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Dedico questo libro A mio nipote Nicola.

Se un giorno vorrà leggerlo Troverà un poco delle sue radici.

B.G.

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CAPITOLO PRIMO

Prime ribellioni

Vi presento Bianca Grasso, nata a Vercelli l'11 agosto 1926.

Quando nacqui, mia madre, Rita, aveva quarant'anni e mio padre,

Oreste, quarantadue. Mi accettarono come una grazia dal cielo, ma con un

po' d'imbarazzo per la loro età avanzata (mio fratello Remo aveva sedici

anni e mia sorella Egle quindici). Tanto è vero che la mamma, preoccupata e

timida, andò a partorire in ospedale.

La prima tragedia fu il parto. L'ostetrica mi procurò un trauma alla

spalla destra, da cui derivò una paralisi permanente alla quale non fu più

possibile trovare un rimedio.

Mi volevano dare un nome diverso, ma il regime fascista non lo

permetteva, perché era un nome russo.

Mio padre, bracciante, aveva partecipato alle lotte sindacali, era un

attivo sostenitore del circolo cooperativo del rione Isola. Venne poi assunto

in una fabbrica di prodotti chimici. Con la guerra del 1915, a trentun anni,

sposato con due figli, fu mandato al fronte, presso Monfalcone, per quattro

anni. Mia madre lo sostituì in fabbrica, a fare lavori massacranti, per dodici

ore al giorno. Mio padre, al fronte, nelle ore di tregua faceva diversi lavori

con i bossoli vuoti delle cartucce e delle bombe, costruiva accendini,

tagliacarte, braccialetti, che vendeva ai suoi compagni ricavandone soldi da

mandare a casa, alla famiglia. In quel periodo scrisse un diario, che

conservo tuttora e che è stato pubblicato e commentato sulla rivista

"L'Impegno".

Tagliacarte costruito a mano

da mio padre, col rottame

di un aereo austriaco abbattuto

da Francesco Baracca

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Mia madre aveva sempre lavorato in risaia, sin da quando le mondine erano

costrette a prestare la loro opera dall'alba al tramonto, percorrendo a piedi vari

chilometri al giorno. Partecipò alle lotte contadine del 1905-1909 per le otto

ore, con sua nipote, Margherita Baucero detta Tin. Durante una delle

manifestazioni di protesta, le guardie regie a cavallo scatenarono una carica e

mia madre fu ferita al petto da una lancia; per evitare un ematoma applicò sulla

lesione una fetta di lardo, come si usava a quei tempi. Dovette rimanere

nascosta con altre scioperanti per più giorni, per sfuggire alle ricerche della

polizia. Dopo qualche giorno, poiché non c'era niente da mangiare e la fame

diventava insopportabile, mia madre mangiò la fetta di lardo che aveva usato

come medicazione. Per quanto dedicò in difesa della dignità, della famiglia,

per le sue lotte, mi sento orgogliosa di lei.

Nel 1927, mia sorella Egle, sedicenne, fu arrestata dai fascisti, perché

in casa nostra, nel corso di una delle frequenti perquisizioni a cui erano

soggette le abitazioni degli antifascisti, avevano trovato tra le sue cose dei

volantini di opposizione al regime. Data la sua giovane età, fu condannata

a soli tre mesi di carcere, che scontò a Novara (allora nostro capoluogo di

provincia). Era iscritta al PCI e aveva contatti con Nino Baltaro, Domenico

Facelli (poi mandati al confino), Giuseppe Rimola (Nero) di Novara (poi

emigrato in Russia), Maria Seccatore e altri antifascisti.

***

A cinque anni fui portata all'asilo Filippi, ma l'ambiente non mi

piaceva. Dopo sette giorni di quella brutta esperienza, scappai con un

bambino diventato mio amico, pure lui con un'imperfezione fisica. Ci

facemmo "scaletta" (una sulle spalle dell'altro), per arrivare a tirare il

chiavistello del portone, uscimmo e andammo a giocare nei giardini della

vicina piazza del duomo. Ci trovarono seduti tranquillamente tra le ali delle

aquile del monumento. Non mi mandarono più all'asilo, rimasi a giocare

nella mia "Bella Venezia", il grande caseggiato popolare del rione Isola.

In quel periodo fui colpita dal virus della difterite, una malattia

infettiva di cui c'era un'epidemia. Mi portarono in ospedale, con mia madre,

nel reparto isolamento, dove rimasi per quaranta giorni (la quarantena). Mi

riempirono di siero, finché guarii. A sei anni subii un intervento alle tonsille

per le adenoidi.

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Frequentando la prima elementare dovetti constatare che i bambini

possono essere crudeli. Mi deridevano per il mio braccio diverso dagli altri, mi

chiamavano brass a'stort (braccio storto).

***

Il giorno della "Befana fascista" radunarono nella grande palestra tutti

i bambini del plesso scolastico (circa quattrocento); ogni scolaro venne

chiamato per nome e ricevette il "pacco", che conteneva una palla o un

trenino per i bambini, una bambolina per le bimbe e cioccolatini, biscotti,

mandarini. Soltanto io venni esclusa, perché i miei genitori si erano rifiutati

di iscrivermi all'Opera Balilla e di farmi portare la divisa da piccola italiana

(gonna nera e camicetta bianca). Tornai a casa triste, arrabbiata e umiliata;

le compagne e le amiche erano tutte felici per i doni ricevuti, ma anch'esse

incapaci di capire perché io sola ero stata esclusa. Vedendomi così infelice

e piangente, i miei cercavano di consolarmi, ma io non riuscivo a capire.

Arrivò mio fratello, che mi spiegò le ragioni per cui, il primo maggio, la

polizia aveva preso lui, papà, la Egle e tanti altri lavoratori, trattenendoli in

guardina per tutto il giorno. Non si trattava di una gita, ma di una misura di

sicurezza per impedire la festa del lavoro, che sarebbe stata una

manifestazione contro il fascismo.

- Il fascismo - proseguì Remo - è quello che tu hai visto. Ci vorrebbe

fatti tutti allo stesso modo e pronti ad applaudire quando gli fa comodo. Il

fascismo è il partito dei padroni, quelli che si prendono la maggior parte

delle ricchezze guadagnate con il faticoso lavoro delle mondine come la

mamma e degli altri operai. I fascisti sono quelli che hanno dato i pacchi

della Befana ai bambini, per influenzarli, educarli con le parole d'ordine del

duce: credere, obbedire, combattere.

Compresi meglio quando mi spiegarono che la Egle era stata

imprigionata a Novara per tre mesi perché attivista comunista. Posso dire

che il mio antifascismo nacque quel giorno, con la vicenda della Befana.

Quell'episodio fu l'inizio della mia ribellione.

***

Alle scuole elementari non ero un disastro, però non avevo voglia di

fare quello che mi dicevano, un po' per ripicca, un po' perché ero diversa

dagli altri; almeno, gli insegnanti e il direttore mi consideravano diversa, a

parte la maestra Maria Grosso (pure lei un po' discriminata perché di

religione protestante) che all'occasione prendeva le mie difese. Ero sovente

in castigo in corridoio e, non sapendo che fare, aiutavo il bidello ad

annaffiare i vasi dei fiori.

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Per andare alle scuole Carducci si doveva percorrere tutta la via Trento,

detta anche "strada rossa", poiché ai suoi margini una fabbrica di concimi

depositava enormi cumuli di cenere rossa che arrivava fino al Cervetto, un

canale che sfocia nella Sesia. D'inverno, quando nevicava, noi ragazzi

andavamo su quelle montagnole e, sedendoci sulla cartella, facevamo grandi

scivolate. Un gioco pericoloso, perché avremmo potuto sbandare e finire

nell'acqua.

Sul sentiero che costeggiava il Cervetto crescevano un'infinità di rovi

e piante di more, di cui facevamo scorpacciate. Un giorno, la Renata ed io,

mentre le coglievamo, ci spaventammo alla vista di una enorme biscia verde

con la cresta di colore rossastro. Si immergeva e ricompariva, finché

scomparve sotto il ponte. Rimasi talmente traumatizzata da conservare per

tutta la vita un terrore invincibile per qualsiasi tipo di serpe.

***

Mio padre aveva conseguito la patente di guida e faceva l'autista da

quando io nacqui. Era pagato molto bene, per quei tempi, guadagnava 126

lire alla settimana e un "pintone" (bottiglione di circa sette litri) di vino.

Facevamo la spesa nel negozio di alimentari del Clemente, vicino a casa

nostra, e ogni settimana pagavamo il conto che si teneva su un apposito

libretto. Alla domenica mattina avevo il compito di andare a comprare la

carne al mercato coperto di San Marco, con uno o due "scudi" d'argento da

cinque lire (da un lato c'era raffigurata un'aquila, per cui la moneta veniva

chiamata anche "aquilotto").

Mia sorella sposò Bruno Gentile e da essi nacque Nerina, la mia prima

nipotina. Era bellissima, ma piccola piccola; mio fratello Remo, con delle

perline di legno, le costruì una mini-culla, che fu sistemata accanto alla

stufa, da cui la piccina poteva ricevere il calore necessario.

Nel 1935 mio fratello sposò Giulia, che abitava a Strona. Il matrimonio

si celebrò nel comune di residenza della sposa e per andarci mio padre

affittò un'auto, una "Balilla", nella quale riuscimmo ad entrare in otto

persone. La povera vettura arrancava nelle salite di montagna, ma fu un

viaggio appassionante. Da loro, nel 1937, nacque Mirella, la mia seconda

nipotina, bionda e bellissima.

Quando terminai le scuole elementari, la dittatura fascista e il clero

obbligarono i miei genitori a farmi ricevere i sacramenti (ero stata solamente

battezzata). Mi fecero confezionare un vestito bianco con della fodera a

buon mercato e mi comprarono un paio di scarpe bianche da tennis.

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La mia

prima comunione,

a dieci anni

Alla cerimonia, che si svolse nel duomo, oltre che per il vestito

scadente spiccavo tra gli altri bambini per la mia statura. L'età media degli

altri comunicandi era di sei anni ed io ne avevo dieci. Finita la funzione,

saltai a cavallino tutti i paracarri davanti al duomo. Era consuetudine

portare i bambini al bar a prendere la cioccolata in tazza con i biscotti.

***

Le condizioni economiche piuttosto buone della mia famiglia

consentirono a mio padre, nel 1939, di comprare un apparecchio radio, che

allora costava parecchio; il nostro, pur essendo di seconda mano, funzionava

perfettamente.

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Eravamo tra i pochi fortunati che disponevano di due camere in affitto;

certe famiglie composte da sei-otto persone vivevano in una sola camera.

Per ascoltare buona musica, canzonette, opere e commedie, i vicini

affollavano il nostro alloggio, si facevano anche turni di otto-dieci persone.

Quando eravamo soli, riuscivamo a captare le stazioni estere, in special

modo "Radio Londra", rigorosamente vietata, perché si trattava di una

trasmissione antifascista in lingua italiana. La radio forniva l'occasione di

stare insieme, stringere rapporti cordiali ed amichevoli.

***

Dopo le elementari, ci riunivamo in squadre di dieci, quindici ragazzi e

ragazze, dedicandoci a tutta una serie di giochi e svaghi. Andavamo spesso

alla Sesia (mio padre mi aveva insegnato a nuotare quando ero molto

piccola). Si partiva al mattino, accompagnati da qualche adulto, portandoci

qualche panino, e si tornava alla sera, trascorrendo le giornate a giocare,

nuotare, prendere il sole e a fare tutte le cose che si fanno da giovani per

stare allegri.

C'erano i cubi di cemento per rafforzare gli argini contro le piene, dai

quali ci tuffavamo. Un giorno, Rosanna, della nostra squadra, ammirando le

nostre esibizioni, mi domandò :

- Pensi che sarei capace di farlo anch'io ?

- Certo, non è difficile; hai visto, no ?

Tutta entusiasta, si tuffò, ma quando riemerse si mise a gridare :

- Non so nuotare, venite a prendermi...!

In quel punto l'acqua era molto alta; per fortuna alla domenica la

spiaggia era frequentata da intere famiglie. Vicino c'era mio padre, che si

tuffò e la trasse in salvo. Rosanna era imprevedibile, ignoravamo che non

sapesse nuotare. Ma da quel giorno imparò.

Un giorno attraversai il fiume facendo una gara con i ragazzi più grandi

- mi accettavano volentieri e ci si sfidava a vicenda.- Salii sulla sponda

opposta, passando una specie di guado con pietre molto grosse, per tornare

dal lato di partenza che chiamavamo "il boschetto". Quando arrivai a circa

dieci metri dalla sponda vidi una grossa biscia che dalla riva veniva verso

di me. Svenni per lo spavento e mi dovettero ripescare perché l'acqua mi

stava trascinando via.

***

Papà e mamma erano angosciati vedendo quanto soffrivo per il mio

difetto al braccio. Durante l'infanzia mi avevano portata da diversi

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specialisti, perfino a Firenze (a quei tempi non era facile spostarsi, sia per la

spesa che per la distanza), ma tutti dicevano che ero affetta da paralisi

infantile, perciò non emendabile. Tra i cinque e i sei anni venni sottoposta a

lunghissimi cicli di applicazioni elettriche, tanto dolorose (ancora oggi, se

appoggiassi un dito sull'omero, risentirei il dolore e le vibrazioni elettriche).

Tutto era stato inutile.

Avevo dodici anni quando arrivò da Torino un rinomato chirurgo, il

professor Pecco. Papà mi portò pure da lui, pagando una parcella

salatissima. Terminata la visita, il professore dichiarò che avevo una frattura

tra la spalla e l'omero, bastava praticare subito un bendaggio e

l'articolazione sarebbe andata a posto.

- Come chirurgo - disse,- tenterei l'operazione; come padre, la lascerei

così; intanto, vede, il braccio lo usa bene. Un intervento adesso, con questa

anchilosi, potrebbe paralizzare l'articolazione. Un giorno, forse, sarà

possibile...

Fu così che la nostra grande speranza tramontò definitivamente.

***

A quattordici anni, mio fratello cominciò ad affidarmi alcuni compiti di

responsabilità. Con la mia cartella di scuola, non sospettabile come gli

adulti, potevo trasportare dei libri messi all'indice dal fascismo, che ci

procurava il signor Giovanni Giovannacci, la persona più gentile e affabile

che io conobbi, un libraio antifascista che aveva il negozio sotto i portici di

piazza Cavour. Portavo i libri a Nino Baltaro, Pino Graziano, Mario Serassi

e altri militanti antifascisti. Erano libri proibiti e questa mia attività mi

inorgogliva, perché mi attribuiva una eccezionale responsabilità.

Mio fratello mi aiutava, era informato di tante cose tramite

l'organizzazione clandestina del partito. Era abbonato alla rivista "Relazioni

internazionali", obbiettiva e democratica, che dopo qualche anno venne

soppressa dal regime fascista. Lessi alcuni dei libri, "Il tallone di ferro" di

Jack London e "Il capitale" di Marx, ma ne capivo ben poco. Più tardi, nelle

formazioni partigiane, quando si faceva l'ora politica e il commissario

leggeva e spiegava brani di questi libri, compresi il significato di quelle

pagine che a quattordici anni trovavo incomprensibili.

***

Con papà iniziai presto, nelle domeniche d'estate, a fare lunghe gite in

bicicletta. Le strade erano di terra battuta e cosparse di ghiaietta, sulla quale

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Mio padre Oreste

a 47 anni,

in tenuta

da ciclista

era facile slittare e sbucciarsi le ginocchia. Per il "giro dei laghi", di 183

chilometri, si partiva al mattino alle cinque; il percorso comprendeva

Gattinara, il Lago d'Orta, Omegna, Fondo Toce e Intra. A Pallanza si

sostava e si faceva il bagno. Al ritorno passavamo da Stresa, una bella

cittadina con molti turisti, quasi tutti svizzeri, perché dalle nostre città erano

ben pochi a potersi permettere una gita sul lago. Dopo il pranzo si girellava

ammirando il paesaggio; un altro bagno, una merendina e poi in sella:

Arona, Novara e Vercelli. Si arrivava a casa verso le otto di sera.

Papà, bravissimo nel "fai da te", pensò di costruire un tandem, unendo

le varie parti di due biciclette. Ne costruì due perfetti. Con questi facemmo

una gita fino ad Oropa, con le mie amiche Silvia e Giovanna.

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Ci fermammo a dormire all'ospizio del santuario, dove si affittavano

camere ai turisti e pellegrini. Per due giorni compimmo scalate e lunghe

passeggiate, fino al Mucrone. Al ritorno, scendendo da Oropa, la discesa era

talmente ripida che aiutavamo i freni tenendo un bastone schiacciato sul

pedale e premuto contro il suolo, come facevano i montanari. Ad un tratto si

ruppe la forcella anteriore, che univa il manubrio al telaio del tandem su cui

viaggiavamo Giovanna ed io. Facemmo un brutto volo, per fortuna senza

farci alcun male.

Riuscii a formare un gruppo di cinque ragazze per una gita ai laghi, ma

giunte a Gattinara, che distava trentacinque chilometri, le mie amiche si

fermarono, dicendomi che erano stanche e sarebbero tornate a casa.

A Vercelli, quando avevo quindici anni, portare i calzoncini corti era

considerato scandaloso; eravamo solo in due ragazze, in città, a portarli, io e

la figlia di un commerciante di motociclette. Quando la gente ci vedeva in

tale succinto costume, ci indirizzava qualche parolaccia, ma nel mio rione

nessuno si scandalizzava, conoscevano la mia famiglia e ci rispettavano. Le

mie coetanee mi invidiavano:

- Sei fortunata, ad avere genitori che ti permettono una tenuta così

sportiva e comoda. I calzoncini noi li portiamo solamente quando andiamo

allo stadio Robbiano a fare ginnastica.

I miei famigliari mi permettevano di fare gite anche da sola, talvolta

con la bicicletta da corsa di mio fratello. Un giorno decisi di fare il solito

giro dei laghi. Avevo un po' di soldi e tante idee, per esempio quella di

pranzare a Stresa in qualche bel ristorante. Prima di pranzo, cercai una

spiaggia per fare un bagno. Ne vidi una deserta, attraverso un cancelletto

aperto sulla strada. Non c'era nessun cartello con divieti, misi dentro la mia

bicicletta, discesi alla spiaggia e mi tuffai. Stavo risalendo sulla riva,

quando mi sentii apostrofare da un uomo molto irritato:

- Voi, che cosa ci fate, qui dentro ? E' proprietà privata - (con il regime

autoritario fascista era stato abolito il "lei" e reso obbligatorio l'uso del

"voi").

- Ho visto il cancello aperto - risposi, - non c'era nessun divieto. Mi

sono meravigliata e non mi pareva di commettere qualche infrazione,

perciò sono scesa. Vi chiedo scusa.

Quella gente doveva essere ricca per avere anche un motoscafo.

Comunque, quel signore fu ragionevole e comprensivo. Infine ci salutammo

con una stretta di mano.

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Tornai al mio programma, avvicinandomi ad un bell'albergo, con un

giardino sul davanti. Una larghissima gradinata portava ad uno spiazzo con

dei tavolini, alcuni occupati da turisti che stavano pranzando. Non c'era

molta gente (le macchine erano rarissime, in maggioranza svizzere).

Parcheggiai la bicicletta e mi avviai per pranzare, ma i miei calzoncini corti

destavano indignazione. Si avvicinarono due camerieri, mi guardarono

dall'alto al basso con evidente disapprovazione e mi domandarono che cosa

volevo.

Chiesi di pranzare. Alla fine di una piccola discussione, mi fecero

accomodare ad un tavolino piuttosto appartato. Là seduta me la ridevo; fu

veramente una vittoria contro i pregiudizi di mezzo secolo fa.

***

Mia sorella aveva mandato sua figlia Nerina, che aveva otto anni meno

di me (io ne avevo sedici) in colonia a Brolo, sul Lago d'Orta. Ero molto

affezionata alla mia nipotina, perché dormiva nella mia camera ed era

molto timida e delicata. Qualche giorno dopo la sua partenza, pensai di

andare a farle visita. Dissi a mia sorella :

- Senti, Egle, vorrei andare a trovare la Nerina, che ne dici?

- Oh, bene, và pure. E' la prima volta che va lontano da casa ed è sola.

Se non le piace, se non vuole più restare, sei capace di riportarla qui ?

La rassicurai. Presi la bicicletta da uomo, infilai un cuscino nello zaino

e mi misi in viaggio, arrivando a Brolo in mattinata. Alla colonia, gestita

dalle suore, mi presentai, declinando le mie generalità e la mia qualità di zia

della piccola. Le suore chiamarono la cuoca, la signora Giuseppina (zia di

Nerina dalla parte di suo padre), e questa mi accompagnò lungo un viale,

finché vidi la piccola, sola, seduta su un cordolo del giardino. Appena mi

vide, mi corse incontro, esclamando:

- Zia Bianca, sei venuta a prendermi ?

- Perché, non ti piace stare qui ?

- No. Mi fanno dire le preghiere quattro volte al giorno e non mi danno

da mangiare quello che io desidero. Vorrei tornare a casa mia, non mi piace

stare qui. Non ci sono le mie amiche, queste non le conosco nemmeno.

Che potevo fare ? Ascoltai la bambina per un po', cercando di

convincerla. A un certo punto, visto che il posto non piaceva nemmeno a

me, mi rivolsi alla direttrice:

- Senta, la mamma della bambina mi ha autorizzata a riportarla a casa,

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se non fossi riuscita a convincerla a rimanere. Torniamo a Vercelli tutte e

due.

- Ma voi non potete, dove la mettete ? Non andate mica a casa a piedi...

- Per quello ci penso io, suora.

Accompagnai Nerina a raccogliere le sue cose, tirai fuori il cuscino

dallo zaino, lo sistemai sulla canna della bici e vi caricai la bambina.

Salutammo tutti e partimmo.

Per strada, le domandai:

- Non hai mai visto il Lago Maggiore, vero ? Ti piacerebbe vederlo ?

- Si, zia, vedo sempre solo questo, che è sempre grigio...

Mi avviai verso Fondo Toce e quindi a Pallanza. A Stresa mangiammo

i panini che avevo con me e ci riposammo, con i piedi immersi nell'acqua

del lago. Nel pomeriggio feci un bagno in previsione di tutti i chilometri

che dovevo coprire.

Arrivate ad Arona, scoppiò un grande temporale. Ci fermammo in un

bar, per ripararci e prendere un bicchiere di latte. Un signore e sua moglie ci

guardarono, colpiti dal fatto che eravamo inzuppate d'acqua, e ci

domandarono :

- Ma da dove venite, bambine ?

Raccontai un po' la storia della colonia e del nostro ritorno con visita al

Lago Maggiore.

- Dovete andare a Vercelli ? Sentite, noi abbiamo un camioncino per

trasportare merce e siamo diretti ad Alessandria; per tornare a casa

passiamo da Vercelli. Anche rischiando di prendere una multa, possiamo

caricare dietro la bicicletta e farvi salire con noi in cabina.

Così, un po' pigiati, ma al riparo, ci portarono fino a Vercelli; passato il

ponte della Sesia, a Porta Milano, la pioggia era cessata. Ringraziai i signori

per la loro gentilezza e tutto finì bene.

Facevo grande uso della bicicletta di papà, mi capitava di fare gare di

corsa o lunghi giri. Un giorno caddi e sfasciai tutta la ruota davanti. Mio

padre mi somministrò un sonoro ceffone. Era la prima volta che mi

percuoteva e fu anche l'ultima.

In bicicletta mi recavo spesso a Tronzano, dove c'erano i miei zii e mio

cugino Walter con i suoi amici. Qualche volta andavamo tutti assieme fino

al lago di Viverone, dove si facevamo lunghe nuotate.

Nel mio caseggiato, bambini e ragazzi erano tantissimi. Norma aveva

otto fratelli, Maria ne aveva sette. Eravamo molto affiatati, quasi tutti figli di

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operai, braccianti e mondine; di studenti tra noi ce n'erano pochi, perché a

quei tempi gli studenti erano figli dei ricchi, i soli con le possibilità di

pagare le tasse e le spese scolastiche. Noi li guardavamo con profonda

avversione, anche perché quando era scoppiata la guerra di Abissinia quasi

tutti gli studenti si erano pronunciati a favore del conflitto, per la "conquista

dell'impero", inneggiando alla guerra con sfilate e gagliardetti.

Tra i nostri giochi c'era la costruzione di casette sugli ippocastani;

imitando Tarzan, ci issavamo sugli alberi con le corde. Si giocava alla

"settimana" e a "guardie e ladri"; si andava a pescare le "sgrappe" (cobiti)

nei fossi e ci si divertiva in molti altri modi.

Ero forse l'unica ragazza del rione che giocava al pallone con i ragazzi.

C'era una squadra, con Nino, Ennio, Bruno, Lucio, Tonino, che andava a

giocare al campo di Marte, oltre il fiume Sesia, in un grande campo di calcio

aperto a tutti i ragazzi di Vercelli, che lo usavano a turno.

Un altro tipo di svago era costituito dal cinematografo. Il cinema che,

con le mie amiche, frequentavo di più era il Corso, molto popolare;

prendevamo i biglietti dei primi posti per non essere esposte a rischi e

molestie.

Qualche

mio dipinto

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CAPITOLO SECONDO

Alba di guerra

Mi piaceva dipingere e disegnare. Un giorno portai i miei disegni

all'Istituto delle Belle Arti, dal professor Cerallo. Dopo averli esaminati,

disse che col tempo e con una buona educazione artistica, un indirizzo

diverso, avrei potuto accedere all'Accademia Albertina.

Dopo qualche breve e amara riflessione, scartai la pur bella prospettiva.

Come avrei potuto accedere all'Accademia, se mi erano vietate le scuole

medie, che dovetti frequentare da privatista?

Papà tuttavia, volle incoraggiare la mia vocazione e mi mandò a scuola

da suor Ester, una sua nipote di secondo grado, delle monache di Maria

Ausiliatrice. Era una brava professoressa di pittura, di pianoforte e di

francese. Esaminò i miei disegni e fu lieta di avermi come allieva per poter

arricchire la mia formazione artistica. Mio padre era soddisfatto, sperava

che imparassi qualche cosa.

In quindici giorni dipinsi tre quadretti, sempre nature morte in un

portafrutta. Erano buoni quadri, suor Ester insegnava bene. La scuola era un

istituto di suore per ragazze, a pagamento (si pagava molto caro). Il difficile

era l'ambiente; dovevamo vestire un grembiule con le maniche lunghe,

calze lunghe, tutto in nero, in piena estate; sia all'entrata che all'uscita

dovevamo recitare le preghiere.

Dopo due settimane mi ero stancata del grembiule e di tutto il resto; le

nature morte mi erano venute tanto in odio che non ne dipinsi più in tutta la

mia vita. Così incominciai a marinare metodicamente la scuola. Uscivo al

pomeriggio con papà e ci lasciavamo all'angolo di via Trento; anziché

recarmi all'istituto, me ne andavo in bicicletta fino a Novara, distante una

ventina di chilometri, a prendere il gelato al caffè Coccia, il più grande e

rinomato della città. Il tempo dell'andata e del ritorno corrispondeva

esattamente alle quattro ore di scuola. Dopo quindici giorni di questi

sotterfugi, suor Ester interpellò mio padre, domandandogli se ero malata,

poiché non mi vedeva da due settimane. Papà mi chiese spiegazioni.

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Gli dissi che ero stanca del grembiule, delle calze, delle preghiere e

delle nature morte, non ci sarei più andata. Papà capì la situazione e mi

concesse pacificamente di concludere questa esperienza.

***

Quando, nel 1939, Mussolini venne a Vercelli, ci fu una grande

manifestazione, con tutta la città imbandierata. La piazza Mazzini, un

grande prato senza alberi sul quale si affacciava il balcone della Prefettura,

era affollatissima; la gente si accalcava come le acciughe nel barile. Tutte le

donne avevano il cappello di paglia delle mondine, con la scritta "viva il

duce". Vercelli era (come oggi) la capitale europea del riso, perciò

bisognava essere all'altezza della situazione e presentare le mondine, come

simbolo della provincia; gli uomini avevano il fez, Erano ridicoli. Mentre

monologavo a voce alta su questi argomenti, si avvicinò un giovane, coi

capelli rossi. Mi domandò perché imprecavo e non applaudivo. Risposi che

non mi importava nulla di quell'uomo e di tutta quella gente, che ritenevo

tutto una farsa. Era un poliziotto in borghese; mi prese per un braccio e mi

avviò verso la questura, ma dopo pochi passi mi lasciò andare, dicendomi :

- Va’ via. In fondo, anch'io non condivido tutto questo.

In quell'occasione, mio fratello Remo era stato tenuto in guardina per

tutto il giorno, come tanti altri antifascisti, quale misura precauzionale a

scanso di incidenti e attentati.

***

L'Italia entrò in guerra e Mussolini dispose la raccolta di oro, argento,

rame e ferro. Mamma nascose nel "baraccone" che serviva da ripostiglio

tutto il rame che possedevamo, padella, paiolo, mestolo, dichiarando di

non avere alcun oggetto da offrire. Quanto all'oro, spiegò che non portava

l'anello per via dell'artrite e non poteva consegnare nulla, che non ne

possedeva. In realtà aveva anelli, catenella, spilla, orecchini d'oro, che mi

regalò poi, per farli fondere e ricavarne le vere per me e mio marito, quando

ci sposammo.

In periodo di guerra si faceva tanta fame, tutti i generi alimentari erano

razionati. Avevamo duecento grammi di pane al giorno (trecento per chi

lavorava), cento grammi di riso o pasta e pochissimi altri generi; lasciavo

volentieri una parte del mio pane a papà, che lavorava. In quegli anni

mangiai grandi quantità di patate, cucinate in diversi modi: bollite, tagliate e

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condite con conserva di pomodoro e sale, oppure in insalata, con olio e

aceto. Il sale era scarso e difficilissimo da reperire; l'olio era di semi di

ravizzone, con un orribile e inspiegabile sapore di petrolio. Per integrare gli

insufficienti viveri razionati, si doveva ricorrere alla borsa nera spendendo

moltissimo. Anche se papà aveva una buona paga, i soldi non bastavano

mai.

In estate e in autunno, quasi tutti noi del rione andavamo a spigolare il

grano, il riso, il mais. Qualche volta non si spigolava soltanto, ma si

prelevava dai covoni o si mieteva direttamente. D'altra parte, era tutta roba

che gli agricoltori dovevano poi conferire all'ammasso, per il governo

fascista. Un giorno, con mia sorella, dopo aver riempito un sacco ciascuna

di pannocchie di mais, ci accingevamo a saltare la Sesietta, una roggia larga

più di due metri, che si trovava sulla via del nostro ritorno. Ma i sacchi

erano pesanti e il balzo non era tanto facile. Mia sorella lanciò il suo sacco

sull'altra riva e saltò; quando sentiti i cani del padrone che stavano

sopraggiungendo, mi buttai il sacco in spalla, e saltai al volo dall'altra parte,

certamente battendo un record.

Per il riscaldamento, si andava a tagliare alberi per fare legna da

ardere, oppure nelle discariche della stazione a raccogliere il carbone

scartato dalle locomotive. Mamma non usciva mai, era sofferente di artrite,

e dovevamo mantenere in casa un minimo di tepore.

***

Nel rione circolava una serie curiosa e divertente di ambulanti. Veniva

il carro che portava la biancheria, lenzuola, coperte, camicie. Di solito erano

confezionate in valigie che l'ambulante metteva in vendita, contrattando il

prezzo con il suo linguaggio colorito. Passavano l'arrotino con la sua mola a

pedale, il vetraio con i vetri in una specie di gerla che teneva sulle spalle,

l'ombrellaio che annunciava la sua professione con un allegro motivetto

musicale. C'era lo spazzacamino, di solito accompagnato da un bambino

che mi faceva tanta tristezza; forse prendeva con sé un bambino perché

poteva andare su per il camino con la scopa di ferro.

Quando venivano nel rione il teatro dei burattini o i saltimbanchi, per

noi ragazzi erano grandi avvenimenti. Erano i nostri svaghi.

***

Nel 1942 andai a lavorare per la prima volta, nella fabbrica che allora si

chiamava Chatillon. Ero nel turno dalle quattordici alle ventidue, nel reparto

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rocche (così si chiamavano le grandi macchine che avvolgevano il filato).

Dovevo badare a sette macchine. Nel reparto c'era un rumore d'inferno, così

assordante da spaccare i timpani. Il capo reparto era un fascista che le

donne chiamavano Cordini, ma io ignoravo che fosse un soprannome.

Quando ebbi bisogno di lui, già tutta fuori fase per quel rumore inconsueto,

andai a cercarlo; lo vidi in fondo al capannone, che stava per uscire. Lo

chiamai ad alta voce:

- Signor Cordini !

Lui mi si avvicinò e disse:

- Che vuoi, figlia di puttana ? Io non mi chiamo Cordini, chi ti ha detto

questo nome?

- Tutto il reparto vi chiama con questo nome. Ma il 'figlia di puttana' lo

tenete per voi, maleducato.

Potevo rispondere a quel modo perché non temevo di essere mobilitata.

A quei tempi, infatti, i lavoratori potevano essere arruolati a forza

nell'organizzazione Todt, soggetta ad una disciplina rigidissima. Ero esente

dalla mobilitazione perché munita di una certificazione medica attestante

l'inabilità al lavoro a causa del mio braccio. Tornai alle mie macchine e

all'ora di cena, preso il mio pacco del cibo, mi rinchiusi nel gabinetto fino

alle dieci, senza mangiare, quindi tornai a casa.

Trovai tutta la famiglia riunita in attesa, con mia madre agitatissima.

Era la prima volta che andavo a lavorare e sapevano che nel reparto delle

rocche il lavoro era un inferno. Mio padre mi domandò com'era andata.

Ero furibonda e anche un poco intimorita, non sapevo se mi avrebbero

fatta ritornare là dentro. Raccontai il fatto accadutomi e che avevo saltato la

cena.

- Non mi sarebbe andata giù. Mi ha chiamata 'figlia di puttana'. Ero

così arrabbiata che avrei voluto ucciderlo, ma non sapevo come fare, non ho

potuto.

- Non andarci più - sentenziò mio padre.

Mi licenziai, presentando la mia certificazione di invalidità. Così si

concluse il mio primo giorno di lavoro.

***

Ebbi un'altra esperienza. Giovanna ed io avevamo letto l'inserzione di

una piccola fabbrica tessile e andammo a vedere. Si diceva che questo

signore assumeva molte ragazze, anche sei o sette per volta, ma alla fine

della settimana non le pagava, sostenendo che erano state in prova e, non

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essendo risultate idonee, non avevano diritto alla paga. Insomma, ogni

settimana aveva sette-otto ragazze che lavoravano gratuitamente. Ci

consultammo:

- Beh, adesso vediamo come si comporta.

Infatti, fummo assunte e lavorammo per una settimana. Al sabato, il

proprietario non c'era e la caporeparto ci comunicò che non eravamo

idonee.

- Ritorneremo lunedì a prendere il grembiule e a parlare col padrone.

Lunedì il proprietario non era presente La capa confermò che, non

avendo superato la prova, non ci spettava alcuna paga.

- Va beh, andiamo a prendere i nostri grembiuli.

Quando fummo nel reparto, dove non c'era nessuno, proposi a

Giovanna di sabotare i motori di alcune macchine, infilando robusti

uncinetti di metallo nei fori di lubrificazione. Così il cavaliere si trovò

costretto a sostituire buona parte del suo macchinario.

***

Dopo quell'episodio, andai a lavorare alla riseria Bianchi, nel reparto in

cui si produceva il surrogato di caffè, rimanendovi per dieci mesi. Ero

addetta alla macinazione della liquirizia, uno degli ingredienti del surrogato.

Nel reparto eravamo circa una sessantina di operaie. Ogni tanto, qualche

ragazza mi chiedeva un po' di liquirizia ed io, di nascosto, glie ne lanciavo

qualche pezzetto. Un giorno sbagliai il lancio e la liquirizia finì sulla

scrivania del caporeparto, il signor Emilio, che tra l'altro era cugino del

padrone. Questi si infuriò e volle sapere chi era l'autore del lancio. Le

operaie non mi denunciarono. Ad un certo punto il capo minacciò di dare a

tutte venti soldi di multa se non si rivelava il nome della colpevole.

Preferivano subire la punizione piuttosto che denunciarmi. Una sola alzò la

mano e disse il mio nome. Si chiamava Giovanna (non la mia amica,

un'altra Giovanna). Subito le dissi che era una brutta spia e che l'avrei

aspettata fuori.

Quando uscimmo a mezzogiorno, non ascoltai le raccomandazioni

delle compagne, che mi dicevano di lasciare perdere, non le avrebbero più

parlato, era protetta. L'aspettai davanti alla fabbrica fino alla mezza, quando

uscì con gli impiegati, in bicicletta. La invitai a fermarsi per parlare con me,

ma lei rispose in malo modo. A quel punto l'afferrai per una spalla tirandola

giù dalla bicicletta. Naturalmente cadde ed io la presi a pugni, allo

stomaco. Nella mia foga - certamente eccessiva, pensandoci adesso - colpii

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anche un impiegato, intervenuto per dividerci, rompendogli gli occhiali. Mi

avviai verso casa, agitata ma soddisfatta.

Per qualche giorno Giovanna non venne a lavorare. Fui convocata dalla

polizia, dovevo recarmi in Questura alle cinque per un colloquio.

Mi presentai puntualmente, mi introdussero nell'ufficio del questore (o

capo della "mobile"), dottor Panvini, un uomo grassoccio, dal viso roseo,

con radi capelli grigi. Non aveva un'espressione tanto rassicurante. Vicino a

lui era seduta una signora bellissima, con folti capelli neri e ricci. Il

funzionario cominciò l'interrogatorio, chiedendomi le generalità:

- Dove abiti, che lavoro fai, dove lavori ?

Risposi a tutte le sue domande.

- E vai in giro a picchiare le bambine ?

- Ma io amo i bambini, ho una nipotina, ce ne sono nel mio caseggiato,

ma non ne ho mai picchiati.

La signora intervenne furibonda:

- Hai picchiato la mia bambina !

Il dottor Panvini cercò di calmarla, mentre io continuavo a non capire:

- Ma quale bambina e quando l'avrei picchiata? Come si chiama ?

Infine il funzionario sbottò:

- Si chiama Giovanna.

- Giovanna una bambina? - Ma Giovanna ha la mia stessa età, siamo

coetanee. Se è una bambina lei, allora sono una bambina anch'io.

Il dottore si rivolse alla signora incuriosito

- Sì - rispose lei. - Ma mia figlia è ancora una bambina.

- Se fosse una bambina, perché verrebbe a lavorare? Lavoravamo

insieme alla riseria Bianchi.

Il dottor Panvini calmò la signora, assicurandole che sarei stata punita.

Poi si rivolse a me, dicendomi di non picchiare più nessuno, perché la

"bambina" era a casa da cinque giorni con male allo stomaco ed ero anche

colpevole di avere rotto gli occhiali ad un impiegato.

Spiegai il motivo della colluttazione, avevo agito d'impulso perché la

ragazza aveva fatto la spia. Infine venni rilasciata e ripresi il lavoro.

Mi cambiarono reparto, nel magazzino della riseria c'erano anche delle

pezze di maglia felpata di cotone, che forse usavano per imballare. Una

operaia, con tre figli e il marito in guerra, ne aveva sottratto un pezzo,

evidentemente per farne delle camiciole per i suoi bambini. L'ammanco

venne scoperto e il capo reparto, signor Emilio, essendo io un po'

responsabile, pretese che denunciassi la compagna.

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Sapendo quale punizione avrebbe colpito quella donna tanto bisognosa,

non rivelai nulla, anche quando il capo mi disse che se non avessi fatto il

nome dell'autrice mi avrebbe licenziata. Così avvenne (Renata e Mariuccia

Caccina ricordano questo episodio ancora oggi).

***

Fra le tante mie attività, seguii anche un corso di difesa personale. Non

si devono confondere le condizioni di vita attuali con quelle di cinquant'anni

fa; le sole persone dalle quali ci si doveva difendere erano i fascisti. Mio

fratello Remo parlò con un suo amico pugile, Mario Sarasso, e questi mi

accolse come allieva, facendomi praticare il pugilato per una settimana nella

palestra Mazzini, allora Gil. (Gioventù italiana del littorio). Indossavo una

fascia molto spessa, strettamente legata sui seni, ma questi erano abbondanti

e certi colpi mi facevano piuttosto male. Non fu un lungo allenamento, ma

poteva bastare; anche col mio braccio invalido imparai a difendermi bene.

Le domeniche pomeriggio, in inverno, accompagnavo papà al caffè

Barolo, sul corso principale. Io andavo al cinema e quando ritornavo

passavo a riprenderlo; mi pagava la cioccolata calda e rincasavamo

insieme.

A mio padre piaceva vestirsi bene, era sempre elegante; aveva un

cappotto di panno nero, con il collo di pelliccia marrone, e le ghette grigie

(una volta di moda). Anche quando andava al lavoro, portava la camicia

bianca e sul lavoro indossava la tuta. Era un poco snob.

Non ho mai avuto la gioia di uscire con mamma. Le gambe non la

reggevano e il suo cuore era sempre in pericolo. Ma da lei scaturiva

un'immensa bontà. Anche da anziana, mamma non si vestiva mai in nero

come le donne della sua età, indossava vestiti chiari e portava sempre il

grembiule sui fianchi. Sovente, io e mio fratello ci divertivamo a

slacciarglielo tirando il capo di una fettuccia; si ribellava minacciandoci con

il mestolo.

***

Iniziai la scuola serale da privatista, dalla professoressa Wanda, una

brava insegnante. Eravamo in dieci tra ragazzi e ragazze, molto affiatati.

Avevo deciso di studiare da privatista perché se fossi andata alla scuola

pubblica mio padre avrebbe dovuto ancora scontrarsi con i fascisti. Inoltre,

non volevo essere chiamata "studente" e confusa con gli altri figli di papà

che inneggiavano alla guerra. Papà preferì pagare le lezioni private. Si

trattava di un corso di avviamento professionale industriale che in nove mesi

avrebbe sostituito i tre anni della scuola pubblica preparandomi per ottenere

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la licenza.

A scuola andavo bene, però commisi un grave errore, imparai a

fumare la mia prima sigaretta e continuai per molti anni.

Avevo una difficoltà nell'aritmetica scritta. Il mio insegnante di

matematica, professor Colombo, non riusciva a spiegarsi perché mi

bloccavo quando dovevo mettere per iscritto quanto avevo elaborato in

orale, peraltro esattamente e correttamente. Perciò nel mese di giugno fui

bocciata in matematica e rimandata per l'esame di riparazione a settembre.

***

Eravamo nel 1943. C'era la guerra e grandi masse di operai e

braccianti venivano obbligati a lavorare per la Todt. Mio padre, per non

essere mobilitato, si fece operare per una punta d'ernia inguinale, così potè

evitare di essere mandato in Germania. Infatti, anche se aveva

cinquantanove anni, era un autista soggetto al reclutamento.

Mio cognato Bruno era stato richiamato e si trovava nella caserma di

artiglieria di Asti. Anche mio fratello Remo era stato richiamato ed

assegnato alla Venaria di Torino, ma si rese irreperibile nel giugno-luglio,

quindi lo ricercavano come disertore. I carabinieri venivano quasi tutti i

giorni a cercarlo in casa nostra, ma la mamma e mia cognata dicevano

sempre che ignoravano dove fosse. Infatti di nascosto aveva già iniziato la

sua lotta antimilitarista e antifascista, con altri compagni comunisti.

Si giunse così all'armistizio dell'otto settembre, e molta gente l'accolse

come la fine di tanti drammi, ritenendo che la guerra fosse finalmente

terminata. La mia famiglia era al corrente di quanto sarebbe potuto

succedere, grazie ai contatti che manteneva con il Partito comunista

clandestino.

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CAPITOLO TERZO

Lotta clandestina

L'otto settembre 1943, quando si diffuse il proclama di armistizio, la

gente correva per le strade, cantava e gridava:

- Finalmente è finita !

Con mia sorella dalla finestra continuavamo ad avvertire:

- Badate che non è finita. Guardate che il pericolo deve ancora venire,

sarà una cosa tremenda, noi abbiamo i tedeschi in casa.

Ma nessuno ci ascoltava. Era finita la guerra, il sollievo e la gioia

erano così grandi che nessuna previsione pessimistica poteva essere

ascoltata. Non sapevano ancora del pericolo incombente, o non volevano

crederci.

Ormai i tedeschi invasori avevano occupato l'Italia, si erano

impossessati della nostra terra, che i fascisti avevano venduto. Ci fu qualche

comandante molto coscienzioso e intelligente il quale, quando seppe che i

tedeschi stavano per giungere, organizzò una difesa più o meno efficace;

qualcun altro smobilitò i soldati e li invitò a scappare a casa, a non farsi

prendere. Altri, invece, rinchiusero i militari nelle caserme e consegnarono

sia i soldati che le armi ai tedeschi. Questa sorte toccò anche a mio cognato

Bruno.

Quelli che riuscivano a sfuggire ai tedeschi erano accolti dalla

popolazione con sollecita solidarietà e vestiti con abiti borghesi per evitare

che venissero identificati e catturati.

I tedeschi avevano occupato le caserme e fatti prigionieri i soldati

italiani che rifiutavano di arruolarsi con le truppe germaniche. Caricavano

sui carri bestiame i nostri ragazzi e li portavano nei campi di prigionia in

Germania. I soldati erano stipati nei vagoni merci, dove di solito si trasporta

bestiame. Al posto di venti cavalli erano ammucchiati settanta-ottanta

militari, senza bere, senza mangiare, senza aria, perché i due finestrini non

erano sufficienti ad ossigenare l'interno per tante persone.

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Quando le tradotte entravano nella nostra stazione cercavo di essere

sempre presente, insieme a molti altri cittadini che andavano a vedere se

c'era qualche loro famigliare, parente o amico, oppure se qualcuno poteva

dare qualche notizia. Se non conoscevano nessuno, potevano sempre dare

una mano agli altri, porgere un po' d'acqua o un po' di frutta, magari

raccogliere qualche biglietto di quei poveri sventurati, anche soltanto un

indirizzo, un nome, per mandare qualche notizia ai loro famigliari, sfidando

le frequenti raffiche di mitra delle guardie nazi. Una volta raccolsi un

biglietto trovato per terra, calpestato, certamente lanciato dal finestrino da

uno dei militari deportati con la speranza che qualcuno lo vedesse. C'era un

nome, Luisa Vanini, e un indirizzo di Como (che ho dimenticato), e queste

brevi parole: "Mi portano in Germania. Aspettami. Ildebrando."

Spedii il piccolo messaggio all'interessata, accompagnandolo con un

mio breve scritto. Lei mi rispose, ringraziandomi; ci tenemmo in

corrispondenza per un paio d'anni. Finita la guerra mi recai a trovarla a

Como. Ci conoscemmo e ci abbracciammo. Era più anziana di me,

piccolina, un viso dolce, triste e sofferente. Ildebrando le aveva scritto un

paio di volte, poi fu silenzio, non fece più ritorno.

***

Un mattino piovoso e freddo, in stazione c'era una tradotta

proveniente da Torino, carica di prigionieri, ferma per qualche motivo. I

prigionieri erano assiepati davanti ai finestrini e ai portelloni. I tedeschi

erano scesi dalle loro vetture, ben lontani dai carri, e si sgranchivano le

gambe. Mi trovavo con un gruppo di cittadini proprio davanti al cancello

che dà sui giardini della stazione, di fronte ai vagoni dai quali si sporgevano

centinaia di mani che chiedevano aiuto.

Ci guardammo intorno: un tedesco era lontano un centinaio di metri.

Ben presto riuscimmo ad aprire il pesante portellone, con una rapida azione

che prese alla sprovvista gli aguzzini. Parecchi prigionieri riuscirono a

saltare giù, prima che cominciassero ad echeggiare le raffiche di mitra.

Fuggimmo tutti, disperdendoci nei dintorni e portandoci dietro i militari

liberati. Alla stazione andavo sempre con la bicicletta da uomo di mio

padre, perché occasioni come quella, di trasportare qualche fuggitivo, si

presentavano non poche volte, perciò la bici era provvidenziale.

Caricai uno dei militari sulla canna di questa e filai velocemente in

mezzo agli alberi dei giardini, verso il passaggio a livello che imboccava la

strada del mio rione, dove saremmo stati al sicuro. Nel bosco del Vola, sulla

riva della Sesia, un gruppo di antifascisti ci attendeva per organizzare i

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fuggitivi nei primi nuclei di partigiani, diretti in montagna, a combattere

contro i nazifascisti.

***

Con l'armistizio i tedeschi erano subentrati ai soldati italiani nella

custodia dei prigionieri alleati angloamericani. In particolare, alla cascina

Coltellino, presso l'Isola, era stato istituito un campo di lavoro agricolo per

i prigionieri australiani e inglesi. Gli avevano applicato un triangolo rosso

sulla camicia per distinguerli dagli altri militari. Uno dei compiti di noi

antifascisti nelle città e nei paesi era quello di far fuggire questi militari

stranieri. Non era facile, perché nei campi di lavoro ai quali erano assegnati

erano rigorosamente sorvegliati dai nazifascisti, ma azioni del genere

riuscirono spesso.

Qualche volta, gli "evasi" venivano rifugiati provvisoriamente

nell'Ospedale Maggiore di Vercelli, dove le infermiere avevano dato vita ad

un eccellente lavoro clandestino, che si concludeva, quando il ricovero non

era più sicuro, con il trasferimento degli ex prigionieri nel bosco del Vola.

A me era stato assegnato il compito di operare questi trasferimenti.

Dovevo andare in una certa stanza, conoscerli, farli uscire come se fossero

stati cittadini vercellesi qualsiasi, vestiti con abiti borghesi procurati dalla

organizzazione clandestina. Dall'ospedale, dovevo portarli al Vola.

Un giorno, come facevo da un paio di settimane, entrai

nell'accettazione dell'ospedale, accolta dalla Maria Fracassi Pastore,

infermiera addetta alle entrate e uscite clandestine, e indossai il camice e la

cuffietta da infermiera che mi forniva la sua collega Primina. Andai da

Giorgio Caldwel, l'australiano ventenne che visitavo quotidianamente,

perché malato grave, di reuma al cuore. Stavamo aspettando che migliorasse

un po' per portarlo via, ma si aggravava ogni giorno di più; non era

nemmeno sorvegliato, perché i tedeschi sapevano come noi che era

pericoloso muoverlo. Come ogni giorno, mi scongiurò di non lasciarlo

prendere dai tedeschi, assicurando che non sarebbe stato di peso, che

sarebbe guarito. Purtroppo era assolutamente impossibile trasportarlo e

dovemmo rinunciare a farlo evadere. Lo calmai con qualche pietosa bugia.

Morì pochi giorni dopo.

Incontrai due altre nostre infermiere, Irene Cafasso e Zaira, le quali,

preoccupate, mi dissero che era urgente portare via altri due australiani,

Alan, che nel suo paese era allevatore di bestiame, e Mac. Infatti, il giorno

dopo i tedeschi avrebbero operato una perquisizione e nessuno era in grado

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di dire che fine avrebbero fatto se li avessero trovati. In una minuscola

stanzetta incontrai i due, e mi venne un accidenti. I vestiti che indossavano

erano assolutamente inadatti per Alan, che era alto circa due metri:

pantaloni e camicia gli andavano ridicolmente corti e stretti, si vedeva

lontano un miglio che era uno straniero, e io lo dovevo condurre per le vie

della città ! Ero perplessa, incerta, ma la paura che all'indomani li potessero

requisire mi fece ben presto decidere.

Era essenziale assicurarsi che mi seguissero sempre, che non

parlassero mai e non compissero alcun gesto che potesse tradire la loro

identità. Uscimmo dall'ospedale e percorremmo un pezzo di strada senza

fare brutti incontri. Arrivati ai giardini di piazza del duomo, vidi avanzare

dalla mia sinistra tre tedeschi. I due australiani si bloccarono di colpo;

reagii immediatamente; fingendo di scherzare, presi i due sottobraccio e

ripresi a camminare come se niente fosse. I tedeschi erano di fianco e non

potevano notare lo strano abbigliamento di uno di noi, nè il nostro pallore.

Oltre il passaggio a livello dell'Isola, il mio rione, eravamo salvi.

Accompagnai i due nel bosco del Vola, dove iniziò la loro partecipazione

alla lotta partigiana con i vercellesi.

Tornata in ospedale, mi attendeva Teresa Roncarolo (Gina) con un altro

compito da assolvere. Le brave infermiere sapevano organizzare tutto.

Dovevo recarmi nella stanzetta dove si trovava un militare italiano, che

qualche giorno prima era fuggito da una tradotta mentre transitava sul ponte

della Sesia. Passando attraverso un finestrino rotto, era saltato sul ponte e da

lì si era buttato nel fiume; purtroppo, i tedeschi lo avevano visto e gli

avevano sparato, ferendolo alle gambe. Era stato portato all'ospedale e

operato a entrambe le ginocchia; ovviamente, non era in grado di

camminare.

Lo sorvegliava un militare austriaco che alla mezza andava a mangiare

in un'altra stanza coi suoi commilitoni. La guardia aveva quarantacinque

anni e si era confidata con la Gina, ricordando suo figlio militare che

assomigliava al ragazzo da lui piantonato. Non volli né dovevo sapere altro,

poiché era compito della brava infermiera organizzare il resto.

Aiutata da Gina, mi caricai il ferito in spalla e mi calai dalla finestra, al

piano rialzato del vecchio ospedale (erano quasi tre metri di dislivello). Col

mio fardello attraversai in fretta il cortile, entrai nei sotterranei della

camera mortuaria, dove mi attendeva un carretto con della biancheria sulla

quale adagiai il ferito. Il giovane venne portato a casa di qualcuno che lo

curò, con l'aiuto prezioso dei medici nostri collaboratori. Del piantone

austriaco non si seppe più nulla, non fu più visto in ospedale.

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Non seppi più nulla nemmeno del ragazzo che avevo portato in salvo,

finché, pochi anni or sono, ne riparlammo con Gina, l'infermiera, durante

l'incontro delle donne della Resistenza in occasione del cinquantenario della

Liberazione. La trasmissione della rubrica "I fatti vostri", grazie alla quale

un signore aveva potuto realizzare il desiderio di ritrovare due suoi

compagni di prigionia, mi spinse a tentare di rintracciare quel giovane,

conoscere la conclusione della sua storia e magari rivederlo. Scrissi a Frizzi

e, con mia somma sorpresa e soddisfazione, ricevetti la risposta, sotto forma

di un invito esplicito a partecipare alla trasmissione in diretta del 23 aprile

1993, negli studi della Rai-Tv a Roma.

Quando mi sedetti al tavolino e Frizzi cominciò ad interpellarmi, il

timore e l'imbarazzo che mi assillavano sparirono, mi concentrai nei ricordi

e risposi scioltamente alle domande. Fui applaudita, forse per la singolarità

dell'episodio. L'esito della trasmissione non fu quello sperato, forse quel

ragazzo non aveva visto il programma, o forse era scomparso, altrimenti

avrebbe raccolto il mio appello e si sarebbe fatto sentire. Ma mi sentii

onorata e commossa quando due giornali di Vercelli citarono la trasmissione

e mi intervistarono, rievocando ed esaltando l'episodio di una donna della

Resistenza vercellese.

***

Mio fratello Remo, già disertore, dopo l'otto settembre si impegnò nella

resistenza attiva contro i nazifascisti. Con lui altri compagni, Pietro Camana,

Bruno Bellotti, Nino Baltaro, Enrico e Giulio Casolaro. Furono i primi a

formare i nuclei di partigiani, con renitenti alla leva, fuggiaschi delle

caserme ed ex prigionieri alleati, che diedero poi vita al Battaglione

Vercelli.

La mia attività di antifascista a contatto coi comunisti, cominciata con

la circolazione dei libri clandestini e con l'organizzazione dei militari

fuggiaschi, continuava con altre iniziative.

Un giorno tenevo sulla bicicletta da uomo una cassa di fucili che mi

aveva consegnato il Giovannacci e stavo attraversando la piazza del duomo

per andare verso il Covo, un boschetto dove c'era un ballo estivo, e portarmi

sull'argine verso il bosco del Vola, quando vidi avanzare da piazza

d'Angennes un gruppo di quattro o cinque fascisti in divisa. Dai loro cenni

capii che probabilmemte intendevano rincorrermi per vedere che cosa

portavo, perché sospettavano la nostra attività, specialmente quella di mio

fratello. Allora mi misi a pedalare quanto potevo per distanziarli. Mi guardai

bene attorno e, visto che avevo "seminato" gli inseguitori, proseguii fino a

destinazione.

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Una delle prime formazioni partigiane.

Qui erano raccolti i militari scappati, e tra essi c'erano due dei

prigionieri australiani che avevamo fatto fuggire dalla cascina Coltellino.

Uno di loro faceva il cuoco e da borghese faceva anche il pugile; era alto

due metri e grosso in proporzione. Quando arrivai, lasciata giù la mia cassa

di fucili, mi trattennero per il pranzo (avevo anche una gran fame).

I viveri per questi militari che scappavano erano offerti da quasi tutta

la popolazione del rione Isola. Il ragionier Ferraris dava la marmellata, la

frutta, il miele; altri portavano galline, oche. Da mangiare non ne mancava,

perché tutti offrivano qualcosa, in una generosa gara di solidarietà, anche se

possedevano pochissimo. Attorno a una tavolata costruita con assi, con

alcuni piatti, un pentolone pieno di minestra e un altro grosso recipiente con

l'insalata, c'erano ventiquattro o venticinque uomini, diretti da Pietro

Camana, il futuro comandante Primula del Battaglione Vercelli.

Primula mi disse:

- Ora ti fermi a mangiare con noi.

Io felicissima, risposi: - Sì, bene, bene.

- Però mangi tutto quello che ti danno, sai ?

- Si, come no ? - Tutti sorrisero e io non riuscivo a capire.

Il prigioniero alleato mi porse un piatto, ci versò un mestolo di minestra

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e aggiunse l'insalata, nella quale aveva vuotato due vasetti di miele. Mi si

rivoltò lo stomaco solo a vedere. Tutto orgoglioso, l'australiano mi disse:

- Mangia.

Cercai di evitare quella tragedia dicendo che dovevo andare via. Mi

mise una mano sulla spalla rimettendomi a sedere e insistendo:

- No via, tu giovane, fame, prima devi mangiare.

Gli altri ridendo mi dissero:

- Sono tre giorni che noi mangiamo così. Adesso mangia tu, almeno

una volta.

Vuotai il piatto per metà poi lasciai tutto, pensando: "Adesso basta, si

arrabbi fin che vuole, io me ne vado."

***

Verso la fine di settembre arrivò una segnalazione da parte di un nostro

collaboratore che faceva parte della milizia. Mi disse di allontanarmi da casa

perché probabilmente sarebbero venuti a prendermi, sospettando la mia

attività antifascista, anche per avere informazioni su mio fratello Remo, che

risultava disertore.

Partii in treno e mi recai presso la famiglia di mia cognata Giulia a

Quiesa, nella provincia di Lucca. Ma non sospesi la mia attività. Prendevo il

treno al mattino e andavo a Lucca, vicino al distretto militare. Là si

aggiravano tanti giovani che non sapevano che fare, cercando di capire dove

andare anziché arruolarsi nelle forze armate repubblichine. In genere erano

meridionali e non potevano più ritornare a casa. Consigliavo loro come

potevano fare. A due ragazzi consegnai il mio anello, che aveva incise le

mie iniziali, e fornii l'indirizzo di casa mia; se andavano in Piemonte, dalle

mie parti, potevano consegnarlo ai miei famigliari, che li avrebbero aiutati.

Persi l'anello; quei ragazzi non sono mai arrivati a casa mia e non so che

fine abbiano fatto.

La sera ritornavo a Quiesa. Il mangiare era sempre scarso. Subii una

indigestione di castagnaccio e melone; ogni pomeriggio spendevo due lire

per un chilo e mezzo di castagnaccio e quattro meloni. Avevo una fame del

diavolo.

Dopo circa una settimana tornai a Vercelli per dare gli esami di

avviamento industriale, che erano stati rimandati di qualche giorno per

intervento del professor Colombo, il quale conosceva la mia attività e aveva

ottenuto il rinvio "per motivi di salute". Passai gli esami a Trino e fui

promossa, ottenendo il diploma.

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La mia lotta clandestina continuò nei gruppi che avevamo a Vercelli,

organizzati nel Fronte della Gioventù. Ne facevano parte studenti, operai,

artigiani; tra gli altri, c'erano Ugo Donati, Sergio Mauri, Alcide Brusa,

Giovanni Acquadro, Giovanna Michelone, Maria Scarparo, Rosanna

Mignone, Olga de Bianchi, Rosina Corradino e Francesca Ferraris.

Nell'inverno del 43- 44 uscivamo di sera e quando ci andava bene

ritornavamo con qualche pistola sotto il cappotto, ottenuta con diversi

espedienti. Nascondevamo le armi per mandarle poi in montagna, quando

venivano giù le staffette o pattuglie partigiane per prendere viveri, armi e

indumenti.

Una sera - faceva molto freddo - rientrai a casa dopo le dieci, ora del

coprifuoco. Mio padre mi sgridò aspramente. Cercai di giustificarmi:

- Ho fatto tardi, lo so. Scusa papà, non lo farò più.

In quella aprii il cappotto e mi caddero due pistole. Mio padre le

guardò e mi domandò da dove venivano, che cosa avevo fatto. Gli risposi:

- Papà, queste sono cose che non ti riguardano, non devi sapere niente,

altrimenti diventa pericoloso per te e per la mamma.

Mi diede della sciocca, facendomi presente che doveva sapere tutto,

per aiutarmi. Se io ero antifascista, dovevo a lui anche questo. Ci

spiegammo nei termini più esaurienti e da allora collaborammo, lui fu

sempre al corrente della mia attività.

Mia madre, col suo intuito materno, talvolta ci diceva:

- Non cercate di tacermi tante cose, mi fate più male che dirmele

apertamente, perché mi inducete a fare tante congetture, magari peggiori

della realtà, e starei ancora più male. Le lotte che ho fatto io prima di voi

non erano poi tanto diverse.

Aveva ragione. Intanto si aiutava pregando davanti all'effige della sua

"Madonnina di Lourdes", nella quale credeva sinceramente.

Sopra il letto, i miei genitori tenevano anche uno di quei ritratti di Gesù

di Nazareth con la tunica rossa. Ma i fascisti, durante una ennesima visita

alla ricerca di mio fratello, ce lo fecero togliere, perché, dicevano, era un...

socialista.

***

Un altro motivo di apprensione per la nostra famiglia era costituito

dalla situazione di Bruno, il marito di Egle. Con l'otto settembre era stato

internato in Germania, a Schwering, una città sul mar Baltico. Per sua

fortuna gli facevano fare il muratore, che era il suo mestiere. Gli

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mandavamo ogni mese i pacchi consentiti, con maglie, calze di lana e

tabacco, che poteva scambiare presso i suoi compagni con qualcosa da

mangiare. Nel pacco inserivamo anche molte gallette, confezionate da noi,

con farina comprata alla borsa nera, e cotte nel forno del nostro panettiere

Clemente, il quale, col regime fascista, per simili collaborazioni rischiava

parecchio.

Cartolina spedita da mio cognato Bruno Gentile, dal Lager numero E 823, in Germania.

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Un giorno, con due compagni, compimmo una delle nostre più

importanti azioni di sabotaggio. Si doveva cercare con qualsiasi mezzo di

ritardare il transito di un treno di tedeschi che doveva arrivare sulla linea

Casale-Vercelli, perché il convoglio avrebbe ostacolato una azione che i

partigiani dovevano condurre. Dovevamo ostacolare il treno per almeno tre

o quattro ore. Siccome le rotaie della ferrovia erano fissate alle traversine e

tra loro con morsetti e grossi bulloni, noi ci eravamo muniti di grosse chiavi

adatte alla bisogna, fatte nell'officina di Acquadro, un nostro compagno.

Tra Vercelli e Asigliano, togliemmo i bulloni a due rotaie, una da una parte

e una dall'altra, lasciandole al loro posto affinché le vedette dal treno non

notassero il sabotaggio. La locomotiva, il tender e le due prime carrozze

andarono fuori binario e il treno tedesco rimase fermo per diverse ore.

Con il ciclostile nascosto nella casa di Ugo Donati, facevamo volantini

che, alla sera, andavamo ad affiggere agli alberi e ai muri. Ad esempio, un

ragazzo e una ragazza fingevano di fare l'amore appoggiandosi al muro o ad

un albero, e l'altro, col pentolino della colla o con le puntine da disegno,

affiggeva i manifestini dei partigiani, che richiamavano l'attenzione della

popolazione e incitavano alla lotta contro i fascisti e i tedeschi. Nei

cinematografi, al Verdi, al Civico e al Viotti, lanciavamo di nascosto piccoli

volantini e restavamo a sedere come se niente fosse.

Cercavamo collegamenti con altre persone disposte ad aiutare i

partigiani e le formazioni dei GAP (Gruppi di azione patriottica) e delle

SAP (Squadre d'azione partigiane). Mi incontravo spesso con le ragazze del

mio gruppo, sulle panchine di piazza del Tribunale, e portavo volantini con

direttive e parole d'ordine da far circolare in fabbrica.

Si facevano diverse riunioni clandestine, alle quali partecipavano

Guido Sola Titetto (poi sindaco di Vercelli), Angelo Cavalli, Maria

Scarparo, Giovanna Michelone e Olga De Bianchi. Alcune di queste

riunioni si tenevano nel cimitero di Vercelli, accanto ad una cappella a

quattro colonne con una bellissima e alta scalinata, sopra la quale si

appostava una vedetta, pronta a dare l'allarme se si fosse avvicinato

qualcuno. Era un posto sicuro, molto appropriato per incontrarci, per

discutere, per avere informazioni e direttive sulle lotte e le iniziative da

sviluppare, per avere notizie dei compagni, dei partigiani e degli amici che

combattevano in montagna.

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CAPITOLO QUARTO

Resistenza sulla Serra

Una domenica, il 28 maggio 1944, suonò l'allarme e la gente scappò

verso la campagna. Si udiva un lontano rombo di aerei che si avvicinava,

capivamo che erano bombardieri carichi e molto numerosi, non si trattava

del solito Pippo. Pippo era un aereo solitario che quasi tutte le sere veniva a

mitragliare o bombardare dove vedeva qualche luce. Gli aerei che

sentivamo avvicinarsi facevano un rumore assordante e ben presto furono

sopra di noi. Vicino a casa nostra c'erano molti bersagli da bombardare: la

centrale elettrica dell'Ovesticino, la stazione ferroviaria, i due ponti sulla

Sesia, la Chatillon e le altre grosse fabbriche.

Cominciarono a cadere le bombe, a tappeto, ma mancarono gli obiettivi

più importanti. Colpirono il campo dove eravamo noi, presso la villa

Guarneri, e, di sbieco, il nord di Vercelli, distruggendo la casa di Rosanna

Mignone, i magazzini generali dietro la Pettinatura Lane e altri edifici di

abitazioni civili, uccidendo molte persone, senza toccare o scalfire le grandi

fabbriche.

Dopo quel massacrante e indiscriminato bombardamento, la mia

famiglia e poche altre furono messe al corrente delle misure precauzionali

da prendere. Tramite la nostra organizzazione clandestina e il collegamento

con i comandi di zona partigiani, ci comunicarono che se suonava l'allarme

durante il giorno, non ci sarebbe stato alcun pericolo, ma se le sirene

suonavano dopo le ore diciotto si doveva scappare subito nei rifugi o in

campagna, perché sarebbe avvenuta l'incursione.

***

Nel settembre 1944, durante l'attività clandestina, Mario, il nostro

collaboratore nella Guardia nazionale repubblicana, ci avvisò, tramite sua

moglie, che ero stata segnalata come attivista collaboratrice dei partigiani e

che sarebbero venuti ad arrestarci, io e mio padre, verso le quattro. Papà

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era andato a trovare i nostri famigliari, sfollati nella cascina Casone. In casa

tenevo dei volantini, già pronti per la distribuzione della sera, nascosti

dietro la lamiera del mio letto; li affidai a mia cugina Tin, che abitava

accanto me, raccomandandole di consegnarli alla Rosanna e dirle che

dovevo andarmene, che continuassero loro il lavoro clandestino. Rosanna

avrebbe riferito agli altri compagni, anche per la redistribuzione dei compiti.

Non sapendo quando saremmo ritornati, presi da casa quello che

ritenevo utile e necessario; le cose più preziose le consegnai alla Tin e ai

coniugi Gentile, suoceri di mia sorella.

I fascisti arrivarono con un quarto d'ora di anticipo e per poco non mi

sorpresero. Uscii di casa scavalcando la ringhiera del ballatoio e calandomi

sul tetto del gabinetto al pianterreno. Inforcai la bicicletta che tenevo in

cortile e scappai attraverso l'orto del Carlin Rosso (l'ortolano che ci dava il

ribes quando ero piccola), raggiungendo le donne alla cascina. Da lì, papà

ed io salutammo la mamma, preoccupata per la nostra sorte, prelevammo

qualcosa per cambiarci, un vestito per me, un paio di pantaloni e una giacca

per papà e partimmo in bicicletta.

Percorremmo la strada dal Canadà per Biella. A Busonengo lasciammo

la provinciale, seguendo una strada di campagna fino a Casanova Elvo e

procedendo per Carisio, fino al bivio che portava a San Damiano. Lì c'era

mio fratello, che ricopriva l'incarico di intendente della V divisione

Garibaldi; insieme con Giovanni Cavagliano e Rita Rosso operavano in

quella zona per procurare viveri ai partigiani garibaldini.

Quando giungemmo a San Damiano era già notte. Fummo ospitati nella

cascina della marchesa di Masino e dormimmo sui sacchi del riso. Si

sentivano piccoli rumori e squittii; qualcosa di morbido mi passò sul viso e,

palpando con la mano, sentii che era un topo molto grosso. Non avevo paura

dei topi ma lo dissi ugualmente a papà, il quale replicò:

- Guarda che i topi non ci fanno tanto male, tutt'al più mordono; i

fascisti invece ci ammazzano. E' meglio un topo. Dormi, ché domani

dobbiamo pedalare un bel po'.

Il giorno dopo riprendemmo la strada, accompagnati da mio fratello

Remo, noi in bicicletta e lui con la "doma" (piccolo calesse basso, aperto,

trainato da un cavallo). Ci guidò fino al castello di Masino, proprietà dei

marchesi di Masino e conti di Valperga, persone gentili e affabili. Ci

ospitarono nel cosiddetto palazzo, a fianco del castello, consistente in

diverse camere riservate al personale addetto ai servizi e ai cavalli (ne

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possedevano molti, anche di razza, e un ricco parco di carrozze). Ci

abitavano anche Domenico e Domenica, marito e moglie; lui autista e lei

guardarobiera del castello.

Nel castello erano rifugiate circa una trentina di persone, in genere

giovani renitenti alla leva militare ed ebrei, tutti nobili o ricchi. I marchesi

avevano un figlio quattordicenne, Luigino, e la governante, Carla Novellis.

Per la gente del luogo noi eravamo sfollati da Torino, città soggetta ai

bombardamenti.

Masino era un piccolissimo comune del Canavese con circa centotrenta

abitanti, senza gioventù, soltanto anziani. Il castello era situato su una altura

tra Vestignè e Caravino, da cui si snodavano strade verso Borgomasino,

Moncrivello, Cigliano e Ivrea; era il punto di partenza per tante

destinazioni, quindi logisticamente e strategicamente molto importante per

le formazioni partigiane. Noi "ospiti" lo utilizzavamo come punto di

riferimento delle pattuglie che scendevano in pianura per missioni di ogni

tipo, attacchi a posti di blocco e caserme, azioni di sabotaggio alle linee di

comunicazione. Noi assicuravamo ai partigiani rifornimenti e alloggio.

Dopo il nostro arrivo al castello, mio fratello ci portò anche mamma,

Egle e la nipotina Nerina. Disse che i fascisti avevano incarcerato Giulia,

sua moglie, tenendola in ostaggio per costringerla a rivelare dove si trovava

il marito e con quali formazioni partigiane operava. Quando la prelevarono

dall'abitazione si trovava con la bambina, Mirella di 7 anni; l'avrebbero

lasciata sola in casa se non fosse stata accolta da una zia.

In carcere con Giulia c'era la madre dei due fratelli partigiani Attilio e

Giovanni Tempia (nomi di battaglia Bandiera I e II), poi trucidati dai

nazifascisti.

Giulia venne poi rilasciata in seguito ad una specie di scambio di

prigionieri tra le parti avverse e venne ospitata con la figlia a San Damiano,

nel Cascinotto della Grangia.

***

Pochi giorni dopo sentimmo in lontananza una furiosa sparatoria,

proveniente da sud, oltre Borgomasino. Non sapevamo che cosa succedeva,

rimanemmo all'erta. Verso sera arrivarono da noi una quarantina di uomini,

tra i quali riconobbi subito il loro comandante Primula con il figlio

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quattordicenne, Tino, che aveva una guancia tutta gonfia causata da un dente

cariato; poi Fulmine, Carnera, Saetta ed altri partigiani di Vercelli.

La formazione proveniva da Maglione, che aveva costituito la sua base

per una lunga serie di azioni nella zona, comprendente diversi centri come

Cigliano, Carisio, Santhià, nonché l'autostrada. I garibaldini avevano

attaccato e disarmato presidi fascisti e tedeschi, teso imboscate agli

automezzi nemici, prelevato armi, esplosivi e anche catturato qualche

tedesco per farne scambio con prigionieri partigiani.

I comandi tedeschi non avevano nessuna stima nè considerazione per i

loro alleati fascisti, tanto è vero che se trattavano con noi per lo scambio di

prigionieri accettavano soltanto tedeschi in cambio di partigiani, i fascisti

per loro non avevano alcun valore.

Poi Maglione era stata accerchiata dalle forze germaniche, dotate dei

micidiali mortai da 81 millimetri. Il distaccamento partigiano aveva

contrattaccato con una furiosa sparatoria, riuscendo a sfondare

l'accerchiamento ed a portarsi in salvo verso la collina, raggiungendo

Masino Castello e noi, felici di poter prestare loro i primi soccorsi.

Col distaccamento c'era pure una giovane donna, un'ostetrica chiamata

Ferida, che non si sentiva tanto bene e non era in grado di proseguire a piedi

con il reparto, fino a Sala. Primula me l'affidò, raccomandandomi di non

perderla di vista, poiché era incerto sulla sua affidabilità; quando si fosse

ristabilita, avrei dovuto accompagnarla al comando di Sala. Partimmo

qualche giorno dopo, dandoci il cambio a pedalare sull'unica bicicletta che

avevamo, per tutti i trenta chilometri circa del percorso. Tutto si risolse per

il meglio (Ferida diventò in seguito la compagna di un capo pattuglia

garibaldino).

***

Arrivata a Sala, non ero solamente stanca, ma anche affamata. Mi recai

nell'orto della cascinetta di Speranza, nel centro del paese, dove vidi dei

pomodorini, molto piccoli, a grappoli, sembravano grappoli d'uva. Li

mangiai tutti (e pensare che a casa non mi piacevano, ma in questa

situazione contingente tutto mi andava bene). Speranza, recandosi nell'orto e

non vedendo più nemmeno un pomodoro, si rivolse a Primula. Nel

frattempo, quei pomodori avevano fatto effetto sul mio stomaco, vuoto da

tanto tempo, con una dissenteria che non smetteva più. Perciò non avevo

potuto udire che il comandante aveva messo tutto il reparto in punizione,

tenendolo senza rancio fino alla scoperta di colui che aveva fatto man bassa

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nell'orto.

Quando rientrai nel cortile per cercare Pina e dirle che stavo male, vidi

che tutti stavano attorno al calderone del rancio e nessuno mangiava. Ne

chiesi il motivo e mi spiegarono quanto era successo, lasciandomi

costernata: non credevo di aver commesso uno sbaglio così grande. Subito

confessai che ero stata io a mangiare i pomodori e che ero sofferente.

Speranza mi rimproverò: se le avessi chiesto un pezzo di pane, come le altre

volte, non sarebbe successo niente. Fiamma, tornando da una visita e saputo

della mia indisposizione, mi somministrò un farmaco adatto per il mio caso;

Primula e Pina furono molto comprensivi, ma dovetti sorbirmi le

canzonature dei ragazzi per la mia "indisposizione". Tuttavia, da allora

mangio volentieri i tumatic, come si dice da quelle parti.

Quella era proprio una giornata no, e anche la notte. Dormivo in una

stanzetta sopra la stalla, con Pina e Renata, quando queste si misero ad

urlare a squarciagola, i visi terrorizzati volti in alto a guardare verso la

parete. Scorsi sopra il filo della luce, fermo, sembrava seduto, un topolino

grosso come il pollice, la causa degli urli terrificanti delle mie compagne.

Mi fecero alzare e staccare il letto dalla parete, per paura che il topo ci

cadesse addosso. Mentre spostavo quel pesante trabiccolo di legno, sulla

scala, che dalla stalla sottostante portava alla nostra stanza attraverso una

botola, comparve Primula, seguito da qualche altro partigiano, con il mitra

spianato. Le urla di Pina e Renata avevano allarmato tutti e d'un balzo erano

corsi a vedere di che cosa si trattava. Quando tutto fu chiarito, Primula si

irritò seriamente minacciando moglie e figlia perché avevano svegliato gli

uomini già stanchi del pesante servizio.

***

Tutti i partigiani avevano un nome di battaglia, ovviamente per evitare

di essere identificati dal nemico, che avrebbe potuto perseguitare i familiari

rimasti a casa. Io assunsi il nome di "Bruna".

Le nostre forze garibaldine presidiavano le basi della zona tra

Mongrando, Sala e Zubiena. Il battaglione Vercelli, trasformato poi in 182.a

brigata, era composto quasi tutto da vercellesi; c'erano anche altre

formazioni, i distaccamenti della 75.a e della 76.a, di cui era commissario

politico il giovane Saverio Tutino (Nerio), a quei tempi grande ammiratore

di Primula, ora noto giornalista e scrittore.

Primula era il comandante del battaglione Vercelli, che faceva parte

della V divisione, comandante Piero Germano (Gandhi) e commissario

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Io, in divisa

Da partigiana garibaldina.

(Fotocronisti Baita)

politico Nino Baltaro (Nino). Il comando di zona era composto da

Quinto Antonietti (Quinto), Silvio Ortona (Lungo), Amore Bruno Salza

(Mastrilli), Anello Poma (Italo), Elvo Tempia (Gim), Walter Carasso (Tito),

Ugo Anselmo (Bruno). Inoltre c'erano i medici Francesco Ansaldi (Ceck),

Anna Marengo (Fiamma), entrambi dell'ospedale di Vercelli, il dottor

Spirito, forse di Biella, e Carlo Savino (Nestore).

Nel vicino territorio canavesano operavano altre formazioni partigiane

al co

mando di "Diavolo Rosso", molto aggressivo.

Avevamo alle spalle le Alpi, un posto strategicamente molto valido,

perché quando c'erano incursioni e rastrellamenti nazifascisti le montagne

ci facevano da scudo contro gli assalitori e facilitavano la difesa. La Serra

era piena di boschi, i tedeschi e fascisti non vi si inoltravano tanto volentieri,

perché erano posti da lupi, dove era facile tendere imboscate.

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Il mio compito consisteva nel mantenere contatti con le donne della

zona, prestare attività di infermiera, formare i "gruppi di difesa della

donna", avvicinare collaboratrici, attiviste, sarte, magliaie e portaordini.

Spesso scendevo a Bornasco, nel nostro magazzino, a prelevare

scarponi, maglioni e altri indumenti per chi ne aveva bisogno. Dovevo

sempre discutere con Tarzan, il magazziniere, che era scrupoloso, tirchio

come pochi. Anche di fronte alle richieste firmate dai comandanti, aveva

sempre qualcosa da ridire. Quando arrivai a Sala, Primula mi guardò le

calzature e si scandalizzò. Avevo scarpe di tela grigia (comunissime in

tempo di guerra), con la suola di cartone pressato così consumata che

perdeva i pezzi. Mi scrisse la richiesta e andai da Tarzan. Questi si arrabbiò

perché avevo il piede piccolo e lui disponeva solo di scarpe grandi.

Remo mi consegnò una piccola pistola, calibro 6,35. Le parole che mi

disse in quell'occasione - ribadite anche dal comandante Primula - le

ricorderò sempre:

- Speriamo che tu non la debba mai usare. Se dovesse succedere

qualcosa di grave, l'ultima pallottola tienila per te. Non lasciarti prendere

viva.

Per fortuna non ebbi modo di usare quella pistola.

Un giorno chiesi a Primula se potevo formare un gruppo di azione

femminile. Primula non respinse l'idea, ma disse che dovevamo procurarci

le armi, perché quelle che avevano i partigiani se le erano guadagnate con

tanti sacrifici. Inoltre, se durante le azioni qualcuna del nostro gruppo fosse

rimasta uccisa avrei dovuto assumerne la responsabilità e subirne le

conseguenze. Rinunciai, perché sarebbe stato impossibile garantire il

rispetto di siffatte condizioni, anche se avevo l'entusiastico consenso di

Alba, Marta, Carla, Stella, Gioia, Mammola, Amata, decise anche loro a

formare un gruppo di donne combattenti. Era un compito troppo arduo e non

ci sentimmo di esaudire quel desiderio che ci entusiasmava.

Eravamo riunite nel salone della scuola di Sala, quando Gandhi venne a

dirci che era arrivata la figlia di Mauro Scoccimarro; aspettavamo di

conoscerla, sperando che ci portasse nuove esperienze, che stesse con noi e

ci aiutasse magari a formare quel benedetto gruppo armato che tanto

desideravamo. Sapevamo del padre, comunista, grande combattente

antifascista, e speravamo che la figlia fosse della sua stoffa. Quando ce la

presentarono restammo un po' deluse: non era ome noi, della montagna,

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era tutta... stile, una vera cittadina. Non ci furono scambi di esperienze

(forse era venuta per portare qualche messaggio al comando), con noi si

pose su di un piano così staccato che sembrava quasi volesse darci la

caramella (non fu solo la mia impressione, ma di tutto il gruppo). Ci

guardammo in viso tutte quante e le domandammo se si sarebbe fermata per

molto. Alla sua risposta negativa tirammo un sospiro di sollievo. Partì

presto e fu meglio così.

***

Un giorno arrivò trafelata la staffetta Lia, della 75.a brigata, dicendo che

c'era stato un attacco e i feriti dovevano essere trasportati subito nel nostro

piccolo ospedale, che si trovava nella villa Rivetti, tra Zubiena e Sala, in

territorio presidiato dalle nostre formazioni. L'ospedaletto, allestito per i casi

di emergenza, disponeva di quattro stanzette con due lettini ciascuna e

relative attrezzature, nonchè di un locale arredato come una vera e propria

sala operatoria, compreso un lampadario; purtroppo, il pavimento era di

legno, difficile da disinfettare. Quasi tutto il materiale era stato fornito dai

medici dell'ospedale di Vercelli e dalle nostre bravissime infermiere, Teresa

Roncarolo, Maria Fracassi, Carmela Pertusi, Maria Bolla, Edmea Bisio,

Firmina Casalino, Maria Caldera, suor Teresita, suor Teofila, Rosanna

Ansaldi, una Marina del Pronto soccorso, il dottor Gennaro e tanti altri di

cui non ricordo il nome. La loro opera fu tanto preziosa, ammirevole e

insostituibile, nei drammatici giorni dell'otto settembre e per tutto il periodo

della lotta di liberazione, che dovremmo sempre ricordarla.

I feriti erano Sicula, Pompeo e Renè. Sicula aveva preso una pallottola

nell'inguine, Pompeo era stato colpito alla spalla e Renè ferito da un

proiettile che gli aveva trapassato un polmone.

Io avevo il compito di aiutare Fiamma e Ceck. I tre feriti vennero operati

e curati con esito positivo e rimasero ricoverati il tempo strettamente

indispensabile a raggiungere l'autosufficienza: non c'era proprio tempo per

la convalescenza.

***

Ogni tanto mi torna in mente la curiosa faccenda di Renè (Rinaldo

Starda, che abitava nel mio rione). Il ragazzo, che si teneva molto curato,

mi chiese di fargli la barba. Avevamo un solo rasoio di sicurezza con una

sola lametta molto usata, perfino un po' arrugginita, era praticamente

impossibile raderlo senza tagliuzzarlo. Glielo dissi. Ma lui insistette: pur

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Il partigiano

Rinaldo Starda ( Renè),

capo pattuglia.

essendo immobilizzato a letto voleva essere sbarbato e pettinato.

- Non importa - diceva, - tu prova. Non pensarci se mi tagli, io non

voglio stare con la barba lunga.

Una volta sbarbato, tutto un po' tagliuzzato che mi faceva una gran pena,

si guardò allo specchio e disse:

- Va benissimo.

Poi chiese la brillantina, perché quando era a casa si curava bene la

persona proprio come esigeva la moda. Lo informai che di brillantina non ce

n'era. Lui disse di provare a prendere un po' di grasso dal mozzo della ruota

di un carro.

- Ma guarda che puzza, è cattivo.

- Non importa, va bene così, vedrai che capelli brillanti mi verranno.

Prelevai un po' di grasso da un mozzo, quello meno sporco, ma tuttavia

gialliccio e puzzolente, e glie lo spalmai sui capelli. Feci del mio meglio,

alla fine aveva i capelli belli lucidi e lisci, sembravano stirati; però

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puzzavano. Tutti lo deridevano. Fu una delle note allegre di quei giorni.

***

Ho ritrovato Renè in questi giorni (dicembre 1995, nel cinquantenario

della Liberazione) e insieme abbiamo rievocato questo episodio. Ne ho

approfittato per farmi rilasciare una testimonianza più completa sulle sue

vicende nel movimento partigiano. Eccola:

"Sono della classe 1923 e abitavo nel rione Isola, in via Spagna, nello

stesso caseggiato di Nino Zavattaro. Con lui ho cominciato la mia

partecipazione alla lotta antifascista. L'8 settembre ero militare

all'aeroporto di Cameri e riuscii a tornare a casa. C'era già il coprifuoco e

tutte le limitazioni di quel periodo; ci riunivamo all'osteria del Vintebbio,

io, il Lodo Novilio e tutti gli amici e si parlava di andare sù coi partigiani.

Così stabilimmo rapporti con un gappista, certo Guasco, che operava

dalle nostre parti, concordando che lui ci avrebbe fatto strada. Partimmo

in diversi, tra cui il Lodo e Gigi Crepaldi. Costeggiando la Sesia, passando

dalle parti di Sandigliano, ci portammo verso la Valsesia. Il nostro primo

incontro coi partigiani avvenne a Gattinara, dove c'era il comandante

Pesgu, che ci destinò ad una formazione dalle parti di Rima. Era l'inizio

del l944. Il periodo invernale lo passammo poi nella zona di Sordevolo. Poi

avvenne quel famoso rastrellamento, in seguito al quale furono disfatti tutti

i distaccamenti. Ci dissero:

" - Cercate di nascondervi, ci ritroveremo dopo.

"Tornammo giù e rimanemmo a casa per un po' di tempo, finché

organizzammo quella famosa azione alla caserma della Guardia di finanza,

Nino Zavattaro, il Lodo (Black), Guido De Bianchi ed io. Prelevammo

numerosi moschetti, che caricammo su un triciclo e sotterrammo vicino a

casa nostra, presso il muro di cinta dell'Ovesticino (l'attuale centrale Enel

di via Trento). Con la collaborazione del sappista Guasco, ci segnalarono

l'arrivo di una pattuglia della 75.a brigata e allora dissotterrammo le armi

e le portammo al Comando della brigata sul Mombarone, risalendo il

fiume Sesia e transitando per San Damiano. Quì c'era il comandante

Mastrilli e fummo inquadrati nel distaccamento del Tigre. Visto il successo

della nostra azione, ci promossero, io comandante di pattuglia e Lodo vice

comandante.

"Rimanemmo insieme per un certo periodo di tempo, finché arrivò il

rastrellamento e il nostro distaccamento venne attaccato a Muzzano.

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I nostri avevano una bombarda che non funzionò e rimasero bloccati

fino al giorno dopo, perché si trovavano proprio di fronte al presidio

nazifascista. Noi risalimmo per congiungerci al distaccamento e

rimanemmo lì ad aspettare di poter entrare. Il giorno dopo, sabato, 11

ottobre o giù di lì, del 1944, stavano arrivando i tedeschi, un centinaio e

più. Il comandante mi mandò giù con la mia pattuglia (Sicula, Pompeo,

Lodo e un altro) a vedere se per caso i nazi stavano per venire su. Noi

scendemmo; nessuno in paese ci avvisò che stavano arrivando e ci

accerchiarono proprio dove c'è il santuario di Graglia; noi chiusi in mezzo

e loro che sparavano un'iraddidio. Resistemmo, scaricando le armi finché

finimmo le munizioni. Poi intervenne il distaccamento che ci era vicino; si

misero a sparare anche loro e poi ci raccolsero e ci portarono a Netro.

"Noi tre feriti (io, Sicula e Pompeo) fummo accolti dalle donne del

paese, che ci prestarono le prime cure, ci ospitarono e ci nascosero. Al

mattino, ci caricarono su un'ambulanza della Croce Rossa - o almeno era

un furgone proprio come la Croce Rossa - e ci portarono nell'ospedaletto di

Sala, cioè lì nei dintorni. Il giorno dopo arrivarono la dottoressa Marengo

(Fiamma), il dottor Ansaldi (Ceck) e le infermiere: già conoscevo te,

Bianca, poiché abitavamo vicino, e la figlia del Primula, Renata; c'era

anche una 'Ferida', che non so come si chiamasse. Mi visitarono e non si

capiva se c'erano due pallottole o una. Ad ogni modo la Marengo disse che

era stato leso anche il polmone, infatti avevo avuto uno sbocco di sangue.

Mi curarono alla bell'e meglio, come si poteva, e poi Ceck mi disse:

"- Quando sarai a Vercelli, se avrai la possibilità di conoscere qualcuno

al Distretto che ti faccia un documento fasullo, dovresti andare al

Dispensario, dalla Ferrero, e farti fare una radiografia per sapere quali

sono realmente le tue condizioni.

"Infatti per parecchi giorni ebbi un po' di febbre. Come hai scritto tu, in

effetti ho voluto che tu mi sbarbassi eccetera; a queste cose io ci tenevo.

"Poi ritornai a Graglia, dove c'erano sempre Tigre, il comandante del

distaccamento, e il vice comandante Marino. Mi mandarono presso una

famiglia che mi curò e mi assistette come si doveva. Poi, quando stetti

meglio, il Comando di distaccamento, preoccupato per la sicurezza mia e

dei compagni (forse pensavano che stando al paese potevo essere indotto a

fare la spia anche senza volerlo) e anche perché c'era un grande bisogno

di uomini, mi mandò a chiamare. Tutta la 75.a brigata e la divisione

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erano di stanza vicino a Graglia, e quì trovai Ricu Casolaro, che mi

disse:

"- Perché non vieni alla 182.a brigata ?

"Così ne parlò al Comando, che mi autorizzò ad andare con loro. Mi

misero nel distaccamento comandato da Prete (Bruno Bellotti). Da lì ci

portavamo a Zimone, o a San Sudario e giù in pianura, facendo le cose che

si facevano allora, cioè combattere i nazifascisti.

"Poi, quando venne la Liberazione, il nostro reparto si fermò di stanza

ad Olcenengo, perché c'era quella famosa colonna tedesca che aveva fatto

una strage a Santhià.

"Ecco, la mia storia sarebbe questa."

***

A volte, al mattino, ero assalita da una struggente malinconia. Pensavo

ai pericoli e alle preoccupazioni che gravavano sui miei cari lontani, a tutte

quelle mamme che avevano i figli chissà dove. Sentivo la nostalgia della

mia casa, delle piccole e grandi cose lasciate; nell' insieme mi invadeva la

preoccupazione per i compagni che in pianura lottavano affrontando rischi

maggiori dei nostri (noi avevamo le montagne per rifugiarci e le armi per

difenderci, loro no). Mi domandavo : "Quando finirà ?".

Per fortuna, fra tante brutte cose c'era la natura che un poco mitigava la

mia tristezza, con i suoi panorami ricchi di paesaggi dolcissimi, il sole che al

suo sorgere formava contrasti stupendi di luci, tra le foglie bagnate di

rugiada che sembravano pagliuzze d'oro, impreziosite com'erano

dall'ingiallire dell'autunno. In una molteplicità di mutazioni, i colori

variavano a seconda del tipo di albero, dal verde intenso al giallo pallido

all'arancio all'amaranto, enormi mazzi di fiori nella maestosità delle Prealpi.

Sembravano dire: "Uomini, guardateci. Come potete pensare a sopprimere,

ad uccidere, quando la nostra bellezza inebriante, il frusciare del vento tra le

nostre foglie sembrano musica che invita a una danza universale di pace e di

amore ? Uomo stolto, non fare piangere la natura !"

A volte indugiavo tra simili pensieri quando i miei occhi miravano

quelle bellezze e si inumidivano.

***

Nel nostro piccolo ospedale avvenne un altro episodio, questa volta

finito tragicamente.

Eravamo a Sala Biellese, nell'ottobre del 1944. Lia, la brava staffetta

partigiana, corse dal comandante Primula:

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- Hanno portato tre feriti in infermeria - disse.- Non sono della nostra

brigata. Due sono feriti agli occhi e uno ai piedi.

Si cercarono immediatamente i medici; io corsi subito in infermeria,

nella villetta dei Rivetti, curiosa ed ansiosa di rendermi utile. Arrivarono

subito i medici partigiani Anna Marengo e Francesco Ansaldi. I partigiani

che portarono i feriti ci spiegarono i particolari del disastro occorso ad un

loro distaccamento. Erano stati attaccati dalle forze nazifasciste, che

avevano fatto saltare un ponte mentre i partigiani vi si trovavano sopra. Il

bilancio era di un morto e tre feriti.

I dottori dissero che bisognava operare subito il ferito ai piedi, aveva

perso molto sangue e minacciava una cancrena; gli altri due, secondo la

diagnosi dei medici, avrebbero riacquistato completamente la vista in una

decina di giorni.

Il ferito al piede era un giovane carabiniere, che era entrato nelle

formazioni garibaldine venti giorni prima portando con sè diversi fucili e

assumendo il nome di battaglia di "Trimoncino".

Il verdetto dei medici fu terribile, dovevano tagliargli un piede e cercare

se era possibile salvare l'altro.

- Bruna - mi disse Fiamma,- te la senti di aiutarmi ? I ragazzi sono

molto coraggiosi, ma assolutamente digiuni in fatto di chirurgia; tu qualcosa

ne capisci.

Col cuore che mi batteva in gola, accettai, e i preparativi ebbero inizio.

In quel momento avevamo poco alcool; data l'urgenza, i dottori furono

costretti ad usare la grappa. Con quella si disinfettò tutto il pavimento di

legno. L'odore del liquore era opprimente.

Trimoncino delirava, aveva la febbre altissima, tuttavia bisognava

operare per salvargli la vita. Mancava anche la sega, se ne trovò una dal

macellaio di Sala. Infine l'intervento ebbe inizio. Fiamma e Ceck operavano,

Ferida, l'ostetrica, porgeva loro i ferri e io fungevo da anestesista. Sotto la

guida di Fiamma, gli somministravo l'anestetico spruzzandolo a piccole dosi

sul pezzo di garza che gli avevamo applicato sulla bocca e che, gelando, si

imbiancava come se fosse brina. Contemporaneamente dovevo badare che

al ferito non mancasse l'aria e che non inghiottisse la lingua.

Alle voci dei medici che chiedevano i ferri si alternava la voce di

Trimoncino.

- Mamma - ripeteva, - mamma, non lasciarmi, non lasciarmi, mamma!

Sotto l'anestesia, mi aveva scambiata per la sua mamma.

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La dottoressa ogni tanto mi chiedeva:

- Ce la fai, Bruna ? Resisti ancora ?

Forse capiva dal mio pallore che ero al limite della resistenza. Mi

vergognavo di sentirmi tanto debole, lo sforzo mi spezzava il cuore, ma alle

invocazioni del paziente dovevo una risposta e lo assecondai, fingendomi la

sua mamma, confortandolo amorevolmente.

Le mani dei medici si muovevano leste, precise ed esperte. Un piede

venne amputato e l'altro, leso al calcagno, lo salvarono. L'operazione, in

quella difficile situazione, ebbe termine. Sperando che non subentrasse

un'infezione, Trimoncino era salvo.

Uscii per prima dalla saletta e non seppi rispondere alle domande dei

garibaldini, che attendevano per conoscere l'esito dell'intervento. Svenni.

L'odore della grappa, l'ansia e la paura mi avevano annientata.

Alla sera lo stato di allarme si propagò nella zona. I feriti vennero

nascosti nel vecchio mulino di Bornasco. Tutte le attrezzature del piccolo

ospedale furono riposte in casse foderate di zinco e sotterrate nelle buche da

noi già approntate nel giardino della villa, per occultarle ad una eventuale

incursione fascista. Tutti i distaccamenti dovettero "sfollare"; ai feriti

avrebbero pensato i medici, che si tenevano nascosti nelle vicinanze.

***

Il battaglione Vercelli si trasferì da Sala nella valle di San Sudario, ai

piedi della Serra. La caccia all'uomo, i rastrellamenti in grande stile, erano

cominciati con l'autunno, quando le foglie gialle lasciavano i rami degli

alberi amici che ci occultavano quando dovevamo fuggire. L'intera zona era

in stato di allarme e gli attacchi si susseguivano.

Eravamo rimaste a Sala la Pina, Renata ed io con due garibaldini. Anche

noi eravamo pronte per partire, per raggiungere la formazione. D'un tratto,

in lontananza scoppiò una furiosa sparatoria. Chi sparava, se i nostri erano

già sfollati ? L'automezzo che doveva venirci a prendere era stato avvistato

e assalito ?

La spiegazione venne mezz'ora dopo da tre uomini del Comando,

arrivati trafelati e bagnati come pulcini. Uno di essi reggeva una grande

borsa di cuoio, che la pioggia aveva tutta inzuppata.

- Brio, che cosa è successo ? Da dove venite ? Che cos'erano quegli spari

? - domandò Pina.

- Non c'è tempo per le spiegazioni ! C'è qualche garibaldino, qui ?

- No, perché ? Che cosa vi occorre ? Potete dire a noi. Intanto posa

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questa borsa, che pesa, no ?

- Questa borsa vale più di tutti noi messi assieme. Il Comando è stato

attaccato e noi siamo fuggiti con tutti i documenti. Nello scompiglio ci

siamo dispersi ed ora dobbiamo assolutamente ricongiungerci al resto della

formazione e portare in salvo la borsa. La zona è infestata dai briganti neri e

noi dobbiamo trovare il passaggio libero per portarci nella valle di San

Sudario.

Brio e Marinaio si rivolsero a me:

- Tu sei Bruna, la sorella di Remo, l'intendente di divisione, vero ?

Allora ascolta. Bisogna perlustrare la strada, precederci; insomma, fare

l'avanguardia. Te la senti ?

- Certo che me la sento - risposi, come se non aspettassi altro.- Era ora

che mi prendeste in considerazione. Che cosa c'è da fare ?

- Brava. Prendi la tua pistola e va avanti. Noi ti seguiremo a circa

quindici minuti di distanza, se tutto andrà bene. Se tu dovessi fare brutti

incontri, spara un colpo in aria e scappa. Per qualsiasi ragione, non tornare

indietro. Stà attenta, per un pezzo devi fare la strada maestra ed è

pericoloso. Vai cauta. Poi sai che dietro la chiesa di Zubiena si taglia nel

bosco, sul sentiero che porta nella valle di San Sudario. In bocca al lupo,

Bruna.

Pina era preoccupata.

- Senti - mi disse,- passa a chiedere a Quinto di accompagnarti. Non

andare sola, è meglio essere in due.

Mi seccava dividere con un altro la mia missione, sinceramente avrei

voluto fare da sola. Ma la Pina, per me, era sempre stata tanto saggia e

materna che ascoltai il suo consiglio.

Quinto Quaglino era un bravo e robusto montanaro del posto. Nella

formazione aveva due figli, Alba, che lavorava con me a Sala, e suo

fratello, che militava in un distaccamento di Primula. Lo trovai in casa.

- Perbacco, Bruna, vengo subito. Ma vedi come piove ? Aspetta, che

prendo l'ombrello.

Ci incamminammo senza sentire altro che il tamburellare dei goccioloni

sul parapioggia. Nella mia qualità di "avanguardia" mi sentivo un po'

menomata da quell'aggeggio borghese. Ma come avrei potuto impedire a

Quinto di usarlo ? In fondo era un bravo collaboratore, ma... in borghese.

Nessuno gli impediva di ripararsi sotto un ombrello. Io pensavo: "Però,

questa pioggia dell'accidenti che risuona su 'sta lobbia', non ci lascia sentire

niente. Devo dirgli di chiudere l'ombrello. Qui non bastano gli occhi,

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bisogna tenere le orecchie ritte".

I miei pensieri furono interrotti bruscamente dalla vista di una donna che

correndo verso di noi urlava sbracciandosi:

- I tedeschi, i tedeschi!

Dalla curva, a poco più duecento di metri, spuntarono camion e

motociclette. Il tamburellare della pioggia sulla tela dell'ombrello ci aveva

impedito di sentirli e quelle maledette curve della strada chiudevano la

visuale. Come risultato, ecco tutta quella canaglia che stava per piombarci

addosso.

Senza dire una parola, Quinto mi prese per mano e di corsa

attraversammo la strada, infilandoci sotto gli alberi del bosco che

fiancheggiava la carrozzabile. La nostra fuga improvvisa era più che

sufficiente per denunciarci agli sguardi dei tedeschi. Dai camion, che erano

cinque, i soldati spianarono le armi. Esitammo un attimo davanti ad un

crepaccio che ci eravamo trovati dinnanzi, dal fondo minacciosamente buio,

ma non c'era altro da fare. Ecco la prima fucilata. Saltammo, affidandoci

alla nostra stella. Quella era fortuna: nel fondo non c'erano sassi, ma tanto

fango che ci sommerse fino alla cintola. Cercammo di uscirne, di

allontanarci al più presto dal crepaccio, ma la mota era viscida e pesante. Se

qualche pallottola ci avesse raggiunti, non avremmo più avuto bisogno di

alcuna sepoltura.

I tedeschi spararono un po' di colpi, poi proseguirono. Non eravamo

preda per loro. "Benone," pensammo, "con le schioppettate hanno avvisato i

partigiani, che certamente si saranno allontanati per un'altra strada".

Arrivati a Zubiena, dovevamo passare per forza sul prato sotto il

campanile della chiesa, per scendere a valle. Ci guardammo. Quinto, pallido

come un morto, mi disse:

- Lo sai, vero, che poco tempo fa, proprio qui, dall'alto del campanile i

tedeschi hanno ucciso tre partigiani ?

- Si, lo so. - risposi.

- Bene, ora facciamo finta di niente e attraversiamo questo prato. Se mi

dovesse capitare qualcosa, và a casa mia e dì a mia moglie che i nostri soldi

sono nascosti dietro i due mattoni nel camino; dopo l'allarme di oggi gli ho

cambiato posto, lei non era in casa e non lo sa.

- Va bene - risposi.- Però se succede qualcosa a me dì a mio fratello

Remo che gli voglio bene...

Dopo queste "raccomandazioni" ci avviammo sul prato; io mi chinavo

ogni tanto con noncuranza a raccogliere qualcosa di verde, mentre lui mi

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teneva per mano. Giunti sotto gli alberi, ci stavamo stringendo così forte le

mani che la mia era tutta crampi. Non guardammo il campanile, eravamo

troppo contenti, il cuore ci batteva da impazzire.

Si presentava un altro ostacolo: bisognava attraversare il torrente Viona,

che con tutta la pioggia caduta era in piena, ma in quel tratto le due sponde

erano abbastanza vicine. Quinto divelse due alberelli e affrontammo il salto

con l'asta, come gli sportivi. Prima saltò Quinto, poi saltai a mia volta. Con

un po' di fortuna ce l'avevamo fatta; finite le preoccupazioni, subentrava

l'entusiasmo. Tirammo un sospiro di sollievo e ci abbracciammo.

Arrivammo al comando dopo molte ore, stanchi morti e inzaccherati fino

al collo. Primula ci accolse con gioia, ma non nascose la sua ansia.

- Perché siete qui soli ? Gli altri dove sono ? Che cosa vi è accaduto ?

Gli raccontammo di Brio, della borsa e della colonna nazifascista. Il

comandante mandò subito una pattuglia alla ricerca dei due uomini del

Comando, della moglie e della figlia. Ero preoccupata e sentivo un certo

rimorso. Chissà se la pattuglia aveva sentito i colpi ? Non avevo dato il mio

segnale, perché altrimenti quei dannati avrebbero mangiato la foglia e

avrebbero setacciato tutta la zona, rischiando di chiudere in trappola i nostri

compagni.

La cascina Zona in Valle Mulino di San Sudario.

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Il mio tormento durò per un paio d'ore, finché la sentinella gridò:

- Arrivano tutti insieme. C'è Brio con la borsa, Marinaio, Yanez. Ci sono

tutti, anche Pina e Renata, con la pattuglia che era andata a cercarli.

Corsi loro incontro scusandomi per non averli avvisati. Mi presero quasi

in braccio, dicendomi:

- Sta’ zitta, che ci hai fatto prendere una paura da matti, quando abbiamo

sentito quegli spari. Avevamo tutta l'impressione che vi avessero mandati in

Svizzera senza scarpe (in gergo partigiano, voleva dire "ammazzati",fatti

fuori). Noi siamo scesi per Torrazzo. E' stata un po' lunga, specialmente per

la Pina, ma in compenso niente brutti incontri. Le loro forze erano tutte

concentrate sulla strada di Zubiena, quella che avete percorso voi.

Ero felice dell'esito della mia missione. Ma c'era un punto nero.

"Accidenti a quell'ombrello !"

Alla Zona (una cascina presso San Sudario) c'era lo stato di allarme.

Ci appostammo nei punti strategici. Qualcuno mi diede in mano una

"Machinepistola" e mi disse:

- Con la tua pistolina non ti difenderesti abbastanza. Sta attenta che a

questa manca la sicura, appena premi il grilletto parte il colpo, quindi datti

da fare, occhio.

Era un falso allarme. Pietro, il proprietario della Zona, aveva scambiato

per fascisti una nostra pattuglia di garibaldini che rientrava, composta da sei

uomini, tra i quali Bruno Salvai (Pantera). Tutto finì bene, ma Pietro ebbe

da Primula una strigliata coi fiocchi.

***

Il rastrellamento tedesco si concluse dopo due giorni, poi la nostra

staffetta Lia ci raggiunse dicendoci come avevano ridotto Trimoncino.

Fiamma e Ceck l'avevano trovato nel rifugio dove era nascosto, morto, con

una baionetta piantata in bocca.

Mi sentii morire, lo rivedevo mentre lo operavano e chiamava la sua

mamma ed io piangendo fingevo di essere lei. Non seppi più resistere, urlai

e maledii chi l'aveva ucciso.

Scoprimmo che la spiata era stata fatta da uno sfollato di Torino. Venne

arrestato, processato dal comando partigiano e condannato a morte.

Ricordando la penosa vicenda dell'intervento a Trimoncino, le sue

invocazioni alla mamma, chiesi di essere io ad eseguire la sentenza.

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Veduta aerea della Serra, con il Comune di Magnano.

(Foto g.c. dall’architetto Pietro Foddanu)

Primula mi guardò accigliato e disse:

- Sei giovane, Bruna. Capisco quello che senti dopo quanto hai provato

durante l'intervento e quando hai saputo di come l'hanno trucidato. Ma

pensa, non scorderesti mai un atto del genere, per tutta la vita, ed io me ne

riterrei responsabile.

La sentenza venne eseguita nel modo più semplice. La spia fu

accompagnata lungo un sentiero da un partigiano che lo affiancava, e due

altri che lo seguivano gli spararono un colpo alla nuca. Mi resi conto,

assistendo all'esecuzione, che quel tale non si era accorto di nulla.

***

Nella Valle di San Sudario, ai piedi della Serra, l'acqua veniva estratta

da un pozzo artesiano; purtroppo in quell'epoca, dopo il trasferimento, non

piovve per tanto tempo e il pozzo divenne quasi asciutto. Per fare da

mangiare al nostro distaccamento, composto da circa quarantacinque

uomini, si era costretti a prelevare l'acqua da una cisterna della capacità di

una ventina di metri cubi, situata dietro alla cascina, che raccoglieva l'acqua

piovana. Anche quella però era scarsa, sul fondo ne restava circa trenta

centimetri, grigiastra con tanti insetti. Io, che ero astemia, la bevevo dopo

averla filtrata, fatta bollire e poi ancora filtrata, rammentando le

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raccomandazioni della dottoressa Fiamma. Certo mi faceva un pessimo

effetto, ma non c'era altro. Per fortuna, si mise a piovere, prima che quella

scorta finisse.

***

Venne un po' di calma e vennero le belle giornate, serene e piene di sole,

anche se eravamo in ottobre. Il cielo di un blu intenso era una meraviglia.

Certi tramonti incantavano. Sembrava che la vita cominciasse quando il

sole spariva, con tutte quelle luci, quei riflessi gialli, oro, arancio, indaco;

con le nuvole che sembravano balzare e saltellare, mutando di forma e di

colore. A volte sembravano soffici palloni bianchi, a volte cavalli che

volavano nel cielo come Pegaso. In cielo i più bei colori del mondo.

Pensavo: "Perché la guerra ? Perché la vita deve essere così piena di mali, di

torture, di morti, di pianti, quando la natura che ci circonda è così bella da

far desiderare solo la gioia e la serenità, di stare bene, uniti con tutti ?"

Erano i sentimenti che viaggiavano, quelle cose che tu hai dentro, e a volte è

meglio ascoltarle, tirarle fuori, parlarne. Talvolta, quando sei sola e vedi

queste cose, ti viene un groppo in gola, perché non hai nessuno al quale dire

tutto quello che senti.

Il castello di Masino, luogo della battaglia del febbraio 1945.

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CAPITOLO QUINTO

Primula

Silvio Ortona (Lungo), che faceva parte del Comando Zona, compose

una canzone partigiana:

Portiamo l'Italia nel cuore,

abbiamo il moschetto alla mano.

A morte il tedesco invasore

e noi vogliamo la libertà.

A morte il fascio repubblican,

a morte il fascio siam partigian !

Il ritornello di questa canzone era utilizzato da noi come segno di

riconoscimento. Uno fischiettava le note di: "A morte il fascio

repubblican..." e l'altro rispondeva: "A morte il fascio siam partigian". Me lo

aveva insegnato Ken (Carlo Serravalle).

L'autunno avanzava rapidamente e i rastrellamenti si susseguivano. Pina,

Renata ed io fummo portate al castello di Masino, raggiungendo mamma e

papà, Egle e Nerina. Remo ci portò anche Mirella, la sua bambina di 7 anni,

perché potesse stare in compagnia e giocare un po' con la cuginetta. Nel

cascinotto della Grangia, dove stava nascosta con mia cognata, non

potevano avere contatti con nessuno e la bimba era molto sola. Stette con

noi alcune settimane.

Avevamo della farina per il pane, ce lo confezionava di nascosto un

panettiere di Caravino (paese a due chilometri sotto Masino, in pianura).

Gran parte dei viveri erano forniti da mio fratello Remo, sia per noi che per i

partigiani che transitavano.

Un pomeriggio Pina, Egle io, scese a Caravino con le due bambine,

scorgemmo un giovane che era stato nella nostra brigata per qualche tempo

(il suo nome di battaglia era Vito) e poi era scappato; avevamo saputo che

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si trattava di una spia della brigata nera, venuto tra noi per carpire dati e

notizie sulle nostre postazioni e sulle armi a nostra disposizione;

probabilmente conosceva la zona dove eravamo rifugiate, sia la moglie e la

figlia di Primula che io e la mia famiglia.

Facemmo in tempo a nasconderci prima che ci vedesse e chiedemmo

informazioni al nostro fido panettiere. Ci disse che quel tizio da qualche

giorno andava e ritornava; era di Borgo d'Ale e stava cercando certe sue

amiche. Tornammo a Masino di volata e il mattino dopo, molto presto,

partii a piedi con una compagna per portare la notizia a Primula, al

comando.

Percorrendo la strada di Caravino, Albiano e Bollengo, raggiungemmo

la Serra (la lunga collina di natura morenica che divide il Canavese dal

Biellese), affrontando una strada in salita piena di tornanti. In pianura non

avevamo fatto brutti incontri, ero un po' tranquilla, in giro non c'era tanta

gente ed io avevo una carta d'identità falsa, secondo la quale mi chiamavo

Gorini Bruna di Giuseppe. Ma dopo qualche tornante ci bloccammo: a circa

cento metri c'era un uomo abbigliato come "l'uomo mascherato" (il

protagonista di un fumetto del giornalino "L'avventuroso", che faceva furore

fino a qualche anno prima), con tanto di mascherina nera. Lo guardai

stupita, anche perché faceva tanto freddo e lui era pochissimo vestito. Non

passava nessuno per accompagnarci e andare avanti; dovevamo a tutti i costi

raggiungere i partigiani, ma con una apparizione del genere non sapevamo

che fare.

Riflettemmo rapidamente. Se non era un fascista non poteva farci del

male; però, se fosse stato un pazzo? Concludemmo che in caso estremo

avrei potuto sparare, quindi proseguimmo con molta cautela. Quel giovane

(avrà avuto 25-30 anni), vedendoci, scappò tra i cespugli di felci che

costeggiavano la strada. Noi camminavamo guardando a destra e a sinistra,

per evitare sorprese. Lo rivedemmo al tornante successivo, fermo a

guardarci; per un minuto circa restammo ad osservarci a vicenda, poi lui

fuggì di corsa tra le felci e non lo rivedemmo più. Non sentivamo più

nemmeno la stanchezza, anche se avevamo percorso quasi venti chilometri

a piedi oltre la salita della Serra.

Arrivate al distaccamento, riferii di Vito, che era di Borgo d'Ale e ci

stava cercando a Caravino, mentre a nostra volta cercavamo lui. Poco dopo,

raccontai dell'uomo mascherato sulla Serra e i ragazzi ci derisero, dandoci

scherzosamente delle visionarie. Protestai, finché due partigiani mi diedero

ragione; loro abitavano a Magnano e sapevano che si aggirava sulla Serra

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un tipo del genere, l'avevano visto altre persone. Era uno squilibrato,

insensibile al freddo, ricercato dai carabinieri e mai scovato; viveva

rubacchiando qua e là per cibarsi, ma non aveva mai fatto male a qualcuno,

era solo ed era piuttosto protetto dalla gente, che gli lasciava di che nutrirsi

vicino alle case da lui visitate di nascosto.

Qualche tempo dopo la Liberazione, lessi su un giornale che la polizia

l'aveva individuato e internato in un ospedale. Alba Quaglino, di Sala,

ricorda ancora oggi quel singolare personaggio.

Con la notizia che avevo portato, Primula fece partire subito una

pattuglia alla ricerca della spia fascista.

***

Ci trovavamo in una località ai piedi della Serra (ma non a San Sudario),

dove si erano riuniti i comandi di diverse formazioni per incontrarsi con la

missione inglese Cherokee, onde discutere e concordare gli eventuali "lanci"

con aerei alleati, predisposti con messaggi speciali via radio. Il primo

comandante della missione fu il maggiore Mac Donald, poi caduto

prigioniero; liberato alla fine della guerra, tornò a trovarci a Borgosesia

pochi anni or sono. Il secondo comandante era il maggiore Redhead. Faceva

parte della missione anche il tenente Patrik Amoore, poi capitano; era

sempre con noi, era il nostro "capitano Pat". Quando morì, nel 1993, volle

che si seppellissero le sue ceneri a Sala, dove aveva vissuto una parte tanto

importante della sua vita, ma il suo desiderio attende ancora di essere

esaudito causa lungaggini burocratiche.

Bisognava preparare da mangiare per tutti e i cuochi (Fra Diavolo e

Dick) si misero al lavoro. Folgore ed io fummo incaricati di attingere acqua

al pozzo, per rifornire la cucina. Ma in quel compito eravamo

completamente inesperti. Al capo della corda era fissata una specie di

spirale di ferro, nella quale si doveva infilare il manico del secchio; ma

non sapevamo che bisognava inserirlo per almeno due giri della spirale e

succedeva che il recipiente, urtando contro l'acqua, si sganciava. Così

perdemmo tre secchi. Quando arrivò Dick per vedere se avevamo fatto il

nostro lavoro, lo informammo che di acqua non ce n'era e che i secchi erano

rimasti nel pozzo.

Dick andò a prendere un altro secchio, lo tirò sù traboccante e ci

minacciò energicamente: avrebbe riferito al comandante che per colpa

nostra eravamo in ritardo per il pranzo.

Io e Folgore ci nascondemmo dietro una catasta di legna da ardere e ci

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rimanemmo per oltre un'ora, temendo la punizione di Primula, che era molto

severo. Non sapevamo se avrebbe avuto comprensione per la nostra

inesperienza. Pina e il comandante ci cercavano:

- Dove è finita la Bruna ?

Quando Primula fu informato della faccenda dei secchi, ci chiamò a

voce alta, chiedendoci di uscire dal nostro nascondiglio e promettendo che

non ci avrebbe puniti fino alla prossima volta. Allora ci decidemmo a

presentarci, mentre gli altri ridevano divertiti. Non era poi così severo come

si credeva.

***

Il secondo inverno era alle porte; la neve e il freddo si avvicinavano

inesorabilmente e ai garibaldini occorrevano indumenti e soprattutto armi.

Gli uomini non avevano niente di pesante da indossare. Molti garibaldini

avevano ancora i pantaloni corti e già soffrivano i morsi del freddo.

Bisognava avere la possibilità di vestire gli uomini per affrontare l'inverno e

anche avere le armi per difenderci, che scarseggiavano seriamente. I

partigiani di G.L. (Giustizia e Libertà) avevano vestiti di gabardine e un

mitra Sten o Thompson ciascuno, mentre i garibaldini dei nostri

distaccamenti erano poco vestiti e avevano poche armi, soltanto tanto

coraggio, tanta fede e tanta speranza.

Le donne dei paesi avevano fatto camicie con la seta dei paracadute che

erano stati lanciati in precedenza alle formazioni GL e che alcuni garibaldini

erano riusciti a prelevare, insieme ad alcuni vestiti di gabardine, battendo sul

tempo i destinatari giellini. Ma si trattava di ben poca roba.

A questo proposito ricordo un gustoso episodio. Durante un incontro con

Primula, il capitano Monti, delle GL, aveva espresso le sue vive, ma garbate

rimostranze per l'indebita appropriazione. Porgendo la mano, disse:

- Piacere, capitano Monti delle GL. - Poi, battendo una mano sulla spalla

di Primula:- Questo è il nostro gabardine.

Di rimando, Primula rispose:

- Piacere mio. Riformato Primula, gabardine garibaldino.

In quel tardo autunno del 1944 venne diramato il proclama del generale

Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, in cui si dichiarava che i

partigiani dovevano smobilitare e nascondere le armi, per riprenderle poi in

condizioni più favorevoli. Era semplicemente pazzesco. Quel proclama

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Pietro Camana ( Primula),

comandante del

Battaglione Vercelli,

poi 182^ Brigata Garibaldi.

venne discusso nel comando, in tutti i distaccamenti e fu respinto. La

missione Cherokee si schierò con noi e intensificò la sua attività per ottenere

i lanci di rifornimenti dagli alleati.

Il primo dei lanci che ci interessavano fu realizzato a Baltigati il 24

dicembre del '44, gli altri sulla Serra, vicino a Torrazzo. Poi non ci furono

più messaggi speciali, la missione Cherokee comunicava direttamente con la

base in Puglia, usando un codice cifrato.

(Le notizie sulla missione Cherokee sono state precisate sulla scorta di

una informazione fornitami recentemente dal comandante Silvio Ortona).

***

Quando ci riportarono a Masino, il giorno successivo alla riunione con la

missione inglese, io non stavo tanto bene. La dottoressa Marengo disse a

Primula e a mio fratello Remo che mi dovevo fermare a Masino con i miei

genitori, poiché ci sarebbero stati attacchi e rastrellamenti; le nostre

pattuglie, nelle loro soste al castello, avrebbero certamente avuto bisogno di

assistenza. Pina e Renata stettero ancora qualche tempo con noi, poi furono

portate in altro posto. Eravamo tutte famiglie divise: Giulia, mia cognata,

era al cascinotto della Grangia, dove era tornata anche sua figlia Mirella

(che un brutto giorno cadde e si fratturò un'anca); mamma, papà, Egle e

Nerina erano a Masino con me; Remo nelle formazioni garibaldine; Bruno,

il marito di Egle, deportato in Germania.

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Mia madre Rita,

mia sorella Egle

e sua figlia Nerina,

nel parco del castello

di Masino.

Noi occupavamo cinque stanze al primo piano del "palazzo", alle quali

si accedeva dall'interno, passando dall'una all'altra. Accanto al nostro

c'erano l'alloggio di Pitetto, lo stalliere del castello che curava le scuderie e

la "citronera", e quello di Domenico, l'autista, con la moglie. Fuori c'era il

ballatoio a ringhiera.

A Masino, non avendo più compiti importanti come quelli di infermiera

e portaordini, nè contatti con i gruppi delle compagne per le attività di

volantinaggio e confezione di indumenti per i ragazzi, mi sembrava di

impazzire. Nerina aveva dieci anni e in paese non c'era una scuola; io le

insegnavo qualche cosa, ma ne mancavano tante altre.

Quando sentivamo sparare per gli attacchi dei nazifascisti alle nostre

postazioni (lo si capiva malgrado la lontananza), la mamma era tutta in

agitazione.

- Oh, cara Madonnina - esclamava.- Chissà quei ragazzi, chissà Remo...

Con tutta l'ansia per i nostri compagni che combattevano, per mio

fratello, avevamo anche tante preoccupazioni per lei. Fino a quando il suo

cuore malato avrebbe retto ? Ma la sua fibra era già temprata dalle dure

battaglie per le otto ore combattute con papà. Di genitori di questa pasta c'è

di che essere orgogliosi.

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Nel negozietto di Masino avevo comprato dei colori a pastello e un

foglio di carta da disegno; per ingannare il tempo, la tristezza e l'ansia, mi

rifugiavo nell'incavo di un enorme tronco di castagno quasi morto,

disegnando e riflettendo. Era un ottimo posto di osservazione; la distesa del

Canavese sembrava ai miei piedi e l'eco di ogni conflitto al di là della Serra

(la nostra zona) veniva portato dalle onde sonore fino a noi, poiché eravamo

posti in alto. Lasciai un poco della mia vita tra la landa canavesana, la Serra,

la neve e le lacrime.

Avevo fatto amicizia con "Renè" (Enrico Odisio), uno dei giovani di

Masino che si tenevano nascosti per non essere arrestati dai fascisti o

internati in Germania (poi si arruolò nella 182.a brigata). Lavorava con

Pitetto. Nel dicembre del '44 c'era tanta neve. Dovevo scendere a Caravino a

prendere il pane; il sentiero era impraticabile e la strada lunga, a tornanti.

Renè mi diede i suoi sci e mi spiegò come usarli. Partii, zaino in spalla, ma

alla prima curva tirai diritto e mi impiantai in un mucchio di neve e roccia,

sfasciando uno sci. Fu la prima e ultima volta che misi quelle cose. Andai a

piedi, più sicura.

***

Quando stavo nel mio rifugio, dentro l'incavo dell'albero, facevo qualche

riflessione sul passato, sul presente, sul futuro; ricordavo lo stato d'animo, la

combattività dei ragazzi che andavano di pari passo con gli eventi e le

battaglie che si combattevano in Unione Sovietica e in altre parti del mondo.

Quando sentivamo "tum-tum-tum-tum, qui radio Londra" ascoltavamo con

ansia vivissima le notizie dell'Armata Rossa che aveva respinto su tutti i

fronti le truppe tedesche, delle divisioni naziste che erano in rotta, degli

Alleati che sbarcavano in Normandia iniziando la liberazione della Francia.

Allora il nostro entusiasmo si risvegliava, si esprimeva con parole e gesti

festosi e spingeva a combattere, alle azioni più temerarie.

Combattevamo per respingere il tedesco invasore con i suoi scagnozzi

fascisti, ma se questi non venivano sconfitti su tutti gli altri fronti, in special

modo dove i nazi avevano impegnato il maggior numero di uomini, per noi

la lotta sarebbe stata ben più lunga, anche con lo sbarco degli Alleati ad

Anzio. La lotta partigiana in Italia aveva la sua grande importanza per

determinare la fine dell'invasione germanica ed accelerare la conclusione

del conflitto.

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***

Nevicava da qualche giorno; eravamo pieni di freddo e di ansie, non

sapevamo niente dei combattimenti che si udivano in lontananza. C'era tanta

neve che attutiva i rumori per la strada e nel cortile. Una sera arrivò Pitetto,

trafelato, gridando:

- I tedeschi ! Sono nel cortile !

Pitetto, che sapeva tutto di noi, era corso ad avvisarci, pover'uomo,

anche col buio. Io avevo la mia pistola e dovevo nasconderla. Corsi

nell'ultima stanza, aprii la finestra e lasciai cadere l'arma sul tetto di un

ripostiglio coperto di neve. Stavo per chiudere la finestra quando mi arrivò

alle spalle un orribile mongolo, in divisa da tedesco. Mi prese per una spalla

e mi girò, domandandomi cosa facevo alla finestra.

- Ho sentito degli spari e volevo vedere che cosa fossero.

La mia scusa non lo convinse, e disse che soltanto loro potevano sparare

e non l'avevano fatto, quindi, perché stavo affacciata?

Il brutto mongolo, che nel frattempo era stato raggiunto da altri quattro,

guardò fuori dalla finestra. Sul davanzale c'era un pacco di burro, che pochi

giorni prima ci aveva portato la staffetta con altri alimenti, perché da casa

nostra passavano continuamente i partigiani di pattuglia e bisognava

rifocillarli. Il mongolo aprì il pacco e sorrise soddisfatto; probabilmente

credeva che io volessi nascondergli il burro. Diede il pacco ad un altro

mongolo, brutto come lui. Poi mi mise una mano sul seno. Non ci vidi più,

non pensai alle conseguenze e istintivamente gli mollai un ceffone. Subito

quell'essere mise mano alla pistola; per fortuna lo fermò un ufficiale tedesco

che seguiva i mongoli. Gli parlò molto duramente, lo convinse a lasciarmi

perdere e ad unirsi agli altri, che stavano perquisendo la casa, buttando

all'aria i materassi e gli armadi.

Mentre uscivano, passando in cucina dove c'erano papà, mamma, Egle e

Nerina, un altro mongolo si fermò ad ammirare la mia nipotina con occhi

bramosi, che non ispiravano niente di buono. D'istinto, mia sorella disse che

il papà della bimba era in Germania; quel coso non capì che Bruno era un

internato, certamente lo credette un nazi; lasciò il braccio di Nerina e le

diede un buffetto su una guancia.

Se ne andarono portando via solamente il chilo di burro, qualche chilo

di riso e un po' di sale. Le provviste importanti erano celate sotto una botola

vicino alla stalla, introvabili. Avevamo provato una grande paura, io in

special modo. Ringraziai il tenente tedesco, il quale mi disse:

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- Bona, bona, sinorina.

Mamma dovemmo metterla a letto e farle una iniezione per il cuore.

Il mattino dopo andai a recuperare la mia pistola e scesi a Masino. Tutti i

paesani parlavano dell'accaduto, della razzia dei tedeschi. Dalla sarta, la

buona Teresa, le donne avevano fatto crocchio e descrivevano quanto

avevano loro sottratto: maiali, oche sotto strutto, lardo, a tutti avevano

portato via qualcosa.

Per fortuna, erano soltanto razziatori. Cercavano da mangiare requisendo

quanto trovavano.

Io stavo sempre un po' più male, non mangiavo ed ero stanca (non

sapevamo, allora, che avevo una pleurite secca).

Passarono gli uomini di Quinto, comandante della I Zona. Dopo uno

sganciamento, andavano a Cossano e poi alle Cascine d'Arei. Andai a

trovarli, non erano tanto lontani, qualche chilometro, forse sei o sette. Era

bello stare un po' con loro.

***

Arrivò il due febbraio 1945. Si sentivano i colpi dei mortai, le raffiche

delle mitragliatrici, i "tac-pum" dei terribili fucili tedeschi di precisione. Era

un susseguirsi di colpi che ci spezzavano il cuore. Si capiva che la battaglia

era a Sala, ma ignoravamo quali proporzioni avesse assunto, certo enormi,

data la gran quantità di detonazioni che si udivano. Non riuscivamo ad

avere notizie, l'attesa era snervante, densa di timori.

Il giorno dopo Egle ed io andammo a Caravino per fare provvista di

tanto pane, perché pensavamo che senz'altro sarebbero arrivati i nostri

ragazzi e bisognava rifocillarli. Risalendo, scorgemmo in cima alla strada un

gruppo di uomini, ma tra il bianco accecante della neve, il freddo e la paura,

era difficile riconoscerli. Ci fermammo indecise e solo allora sentimmo

chiamare:

- Bruna, vieni, siamo noi. Sono Fra Diavolo, con Brio, Marinaio,

Ricovo, Dick.

Era una nostra pattuglia. Ci erano venuti incontro per strada perché i

miei genitori avevano loro detto dove eravamo andate. Domandai:

- Perché siete qui ? Che cosa è accaduto ieri l'altro a Sala ? Che cosa è

successo ? Dove sono gli altri ?

Tutti si chiusero in un silenzio opprimente, più doloroso di un grido.

- Che cosa c'è? Parlate !

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La lapide commemorativa di Primula a Sala Biellese, sul luogo dove morì in combattimento.

Fra Diavolo disse:

- Primula è stato ucciso dai tedeschi e Ricu ferito durante il

combattimento a Sala. Noi, con Carnera, Pace e Rapid, eravamo con lui.

Siamo riusciti a sganciarci senza altre perdite, aiutati dal buio. Però

nell'attesa siamo quasi congelati.

Non ricordo il tono della mia voce, ma ero disperata. Continuavo a

ripetere:

- No, non può essere, lui non può morire. Primula non deve morire,

sarebbe tutto finito.

Fra Diavolo mi prese tra le braccia e piangemmo insieme; tutti si

asciugavano gli occhi, i visi stravolti dal dolore, dalla stanchezza, dalle

fatiche.

Andammo a casa, si scaldarono un poco e mangiarono qualcosa, poi

partirono per raggiungere altri gruppi dislocati un po' ovunque in pianura.

In casa eravamo tutti annientati, sembrava che il mondo ci fosse crollato

addosso, che tutto finisse con Primula. Mi rifugiai nel mio tronco d'albero;

attraverso quel sentiero in mezzo alla neve, non sentii più nemmeno il

freddo.

Mi aiutai ricordando e ripetendo il famoso canto di Goethe:

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Pensiero vile

Dubbio ed affanno,

Timor donnesco,

Cruccio e pianto,

Non scaccia pena,

Nè ti riscatta !

Alla violenza far fronte altiero,

Non mai piangere, mostrarsi forte,

Cosi s'invoca degli dei l'aiuto !

Pensavo a Pina, Renata, Tino, il ragazzino di quattordici anni, diventato

uomo nell'attimo in cui aveva visto il babbo abbattersi straziato ai suoi

piedi; a sua richiesta gli era stato affidato il mitra del padre.

Dopo qualche giorno Remo venne a trovarci con due uomini, anche per

tranquillizzare la mamma. Ci descrisse un poco la battaglia. Quando

Primula cadde, i garibaldini lo spogliarono (non potendo portarlo via)

perché non fosse riconosciuto come il comandante Primula; lo posero su di

un tavolo dell'osteria-bar di Daria, poi si ritirarono a causa delle

preponderanti forze naziste. I tedeschi riconobbero ugualmente la salma e

la straziarono, infierirono selvaggiamente sul corpo inerme con tante

percosse. Ma gli eroi non si distruggono, si valorizzano. Camana era prima

di tutto un padre, un amico, un confidente, un combattente di prima qualità e

un grande stratega (pur non avendo nemmeno fatto il militare perché

riformato).

Remo ripartì coi suoi uomini, doveva stare sempre all'opera per rifornire

quelle masse di ragazzi in continuo movimento. La popolazione collaborava

coi partigiani - guai se non fosse stato cosi ! - ma non poteva certamente

dare sostentamento a migliaia di uomini. Ecco perché c'era la sussistenza.

***

Passarono i giorni e continuava a nevicare, le strade erano sempre più

impraticabili.

Un pomeriggio una pattuglia proveniente dalle cascine d'Arei mi portò

un messaggio del comandante Quinto, il quale chiedeva la mia opera

(finalmente qualche cosa potevo fare, dopo tanti giorni di forzato riposo).

Mi dissero che dovevo portare un biglietto al comandante Nerio (Saverio

Tutino) della 76.a brigata, che si trovava con la sua formazione nel paese di

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Io,

alla base partigiana

di Sala Biellese.

Palazzo, ai piedi della Serra, sulla provinciale tra Ivrea e Biella. Non

potevano mandare nessun altro, dovendo tenere tutti gli uomini a

disposizione in vista di eventuali, probabili attacchi nemici.

Partii immediatamente. Scesi fino a Caravino e fin qui andò bene, poi

imboccai la strada per Azeglio, ma questa era irriconoscibile, sommersa

dalla neve. Per di più mi avevano detto che non dovevo percorrere le strade,

ma i sentieri. Non si capiva niente, ero in un deserto bianco. Avevo percorso

quella zona solamente due volte, ma allora non c'era la neve, si vedevano

anche i sentieri trasversali e le foglie degli alberi, tanto importanti quali

punti di riferimento. Persi l'orientamento e non incontrai nessuno per

chiedere indicazioni. Infine vidi un casolare e mi avvicinai, domandai ad

una donna affacciata alla finestra quale strada dovevo prendere per Palazzo.

Mi indicò una direzione e mi avviai verso i ruderi di una vecchia cascina,

con intorno qualche albero rinsecchito. Vidi di spalle un uomo appoggiato

ad uno di questi tronchi e gli dissi :

- Scusate, mi potreste insegnare la strada...

Non finii la frase, perché l'uomo si voltò e vidi che era uno della "San

Marco" o della "Ruggine", non ricordo di quale banda fascista fosse. Fatto

sta che per poco non mi venne un colpo.

- Che cosa fai da queste parti con un tempo simile ? - mi apostrofò.-

Dove vuoi andare ?

- Cerco la strada per andare a Ivrea, in farmacia, a comprare medicine

per mia madre, che è malata di cuore.

- Da questa strada vai, e non da Albiano ?

- Non sono di qui, siamo sfollati di Torino e non conosco nessuno, tanto

meno la strada, e mia madre ha bisogno delle medicine.

- Perché non vai con la corriera ?

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- Perché non viaggia, con un tempo simile.

- Ora stai qui con gli altri, poi ti porteremo a Ivrea e vedremo come te la

caverai.

Dietro i ruderi di un fienile si tenevano al riparo dal vento altre otto o

dieci persone. C'erano pure due camion con cinque o sei fascisti. Poco dopo

ne arrivarono altri due su una moto e presero a discutere coi loro compari,

mentre da lontano echeggiavano degli spari.

Infine si rivolsero a noi con voce minacciosa :

- Per ora andate pure, ma non fatevi più sorprendere un'altra volta,

perché sarà peggio per voi.

Mi parve che avessero una paura del diavolo, che quegli spari li avessero

terrorizzati al pensiero dei partigiani che si aggiravano da quelle parti.

Intanto tra una cosa e l'altra era arrivato il buio ed io non sapevo dove

andare; sospettavo anche che la donna alla quale avevo chiesto la strada mi

avesse ingannata, mandandomi a bella posta verso i fascisti.

Non avrei più potuto portare il messaggio, perché mentre il fascista mi

parlava lo avevo distrutto: infilandolo nel buco della tasca predisposto in

precedenza, lo avevo fatto cadere lungo la gamba dei pantaloni e quando

era giunto al suolo lo avevo calpestato con gli scarponi nella neve.

Decisi di ritornare a Masino, sperando che Nerio avrebbe risolto il

problema senza di me. Adesso bisognava ritornare indietro con quella gente,

che abitava un po' a Caravino, un po' a Cossano e un po' a Masino, senza

farci sorprendere per strada da nessuno. C'erano i fascisti che con la paura

potevano scambiarci per partigiani e i partigiani che potevano scambiarci

per fascisti. L'unica soluzione che mi venne in mente fu quella di cantare,

proprio a squarciagola, canzoni "neutrali". Tutti furono d'accordo, si

rivolgevano a me con fiducia, pareva che sapessero chi ero.

Per quei sei o sette chilometri cantammo "La montanara".

Rientrai a casa alle otto di sera; stavo veramente male e rabbrividivo per

il freddo, ma anche per il senso di colpa che mi tormentava per non aver

portato a compimento la missione affidatami.

***

La sera del 16 febbraio 1945, mentre risalivo la rampa del castello per

vedere se si scorgeva qualcosa sulla Serra, vidi attraverso i vetri di una

finestra qualche figura che prontamente si ritraeva. Pensai a qualche ospite

che si teneva nascosto, ma non notai nessun altro movimento anormale.

Il giorno successivo il buon Pitetto ci disse che al castello c'erano i

partigiani. Rimasi stupita dal fatto che non si fossero fatti riconoscere,

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La lapide commemorativa

Del Caduto partigiano

Dero Azeglio (Turiello),

al castello di Masino,

sul luogo della battaglia.

non fossero venuti da noi. Pitetto disse che erano tanti, tanti. Pensai che

fossero della GL.

A mezzogiorno del 18 cominciammo a sentire raffiche di mitra da ambo

le parti. Il combattimento durò per un po' di ore, finché scese la sera e tornò

il silenzio. La marchesa, alle mie domande, rispose preoccupata che non

conosceva quei partigiani, sapeva soltanto che erano del Biellese. Ero

sempre più stupita. Mentre risalivamo la rampa del castello, Egle ed io

trovammo i cadaveri di due fascisti, molto giovani (dalle nostre informatrici

sapemmo poi che erano stati reclutati al Ferrante Aporti di Torino, casa di

correzione per giovani delinquenti).

I fascisti fuggiti avevano dato l'allarme e i tedeschi arrivarono il giorno

dopo, con camion e grandi forze. Piazzarono una mitragliatrice pesante sul

campanile della chiesetta di San Rocco, all'inizio del paese. La nostra casa si

trovava proprio sulla traiettoria della mitragliera, in direzione del castello, e

le prime raffiche tedesche colpirono le nostre finestre; i colpi entrarono e si

conficcarono nella parete di fronte (per fortuna eravamo nell'altra stanza). I

nazisti alzarono il tiro e mirarono al castello, ma non ci furono risposte. I

partigiani erano riusciti ad aprirsi un varco dalla parte posteriore del castello

e ad allontanarsi verso Vestignè. Ma avevano lasciato un morto, Dero

Azeglio (Turiello).

Eravamo stupite di non vedere nemmeno uno degli ospiti nascosti nel

castello. Prima c'erano il conte Vagnone, il barone Mazzonis, il marchese di

Valperga. Si erano dileguati. I lavoranti pensavano ad una galleria del

castello che andava chissà dove. Per questa ragione i tedeschi non trovarono

nessuno.

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CAPITOLO SESTO

Ritorno a casa

Nel castello erano rimasti soltanto la marchesa, il figlio Luigino con la

governante Novellis, qualche altro bambino e una anziana contessa. La

marchesa si rendeva perfettamente conto che erano possibili altre incursioni

di nazifascisti, ma era una donna coraggiosa e intelligente. Stette a vedere

che cosa sarebbe successo.

Infatti, il mattino successivo arrivarono due camion e diverse auto di

tedeschi. Saccheggiarono il castello, colmarono i camion di quadri,

argenteria, arazzi, suppellettili di valore e viveri.

Li vedemmo partire tutti soddisfatti. Il comandante salutò la marchesa

con una impeccabile battuta di tacchi. Lei, che conosceva il tedesco e il

francese, rispose con il sorriso sulle labbra:

- Adieu, grand cochon (addio, grande porco).

Eravamo tutti costernati. Domandai alla marchesa dove erano finiti i

suoi ospiti ed ella mi rispose garbatamente che anche lei, come me, aveva i

suoi segreti.

C'era il problema dei viveri; in castello non era rimasto più niente,

nemmeno un grammo di farina. Portammo i bambini, compresi Nerina e

Luigino, nell'asilo delle suore del paese, dove si potè allestire una specie di

mensa, anche per qualche anziano, la vecchia contessa, la marchesa con il

figlio, la governante e la mia famiglia. Per qualche giorno furono utili le

nostre provviste, specialmente la farina per il pane, finché la marchesa

mandò a fare rifornimento di vettovaglie presso i suoi fattori, a San

Damiano e in altre sue cascine.

***

Qualche giorno dopo, temendo altre incursioni o rappresaglie dei

nazifascisti, feci portare mia madre e Nerina a Borgomasino, nella casa di

Domenico, l'autista, con l'auto che la marchesa ci mise a disposizione. Io e

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Egle le accompagnammo. Ma dopo tre giorni di permanenza nella nuova

abitazione la mamma si sentiva male, e noi non sapevamo come fare.

Intanto Remo mandò a dire che sarebbe venuto a prenderci appena

possibile, poiché sia lui che il comando ritenevano che a Masino, dopo la

battaglia, non eravamo più al sicuro.

Partii con Domenico e andai a prendere mamma e Nerina. Quando mi

videro piansero di gioia, si sentivano sole e abbandonate, in preda alla

paura accumulata in quei giorni.

Al ritorno, tra Borgomasino e Vestignè, scorgemmo un uomo in

bicicletta, il cantoniere, che ci faceva strani cenni additando il cielo con la

mano. Guardammo, e capimmo il pericolo: due aeroplani alleati (Pippo?)

stavano prendendo quota e miravano alla nostra auto. Domenico fermò

immediatamente, scese, prese per mano sua moglie e scappò lontano,

saltando al riparo dietro il ciglio della strada. Ero disperata, gridai a Nerina

di scappare, ma la piccola, terrorizzata, mi rimase accanto; aveva paura ad

allontanarsi da sola.

Camminare era difficile, la strada era ghiacciata, si scivolava; la mamma

era pesante, non si reggeva in piedi, e il primo aeroplano si stava

abbassando per mitragliare. Ci buttammo giù, sulla strada, ma ci trovavamo

a pochissima distanza dalla macchina (il cantoniere, dopo l'incursione,

misurò lo spazio fra noi tre e l'auto, che risultò di tre metri).

Cercai di coprire Nerina buttandomi su di lei, mentre mamma mi stava

Il mitragliamento dell’auto che portava mia madre, Nerina ed io al castello, tra

Borgomasino e Vestignè, in un mio dipinto ad olio.

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accanto. Sentimmo la prima raffica dell'aereo e, vedendo che aveva colpito

soltanto l'auto e non noi, mi sentii un poco rinfrancata. Pensai: "Se il primo

aereo è riuscito a evitarci, speriamo che anche l'altro sia così bravo."

Il secondo aereo dovette accorgersi che eravamo soltanto due donne e

una bambina, fece due giri a vuoto, dandoci il tempo di allontanarci. Ci

buttammo giù dalla scarpata della strada, quasi al riparo. Nerina era

terrorizzata, cercava di nascondersi premendo il viso sulla neve ghiacciata,

scorticandosi le guance e il naso e gridando:

- No, no, basta !

Mamma tremava, non diceva nulla, era ammutolita. In verità anch'io ero

costernata; sarebbe stato proprio da sciocchi morire a causa di un insulso

mitragliamento.

Dopo due sventagliate, entrambi gli aerei se ne andarono. Domenico e

sua moglie si avvicinarono, aiutandomi ad alzare la mamma e chiedendomi

mille volte scusa per essere scappati senza darmi una mano per aiutarmi. In

quelle condizioni, avrei voluto rispondergli male, ma poi capii che la paura

era stata più forte dell'altruismo.

Portammo mia madre e Nerina in una vicina chiesetta dedicata a un

santo (Domenico e sua moglie fecero poi fare un quadro che appesero in

quella cappella, per ringraziare qualcuno che li aveva salvati). Mamma era

svenuta; andai alla macchina e presi la borsa con i medicinali (l'unica cosa

rimasta intatta, poiché l'auto era ridotta come un colabrodo per le raffiche

degli aerei).

l cantoniere, che nel frattempo si era allontanato, ritornò a vedere che

cosa ci era successo e prestò la sua bicicletta a Domenico, che andò al

castello in cerca di aiuto per la mamma.

Papà, Egle e la marchesa avevano seguito le evoluzioni degli aerei con

preoccupazione. Sapevano che a quell'ora solo noi potevamo essere il loro

bersaglio, poiché altre auto, a parte quelle dei nazifascisti, non potevano

viaggiare senza il permesso speciale che, nei dintorni, aveva soltanto la

marchesa.

Quando arrivammo al castello, sulla carrozza che ci aveva mandato la

marchesa, papà, pover'uomo, ci abbracciò tutte e tre, piangendo.

***

Dopo qualche tempo Remo venne a prenderci con due "dome". Mi disse

che i due partigiani in borghese che lo accompagnavano mi avrebbero

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portata in una cascina di Livorno Ferraris, la Spinola, una tenuta modello. Mi

raccomandò di stare tranquilla, anche se poco tempo prima, il 1° marzo, in

quella cascina avevano catturato numerosi partigiani, uccidendone poi la

maggior parte a Salussola. Non erano stati i proprietari a denunciarli, ma una

donna della cascina Morone, al di là del canale Cavour.

Remo mi raccomandò di tenere sempre la pistola a portata di mano e di

stare sempre in compagnia di qualcuno della famiglia.

Mamma piangeva spesso, ma si tranquillizzò quando seppe che

l'avrebbero portata a Tronzano con papà, Nerina e Egle, dove abitavano due

fratelli di mio padre, zio Umberto e zio Luigi, capoguardia del Comune (ma

a quell'epoca si trovava in carcere a Vercelli da qualche mese, per attività

antifascista e collaborazione con i partigiani). Suo figlio, Valter, era

impiegato nel Comune di Biella.

La zia Pierina aveva affittato due camere per i miei genitori, in una casa

poco distante da lei, dicendo che erano parenti di Torino, sfollati per paura

dei bombardamenti. Tante altre famiglie facevano così, quindi nessuno nutrì

qualche sospetto sulla loro identità.

Io restai per una settimana alla cascina Spinola, proprio una azienda

agricola modello, con alloggi e corridoi da fare invidia, quasi roba da film.

Mi tenevo sempre la pistola a portata di mano e stavo sempre vicino a

Dionisia, una maestra con qualche anno più di me; dormivamo nella stessa

camera. Sentivo di peggiorare, il dolore alla schiena diventava più forte.

Inoltre ero troppo isolata, malgrado la lettura di buoni libri e le

conversazioni. Quella non era la mia vita, mi sentivo come un bruco nel suo

bozzolo.

Un giorno non ne potei più; salutai tutti, mi feci prestare una bicicletta e

partii per Tronzano, distante dieci chilometri circa. Quando arrivai vidi

mamma un poco più tranquilla, stava meglio.

***

Grazie ai membri della locale SAP (Squadre d'azione partigiane), mi

misi in contatto con Ugo, Alcide Brusa e altri militanti del Fronte della

Gioventù di Vercelli. Un giorno, con Egle, decidemmo di andare a vedere

la nostra casa. Partimmo da Tronzano in bicicletta, passando per San

Germano e Olcenengo, quindi dal mulino della Cantarana e dal Canadà;

percorrendo la "strada della catena", costeggiammo la cascina Bruciata,

l'orto del Volpara e quello del Carlin Rosso, di fronte a casa nostra.

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Andammo da mia cugina Tin. L'incontro fu commovente, ma la Tin e

suo marito Toiu (Vittorio) provarono tanta paura per noi, temendo che

qualcuno ci avesse viste e magari fatto una spiata. Noi li rassicurammo,

perché avevamo calcolato di arrivare quando ormai faceva buio, così

sarebbe stato difficile vederci.

I miei cugini avevano in custodia le chiavi di casa mia, ma non

servirono, perché i fascisti, quando ci cercarono, l'anno precedente, non

trovandoci avevano sfasciato la porta e tutto il mobilio. Rimanevano ancora

in piedi mezzo armadio e il letto di ferro dei miei genitori, un po'

bruciacchiato. Il piumone del letto grande, qualche lenzuolo, la trapunta, il

grammofono con i dischi e la radio erano salvi, la Tin li aveva messi al

sicuro, un poco da lei e un poco dai Gentile, i nonni di Nerina.

Ci fermammo da loro a dormire e al mattino presto tornammo a

Tronzano.

***

Finalmente arrivò il 25 aprile.

La notizia che i partigiani avanzavano verso i paesi e le città ci inondò di

sollievo e di entusiasmo; avremmo potuto ritornare alle nostre case. Lo

straniero era sconfitto, il fascismo abbattuto, annientato. La volontà del

popolo sano trionfava sulla dittatura, lo schiavismo, il razzismo. La guerra

era FINITA.

Il 29, Egle ed io tornammo a Vercelli in bicicletta. Indescrivibile

l'accoglienza che ci fece la gente del nostro rione. Non so come, la voce del

nostro arrivo si era sparsa con estrema rapidità da una casa all'altra. Mentre

percorrevamo la via principale che conduceva a casa nostra, molte persone,

per la maggior parte donne, correvano ad abbracciarci, piangevano, ci

ringraziavano, sapevano più di noi come i fascisti ci avevano ridotta la casa.

La mamma di Ermanno Agosti, un partigiano che fu ucciso dai fascisti

in montagna, mi venne incontro con le braccia tese, come se invocasse

chissà quale grazia, esclamando:

- Sei tornata, grazie a Dio, almeno tu sei tornata, Bianca, almeno tu sei

qui, hai gli anni del mio Ermanno e mi sembra di averlo qui abbracciando

te.

Sentii un groppo alla gola, non sapevo che Ermanno era morto. Dopo un

istante di imbarazzo, abbracciai quella madre con il viso inondato di lacrime

e mi sentii parte di lei. Emanava tanto dolore e tanto amore da farmi sentire

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quasi colpevole, perché io ero tornata e suo figlio no.

Raggiungemmo la nostra casa, finalmente alla luce del sole (beh, il sole

era poco, perché piovigginava e faceva freddo, ma era bello ugualmente).

Lasciai Egle dalla Tin e dalle sue amiche, che la circondarono subissandola

di domande, e tornai in strada.

Dai partigiani del rione seppi dove si trovava il comando di piazza e lo

raggiunsi. Chiesi di mio fratello Remo e appena lo vidi ci abbracciammo.

Per riportare a casa mamma, papà e Nerina, mi fece rilasciare dal

comandante di piazza, Spartano, un permesso speciale di transito per

superare i posti di blocco che i partigiani avevano istituito sulle strade

principali che portavano in città. C'era un grave pericolo, una colonna

dell'esercito tedesco ormai sconfitto non si era arresa, voleva consegnarsi

solo alle forze alleate, americane o inglesi. I nazi avevano minacciato di fare

terra bruciata al loro passaggio, perciò eravamo permanentemente all'erta.

Mi misero a disposizione un camioncino e due partigiani di scorta e

partimmo per Tronzano, la Egle ed io. Tutto andò liscio fino ad un posto di

blocco all'ingresso di San Germano. Ci fermarono chiedendoci il

lasciapassare; poi guardarono all'interno del camioncino, coperto da un

telone poiché piovigginava, mi videro con Egle ed io li salutai festosamente.

Vederli cosi in libertà era veramente bello. Però la mia gioia durò poco: un

gappista del gruppo mi guardò ed esclamò:

- Guardate chi c'è qui; abbiamo preso una spia, finalmente l'abbiamo

beccata.

Tutti si sporsero per guardare dietro il telone; io mi voltai per vedere di

chi stavano parlando, ma il soggetto, quella che chiamavano la spia, ero io.

Il piccolo uomo, con un fucile più alto di lui, ce l'aveva con me. Mi presero

per un braccio, mi trascinarono giù in malo modo e mi tolsero la pistola. A

nulla valsero le proteste dei due partigiani, nostre guardie del corpo, che

esibirono ancora il lasciapassare ripetendo che il documento era firmato da

Spartano, comandante della piazza di Vercelli, che ero la sorella di Remo e

che garantivano la mia qualifica di partigiana. Furono disarmati anche loro

e piantonati.

Mi domandarono chi era la donna che stava con me; risposi che non la

conoscevo (ignoravo la sorte che mi attendeva e, se la cosa avesse preso una

brutta piega, almeno Egle avrebbe potuto andare da mamma e papà a

riferire l'accaduto). Ma Egle di rimando disse:

- Ma non fare la stupida. Come, non mi conosci? Ehi voi, sono sua

sorella.

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- Allora vieni giù anche tu.

Tenendomi in mezzo a loro, mi portarono sù e giù lungo la strada

principale del paese, gridando che avevano preso "la spia internazionale".

Cose dell'altro mondo! Ci sarebbe stato di che morire dal ridere, ma per me

tutto ciò si stava trasformando in un incubo. Mentre passavo le donne mi

prendevano a schiaffi e mi sputavano in viso, sia all'andata che al ritorno. Se

non mi venne allora un colpo apoplettico, non mi verrà mai più.

Dopo quella passeggiata allucinante, malgrado le mie proteste la

situazione non migliorò. Ci portarono nella caserma dei carabinieri,

presidiata dal GAP e dalla SAP. Il piccolo uomo incitava gli altri affinché

fossi fucilata. Era incredibile, non riuscivo a capacitarmi di una simile

situazione e di esserne proprio io la protagonista.

Qualcuno, più intelligente, propose:

- Aspettiamo che arrivi il comandante.

Dopo circa un'ora si aprì una porta ed entrarono cinque o sei persone; io

pensai: "Ora viene il bello". Ero veramente preoccupata, l'euforia poteva far

commettere sbagli irreparabili, in special modo da persone che avevano

bevuto un po' troppo. Ma uno dei nuovi arrivati disse:

- Ciao, Bruna, come va ?

Io non lo ricordavo bene, ma poi mi sovvenni, era il professore che

parlava inglese, venuto al comando quando c'era la missione Cherokee per

discutere la proposta assurda del generale Alexander; si chiamava Giuseppe

Bellaguardia. Soggiunse:

- Dov'è la donna, la spia ?

Il piccolo uomo mi indicò dicendo che ero io. Giuseppe andò su tutte le

furie, specie quando gli raccontai quanto era successo e avevo subìto.

Confermò che ero la sorella di Remo (conosciutissimo, perché operava

anche da quelle parti) e non sapeva come questi avrebbe reagito appena

informato di quel che mi avevano fatto.

Ci fecero tante scuse e ci restituirono le nostre armi. In verità la mia

pistola l'avrei usata volentieri contro quel piccolo uomo. Risalimmo sul

nostro camioncino, dove i due partigiani ci attendevano preoccupatissimi

per la mia sorte, e ripartimmo per Tronzano.

***

Mamma e papà quando videro la nostra casa piansero, era peggiore di

quanto io e Egle gli avevamo detto.

Per rimetterla in piedi, qualcuno ci diede un armadio, qualcuno un

cassettone, altri un tavolo e tirammo avanti, eravamo a casa nostra.

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Scarseggiava il cibo, Remo era nella sussistenza, ma non ci portava a

casa mai niente. Un giorno venne a fare visita alla mamma Nino Baltaro, il

commissario politico della nostra divisione, che era anche un nostro lontano

parente; saputo che Remo non portava a casa nulla, ci fece avere un po' di

generi alimentari e anche del sale, pressoché introvabile.

Pure per il vestire era veramente un problema. Non avevamo più una

lira, i vestiti da uomo li avevamo dati ai militari che scappavano l'otto

settembre, anche quelli di Bruno, perché allora era più urgente salvare i

fuggiaschi dai nazifascisti che pensare di conservarli per noi. Gli indumenti

da donna, già scarsi, li avevamo consumati.

Qualche giorno dopo la Liberazione vennero scarcerati i detenuti

politici, compreso lo zio Luigi che fu condotto a casa sua a Tronzano, dove

fu accolto festosamente.

***

Quando si divulgò la notizia della tragica uccisione delle sorelle Elsa e

Laura Scalfi e della loro nonna, insieme allo zio Luigi Bonzanini, rimasi

indignata. Conoscevo le giovani, abitando nello stesso rione, sapevo che il

loro padre era un sottufficiale e attivista fascista, ma da quanto mi risultava

le figlie erano ragazze a posto come tante altre. Durante il periodo da me

trascorso in montagna non avevo mai saputo nulla al loro riguardo. La

sentenza emessa dal comando partigiano, che dispose la fucilazione

immediata dell'esecutore del massacro, Felice Starda detto "Bugia", fu

esemplare.

***

Ero a disposizione del comando di piazza; un giorno fui mandata ad un

posto di blocco presso la Manifattura Rondo, presidiato dai ragazzi della

182.a brigata. C'erano Carnera, Fulmine, Marinaio, Brio, Ricovo, Pace,

Folgore e tanti altri. Vidi una motocicletta e domandai se potevo provarla;

mi dissero di sì e mi indicarono le marce, l'acceleratore, i freni e via di

seguito; mi dovettero spingere perché la moto partiva solamente con la terza

marcia. Sembrava una gara di corsa. Così partii, ma non sapevo fare altro se

non andare diritto.

Mentre sfrecciavo veloce arrivò mio fratello, mi fece inseguire da Brio e

Marinaio con un'altra motocicletta per darmi istruzioni e andò tutto bene. Fu

così che mi innamorai delle moto, che per tanti anni furono la mia più

grande passione.

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I giorni passavano, Egle stava con i volontari della Croce Rossa, che

andavano con i camion al confine con l'Austria ad attendere il rimpatrio

degli internati. Bruno fu scaricato a Pescantina e finalmente portato a casa.

Quando arrivò, pesava trentotto chili, ma era salvo. Disse che, nei lager, i

nazisti avevano dichiarato che se volevano ritornare in Italia potevano farlo,

firmando l'arruolamento nelle forze armate repubblichine. Lui, Carlo

Casalino, Dino Fornaro e gli altri di Vercelli non firmarono, preferirono

restare là, magari morire, piuttosto che venire a combattere contro di noi.

Quella era stata una decisione veramente eroica.

Dal comando piazza avevo avuto l'incarico di cercare e scovare le

donne (se non erano ancora fuggite con i resti delle truppe fasciste) che

avevano collaborato con i nazifascisti in città. Ne conoscevo un paio, e tra

queste la Bianca Molinaro; era di una crudeltà indicibile, lavorava al Bel

Giardino (un albergo sequestrato dai fascisti, luogo di triste memoria, dove

si trovava l'UPI, Ufficio politico investigativo); per le torture utilizzava

anche i cani. Proprio la Molinaro possedeva un lupo tedesco al quale si

accompagnava quando andava ad arrestare qualche antifascista. Rividi

quella ragazza cadavere nella camera mortuaria dell'ospedale di Vercelli.

Probabilmente qualcuno l'aveva giustiziata.

Per fortuna arrivò anche il caldo, cosi potevo fare asciugare in fretta i

vestiti che indossavo e rimetterli, perché non ne avevo di ricambio. Mio

padre non aveva un lavoro, nel frattempo era stato licenziato dal suo

principale, che aveva giustificato il suo gesto sostenendo che papà si era

assentato per troppo tempo e che ormai era in età pensionabile (aveva 61

anni). Il padrone conosceva le vicende della nostra famiglia, anche lui

aveva contribuito a nascondere i prigionieri alleati, però aveva sottratto i

loro numeri di matricola per poi gloriarsene davanti alle autorità del CLN

(Comitato Liberazione Nazionale). La liquidazione che pagò a mio padre fu

una somma irrisoria, dopo ventisei anni di attività quale camionista. Papà

vendette il grammofono e tanti dischi a Gaspare Montobbio per comperare

dei viveri.

Un giorno un ragazzo arrivò a casa mia e consegnò a mia madre un

pacco con un biglietto, sul quale era scritto: "Scusami se mi permetto di

inviarti queste piccole cose, so come ti hanno ridotto la casa e non hai di che

cambiarti d'abito. Ti prego di accettare quanto ti dono, è poca cosa in

confronto a quello che ha fatto la tua famiglia. Ti abbraccio. Un'amica." Nel

pacco c'erano una gonna, una camicetta, una maglietta, un vestito, una

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giacca, due canottiere, tre paia di mutandine, due paia di calze, due camicie

da notte.

Cercai di rintracciare la donatrice, tramite la Maria Scarparo, una

collaboratrice della Resistenza. Riuscii a risalire fino alla quarta delle

persone che si erano tramandato il pacco, poi più nulla. Su un giornale

locale feci pubblicare un ringraziamento alla ignota "amica". Ancora oggi le

sono grata, non ho mai dimenticato quel gesto di solidarietà.

***

Collaborai subito con il Partito comunista della città (ero già iscritta dal

1944). Si costruiva l'organizzazione, si tenevano riunioni e comizi. Chiesi

ed ottenni di presenziare ad un comizio di partigiani nel salone delle scuole

di San Germano. Dopo quanto mi era successo, volevo, in un certo qual

modo... riabilitarmi. Quella sera l'assemblea era veramente imponente, era la

prima volta, dopo ventitré anni di dittatura fascista, che si poteva parlare

liberamente. Mi presentò Giuseppe Bellaguardia, il comandante del GAP

locale che mi aveva salvato la vita poco tempo prima.

- Vi presento la compagna partigiana Bianca Grasso - disse, - con il

nome di battaglia Bruna. Poche settimane or sono, in questo paese, è stata

scambiata per una spia, e di conseguenza maltrattata da voi tutti. Mi sento in

dovere di farle le più sentite scuse da parte vostra per l'enorme errore

commesso.

Vi fu uno scroscio di applausi. Chi mi si avvicinava e mi baciava, chi mi

invitava a casa sua. Prima di iniziare il comizio, dissi:

- Vorrei parlare con quell'uomo che mi arrestò.

Diedi i suoi connotati, ma sembrava che nessuno lo conoscesse; vidi

due uomini che erano con lui quel giorno, ma dissero che non ricordavano

chi fosse, non sarebbero stati in grado di trovarlo. Ero furiosa. Lo cercai

altre volte, ma non lo trovai mai. Ancora oggi ho stampato quel viso nella

memoria e se non fosse invecchiato sarei certa che vedendolo lo

riconoscerei.

In giugno mi sentii improvvisamente prudere tutto il corpo: avevo la

scabbia. Incredibile. In montagna non avevo mai sentito niente e mi si era

sviluppata a casa, dove mi potevo lavare senza preoccupazioni di

economizzare l'acqua come succedeva a volte in montagna.

Il medico mi prescrisse la terapia da seguire: fare il bagno tutti i giorni

con sapone allo zolfo; impomatarmi tutta con crema allo zolfo; indossare

una camicia lunga; cambiare le lenzuola tutti i giorni e farle bollire con la

camicia. Per dieci giorni seguii tutta quanta la terapia, ma senza esiti

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apprezzabili. Mi ricoverai nel reparto infettivi dell'ospedale. Era pieno di

partigiani, anche per altre malattie più importanti. Suor Teofila, che

conoscevo quale collaboratrice nelle vicende dell'otto settembre, era uno

spasso; ci canzonava per come ci si grattava. Passeggiavamo con un

camicione lungo fino ai piedi, con maniche lunghissime per coprire le mani;

puzzavamo tutti di zolfo (al buio, con un poco di fantasia e con quell'odore,

si poteva immaginare che fossimo usciti da un girone dell'inferno).

Questo supplizio durò per quindici giorni; poi, ristabilita, tornai alla mia

tanto sospirata casa.

Il partito mi chiese se volevo andare alla sua scuola, fare un corso di sei

mesi. Consultai i miei genitori, furono d`accordo e accettai. Ma le mie

condizioni di salute mi impedirono di fare questa esperienza.

In luglio il mio dolore alla schiena stava aumentando. Fiamma mi

osservò e un giorno disse:

- Bruna, stai perdendo troppo peso; fà una cosa buona, và a farti fare una

radiografia dei polmoni all'ospedale.

Ogni tanto tossivo, avevo una tosse stizzosa e a Fiamma non piaceva,

non potevo rifiutarmi. Andai all'ospedale. Il medico radiologo guardò la

lastra e diagnosticò:

- Cuore di ferro, polmoni d'acciaio.

Fiamma si rassicurò un poco, ma nei primi giorni di settembre mi disse,

molto garbatamente:

- Senti, Bruna, le radiografie che hai fatto in ospedale non mi

soddisfano, stai veramente preoccupandomi. Oltretutto devi andare alla

scuola di partito e io vorrei che tu partissi sana, "mens sana in corpore

sano". Perciò fammi un favore, và al dispensario a farti visitare dal dottor

Re. Non avrai mica dei pregiudizi contro il dispensario, vero ?

- No, no, Fiamma, è fatto apposta per aiutare, curarci e guarirci; quanto

dice la gente non ha importanza.

Poiché la maggior parte della gente, se sentiva che qualcuno andava in

dispensario, lo bollava subito come tisico e cosi veniva un po' emarginato.

Questo accadeva cinquant'anni or sono, quando la penicillina in Italia era

ancora pressoché sconosciuta.

Il mattino successivo andai al dispensario; il dottore mi visitò, mi chiese

quali sintomi avevo e poi disse:

- Non si è curata la pleurite ?

- Quale pleurite ?

- Non ha mai avuto dolori alla schiena, in basso, dalla parte sinistra ?

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- Si, che li sentivo, eccome; ma non gli davo tanta importanza.

- Aveva una pleurite secca, ed ora ha una brutta ricaduta. Lei è sola ?

- No, ho i miei genitori, una sorella e un fratello. Ma che cosa vuol dire ?

- E` venuta qui sola, oggi ?

- Si, ma perché mi dice questo ? Senta, dottore, io so che sono malata,

per questo sono qui; dove mi trovavo prima, in montagna con i partigiani,

non era possibile curare una pleurite; ci si fermava quando c'erano ferite più

gravi. Ora, se sono tbc me lo dica, se sono ancora curabile tanto meglio, ma

non si preoccupi d'altro. L'unica mia angoscia è che procuro a mia madre,

già tanto provata, un altro dolore.

- Capisco. Senta, l'abbiamo presa in tempo, però deve ricoverarsi

immediatamente in ospedale, da domani. Forse ce la farà prima che venga

intaccato il polmone.

Salutai e andai dalla Fiamma, dicendole tutto. Della scuola di partito,

neanche parlarne. Al posto mio ci andò la Luigina, che dopo la scuola

divenne una buona militante.

Il problema era di come spiegarmi con mia madre senza farla tanto

soffrire. Come potevo intavolare un discorso per non colpirla troppo ?

Quello stesso giorno venne a pranzo da noi zio Luigi, che qualche anno

prima era stato ricoverato in sanatorio per circa due anni e poi era guarito.

Perciò, durante il pranzo, per avviare il discorso, gli domandai:

- Zio, quando ti sei ammalato di pleurite, come ti sentivi? Avevi la

febbre ?

- Si, avevo sempre un po' di febbre. Mi sentivo sempre un po' stanco,

svogliato.

- Mangiavi normalmente ?

- No, proprio pochino. Perché me lo chiedi ?

- Cosi, tanto per curiosità.

Non sapevo andare avanti nel discorso. A questo punto mia sorella

intervenne, chiedendomi la ragione di tutte quelle domande.

- Senti, Bianca, un motivo valido devi averlo, per fare tante indagini

sullo zio. Altrimenti non entreresti in argomenti così personali.

- E va bene - risposi.- Ecco di che cosa si tratta. Mamma, tu e papà

eravate d'accordo che io andassi a scuola di partito e sarei stata lontano da

casa per sei mesi. Invece, ora non vado più tanto lontano, starò a Vercelli e

voi potrete venire a trovarmi tutti i giorni. Devo ricoverarmi in ospedale da

domani, per una ricaduta della pleurite avuta in montagna. Ecco, questo è il

motivo, non sapevo come dirvelo.

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CAPITOLO SETTIMO

Nostalgia della montagna

Venni ricoverata in ospedale nella corsia di medicina. L'ospedale era

vecchio, ma proprio vecchio (del 1200), aveva le corsie disposte a crociera,

da un lato la medicina, dall'altro la chirurgia, da un altro l'otorino e infine

l'urologia e la cardiologia. I letti erano uno vicino all'altro, ci si poteva

vedere da ogni angolo, niente riservatezza, niente intimità, neanche la più

elementare; si era praticamente esposti alla curiosità di tutti, dai malati ai

visitatori.

Al centro della crociera, nel reparto uomini, ben piantato, c'era pure

l'altare. Tutti i giorni, al mattino e alla sera, si recitava il rosario; alla

domenica, la messa.

L'altezza dell'interno era enorme; in alto scorreva tutt'intorno un

ballatoio a ringhiera. Le finestre erano così in alto che nessuno andava mai a

pulirle o a spolverarle, tanto è vero che le ragnatele cadevano giù. La pulizia

dei letti, peraltro, era impeccabile, ma l'igiene generale molto discutibile;

l'assistenza era valida, i dottori pure, però le suore imperavano.

Il primario e il suo aiuto erano nostri collaboratori; con molti altri

medici, avevano rifornito di medicinali le nostre piccole infermerie in

montagna.

Mi sistemarono in un letto vicino alla saletta delle visite. Era un posto

strategico, potevo vedere in tutte le corsie. Almeno quel posto mi piaceva.

Stetti ricoverata per tre mesi; il primo mese dovevo persino mangiare

stando coricata, senza mai sedermi; dal quindicesimo giorno potevo alzarmi

solamente per andare in bagno. Ero veramente messa male.

Ogni giorno, anche fuori orario, venivano tante persone a farmi visita;

ero ben coccolata, mi portavano zucchero, caramelle, creme, biscotti,

giornali, libri. Le infermiere erano meravigliose, mi conoscevano per la loro

collaborazione nell'attività clandestina ed erano a conoscenza di tutto quanto

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avevano fatto i fascisti alla mia abitazione e alla mia famiglia. In breve, mi

subissarono di premure (anche perché stavo male). Ricordo Primina,

Rosanna, Francesca, Maria, Edmea, quante altre? E poi suor Teresita, suor

Guglielmina, piccola, anziana, magra, sembrava una bambolina di biscuit. I

medici erano molto premurosi, mi facevano tante di quelle iniezioni che

sembravo un colapasta.

Un giorno accadde un brutto episodio. Avevo sul comodino un libricino

tascabile tratto da un periodico femminile, che descriveva la storia di due

giovani; sulla copertina c'era la figura dei due innamorati, con le guance

appoggiate l'una all'altra; il titolo era "Un grande amore". Passò una suora e

mi disse:

- E' il vostro ?

Ci davamo del voi come in tempo di fascismo.

- No, me lo hanno prestato.

- L'avete già letto ?

- No, ma se vi interessa lo potete prendere, io lo leggerò dopo.

Apriti cielo ! Sembrava una furia; avevo interpretato le sue domande

come una sottintesa richiesta, invece lei mi voleva sottrarre il libro e basta.

- Come osate farmi una simile proposta ? Questo libro è scandaloso; lo

prendo e non lo vedrete più.

- Eh, no ! Non potete farlo; primo, perché il libro non è vostro e sarebbe

appropriazione indebita; secondo, non è un libro indecente come dite voi,

poiché è in vendita liberamente. Guardate che lo devo restituire.

- E' finito il tempo in cui potevate fare tutte le sconcezze che volevate,

comprese le uccisioni.

Non ci vidi più. Replicai:

- Sentite, suora, avete tempo per restituirmelo fino a domani sera alle

sette, quando lascerete il servizio, dopo di che verrò a prendermelo.

Ero fuori di me, indignata. Le degenti nei letti vicino al mio avevano

sentito tutto, anch'esse sorprese e amareggiate. Mi calmarono dicendomi che

scherzava, che mi avrebbe senz'altro restituito il libretto.

Il giorno dopo feci rapporto, denunciando quel fatto al direttore

dell'ospedale. Alla sera, la suora passò davanti al mio letto per andarsene,

avendo finito il turno. Le chiesi il libro e lei mi rispose:

- Ve l'ho detto ieri, non rivedrete più quel libello.

- Adesso basta! - Non ero in grado di alzarmi, però vicino a me sostava

il carrello dei piatti puliti; ne presi uno e glie lo lanciai, colpendola alla

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schiena; il piatto cadde e si infranse; la suora se ne andò. L'infermiera di

servizio, la Primina, vide e sentì tutto.

Il mattino dopo venne a farmi visita il direttore, un nostro compagno,

con il libro che la suora mi aveva sottratto.

- Ecco - disse,- il libro è qui; però tu non dovevi tirarle il piatto, non è

bello ciò che hai fatto; il piatto rotto lo devi pagare, è proprietà

dell'ospedale.

- Va bene, io pago il piatto, ma se voi tollerate soprusi del genere da

parte di chi ha sempre abusato del suo potere, che vuole limitarci e

controllare le nostre scelte, allora di libertà ne abbiamo conquistata

veramente ben poca.

Da quel giorno diventai la beniamina della suora. Mi portava tante

leccornie, quelle che davano ai malati paganti: creme, zabaglioni, cervella

fritte, budini, a qualsiasi ora del giorno. Questo peraltro faceva parte della

terapia, mangiare sovente, molto e bene.

Stetti ricoverata dai primi di ottobre fino alla vigilia di Natale. Quando

mi dimisero mi raccomandarono di fare una convalescenza di due mesi a

mezza montagna, per respirare aria pura. Per un anno non dovevo andare in

bicicletta, non sudare, non fare bagni in acqua fredda, non lavorare a maglia

con i ferri; era un supplizio.

Dopo Natale andai a Pianceri Alto, in Valsessera, ospite dei miei cugini.

Anche il loro figlio Franco era stato partigiano, con Gemisto. La solidarietà

e l'affetto di quella famiglia mi furono di grande aiuto.

Quante passeggiate in mezzo alla neve ! Mio cugino Franco mi

accompagnò ad Ailoche per farmi vedere una miniera di ferro. La strada era

brutta e il ritorno lo feci in sella a un mulo della miniera,

Ritornai a casa a fine febbraio e mi sottoposi al controllo del dispensario

ogni tre mesi, per un anno. Tutto procedette bene, ero guarita.

***

Ripresi la mia vita normalmente. Lavoravo presso l'UDI (Unione donne

italiane), ma lo stipendio era poco ed io dovevo pensare ai miei genitori.

Remo aveva fatto l'autista per il partito per un po' di tempo, poi riprese il

suo lavoro da carpentiere: anch'egli doveva pensare alla sua famiglia. Il suo

aiuto ai genitori non poteva che essere modesto.

Venne bandito un concorso per ex partigiani all'INPS di Vercelli.

Presentai subito la domanda alla direzione, che aveva sede in via Cagna.

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Vercelli, la manifestazione del 25 aprile 1946. Io apro il corteo.

(Fotocronisti Baita, g.c. dal partigiano Giovannimario Vaccino (Olmo), medaglia di bronzo

al V.M.)

Mi ricevette il direttore, il quale, dopo aver letto i documenti, mi disse:

- Una legge vi permette di presentare la domanda di assunzione, ma se

credete di poter entrare qui dentro vi sbagliate. Finché ci sarò io nessuna

persona che abbia fatto parte di quella banda di assassini avrà accesso in

questo istituto.

Rimasi esterrefatta. Mi feci ripetere le ultime parole, credevo di aver

capito male, ma quando risentii per la seconda volta quel discorso inaudito,

risposi:

- Io non entrerò qui dentro, come voi dite, ma dovrete lavarvi la bocca e

il vestito.

Presi il sottomano, sul quale stava appoggiato anche il calamaio

(cinquant'anni fa non esistevano ancora le biro) e glie lo rovesciai tutto

addosso, sporcandogli il vestito e, sperai, anche i pantaloni.

Salutai e me ne andai. Sulla porta dell'ufficio due impiegati si ritrassero;

evidentemente non volevano che il direttore li citasse come testimoni.

Anche questo era un segno di solidarietà.

Non avrei avuto l'impiego, anche se mi spettava per legge, ma non avevo

saputo tollerare gli insulti alle forze partigiane. Quei morti lasciati lassù non

me lo avrebbero perdonato.

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***

La mia militanza nel partito fu sempre attiva; avevo un po' il pallino

dell'organizzazione e tenevo frequenti contatti con la base. La sera si partiva

con la macchina della federazione in quattro o cinque, e per ognuno di noi

c'era un paese dove tenere riunioni o assemblee.

Fu indetto il referendum del 2 giugno 1946, per la scelta tra monarchia e

repubblica, e partecipai con passione alla campagna di propaganda. A volte

si veniva anche alle mani, perché gli attacchini dei nostri avversari politici

coprivano i nostri manifesti con i loro; noi ne avevamo pochi e non

potevamo permettere che ci distruggessero il nostro già misero materiale. Il

giorno dell'apertura dei seggi fu una vera lotta. Presidiavamo i locali per

timore di sabotaggi da parte dei facinorosi giovani monarchici o fascisti. Io

mi trovai "di guardia" per tutta la notte del sabato, con altri compagni, al

seggio che eravamo incaricati di presidiare, nei vecchi locali del posto di

ristoro mondariso in piazza del Duomo.

Avevo un diavolo per capello; ero stata partigiana, avevo contribuito a

realizzare quanto si stava per compiere in quei seggi; quel giorno si poteva

decidere la sorte degli italiani; ma non mi era concesso il diritto di esprimere

la mia volontà, perché ero giovane. Per poter votare bisognava aver

compiuto ventun anni, questa era la legge, e io ne avevo soltanto venti.

Le elezioni andarono bene, vinse la Repubblica e fu nominata

l'Assemblea costituente, con presidente il comunista Umberto Terracini, che

era stato incarcerato dai fascisti nel 1928 e liberato nel 1943. Il primo

gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana.

***

Nel mese di luglio del '46 entrai come operaia nella Manifattura Rondo,

un complesso di trecento persone circa. Ero addetta al rammendo di

pesantissime pezze di cotone felpato. Venni eletta segretaria delle tre cellule

del partito. La collaborazione e l'affiatamento con le compagne di lavoro e

anche con la commissione interna erano eccellenti. Il direttore, ingegner

Mazzinari, era un'ottima persona, comprensiva, tollerante, amica.

Volli recuperare gli anni perduti, un po' per il fascismo e poi per la

guerra partigiana. Alla sera, dopo il lavoro, presi a frequentare una scuola

privata con una buona insegnante, la professoressa Fassetta Seeman. Per

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pagarmi la scuola senza pesare sul bilancio familiare, lavoravo dalle sette

del mattino alle diciannove di sera, con un intervallo di mezz'ora per il

pranzo alla mensa della fabbrica. Alla sera, per cena, mangiavo budini o

dolci, per fare in fretta. Andavo a scuola dalle otto e mezza alle undici,

tornavo a casa e studiavo fino alle due di notte. Per stare sveglia prendevo la

simpamina. Dormivo fino alle sei e mezza, poi via in bicicletta, in fabbrica.

Un giorno, dalla professoressa, incontrai il direttore della fabbrica, anche

lui doveva studiare francese e nell'ora di lingue ci trovavamo assieme. Da

quella sera seppe il motivo per cui avevo chiesto di fare il lavoro

straordinario (la mano d'opera scarseggiava): per pagarmi la scuola. Fu

molto comprensivo, mi diede un lavoro meno massacrante, quasi da

impiegata.

Dopo nove mesi di studio (mi stavo preparando per le prime tre classi

magistrali), nel mese di maggio 1947, svenni per ben cinque volte in un

giorno, ero sfinita. Non volevo ammettere di stare male, avevo lavorato

troppo, non potevo lasciare tutto proprio alla fine, ma dovetti arrendermi.

Ero diminuita di peso di ben tredici chili in dieci mesi. In sostanza, soffrivo

di esaurimento nervoso e deperimento organico.

Passai due mesi e mezzo a Bologna, nel convalescenziario per ex

partigiani di Villa Altura. Ero proprio depressa, non dormivo mai, chiudevo

gli occhi solamente quando svenivo. Le compagnie erano ottime, ma io mi

estraniavo completamente. Un giorno arrivò un professore per visitare una

degente paralizzata, che aveva una scheggia nel midollo spinale, dovuta allo

scoppio di una bomba lanciatale dai fascisti quando era con i partigiani in

Romagna.

Il professore, che si chiamava Scaglietti, era un luminare dell'ortopedia.

Mi vide, mi fece fare una radiografia alla spalla (per via del mio braccio

anchilosato) e disse:

- Senti, figliola, per ora posso solamente allungarti il braccio, se vuoi,

ma per la spalla non ci sono tecniche in grado di aiutarti. Sono sicuro che un

giorno si perfezioneranno e guarirai.

Gli risposi un po' sgarbatamente:

- Se non può fare niente per la spalla, il braccio sta com'è. Così, più

corto, mi fa risparmiare la stoffa per la manica.

Chissà perché, quell'omone alto e grosso accolse la mia logica così

indiscutibile con una fragorosa risata.

Dopo più di un mese cominciai ad affiatarmi con l'ambiente, i degenti, i

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Con i miei familiari nel 1965.

medici, le inservienti e il direttore, tutti partigiani. Non c'erano suore.

Cominciai a pensare, mangiare, imparare a giocare a ping-pong (divenni

anche brava, pur giocando da mancina).

Ritornai a casa alla fine di agosto.

Ripresi il lavoro alla Rondo, ma non andai più a scuola; non rammentai

più nulla di quanto avevo imparato studiando con passione e sacrificio. Fu

la rinuncia al mio obbiettivo agognato. Avevo chiesto troppo a me stessa,

mi ero fidata troppo delle mie risorse naturali.

***

Finalmente, alle votazioni del 18 aprile 1948 partecipai anch'io, per la

prima volta. Ero emozionata, felice. Purtroppo, l'esito di quelle votazioni

truffaldine mi fece subire una grande delusione. Il Partito comunista e i suoi

alleati del Fronte democratico popolare subirono una cocente sconfitta. Il

progresso del popolo italiano subì un arresto da non potersi dimenticare.

Pochi mesi dopo, il 14 luglio, ci fu l'attentato a Togliatti. La protesta si

tradusse in una grande mobilitazione popolare, in cui mi sentii coinvolta

come se fossi ancora con i partigiani in montagna. Impiegai in quella lotta

tutte le mie energie e tanta rabbia. Ma tutto finì nel nulla, mentre ancora

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oggi penso che l'azione rivoluzionaria in quel momento avrebbe potuto

cambiare radicalmente e permanentemente la situazione.

***

Venne agosto, il mese delle ferie. La montagna era rimasta la mia

passione e chiesi ai miei genitori se non avevano niente in contrario a che

mi recassi da sola a ripercorrere i sentieri sui monti che conoscevo, a

rivedere le cascine che avevo abitato e la gente che mi voleva bene.

Conoscendo le mie stranezze, non mi negarono il loro consenso, pur

colmandomi di raccomandazioni. Mi equipaggiai con calzoncini corti,

scarponi, zaino, e via !

Con la "littorina" raggiunsi Biella e con il trenino andai a Mongrando.

Come prima tappa feci visita a Barbìs, partigiano, comandante di un

distaccamento della 182.a brigata. Salutai e ripartii subito a piedi arrivando

a Graglia, dove dormii da Giovanna e Gaia, dopo aver trascorso la serata

raccontandoci le nostre vicende dei tre ultimi anni.

Al mattino salii al Santuario, alla "Bausla" e al monte San Carlo.

C'erano pure i lamponi e ne feci una scorpacciata.

Il giorno dopo, scesa a Bornasco, passai a visitare il mulino dove era

stato scoperto e trucidato dai nazifascisti il povero Trimoncino. Mi recai a

Sala da Amata, diventata poi la moglie del comandante partigiano Enzo

Pezzati (Ferrero), anche lei non proprio in ottima salute. Non so descrivere

il suo stupore e la sua gioia; andò a chiamare anche le altre compagne e

amiche e si fece una piccola festa, naturalmente ricordando sempre il

passato partigiano.

Quindi raggiunsi la Speranza, la proprietaria della cascinetta in pieno

paese di Sala, dove pernottavamo quando il distaccamento era in "ferma".

La donna mi offrì latte, panna e biscotti fatti in casa, e mi ricordò quel

giorno, quando ero arrivata con il distaccamento alla cascinetta e le avevo

mangiato tutti i pomodori.

Dormii dalla Speranza, sempre squisitamente ospitale; andai anche da

Daria e Italo nel loro bar. Ripartii al mattino e andai da Alba, la figlia di

Quinto, quel papà che mi aveva accompagnato con l'ombrello quando

eravamo andati in avanguardia alla Zona. Si parlò, si rivangarono quei pochi

anni passati, si rivissero le stesse scene, quelle belle, quelle tristi e quelle

disperate.

Ritornai alla cascina tra Graglia e Bornasco. Da Giovanna c'erano altri

pastori; era bello vedere le loro facce sane, bruciate dal sole; sono burberi,

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ma con un cuore immenso.

- Ciao, sei arrivata ? Come va ? Vuoi del latte ? Senti, ormai è tardi, ti

fermi a dormire ? Vai con Giovanna e Gaia.

Dissi che volevo dormire nella stalla ma loro rifiutarono decisamente.

Prima di ritirarci chiacchierammo di tante cose; poi mi trattenni un po'

fuori all'aperto. C'era una lieve brezza. Contemplavo quelle montagne che si

stagliavano contro il cielo arancione del tramonto e mi tornavano in mente i

visi tesi, preoccupati o lieti, a volte sognanti, di quei ragazzi partigiani,

volontari della libertà.

Dopo la colazione con latte, panna e pane di meliga abbrustolito, con

una scorta di salame di "bec" (maschio di pecora) che mi vollero dare a tutti

i costi, scesi a Sala. Dissero che ben pochi erano tornati a trovarle; erano

felici di rivedermi e che mi fossi ricordata di loro, speravano che mi

fermassi un poco. Avevo il mio programma, ma promisi che sarei tornata

un'altra volta.

Sempre con il mio zaino in spalla (era un poco pesantuccio, ma la forza

dei miei giovani anni rendeva lieve la fatica), scesi verso Zubiena per vedere

la villetta che avevamo trasformata in ospedaletto. Ma c'erano i proprietari e

il cancello era chiuso. Mi limitai a guardare il giardino, dove nascondevamo

tutta l'attrezzatura e i medicinali quando scattava l'allarme per i probabili

rastrellamenti e incursioni nazifasciste.

Arrivata a un bivio dalle parti di Vermogno, non ricordavo bene se

andare a destra o a sinistra, chiesi informazioni ad un vecchio contadino:

- Per favore, quale sentiero devo prendere per andare alla Zona?

- Và, và, marunha, che tla sè mei ad mi (và, và, ragazza, che lo sai

meglio di me).

Così mi salutò e se ne andò, senza dirmi altro. Lo rincorsi, mi disse che

il sentiero l'avevo percorso troppe volte e non potevo averlo dimenticato.

Aveva capito che ero stata partigiana, ma non voleva capire che non mi

ricordavo quel percorso, perché di lì ero passata una sola volta, con Pina,

quando ero andata a prenderla alla stazione di Vergnasco, ed era quasi buio.

Mi orizzontai con il sole e presi il sentiero a destra, quello giusto.

Arrivata a San Sudario, piccolo agglomerato di casette, andai da Maria e

Remo, suo marito, che mi riservarono una accoglienza meravigliosa, come

soltanto loro sanno fare. Mi fermai per qualche giorno. Aiutavo Maria

nell'orto, accudivo alle galline, andavo al negozietto di alimentari e

tabaccheria a fare la spesa; girai un poco da tutte le parti che conoscevo.

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A un certo punto mi trovai al mulino, dove era di stanza il distaccamento

di Caruso (Aldo Bosetti). Con mia grande sorpresa lo trovai lì con la

famiglia. Ci scambiammo saluti, abbracci, e via. Altri posti. Alla Zona,

andai a rivedere la cisterna dell'acqua piovana dietro la cascina (mi era

rimasto impresso quanto era stata utile in tempo di siccità).

Osservai il buco nella parete di mattoni e pietre della cucina, dove i

partigiani nascondevano le macchinette per farsi la barba, perché le lamette

scarseggiavano e chi riusciva a prenderne una nuova per primo se la

nascondeva.

Quelle ferie durarono diciotto giorni. Per tre anni consecutivi le trascorsi

in quel modo meraviglioso. Quanti bei ricordi, ripercorrendo quelle

mulattiere e sentieri, rivedendo le note cascine !

***

In occasione del Carnevale 1950, durante una gita in moto con Nino

Zavattaro, nostro amico di famiglia, rimasi vittima di un grave incidente,

riportando una commozione cerebrale i cui postumi perdurarono per lungo

tempo. La mia amica Ines, saputo quanto mi era accaduto, mi invitò a

passare la convalescenza da lei ad Aosta. Il suo fidanzato ci portò al casinò

di San Vincent; rimasi sbalordita vedendo quanta gente sprecava i soldi.

Con la mia amica Ines Pavia.

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Ci condusse in alta montagna, nei cantieri della sua segheria. Un giorno

ci portò all'Ospizio del Gran San Bernardo. I famosi cani da neve

impressionavano, tanto erano grossi, ma il loro sguardo dolce e mite

stimolava il desiderio di accarezzarli.

Quella convalescenza mi offrì l'opportunità di tornare sulle montagne

che tanto amavo, perché in montagna ho vissuto la parte più importante

della mia esistenza, temprato la mia personalità, esaltando in me la forza

della solidarietà, indispensabile per il rispetto del prossimo.

***

A questo punto concludo il mio racconto, non perché non abbia più

niente da dire, ma perché ce ne sarebbe ancora troppo. Desideravo far

conoscere la vita di una antifascista, di una partigiana combattente, di una

comunista. Come ho scritto nell'apertura, le ansie, le gioie, le disperazioni

sono tutte qui dentro. Sono fiera di essere come sono ed orgogliosa di essere

una donna vercellese che qualcosa ha dato per la libertà.

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Otto marzo 1993 e 1994.

Gli incontri delle donne

Della Resistenza di Vercelli

Nel Cinquantesimo anniversario della Liberazione.

(Foto Renato Greppi)

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