’errore compiuto da Bertoli nel lancio

della bomba (“tutti possono sbagliare”), sollecitato in proposito da una

domanda di Carlo Maria Maggi, deve ritenersi dato indiziario irrilevante

sia di per sé (è ben possibile che Maggi e Boffelli si fossero limitati

acommentare l’attentato - cosa tutt’altro che eccezionale visto che

nell’ambiente non si parlava che di attentati e di colpi di Stato - il che non

prova in alcun modo che fossero stati proprio loro gli organizzatori e i

mandanti) sia perché non correlato con altri indizi gravi, precisi e

concordanti a Carico del Boffelli.

L’imputato, per tanto, in riforma della sentenza appellata, deve essere

assolto dalla imputazione di strage a lui in concorso ascritta per non

avere commesso il fatto.

P.Q.M.

la Corte,

visto gli artt. 88 e 479 C.p.p. 1930, decidendo in sede di rinvio - e nei

limiti stabiliti dalla sentenza di parziale annullamento della decisione di

secondo grado emessa il 27 settembre 2002 dalla Corte d’assise di

Appello di Milano - sull’appello proposto da Boffelli Giorgio contro la

sentenza in data 11 marzo 2000 dalla Corte d’assise di Milano, in riforma

della sentenza appellata, assolve Boffelli Giorgio dall’imputazione di

strage ascrittagli per non avere commesso il fatto.

Indica il termine di giorni 60 per il deposito della sentenza.

Milano 22 febbraio 2005.

ll Consigliere estensore Il Presidente

(dr.Ferdinando Pincioni) (Dr.Camillo Passerini)

INDICE

L’istruttoria.........................................................................pag. 2La sentenza di primo grado...............................................pag. 23Gli atti di appello................................................................pag. 40Il processo e la sentenza in grado di appello.....................pag. 46

Motivi della decisione............................................pag. 66La versione di Gianfranco Bertoli.......................................pag. 83La vicenda Loredan-Dalla Costa.......................................pag. 132I progetti di attentato alla vita dell’On. Rumor................ pag. 155La strategia della tensione...............................................pag. 172Ordine Nuovo:sue attività eversive e ruolo di Carlo Maria Maggi............................................pag. 190I rapporti di Bertoli con ambienti e personaggidella destra eversiva veneta e con C. M. Maggi............. pag. 209Le posizioni di Carlo Maria Maggi e di Francesco Neami.........................................................pag. 219

Si ritiene opportuno riportare alcuni passi dell’ordinanza del G.I., tratti aloro volta da quella relativa al rinvio a giudizio di Gianfranco Bertoli avantila Corte d’assise di Milano: “L’imputato è stato riconosciuto dai consulentipsichiatrici perfettamente capace di intendere e di volere al momento deifatti; le sue facoltà intellettive, ad avviso dei periti, appaiono grandementesviluppate. Il suo discorso è sempre infiorato di citazioni degli autori piùvari; a volte egli assume durante gli interrogatori un tono profetico (^Houcciso per amore degli uomini e della libertà; ho buttato la bomba percomunicare con gli altri uomini^); a volte ambiguo, come quando tende aeludere le domande insidiose rifugiandosi in frasi d’autore ripetute amemoria. Va poi sottolineato questo: mentre a volte l’imputato èprecisissimo, altre volte è evasivo, e quando su tali punti si riesce a farglifornire particolari, viene smentito dalle risultanze processuali. Il fulcrodella personalità di Bertoli è caratterizzato da una incapacità assoluta diinserirsi nella società, che si risolve fin dagiovane nel desiderio di andarecontro le norme. Diviene abituale frequentatore dell’ambiente dellamalavita e colleziona una serie impressionante di denunce e condanneper reati contro la persona e contro il patrimonio. A Mestre, Padova, inIsraele egli si qualifica anarchico, ma la sua adesione all’ideologiaanarchica appare più una reazione viscerale alla incapacità diinserimento nel sistema, anziché avere un fondamento razionale. Non sispiegherebbero altrimenti i suoi stretti legami con la malavita, la sua

propensione ad atti delinquenziali, la facilità di intesa con personaggi diideologia del tutto opposta.Si pensi al Mersi sindacalista della CISNAL, aSandro Sedona implicato in un’inchiesta contro un gruppo neofascista,agli elementi di destra cui in passato vendette armi,agli Jemmy in Israelesimpatizzanti per ^Ordre Nouveau^.

La tesi individualista contrasta sul piano logico e sul piano probatoriocon la realtà dei fatti, come evidenziato dalle numerose contraddizioni delsuo racconto. Tale tesi non regge neppure a un attento vaglio delle sueattitudini personali: ^per incapacità di trasformare in azione le sue idee eper mancanza di mezzi aveva sempre la necessità di appoggiarsi aqualcuno; era in realtà un gregario che si faceva facilmentesuggestionare ad agire^ dice di lui il Coser, tipico esponente dellamalavita padovana con idee nazionalsocialiste. Il suo desiderio di farqualcosa di dimostrativo che avesse significato di rivolta contro la societàprobabilmente ha costituito però solo il terreno fertile su cui altri haseminato, lo ha solo agevolato sul piano psicologico nel risolversi acompiere l’attentato.Confortano tale convincimento le reticenzedell’imputato, le suaccennate contraddizioni sul luogo dove asportò labomba, sui contatti avuti in Israele e a Marsiglia, sull’ora di arrivo in viaFatebenefratelli, sul momento in cui venne a conoscenza dellamanifestazione. Avvalorano tale tesi la sua abituale necessità diappoggiarsi a qualcuno per agire, la sua disponibilità a compiere atticriminosi per altri, i suoi contatti con elementi di ideologiacontrapposta.Sintomatiche sono poi le sue risposte a precise domandenell’interrogatorio del 17.1.1974 ^sono un anarchico individualista e nonavrei alcuna difficoltà, per attuare un’azione di rivolta, ad utilizzare mezzie occasioni che mi fossero offerti da ambienti ideologicamente del tuttodiversi (forze di destra, polizia). Per esempio al tempo dell’attentato adAugust Vaillant, avvenuto verso la fine del secolo scorso nel parlamentofrancese, si disse che era stata la polizia ad armare la manodell’attentatore e che lo stesso, pur sospettandolo, ugualmente effettuòl’attentato. Non ho nessuna obiezione di principio su tale fatto^.

L’accenno al Vaillant è particolarmente calzante per inquadrare lacontraddittoria personalità dell’imputato; un anarchico disponibile, prontoa utilizzare e sfruttare mezzi e occasioni, fornitigli anche da ambienti a luilontanissimi sul piano sociale e ideologico, magari miranti ad altriobiettivi, pur di realizzare qualcosa di clamoroso, anche un attoterroristico che evidenziasse la sua non adesione al sistema.

Si prospetta dunque la inquietante ipotesi che Bertoli sia statomanovrato. Certo è che la pregressa disponibilità ad atti criminosi, per lasua facile suggestionabilità ad agire, per la sua fin troppo evidenteetichetta di anarchico per fede conclamata, il Bertoli appare elementoveramente idoneo ad essere strumentalizzato. Indubbiamente l’imputatodifficilmente potrebbe ammettere una tale versione dei fatti. Lo ha fattosolo in linea di ipotesi astratta riferendosi all’anarchicofrancese............Analizzando la personalità contraddittoria dell’imputato,tenute presenti le sue posizioni ideologiche, il suo comportamento prima

della strage e le contraddizioni negli interrogatori, nasce dunque ilsospetto che qualcuno dietro Bertoli abbia mosso le fila, qualcuno chemagari lo abbia agevolato in passato valutandone il potenziale eversivo,riservandone poi l’utilizzo al momento opportuno. Certo l’imputato puòavere anche mentito in qualche occasione per non coinvolgere nellavicenda individui estranei ai fatti, ma non appare infondata l’ipotesi cheegli voglia coprire corresponsabili”.

Analoghi concetti si rinvengono in un articolo pubblicato nel primonumero del periodico “Per Noi”: “quando parliamo di fascismo noi non ciriferiamo soltanto a una particolare dottrina dello Stato, ma ci riferiamo auna precisa Weltanschunung che è propria di un tipo d’Uomo che è negliantipodi dell’attuole uomo-massa. Il Fascista capisce la vita come unadura lotta e si prepara ad affrontarla intrepidamente. La vita è per lui unamissione verso la propria società per il miglioramento di essa e consistenel salvare e conservare per i discendenti la civiltà tramandataci daipadri, una civiltà fondata sugli eterni valori eroici e spirituali. Il fascista è,proprio per questa sua mistica concezione della vita, caratterizzato da unparticolare stile: lo stile del legionario”.

E ancora (memoria difensiva di Clemente Graziani): “la violenza, comela guerra, che ne è l’espressione ultima e totale, può essere giusta eingiusta, santa o criminale, borghese, proletarie e rivoluzionaria. I verimovimenti rivoluzionari, proprio perché lottano per realizzare unarivoluzione, fin quando possono mirano ad affermare la loro idea in modopacifico. Solo quando le idee portate avanti dalla rivoluzionecominceranno a far presa, viene a esplodere da un lato la repressione,dall’altro la volontà della rivoluzione di sopravvivere e la consapevolezzadella stessa del diritto alla contro-violenza. E questa contro-violenza,nelle rivoluzioni autentiche, è ristabilizzatrice di un ordine più alto divalori”

dal rapporto del S.I.S.M.I. in data 12.6.95 con cui, a seguito di ordine diesibizione, trasmetteva il Rapporto del Centro C.S. di Verona datato8.5.1966 ed allegati verbali di sequestro: 18 pistole di marche e calibrodiversi – 29 detonatori al fulminato di mercurio e T4 del 22° Stabilimentodel Genio militare di Pavia – un silenziatore per pistola Mauser – 8caricatori per moschetto mitragliatore automatico Beretta – 621 pallottoledi vario calibro – 9 fondine di vario tipo in cyoio – (nell’abitazionelivornese del Massagrande): 4 razzi da segnalazione, 7 rotoli di micciadetonante – tre pistole di cui una P38 e 2 Beretta – 39 saponette di tritolo– una scatola di detonatori elettrici – tre barattoli di gelatinizzanteisraelianoM.C. 13 – 2000 pallottole di vario calibro; (nell’appartamento diReverè Veronese): 15 moschetti automatici Beretta di vari modelli – 4“machine pistole” – 3 pistole mitragliatrici Sten – 5 moschetti 91/38 – 3fucili Garand – un fucile mitragliatore Browning - 2 fucili mitragliatori dimarca straniera – un fucile mitragliatore Breda con due canne – unapistola lanciarazzi – 134 saponette di tritolo per complessivi 26,800chilogrammi – 23 rotoli di miccia detonante – 4 artifici lacrimogeni di tipoR - 3 bombe a mano M.K. 2 – 55 capsule elettriche – 55 detonatori al

fulminato di mercurio – 8 mine antiuomo – 2 barattoli di gelatinizzanteisraeliano M.C.13 da grammi 900 caduno – 50 caricatori per armiautomatiche – circa 20.000 cartucce per le armi di cui sopra, e altromateriale !

Il Persic dichiarava, tra l’altro: “voglio precisare che mi sono indotto arivelare ogni elemento a mia conoscenza sul Soffiati e le altre personeche ho conosciuto a partire dal 1968/69, avendo preso coscienza dellagravità dei fatti riconducibili a tali persone. Non sono mai stato iscritto anessun partito né ho mai avuto la tessera di nessun gruppo politico.

Non ho mai subito procedimenti penali per appartenenza a gruppi dellaestrema destra, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale o altri. Hoqualche precedente per reati comuni e cioè per bancarotta a seguito diun fallimento.

Prima dei verbali che ho reso ai R.O.S. ed ai magistrati suddetti non eromai stato sentito da altri magistrati su Soffiati e i suoi amici....In ordine aimiei rapporti con il gruppo di Ordine Nuovo di Verona, devo precisareche non sono mai stato iscritto al gruppo di Ordine Nuovo di Verona e hosolo conosciuto e frequentato diversi membri di tale organizzazionecondividendo l’ideologia di tale gruppo di persone, anche se sonosempre stato contrario a ogni forma di violenza.

I contatti con tali soggetti hanno origine con la conoscenza del SoffiatiMarcello, avvenuta verso l’inizio del 1968 quando io avevo il ristorante aFeltre e lui, che era un rappresentante della Bovis, veniva a mangiare almio ristorante. Successivamente anche io entrai a far parte della Bovis emi trovai a lavorare a fianco del Soffiati e a frequentarlo assiduamente.Attraverso il Soffiati ho conosciuto Carlo maria Maggi, Carlo Digilio,Sergio Minetto e gli altri personaggi indicati nelle mie precedentideposizioni.

Preciso che sono venuto a conoscenza di tutte le circostanze di cui hoparlato avendo frequentato il Soffiati e gli altri personaggi dal periodo1968/69 fino al 1981/82 quando vendetti il ristorante di Colognola ai Colliche era attaccato a quello del Soffiati. Dopo la scarcerazione del Soffiatidel 1976, rendendomi conto che costui continuava a perseguire gliantichi obiettivi, mi sono progressivamente distaccato da questo gruppodi persone”

Il Persic aveva fatto parte del gruppo di O.N. di Verona tra il 1968/69 e il1977/78, precisando: “per quanto riguarda la mia partecipazione algruppo, faccio rilevare che, mentre con il Soffiati vi era un rapportostretto e di reciproca fiducia, Minetto, Maggi e anche lo stesso Digilio nonsi fidavano completamente di me, mantenevano le distanze ed evitavanodi fare alcuni discorsi in mia presenza.

Dopo aver riferito circa il possesso di armi da parte di Marcello Soffiati,nella sua abitazione di via Stella a Verona, il Persic spiegava che “le armie l’esplosivo venivano da Venezia ed era Carlo Digilio a fornirgliele,secondo quello che mi è stato riferito dal Marcello. Ricordo comunqueche il Soffiati era solito trafficare con le armi, vendendole e comprandole.

Mi pare che avesse dei contatti con la malavita locale per questo tipo ditraffici. Il periodo in cui vidi le armi in via Stella va dal 1972 al 1974.

Quanto al Digilio: “preciso (verbale 9.2.1995) che quello che ho capitoin quegli anni, Digilio era l’uomo che quando serviva un’arma era ingrado di procurarla, che quando c’erano problemi con fucili o pistole erain grado di risolverli”. Lo aveva sentito parlare con il Soffiati di timerestratti da lavatrici e dei problemi che avevano per funzionare: “in ordineal discorso dei timer, preciso che io ho sentito Digilio parlare di questacosa con il Soffiati; Digilio diceva a Soffiati che per il loro scopo potevanoessere adeguati i timer normalmente impiegati nel funzionamento dellelavatrici; l’affermazione di Digilio sembrava diretta a sollecitare Soffiati aprocurare timers del tipo richiesto; questo discorso è certamenteavvenuto prima che Soffiati venisse arrestato per le detenzione dellearmi sequestrategli nel 1974”.

Dario Persic riferiva altresì di un episodio terroristico di cui era venuto aconoscenza per la sua amicizia e frequentazione del Soffiati: “dopo circasei mesi che lo conoscevo (il Soffiati), ci recammo a lavorare a Trento inquanto entrambi svolgevamo l’attività di rappresentanti per la ditta Bovisdi Pedavena (Belluno). Eravamo alloggiati presso l’Hotel Bowling diLaives. La sera ci recammo a giocare a bowling sotto l’albergo. Versomezzanotte io e gli altri rappresentanti siamo saliti in camera mentre ilSoffiati ci disse che sarebbe andato a bere un bicchiere. La mattinasuccessiva uscimmo per la nostra attività e il Soffiti ci disse di salire inauto con lui. Si diresse verso il centro di Trento dove sorgeva il palazzodella Regione. Qui vi erano le Forze dell’ordine che delimitavano l’edificionon facendo avvicinare nessuno. Il Soffiati si fermò nei pressi di unpoliziotto per chiedergli cosa fosse successo. Questi spiegò che durantela notte vi era stato un attentato nei confronti del palazzo della Regione.Il Soffiati chiese chi poteva essere stato e il poliziotto rispose che sitrattava quasi sicuramente di fascisti. Detto questo ripartì e si diresseverso una via isolata. Scese dall’auto, aprì il cofano e mi mostrò circadue o tre metri di miccia di colore bianco che cercava di arrotolare.Mentre faceva questo mi chiese ridendo: chi credi che possa esserestato ? Io rimasi sbalordito e capii che l’autore era stato senz’altro luiinsieme al gruppo di Bolzano. Sapevo infatti che a Bolzano vi era ungruppo di ordinovisti capeggiati da un uomo che aveva un’edicola incentro a Bolzano, nella via centrale di questa città. Questo gruppo diBolzano era a contatto con Soffiati che ogni volta che si recava in AltoAdige andava ad incontrarli. Il Soffiati infatti teneva i contatti tra Venezia,Bolzano e Udine. Per Venezia il suo referente era il dottor Carlo MariaMaggi”.

Significativo il brano delle dichiarazioni di Dario Persic relativo alleattività illecite e clandestine di Ordine Nuovo di Venezia e Verona, da luiconosciute proprio per la frequentazione dei dirigenti dei due gruppi. Ilriferimento di tempo e luogo è alla riunione tenutasi nella sua abitazionenel 1970/71, presenti il Maggi, Marcello Soffiati, Bruno Soffiati e lamoglie, oltre a Sergio Minetto: “.....tornando ai discorsi che fecero,

ricordo che non li compresi bene tutti, ma parlavano di una certarivoluzione intesa come accadimento che doveva avvenire a breve.L’uomo con i baffi (indicato dal dichiarante come croupier al casinò diVenezia, n.d.u.) disse che in Piemonte-Valle d’Aosta erano pronte leBrigate Savoia ma non so a cosa si riferisse, mentre i presenti capironobene. Ricordo che qualcuno dei presenti gli chiese quanti dossero gliuomini, ma la risposta che ebbe fu evasiva. Al termine della riunione, allaquale assistetti passivamente, l’uomo con i baffi mi disse davanti a tuttiche non sovevo assolutamente parlare con alcuno e che se fosse venutofuori qualcosa sapevano già chi era il delatore”..........”dopo quella volta,anche in altre occasioni, le suddette persone hanno parlato di rivoluzioneo di colpo di Stato”.

Persic ricordava anche il commento fatto dal Soffiati, quasi certamentedopo l’attentato di piazza della Loggia a Brescia: “finalmente si fa sulserio; io ho messo questo commento in relazione con tutti i discorsisentiti in precedenza relativi all’imminente colpo di Stato”.